Emozioni in Gazzetta / Il coraggio della fragilità

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Il coraggio della fragilità Atrofia Muscolare Spinale (SMA)

“Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con una disabilità che non si vede.” Ezio Bosso

2005 Conoscete le probabilità di vincita al SuperEnalotto?

Categorie

Probabilità di vincita

6

1 su 622.614.630

5+1

1 su 103.769.105

5

1 su 1.250.230

4

1 su 11.907

3

1 su 327

2

1 su 22

La domanda, quindi, sorge spontanea: perché si gioca? Forse perché le perdite sono minime? Perché è un sogno alla portata di tutti? Per cercare, finalmente, un riscatto dopo una vita di sfortune? Beh! In tutta sincerità non saprei rispondere. L’unica cosa di cui sono al corrente è che il mio vicino di casa dopo quasi un lustro di perseveranza aveva centrato un bel 5. Lo diceva sempre che, se avesse azzeccato la combinazione giusta, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata andare in Germania e comprare una decappottabile color blu elettrico. In effetti era stato di parola. Adesso non chiedetemi perché avrebbe dovuto fare quell’acquisto fuori dall’Italia ma, come diceva sempre mio padre, quell’uomo era un po’ troppo traffichino. Si pavoneggiava sotto casa davanti all’anziano saggio del quartiere da cui, fino al giorno prima, era stato criticato: «È solo uno spreco di denaro! Mai affidarsi alla dea bendata per risolvere i problemi economici! Meglio andare a lavorare!».


Invece no, only the brave, la fortuna, alla fine, era girata nel verso giusto e a quanto pare, per riportare le sue parole, con una spesa di appena un euro. «Ma che fortuna!» aveva esclamato in modo istintivo, trattenendosi dal dire peggio, ma esplicitando la sua invidia, l’anziano signore, mentre direzionava il suo tripode a manico chiuso contro il sorriso ironico del fortunato vincitore. All’epoca avevo solo 5 anni ed ero, quindi, troppo piccola per ricordare quel simpatico siparietto. Mia madre però, tutte le volte che si parlava di fortuna, era sempre pronta a riesumare l’espressione appagata del cinquantenne.

Nessuno della mia famiglia aveva mai avuto una propensione per il gioco e i numeri, per questo motivo ero piuttosto certa che non avremmo mai vinto. Mio padre era un militare. Uomo troppo razionale per correre dietro a probabilità illusorie. Non era mai stato un giocatore né tantomeno pensava di diventarlo. Sosteneva che non valesse la pena sprecare quei quattro soldi per inseguire sogni destinati ad infrangersi. Meglio la pizza tutti insieme il sabato sera. Qualche euro in meno ma un po’ di affetto in più. Il suo motto era «accontentarsi di quello che si ha e farne il miglior uso possibile». Essere sconfitto non rientrava nella sua psicologia soprattutto di fronte alla consapevolezza che le probabilità di successo deponevano nettamente a suo sfavore. Mia madre era un’infermiera. Esibiva il massimo dell’azzardo durante le vacanze di Natale acquistando la cartelletta della tombola. La speranza di vincere uno dei fantastici premi messi in palio la rendeva felice. Giocava per il gusto di trasmettere quel senso di unione, di famiglia. Gli spiccioli vinti erano quasi sempre destinati al mio salvadanaio. I miei genitori si erano incontrati a Merano, tranquilla cittadina dell’Alto Adige. Lei, proveniente dal profondo Sud, aveva deciso di imbarcarsi in una nuova esperienza alla ricerca di una stabilità economica. Lui, al contrario, in quella terra ci era nato.


Entrambi erano lavoratori instancabili. Il loro operato sottolineava un’innata propensione e generosità nei confronti degli altri. Erano sempre indaffarati e, come se non bastasse, durante le ore extralavorative si dedicavano ad attività di volontariato per la Croce Rossa. Dopo diversi mesi di servizio, durante un aggiornamento, i loro percorsi si erano incrociati senza mai più separarsi. Circostanze della vita. Avevano scommesso senza sapere di averlo fatto. In fondo quante probabilità avrebbero avuto di incontrarsi? Pensateci. Merano contava circa 40000 cittadini; solo una piccola parte, tra militari ed infermieri, eseguiva attività di volontariato presso la Croce Rossa; più o meno 80 persone, quel pomeriggio di pioggia, avevano deciso di seguire quel corso. Conclusione: avevano vinto senza spendere un euro.

