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Il giornale è attività degli studenti Luiss, periodico gratuito, finanziato dalla Luiss Guido Carli; a distribuzione interna - Numero XXXVI, Anno VII

Aria di novità!


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Sommario - Aprile 2009

SOMMARIO

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EDITORIALE

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COSMOLUISS

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SPEAKER’S CORNER

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FUORI DAL MONDO

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INTERNATIONAL

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COGITANDA

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TEATRO

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ARTIFICIO

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OTTAVA NOTA

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UNISEX

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LIFESTYLE

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CALCIO D’ANGOLO

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Fondato nel 2002 Fondatori: Fabrizio Sammarco, Luigi Mazza, Leo Cisotta Direttore: Matteo Tebaldini Direttore Editoriale: Daniele Dalessandro Responsabile Organizzativo: Gianmaria Volpicelli Responsabili di Rubrica: CosmoLUISS Scienze Politiche: Chiara Orsini, Giulia Mammana Economia: Andrea Zapponini, Timoteo Carpita Giurisprudenza: Bruno Tripodi Speaker’s Corner: Valeria Pelosi, Francesca Giuliani Fuori dal Mondo: Flavia Romiti, Clara Della Valle International: Andrea Ambrosino, Mariastella Ruvolo Artificio: Mariafrancesca Tarantino, Tiziana Ventrella Ottava Nota: Federica Ricca, Chiara Iov7ino Cogitanda: Giulia Gianni, Elisabetta Rapisarda, Giovanni Aversano Teatro: Chiara Cancellario, Chiara Gasparrini Lifestyle: Chiara Sfregola, Cassandra Menga Unisex: Michela Petti, Alessandra Rey Calcio d’Angolo: Matteo Viola, Luigi Calisi Responsabili via Parenzo: Giulia Gianni, Renato Ibrido Delegato Fondi: Valeria Pelosi Responsabile 360° E20: Cristiano Sammarco Stampa: SGE - Servizi Grafici Editoriali Grafica: Enrico A. Dicorato numero chiuso in redazione 18 Marzo 2009 Costi Carta: 250 euro Realizzazione grafica: 350 euro Lastre e allestimento: 450 euro Macchinari e battute: 450 euro Spedizione: 100 euro


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Aria di novità! che avrà l’arduo compito di sostituirlo, nella speranza che, ereditandone lo spirito ed aggiungendo ad esso le qualità che gli sono proprie, possa proseguirne il cammino mantenendo in alto il nome della nostra Facoltà. La seconda novità invece riguarda un tema molto caro alla nostra redazione ed alla maggior parte degli studenti. La questione Co.Di.Su di cui tante volte abbiamo parlato. Come auspicammo in tempi non sospetti è stato modificato il regolamento di attribuzione dei finanziamenti alle attività degli studenti. Una descrizione dettagliata delle modifiche potete trovarla sulle nostre pagine. Quello che ci sentiamo in obbligo di dire, dopo averne discusso per lungo tempo su queste pagine, è che siamo sinceramente grati a tutti i membri della commissione, ed in particolar modo alla Professoressa Borgia e al Rappresentate degli studenti al CDA Antonio De Napoli, per aver quantomeno ascoltato le nostre istanze. Ovviamente si tratta di una modifica regolamentare che può significare molto, ma deve essere applicata nella giusta maniera, ovvero giudicando ogni attività oggettivamente, limitando la discrezionalità dei rappresentanti degli studenti seduti in commissione. Il fatto che venga valutata anche la storia dei progetti crediamo sia di fondamentale importanza al fine di esprimere un giudizio che premi l’efficienza ed il servizio offerto durante gli anni alla comunità studentesca. Quello che noi abbiamo sempre chiesto, e che è stato finalmente accolto come metro di valutazione, è che vengano finanziati solo i progetti che abbiano avuto un “avviamento” concreto. L’esempio è quello dei giornali universitari che hanno iniziato la loro pubblicazione autofinanziati, prescindendo dai contributi della Co.Di.Su. La terza novità riguarda invece la sede di via Parenzo. Non è un cambiamento così radicale come quello che ha investito Scienze Politiche, ma è comunque un ulteriore passo in avanti di quel progetto iniziato due anni fa dalla Presidenza e che continua ad offrire nuove opportunità agli studenti. A partire da quest’anno verranno attivati integralmente i dieci profili di specializzazione presentati nel 2008. Dopo il terzo anno di corso, gli studenti di Giurisprudenza potranno scegliere di approfondire le materie dell’ambito giuridico a cui sono maggiormente interessati. Inoltre viene data la possibilità, per chi sceglie i profili di Istituzioni Politiche e Amministrative o di Diritto ed Economia delle Imprese e del’Innovazione, di intraprendere un percorso di studi verso una laurea magistrale interfacoltà in Economia o Scienze Politiche. Di tutto questo, e molto altro ancora, si parla nelle nostre trentadue pagine. Daniele Dalessandro dandal@hotmail.it Matteo Tebaldini matteo.teb@gmail.com

Editoriale - Aprile 2009

La primavera ricomincia. In LUISS, non ci stancheremo mai di dirlo, è la stagione più bella e, dopo un anno nella nuova sede di viale Romania, ci siamo anche abituati a questi nuovi spazi. L’anno passato, di questi tempi, lamentavamo lo scarso feeling con la nuova sede, che definimmo fredda e meno accogliente di quella vecchia. Ora, rammentare i fasti delle mitica sede di Viale Pola è difficile, ma possiamo con gioia ammettere di aver fatto un errore di valutazione. Come la casa nuova che non riesci a sentir tua, così la sede “pariolina” ha avuto qualche difficoltà ad entrare nei nostri cuori. Ma giudicandola frettolosamente non abbiamo considerato il fatto che quattromila studenti impiegano sicuramente più tempo ad adattarsi, alle nuove condizioni ambientali, di quattro ragazzi in un appartamento. Ed è così che ci ritroviamo a parlare di quanto è bello ricominciare a vivere gli spazi aperti della nostra Università. Dopo il rigido inverno trascorso nelle aule, nei corridoi e sotto le piccole tettoie per fumatori. Spazi troppi piccoli per ospitarci tutti e sempre troppo caotici per intrattenersi più di pochi minuti. Ma come ogni primavera luissina, anche questa porta con sé numerose novità per gli studenti. Innanzitutto dobbiamo parlare di due amici del nostro giornale. Antonio De Napoli, rappresentante degli studenti nel Consiglio di Amministrazione ed ex direttore di 360gradi, in data 24 marzo, si è laureato cum laude nel corso di laurea specialistica in Relazioni Internazionali. A lui vanno un grande abbraccio ed i nostri migliori auguri per il roseo futuro che lo aspetta. Mentre un altro amico, Matteo Smacchi, studente della Facoltà di Giurisprudenza, ha ereditato la sua carica nel CdA della LUISS. Un posto che merita in virtù del risultato conseguito nelle scorse elezioni, e che corona il lungo percorso all’interno del mondo dell’associazionismo studentesco che ha caratterizzato questi suoi anni di Università. Inoltre le lezioni sono iniziate con un “cambio di gestione”. Dopo il grigiore del primo anno, che ha visto la gestione Autogrill di un bar sempre vuoto, il mese di marzo ha visto fiorire e popolarsi il “borghetto”, ora degno erede delle mitica “terrazza” di viale Pola. La nuove gestione dell’azienda di catering “Naumachie” ha dato vita ad uno spazio finora mai pienamente apprezzato. Oltre a tramezzini e panini, passando a cose ben più serie, in questo numero presentiamo in anteprima tre grandi novità per la nostra Università. La prima, e di maggior evidenza, riguarda la nomina del nuovo Preside della Facoltà di Scienze Politiche, del quale abbiamo una lunga intervista nelle pagine seguenti. Il Professor Sebastiano Maffettone è stato chiamato a ricoprire il ruolo del compianto Preside Massimo Baldini. Per l’ennesima volta vogliamo rivolgere una ringraziamento ad una persona che si è dedicata intensamente alla nostra Facoltà e di cui non dimenticheremo mai l’opera come Preside e la grandezza come uomo. La grande commozione degli studenti crediamo sia stata una degna dimostrazione di quanto abbia fatto per tutti noi. Non ci resta che fare i nostri più sinceri auguri al Preside Maffettone

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Una battaglia vinta? La Commissione per il Diritto allo Studio della LUISS Guido Carli ha deliberato, in data 18 marzo 2009, alcune modifiche al regolamento per la gestione delle iniziative e delle attività culturali e sociali, previsto dalla legge N. 429/85, relativo all’anno accademico 2009/10. È necessario premettere che queste modifiche non sono ancora definitive, ma devono passare al vaglio del Comitato Esecutivo durante le prossime settimane e se ne possiamo parlare è grazie alla collaborazione del rappresentante degli studenti Antonio De Napoli. Il nuovo regolamento si distingue dal precedente per i requisiti previsti affinché le richieste di finanziamento dei progetti vengano accettate e per i nuovi criteri che verranno adottati nella valutazione degli stessi. Entriamo del dettaglio evidenziando l’articolo 2 del regolamento, relativo alle condizioni che ogni richiesta di fondi dovrà rispettare. Permane la necessità di allegare al progetto la firma di almeno un rappresentante degli studenti, sia esso nei Consigli di Facoltà, nel Cda o nel Comitato allo Sport, ma, al fine di valorizzare i progetti maggiormente rappresentativi della comunità studentesca, è stato raddoppiato il numero delle firme degli studenti che devono essere corredate alla domanda, che è così passato dalle cinquanta dell’anno passato alle cento attuali. La modifica non è sicuramente sostanziale: non sarà di certo impossibile trovare cento studenti che vogliano sostenere un valido progetto, ma è di fondamentale importanza dal momento che sottolinea l’attenzione della commissione al fatto che le attività, se vogliono usufruire di fondi pubblici, abbiano il dovere di garantire la partecipazione di un ampio numero di persone e non debbano essere una realizzazione di nicchia. Questo punto è inoltre ribadito nell’articolo 4 lettera d. Ma è nell’articolo 5 che si trovano le maggiori novità. Il primo comma del suddetto articolo sottolinea che la delibera relativa alle richieste presentate entro l’11 giugno 2009 sia effettuata entro il 31 luglio dello stesso anno. Per quanto possa sembrare ininfluente, questa disposizione eviterà in futuro il ripetersi della spiacevole situazione occorsa nell’anno accademico 2007/08, quando, a causa del mancato accordo dei tre rappresentanti relativo alle attività da finanziare, l’assegnazione definitiva dei fondi avvenne nel mese di dicembre 2008, con il conseguente blocco delle attività durante i primi tre mesi dell’anno accademico. Il secondo comma mantiene invece la proporzionalità della distribuzione dei fondi in base alle somme occorrenti per lo svolgimento delle attività, ma stabilisce che non potrà essere assegnato più del 50% del budget a disposizione ai giornali studenteschi. Non ci resta che sperare che il totale dei fondi disponibili sia molto alto. Il terzo comma rimane invariato, mentre è stato completamente rivisto il quarto comma, relativo ai criteri di valutazione in base ai quali verranno assegnati i fondi.

Negli anni passati i criteri per la valutazione delle attività erano il numero di firme sostenenti le proposte e la “promozione delle stesse da parte dei rappresentanti degli studenti negli organi istituzionali di questa Università congiuntamente con le associazioni studentesche ed i gruppi di studenti di cui all’art.2”(Art. 5, comma ,4 lettera b). È inutile sprecare commenti su questa parte del regolamento, ormai abrogata, dal momento che negli anni passati il nostro giornale si è più volte schierato contro questo sistema. È invece doveroso sottolineare come i nuovi criteri siano, almeno all’apparenza, decisamente improntati sulla meritocrazia. La commissione, infatti, dovrà predisporre una griglia di valutazione a punteggio seguendo i seguenti criteri: 50 punti da assegnare sulla base dei contenuti del progetto, della partecipazione degli studenti, della costanza nella realizzazione e dei preventivi presentati; 25 punti saranno invece assegnati valutando la storia e la rappresentatività nell’ateneo; 25 punti in riferimento alle eventuali iniziative collaterali al progetto svolte negli anni precedenti. Questa nuova parte del regolamento mette sicuramente a tacere le critiche mosse negli anni precedenti. Noi di 360° per primi ci siamo schierati contro un sistema che non teneva conto dei percorsi storici dei vari progetti. Per il momento possiamo dirci soddisfatti di quelle che sono le modifiche appena apportate, nella speranza che queste vengano applicate in modo opportuno, evitando l’eccessiva preminenza delle simpatie degli studenti nella valutazione della Commissione e rendendo il giudizio il più oggettivo possibile. Concludiamo riproponendo una parte dell’editoriale del numero di 360° di marzo 2008: allora auspicavamo che “la meritocrazia diventasse il criterio principale di selezione”, oggi invece siamo fiduciosi e speriamo che questo nuovo regolamento sia il primo passo per cambiare la prassi poco meritocratica che si era affermata e per garantire trasparenza ed oggettività. Daniele Dalessandro dandal@hotmail.it Matteo Tebaldini matteo.teb@gmail.com

La riforma dell’Ordine dei Giornalisti Da anni l’Ordine dei giornalisti italiani, nato nel 1963 e unico nel suo genere, viene accusato di non svolgere in modo ottimale il suo compito di custode dell’informazione e di essere una casta chiusa ai giovani volenterosi di esprimere il proprio pensiero. Le lungaggini burocratiche, i vari esami e tesserini, si concretizzano in una corsa ad ostacoli costosa ed impenetrabile. Per ovviare a tutto ciò l’Ordine nella figura dell’attuale presidente Lorenzo Del Boca, ha deciso di fare un passo in avanti tentando di modernizzare un sistema vecchi quasi mezzo secolo. Proprio da questa volontà è stata resa nota, lo scorso 17 ottobre, una proposta di riforma decisamente innovativa. La novità più significativa della riforma è l’accesso universitario, con conseguente relativo percorso, all’esame di Stato. Ad oggi per accedervi è necessario possedere sola la terza media. La novità sarà l’obbligatorietà di un percorso formativo pensato coerentemente con l’attuale sistema universitario del “tre più due”. I primi tre anni scelti dallo studente, economia, giurisprudenza, let-

tere… e gli ultimi due anni di specializzazione durante i quali verranno forniti gli strumenti adeguati alla trasmissione delle informazioni acquisite precedentemente. Le scuole di giornalismo saranno adeguate al nuovo sistema, con l’abbassamento dei costi. “Un giornalismo con più cultura, è un giornalista più preparato, professionale, che dovrebbe rispettare di più le regole dell’informazione.” Ha affermato il presidente Del Boca. Altro punto focale della proposta di riforma è la volontà di istituire una Commissione deontologica in grado di giudicare tempestivamente l’operato degli addetti ai lavori. “Ad oggi infatti, se un giornalista viene accusato di non rispettare il Codice Deontologico, possono passare anche cinque anni prima che venga giudicato” ha ammesso Del Boca. Sembra ovvio che le ingiustizie in un caso del genere siano due. Se il giornalista viene giudicato colpevole, esso avrà comunque continuato a scrivere durante tutto il periodo di attesa; la sentenza dovesse al contrario essere innocentista, l’accusato avrebbe ormai la sua professionalità macchiata. L’idea è quindi di instaurare una Commissione che sanzioni a “misura d’uomo”, in tempi brevi e che assicuri quindi al lettore una chiarezza nei contenuti. Per stessa ammissione del Presidente dell’Ordine, lo scopo non è quello di creare un sistema autoritario e

intimidatorio, ma di evitare che i giornalisti continuino, come troppo spesso succede, a dimenticare che le regole stabilite dai documenti costitutivi dell’informazione sono inviolabili. Per quanto riguarda la categoria, tanto contestata, dei pubblicisti sono previste delle modifiche anche per essa. L’idea è quella di ritornare al vecchio modello di pubblicista, specializzato e competente della materia da esso trattato. Chi meglio di un avvocato può riportare le vicende giudiziarie? Ultimi punto della proposta di riforma è poi la riduzione della classe dirigente. Si passerà dagli attuali centocinquanta consiglieri ad ottanta. La cosa più significativa di quest’ultimo punto e che a votarlo sono stati proprio i consiglieri, i quali hanno voluto mandare un segnale di serietà. La proposta è stata avanzata. Ora il compito di approvarla passa al Parlamento, unico che può modificare una legge ingessata ed evidentemente inadatta ai tempi di oggi. “Più di questo l’Ordine non può fare. Ora bisogna trovare la volontà di rispondere alle tante accuse mosse nei confronti dell’informazione italiana” ha concluso Del Boca. Ornella Quondamcarlo


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Professionalità e Dedizione, la for za di S cienze Politiche

Il Professor Sebastiano Maffettone è nato a Napoli il 10 aprile 1948, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università della stessa città nel 1970, ed è Professore Ordinario alla LUISS di Filosofia Politica dal 1998. La sua storia non si ferma certo qui, infatti, oltre ad aver lavorato per i maggiori atenei italiani, può vantare le collaborazioni con le principali Università di tutti i continenti, oltre trenta, tra cui Harvard e la London School of Economics, ed una fama internazionale in ambito accademico che sicuramente lo precede. Ma queste informazioni, chi più e chi meno nel dettaglio, le avevamo tutti. La novità assoluta del mese di marzo è invece la sua recente nomina a Preside della Facoltà di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli. 360°, come suo solito, non ha perso l’occasione per dedicare spazio alla prima intervista ufficiale del nostro nuovo Preside che ci ha accolto a braccia aperte, rinnovando la collaborazione e l’aiuto che non ci ha mai negato negli anni scorsi, e felice di poter salutare i nostri lettori. Le domande hanno coperto tutti gli argomenti possibili, dalla didattica al ruolo che può occupare Scienze Politiche in una Università come la nostra, dove le maggiori dimensioni delle altre due Facoltà rischiano di farne passare in secondo piano la qualità, garantita dall’alto profilo dei docenti e dalla preparazione degli studenti. Ci ha mostrato il lato umano del Professore e la professionalità nel calarsi in questo nuovo ruolo. Quanto crede che sia importante, per una Facoltà di Scienze Politiche, il fatto di avere un Preside che insegni in ambito umanistico? La cosa che sicuramente è importante è che in un Università con tre Facoltà il Preside, di qualsiasi di esse, non esprima solo i contenuti scientifici tipici delle altre due. La distinzione è importante. Scienze Politiche è sicuramente più piccola e più trasversale delle altre due e quello che può garantire un umanista è la distinzione dagli interessi delle discipline prettamente economiche e giuridiche. Date le dimensioni minori, Scienze Politiche corre il rischio di essere vista, dall’esterno, come una Facoltà secondaria. Come crede di far fronte a questo luogo comune? Distinguendo quantità e qualità. Questa è una distinzione filosofica, addirittura metafisica. La nostra Facoltà è più piccola ma ha un vantaggio, che non deve essere letto in chiave polemica con le altre, ma deve essere interpretato come un punto di forza. La nostra Facoltà ha in media un tasso di lavoro extra universitario minore. Questo, alla lunga, è un grande vantaggio per gli studenti. Io quindi metterei due punti fermi: la qualità dei Professori, molti dei quali, senza farne i nomi, sono molti bravi e quotati anche a livello internazionale ed una maggior dedizione al compito accademico. La nostra Facoltà si è sempre distinta per la partecipazione ad attività extra didattiche. Quanta importanza attribuisce a questo genere di iniziative ideate e realizzate interamente dai ragazzi? Io credo che siano fondamentali. Dopo trent’anni di insegnamento ho capito che sono vitali per il livello scientifico e la crescita professionale dei ragazzi. Può sembrare banale ma è importantissimo stare meno tempo a casa e più in Università. Vedere una partita di calcio di per sé non è importante, ma vederla insieme vuol dire conoscere i compagni ed imparare a vivere in mezzo a loro. Vivere una vita universitaria più piena si traduce in qualità. Mi dica due punti deboli e due punti di forza di Scienze Politiche. Qualità della docenza e degli studenti sono i punti di forza. Io ho insegnato in tutti e cinque i continenti e posso garantire che i nostri studenti non hanno nulla da invidiare a nessuno. L’altro punto di forza è la trasversalità. Non dobbiamo imparare una sola cosa molto bene, conviene sapere più cose possibili, noi offriamo un

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Intervista al nuovo Preside Sebastiano Maffettone

pacchetto trasversale. Questo è un dono infinito che oggi non viene ancora compreso dagli studenti e dalla società in generale. Ma attenzione, perché la trasversalità può essere anche un punto debole, è pericolosa perche se presa bene è ricchezza, altrimenti rischia di scadere nel dilettantismo. Un altro potenziale punto debole è l’internazionalizzazione. La nostra Università cerca in tutti i modi di sviluppare profili internazionali ma il lavoro fatto non è mai abbastanza, bisogna assolutamente continuare a lavorare su questo aspetto. Il suo grande profilo internazionale quanto può influire su questo aspetto? Diciamo che il profilo non è la parte migliore della mia immagine (ride, ndr). A parte le battute, io ho grandi legami sia umani che scientifici. Abbiamo costruito da poco un network che si chiama Ethics and Global Politics, che comprende ottanta università in tutto il mondo. Io conto di rendere il mio lavoro fatto in passato sinergico a quello che verrà fatto in futuro, in modo che sia utile a tutti, studenti e professori. La Presidenza Baldini ha intrapreso una grande opera di rinnovamento. Partendo da quanto è già stato fatto, come crede di lavorare? Tengo molto a dire che nutro grande ammirazione per quanto fatto dal Preside Baldini e porto un grande rispetto all’uomo che è stato ed alla professionalità con la quale ha ricoperto questo ruolo. Io credo che lui abbia fatto la prima parte del lavoro che era necessario: razionalizzare e ripulire il sistema. Ora bisogna fare la seconda, quella più creativa e fantasiosa, nella quale vanno introdotte delle novità. Lui parlava sempre con tutti e tutti noi conosciamo bene il messaggio che ha tramandato. Ora dobbiamo proseguire su questa strada. Dobbiamo far tesoro del suo esempio di dedizione all’Università ed agli studenti. La riforma Mussi è arrivato ad un punto di stallo e creato situazioni spiacevoli per gli studenti. Un esempio su tutti è quello del primo anno del corso di Amministrazione Pubblica nel quale è emerso il problema della ripetizione di alcuni esami sostenuti durante il corso triennale. Come si risolverà questo problema? La soluzione è ovviamente quella di evitare queste ripetizioni. La colpa della riforma Mussi è quella di non aver funzionato. Il problema è l’invadenza delle tabelle ministeriali, è assurdo che le Università debbano essere economicamente autonome ma non lo possono essere dal punto di vista dell’offerta formativa. Questa uniformità è un disastro permanente dell’Italia e chi ne risente di più sono le Università private, che devono anche stare più attente alle richieste del mercato. Noi dobbiamo andare verso altri modelli di Università, ci vorrà molto tempo, ma per quanto sia difficile dobbiamo provarci. Noi in qualche modo ci riusciamo, ma i requisiti formali a cui dobbiamo conformarci sono davvero eccessivi. Io credo che il valore di una laurea stia nella spendibilità sul mercato e questa dipende in gran parte dall’offerta formativa. Concludiamo con un saluto a tutti gli studenti che leggono 360°. Io sono molto affezionato a 360°, sembra retorica ma non lo è affatto. Le attività extra didattiche come ho detto precedentemente sono fondamentali per la vita accademica e sono anche la dimostrazione di quello che sapete fare. Sono il vostro modo di vedere l’Università, la voce degli studenti. Inoltre, senza essere borioso, il giornale riesce a dimostrare una certa competenza ed offre un buon prodotto anche a livello contenutistico. Matteo Tebaldini matteo.teb@gmail.com

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I N V E C E S T U D I O A L L’ E S T E R O

