Gtk 6, Rivista di Psicoterapia

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È così che dobbiamo accostarci al dolore, per trarne una fenomenologia lucida e acuta del dolore portato agli estremi, ma forse pure per intravedere dentro i testi una serie di suggerimenti intimamente gestaltici riguardo alle mosse e agli spazi della terapia. Ma cominciamo dal principio.

Per una fenomenologia ungarettiana del dolore Tutto ho perduto dell’infanzia E non potrò mai più Smemorarmi in un grido. L’infanzia ho sotterrato Nel fondo delle notti E ora, spada invisibile, Mi separa da tutto. Di me rammento che esultavo amandoti, Ed eccomi perduto In infinito delle notti. Disperazione che incessante aumenta La vita non mi è più, Arrestata in fondo alla gola, Che una roccia di gridi. Il dolore comincia da questa poesia semplice e intensa, come una confessione che nasconde nel suo seno una sottile analitica dell’esserci nel suo patire sulla soglia ultima, mortale. Il dolore nella forma estrema appare in Tutto ho perduto come una separazione da un tempo mitico e felice, il tempo dell’infanzia, la cui immagine potente è quello «smemorarmi in un grido» che dice la condizione vocale del corpo prima della parola. Il grido precede l’articolazione linguistica ed è la modalità originaria del suono emesso senza soluzione di continuità da un corpo ancora non parlante, privo di memoria, puramente abbandonato alla vita in un eterno presente senza storia. È da questa letterale in-fanzia che è stato allontanato il poeta, costretto

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