2021 Era ancora buio ma il cielo all’orizzonte aveva iniziato a cambiare colore. Prima celestino, poi, rosso, violaceo e arancione. L’inverno, ormai stanco, avanzava. Indossava un saio di panno marrone e un paio di zoccoli in cuoio. La sua barba lunga e bianca lasciava dietro di sé gli ultimi strascichi di un debole gelo. Era giunto il momento di riposare al di là dei monti, oltre il tempo. Il suo bastone contorto, in legno d’olivo, non avrebbe sostenuto ancora per molto il suo peso. I prati verdi erano pronti ad avanzare e ad ogni istante assumevano nuove forme prendendo vita. I boccioli dei fiori punteggiavano i primi rami. Una stradina di campagna sterrata si allontanava oltre le porte dell’infinito. Amavo immaginare il suo percorso incerto. La vedevo, molto distante, inserirsi tra case decadenti in pietra tufacea, immerse nella natura. Chi avrebbe incontrato durante il suo cammino? Quanti viandanti avevano percorso il suo suolo acciottolato? Il fiume la costeggiava scrosciando rapido e fresco. Poco distante, il profumo di un bosco timido si sposava con tiepidi frammenti di un calore riflesso. Io ero dietro la finestra della mia stanza. Ascoltavo i suoni della casa e quelli provenienti dall’esterno. Pettinavo i miei capelli lunghi, lisci e castani. Gocce d’acqua, intanto, si aggrappavano alla superficie del vetro cercando di resistere all’evaporazione causata dall’inevitabile aumento della temperatura giornaliera. Il vapore acqueo proveniente dal mio respiro opacizzava i colori impedendo una visione nitida del giovane crepuscolo oramai alle porte.


Intanto, ghirigori imprevedibili di rondini alimentavano poesie. «Elisa! Se non ti muovi farai tardi!» … mi ammoniva mia madre. Io mi preparavo ad un nuovo giorno. La strada era ancora deserta. La decappottabile blu elettrico del mio vicino di casa non voleva partire. A quanto pare, all’accensione singhiozzava come un’auto d’epoca. Non che ci capissi un granché di veicoli ma, a giudicare dalla oculata profondità delle sue imprecazioni, il danno doveva essere importante. Quell’auto aveva appena 14 mesi di vita ma, fino ad allora, i problemi erano stati più delle soddisfazioni. Mi faceva sorridere pensare alla sua euforia nell’esibire il meritato trofeo al rientro da Schmalkalden-Meiningen. Avevo capito la provenienza perché ero andata a ricercare la sigla, indicante la provincia, impressa sulla targa. Malgrado fosse esplicitamente illegale circolare con quell’identità, aveva deciso di rischiare, prorogando i tempi, per ricordare a tutti la sua destrezza nel fiutare ottimi affari.

«Sarà la centralina!»… aveva suggerito il solito anziano dell’angolo. Anche quella mattina, non avendo a disposizione un cantiere da sorvegliare, si era improvvisato meccanico. Compiaciuto come non mai. Io, invece, avevo capito che la parola CENTRALINA, sebbene potesse sembrare innocua e inoffensiva, nel settore automobilistico poteva ferire più di mille frasi ingiuriose. Era ufficiale, aveva preso un granchio. Avrebbe dovuto ritornare in Germania e farsela sostituire ma invece no, lui, il cocciuto, non voleva proprio farsene una ragione. Al contrario, preferiva cambiare ogni singolo pezzo con la speranza che si trattasse di quello giusto. In fondo, per quanto aveva riferito quel ficcanaso del vicino di casa, c’era solo una possibilità su quattro che fosse accaduto il peggio. Prima di ricorrere a rimedi drastici avrebbe voluto testare le altre tre alternative. «Poco pane, poche pene. Meglio la nostra affidabile Punto!» … aveva pronunciato orgoglioso mio padre guardando la sua auto color giallo oro parcheggiata al bordo della strada. Effettivamente, seppur avesse meno di 10 anni e fosse di seconda mano, non aveva mai dato alcun problema. Poi, improvvisamente, le voci si erano dileguate lasciando il posto ai trilli delle allodole. Un soffio di vento aveva smosso il mio corpo dando avvio ad una nuova avventura. Una chiosa incisa su un cartello in legno recitava tre parole: Sensazione, Movimento, Autonomia. Non so come ma mi ero ritrovata in una bolla di sapone. Volavo in alto seguendo il percorso della stradina sterrata. Il mio contenitore aveva ricevuto una spinta fin troppo vigorosa. Questa volta, probabilmente, sarei andata oltre quell’orizzonte sconosciuto. Una brezza fresca accarezzava il mio volto. Nonostante mi trovassi a diversi metri da terra non avevo paura di cadere. Anzi, inverosimilmente, quelle mura trasparenti mi facevano sentire protetta. Sporgendomi ero riuscita ad intravedere i miei genitori. Mi guardavano sorridendo e questo mi tranquillizzava ancora di più. La loro presenza costante era fondamentale. Mia madre mi aveva preparato il grembiulino rosso per il primo giorno di scuola. L’avevo indossato qualche sera prima perché smaniavo dalla voglia di capire come mi stesse. Sul petto aveva un ricamo colorato raffigurante una pera mentre sulle tasche laterali erano state disegnate due matite sorridenti. La prima settimana ero stata affiancata per l’inserimento, poi, in modo graduale, avevo raggiunto la meritata autonomia. Il mio zainetto aveva un sfondo rosa con, in primo piano, il disegno di una