I consigli di un’esperta giornalista per studiare fuori dall’Italia ed ottimizzare il curriculum In Italia il tempo passa, ma poco sembra cambiare. Il mondo del lavoro è saturo e così le moltissime facoltà universitarie, dove le richieste aumentano a dismisura rendendo sempre più difficile un inserimento nelle professioni. Questo disarmante quadro però aiuta a riflettere: in un paese e in un mondo in cui i livelli d’istruzione sono in continuo rialzo e la competizione si incentiva, le aziende e i datori di lavoro richiedono sempre di più esperienze estere di studio o tirocinio che dimostrino versatilità e ingegno. Noi abbiamo chiesto alla giornalista del sole 24 ore Loredana Oliva, autrice del libro ‘Io invece studio all’estero’, delle dritte per intraprendere un percorso di studio o di lavoro fuori dall’Italia. Che differenza c’è tra studiare in Italia e studiare all’estero? All’estero le università non sono solo atenei di studio ma soprattutto comunità sociali, spesso con uno spiccato senso della politica, come nel caso di Brighton in cui gli studenti partecipano attivamente alla politica della città attraverso specifiche istituzioni universitarie. Non solo: mentre le università straniere sono valutate minuziosamente dagli organismi valutativi specializzati sulla base del numero di laureati, dello sviluppo della ricerca e dell’occupazione futura, in Italia non vi è una valutazione degli atenei su questi molteplici aspetti, cosa che favorisce una generale ignoranza come anche un livellamento delle università, che non vengono spinte a competere tra loro. In sostanza all’estero, e specialmente negli Stati Uniti, lo studente viene considerato come un investimento più che come un semplice soggetto. Qual è oggi il paese più indicato per un periodo di studio fuori dall’Italia? La Cina, l’India e più in generale il continente asiatico mi sembrano la scelta più interessante: è importante per uno studente trovarsi nei luoghi in cui accadono gli even-

ti che segnano e cambiano la storia. Quale ateneo estero consiglierebbe ad uno studente italiano? Nei viaggi che ho fatto per esaminare le università straniere sono rimasta particolarmente colpita dall’università barcellonese ‘Pompeo Fabra’, per i suoi numerosi e attivi collegamenti con il mondo del lavoro che permettono ai neolaureati di accedere direttamente alle grandi aziende, attraverso investimenti dell’università stessa. L’università di ‘Science Po’ a Parigi offre invece ottime opportunità nel campo dell’amministrazione. Come dovrebbe essere strutturato un curriculum per essere seriamente preso in considerazione? E’ spesso trascurato ma fondamentale il fatto che il curriculum deve contenere molte esperienze, ma preferibilmente distribuite nel tempo. Una persona che non abbia mai fatto esperienze risulta difficilmente utile nel mondo del lavoro. Le esperienze indicano generalmente una maggiore apertura mentale e una grande flessibilità : flessibilità che si concreta nell’attitudine a lavorare in team venendo incontro alle esigenze altrui piuttosto che nella capacità di cambiare continuamente lavoro. Infine nella stesura di un buon curriculum è importante dimostrare delle caratteristiche distintive, mostrare cioè che si è capaci di ragionare in maniera creativa. Come ricorda il teorico americano Richard Florida, il motore del lavoro è l’innovazione, anche nel modo di proporsi. Per questo è importante cercare continuamente di uscire da schemi che tendono a riproporsi. Giulia Mammana

Incontro con Il Senatore Giulio Andreotti Un interessante dialogo con la storia Documento, Legge Fondamentale, Ideale, Principio, Testo Legislativo. Molteplici sono le definizioni della parola ‘Costituzione’, e molteplici le polemiche che possono nascere da questa parola. Nella voce del Senatore Andreotti si sente però una sorta di antica riverenza, una conoscenza profonda della materia che nasce da anni di esperienza. Un rispetto nei confronti della nostra Carta, quasi fosse una divinità terrena, che sembra aver abbandonato i nostri contemporanei Legislatori. Le parole del Senatore sono pervase dal ricordo degli anni della costituente, il profondo lavoro e i giochi di potere tra i partiti che cercavano di organizzare il riequilibrio del nostro stato martoriato da anni di Guerra e Fascismo. L’armonia tra i Diritti e Doveri che il documento è riuscito a raggiungere è dato soprattutto dalla sua capacità di guardare al futuro. I “Sacri” Principi esposti nella parte iniziale della Costituzione non impediscono il progresso Internazionale dello Stato Italiano, né sessant’anni di crisi e cambiamenti della Diritto allo Studio SERVIZIO DI ORIENTAMENTO NUTRIZIONALE Alimentarsi consapevolmente e nutrirsi con gusto.Una dietista è a diposizione tutti i giovedì dalle 9 alle 12, presso il Diritto allo Studio - Viale Gorizia 17, per consigliare agli studenti le giuste scelte alimentari. Info e prenotazioni:Diritto allo Studio06/85225.410diritto.studio@luiss.it BANDI DI ENTI DIVERSI DALLA LUISS Sul sito internet del Diritto allo Studio

società. La stessa Costituzione infatti, se fosse riscritta oggi , sarebbe soltanto meglio scritta, ma il suo contenuto risulterebbe inalterato grazie all’incredibile longevità e la possibilità di movimento data per ammortizzatori sociali ed economici. Le differenze tra il dopoguerra ed oggi possono essere sintetizzate come una mancanza di stimoli, una tendenza italiana al “vivere di rendita” del pas-

www.luiss.it/dirittoallostudio è attivo un nuovo servizio informativo sui bandi di concorso di interesse per gli studenti pubblicati da enti diversi dalla LUISS Guido Carli. DIAMOGLI CREDITO L’iniziativa DIAMOGLI CREDITO, promossa dal Ministero per le Politiche giovanili e le Attività sportive e l’Associazione Bancaria Italiana, consente agli studenti universitari e post-universitari, in possesso di determinati requisiti di merito, di accedere ad un finanziamento massimo di 6.000 euro senza ulteriori garanzie. VIDEOTECA

sato, che insieme alla mancanza di una guida che riesca a trascinare il paese, crea un clima di sfiducia non solo all’interno del nostro stato, ma anche nell’immagine che perviene all’estero. Il dibattito raggiunge anche i temi della crisi attuale. L’ormai palpabile disparità tra le classi e le regioni porta però a nuove riflessioni. I Benefici di un sistema di informazione sempre aggiornato possono essere oscurati dal condizionamento e dal non pensare più da soli, acuendo gli effetti della crisi. L’eccessiva distanza tra Società e Politica, tra idee e leggi approvate ci porta a focalizzarci troppo su i dettagli della vita privata dei nostri politici, “Come una luce eccessiva, che non illumina ma acceca” mostrandoci i singoli difetti, ma celando la situazione del sistema politico e sociale Italiano, non potendo comprendere cosi le linee generali del sistema, ne’ le reali falle che invece potrebbero essere trovate.

Presso gli uffici del Diritto allo Studio, in viale Gorizia 17, sono disponibili per il noleggio gratuito oltre 600 DVD. CTS VIAGGI Lo sportello CTS viaggi è anche biglietteria TicketOne. Potranno essere acquistati quindi biglietti per teatro, concerti, sport, mostre e musei. Lo sportello CTS viaggi è disponibile presso gli uffici del Diritto allo Studio dal lunedì al venerdì dalle 09.00 alle 13.00 e dalle 13.30 alle 16.30. Il CTS viaggi consente agli studenti della Luiss di avere sconti e agevolazioni per l’acquisto di

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EXPO 2010 Shanghai

Cari Lettori, vi chiederete come mai parli cosi in anticipo di un evento che avrà inizio solamente a maggio 2010, ed ecco che vi spiego il motivo core: l’esposizione Universale di Shanghai 2010 rappresenta un’occasione unica di promozione del Sistema Italia e può diventare elemento centrale della strategia da perseguire per sostenere la ripresa ( praticamente non ho detto nulla di nuovo ma è giusto che se ne parli per ridare fiducia al nostro paese!) La manifestazione, che prevede 70 milioni di visitatori, si svolgerà dal 1° maggio al 31 ottobre 2010 e per la prima volta sarà dedicata alla Città ( il titolo scelto è “Better City, Better Life”). “Una Città migliore, una vita migliore” esprime l’interesse della comunità internazionale per le strategie di urbanizzazione e sviluppo sostenibile, oltre che la speranza di tutti per una vita migliore nelle future città del pianeta. Questa edizione dell’EXPO permetterà di proporre avveniristici modelli di città e stili armoniosi di vita urbana, offrendo piattaforme educative e di intrattenimento per i visitatori. Per tutta la durata della manifestazione ( 184 gg) saranno circa 100 gli eventi giornalieri. Per 6 mesi le aziende interessate avranno a disposizione un padiglione italiano di 3.600 mq per 18 metri d’altezza sul tema “ La Città dell’Uomo”, una struttura concepita anche per offrire ospitalità agli incontri d’affari e alla presentazione di prodotti e processi produttivi di particolare interesse. Ma vediamo lo spazio che l’Italia ha a disposizione: ben 6.000 mq ubicati nel quartiere di Pudong, vera e propria vetrina per l’eccel-

lenza del Made in Italy. L’ I t a l i a , infatti, sarà uno dei paesi presenti all’esposizione ai massimi livelli e come Regno Unito, Spagna, Francia, Stati Uniti, Germania, Olanda e Svizzera, finanzierà autonomamente la costruzione del proprio padiglione. Oltre alle tradizionali strutture rappresentanti le nazioni ( circa 180 ad oggi), il padiglione centrale sarà dedicato alle migliori città del mondo ( UBPA – urban best practice area pavilion). Per l’Italia, sono state scelte Bologna, Venezia e Milano. Il disegno del padiglione “tricolore” è affidato all’architetto Imbrigli che metterà in evidenza la forma e lo spirito della tradizione urbana italiana, viene da pensare quindi che tale struttura possa diventare permanente per essere considerato il simbolo del nostro paese, da destinare a eventi culturali e commerciali. Per dare il massimo ( richiesto anche dal governo cinese), è stata creata una Commissione Organizzativa ad hoc ed è stato nominato Commissario Organizzativo Beniamino Quintieri (Professore ed ex Presidente ICE). A questo punto non ci tocca che attendere con un pizzico di curiosità lo stato di avanzamento dei progetti che riporteranno l’Italia nuovamente al centro del mondo (questo almeno è quello che noi tutti vorremmo!) Per ulteriori informazioni: www.expo2010italia.gov.it Andrea Zapponini a.zapponini@guidamonaci.it

"Molto dipende dal sistema finanziario. La storia insegna che finché il sistema finanziario è in crisi non può esserci una ripresa economica sostenuta. Abbiamo assistito a qualche progresso nei mercati finanziari, ma finché non saranno stabilizzati e non torneranno a funzionare normalmente, non vedremo alcuna ripresa. Abbiamo però predisposto un piano e credo che riusciremo a stabilizzare la situazione, così da porre fine alla recessione già da quest'anno, con ogni probabilità. A partire dal prossimo anno, quindi, dovremmo assistere alla ripresa". Questa è stata la risposta ad una delle domande poste a Ben Bernanke, in una delle rarissime interviste rilasciate da un presidente della Fed. Nella serata del 15 marzo scorso Bernanke è stato costretto, senza quasi, ad andare davanti alle telecamere di "60 Minutes", per spiegare agli americani il perchè delle centinaia di miliardi di dollari utilizzati per aiutare quelle banche e assicurazioni che molti definiscono colpevoli dell'attuale finimondo. Bernanke esclude ormai la possibilità che questa crisi si trasformi in una nuova ventinove, ma "il vero problema adesso è rimettere a regime tutto quanto come si deve". Alla domanda più spinosa, perchè ancora le banche si permettono bonus stellari e se ciò non sia immorale, ha risposto diplomaticamente. "L'epoca di chi viveva una vita al di sopra dei propri mezzi è finita. Oltre tutto, le banche devono essere responsabili, usare in modo costruttivo i loro soldi, avere un ragionevole senso di umiltà e trarre insegnamento da quanto è accaduto in questi ultimi 18 mesi". Ma l'obiettivo principale della trasferta televisiva era infondere tranquillità e sicurezza nei concittadini statunitensi: Bernanke ha fatto del suo meglio senza nascondere la realtà e con sincerità. "La crisi inizierà a rallentare, assisteremo a una sorta di stasi. Non torneremo subito alla piena occupazione, ma mi auguro che alla fine di queste crisi così pesanti dell'ultimo paio di trimestri, la recessione si arresti". (traduzione di Anna Bissanti copyright 60 minutes/Cbs) Nel frattempo, uno degli economisti più conosciuti e letti nel mondo, Paul Krugman, dalle colonne del New York Times e da quelle del suo blog, ha la possibilità di scrivere ed esprimersi senza vincoli istituzionali. Attacca

senza mezzi termini quello che fin qui hanno fatto i governi europei per fronteggiare questa crisi tanto chiacchierata. Li etichetta come non sufficienti e teme che possano rendere più inefficaci le misure americane. Boccia completamente e contemporaneamente politica fiscale e politica monetaria degli attori del vecchio continente. Ricorda che molti economisti, hanno considerato troppo limitati gli aiuti dell'amministrazione Obama; aiuti a stelle e striscie, però, che sono straordinariamente maggiori rispetto a quelli messi in campo dai governi europei. Il premio Nobel per l'economia ha sparato pesanti critiche anche sulla Banca Centrale Europea. L'istituzione incaricata di governare la moneta nell'eurozona sarebbe colpevole di essersi mossa troppo in ritardo rispetto alla reazione dimostrata dalla Fed, e, anche qui, si rileva un rilevante minor coraggio in termini di numeri. Krugman imputa buona parte dell'attuale lentezza e almeno parziale incapacità europea ad una scarsa leadearship politica e dirigenziale. Europe’s economic and monetary integration has run too far ahead of its political institutions. The economies of Europe’s many nations are almost as tightly linked as the economies of America’s many states — and most of Europe shares a common currency. But unlike America, Europe doesn’t have the kind of continentwide institutions needed to deal with a continentwide crisis. Dunque anche Paul Krugman, sulla prima pagina del New York Times, punta il dito contro la maggiore debolezza e problema europeo. Anche questo professore, da oltreoceano, augura che la crisi venga concretamente presa non solo come l'occasione per rivedere e rafforzare le regole dell'economia. Gli europei hanno un altro motivo, e forse più importante, per poter "sfruttare" la crisi. Devono assolutamente approfittare per prendere coraggio e fare un notevole passo in avanti nella difficile soluzione della dicotomia tra unione economica ed unione politica europea. Ovviamente, anche perchè pure l'America ne trarrebbe vantaggio. Forse. Timoteo Carpita www.timoteocarpita.it

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Vetrina made in Italy

Bernanke rassicura l ’Americ a Krugman provoc a l ’Europa: entrambi a fin di bene

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Visti di profilo L’importanza di una scelta caratterizzante

Venerdì 27 Marzo si è tenuta nell’aula Nocco di Via Parenzo la presentazione degli indirizzi di specializzazione che gli studenti di Giurisprudenza potranno scegliere dopo i primi tre anni e mezzo di studio. L’ordinamento agli studi della Facoltà prevede, infatti, che dopo i primi sette semestri in cui lo studente acquisisce le competenze primarie di base che gli consentano di avere accesso, a seconda dei casi, al mondo del lavoro, ai percorsi di formazione post laurea ovvero alle diverse carriere concorsuali e/o professionali, egli possa liberamente scegliere uno dei dieci profili formativi che l’università offre per garantire uno studio più mirato nell’ambito del settore giuridico scelto dallo studente (pur sempre in una prospettiva fortemente interdisciplinare) fondato su una tipologia di insegnamento orientata al problem solving ed alla tecnica dei cases book. I professori della Facoltà hanno così illustrato i vari profili di cui sono responsabili: Diritto civile: Prof. M. Nuzzo Il profilo di diritto civile ha come obiettivo principale quello di fornire allo studente che lo sceglie una conoscenza diffusa dei vari rami del diritto, tale da acquistare la capacità di risolvere problemi complessi in ambiti differenti. Tale preparazione consentirà allo studente di poter affrontare, oltre le tradizionali figure professionali, carriere tipiche di altri operatori in ambito pubblico e privato, essendo il profilo orientato a mettere in evidenza i collegamenti esistenti tra le varie discipline del diritto e consentire la combinazione delle nozioni assunte per la soluzione di problemi pratici. A tal fine saranno organizzati seminari durante i quali si dimostrerà come una stessa questione possa essere risolta da vari punti di vista legali, la cui sintesi fornirà il risultato migliore e più efficace per la risoluzione delle controversie. Diritto ed economia delle imprese e dell’innovazione: Prof. G. Mosco Il giurista d’impresa modellato dal profilo è abilitato all’accesso a tutti i concorsi e le professioni tradizionali o può entrare nel mondo imprenditoriale o istituzionale, presentandosi in ogni caso con una preparazione interdisciplinare che integra competenze giuridiche, economiche e aziendalistiche ormai indispensabili per assistere o dirigere le imprese e, più in generale, per entrare in realtà professionali e istituzionali avanzate. Il conseguimento della laurea in Giurisprudenza, attraverso tale profilo, consente inoltre l’iscrizione al corso di laurea magistrale in Diritto ed economia della Facoltà di Economia della Luiss “Guido Carli” secondo un percorso didattico integrato di accesso.

Diritto societario e tributario: Proff.ri G. Visentini e L. Salvini Il percorso formativo è caratterizzato da una stretta sinergia tra i due essenziali aspetti per la formazione di un giurista d’impresa, quello societario e quello tributario, naturalmente con attenzione anche agli aspetti comunitari e internazionali. Tale formazione trova impiego nell’ambito di attività lavorative connotate da forte domanda, tanto professionali, quanto svolte negli uffici fiscali e legali di aziende, quanto ancora in istituzioni pubbliche. Sono previsti stages presso studi professionali, aziende, Agenzie fiscali. Gli studenti avranno la possibilità di seguire corsi specialistici e moduli tenuti in lingua inglese nonché di partecipare ad iniziative universitarie internazionali. Diritto penale: Prof. A. Carmona Il profilo consente allo studente che voglia approfondire lo studio del diritto penale di esaminare sia i settori che tradizionalmente sono stati al centro dell’interesse del penalista sia quelli collegati a fenomeni di recente emersione. Pertanto, nell’offerta formativa, alle materie che affrontano le specificità delle tematiche “classiche” del diritto penale sostanziale e processuale, si affiancano quelle richieste dall’evoluzione della realtà sociale. Alla prima esigenza, e senza pretesa di esaustività, risponde l’istituzione di corsi quali quello di Diritto penale della P.A. e Diritto dell’esecuzione penale, alla seconda, l’approfondimento delle problematiche penalistiche nel settore dell’economia e in campo biomedico attraverso i corsi di Diritto penale dell’economia, Diritto e procedura penale degli enti e Diritto penale delle scienze mediche e delle biotecnologie. Diritto dei mercati e dei contratti finanziari: Prof. A. Nuzzo Il profilo offre un approfondimento delle principali tematiche relative al sistema finanziario: dalla regolamentazione dei mercati e degli intermediari finanziari e creditizi alla disciplina delle società quotate e degli strumenti finanziari. Il profilo è rivolto principalmente a quanti intendano sperimentare, sul piano metodologico, le questioni di diritto proprie del settore centrale del sistema economico del Paese. Si offre dunque quale particolare opportunità per quanti intendano in prospettiva operare a livello professionale nell’assistenza e consulenza legale specialistica ovvero siano interessati a svolgere attività professionale all’interno di organismi di mercato o controllo, nazionali e internazionali.

carriere per le quali è richiesta una solida formazione politologica (giornalismo parlamentare e politico, funzionari presso gli Organi costituzionali dello Stato). Infatti, il corso è strutturato in modo da consentire, attraverso l’inserimento volontario nel piano di studi di alcuni insegnamenti a scelta in esso previsti (tra i quali la seconda lingua straniera), l’iscrizione con abbreviazione al secondo anno del Corso di laurea magistrale in Scienze di governo e della comunicazione pubblica – Indirizzo istituzioni politiche e amministrative, previsto dalla Facoltà di Scienze politiche della Luiss “Guido Carli”. Diritto amministrativo: Prof. F. Lubrano Il profilo di diritto amministrativo tiene conto delle esigenze formative dello studente che miri a un inserimento lavorativo come libero professionista, legale d’impresa, magistrato, funzionario pubblico. A questo fine, in aggiunta a materie tradizionali come il diritto urbanistico e il diritto dell’ambiente, l’offerta didattica include discipline speciali che hanno acquisito un’importanza crescente, come i contratti pubblici, e i servizi pubblici. L’approfondimento relativo al processo amministrativo completa i concetti di basi acquisiti nella prima parte del percorso di studi. Diritto internazionale e comunitario: Proff.ri N.Ronzitti e A. Del Vecchio Il profilo si prefigge di fornire allo studente un’approfondita conoscenza delle molteplici branche in cui il diritto internazionale e il diritto comunitario si articolano. Nei diversi corsi lo studio della dottrina, della prassi e della giurisprudenza internazionale e comunitaria consentirà di acquisire gli strumenti indispensabili per una futura carriera nella diplomazia, nelle organizzazioni internazionali a carattere universale e regionale, presso l’ Unione Europea, in studi legali con vocazione internazionalistica e nelle amministrazioni statali e locali che curano i rapporti con Stati ed enti territoriali stranieri.

Diritto del lavoro e della previdenza sociale: Proff.ri R.Pessi e R.Fabozzi Il profilo Diritto del lavoro e della previdenza sociale ha lo scopo di fornire una preparazione più approfondita, sia sotto il profilo teorico che metodologicoapplicativo, circa le tematiche del lavoro, sindacale e della previdenza sociale. In particolare, si forniranno agli studenti, anche attraverso una tipologia di insegnamento maggiormente orientata ai cases book, le tecniche di analisi e di problem solving, tenendo conto del generale quadro di riferimento giuridico, Diritto pubblico: Prof. M. Clarich politico ed economico. Nell’ambito degli insegnaIl profilo tiene conto delle esigenze formative dello menti del profilo saranno effettuate delle testimostudente interessato ad approfondire, nella cornice nianze da parte di soggetti operanti nel mondo istituzionale derivante dall’integrazione comunitaria imprenditoriale, associativo ed istituzionale. e dalle modifiche della Costituzione del 2001, le materie fondamentali afferenti alla disciplina. Bruno Tripodi Particolare attenzione viene dedicata al funzionamrbrown88@hotmail.com mento del Parlamento, ai rapporti tra centro e periferia, alle tematiche legate alla giustizia costituzionale e alla comparazione. La varietà dell’offerta didattica consente allo studente di calibrare la formazione in relazione all’inserimento professionale al quale aspira Istituzioni politiche e amministrative: Prof. S.A. Romano Il profilo delle “Istituzioni politiche e amministrative” è di interesse non solo per l’accesso alle tradizionali professioni legali, ma anche per quello a professioni e


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Nell’aprile del 2005 il cardinale Joseph Ratzinger veniva eletto al soglio pontificio, divenendo successore di Karol Wojtyla con il nome di Benedetto XVI. Sono trascorsi esattamente quattro anni da quell’evento e già da tempo fioccano paragoni e sovrapposizioni tra gli ultimi due Papi secondo la sterile, ma pur sempre allettante, logica dell’esercizio delle somiglianze e delle differenze. Per quanto futile possa essere una simile pratica, soprattutto a causa del fatto che il pontificato ratzingeriano è ancora in corso, credo sia possibile fin da ora evidenziare i passaggi cruciali e le più manifeste connotazioni stilistico - dottrinarie con cui poter analizzare l’operato dell’attuale Pontefice rispetto a quello del suo predecessore.