ballerina. Probabilmente un giorno lo sarei diventata. Era il mio sogno nel cassetto. Già mi ci vedevo a zompettare sulle punte con indosso quel tutù, davanti ad una platea di una sala gremita di gente.

Intanto, tra un particolare e l’altro, avevo raggiunto una nuova frontiera: la scuola elementare. I giorni precedenti avevo immaginato l’ingresso trionfale. Quante curiosità. Finalmente il primo grande salto. Avrei conosciuto nuovi compagni e insegnanti. Con chi mi sarei seduta? Avrei scelto il primo o l’ultimo banchetto? Ero felicissima. Durante le prove di canto, per lo Zecchino d’Oro, avevo già incontrato alcuni bambini e per questo la curiosità di capire con chi sarei capitata era aumentata in modo smisurato.


Il paesaggio era incantato e le poche nuvole bianche che coprivano il cielo azzurro sembravano essere disegnate. Un raggio di sole aveva illuminato il mio volto. Per un attimo il suo bagliore mi aveva costretta a chiudere gli occhi. Poi, riaprendoli, avevo incontrato, tra gli alberi verdi, la sagoma di un grosso edificio: la scuola Media Inferiore. Mio padre aveva preso per mano la mia ansia accompagnandola fino alla soglia della porta della nuova classe. I compiti a casa erano aumentati di pari passo alle uscite pomeridiane in bicicletta. Avevo instaurato un legame indissolubile con una ragazza che sarebbe diventata la mia amica del cuore. Con lei condividevo quei segreti a cui nessun altro avrebbe potuto accedere… con lei pianificavo un futuro che ci avrebbe visto diventare due chef ad altissimi livelli. Nel frattempo, un gabbiano aveva sfiorato la mia sfera facendomi sobbalzare per la paura. Fortunatamente, grazie alla sua virata repentina, ero di nuovo al sicuro. Sventato il pericolo, ero ritornata ad osservare.

Per alcuni tratti, il fiume si dissolveva tra la fitta boscaglia. Compariva e scompariva scandendo il susseguirsi dei miei anni. Senza rendermene conto ero già cresciuta. Alla fine, dopo svariate riflessioni, avevo scelto di frequentare l’indirizzo informatico dell’industriale. Maturando avevo compreso che quella decisione rispecchiava maggiormente le mie attitudini. Avrei creato i miei piatti a tempo perso.


In un batter d’occhio, lo scooter dei primi anni aveva lasciato il posto ad un auto sgargiante. Tutto andava nel verso giusto. Il trucco mi faceva sentire più grande… più donna. Anche lo sguardo dell’irresistibile belloccio dai capelli ingelatinati si era posato su di me. Ero invidiata da tutte le mie compagne. Dinamica e piena di energia. La mia bolla non era mai stata spinta così in alto. Aveva preso quota, dando una risposta alla mie innumerevoli domande. Tra nuvole ovattate, ero riuscita ad avvistare il mio fiume e la mia strada. Il primo, sfociava nel mare azzurro e levigato; la seconda, giungeva ai piedi di una spiaggia ampia e dorata. Ora, l’orizzonte sconosciuto aveva preso forma, aveva preso vita. Minuscoli puntini marroni percorrevano il sentiero che avrebbe portato loro a bagnare, lungo la linea di battigia, i piedi scalzi. Procedevano lenti seguendo un moto unidirezionale come fossero formiche. Erano viandanti, pellegrini, donne e uomini di tutte le età. Trasportavano involucri pesanti, ricchi di sogni e di speranze. Ognuno di essi aveva una storia… tutti affidavano al mare la propria verità. «Elisa svegliati! Ci dobbiamo lavare e vestire. Oggi sono troppo in ritardo». Un fulmine mi aveva colpita. Priva di paracadute, ero precipitata all’interno di quel fiume che invece di sfociare nel mare seguiva la direzione opposta. Il respiro era diventato più rapido e affannoso. Una barba bianca e gelida mi avvolgeva. Il bastone era resistente e la primavera sembrava essere impotente di fronte all’imposizione dell’inverno. «Elisa!»… mi aveva dondolata delicatamente mia madre. Mi ero ritrovata sul terrazzo della mia abitazione. Da quella postazione avevo solo un punto d’osservazione da cui avrei potuto vedere cosa stesse accadendo fuori. Questa volta però era tutto diverso.