Nonostante entrambi facciano parte dell’ala più conservatrice della galassia cattolica, non mancano le occasioni per mettere in luce quanto più reazionarie siano le posizioni di Papa Ratzinger rispetto a Giovanni Paolo II; e questo lo si può notare non solo basandosi su decisioni di portata rilevante ma anche esaminando piccole innovazioni a dir poco significative (si pensi al ripristino di abiti e accessori risalenti al Risorgimento, come i simpatici copricapo, con cui spesso siamo abituati a vedere Benedetto XVI). Sicuramente non è stata una scelta di poco conto decretare la possibilità di un ritorno alla celebrazione della messa secondo l’antico rito romano di epoca preconciliare, quello - per intenderci che prevede come lingua ufficiale della liturgia il latino. A mio modo di vedere, rivalutare diversi aspetti della tradizione ecclesiastica fa parte di una precisa strategia operativa su cui può inserirsi alla perfezione l’impronta marcatamente antiprogressista che l’attuale Papa ha voluto imprimere al proprio pontificato. In altre parole, tornare alle soluzioni e ai canoni del passato per tornare ad una Chiesa del passato; e, di conseguenza, ad una Chiesa più battagliera e intransigente, ad una Chiesa che preferisce al dialogo il rifiuto. Come non leggere in quest’ottica la revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani di cui faceva parte il controverso mons. Richard Williamson, al centro di recenti polemiche per le sue inaccet-

tabili posizioni negazioniste sull’Olocausto? Effettivamente, la Fraternità Sacerdotale San Pio X (congregazione ispirata alle tesi del prelato che rifiutò il Concilio Vaticano II, Marcel Lefebvre, e per questo venne scomunicato da Giovanni Paolo II) rappresenta il movimento ultraconservatore che più di ogni altro si oppose ai mutamenti con cui la Chiesa Cattolica si è trasformata negli ultimi decenni; e revocare la condanna all’ostracismo dalla famiglia dei fedeli a chi si è battuto per imporre una personale idea di comunità ecclesiale ormai del tutto superata costituisce il miglior atto di adesione a quella strategia operativa di cui sopra. Tuttavia, il punto focale della questione è: a che (e soprattutto a chi) vale ciò? Questo atteggiamento, questa propensione d’intenti, questo stile ripaga la Chiesa in termini di credibilità per come si presenta e agisce nel mondo, relazionandosi ad esso? Ma è in un altro ambito, secondo il mio parere, che ancor meglio si evidenzia quanto sostengo: il dialogo interreligioso. Tutti ricordano l’amichevole definizione con cui Papa Wojtyla si rivolse agli israeliti, parlando degli ebrei come dei “fratelli maggiori” di quanti si professano cristiani; egli arrivò persino a cancellare l’infamante accusa di “deicidi” che nella preghiera del Venerdì Santo continuava ad infangare, senza più alcuna ragione, il popolo di Sion. Benedetto XVI, invece, oltre ad incrinare i rapporti con le autorità religiose israeliane a causa della fin troppo nota controversia lefebvriana - che si spera venga definitivamente risolta nel viaggio pastorale previsto per il prossimo maggio - si è suo malgrado imbattuto in un piccolo empasse diplomatico-religioso con le comunità islamiche di diversi paesi mediorientali quando, ad un anno dall’inizio del suo pontificato, durante una lectio magistralis tenuta presso l’Università di Ratisbona (quella che in passato lo ha ospitato in vista di docente), volle citare una frase non del tutto appropriata dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo: “Mostrami pure ciò che

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IL GRANDE RIMPIANTO

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Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di infondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. Tenendo conto delle proteste dei fedeli musulmani che si protrassero per circa una settimana a seguito di quell’infelice citazione, è sembrato spontaneo interrogarsi sull’opportunità di accennare ad un passo di così problematica interpretazione, soprattutto perché quelle parole non erano condivise dallo stesso Pontefice, come egli stesso ebbe modo di chiarire. Spero che queste righe non vengano tacciate in fretta e furia di mero anticlericalismo ma, piuttosto, offrano l’occasione per una schietta ed approfondita analisi “di contenuto”. Del resto, essendo nato nel 1987, sono cresciuto con l’idea che il Papa fosse, e sempre sarebbe rimasto, quel vigoroso e imponente cardinale venuto “di un Paese lontano” che, a ragione, è stato definito “il catalizzatore del mondo”, colui che pare abbia dato la picconata più forte perchè il Muro che divideva Berlino crollasse definitivamente. Ed è precisamente questo il motivo che tuttora mi porta a rimpiangerlo. Intanto, siamo entrati nel terzo millennio, abbiamo inaugurato un nuovo secolo all’insegna di quella che mi appare sempre di più come una virata sulla rotta percorsa finora dalla Chiesa Cattolica. Tutto questo accade nell’anno di grazia 2009, Benedetto XVI regnante. Forse, in tutti i sensi.

Antonio Bonanata


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La veramente vera verità su Marco Travaglio

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Piuttosto che cominciare quest’articolo attraverso una sfilza di valutazioni positive su Marco Travaglio (e il materiale da cui prendere spunto ci sarebbe eccome), si è voluto considerare un successo personale da lui recentemente conseguito. Ogni anno l’associazione della stampa tedesca attribuisce un premio per la libertà di stampa. A vincerlo in passato furono il cronista che denunciò i crimini di guerra in Kosovo e la coraggiosa giornalista che mostrò al mondo quanto fosse estesa la rete di corruzione nella Russia di Putin. Quest’anno il premio è andato a un giornalista italia-

no, “un collega coraggioso e attento, che si impegna contro tutti gli ostacoli per difendere la libertà di stampa in Italia". Si tratta di Marco Travaglio. All’assegnazione di questo premio a Travaglio l’Italia ha risposto con un’indifferenza a reti e a edicole unificate: eppure avrebbe dovuto rappresentare un onore per il nostro paese, considerando l’impietosa posizione occupata dall’Italia nelle classifiche internazionali per la libertà di stampa.In Italia, infatti, di Travaglio si dice che ha offeso il Papa e che ha dato a Napolitano del “lombrico”. Si tratta ovviamente di accuse inesistenti, senza prove (a offendere il Papa è stata, semmai, Sabina Guzzanti). In realtà, infatti, Travaglio ha offeso come “lombrico” solo l’attuale presidente del Senato: ma è facile generalizzare, soprattutto quando la vittima della diffamazione è un personaggio scomodo come Travaglio. È altrettanto facile dargli dell’ipocrita: come fa Travaglio a definirsi liberale, ci si chiede, se poi non è altro che un giustizialista? È un’ottima domanda, se non si tiene conto del fatto che l’ideale del liberalismo non coincide con quello propugnato da Silvio Berlusconi, basato sulla promozione dell’evasione fiscale, sulla riduzione dei termini di prescrizione per i reati, sulla depenalizzazione del falso in bilancio. In un paese davvero liberale atteggiamenti di questo tipo verrebbero definiti per quello che sono realmente, cioè comportamenti volti a danneggiare il naturale sviluppo del mercato. In Italia no, Berlusconi è un liberale. Dell’Utri, pregiudicato per frode fiscale, è un liberale.Appare altresì bizzarro che

Travaglio abbia affermato di votare per l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, in quanto la presenza di Leoluca Orlando in tale partito sarebbe in contrasto con Travaglio e il suo essere “sulla cresta dell’onda dell’antimafia”. Francamente sembra strano incolpare Travaglio, un banale elettore, per le frequentazioni politiche di Antonio Di Pietro. Ma si sa, è molto semplice criticare le scelte altrui, piuttosto che cercare di migliorare il proprio giardino. Travaglio, in fin dei conti, fa così tanto rumore perché è uno dei pochi giornalisti virtuosi che non si arrende alle mire dirigiste del potere, ora politico, ora economico, e che riesca a levare una voce di dissenso. Ed è per questo che ha ottenuto il premio di cui sopra, da parte dei giornalisti d’oltralpe, che sono davvero suoi colleghi: differentemente dall’ex giornalista Renato Farina, uno dei pochi per i quali l’Ordine dei giornalisti si sia preso la briga di applicare la sanzione massima, la radiazione, e che quindi non è più un suo collega, come qualcuno (LiberaLuiss, marzo) ha avuto a dire.

Giulio Agamennone Federico Scalise

Dov’è finito il libero arbitrio? È diventato un argomento al centro di ogni dibattito politico, soprattutto dopo la recente scomparsa di Eluana Englaro. Un argomento che divide cattolici e laici, centrodestra e centrosinistra. Gli uni difensori del credo cristiano, paladini del “non uccidere” a nessun costo. Gli altri fedeli nel libero arbitrio. Com’è risaputo, manca ancora in Italia una legge sul testamento biologico, un documento che permette di mettere la propria volontà nero su bianco in materia di trattamento medico. Ciò significa che il medico potrà avere le idee chiare su come, quando e quanto curare un paziente, specialmente se questo non è in grado di comunicare le proprie intenzioni. Tuttavia, è in corso attualmente il vaglio di un disegno di legge in materia, dopo anni di sollecitazioni. «È un attentato alla vita», dicono i cattolici. «È una forma di eutanasia». Ha detto il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini: «Il diritto alla vita va difeso senza se e senza ma. È assolutamente sbagliato dire che ognuno è padrone della sua vita» . Eppure, di parere opposto ora sembra essere anche il Pdl. Come ha detto Daniele Capezzone è importante tenere conto della «volontà certa ed esplicita della persona interessata». Proprio ultimamente, Pd e Pdl hanno raggiunto una prima intesa con un accordo di massima sul consenso informato del paziente in merito al trattamento terapeutico. In ogni caso, è un vuoto giuridico che bisogna assolutamente colmare, come ha affermato il presidente della Camera Gianfranco Fini. Si tratta di una questione delicatissima, che ha toccato profondamente la coscienza di chiunque, credenti e non. Duole perciò il fatto che il governo abbia strumentalizzato la vicenda della povera Eluana, fino al suo decesso. Come gonfiare nei media questo episodio per coprire le evidenti difficoltà della crisi economica più volte sminuite dal premier Silvio Berlusconi? Il “caso” ha volu-

to che, dopo la morte della ragazza, i toni della polemica si siano attenuati. Deplorevole è poi il commento del senatore a vita Francesco Cossiga alla notizia del decesso: «Pensavo che la sinistra applaudisse». Ebbene, il rispetto per la vita non è né di destra né di sinistra. Il problema sta nel definire il concetto stesso di “vita”. Può essere “vita” un periodo di diciassette anni passati attaccati ad un sondino, immobili, in un letto d’ospedale? Si potrebbe dire: c’è sempre la possibilità di potersi riprendere. Se così fosse che effetto farebbe risvegliarsi dopo anni e anni passati in stato comatoso? Si pensi alle ripercussioni fisiologiche e psicologiche! Nel caso specifico di Eluana, i medici avevano stabilito un periodo di quattro settimane circa in cui la ragazza avrebbe continuato a vivere dopo l’interruzione dell’alimentazione artificiale. Invece, è morta pochissimi giorni dopo. È evidente che la situazione era ben più che grave. Solo due parole contano: libero arbitrio. Un principio predicato dallo stesso credo cristiano, se non il principio fondamentale che è alla base della cristianità stessa. È vero che la Englaro non firmò alcun documento scritto in cui dichiarare la sua volontà in merito alla propria vita, è vero che il giuramento di Ippocrate impone ai medici di curare il paziente e di tutelarne la vita ad ogni costo, finché possibile. Sono anche questi ostacoli etici che i nostri rappresentanti dovranno permettere di superare, oltre a vecchi rancori e riserve ideologiche, per una disposizione di norma adeguata. Paola Spataro


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“Una guerra fra bande dentro la magistratura”. Così ci è stata presentata tre mesi fa la cosiddetta “guerra” fra le procure di Salerno e Catanzaro, cioè come una rissa tra magistrati dediti a sequestrarsi vicendevolmente atti di indagine. E’ stato realmente così? Ovviamente no. Ancora una volta ciò che è stato propinato all’opinione pubblica durante quei mesi non è stato altro che la storpiatura di una vicenda complicata, ma limpida nei fatti, volutamente e sistematicamente manipolata. Tutto nasce nel Dicembre 2008. La procura di Salerno pone sotto inchiesta otto magistrati della procura di Catanzaro, indagati per varie ipotesi di reato, tra le quali quella di essersi venduti agli indagati dell’inchiesta “Why Not” (avocata all’ormai ex PM di Catanzaro Luigi De Magistris) per poi insabbiarla. Siamo ancora alle indagini preliminari. I magistrati di Salerno vogliono vederci chiaro e quindi ordinano il sequestro degli atti di “Why Not” e la perquisizione degli indagati. Una cosa più che normale in una qualsiasi indagine. Ma stavolta è diverso. Perché l’indagine di Salerno rischia di riaprire il capitolo De Magistris, il quale all’epoca in cui era PM a Catanzaro stava compiendo indagini, non scottanti, ma roventi su presunti legami tra politica, magistratura e comitati d’affari. Quindi il fatto che dei magistrati si stiano occupando di quelle vicende mette in subbuglio i poteri forti (istituzioni, media, classe politica,..) che in tempi record serrano le fila e partono all’attacco della procura di Salerno. Accuse di ogni sorta, fondate su balle mirabolanti, cominciano a piovere sulla procura campana accusata di aver emesso

un decreto (quello di sequestro e perquisizione) definito abnorme, illegittimo, eversivo! Ora se queste accuse fossero state finalizzate ad una verifica della legittimità del decreto di Salerno, poco male. Ma gli attacchi alla procura di Salerno non miravano ad una verifica di quell’atto. Perché se l’intenzione fosse stata realmente quella non ci si sarebbe impegnati a demolire a colpi di baggianate l’inchiesta salernitana, ma si sarebbe atteso la sentenza del ricorso contro il decreto della Procura di Salerno presentato da parte degli indagati dell’inchiesta “Why Not” al Tribunale del riesame di Napoli (cioè l’unico Tribunale competente a valutare nel merito l’atto di Salerno). E invece non si è atteso un bel niente, anzi successivamente è

stata addirittura ignorata la sentenza del Tribunale del riesame, la quale confermava il decreto di sequestro e perquisizione della procura di Salerno. Mentre in un paese normale la notizia di questa sentenza sarebbe balzata su tutte le prime pagine dei giornali, in Italia questa notizia non è comparsa da nessuna parte. Il fatto che l’unico tribunale competente a valutare nel merito il decreto di Salerno abbia confermato tale atto, smentendo gli attacchi contro la procura di Salerno, non è stato ritenuto degno di nota. Silenzio totale. Meglio continuare a parlare d’altro, ignorare che Salerno aveva compiuto un atto legittimo e che, al contrario, Catanzaro (che nel frattempo aveva “contro-sequestrato” gli atti sequestrati da Salerno con un atto assolutamente illegittimo) aveva operato secondo modalità (queste sì) eversive. Meglio imbottire la società di balle, creare un caso virtuale per “buttarla in caciara”. Meglio adoperarsi per coprire l’ennesima demolizione dell’ennesima indagine scomoda. Meglio coprire i fatti. Cioè che il procuratore capo di Salerno, cacciato dalla magistratura, ed i due sostituti procuratori, cambiati di sede e funzione, sono stati colpiti per un motivo solo. Aver fatto il loro dovere.

Giuseppe Carteny giuseppe_carteny@yahoo.it

L’eredità delle stragi “Nella volontà da parte della politica di combattere veramente la mafia io non ho mai creduto” diceva Paolo Borsellino alla sorella Rita. Gli attentati mafiosi del ’92 vennero all’epoca collegati ad una strategia di intimidazione: per la prima volta, grazie ai maxiprocessi messi in piedi dal pool antimafia, Cosa Nostra perde la sua aura di impunità e i boss vengono processati e condannati all’ergastolo e al carcere duro previsto dal 41-bis. Sicuramente l’assassinio di Falcone è stato una vendetta e nello stesso tempo un messaggio alle istituzioni. L’attentato a Paolo Borsellino, invece, assume altri connotati, messi in evidenza da rivelazioni e indagini successive. 1° Luglio 1992: Borsellino viene convocato dal ministro dell’interno Mancino, il quale però nega di aver mai incontrato il giudice. Eppure, oltre all’annotazione sull’agenda grigia di Borsellino, l’avvenuto incontro è confermato dal magistrato Aliquò che aveva accompagnato Borsellino al ministero e da Mutolo, il pentito che il giudice stava interrogando. Mutolo racconta che Borsellino era tornato così scosso dall’incontro che non si era accorto di aver acceso due sigarette. Racconta Massimo Ciancimino, figlio di “Don” Vito Ciancimino, che nel Giugno 1992 (occhio alle date!) suo padre incontrò il capitano De Donno e il generale Mori del ROS dei carabinieri per intavolare una trattativa per conto di Provenzano: la fine delle stragi e la consegna di qualche latitante in cambio di alcuni “favori” a Cosa Nostra, tra cui: niente ergastolo e carcere in isolamento, stop agli sconti di pena per i pentiti e alla confisca dei beni. Cosa è successo dopo il 1992? Da una parte hanno preso Riina, dall’altra sono state chiuse le carceri d’isolamento di Pianosa e dell’Asinara, eliminati i benefici ai pentiti (infatti non ce ne sono

più stati), tagliate le scorte ai magistrati, le leggi sulla confisca dei beni sono diventate così macchinose da essere inservibili e, l’ultima chicca, la nuova riforma delle intercettazioni che le renderà inutilizzabili (i reati di mafia si scoprono soprattutto tramite intercettazioni telefoniche e ambientali). Cosa sapeva Borsellino quando diceva alla moglie “ho capito tutto” e “devo sbrigarmi perché il prossimo sarò io”? Forse aveva capito che c’era una trattativa in corso e che lui era l’unico ostacolo? Sembrerebbe che nei primi anni ’90 lo Stato prendesse accordi segreti con Cosa Nostra e che la mafia influenzasse la politica tramite le bombe…e ora? Ora Corrado Carnevale, chiamato da Falcone e Borsellino “l’ammazzasentenze”, perché annullava tutte le sentenze a carico di mafiosi, potrebbe concorrere (grazie ad una legge apposita) alla presidenza della Corte di Cassazione; ora i nomi citati nel 1996 da Luigi Ilardo, boss pentito confidente dei carabinieri, come esponenti di Cosa Nostra nelle istituzioni sono: Salvo Andò, deputato Pd condannato per mafia nel 2000, Marcello Dell’Utri, senatore nonché ideatore di Forza Italia, Giulio Andreotti, senatore, condannato per mafia nel 2003, Dolcino Favi, procuratore. Per non dire che nelle motivazioni della sentenza che condanna Dell’Utri per mafia (2004) troviamo scritto che “svolse un’attività di costante mediazione tra (…) Cosa Nostra e (…) il gruppo Fininvest” (di Berlusconi, nda) e che Berlusconi, oltre a pagare il pizzo, da trent’anni è nelle mani di Cosa Nostra. “I mafiosi stanno in Parlamento”, diceva Pippo Fava. Giulia Ciuffreda

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LA TRIBÙ PROFETICA DALLE PUPILLE ARDENTI Cittadini del limbo: realtà a confronto

El Pueblo Gitano Storia di un difficile cammino verso l’integrazione

Zingari, Gitani, Nomadi, Rom, Sinti, Rumeni, Slavi sono tutti termini che indicano erroneamente diverse etnie, le quali hanno in comune lingua e costumi e sono ritenute originariamente nomadi; la definizione più generale e adatta, però, è quella di Popolazione Romanì, la quale è per la maggior parte sedentaria e non ha alcuna connessione “esclusiva” con la Romania. Di particolare interesse storico e sociale, sono le vicende che hanno intrecciato tale Popolazione e la Spagna: quest’ultima conta una comunità Romanì compresa tra i cinquecento e i seicentomila individui, in maggior parte di etnia Kalè. Qui prendono il nome di Popolo Gitano, derivante dalla parola “egiptano” poichè, quando giunsero nella penisola Iberica, si credeva che provenissero dall’Egitto. In realtà, la dottrina più affermata individua una loro eventuale terra d’origine nel Punjab, nel subcontinente indiano. Appena giunti in Spagna nel 1415, i Gitani si dispersero nelle varie regioni, integrandosi e ridifferenziandosi in ulteriori gruppi; per tutto il XV secolo, i rapporti con le popolazioni locali furono generalmente buoni, ma , a partire, dal 1499, con l’unificazione dei Regni di Spagna, iniziò un politica di omologazione culturale, che li colpì particolarmente tramite disposizioni rigide che miravano a svuotarli delle loro tradizioni e dei loro usi, pena la servitù o l’espulsione. Duecentocinquanta anni più tardi, con la salita al potere di Ferdinando VI, il loro trattamento acquistò sempre più tratti di discriminazione e intolleranza: ciò culminò nella Gran Redada ( mercoledì 30 Agosto 1749) organizzata in segreto dal marchese della Ensenada e volta all’arresto e alla successiva estinzione della “razza Gitana”. Il fatto ha caratteri che sfiorano l’assurdo e ricordano i metodi nazisti: furono inviati, in ogni città della Spagna, ufficiali e regimenti con una busta contenete ordini segreti, che doveva essere aperta in presenza del reggente della città nello stesso istante in tutta la Spagna; gli ordini della busta dicevano di arrestare tutti gli individui che avevano caretteristiche corrispondenti a quelle del popolo Gitano (ciò perchè questi ultimi non venivano riconosciuti come popolo e quindi non erano denominati in nessun modo). Tale operazione, finanziata con i soldi degli stessi prigionieri, portò dodicimila arrestati, che furono trasferiti

in Africa, in porti o poli minerari e, in seguito, divisi in due gruppi: donne e bambini sotto i sette anni, e i restanti: i primi lavoravano in fabbrica, i secondi ai lavori forzati, e, in particolar modo, negli arsenali della marina. Rimasti in “cattività” per circa un decennio, con l’avvento del regno di Carlo III, i Gitani prigionieri furono liberati e il re cambiò la politica nei loro confronti: nel 1783, trentaquattro anni dopo la Gran Redada, furono promulgate delle direttive che mostravano un atteggiamento più sensibile verso tale popolo, sempre, però, cercando di limitare alcuni tratti fondamentali della loro cultura. Eccone alcune: i Gitani sono cittadini spagnoli; i gitani sono uguali agli altri cittadini; i bambini devo andare a scuola a partire dai quattro anni; i Gitani sono liberi di fissare la loro residenza; i Gitani possono lavorare o impegnarsi in qualunque attività; i Gitani hanno diritto di asilo e di cura; chi impedisce l’entrata dei Gitani in corporazioni o cerca di negargli la residenza, sarà penalizzato; si impongono pene a coloro che ostacolano l’integrazione dei Gitani. Fino al 1936, la politica nei confronti dei Kalè rimane costante, caratterizzata dalla volontà di identificazione da parte dei regnati, manifestata anche con vari tentativi di censimento della popolazione. Lo stato, però, rimane fondamentalmente incapace di garantire l’uguaglianza affermata nella Costituzione, portando la formazione, da una parte, di un buon livello di comunicazione interetnico, ma, dall’altro, il persistere di forme subdole di xenophobia. Con l’avvento della Guerra Civile e la seguente dittatura di Franco, si torna a una repressione culturale e a una radicale intolleranza: la lingua gitana viene considerata un gergo delinquenziale e nei loro confronti viene applicata una forma di legge sulla pericolosità sociale. Infine, iniziato il periodo democratico, i Gitani hanno pieno riconoscimento come cittadini e uguaglianza davanti alla legge, la Costituzione riconosce come crimine la discriminazione razziale. Inoltre, sono state abrogate tutte le norme antigitane approvate sotto il periodo fascista e, negli anni ’80 il governo di Madrid, in coordinamento con le Comunità Autonome, ha posto l’ attenzione sul problema del reale sviluppo dei Gitani all’ interno della società spagnola; nel 1989 il “Ministerio de Asuntos Sociales” ha dato il via al “Piano nazionale di sviluppo Gitano”, che prevede un’ ampia erogazione di fondi per la loro integrazione, usufruendo anche degli aiuti comunitari. Fabiana Nacci Mauro Grella

Strano popolo quello dei gitani; popolo di nomadi, erroneamente per alcuni, popolo di zingari, dispregiativamente per altri. L’eteronomia è forse il primo segnale del beffardo destino che la storia ha voluto riservare a tutti coloro che oggi vengono identificati e impropriamente etichettati come rom. Il loro nome, quello che essi riconoscono e con il quale forse vorrebbero essere riconosciuti è romanì: pochi ne sono a conoscenza, quasi nessuno lo utilizza. Le vicende di questo popolo, storicamente di musicisti, allevatori e giostrai, sono, da che si ha memoria, drammaticamente travagliate: cacciati via da mezzo mondo, si sono sparpagliati e nel tempo stanziati in molti di quei paesi che troppo spesso si erano dimostrati (e si continueranno a dimostrare) ostili nei loro confronti. Originari della continente asiatico hanno deciso di stanziarsi al di là degli Urali: le regioni dell’Europa orientale e quelle della penisola iberica sono state le mete predilette; è in questi luoghi che ancora oggi ne troviamo una maggiore concentrazione e, come confermano gli eventi più recenti, una maggiore sensibilità al problema della loro difficoltosa integrazione. In Spagna molti passi avanti sono stati fatti e molti se ne stanno facendo. Ne è prova lampante la Catalogna, la regione spagnola a maggiore concentrazione di romanì, la quale da tempo ha avviato il programma Prolloguer, destinato a sostenere tutti coloro che subiscono discriminazioni, attraverso l’acquisto e la ristrutturazione di appartamenti vuoti per affittarli a tali gruppi “socialmente svantaggiati”.La stessa comunità di Madrid non è certamente rimasta a guardare: dal 1999, infatti, si è intrapresa la strada delineata nel programma “APOI” che prevede un percorso di inserimento a favore delle minoranze etniche dell’Europa dell’est, mentre per il 2006-2008 è stato varato il Piano regionale di integrazione che destina oltre 4400 milioni di euro alla risoluzione dei conflitti e delle divergenze socio-culturali dei popoli

che convivono in questo Paese. Lo Stato spagnolo, consapevole della sua storia di ineguaglianza,negli anni rafforzata dall’emarginazione sociale, ha scelto oggi l’integrazione quale parola d’ordine. Il suo significato è la creazione di relazioni meno tese tra gruppi che devono imparare a convivere ed essa deve realizzarsi quale garanzia dell’effettiva possibilità per tutti di avere uguali opportunità. L’abissale divergenza della direzione imboccata dalla politica italiana non mi consente purtroppo di esimermi dal riflettere: nel nostro Paese lo zingaro, il nomade, poco importa se cittadino italiano, resta lo “straniero” soggetto ad esclusione; sfugge alla nostra comprensione (dati UE alla mano) l’esistenza di un vasto mondo di “rom” che vive di attività legali. E così mentre a Madrid si tenta di garantire agli immigrati accesso gratuito al sistema d’istruzione e al sistema sanitario alle stesse condizioni degli altri madrileni, in Italia di fatto i passi indietro in tale ambito sono ogni giorno più evidenti. Quando si ragiona sulle cause della mancata integrazione dei romanì è quasi inevitabile che il discorso si focalizzi sulle differenze culturali e sul particolare stile di vita di queste comunità, quello che però ci si dovrebbe chiedere è se tali argomenti possano realmente fornire da giustificazione a secoli di persecuzioni e di sterminio. Certo è che questa stessa cultura è troppo spesso giudicata e altrettanto spesso oscura. E’ vero: è uno strano popolo quello dei romanì per noi che non lo conosciamo; popolo diverso per noi che con tanta facilità lo condanniamo e forse proprio per questo popolo a cui la sorte ha riservato uno strano, triste, destino. Flavia Romiti


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Se con il programma Prolloquer il governo di Madrid ha compiuto passi da gigante sul cammino dell’integrazione Rom, lo stesso non può dirsi, purtroppo, per quanto riguarda quella dei Marocchini. Sebbene la Spagna sia, subito dopo la Francia,la meta prediletta da questi emigranti (oggi presenti in circa 33.000), la posizione del Paese risulta essere sfavorevole, se non addirittura ostile, al loro inserimento. Ne è prova quanto avvenuto lo scorso febbraio a Madrid: gli agenti di polizia nazionale stavano applicando da alcuni mesi nuove disposizioni in merito al numero degli arresti da eseguire ai danni di immigrati irregolari. Si parla di “tetto minimo settimanale” di arresti per ogni singolo distretto spagnolo. Una linea politica che sembra risalire direttamente al contenuto di un documento relativo a una riunione dello scorso 12 novembre e trasmesso al commissariato di Villa de

Vallacas, che, nel caso specifico, avrebbe dovuto presentare trentacinque arresti a settimana e, qualora non avesse raggiunto detto numero, perseguire la ricerca al di fuori della propria giurisdizione. Trentacinque arresti/una settimana/un distretto; chi non ci riesce passa ad un altro: sembrano quasi le regole di un gioco. Eppure stiamo parlando di persone. Difficile a credersi. Non a caso, lo scorso 16 febbraio, Atime, associazione sindacale che si occupa dei diritti dei lavoratori immigrati marocchini residenti in Spagna, ha denunciato episodi di violente operazioni poliziesche, soprattutto a Madrid e Valencia, richiedendo spiegazioni al Ministro degli Interni, Alfredo Pèrez Rubacalba. Nocciolo della questione è: perché i Marocchini? Pronto a scagionarsi da ogni responsabilità, il Ministro ha precisato di non aver fatto alcun riferimento a detta popolazione, nel citato documento del 12 novembre, essendosi limitato a parlare di “diminuzione quantitativa del tasso di delinquenza”. Dubbiose, in merito, le sigle sindacali della polizia spagnola, Sup, Cep, Ufp, e Spp che additano a Rubacalba la responsabilità di quanto avvenuto a Madrid. Il Ministro avrebbe, a loro avviso, indicato il

Marocco come prioritario, dato che il rimpatrio, via terra, era evidentemente più facile ed economico. D’altronde risulta difficile pensare che gli agenti di polizia nazionale, un bel giorno, si siano svegliati e abbiano, propria sponte, deciso di arrestare gli immigrati marocchini, invece degli altri. L’intervento del governo non può che essere la necessaria premessa di questa assurda pratica. Lungi dalle floride aspettative di Zapatero, l’integrazione-immigrati non procede a gonfie vele. Almeno non per tutti gli immigrati. “Dobbiamo promuovere formule nuove che incentivino gli immigrati che possano perdere il lavoro nei prossimi mesi a tornare a casa. La capitalizzazione del salario di disoccupazione che abbiano guadagnato oppure la concessione di micro-crediti sono le vie che l’esecutivo esploderà immediatamente”. Queste le parole del premier socialista, all’indomani delle legislative dello scorso 9 marzo. Bene: con i Rom ci siamo. E con i Marocchini, come la mettiamo? Una progetto d’integrazione a geometria variabile, potremmo definirlo, quello spagnolo. O, se più ci piace, à la carte.

Clara della Valle

Il glocalismo dei gitani Microcosmo e metafora dell’intera umanità, il popolo gitano da più di mille anni vaga per il mondo. Non sa da dove viene, né sa dove sta andando. Tanti nomi ha avuto, eppure nessuna patria. Dappertutto i gitani sono disseminati, ovunque hanno lasciato tracce, sempre hanno suscitato perplessità: così diversi, instabili. Riuniti in piccoli gruppi difficilmente compatibili con le strutture e le regole sociali delle grandi civiltà, queste popolazioni nomadi hanno dovuto affrontare espulsioni, repressioni, stermini. Questo triste destino sembra non abbandonare mai gli zingari, quelli dei campi Rom. La refrattarietà ad accettare le regole delle società con cui entrano in contatto condanna i gitani all’emarginazione e all’esclusione dalle stesse, e li espone al fenomeno di una diffidenza che sa di razzismo, che porta ad etichettarli negativamente. C’è sempre il rischio che siano visti come il capro espiatorio di quanto non funziona o non va bene nella società. Si pensi all’Italia, al modo in cui il Rom è divenuto emblema di quanto è pericoloso e violento, alle misure ben poco rassicuranti

proposte dai politici, alle schedature tramite impronte digitali degli zingari, anche bambini. D’altro canto, nell’immaginario collettivo continua a sopravvivere il mito dei gitani come <<la tribù profetica dalle pupille ardenti>> (Baudelaire), popolo portatore di una creatività atavica. Le danze sensuali e coinvolgenti delle zingare ancora vivono attraverso il flamenco, le musiche scatenate e i violini zigani ancora risuonano nei locali di Istanbul, i misteri della tradizione gitana ancora affascinano e contribuiscono a creare un’aura di magia intorno a figure quasi leggendarie, come quella della zingara. Il popolo gitano, composito, disperso, ancorato qua e là, all’una o all’altra civiltà, all’una o all’altra religione, sembra essere il primo vero fenomeno glocale. Portatori di una intima identità ed insaziabili viaggiatori, scopritori di nuovi luoghi e modi di pensare, non siamo forse noi, uomini dell’era della globalizzazione, i nuovi zigani? Non siamo forse molto più instabili noi di quanto non lo siano i nomadi degli accampamenti alle periferie delle città?

Nicola Del Medico

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Un’integrazione à la carte

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LA SCELTA DI TEHERAN Al bivio tra teocrazia e riformismo Il grande occhio degli osservatori internazionali è puntato sulla capitale iraniana in pieno fermento per l’approssimarsi delle elezioni presidenziali fissate per il 16 giugno, data cruciale non solo per il paese persiano ma anche per lo scacchiere internazionale, per i rapporti con l’occidente ed in particolare con gli Stati Uniti. Relazioni che, nonostante il cambio di guida politica americana, non sembrano per niente esser migliorate. Obama infatti, viene accusato dai principali vertici iraniani di non aver mai fatto sentire la sua voce durante l’aggressione israeliana contro i palestinesi di Gaza, tema da sempre caro alla politica internazionale di Teheran, tutto ciò nonostante il nuovo inquilino della casa bianca avesse promesso sensibili cambiamenti nelle relazioni mediorientali. Tornando a parlare di elezioni emerge nuovamente il nome di Mohammad Khatami, il riformista che accese, ma anche vanificò, le speranze di apertura tra il 1997 ed il 2005 e che ora sembra deciso a candidarsi alle prossime politiche. Ha dalla sua l’appoggio del mondo mediatico iraniano, dai giornali ai canali televisivi fino a giungere al web, dovei siti che lo sostengono vengono sistematicamente boicottati dal regime. Khatami è sostenuto anche da numerosi intellettuali e dalle giovani generazioni delle metropoli favorevoli a nuove aperture e soprattutto propensi ad appoggiare un nuovo riformismo che possa modernizzare definitivamente l’Iran. Un ulteriore potenziale candidato potrebbe essere Mehdi Karroubi, ex presidente del Parlamento, che può contare sul consenso dell’anziano ayatollah Akbar Hashemi Rafsanjani, punto di riferimento delle èlite economiche e con una grande influenza sulle istituzioni. Piacciono molto agli ambienti occidentali anche Mohammed Baqer Qalibaf, sindaco di Teheran ed ex comandante dei pasadaran (i guardiani della rivoluzione), e Alì Larijani, presidente del Parlamento.

Personaggi questi che tuttavia non sembrano avere lo spessore politico adatto per poter rappresentare un’efficace alternativa al populismo di Mahmoud Ahmadinejad. L’immagine dell’attuale presidente resta forte nelle campagne e fra i ceti più disagiati conquistati dalla causa di un Islam teocratico e dunque strettamente nazionalista. Ahmadinejad, dopo aver rotto tutti i ponti del dialogo con l’occidente, ora fa i conti con una crescente crisi interna che, nonostante l’isolazionismo economico, subisce gravemente il drastico calo del prezzo del petrolio e paga un’inflazione pari al 28% ed un tasso di disoccupazione al 26% che colpisce soprattutto i giovani sempre più precari e sempre più spinti verso piani di emigrazione. Nonostante questo quadro davvero poco roseo, Mahmoud Ahmadinejad nei primi cauti sondaggi filtrati dagli organi di regime, rimane ad oggi il principale favorito alla vittoria delle elezioni del 16 giugno prossimo. Saprà l’Islam rinnovarsi in uno dei suoi Paesi più importanti e quali margini di apertura all’occidente potrebbero esserci in un futuro non troppo lontano? To be contiuned… Andrea Ambrosino Ambrosino84@gmail.com

Dalai Lama compie 50 anni il suo esilio Dopo un anno dal termine dei giochi olimpici Pechino 2008, il Tibet torna a riempire le pagine dei giornali. Il 10 Marzo di questo anno è caduto il 50° anniversario della rivolta indipendentista tibetana del 1959 contro la Cina, il cui fallimento ha portato all'esilio del 14° Dalai Lama e del suo governo. Dall'India il Dalai Lama ha continuato a rivendicare l'indipendenza del Tibet, non solo dal giogo politico della Repubblica Popolare Cinese, ma anche da quello culturale, indirizzato ad annullare del tutto la tradizione e la religione di un popolo, tentativo che lo stesso Dalai Lama ha definito genocidio culturale (distrutti la maggior parte dei templi buddisti, che prima del 1950, anno dell'invasione cinese, erano seimila). Il controllo preventivo sull'anniversario è iniziato già dal 25 Febbraio, l'arresto di 109 monaci tibetani è riportato da Beniamino Natale e Gabriele Barbati, rispettivamente giornalisti dell'Ansa e di Sky, i quali vengono arrestati dalle autorità cinesi e rilasciati solo dopo tre ore, senza spiegazione alcuna sullo stato di fermo. Da li a pochi giorni in Tibet sono giunte truppe di polizia e paramilitari del governo cinese; contemporaneamente, in un'azione già vista parzialmente durante la passate olimpiadi, è stata oscurata la rete internet e bloccati in particolare siti di condivisione video come il celebre youtube. Negata poi la possibilità di utilizzare software come Skype. La

regione è stata chiusa agli stranieri e quelli presenti sono stati espulsi, il tutto per completare la cortina di silenzio costruita dalla Cina nella previsione di rivolte del 10 Marzo. Cortina che pare aver avuto i suoi effetti, le sole informazioni giunte ai giornali europei solo relative alla deportazione di 100 monaci dal monastero di Lutsang e ad azioni degli indipendentisti contro le forze dell'ordine ampiamente spiegate. Il presidente cinese Hu Jintao davanti ai giornalisti della TV di stato ha dichiarato: «Dobbiamo costruire una Grande muraglia nella nostra lotta contro il separatismo e salvaguardare l'unità della madre patria», ha poi ammonito i paesi stranieri a non ospitare il Dalai Lama. Fanno eco a queste parole anche le

affermazioni del primo ministro, Wen Jibao: «la Cina è disponibile al dialogo se il Tibet rinuncia all'indipendenza». Il governo del Tibet in esilio non è disposto però a mettere in secondo piano il sogno di uno stato libero dal pugno di Pechino (o che almeno goda di un certo livello di autonomia) e il Dalai Lama replica, dal suo sito, la fiducia nel vederlo realizzato: «sono ottimista sul fatto che tornerò in Tibet»; la sua fiducia è basata sul percorso politico della Cina che sta uscendo dall'isolazionismo, l'avvicinarsi alla comunità mondiale porterà, secondo un suo parere, ad una revisione delle politiche verso il Tibet. Il massimo esponente del Buddismo tibetano dimostra di essere il vertice del movimento indipendentista, e il governo cinese sembra confidare nel fatto che la morte del Dalai Lama, quasi 74enne, e politiche di sviluppo economico per la regione del Tibet, potranno portare in futuro al tramonto delle richieste di autonomia. Da qui l'idea che Tenzin Gyatso possa essere l'ultimo Dalai Lama o che a lui ne succeda uno nominato dal Governo di Pechino, investitosi di tale diritto. Anche qui il Dalai Lama risponde alle domande dal suo sito, assicurando che dovrà essere il popolo tibetano, e non altri, a designare, se ritenuto necessario, il suo successore.

Addario Gianfranco


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Crisi economica: terremoto Sony Terremoto al vertice della Sony: il direttore generale Ryoji Chubachi lascerà l'incarico ad aprile mentre le relative deleghe saranno prese da Howard Stringer, attualmente già amministratore delegato e presidente. La compagnia è alle prese con gli effetti della crisi economica che, insieme all'apprezzamento dello yen, hanno causato una perdita operativa record di 260 miliardi di yen alla chiusura dell'esercizio in corso, al 31 marzo. Anche per questo, Sony ha dichiarato di voler radicalmente rinnovare le attività dell’elettronica e dei giochi attraverso una gestione capace di aumentarne redditività e competitività. Stinger ha commentato che questa riorganizzazione è stata organizzata per trasformare Sony in una società più innovativa, integrata e agile, “ Le novità “renderanno ora possibile a tutte le parti della società di lavorare insieme per assumere una posizione di leadership a livello mondiale e, allo stesso tempo, realizzando grandi cose”. Il rimpasto al vertice di Sony segue quello deciso da altre imprese giapponesi come Toyota e Honda, nell’ambito degli sforzi per rimettere in piedi le attività e i conti messi a dura prova dalla crisi economica. Parallelamente alla modifica della struttura dirigenziale, Sony interverrà con una riduzione dei costi di 3 miliardi di euro nel corso del prossimo anno fiscale, che si chiuderà a marzo 2010. Si tratta di un taglio più ampio di quello da 2,5 miliardi previsto inizialmente. Invertendo la posizione degli addendi il prodotto non cambia. O meglio, stando alla disastrosa situazione di Sony, rischia di non cambiare. Sony ha annunciato la possibilità di tagliare circa 16.000 posti di lavoro entro Aprile 2010, a seguito di un importante calo degli investimenti (30% circa),

che servirà a colmare l’attuale situazione deficitaria dell’azienda. Chiuderà, inoltre, due dei suoi stabilimenti europei, tra i quali il Dax Technology Center in Francia, con l’obiettivo di ridurre del 10% il suo volume produttivo, in particolare nei settori dei televisori LCD e dei cellulari. Con questo piano di ristrutturazione, Sony prevede di risparmiare 100 miliardi di yen (855 milioni di euro) entro marzo 2010, i 16.000 posti in bilico rappresentano il 10% dei suoi 160.000 posti, attuali, nel settore. Proprio in Francia è esplosa la protesta. L’amministratore delegato di SonyFrance, Serge Foucher, è stato trattenuto dai suoi dipendenti all’ interno dell’impianto di Pontnox-sur-l’Adour, nel sud ovest della Francia. L’amministratore delegato e diversi altri dirigenti Sony sono rimasti bloccati nell'impianto tutta la notte e sono stati rilasciati a metà mattina, dopo che lo staff, che ha chiuso la strada di accesso all'impianto con tre tronchi, ha ottenuto garanzie per un nuovo round di negoziati. I rappresentanti dei sindacati hanno detto che la loro

azione è stato l'unico modo per far riprendere le trattative sul pacchetto per il licenziamento, non abbastanza generoso. I salariati sono mobilitati in una protesta contro i licenziamenti previsti in seguito alla chiusura della fabbrica. A Pontonx-sur-l'Adour, l'impianto di Sony che impiega 311 lavoratori dovrebbe chiudere il 17 aprile. La visita di Foucher era l'ultima alla struttura prima della chiusura. Sony aveva preso in considerazione l'idea di convertire l'impianto dalla produzione di componenti magnetici a quella di pannelli solari, ma ha abbandonato il progetto, facendo infuriare i lavoratori che speravano di mantenere il posto. Gli animi si stanno scaldando in tutta la Francia, colpita come altri paesi da un'ondata di chiusure di stabilimenti e licenziamenti di massa a causa della crisi economica globale. Sarebbe stato impensabile che una multinazionale come Sony uscisse indenne dalla grave crisi economica di questi ultimi mesi; né tuttavia ci si poteva aspettare effetti così devastanti per il colosso nipponico. Nikkei Net Interactive, il canale online della società di gestione del principale indice tecnologico della Borsa giapponese, ha infatti rivelato che Sony, per l’anno 2008, sarebbe incorsa in un deficit operativo pari a 1,1miliardi di dollari. Si tratta del primo risultato annuale negativo negli ultimi 14 anni e solo il secondo da quando la società è stata ammessa alla quotazione in Borsa nel 1958; la società ha dichiarato di voler preservare il proprio core business (attinente al settore dell’elettronica), riducendo la propria operatività nelle gestioni accessorie. Valentina Vignoli valentina.vignoli@gmail.com

Sunday, bloody Sunday: how long, how long must we sing this song? Torna il terrore nell’Irlanda del Nord: l’IRA colpisce ancora. Risulta attualmente poco rassicurante la situazione nord-irlandese, che mette a dura prova il processo di pace avviatosi nel settembre 1998 tra Gran Bretagna e la suddetta fazione irlandese. La sera del 7 marzo 2009, infatti, si è riacceso l’antico dissidio fra estremisti repubblicani e protestanti inglesi con un attentato verificatosi davanti alla base di Massereene. Secondo i media locali, uomini armati di mitra avrebbero aperto il fuoco da un taxi in corsa contro dei soldati che prendevano una pizza, uccidendone due e ferendone altri quattro. L’allarme era in realtà già stato diffuso da parte del capo della polizia dell’Ulster che aveva denunciato un livello di pericolosità fra i più alti dell’ultimo decennio. L’Ira torna così a colpire, troncando quella condizione di pace che sembrava ormai essersi stabilita. Le violenze, però, non sono cessate dopo il singolo attentato e quarantotto ore dopo viene ucciso un altro poliziotto nella contea di Armah. Gli atti terroristici sono stati rivendicati da “Continuity Ira” e dalla “Real Ira”, che per il trentennio precedente al “Good Friday” stipulato appunto nel 1998, avevano insanguinato l’Ulster. Escludendo infatti l’isolata violenza avvenuta nel 2007 da un gruppo minoritario dell’Ira nei confronti di due poliziotti britannici ed altri sporadici episodi, non si registravano spargimenti di sangue dal nodale 1998, quando si stipulò l’accordo di pace del “Venerdì santo”, in seguito all’attentato al mercato di Omagh che costò la vita di ben trentanove persone e il ferimento di decine di innocenti. La brutalità e la durezza degli scontri era infatti degenerata, costringendo così i civili ad una vita di terrore e di continua tensione. La reazione del premier britannico Gordon Brown è stata però forte e decisa, ha affermato infatti che questi avvenimenti non mineranno la

sicurezza della popolazione nord-irlandese, né faranno deragliare il promettente processo di pace che porterà avanti il suo svolgimento anche attraverso l’intensificazione di controlli e verifiche da parte dell’Intelligence inglese. Secondo notizie non ancora verificate, sarebbero circa 300 i dissidenti repubblicani dell’Ira che stanno minacciando la stabilità raggiunta in passato. La polizia irlandese ha per il momento annunciato di aver arrestato tre uomini accusati di aver compiuto l’attentato, fra cui Colin Duffy, già detenuto in passato per la sua appartenenza all’Ira da cui sembrava essersi dissociato per alcuni contrasti con altri leader del gruppo. Ma i membri dell’Ulster Defence Assosiacion, l’organizzazione paramilitare unionista che si contrappone ai Repubblicani, afferma che non cederà alle provocazioni di “un gruppo sparuto di irriducibili” proprio per non minare quella sicurezza e quella stabilità che dopo numerosi tentativi e difficili approcci si era riusciti a realizzare. Sono proprio i civili – affermano – a chiedere loro aiuto, pregandoli di non essere costretti a rivivere gli anni dei cosiddetti Troubles, che pur non avendo vissuto in prima persona, hanno percepito sulla propria pelle attraverso i racconti dei familiari, ben coscienti che quell’orrore non potrà portare nulla di buono né ai cattolici né ai protestanti. Gli irlandesi sono infatti scesi in piazza l’11 marzo, manifestando a favore della pace, contro gli omicidi e le brutalità commesse negli ultimi giorni, sotto suggerimento dei sindacati. A Belfast, più di diecimila persone hanno infatti partecipato al corteo silenzioso organizzato per l’ora di pranzo, per rivendicare il loro diritto di vivere in un’Irlanda serena e pacifica. Alessandra Micelli

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La multinazionale minaccia il taglio di 16.000 posti di lavoro

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Genocidio osservato

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Madagascar

Perché alla comunità internazionale sono legate le mani nel conflitto del Darfur Dal 2003 il Darfur, provincia nel ovest del Sudan confinante con il Ciad, è luogo di un feroce conflitto che per la maggior parte risale al suo presidente Al Baschir. Questo comporta oltre alle difficoltà politiche gravissime repressioni per la popolazione civile. Anche il mandato di arresto del presidente Al Baschir della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità non ha dato una decisiva svolta nella vicenda. Dunque è legittimo chiedersi come mai il potere delle Nazione Unite non raggiunge questo criminale? Che cosa abbiamo in mano se non le date di migliaia di morti e uccisi, non parlando dei feriti? Pare veramente che qui ci resta poca scelta. Innanzitutto ora si deve contare sugli “alleati” del Sudan, come la Cina, che è importatore di petrolio sudanese o anche i paesi vicini come l’Egitto che dovrebbero sollecitare Khartum a non effettuare punizioni contro profughi sudanesi e volontari delle Ong. Ma dal lato della speranza si ha che l’opposizione è sempre più favorevole a un cambio di rotta e questo potrebbe portare alla fine del tiranne. Fino ad ora le carte in mano ha ovviamente Al Baschir e questo lo dimostra ampiamente, ultimamente con la scarcerazione di Turabi, prima suo alleato, ora tra i più ferrei oppositori. Cosi da un lato calma l’opposizione interna e dall’ altro lancia un'altra sfida alla Corte Penale Internazionale. Come già accennato oltre agli

Escape from Africa?

scontri politici nel Sudan, il Darfur sta subendo una vera crisi umanitaria. Secondo una stima delle Nazione Unite circa 2,7 milioni di persone vivono nei campi sparsi per regione più sicure come il paese confinante Ciad. Sono appunto in moltissimi, sprattutoo bambini e donne, cacciati dai loro paesi, che sono stati distrutti dalle milizie sostenute dal presidente. Ora vivono in baracche semplicissime con appena abbastanza per sopravivere, grazie alle organizzazioni internazionali. Ma se queste non sono più tollerate dal governo? Sempre più spesso vengono presi in ostaggio, anche a causa dei loro atrezzi che possono essere utili alle truppe minaciose. Fortunatamente gli ultimi ostaggi di Medici senza frontiere, caturate dalle milizie, sono stati liberati. Con gli ultima avvenimenti, quando il presidente ha cacciato le organizzazioni internazionali come medici senza frontiere e le Nazione Unite e molti altri, la situazione si è azzardata ancora di più. Cosi la tensione è sempre alta e con ansia aspettiamo le prossime notizie su una regione spesso dimenticata ma dove paura e timore sono al ordine del giorno. Robert Mair mairob1@hotmail.com

587.041 chilometri quadrati, circondato dall’Oceano Indiano a largo delle coste della vicina Africa, il Monzambico è il suo dirimpettaio . Questo è il Madagascar. Stato insulare staccatosi circa 140 milioni di anni fa dal supercontinente di Gondwana , esso è habitat naturale della rarissima specie animale dei lemuri (dal lat. “Spiriti della notte”) che forse alcuni di voi conosceranno grazie al bizzarro re del celebre cartone animato “Madagascar”. Le attuali etnie malgascie, discendenti dai coloni arabi che per primi scoprirono l’isola,praticano la religione islamica. Anche Marco Polo parla dell’isola nel suo Milione. Molti sono i popoli che hanno toccato le sponde malgascie e che hanno bagnato di sangue la terra immersa nell’Oceano Indiano ma oggi parliamo di questo paradiso naturale per le ultime vicende politiche che hanno scritto la storia, ignota ma non per questo poco ricca, del Madagascar. A partire dagli anni’50 la Francia, che nel 1890 aveva dichiarato l’isola un suo protettorato, comincia una serie di riforme che danno la possibilità al Madagascar di intraprendere la strada dell’indipendenza che viene definitivamente raggiunta nel 1960. Dopo il primo presidente,Tsiranana, il potere passa nelle mani di Didier Ratsiraka che instaura un regime di indirizzo filo-sovietico. Solo negli anni ’80 , a causa della crisi economica e dell’isolamento internazionale, Ratsiraka comincia un lento declino che lo porta a dover modificare la sua politica fino a giungere nel 1993 alle prime elezioni multi-partitiche. L’ex dittatore e il suo avversario,Albert Zafon, si alterneranno fino al 2001 al governo malgascio. Il 2001 vede come protagonisti delle nuove elezioni il veterano Ratsiraka contrapposto all’allora cinquantaduenne Marc Ravalomamana, ex sindaco della capitale del Madagascar Antananarivo. A seguito di accuse di brogli viene dichiarato vincitore Ravalomamana, il quale conosce un grande sostegno popolare. Nonostante ciò la comunità internazionale non riconosce inizialmente la vittoria del ex sindaco il quale dovrà dunque servirsi dell’aiuto diplomatico del presidente senegalese Abdoulaye Wade. Si vocifera anche di un presunto accordo segreto tra l’ex dittatore e il nuovo inquilino della

casa presidenziale per una divisione del potere di cui però non trapelano indiscrezioni. Il motto del nuovo presidente è “contro la povertà” e molte sono le riforme attuate per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del Paese tra cui la riforma agraria, la riforma scolastica e la riforma fiscale. La permanenza al governo di Ravalomamana , tortuosa e ostacolata fin dal principio, diventa a partire dal 2006 ancora più labile. Infatti Andry Rajoelina , contestatore delle politiche autocratiche del presidente, cavalca l’ondata di malcontenti ingigantiti anche dalla morsa della crisi economica, capeggiando un movimento popolare di protesta . Sabato 9 febbraio 2009 è il punto culminante della protesta. La folla ribelle organizza una manifestazione che si spinge fino alla residenza di Ravalomamana. E’ allora che la guardia presidenziale apre il fuoco sul corteo che non ha manifestato ancora nessuna forma di violenza, uccidendo circa 40 persone e ferendone altre 350. Questo è quello che passerà alla storia del Madagascar come il “Sabato Nero”.Nero forse per l’uso indiscriminato della forza,che il popolo delega allo Stato e di cui questo talvolta abusa. Da questo momento in poi la situazione non fa che aggravarsi. A nulla servirà l’appello del nunzio vaticano che indicherà <<la democrazia come unica via percorribile per la risoluzione dei conflitti>>.Neanche la diplomazia avrà alcun effetto. Il 17 marzo 2009 il presidente Ravalomamana rassegna le dimissioni. Si compirà così l’ennesimo colpo di stato della storia, in barba a qualunque propaganda, vera o fittizia, della democrazia che noi, figli della cultura d’Occidente, propiniamo in giro per il mondo. Il Madagascar è stato sull’orlo di una guerra civile sfiorata e non raggiunta “grazie”al buon esito di un colpo di stato e mentre ciò accadeva i media europei tacevano,forse non lo consideravano rilevante? Un dato può aiutare la riflessione: durante l’intero 2005, anno di punta del conflitto nel Darfur, i media italiani hanno dedicato una sola ora di informazione al conflitto. Irrilevante?

Mariastella Ruvolo

PAKISTAN “The Land” Four Provinces: Balochistan is the largest province covering 43.6 per cent area whereas Punjab is second with 25.8 percent, Sindh third with 17.7 percent area and NWFP fourth with 9.4 per cent area. The total approx population of Pakistan is 160 million. Land of Splendors: The scenery changes northward from coastal beaches, logons and mangrove swamps in the south to sandy deserts, desolate plateaus, fertile plains, dissected upland in the middle and high mountains with beautiful valleys, snow-covered peaks and eternal glaciers in the north. The variety of landscape divides Pakistan into following major regions; 1) North High Mountainous Region, 2) Western Low Mountainous Region, 3) Balochistan Plateau, 4) Potohar Uplands and 5) Punjab & Sindh Plains. Seasons of Pakistan: The four well-marked seasons in Pakistan are:(i) WINTER or Cold season (December to March). Average minimum and maximum temperatures are 4C° and 18C°. (ii) SUMMER or Hot season (April to June). The temperature soars to 40C° and beyond. (iii) SPRING or Monsoon season

(July to September) rainy season. (iv) AUTUMN or PostMonsoon season (October and November). The maximum temperature is of the order of 34C° to 37C° all over Pakistan, while the nights are fairly cool with the minimum temperature around 16C°. Geographical Importance: Geographically Pakistan is located on a very important point and is surrounded by the most important nations of the world like Russia, India, Iran and China. Pakistan is located in south Asia. It is bounded to the west by Iran, to east by India, to the north by Afghanistan and to the south by the Arabian Sea. In the north Pakistan is separated from Tajikistan by a narrow strip of Afghan Territory. Pakistan shared 1,610 Km long border with India, 585 Km border with China, 2,252 km border with Afghanistan and 805 Km border with great republic of Iran. Pakistan covers area of 796,096 sq km. Baluchistan is the largest province covering 43.6 per cent area whereas Punjab is second with 25.8 percent, Sindh third with 17.7 percent area and NWFP fourth with 9.4 per cent area. The total approx population of Pakistan is 160 million. Strategic Importance: Geographical location of Pakistan not only gives us the opportunity to get trade benefits and

short transportation routes to the important countries of the world, but it also make it strategically one of the important nations in the world. It is surrounded by world super powers like Russia, Iran and China. The friendship with China and as a Muslim country brotherhood with Iran and participation in the war against terrorism makes it strategically even more important nation of the world. The endeavors and interest of world super powers in the region also make this country one of the most important nation of the world. Cold War Between Russia & USA: The cold war between Russia and USA also does affect the internal and external strategies and relation with different nations of the world from the very first day. Pakistan relations with USSR could not get to flying start in early fifties because Liaquat ali Khan turned down Soviet Union invitation and instead in 1950 paid state visit to USA. The cold war between Russia and USA also does effect the relations of Pakistan with neighboring countries. Kashif Khan


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La nostra resurrezione Cogitanda - Aprile 2009

Lo u c c i s e ro e d e ra n o i n t re, avevano: gli occhi dell’Invidia, l e m a n i d e l l a Vi o l e n z a , i l v o l t o d e l l ’ O d i o… Lo u c c i s e ro e d e ra n o i n t re, p e rc h é : d e l l a s u a m e n t e e b b e ro p a u ra d e l s u o c u o re e b b e ro p a u ra d e l s u o a n i m o e b b e ro p a u ra […] d e l l a s u a p a ro l a e b b e ro s o p ra t t u t t o p a u ra ! […] Lo r i t ro v a ro n o e d e ra n o i n t re, avevano: gli occhi della Fede i l c u o re d e l l ’A m o re i l v o l t o d e l l a S p e ra n z a , l o p re s e ro t e n e ra m e n t e p e r l e m a n i e l o s o l l e v a ro n o q u a n d o g i à i n e r t e, a d a g i a t o n e l l a r i c c h e z z a d e l l a Te r ra p u t re f a t t o, c o r ro s o e d e c a d e n t e s e m b ra v a l ’i m m a g i n e d i u n o d e i t a n t i u o m i n i r i f l e s s a n e l l o s p e c c h i o d e l m o n d o.

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[…] Alessandro Giorgio Giannini

Le parole di Giannini ci riportano l’atmosfera di “Non al denaro, non all’amore né al cielo” di De Andrè: “Lei disse ridendo/ l’ultima tua prova sarà la morte”. L’eterno conflitto è qui l’eterno ritorno (come dice Morgan: “io/ un tempo era semplice/ ma ho sprecato tutta l’energia/ per il ritorno”) di nietzschiana memoria: “In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte”. Come Uroboro, il serpente che si morde la coda, caro alla simbologia esoterica, siamo condannati alla ripetizione standardizzata di azioni, parole ed avvenimenti, alle solite malvagità, traversie, contrarietà, senza mai avere la possibilità di aggiungere un tocco nuovo, diverso, personale, all’esistenza. La filosofia dell’eterno ritorno sostiene che solo tagliando i ponti col passato ci verrebbe concessa quella possibilità, ma questa situazione ci porterebbe solo a dimenticarci, e a vivere un presente troppo fugace perché immediatamente proiettato sul futuro: davvero troppo per un essere umano. Questa dialettica ha ispirato la Pop Art e il Dada: l’una rappresenta il passaggio dalla bellezza classica alla modernità decadente ed urbana, l’altro traspone un oggetto da un contesto ad un altro, al limite del concettuale. In entrambi i casi si arriva ad un risultato attraverso un conflitto: tra il vecchio e il nuovo, tra la sala da bagno e la sala da ballo. In mezzo c’è un intervallo, una pausa di riflessione più o meno lunga, silenziosa ma dinamica, caotica: l’attimo. “Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti è un'altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’.” (Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Nello specchio del mondo siamo riflessi; tutti, quelli che vanno e quelli che restano, quelli che combattono e quelli che si prostrano, quelli che uccidono e quelli che salvano, quelli che ridono e quelli che piangono. In bilico tra bene e male, vecchiaia e giovinezza, amore e odio, diventiamo i vincitori e i vinti di un unico perpetuo conflitto. La pace perpetua di kantiana memoria è così al culmine del

nostro percorso e solo quando la strada non sarà più in salita lo specchio rifletterà la luce dell’armonia. Il conflitto è innanzitutto quello dentro di noi che da bambini diventiamo adulti, attraversando il lago ghiacciato del cambiamento. Stadio della dialettica hegeliana, evolversi esistenziale delle circostanze, caso, destino?.....non è la forma che incide la sostanza. Un uomo in eterno e forse inconsapevole scontro con se stesso come può vivere pacificamente con gli altri? Il conflitto, così, assume dimensioni transumane, si amplifica, spesso giustificato da falsi ideali, chimere del passato. Quando, però, il bene comune prevale su quello dei singoli, che siano individui, enti o stati è là che la legge morale ci rende fratelli. Ma l’uomo non tace la sua indole, così la sete di potere è in grado di stravolgere ogni accordo e ciò che rende stabile l’unione non è altro che l’odio più forte per un nemico comune. “Panta rei” dice Eraclito, tutto scorre infatti nel grande fiume dell’umanità: troppo spesso si dimentica o si è convinti di aver dimenticato, così che ciò che è stato, nel tempo svanisce e non è più monito per percorrere un ulteriore scalino del nostro cammino. Quando un epoca è trascorsa “la nottola di Minerva spicca il suo volo sul far del crepuscolo” ed è allora che memori e non più dimentichi, che agguerriti e non più lascivi gli uomini devono oltrepassare il conflitto per raggiungere il vero motore del mondo: il cambiamento. Perché è la stessa epoca che formula i presupposti per il suo superamento. Se questo oggi fosse veramente applicato sapremmo fare buon uso degli strumenti a noi concessi, se questo oggi fosse veramente applicato la meta da raggiungere sarebbe ben più alta, se questo oggi fosse veramente applicato la pace perpetua non sarebbe più una vacillante utopia.

Giulia Gianni Elisabetta Rapisarda cogitanda@alice.it


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Cogitanda - Aprile 2009

Concordia discordantium rerum?

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Battaglie introspettive e dissidi esterni

Ogni giorno siamo chiamati a delle sfide, a delle scelte. Ogni giorno ci si presentano delle situazioni sempre diverse che dobbiamo risolvere o che comunque ci impegnano, ci fanno cambiare umore, ci destabilizzano in quanto frutto di conflitti interiori che fanno scontrare il nostro piccolo “mondo interiore”, rassicurante, puro, incontaminato, con le ambiguità esterne; essi rappresentano l’equivalente di una “carica vitale” che ci permette di metterci in gioco e di completarci mediante paragoni e confronti continui. Senza sfide non si cresce; senza scontri e cicatrici non potremmo costruire la nostra esperienza. La letteratura ne è prova. E’ proprio con questo strumento, con il combinare anche confusionario e farraginoso di lettere, con la creazione di parole, che l’uomo vuole dar voce ai suoi dissidi, alle sue paure, dando vita, forza ai termini e ricollegando a sensazioni e situazioni quei brevi segni tracciati sulla carta. Il miglior esempio di questo incontro di tendenze lo si trova in Goethe, nelle epistole del giovane Werther, confessioni liriche di battaglie di valori e sentimenti intrise di magiche e dolci effusioni sentimentali. Vengono raccontati non personaggi eccezionali, ma ricchi di drammi interiori che si legano ad un preciso ambiente storico-sociale. Ed è proprio insieme a Werther che possiamo capire l’eterna discordia. Tramite l’Amore abbiamo una totale immersione nel contrasto tra felicità e frustrazione, possibile e irrealizzabile, tra la razionalità propria della mente e del mondo circostante e l’irrazionalità dell’Amore, creatura del cuore, sentimento incomprensibile che invade il corpo e distrug-

ge la volontà e che illumina di una luce ultraterrena la tanto desiderata Lotte e che segnerà il destino del nostro protagonista. Attraverso queste epistole siamo immersi nell’ingenuità e nella purezza dell’animo di Werther che si trova irreparabilmente opposta al senso di responsabilità che egli ha nei confronti del reale compagno di Lotte, Albert.Una responsabilità che deve esistere e che invale nel contesto in cui ci troviamo, borghese e conformista. Questo capolavoro rappresenta l’emblema dei contrasti dai quali ogni essere umano è travolto. Tutta la nostra vita è fatta di opposti, di conflitti, di discrepanze che vanno sanate per stabilire un nostro equilibrio. Lo scopo è sempre lo stesso: raggiungere il benessere, arrivare alla concordia, alla catarsi finale. Conflitto per giungere ad una soluzione; opposti per arrivare ad un unicum. Ma il problema è: la soluzione ci renderà soddisfatti? Ci permetterà di riuscire ad abbattere tutte quelle barriere che impediscono la nostra evoluzione, la nostra crescita? Bisognerebbe abbattere quel muro che divide la nostra interiorità dal mondo esterno anche se questo molto spesso comporta l’estraneazione dalla società, unita e conforme ad un'unica linea di pensiero. Bisognerebbe avere più coraggio, e non adeguarsi al consenso generale. Continuiamo a combattere.

Fiorenza Marin

SOSTIENE ANTIGONE Sostiene Antigone che esistano leggi non scritte, che non sono né di oggi né di ieri, leggi immutabili che pretendono di non essere contraddette dai decreti degli uomini. Tesi interessante quest’ultima. Se non fosse che proprio in ossequio a questo Diritto di Antigone le donne di almeno 28 paesi dell’Africa sub-shariana chiedono e ottengono ogni giorno di essere sottoposte a pratiche di infibulazione o ad altre mutilazioni genitali. Sostiene Antigone che le norme poste dal legislatore non siano sempre giuste. È vero, lo ammetteva anche Kelsen, secondo il quale la giustizia ideale non è contemplata dall’ordinamento giuridico. Ci sarebbe però da chiedersi se anche le leggi non scritte di Antigone siano sempre veramente giuste. Nello scenario desolante da Medioevo post-nucleare descritto da George Orwell in “1984”, non esistono leggi scritte. Tutto è permesso. Niente, apparentemente è proibito. Tranne pensare, se non secondo i dettami del Grande Fratello. Tranne amare, se non con il fine esclusivo di riprodursi. Tranne divertirsi, se non con i programmi televisivi di propaganda. Tranne vivere, se non secondo gli usi e costumi imposti dal Partito. Un universo, in fondo, non molto dissimile da quello che vorrebbe imporre Antigone per mezzo di leggi non scritte che sono sottratte a qualsiasi tipo di controllo e confronto dialettico. Il che appare probabilmente inaccettabile in un ordinamento che osa definirsi “non confessionale”. Sostiene Antigone che dovunque una minoranza levi la sua voce a reclamare giustizia contro le dittature, le intolleranze e le discriminazioni, sia ancora vivo l’eco della sua ribellione contro lo Stato. E tuttavia se in Brecht, Creonte è il tiranno che sostituisce al diritto di Antigone ed a quello della città il nuovo diritto, creato e imposto dalla guerra – ribaltando così la perfetta ambivalenza della costruzione sofoclea – in Jean Anouilh, il dramma del giudice non è meno intenso di quello dell’imputato. Un giudice che avrebbe potuto dire di no, ma che all’improvviso si è sentito come un operaio che rifiutava un lavoro. Non gli è sembrato onesto. Ha detto sì. D’altra parte, come ricorda Creonte, è il mestiere che lo vuole. Quel che si può discutere è se bisogno o non bisogna farlo. Ma se lo so si fa, bisogna farlo in questo modo. Sostiene Antigone che il positivismo della cultura giuridica moderna non ha altro scopo se non quello di rimettere in uso un arnese giustamente abbandonato alla polvere, traendo fuori dai ripostigli del teatro costituzionale il pezzo di scenario più vecchio. Sennonché il positivismo giuridico, quello dei giorni nostri, non certo quello di Jellinek o Laband, in realtà si fonde e si confonde con quella straordinaria idea che i greci hanno chiamato “democrazia”. È la possibilità riconosciuta a tutti i cittadini di concorrere alla formazione della volontà pubblica che impone di rispettare le leggi poste dalle istituzioni rappresentative. Sostiene Antigone che il Diritto non nasca dall’autorità, ma dalla “verità”, dalla coscienza sociale o forse addirittura dalla “ragione”. In attesa che il filone del “neocostituzionalismo” ci spieghi finalmente in cosa consista questa ragione, auspichiamo che anche in Italia finalmente possa arrivare un Creonte in grado di far rispettare le leggi, sia ai cittadini, sia a quelle corti che nel tentativo di sostituirsi al legislatore hanno ridotto in barzelletta la teoria sulla divisione dei poteri cara a Montesquieu. Sostiene Antigone che non c’era altra via alla ribellione contro la polis. Ci piacerebbe crederlo, ma chi scrive continua a ritenere che oggi serva più Socrate di Antigone. Anche la condanna di Socrate è probabilmente giusta, dal momento che egli si era posto contro quell’etica religiosa e politica che l’autorità dell’antica tradizione aveva consacrato. E l’accusa di empietà, che venne affissa al portico del re nel gennaio dell’anno 399 a.C. era accusa assai grave, in quanto essa toccava il senso più vivo della religiosità greca, la quale si identificava con l’anima stessa della polis ed era parte integrante e viva della sua costituzione politica. A differenza di Antigone, tuttavia, Socrate non si ribellò al Diritto della città, ma malgrado la condanna accettò di sottomettersi alla volontà della legge. Socrate, maestro di pensiero, anche in questo, si confermò essere l’ultimo sapiente antico e il primo intellettuale moderno. Morto per ordine del potere, sacrificato dalla città che aveva servito, non fu un martire. La sua morte fu, al contrario, un imprevisto del mestiere. Dopo la condanna, in punta di piedi, tolse il disturbo, lasciando di sé, nell’ultimo istante di vita, un’immagine semplice, una figura di elegante e serena bellezza. Vino vinoekash@alice.it


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U NA CATASTROFE “ RIVOLUZIONARIA” Ansia di realizzazione e tragedia nel film di Mendes

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Uscito nelle sale poco più di un mese fa, Revolutionary Road, pellicola girata da Sam Mendes (già vincitore di numerose statuette con il cult American Beauty) ha suscitato scalpore non tanto per il ritorno all’accoppiata Winslet - Di Caprio dopo il primo incontro sul set di Titanic, quanto per la sconvolgente durezza ed attualità dei suoi contenuti. Lo scenario è l’America produttiva e perbenista degli anni 50’, i protagonisti una giovane coppia borghese alle prese con le paure e le inquietudini di chi si sente diverso e percepisce attorno a se la pesantezza d’un esistenza arida e monotona, un vuoto soffocante che conduce pericolosamente verso una deriva “automizzata”. E’ questo il fulcro da cui si dipanano le ansie e i rancori dei due coniugi, questa la causa delle violente dispute e dei litigi che animano il loro sodalizio (conflitti resi ancor più vividi e reali dall’abilità recitativa degli interpreti), questo il seme avvelenato che condurrà al tragico epilogo col quale calerà il sipario sulle loro esistenze. Il conflitto tratteggiato da Mendes è un qualcosa di diverso dal lancio di una granata o da un faccia a faccia con tanto di

coltelli, ma colpisce gli animi, li fa sussultare, li inaridisce e li svuota di un senso con altrettanta forza devastatrice. E’ un conflitto ansimante ed estenuante che dilania, che lacera, un conflitto che abbruttisce e fa regredire l’uomo ma che opera in maniera più subdola e traditrice, presentandosi sotto le mentite spoglie della ricerca d’un rilancio morale e sociale e dell’ansia d’autenticità e purezza nel tendere verso una propria realizzazione. E qui che si intravede il punto focale della questione. L’uomo non si trova più di fronte ad una lotta per la sopravvivenza bensì ad una società che gli impone modelli di soddisfazione e realizzazione tendenti verso certi e determinati standard. Nei confronti di questa forzatura egli è portato a reagire ma l’uomo che di fronte a ciò non si arrende è in ogni caso un uomo “perduto” e condannato, per il semplice fatto che il miraggio alternativo d’autenticità e purezza che va via via costruendo è oltre modo un miraggio “viziato” e deviato dall’egoismo che lo domina e lo pervade in questa sua ricerca. Un egoismo assoluto, imperante, a tratti inconsapevolmente divinizzato dall’uomo stesso così cocciutamente indirizzato verso il compimento di ciò che crede sia la “sua” realizzazione. Questa nostra debordante e al tempo stesso misera estrinsecazione verso noi stessi (alla fine non siamo, non possiamo essere che ancora noi stessi, è questa la meta verso cui tende questo assurdo ed esuberante rantolo unilaterale) ci porta inevitabilmente a collidere contro la vocazione di chi, al pari di noi, è altrettanto invischiato nella sua viziata ricerca d’autenticità. Da qui il conflitto, lo scontro, la collisione inevitabile e tragica. Un conflitto non armato ma

altrettanto lacerante ed irreversibile perché ciò che sembra mancare all’uomo di Mendes (dal Kevin Spacey di American Beauty fino all’accoppiata Di Caprio – Winslet di Revolutionary Road) è ciò che alla finisce per mancare a ciascuno di noi: la capacità di comprendere l’altro e trovare in esso una propria ragione di vita. I due coniugi di Revolutionary Road osano mettersi in discussione, si scorgono a sfidare una società avara, impersonale e standardizzata percependo il vuoto opprimente fatto di doveri e convenzioni e la miseria di spontaneità che li circondano, ma falliscono altrettanto miseramente nella loro ricerca alternativa proprio perché, invasi da un egoismo e individualismo spietati, finiscono per perdere di vista ciò a cui, nel fondo del proprio cuore, tenevano di più: l’altro. Il tragico epilogo che Mendes consegna al pubblico risulta ancor più straziante dalla sensazione, che non può non avvertire lo spettatore, di un amore profondo e sincero che lega i due protagonisti, un amore che dovrebbe essere il valore trainante e dominante nel dipanarsi delle loro esistenze e che invece essi finiscono per perdere per sempre lacerandolo in conflitti animati dall’egoistica trasfigurazione d’un ansia di realizzazione.

Alessandro Tonutti


Teatro - Aprile 2009

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Il Vic ario, ov vero il rumore del silenzio

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È una notizia che, come molte, importanti dal punto di vista culturale, passa sotto silenzio. Dal 14 al 19 aprile 2009, al Piccolo Eliseo Patron Griffi sarà in scena “Il Vicario”, il testo teatrale di Rolf Hochhuth con la regia di Rosario Tedesco. L’opera, vittima di un ostracismo di matrice politica e religiosa, tratta un tema che è una spina nel fianco per la Chiesa di Roma ovvero i silenzi di Papa Pio XII riguardo al nazismo e l’Olocausto. L’istituzione ecclesiastica infatti, negli anni della seconda guerra mondiale, non prese mai una posizione netta nei confronti degli orrori che si stavano consumando in Europa, preferendo una linea di compromesso e di silenzio, che vedeva da una parte la sottovalutazione del nazismo e dall’altra la volontà di rimanere imparziale, mantenendo però i propri interessi in funzione antibolscevica. Rolf Hochhuth, convinto che “un testo teatrale deve essere breve e aggressivo come una dichiarazione di guerra”, riprende le vicende relative a Papa Pacelli e le trasforma nell’opera teatrale “Il Vicario” nel 1963. La storia si sviluppa intorno ai personaggi di padre Riccardo Fontana, giovane sacerdote della segreteria di stato vaticana che si schiera a favore degli ebrei perseguitati, il Dottore, simbolo del male e delle atrocità di Auschwitz, e il vicario, appunto, Papa Pio XII con il suo silenzio, con la sua incapacità di prendersi le responsabilità del proprio tempo. La prima rappresentazione in Italia di questo testo risale al 1965, quando Carlo Cecchi e Gian Maria Volontè lo portarono in scena presso il circolo “Letture Nuove” a Roma. In quell’occasione la rappresentazione fu subito interrotta e l’opera censurata per 43 anni, fino al 2002 quando il regista Costa Gravas la riprese per la realizza-

zione del film Amen. Nel 2004 l’opera fu ripubblicata per la piccola casa editrice di Porto sant’Elpidio, la Wizartz e in seguito rappresentata nelle Marche da una piccola compagnia teatrale. Mentre fuori dall’Italia il testo è rappresentato in quasi quaranta nazioni ed è letto nelle scuole, da noi questo testo è quasi sconosciuto. La tematica del testo di Hochhuth, gli interrogativi che pone sulla dignità morale di un Papa e del suo apostolato, rimangono in Italia sotto silenzio, o meglio, si evita di parlarne, come accade sempre su temi delicati ma che non fanno prendere voti a nessuno, così che ogni tipo di confronto rimanga tra gli “addetti ai lavori”. Ma Hochhuth afferma con forza il valore civile del teatro, che deve informare, senza aver paura di un’istituzione, come la Chiesa cattolica, che troppo spesso fa prevalere gli interessi umani sulla legge divina. Come è proprio del teatro dai tempi di Euripide, qui non si danno risposte, solo domande, dubbi, che ognuno interiorizza per arrivare ad una propria consapevolezza sui fatti del mondo. E qui arriva la censura, il silenzio. Che serve per “tenere buoni” mantenere un equilibrio, facendo del male ai cittadini, per i quali diventa difficile costruirsi la propria coscienza critica. “Le vittime della censura non sono soltanto i personaggi imbavagliati per evitare che parlino. Sono anche, e soprattutto, milioni di cittadini che non possono più sentire la loro voce per evitare che sappiano”. (Marco Travaglio)

Chiara Cancellario chiara_canc@hotmail.it

Inter vista a ROSARIO TEDESCO regista e interprete de: “Il Vic ario” In vista del ritorno in scena de “Il Vicario”, dramma di Rolf Hochhuth, riportiamo sul nostro giornale l’intervista a Rosario Tedesco, regista che nel mese di maggio porterà in scena lo spettacolo dopo ben 40 anni dalla censura del testo. Come mai è stato possibile ora portare in scena uno spettacolo che per anni è stato costretto al silenzio? Il “Vicario” è un’opera che dal momento della sua creazione, nel 1963, è stata tradotta in più di 40 lingue in tutta Europa. Tuttavia , una volta giunta in Italia e pubblicata dalla Feltrinelli, sopravvisse un solo giorno alla censura. Nel 2004 venne ripubblicata e fu allora che scoprii il testo e decisi di metterlo in scena al Piccolo Eliseo. Nel 2007 mi recai anche a Berlino per incontrare Hochhuth e intervistarlo in modo da ottenere maggiori informazioni da colui che scrisse l’opera che fece tanto scalpore. In che modo avete riadattato il testo (sempre che ce ne sia stato bisogno)? Il testo originale è molto lungo. quando il cast si riunisce per la prima volta affronta la lettura del copione e ricordo che quel giorno impiegammo circa 6 ore! Quindi, sì, l’ho riadattato tagliando alcune parti, ma soprattutto mi sono concentrato su 2 personaggi: padre Riccardo, un prete cristiano e un soldato tedesco. Sono i 2 personaggi più significativi e a cui è riferito il titolo, infatti la parola vicario sta per colui che fa le veci di un altro che gli è superiore di grado. Esistono 2 correnti di pensiero sul silenzio di Papa Pio XII: una che condanna la Santa Sede per non aver preso una posizione durante l’eccidio degli ebrei e un’altra che, al contrario, assolve il Papa perché ritiene che il suo comportamento abbia dato la possibilità di salvarne un gran numero. Come ha rappresen-

tato queste due opinioni discordanti? Non sono entrato nel merito di questo conflitto ideologico, penso che sia fondamentale porre l’attenzione sulla questione della responsabilità. I due protagonisti comprendono che essere uomini non significa indossare una divisa ma prendersi le proprie responsabilità! Considerando che le spiegazioni date dai generali delle SS durante il processo di Norimberga o ad Eichmann alla domanda: perché l’avete fatto, era: perché quelli erano gli ordini, questa è un’opera che invita a ragionare e che pone nello spettatore il dubbio di cosa sia la responsabilità. Tedesco ha inoltre sottolineato che lo spettacolo è nato dal lavoro attento e partecipe di tutto il cast di cui riportiamo i nomi: Cinzia Spanò: dottore Matteo Caccia: ingegnere chimico Marco Foschi: il sacerdote cattolico Annibale Pavone: Pio XII Enrico Roccaforte: abate Rosario Tedesco: ufficiale delle SS Giulia Montuoro giulia.montuoro@tiscali.it


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Crisi: rindirizzare i fondi pubblici? destinata a sovvenzionare la cultura risulta già essere dieci volte inferiore rispetto alla media europea. Nella realtà, su un punto almeno tutti concordano: le regole d’investimento vanno cambiate. Ma la soluzione proposta da Baricco può davvero dirsi la migliore? Il mondo del teatro può davvero sopravvivere senza i soldi dello Stato? E ancora: mentre è inevitabile riscontrare la mancanza di un’educazione musicale e teatrale nelle scuole italiane con le connesse lacune culturali e quindi l’esigenza di agire in tal senso, si può dire altrettanto necessario sovvenzionare una televisione di Stato cui già i contribuenti devolvono annualmente 108€ per un totale prossimo al 50% del budget complessivo Rai? È su questo argomento soprattutto che gli addetti ai lavori si dividono. E a questa situazione fa da sfondo la lenta agonia di tanti piccoli e grandi teatri del nostro Paese, mentre una delle più importanti rassegne teatrali, quella del Maggio Fiorentino, è costretta ad operare tagli al cartellone ed agli stipendi.

Chiara Gasparrini 137821@luiss.it

Morte accidentale di un anarchico “Ben venga lo scandalo; non temiate che nello scandalo sia sommersa l'autorità dello stato: anzi, nello scandalo si erge sempre più solida l'autorità stessa. [...] È la catarsi liberatoria di ogni tensione. E voi giornalisti cosiddetti indipendenti ne siete, come dire, i sacerdoti benemeriti. Il nostro di governo , mi permetta di dirlo, è borbonico e precapitalista: ma lei guardi i governi del nord, gli Stati del Nord, veramente socialdemocratici evoluti, avanzati... . Lo scandalo è lo sterco concimante della socialdemocrazia: le dirò di più, è addirittura l'antidoto contro il peggiore dei veleni, che è la presa di coscienza per la gente. [...] E io voglio vedere arrivare fra diciotto, vent'anni, nel 1987, anche l'88, scoppiare uno scandalo al giorno, all'ora: ministri, gente di direzione, industriali, gente incriminata in tangenti, in furti, una schifezza; tanto che sui giornali fanno più presto a fare la lista dei ministri che quel giorno non hanno rubato.” spiega un Dario Fo vescovo al giornalista incaricato nell'inchiesta sul presunto suicidio involontario dell'anarchico Pinelli, accusato dalla Questura milanese di essere il colpevole della strage di Piazza Fontana del dicembre 1969. In una surreale commedia degli equivoci, rappresentata per la prima volta a Varese nel dicembre 1970 e scritta solo grazie al lungimirante contributo di giornalisti liberi e, paradossalmente, delle menzogne della magistratura, Fo ritrae un'Italia che soffre, imbrigliata nelle catene del pregiudizio politico e culturale, assetata del pettegolezzo come unica fonte di informazione. Una fotografia drammaticamente attuale, che finisce per rappresentare il vero spirito di un'Italietta borghese e benpensante, spregiudicatamente ipocrita e cieca ai richiami di una realtà dura da affrontare. I tre atti di “Morte accidentale di un anarchico” costarono a Fo circa quaranta processi, costringendolo a ricontestualizzare gli avvenimenti in una fredda New York degli anni '20, che si impegna in una crociata politico-culturale contro l'italiano Andrea Salsedo: i capi di accusa sono l'essere anarchico e l'avere avuto legami con Bartolomeo Vanzetti. La passione di Fo, la sua verve e la sua incredibile presenza

scenica vanno oltre la minaccia dei processi a suo carico, e di fatto lo spettacolo è interamente ambientato nella questura di Milano: il commissario di Polizia Bertozzo tenta di arrestare un matto, Dario Fo per l'appunto, la cui malattia lo costringe a fingersi altre persone e cambiare continuamente personaggio, un “istriomane” talmente insopportabile che Bertozzo ne comanda il rilascio. Il pazzo, per recuperare gli indumenti del suo precedente personaggio, ritorna nella stanza del commissario e scopre degli importanti documenti relativi alla morte dell'anarchico Pinelli, caduto dalla finestra della Questura stessa in circostanze oscure. Incomincia in scena una serie di rocambolesche vicende: all'arrivo di Bertozzo, il matto si spaccia per l'ispettore del Ministero degli Interni, desideroso di ricevere informazioni sul defenestramento di Pinelli, riuscendo a far ammettere la verità sulla faccenda. Nel momento di maggiore tranquillità di scena, la situazione è complicata dall'arrivo di un puntiglioso giornalista, dinanzi al quale Fo si finge Capo della Scientifica: strizzando l'occhio ai presunti colleghi della questura, fa il doppio gioco insinuando il dubbio sulla veridicità delle rivelazioni fatte dalla Polizia, secondo le cui dichiarazioni l'anarchico era caduto dalla finestra mentre prendeva un po' d'aria... ed è proprio allora che Fo impersona un vescovo, lasciando i presenti scioccati. All'arrivo di un uomo barbuto, poliziotti intervenuti in scena e giornalista credono di essere in presenza del matto, ma si tratta del vero Ispettore del Ministero! Finalmente Fo si svela: rivela di essere il matto, ma appare il più saggio della commedia, spronando tutti a raccontare la verità sull'accaduto. Solo con uno scandalo, che non sia una montatura dei media, la società italiana potrà arrivare alla repulsione per quanto ha creato, potrà reclamare la verità e il “rutto liberatorio” della democrazia. Alessandra Panzera

Teatro - Aprile 2009

È il 24 febbraio quando sulle colonne de “La Repubblica” appare un’articolata critica dello scrittore Alessandro Baricco al sistema di sovvenzioni e sussidi pubblici alla cultura e allo spettacolo. Nel delineare le ragioni su cui poggia il ricorso al pubblico denaro a sostegno della vita culturale del Paese, Baricco ne evince l’anacronismo, soprattutto oggi, nel momento in cui la crisi finanziaria c’è e si fa sentire; oggi non si può far finta di nulla, ci sono decisioni da prendere. E le decisioni suggerite suonano radicali: basta fondi a teatri, musei e fondazioni, bisogna che questi siano riversati piuttosto nella scuola e nella televisione, cioè dove vive “il Paese reale”, come asserisce lo scrit-

tore. Alla base di tale riflessione sta la denuncia di un’ostinazione ad investire in settori che non riescono ad arrivare alle masse, a discapito di un obiettivo più importante come quello di alfabetizzare, cioè di formare un pubblico colto, consapevole, adeguato alla sua epoca. È al sistema politico nel suo complesso che Alessandro Baricco parla; e nel farlo suggerisce una sostanziale rottura con il passato ed una profonda modifica nella vita degli enti in questione. Repentina è la risposta degli operatori dei teatri italiani e di coloro che, amando questi ultimi, in assenza di sostegni statali non potrebbero che constatarne un neanche troppo lento declino. Il dibattito va oltre eventuali prese di posizione politica: da Luca Barbareschi, che accusa <<Chi deve andar via è la politica che ha egemonizzato poltrone, denari, tutto>>, fino a Lella Costa, passando per l’allarme chiaro dall’Agis, l’Associazione dei settori dello Spettacolo: “senza finanziamenti i teatri chiudono”. Così si apre una polemica in cui si profilano due fronti, pro e contro Baricco, e mentre Riccardo Muti sostiene lo scrittore nella necessità di agire sulla formazione dello spettatore e sottolinea l’esigenza di un incremento delle risorse private, Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano, e Dario Fo tacciano di sconclusionatezza le tesi di Baricco denunciando il fatto che in Italia la percentuale del PIL

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Artificio - Aprile 2009

Giotto e l’arte del ‘300 in mostra al Vittoriano

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L’incertezza di un’umanità terrorizzata dal futuro si aggrappa ai dogmi del divino In una realtà che ci offre giorno dopo giorno strumenti sempre più impeccabili di riproduzione della natura e dei suoi fenomeni, probabilmente gran parte dei contemporanei non troverà alcun interesse nell’ammirare delle opere che poco o nulla hanno a che fare con il concreto (ma forse anche terribilmente scontato!) realismo degli attuali linguaggi artistici… Ma sicuramente vi sarà anche un’ ulteriore percentuale che proprio in questa palese distorsione di ogni regola prospettica o canone dimensionale riscontrerà quello che secondo me è il valore aggiunto più notevole della collezione attualmente esposta nelle sale del Vittoriano: la possibilità di leggere, nell’irreale virulenza cromatica delle vesti di santi e sacerdoti, nella cupa luce (mi si perdoni l’audace ossimoro!) degli sfondi dorati che consacrano le ambientazioni più quotidiane a cornici di eventi immortali e nella totale assenza di qualsiasi espressività sui volti tesi e stereotipati dei personaggi, una concezione del rapporto tra uomo e Dio caratterizzato da una sproporzione incalcolabile! Ed è proprio questa sproporzione a darci il senso dei secoli che si frappongono tra il nostro tempo e gli autori di queste opere. E’ indubbio infatti che Giotto, Cimabue, Simone Martini, abbiano tutti palesato nei propri capolavori un’idea di uomo che contrasta fortemente con quella di soggetto onnipotente, trasudante edonismo e privo di qualsivoglia limite (morale, etico… o anche semplicemente fisiologico!) che la nostra società esprime quotidianamente. Peculiarità assoluta del ‘300 era infatti individuare in Dio l’unica

certezza, l’unico appiglio in un’ era dominata dal timore dell’ineluttabile domani… o forse dal terrore di non riuscire ad arrivarci! Ed è proprio questa paura agghiacciante, che spinge l’essere umano ad una fede assoluta, e non di rado irragionevole, che pervade ogni singola tela, scultura, scritto o ornamento prodotto in tale periodo, e che da ogni autore viene espresso ed esternato attraverso strumenti differenti, ma quasi sempre dotati di chiarezza comunicativa sorprendente.. quasi moderna per certi versi! In alcuni autori tale sottomissione incondizionata dell’uomo al dogma della Chiesa si esprime attraverso il linguaggio delle grandezze: ed ecco che il Cristo, le Madonne e i Santi giganteggiano, con espressione torva e a volte quasi intimidatoria, su miseri peccatori di dimensioni lillipuziane, in un connubio di idee del passato e forme comunicative del presente (si pensi alle odierne immagini retoriche fin troppo abusate dallo strumento pubblicitario!) che lascia profondamente scossi. In altri invece il mezzo di espressione più forte e penetrante è il colore: ed ecco quindi l’uso inaspettato del verde per conferire un diafano pallore a volti e corpi di uomini pervasi da fremiti di morbi sconosciuti, nella consapevolezza di un’impotenza che trova nell’ignoranza e nell’acquiescenza la propria fonte e il proprio pungolo continuo. Una mostra che sicuramente non avrà il pregio di nutrire la mente con valori ed ideali particolarmente profondi ed elevati.. ma che se non altro induce a riflettere sulla circostanza che l’uomo non abbia conosciuto nella sua storia che momenti di estremismo, oscillando strenuamente tra incurabile sfiducia e delirio di onnipotenza.

Tiziana Ventrella

CY TWOMBLY Alla GNAM (Galleria Nazionale di Arte Moderna) è in esposizione fino al 24 maggio la prima grande retrospettiva di Cy Twombly a Roma, un percorso a ritroso che ripercorre tutte le fasi dell’opera dell’artista contemporaneo, dalle ultime produzioni agli esordi. La pittura di Cy Twombly nasce dall’espressionismo astratto dell’America anni’50, quella di Pollock e Rothko, e viene via via influenzata, sempre più massicciamente, dalla cultura europea, classica e contemporanea. Lo stesso Twombly dice di sé stesso “sono attratto dal primitivo, dall’elemento rituale, dal feticcio, dalla simmetria dell’ordine plastico, (che è una caratteristica tanto del concetto classico quanto di quello primitivo)”, è quindi naturale la scelta di trasferirsi a Roma, quale luogo migliore? qui gli spunti classici sono decisamente maggiori che non nella nativa Lexington (Virginia). A Roma Twombly, più che distaccarsi dalle linee dell’espressionismo astratto, le arricchisce di contenuti. Dapprima si sofferma sulla Roma più barocca, più vicina a Pasolini che a Cesare, che si muove tra super-

stizione, erotismo e senso dell’onirico, arricchendo i suoi quadri di citazioni che vanno dalle dee romane a Poussin (principe della pittura visionaria di fine ottocento). Comincia poi a ripulire il suo tratto astratto, passa dalla policromia alla monocromia, avvicinandosi a quella cultura classica più apollinea, più razionale, che Dionisiaca. Qui le citazioni sono Raffaello o Aristotele, e l’approccio è molto più razionale, influenzato anche dal “trionfo della scienza” che in quel momento viveva la comunità internazionale con lo sbarco sulla luna. Attraverso la cultura dell’Africa settentrionale, poi, Twombly si avvicina ad una pittura più spontanea, più infantile, alla Mirò, e anche le citazioni del passato si fanno più poetiche, più romantiche e più tragiche di prima, è un ritorno al sentimento in luogo della razionalità. Così, progressivamente, il cerchio si chiude, le ultime opere, dedicate a Bacco, segnano un ritorno al barocco e all’eccesso, con grosse pennellate rosso sangue, o rosso vino, che dir si voglia. Per

Twombly l’arte nasce da un momento di crisi, che non va inteso nel senso più tragico del termine, ha un senso più ampio: lui parla di “impulso estatico”, legato proprio alla figura di Dioniso. Questo legame artetrascendenza, che ricorre così frequentemente nei suoi quadri, insieme a tutte le altre sue tematiche (il tempo, il passato, la mitologia, l’eccesso) portano a far pensare più al romanticismo che ad altro: nonostante l’apparenza, Twombly è più simile a Friedrich, a Poussin, che non a Pollock o a Rothko.(...continua)


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espressionisti astratti con cui Twombly si era formato e da cui poi si è nettamente distaccato. Distaccato, ovviamente solo sul piano concettuale, non di certo su quello più materiale dell’opera, dove la linea libera e spontanea caratteristica dell’arte americana degli anni 50 regna sovrana. Nella scultura invece Twombly si rifà molto a Giacometti, e anche qui l’attenzione all’antico, soprattutto alle terracotte etrusche, è dominante, accanto ovviamente all’arte classica e anche un po’ rinascimentale della cultura italiana. Oltre alle mostre temporanee come quella di Twombly, la Galleria raccoglie in generale l’arte italiana dell’800 e

‘900, ci sono tutti: i futuristi, Caporossi, Munari, Ceroli, Pascali, inoltre ci sono anche un Van Gogh, un Mondrian e un Klimt, che fa sempre piacere vedere. Si può dire che una “leggera passeggiata” tra le stanze della GNAM merita, e può talvolta stupire, come quando ci si ritrova davanti al ritratto di Verdi che ci ha sempre guardato dai libri di storia, dal sussidiario di terza elementare in poi. Chiara Tosti Croce

National Geographic in mostra a Roma: un itinerario che abbraccia il Mondo Immagini straordinarie raccontano i Continenti e la natura

A partire dal 7 febbraio 2009 il Palazzo delle Esposizioni - il più grande spazio espositivo interdisciplinare del centro di Roma, in Via Nazionale - ospiterà “Madre Terra”, mostra strutturata come itinerario per i Continenti del nostro mondo, attraverso gli scatti più straordinari realizzati dai fotoreporter della rivista National Geographic Italia. National Geographic Italia, in linea con la casa madre a Washington, e sulla scia della prima mostra organizzata lo scorso anno in occasione del decennale dell'edizione italiana, presenta una seconda rassegna fotografica – ancora una volta, ad ingresso libero - dedicata alla salvaguardia del Pianeta. Nella precedente mostra veniva proposto un viaggio fotografico avente come tramite conduttore i quattro elementi (aria, acqua, fuoco, terra). Questa nuova esposizione suggerisce un percorso diverso, che si sviluppa in Africa, nelle Americhe, in Asia, Europa, Oceania e nei Poli. La tensione finale è rappresentare gli scorci inesplorati e più affascinanti del mondo, a ricordarci gli obiettivi ormai non più procrastinabili della battaglia contro il degrado del Pianeta. Una mostra fotografica non può offrire soluzioni né dettare le linee di un programma in difesa della Terra, ma può indicare - grazie alla forza delle immagini - i luoghi in cui sono più evidenti le gravi conseguenze dei cambiamenti climatici, affinché vengano salvaguardate le bellezze e le biodiversità, la ricchezza dei territori e dei mari, la sopravvivenza delle popolazioni umane e animali. Grazie alle 101 immagini - realizzate da 58 fotografi, in buona parte addirittura inedite per il celebre magazine - i visitatori potranno percorrere un itinerario ideale che li porterà a scoprire i territori degli orsi grizzly dell’Alaska e quelli del

panda gigante, le foreste equatoriali e le Alpi italiane, le praterie nordamericane e quelle australiane, i deserti nordafricani e i mari tropicali, le tigri in India e gli elefanti in Africa. La galleria fotografica documenta le condizioni di vita, le abitudini. Attraverso le suggestive, magistrali immagini di zone polari e foreste, praterie e deserti, montagne, oceani, mari, i fotografi di National Geographic testimoniano le aggressioni dello sviluppo urbano, i problemi di conservazione, le condizioni di vita di animali protetti e a rischio di estinzione, di habitat spesso minacciati dallo sviluppo e dallo sfruttamento del territorio, le sofferenze e le speranze degli esseri umani nelle più diverse zone del Pianeta, di popoli e gruppi umani che vivono in situazioni ai limiti della sopravvivenza. Ma quelle stesse immagini esaltano anche le meraviglie del mondo, dove animali ed esseri umani convivono in scenari straordinari, aree spesso magnifiche e ancora poco contaminate. Ci sono molti modi per proteggere il nostro Pianeta, talvolta bastano anche semplici gesti quotidiani. I fotografi e National Geographic Italia vogliono contribuire alla salvaguardia di "Madre Terra". Gli autori che espongono sono tra i migliori della fotografia mondiale e nazionale, e manifestano un impegno consapevole per la salvaguardia delle più preziose risorse del nostro mondo, per un impegno di necessaria condivisione; il tutto con il loro magistrale lavoro, con la potenza e la bellezza emozionante di immagini che aiutano a riflettere e non lasciano indifferente l'osservatore.

Mariafrancesca Tarantino

Artificio -Aprile 2009

Molto più europeo che americano, la sua ascesi, la sua trascendenza, sono molto più legate alla superstizione e alla mitologia che non a Freud e alla psicoanalisi, molto cari invece agli

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NDR: Aspettando i loro concerti del 7-8 luglio a Milano, abbiamo deciso di dedicare questo numero di Ottava Nota agli U2, sperando di fare cosa gradita. E' sempre l'ora di un po' di buona musica!Buona lettura a tutti!...and have a "Beautiful day"! (da inserire in un box in alto, in orizzontale) La redazione consiglia:

L’art-rock dei My Bloody Valentine My Bloody Valentine è un gruppo anglo-irlandese che, costituitosi nel 1984 e mai ufficialmente scioltosi, ha però, fatta eccezione per alcune apparizioni a festival estivi (ultimo 13 Giugno 2008), cessato le attività da oltre un decennio. Il sound unico che contraddistingue la band, in particolare i due album più noti: “Isn’t Anything” e “Loveless”, li hanno portati ad essere l’emblema dell’art rock. Famosi i loro concerti, ricordati come alcuni con il più grande utilizzo di alti volumi nella storia del rock. Amati molto anche da registi, tra cui in particolare Sofia Coppola, che molto spesso li inseriscono come colonna sonora dei loro film. Rimaniamo dunque in attesa dell’uscita di qualche loro nuovo lavoro, come più volte nel tempo hanno annunciato.

Classifica Mtv 10 fo the Best U2 1. One 2. Pride (In The Name Of Love) 3. The Fly 4. Beautiful Day 5. Where The Streets Have No Name 6. Mysterious Ways 7. Sunday Bloody Sunday(Live) 8. Vertigo 9. I Still Haven't Found What I'm Looking For 10. Sometimes You Can't Make It On Your Own

In Ir landa non suona solo l'arpa celtic a Tradizione, commistioni e innovazione nella terra color smeraldo È difficile trovare un altro Paese al mondo così orgogliosamente legato alle proprie tradizioni come l'Irlanda. Non da ultimo per quanto riguarda la musica, l'attaccamento alle radici da parte di questo popolo è davvero impressionante. La tradizione musicale dell'Isola Verde, rappresentata dalle sonorità celtiche, fin dagli albori è inscindibilmente connessa con le leggende tramandate oralmente. In realtà il genere “musica celtica” è una pura invenzione di comodo, normalmente associata ad un insieme di tradizioni musicali che, eccetto alcune analogie, sono ben distinte e fortemente connotate. Sarebbe infatti più corretto parlare di musiche dei paesi di tradizione celtica, ma la prima definizione è oramai invalsa per maggiore praticità. La musica celtica comprende un ampio spettro di generi musicali, che si sono evoluti dalla tradizione e dalla musica folk dei popoli celtici dell'Europa Occidentale. La tradizione musicale irlandese è di antica data: si costituì in tempi remoti in cui i bardi, poeti cantori, cantavano le gesta delle casate nobili locali, accompagnandosi con l'arpa celtica. I bardi rappresentavano una casta potente e privilegiata, in quanto al loro canto era affidata la trasmissione dell'epopea del popolo irlandese. La figura del bardo, tuttora avvolta da quel sottile velo di mito, sogno, fantasia, magia e mistero, è l'emblema di una diffusa e ideale rappresentazione immaginifica dell'Irlanda stessa. Questo alone mitico-fantastico è sopravvissuto alla loro decadenza causata dalle invasioni inglesi e dalla conseguente distruzione della nobiltà gaelica, che li ha costretti ad abbandonare le corti e a farsi bandi erranti, rivolgendosi ad un pubblico più popolare nelle piazze e nelle feste di paese. Nel canto del bardo narrazione e testo poetico erano un tutt'uno con la melodia vocale e l'accompagnamento strumentale, dando lo spaccato dell'anima di un popolo, che si nutre di musica e di poesia. Terra di conquista, in continua lotta per il mantenimento della propria identità culturale oltre che per l'autonomia economica e politica, l'Irlanda ha sempre fatto della musica un importante stru-

mento di aggregazione e consolidamento di un orgoglio nazionale, che, proprio perché duramente frustrato, emerge con sempre rinnovata forza. A partire dagli anni Sessanta la tradizione ha cominciato a fondersi con i movimenti musicali contemporanei: in questo periodo sono numerosi gli artisti che hanno realizzato veri e propri capolavori, caratterizzati dalla commistione di tradizione folkloristica e avanguardia. Van Morrison, cantautore in grado di fondere folk, jazz, blues e canti gospel, è stato il primo artista irlandese moderno a diventare famoso in tutto il mondo negli anni Sessanta, suonando con il gruppo dei Them, e il suo capolavoro, Astral Weeks, è considerato uno dei dischi fondamentali di quel decennio. A partire dalla metà degli anni Settanta band e cantautori irlandesi hanno cominciato a scalare le classifiche di tutto il mondo con dischi pop e rock. Basti pensare al successo planetario degli U2, guidati dal carismatico leader Bono Vox, noto anche al di fuori del mondo musicale per le sue crociate ecologiste. Inoltre, fin dagli esordi gli U2 si sono occupati della questione irlandese e del rispetto per i diritti civili, improntando su questi temi buona parte della loro attività artistica. Ad oltre trent'anni dall'esordio, i quattro profeti del rock mostrano ancora oggi di essere maestri indiscussi nel saper giocare con i generi musicali più disparati ma risultando sempre “classici”. In una rapida rassegna dei gruppi irlandesi che hanno lasciato un segno non si possono non ricordare i Cranberries, la formazione irlandese capi-

tanata dalla cantante Dolores O'Riordan, che all'inizio degli anni Novanta ha saputo raccogliere al meglio l'eredità del rock celtico e popolare degli U2, grazie ad un pugno di vibranti invettive e di eteree ninnananne. Il seguito della loro carriera, però, è stato contraddistinto da un rapido e inesorabile declino artistico, seppur sempre accompagnato da buoni risconti sul piano commerciale. Altro gruppo degno di nota sono i Corrs, capaci di fondere pop con suoni e strumenti della tradizione. Questi due elementi sono tanto fusi nella loro musica che quando iniziarono a proporsi alle prime case discografiche vennero bollati come “troppo pop” dalle etichette folk e “troppo folk” dalle etichette pop. Ottenuto finalmente un contratto con la Atlantic Records nel 1995, con il loro album d'esordio conquistano le vette delle classifiche in madrepatria e in Australia, ma restano completamente ignorati in tutte le altre nazioni, compresa l'Inghilterra. Nell'arco di pochi anni, però, si affermano in tutto il mondo, superando i 66 milioni di album venduti. In conclusione di questa breve panoramica sulla musica nella terra color smeraldo sono inoltre da ricordare due regine delle sette note. La cantautrice Sinéad O'Connor, dotata di uno straordinario talento di vocalist e di quasi altrettanta capacità autodistruttiva, è stata definita la Giovanna D'Arco degli anni Novanta per gli scandali causati dai suoi gesti e per una vita vissuta sempre al limite. Amata in patria e al di fuori di essa, Enya, la cantante che non fa concerti, è la più misteriosa tra le signore del pop, interprete di raffinate melodie classicheggianti, cui la sua voce regala un particolare tocco angelico, ed atmosfere soffuse, che ben si sposano con il delicato tessuto elettronico delle musiche. Sono infine numerosi i generi derivati dalla musica di tradizione celtica, alcuni dai nomi piuttosto improbabili, quali il celtic punk e il celtic metal, che, fosse anche solo per pura curiosità, meritano pur sempre un ascolto. Marco Parigi


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GLI U2: Ottava Nota - Aprile 2009

I QUATTRO PROFETI DEL ROCK

Uno spettacolo a 360°

La sua voce è intensa e folgorante al tempo stesso: Bono Vox, un grande del rock' n' roll e leader degli U2, la band che ha dato un importante contributo alla storia della musica rock. Questo è uno dei pochissimi gruppi attivi a partire dagli anni ‘80 capaci di assurgere allo status di “mito” del rock al pari delle formazioni “classiche”, nate e cresciute nei decenni precedenti. Il segreto del loro successo è un mix perfetto di furore ed epicità, di ansia e spiritualità, concentrate in un formato canzone sì tradizionale, eppure capace di rinnovare il vecchio rock and roll con le suggestioni e le fascinazioni tipiche del post-punk e della new wave. La loro storia ha un inizio semplice, comune a svariate rock-band d'ogni tempo. E' il 1976 l'anno in cui il futuro batterista Larry Mullen jr. mette un avviso nella bacheca della Mount Temple School di Dublino: “Cercasi musicisti per fondare band”. Rispondono Adam Clayton, David (The Edge) Evans ed un ragazzo ribelle ed introverso dal nome Paul David Hewson (soprannominato Bono Vox, dal nome di un negozio di cornetti acustici). Cominciano a suonare come Feedback, poi diventano Hype, infine, su suggerimento di Steve Averill dei Radiators, scelgono U2, dal nome di un tipo di aerei spia americani della seconda guerra mondiale. Agli esordi i quattro erano giovanissimi: Mullen aveva quattordici anni, The Edge quindici, Clayton e Bono sedici. La morte della madre

di quest’ultimo, cui dedicherà “I will follow”, contenuta nell’album d’esordio “Boy”, segna per Bono un punto di svolta: la band e' la sua nuova famiglia. E nel 1978 gli U2 sono già così affiatati da vincere un concorso rock a Limerick, Irlanda. “Eravamo invincibili perché uniti”, racconta Bono. Poco dopo, l'incontro cruciale con Paul Mc Guinness che diventa manager del gruppo, posizione che tutt’ora ricopre, segna l'inizio ufficiale di una carriera da sogno. Gli U2, con oltre 120 milioni di dischi venduti in più di vent'anni, segnano un caso, piuttosto raro nel rock, di fusione tra impegno politico e risultati commerciali. L'album d'esordio “Boy”, procura al gruppo un ottimo responso di pubblico e critica. Nel 1981 è la volta di “October”, preceduto dal singolo “Gloria”: gli U2 iniziano a esercitarsi in un'attività nella quale diventeranno maestri, la conquista delle classifiche di tutto il mondo e il sold out nei concerti live. Manca solo un altro elemento per completare la mappa genetica della band: l'impegno politico onesto e appassionato.

L'attesa è breve: il terzo album “War” sancisce un profondo cambiamento nelle tematiche dei brani trasformando la ricerca intimistica della propria spiritualità in una ferma protesta contro la guerra in Irlanda e più genericamente contro l'ipocrisia e il moralismo della società: “Sunday Bloody Sunday”, “Seconds” e “New Year's Day” diventano ben presto veri e propri inni di ribellione, cantati a squarcia gola dalle migliaia di persone che in ogni parte del mondo affollano i concerti degli U2. Il 1984 si apre con un nuovo incontro che cambierà la storia della band: è quello con i produttori Brian Eno e Daniel Lanois. Ad ottobre esce nei negozi il nuovo album dal titolo “The Unforgettable Fire”, che entra immediatamente nella Top Ten di “Billboard”. Ormai gli U2 sono la rock band più promettente del mondo. Ma alla vetta delle classifiche di Stati Uniti e Gran Bretagna, Bono e compagni arrivano nel 1987 con “The Joshua Tree”. Nel 1991, con “Achtung Baby”, gli U2 inaugurano la svolta tecnologica degli anni Novanta. La confusione ultrasonica si erge al posto del muro di Berlino che è crollato due anni prima. Gli U2, da qui in poi, non sono più

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semplici “musicisti”, sono uno spettacolo a 360°, che comprende ritmo, armonia, immagine, fotografia, grafica, movimento, teatralità, poesia. Nel 1999 Bono entra a far parte del movimento Jubilee 2000, che ha come scopo principale della propria attività quello di sensibilizzare i governi occidentali affinché azzerino i debiti dei Paesi del terzo mondo e dando così la possibilità a questi ultimi di poter crescere economicamente. L'attenzione di Bono lo porta a girare tutto il mondo ed a discutere con molti Capi di Stato e di governo. Per questa sua attività Bono viene anche preso in considerazione per l'assegnazione del Nobel per la Pace, e si trova ad incontrare il Papa Giovanni Paolo II al Vaticano. Il gruppo irlandese riceve un prestigioso riconoscimento: nel 2005 viene infatti introdotto nella Rock & Roll Hall of Fame. Inoltre festeggiano nel 2009 l'insediamento del neo Presidente americano Obama con l'esibizione al Lincol Memorial di Washington. Gli U2, avvolti da un alone mitico, hanno alimentato per anni la fiaccola del rock, rendendoci partecipi dei grandi cambiamenti musicali e sociali avvenuti negli ultimi trent’anni; proprio Bono, infatti, afferma: “Non posso cambiare il mondo, ma posso cambiare il mondo dentro di me!

Michela Pozzi


Ottava Nota - Aprile 2009

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IL “SANTO” VOX Il leader degli U2 tra impegno politico e umanitario Se non lo aveste ancora capito, le pop star sono i nuovi santi. Angelina Jolie si improvvisa nuova Madre Teresa, impeccabile nel suo costosissimo tailleur bianco in veste di ambasciatrice dell ’Unicef, Madonna si fa fotografare sorridente con in braccio il suo bambino barattato con il governo del Malawi e Gorge Clooney, da messaggero dell’Onu, intercetta con Obama per la causa Darfur. E se le star holliwoodiane possono essere considerate il nuovo esercito della pace, sicuramente Bono Vox ne è l’indiscusso portabandiera. Tralasciamo le insinuazioni un po’ maliziosette su reconditi obiettivi pubblicitari e piccoli scheletrucci nell’armadio che anche questi miti moderni inevitabilmente hanno (suvvia, chi non li ha…in virtù di questo potremmo anche perdonare al caro Bono lo sfizietto che si è concesso acquistando il 40% delle azioni di Forbes, la rivista del lusso e della ricchezza) e limitiamoci solo a lodare, giustamente e più bonariamente, l’impegno sociale di questi personaggi pubblici che a volte, come nel caso di Bono e soci, rasenta quasi lo stacanovismo: il progetto Red contro la diffusione dell’aids in Africa, le innumerevoli partecipazioni ai Live Aid di Bob Geldolf, la battaglia per l’abolizione del debito pubblico nei Paesi del Sud del mondo (che non ha risparmiato neanche l’ Italia, duramente criticata dal leader degli U2 su queste tematiche). Lasciatemelo dire però: la musica che si prodiga per il sociale è cosa buona, la musica che raccoglie fondi per il sociale è cosa giusta, ma quando la Musica diventa il Sociale, diviene simbolo di una causa, di una ribellione, allora scatta l’alchimia e gli artisti assolvono ad uno dei loro doveri primari. Verrebbe quasi da dire: “ Date a Cesare quel che è di Cesare ma a Calliope la possibilità di criticarlo”. Più che soffermarmi sulle nuove campagne sociali supportate da Bono, vorrei quindi ricordare in questa sede quella che è considerata la canzone degli U2 più

impegnata e che ha assunto al meglio il compito suddetto, trasformandosi in una rebelsong della migliore tradizione, in un vero e proprio manifesto politico. La canzone è “Sunday Bloody Sunday”, scritta da Bono nel 1982 come una sorta di commemorazione di una pagina dolorosa della storia dell’Irlanda del Nord, la “Sanguinosa Domenica” del 30 gennaio del 1972, uno degli episodi più recenti e sanguinosi degli scontri quasi secolari tra protestanti unionisti e cattolici repubblicani (rappresentati in primis dall’ IRA), sostenitori questi ultimi dell’unificazione con l’Irlanda e dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. “Sunday Bloody Sunday” è una canzone pop-olare, nel senso sublime del termine, perché quasi stigmatizza la forza collettiva di un popolo; è una canzone familiare, perché narra una guerriglia civile che assume i connotati di una guerra fratricida, che separa i nuclei familiari nella loro interconfessionalità (lo stesso Bono è figlio di madre protestante e padre cattolico); è una canzone di denuncia nei confronti del vergognoso insabbiamento che le 14 vittime di quella domenica hanno subito, rimanendo per lungo tempo senza giustizia. Il leader della band irlandese è instancabile nelle sue lotte: insignito del titolo di cavaliere dalla regina Elisabetta, candidato nel 2005 addirittura al Nobel della Pace, nominato “Persona dell’Anno” insieme a Bill Gates da Time Megazine…niente male per un uno che da piccolo, per la sua vivacità, veniva chiamato dai suoi genitori “L’Antictisto”! Angela Capoccetti

Nuovo album per gli U2: No line on the horizon BONO COME JOHN Dopo trent’anni di carriera le luci della ribalta sono ancora tutte per loro. “No line on the horizon” è il titolo dell’ultima opera del quartetto irlandese, che dal 27 febbraio occupa le vetrine dei nostri negozi. Con questo nuovo album la band esce da una crisi musicale, che aveva fatto perdere al quartetto un po’ della loro ispirazione e di originalità; ma, di certo, non aveva causato una diminuzione di vendite. Dunque i loro più recenti problemi di sostanza sembrano risolversi con questo nuovo cd; che sicuramente non avrà la stessa brillantezza di “War”, ma, almeno, svincola il gruppo da quella assurda “scusa” del “i vecchi splendidi tempi non potranno più tornare!” Ciò che salta all’occhio, dunque, è sicuramente la mole di lavoro: finalmente il gruppo smette di crogiolarsi sugli allori e torna a fare. Bono e compagni hanno deciso di presentare la loro più recente fatica emulando i Beatles: hanno infatti tenuto un concerto, a dir la verità solo poche canzoni, sul tetto della loro casa discografica nel cuore di Londra bloccando, così, momentaneamente la vita londinese. L’album, composto da undici brani, è stato lanciato dal singolo “Get on your boots”, che i fan non hanno considerato come il pezzo migliore. Oltre a questo primo singolo l’album si fa notare per ballate come “White as snow”, brano acustico e “ Magnificent” e “Unknow caller”, che sembrano essere brani più maestosi. Nel complesso questo lavoro della band irlandese è, sicuramente, molto suggestivo: si avvertono richiami mediorientali, che si combinano perfettamente con la voce di Bono.

Tra queste musiche così intense e magiche trovano spazio anche pezzi più rock, aggressivi e psichedelici, che, se ascoltati ad occhi chiusi, possono proiettarci in un mondo di colori che si susseguono senza forma ne ordine. Lo stile, per la verità, nonostante parte della critica abbia inneggiato ad un fantomatico “ritorno alla musica”, sembra essere piuttosto quello che oramai contraddistingue gli U2 degli ultimi anni (testi scarni, un po’ di meta-psichedelia qua a la, ritornelli forse musicalmente scontati ma di sicuro successo)…il che è un peccato, poiché gruppi mitici come la band irlandese, in virtù del loro passato, possono permettersi sì la ridondanza, ma anche qualche sperimentazione e un pizzico di rischiosa ed azzardata originalità. Con questo album come biglietto da visita gli U2 inizieranno un nuovo tour a fine giugno e passeranno in Italia, a San Siro per l’esattezza, nei primi di luglio. Non ci resta che aspettare.

S.C.


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E’ futile comprendere perché a volte i pensieri si confondono e mischiano speranze e realtà; ma in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà ed alle porte della notte il giorno si bloccherà, accettami così ti prego non guardare nella mia testa c’è un mondo da ignorare, spero di riuscire a dimostrare che così va bene. Dimmi cos’è che mi fa sentire importante anche se non conto niente, dimmi cos’è che batte forte, forte, forte in fondo al cuore: ho capito che è una malattia che alla fine non si può guarire mai e ho cercato di convincermi che tu non ce l’hai. Ma quando guardi con quegli occhi grandi, forse un po’ troppo sinceri, si vede quello che pensi, quello che sogni, io perché non dovrei dirti tutto quello che sento nel cuore, sei o non sei al di sopra di ogni mia grande passione? Confusione… Ma quando un giorno sarai lontano e vedrai il cielo quando si colora, pensami almeno per un momento pensami almeno per mezz’ora, io ci metterò tutta l’anima che ho, quanta vita sei da vivere adesso, nel mondo che solitudini ci da perché non resti un po’ con me? Dietro non si torna, non si può tornare giù, quando ormai si vola non si può cadere più, nel greto della nostra inti-

mità a volte le parole si confondono e il fiato non ha via d’uscita, e non so perché quello che ti voglio dire poi lo scrivo dentro una canzone, non so neanche se l’ascolterai o resterà soltanto un’altra fragile illusione, voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha, voglio parlare al tuo cuore leggera come la neve anche i silenzi lo sai hanno parole, non ho difese ma ho scelto di essere libera e adesso è la verità l’unica cosa che conta, lasciati guardare un po’ più a fondo finchè si può, senti come tremo perché sento che tutto finisce qui. Io non sto piangendo adesso no, sto soltanto, sto soltanto dicendo che ti amo, e non ho paura adesso che se guardo in alto c’è ancora la luna e qui vicino ho te! Ho giocato a costruire un “messaggio d’amore” con le parole di 16 canzoni… ed ora eccovi una sfida: identificarle tutte.

Alessandra Rey

In amore non esistono regole. E quando finisce? E’ proprio quando finisce un amore che iniziano i problemi: come comportarsi con il proprio ex? Le possibilità sono essenzialmente tre: A)Rimanere amici B)Non vedersi più C)Mantenere rapporti civili Probabilmente se avete scelto la prima avete già trovato un “chiodo scaccia chiodo” e altrettanto ha fatto il vostro ex. Decidete di restare amici e tra di voi non ci saranno problemi di nostalgia o gelosia. Ma se avete scelto di rimanere amici col vostro ex e non avete ancora trovato chi possa farvelo dimenticare, allora volete farvi del male…Aprite gli occhi! Quando una storia finisce, è finita. Qualunque rapporto possa instaurarsi dopo sarebbe complicato, indefinito e indefinibile: né amicizia, né amore. Sarebbe come camminare in avanti guardando all’indietro:se continuerete a pensare al vostro ex vi perderete solo tante occasioni. Ne vale la pena? Se invece siete accaniti sostenitori dell’opzione “B”siete molto realisti-

ci. Se ci si lascia ci sarà un perché e, il più delle volte, questo perché fa soffrire almeno uno dei due. Quindi bando all’ipocrisia: è stato bello finché è durato, ma adesso ognuno per la sua strada. E’ una scelta drastica, ma si dimentica prima e forse si soffre di meno. Se il vostro ex abita nel palazzo di fronte al vostro, fa parte del vostro gruppo di amici, frequenta la stessa università, insomma ve lo ritrovate sempre fra i piedi, scommetto che avete scelto l’opzione “C”, C come convivenza civile: saggia decisione! Avere un ex che ce l’ha a morte con noi può essere un bel problema: un ex “incattivito” può trasformarsi nel nostro peggior nemico Meglio non farlo arrabbiare… E voi che “ex” siete? A prescindere dall’opzione che scegliereste ricordatevi che la cosa importante è guardare avanti e non restare troppo attaccati ai ricordi perché magari la persona giusta ci passa davanti e non ce ne accorgiamo nemmeno… Michela Petti

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Unisex - Aprile 2009

“Ex”: quando gli amori sono (in)finiti

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Lifestyle - Aprile 2009

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Life style di ieri, di oggi e di domani…Oltrepassano i confini delle passerelle ed impregnano della loro essenza le strade, le vite, le persone… Girano il mondo, si perdono e poi ritornano, si evolvono e poi esplodono. Si intrecciano con musica, ideologie, ricordi, tradizioni, valori. Simboli di una storia che è passata ed orizzonti di speranze che verranno. Specchi di animi autentici, vivi, eccentrici, diversi…Life style, ad ognuno il suo.

“PARIOLI’S LIFE STYLE” Piccoli “pariolini” crescono… Sono tornati. Belli, ricchi e arroganti, annoiati ed in ghingheri: mancavano da un po' di anni e, invece, ora, si sono ripresi la scena, ancora più agguerriti di prima. Sono i figli della generazione che 20 anni fa si muoveva in Vespone e sfoggiava i Levis. Oggi hanno messo da parte le due ruote, le ideologie rivoluzionarie e pensano solo alle griffe. Purtroppo. Hanno solo 15 anni ma si comportano come adulti: videotelefonino e carte di credito per pagare in pizzeria. Davanti al bar «Parnaso», nella piazza delle Muse, in un pomeriggio di primavera inoltrata, è facile riconoscerli: arrivano con le loro «macchinette», quelle mini-automobili senza targa, più fastidiose di una smart e più rumorose di un trattore, si salutano con “rituali” da far invidia alle tribù africane e danno inizio alla loro attività preferita (ed anche l’unica, sostanzialmente!): vantare la marca più grande e più in vista

possibile! E non solo sugli indumenti… se una volta bastava attaccare sulla scocca del Vespone un adesivo di tendenza, la personalizzazione del proprio mezzo di locomozione, oggi, è ben più complessa: servono graffiti, luci al neon e dosi di hi-tech. E, naturalmente, un bel mucchio di euro, altrimenti, che pariolino sei?! Ludo, Flami, Costi. 15, 16, 17 anni. Si chiamano così: abbreviano i nomi con una stanchezza quasi consumata. E chissà da cosa… la faccenda più complicata che riescono ad organizzare sembra sia una serata danzante al Piper, al Gilda, alla Suite… E quando passa la fase adolescenziale? I piccoli pario-

lini crescono e… si iscrivono alla Luiss! Ora sfoggiano Mini Couper e Smart, Rayban e cappellino Gucci, e per fortuna che Luis Vuitton vanta tanti modelli diversi di borse, altrimenti sarebbe davvero difficile distinguerli tra di loro: “Ludo, quella con il bauletto grande con la fantasia estiva”, “ Marti, quella con la tracolla a stampa classica”… Perché andare a vedere una sfilata in passerella quando puoi godere dello stesso spettacolo dal bar della Luiss? Ridiamoci su: il mondo è bello perché è vario e, in fondo, c’è un po’ di loro in ognuno di noi… Criticati e condannati, ma in fondo amati ed anche un po’ invidiati, i pariolini non tramonteranno mai, o almeno fino a quando Vuitton e Gucci continueranno a sfornare nuove borse e nuovi cappellini!!

Cassandra Menga

LO STILE “VINTAGE” IMPROVVISATO Il vintage è una scelta politica, prima che estetica. La Kefiah è una scelta estetica prima che politica. Se nella lingua italiana si usa l’espressione “mettersi nei panni di qualcuno”, non dobbiamo meravigliarci che il proverbio “l’abito non fa il monaco” sia da ritenersi ormai obsoleto nella nostra società. Che i nostri vestiti siano manifestazione della nostra personalità/ ideologia/ imitazione di qualche personaggio e- soprattutto per i giovani- sia un’importante forma di connotazione di appartenenza ad un gruppo ben determinato, è scontato. Pochi, infatti, fanno caso al significato politico di certe scelte estetiche apparentemente poco indicative di scelte ideologiche e di quanto, al contrario, accessori d’abbigliamento un tempo più distintivi di una stella gialla a sei punte cucita sul petto (vedi il giaccone militare, la scarpetta rossa da regista di teatro, il tascapane e la kefiah), siano oggi un semplice addobbo. Prendiamo il caso, più che altro perché molto attuale, della kefiah. Lo scialle multiuso indossato da leader palestinesi è diventato l’accessorio simbolo della generazione di chi ha fatto il G8, di chi era no-global, comunista e rifondarolo. Per estensione, di tutti i fricchettoni. L’anno scorso l’accessorio in questione è apparso nelle sfilate di Balenciaga, questa primavera la kefiah è in vendita da H&M vicino alle casse.

Il caso del vintage è analogamente perverso. Quando io andavo alle medie e marinavo la scuola andavo ai “polacchi”, un mercatino dell’usato in cui con dieci euro facevi il cambio di stagione. Fu una ragazza ad insegnarmi come fare: “Butta le mani nella cesta, alza, ti piace? No? Pesca di nuovo!”. Al liceo andavo in un negozietto vintage per distinguermi e farmi guardare male da mia nonna. Poi Lapo Elkann ha cominciato a frugare nell’armadio di suo nonno e adesso per magia vintage significa Lusso. Oggi l’insegna del mercato dell’usato in Via del Corso recita: “Snobberie”. Ma siete avvisati: la prossima frontiera del vintage “alternativo” sono le scatole di cibo e i giornali vecchi. Quando si dice la raccolta differenziata…

Chiara Sfregola


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LO STILE URBANO “Street fashion non significa avere tanti soldi da spendere o stare al passo con le star della moda. Riguarda l’originalità e il saper applicare il tuo stile a ciò che indossi”. Parole ispirate, certamente, ma l’autore ha forse tralasciato di dire che questo stile, per quanto recente possa essere, è divenuto ormai un fenomeno mondiale. Con la sua originalità la street fashion, e soprattutto l’urban, ha attratto a sé mandrie di giovani, trasformandosi in un dividendo comune di ogni società. Ma quali sono le radici di questo fenomeno? Limitatamente all’urban e sportwear, questo stile affonda le sue radici nell’hip hop. Il genere nacque negli anni ‘70 tra le malfamate strade del Bronx dove alcuni dj provenienti dalla Giamaica incominciarono ad arricchire i loro sound con percussioni e ad accompagnarlo con le voci dei MCs (master of cerimonies), i nostri odierni rapper. Così, il sound hiphop, ironico, malizioso e “arrabbiato”, si diffu-

se a macchia d’ olio tra i ghetti americani ,sino a raggiungere massima visibilità negli anni ’90 con serie come “Willy il principe di Bel Air”. E oggi personaggi cardine dell’ hip hop approfittano della loro fama per guadagnare con linee di moda che combinino il tradizionale stile della strada, fatto di tute, bandane, cappelli, sneakers, con il glamour e quel pizzico di ”bling bling” (come vengono chiamati i diamanti in USA) che tanto piace agli americani. L’urban fashion è diventato, dunque, un modo per mettere in luce il proprio status e apparire come parte di quel mondo della strada che tanto “street” non è più. Ed è qui che moda e cultura hip hop si incontrano: gli artisti collaborano con case di moda, sfilano per loro e comprano diamanti proprio come dei veri fashion-addicted (alcuni i diamanti li mettono pure sui denti). Sean Puffy Combs (in arte P.Diddy) e Missy Elliot si dedicano alle tute, J.lo e Beyoncè hanno disegnato varie linee di abiti, e così via. Ma i due re indiscussi dell’high fashion rimangono Kanye West e Pharrell Williams, i soli che sin ad ora hanno potuto vantare una collaborazione con Louis Vuitton. Pharrell, lo Skeatboard P., membro dei N.E.R.D., aveva già fatto esperienza personale nel campo della moda disegnando abiti e scarpe per l’ “Ice Cream” e per la “Billionaire Boys Club”, in cui mescolava la sua passio-

ne per la musica a quella per l’ astronomia. Ha disegnato nel 2007 una linea di gioielli chiamata “Blason”. Kanye nell’ ultima sfilata parigina, ha esordito con una linea di scarpe e borse monocrome sia per uomo che per donna che hanno fatto torcere il naso ai modaioli più conservatori. Insomma, è rivoluzione! I rapper balzano dal duro ghetto al lussuoso mondo della moda, le donne dell’ R&B diventano imprenditrici… l’urban sta conquistando il mondo! Anche il più ortodosso Valentino si farà affascinare dalla seducente sportività delle visiere e delle sneakers?!

Francesca Azzarà

ALTERNATIVE LIFE STYLE “Qui si fa la storia”, dicono le zecche… C’è chi lo fa invano perché cerca un segno distintivo. E non ci riesce. C’è chi lo fa perché qualche volta ha sentito mamma e papà raccontare del sogno sessantottino e dei grandi sconvolgimenti del XX secolo ed è ancora troppo piccolo e troppo poco informato per capire che i tempi sono diversi. C’è chi lo fa perché lo fanno i suoi amici. C’è chi lo fa perché si sta appassionando davvero. E c’è chi lo fa perché è abbastanza grande ed abbastanza convinto che non può essere solo una moda. E’ l’alternative style. Forse il più facile, il più flessibile ed il più personalizzabile modo di vestire..anzi..di essere. Quando però lo si sa gestire. Lo stile zecca non è quello dei negozi specializzati, che sembrano “strani” e che ti incuriosiscono quando sei in vacanza estiva a Barcellona o a Londra, mentre cammini per le affollatissime strade dello shopping. Non potrebbe mai essere così perché, di sua natura, non nasce dalla ricerca minuziosa dei particolari che possano dare un tocco “alternative”. E’ proprio il contrario: è lo stile più spontaneo e “menefreghista”che possa esistere… e questo perché, per chi ci crede davvero, simboleggia un’ideologia. E’ molto semplice: basta accostare due o tre indumenti che da soli non sarebbero affatto alternativi, ma che comunque appartengano a due stili diversi. Se poi ci aggiungi un paio di converse mal ridotte, allora è il massimo! Emblema della protesta contro il consumismo, contro il degrado della politica, si ispira a vecchi valori che rimandano ai tempi dei veri e forti partiti di sinistra e delle lotte di classe. Nella maggior parte dei casi “trasandatezza” è la parola d’ordine, poi ci si può sbizzarrire: magliette di arancia meccanica, o con una appariscente scritta nera su sfondo giallo che dice “NIRVANA” o ancora foglie verdi di marijuana su felpe e polsini. Ascoltano

gli Ska-P, ma non disdegnando affatto Guccini o i neoaffermati a livello nazionale Modena City Ramblers. Ma è proprio qui che si distingue il pensiero “puro” degli alternativi, aperto al dialogo, al pluralismo, al “diverso”, svincolato da ogni forma di condizionamento ed assolutizzato in tutte le sue manifestazioni. Gli alternativi ci sono e si fanno sentire… Per rimandare all’attualità, ne vedremo molti dal vivo o in tv durante lo scorrere delle immagini del concertone del primo maggio a Roma, ancora più significativo per “loro” in questa edizione 2009, grazie alla presenza di colui che aprì il suo concerto nel modo forse più ALTERNATIVO possibile: “Spinoza diceva che chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da TRISTEZZA”… così diceva Vasco Rossi nel suo tour 2008. ”QUI dicono le zecche - SI FA LA STORIA”

Giovanna Cento

Lifestyle - Aprile 2009

DALLA STRADA ALLA PASSERELLA

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Calcio d’angolo - Aprile 2009

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C'era una volta il Medioevo ...e con esso lo stile Dopo le dichiarazioni rilasciate dall’allenatore della Juventus Claudio Ranieri, con le quali allenatore juventino ha parlato ironicamente di stile Inter, è venuto spontaneo chiedersi se si possa ancora parlare di stile nel calcio italiano alla luce del glorioso passato delle nostre società. Per molti anni in Italia il calcio italiano era un marchio di casa Juventus. La famiglia Agnelli entrava di forza nel mondo del calcio, con la squadra torinese e con le proprie tradizioni di educazione: i mai banali soprannomi dell’avvocato– come Pinturicchio – e le tradizioni – come l’amichevole d’agosto a Villar Perosa. Poi è arrivata l’era Moggi: la squadra doveva essere vincente a tutti i costi. Poco importava lo sfarzo (anche se si sa, lo stile non si acquista né si perde): prima di tutto il primato, ad ogni costo! Niente più importante dell’essere primi. Vendere Zidane, vendere Vieri (senza nemmeno dirlo all’Avvocato), tenere Davids sei mesi in tribuna. Solo bastone, carota e tante vittorie. Poi calciopoli che distrusse tutto. All’indomani dello tsunami si presenta un volto nuovo, una faccia chiara e sincera: Claudio Ranieri. L’uomo giusto, con tanta classe, mai parole fuori posto e allo stesso tempo mai banale. La sua missione è quella di rendere nuovamente la Juventus la fidanzata d’Italia. Ma intanto, a fine anni ottanta, erano arrivati già i quattrini di Berlusconi. Conquistare il mondo divertendolo e facendo diventare il calcio uno spettacolo. Il Cavaliere riuscirà nell’impresa in soli vent’anni. Adesso la società menghina sembra voler emulare il Real Madrid dei galacticos, raccogliendo grandi giocatori e mettendoli in vetrina in tutto il mondo (anche se molto più concreti dei Madrileni). Milan top Mondo e Top Model. Lustrini da sfoggiare nelle amichevoli. La forma a Milanello – almeno quella! – non è mai contata meno della sostanza. E poi l’Inter. Per molto tempo è stata la squadra che dava un cuore nuovo a Kanu, che faceva operare al cuore Fadiga; tanti buoni sentimenti per mascherare la frustrante mancanza di vittorie. Non una squadra per tifosi normali; una squadra per intellettuali che non avevano bisogno di vincere per sentirsi primi. Superiorità che alcuni direbbero assomigli molto alla storia della volpe e dell’uva, non per tutti. Ora l’Inter vince i campionati, li trangugia senza masticarli; abbatte avversari e pretendenti al tricolore. Prende un allenatore nuovo, uno speciale che ogni giorno se ne va in sala stampa a dare pagine da scrivere a giornalisti di mezza Europa. Mode che si susseguono con la velocità con la quale si utilizza e si dismette un paio

di jeans. Il vero stile Italiano è quello di Paolo Maldini, Giacinto Facchetti, Gaetano Scirea; proprio quest’ultimo, durante un Juventus – Fiorentina particolarmente acceso, gridò dopo l’ennesimo fallo: “Vergognatevi, ci sono le vostre mogli e i vostri bambini che vi guardano in tribuna!”. E nessuno si azzardò a fiatare. Sicuramente non è stile quello di gente che parla di prostituzione, coglioni, linguacce e campionati falsati. Mourinho, che tanto si definisce Speciale, ha dichiarato di ripristinare le conferenza stampa stile medioevo, ma questo cosa sembra? Il calcio italiano che sforna modelli per i ragazzi, si chiede che razza di modelli stia plasmando. Se questa era futurista deve fornirci questi spettacoli indecenti e improponibili, chiediamo a tutte le società Italiane di ripristinare il Medioevo, così a livello Europeo potremmo riacquistare le posizioni che prima di essere perse sul campo abbiamo perse fuori da esso. Perché, come dice Hemingway, lo stile è il modo giusto di fare ciò che deve essere fatto. Lorenzo Nardi

Q UATTRO CHIACCHIERE CON .. CLAUDIO RANIERI Prima come calciatore e poi come allenatore, da oltre 30 anni è uno dei personaggi più noti del panorama calcistico italiano. Da atleta ha una carriera brillante iniziata negli anni ’70 nella Roma del “mago” Herrera, ma è come tecnico che Claudio Ranieri si rivela capace di vere e proprie imprese. Cagliari è la prima piazza importante dove mostra le sue qualità: in due anni, i sardi passano dalla C al ritorno in A. Da qui l’approdo al Napoli. Partito Maradona, Ranieri dà fiducia al giovane Gianfranco Zola e la squadra conquista il quarto posto, che significa Europa. Dopo un anno di stop, dal 1993/94 è alla Fiorentina, appena retrocessa. La riporta nella massima serie e prima di lasciare conquista una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana. Dal 1997 inizia la lunga avventura all’estero. Prima tappa la Spagna, Valencia, con cui vince una Coppa del Re. Nel 2000 il trasferimento in Inghilterra, sulla panchina del Chelsea, con cui ottiene un secondo posto in Premier League e una semifinale di Champions League. Nel 2004 di nuovo a Valencia conquista una Supercoppa Europea. Per non parlare dell’impresa di Parma dove approda nel 2007 contribuendo alla salvezza del club. Insomma un vero supereroe del panorama calcistico italiano. La sua carriera dimostra come Lei sia stato più volte capace di centrare obiettivi apparentemente impossibili. Uno di questi, oggi, è lo scudetto alla Juve, che attualmente si trova a -7 dall’Inter in vetta. Ha abbandonato il sogno? Più che di sogno parlerei di obiettivo. La Juve ha quello dello scudetto e sarà cosi fino alla fine della stagione. Ci crediamo ancora. Per una Juventus ormai fuori dalla Champions, l’unico obiettivo è riprendere l’Inter. Se non dovesse centrarlo, pensa che ci sia qualcosa da cambiare (e se si cosa) per non sbagliare la prossima stagione?

Non penso alla prossima stagione, ma solo a quella in corso. Per quanto difficile possiamo raggiungere l’obiettivo posto all’inizio. Blanc ha dichiarato che la gara di sabato 14 marzo con il Bologna (vinta 4 a 1) è stata la miglior risposta alla sconfitta in Champions. Una grande Juventus forza quattro che ha rimontato nella ripresa lo svantaggio del primo tempo. Una curiosità: ha detto ai suoi nell’intervallo qualcosa in particolare per motivare una tale reazione? Ho la fortuna come allenatore di lavorare non solo con dei grandi professionisti ma con dei campioni veri, in campo e fuori. Hanno solo fatto il loro ruolo comportandosi come tali, ed io il mio nel guidarli all’esprimere le loro potenzialità. E cosa dirà invece per preparare la squadra alla grande sfida di sabato 21 all’Olimpico contro la Roma di Spalletti? Quello che dico sempre. Di dare il meglio, di giocare come sanno. Il resto verrà da sé, speriamo. Per la gara di sabato la Roma conta 9 indisponibili (che potrebbero salire ad undici), tra i quali probabilmente anche capitan Totti. Anche la Juve è in emergenza con 7 giocatori costretti ad alzare bandiera bianca. Secondo lei cosa causa queste emergenze? E’ solo sfortuna o anche errori di preparazione? O forse un calendario troppo denso di impegni…? Credo sia stata solo una grande sfortuna sia per noi che per la Roma. Ma il pallone è rotondo e a volte si ha la fortuna dalla propria e si gioca in dodici, altre accade il contrario. Emanuela Perinetti


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Quando lo sport vince

Quando lo sport perde Tragedia in Iraq: tifoso uccide calciatore

Alcuni giorni fa “La Gazzetta dello Sport” ha fatto luce su una storia ai confini della realtà, permettendo al grande pubblico di venirne a conoscenza. Una storia che comincia nel peggiore dei modi possibili. Al centro della vicenda c'è Izet Sejmenovic, bosniaco, giocatore di basket professionista; all'epoca dei fatti militava nello Slavonski Brod, serie A2 croata, ed era in procinto di trasferirsi in Germania, al Goettingen, per giocare stavolta nella A1 tedesca. L'8 luglio del 1993, alle ore 15, Izet uscì di casa. Era stato chiamato d'urgenza: un suo amico era rimasto ferito nell'ambito delle operazioni militari in corso nel Paese, ed aveva bisogno del sangue del cestista, compatibile con il suo. A Izet non restò altro da fare che mettersi in cammino verso l'ospedale: e, dal momento che le strade principali erano perennemente presidiate dai cecchini serbi, percorse i 25 km che lo separavano dal centro medico a piedi. Sulla via del ritorno, proprio quando mancava meno di un chilometro alla sua abitazione, stremato dalla fatica decise avventatamente di tornare sulla via principale: e fu proprio allora che due cecchini serbi lo ferirono alla gamba destra e all'addome. Izet riuscì in qualche modo a chiamare aiuto, e in modo rocambolesco fu trasportato all'ospedale. I chirurghi lo operarono d'urgenza, improvvisando gran parte dell'intervento: curiosamente, venne usato il sangue che lui stesso aveva donato poche ore prima. Tutto andò per il verso giusto. Se però la vita di Izet era stata salvata – e in modo a dir poco miracoloso – lo stesso non poteva dirsi della sua carriera. Aveva 25 anni, un presente in serie A2, e un futuro all'estero, addirittura in A1: la guerra aveva cancellato tutto, e a causa delle sue ferite Izet non avrebbe mai più potuto giocare reggendosi sulle proprie gambe. Ma – è proprio il caso di dirlo, a dispetto di ogni retorica – l'amore per lo sport e per la vita a volte è più grande di qualsiasi cosa. Izet incontrò il tecnico americano Ed Owen. Fu lui a parlargli del basket in carrozzina, e ad indirizzarlo in quella direzione. Il cestista non aspettava altro: e già nel 1996 tornò sui campi da gioco. E nuovamente a livello professionistico. Giocò un anno in Bosnia, poi uno a Cantù ('97 – '98), il successivo in Francia. Poi tornò in Italia, dove militò a Macerata per quattro anni (dal '99 al 2003), per poi approdare a Gorizia, in serie A2. Dove gioca tuttora, con la maglia della Castelvecchio Gradisca. Una vera e propria rinascita, maturata soprattutto grazie allo sport. Prima Izet giocava contro grandi del basket jugoslavo come Alibegovic e Bodiroga; ma, come nota lui stesso: “Frequentare le persone in carrozzina mi ha fatto capire cosa conta nella vita”. Una grande lezione. Non solo di basket.

Questa è la notizia: a Hilla, 100 km da Baghdad, Heidar Kazem, giocatore del Sinyer, serie A irachena, segna un gol nella partita contro il Buhayrat; improvvisamente si accascia a terra, colpito alla testa da un colpo di pistola esploso da un “tifoso” della squadra avversaria. L'uomo, secondo fonti del Ministero degli Interni, è stato immediatamente arrestato. Kazem, invece, è morto subito dopo il ricovero in ospedale. Personalmente, sono rimasto per qualche momento senza parole; poi, cominciando a riflettere sull'accaduto, ho cercato di immaginare l'episodio e contestualizzare una sintetica notizia nella cronaca sportiva. In un paese come l’Iraq, che sta faticosamente cercando di imboccare la via della ricostruzione e del ritorno alla normalità dopo le vicende che tutti conosciamo, lo sport e in particolare il calcio sembrano rappresentare sia un'oasi "felice" in cui sfogare le tensioni quotidiane sia la motrice della locomotiva di un nuovo corso; la nazionale irachena di calcio – i “Leoni di Babilonia” come vengono chiamati i giocatori da stampa e sostenitori – ha vinto l'ultima Coppa d' Asia e per qualche momento ha consentito a molti tifosi di scendere in strada e festeggiare i propri beniamini, lasciando da parte contrasti etnici, religiosi e politici. Nonostante la vittoria riportata nella Coppa d'Asia, la nazionale non può ancora giocare le partite casalinghe nel proprio paese proprio perché il territorio è considerato molto pericoloso. Ed ecco che, se da una parte lo sport può rappresentare uno dei mezzi per unire la società e la nazione irachena, dall'altra è purtroppo terreno fertile e ambito obiettivo di azioni terroristiche e intimidatorie. Penso che il caso in questione, benché riguardi solamente uno squilibrato (categoria che è più o meno rappresentata in tutti i Paesi) e non risponda a un predeterminato scopo terroristico, ci possa far comprendere la misura in cui l’Iraq necessita di un aiuto concreto da parte dei paesi occidentali per superare le difficoltà e le differenze di un popolo sconvolto dalla guerra: è estremamente dannoso che persino quello che potremmo definire uno dei più promettenti spiragli di luce nel buco nero che è oggi l’Iraq, possa essere oscurato da episodi del genere, contribuendo a rendere ancora più incerto e travagliato l'animo degli iracheni, che vedono incrinata e intaccata la più importante valvola di sfogo: lo sport.

Luigi Calisi

Flavio Donnini

Bagno di folla a Trigoria per celebrare... un'eliminazione Una grande dimostrazione di tifo e cultura sportiva Ciò che è avvenuto a Trigoria sabato 14 marzo è un qualcosa d’ inedito per il calcio italiano. Indipendentemente dai colori che si sostengono l’ affetto manifestato dai tifosi romanisti nei confronti dei propri “ eroi “ è qualcosa che non può lasciare indifferenti. L’ Italia è sempre accusata di essere una nazione dove non vi è cultura sportiva e dove si tende sempre a scaricare le responsabilità di una sconfitta sulla sfortuna o sull’ arbitro. I tifosi Romanisti si sono riversati in 10.000 nella “casa” della loro squadra per manifestare ai giocatori affetto e gratitudine per aver gettato il cuore oltre l’ ostacolo e per aver proferito il massimo impegno in campo nonostante le condizioni precarie di molti componenti della rosa. Indipendentemente dalle loro capacità tecniche, i tifosi hanno elogiato tanto Totti, quanto Diamoutene, in quanto hanno riconosciuto che tutti i giocatori hanno gettato sull’ erba dell’ Olimpico il loro 200 % e che se alla fine non ce l'hanno fatta è stata solamente per sfortuna e per la crudele lotteria dei calci di rigori mai amica dei colori giallorossi (la dolorosa finale persa contro il Liverpool proprio all’ Olimpico docet). I giallorossi hanno tenuto testa ad una delle tre compagini inglesi che sfidavano il nostro calcio, e cosi facendo hanno dimostrato che con tanto coraggio e grinta, ma anche ovviamente capacità tecnico-tattiche, nessuna partita è poi cosi “ impossibile “ e questo i tifosi della Roma l’

hanno capito e hanno affollato i campi di allenamento. I tifosi, 'convocati' a Trigoria dalle radio romane fin da giovedì scorso, in questo modo hanno voluto tributare il loro affetto alla squadra di Luciano Spalletti e ringraziarli per la prestazione contro l'Arsenal. Altro che contestazione: i tifosi si sono mobilitati per sostenere la squadra e si sono presentati in massa all'allenamento di rifinitura prima della trasferta a Genova con la Sampdoria. Tanti, talmente tanti che i giocatori, nonostante le transenne, sono rimasti bloccati nel traffico sulla strada che porta al centro tecnico giallorosso. Tutti davanti ai cancelli del campo A, quello con le tribune. Come previsto, la Roma ha aperto i cancelli per permettere ai tifosi di assistere all'allenamento odierno. I sostenitori dei giallorossi, sistemati dietro una delle due porte, hanno anche acceso dei fumogeni e sono stato messi ai bordi del campo due striscioni con le scritte 'A testa alta e fieri dei nostri valorosi condottieri', e '11.3.09 il vostro coraggio premiato. Per noi nessuno ha sbagliato'. Al momento dell'entrata dei giocatori sul campo, ci sono stati cori ed incitamenti per tutti, in particolare Totti e Riise, che si sono fermati a firmare autografi per la gente dietro la rete di protezione. Un ottimo esempio di vera cultura sportiva. Andrea Pelagatti

Calcio d’angolo - Aprile 2009

La storia di Izet: dal campo di gioco a quello di battaglia (e ritorno)

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