Il cielo era grigio e pioveva a dirotto. Il vento piegava i faggi strappando le loro foglie. Io guardavo ragazzini e genitori entrare di corsa nella scuola materna di fronte casa. Ricominciava così il mio percorso. Questa volta la strada era ricoperta dal ghiaccio. Scivolosa e incolore. Non volavo in una bolla fatata ma gattonavo troppo lentamente nonostante dovessi e volessi alzarmi per camminare. Avevo 14 mesi e le mie gambe erano prive di energia. La tormenta aveva spazzato la mia stanza colorata con tutti i miei giochi. Sentivo l’eco della voce dei miei genitori. Poi, gradualmente, dietro gli arbusti avevo riconosciuto nuovi profili: il pediatra, il fisiatra, il neuropsichiatra, il genetista. Ognuno di loro esprimeva un verdetto. Nessuno rifletteva un raggio di sole. Il 14 aprile del 2001, a 425 giorni dalla mia nascita, l’elettromiografia aveva dato il suo lapidare responso. Il cartello in legno si era ribaltato presentandomi una nuova dicitura: Atrofia, Muscolare, Spinale. Tre parole sintetizzabili in un acronimo: SMA. In media, solo una persona su 40 possiede l’alterazione di quel gene. Uno su 40 è, quindi, portatore sano. La mutazione del gene SMN1 (localizzato sul cromosoma 5) di entrambi i genitori conduce ad una probabilità del 25% che un bambino possa ereditare la mia malattia. L’incidenza è di circa un paziente ogni 10000 nati vivi. I miei genitori, al primo tentativo, avevano fatto 4 al SuperEnalotto. Ora la strada aveva preso una nuova pendenza. I miei limiti mi imponevano di crescere prima degli altri… più degli altri. Dovevo trovare il coraggio di muovermi nel fango. Il desiderio di pattinare con mia madre era affondato insieme al sogno di danzare. La ballerina sorridente dallo sfondo rosa sarebbe rimasta stampata sul mio astuccio e nella mia mente. Avevo finalmente raggiunto la prima di tre rocce. Da qui riuscivo a vedere il pulmino bianco e la scuola dell’infanzia. Avevo 3 anni e tutti mi dicevano che il mio sorriso era contagioso. Spesso avevo la bronchite, per questo a 3 giorni di presenza ne corrispondevano 15 di convalescenza. Le sedioline della mia classe erano prive di braccioli ed io non riuscivo a mantenere l’equilibrio. Dopo un breve periodo nel passeggino, mia madre aveva deciso di comprare una seggiola nuova e personalizzata. Indossavo il busto 24 ore su 24 e quindi, per non stancarmi, ero costretta ad alternare la sedia al passeggino. Per stare in piedi, poi, mi era stato affidato un tutore che mi bloccava gambe e bacino. Io appoggiavo i piedi e le braccia su due piani e mi facevo spingere su quattro rotelline. Quattro anni. Avvertivo una profonda stanchezza ma comunque non demordevo. Dovevo continuare. Ricoperta dalla neve, da dietro la seconda roccia, percepivo una forte energia. Avevo iniziato a scavare con tutte le mie forze. Qualcosa mi diceva che ne sarebbe valsa la pena. Dopo diverse bracciate avevo ritrovato lui: Tommy. Era una carrozzina elettrica arancione a cui dovevo tanto della mia felicità. Mi aveva dato finalmente la possibilità di muovermi e interagire maggiormente con i miei compagni. Ormai non potevo più farne a meno. Andavo avanti e indietro per la classe come fossi Schumacher. Quel ritrovamento mi aveva restituito le forze. Ora, avevo cinque anni. Alla fine, grazie a Tommy, avevo raggiunto il terzo masso. La sua ripidezza tagliente mi ricordava la mia prima recita da presentatrice. Quel giorno si era rivelato un vero fallimento. La rappresentazione si sarebbe svolta nell’atrio al primo piano. Tommy era troppo pesante per essere trasportato. D’incanto mi ritrovai nuovamente all’interno di quell’odiato passeggino. Una rabbia incontrollata aveva attraversato il mio corpo fragile. Non capivo perché, dopo anni di fisioterapia, non avessi ottenuto ancora nulla. A che cosa servivano tutti quei sacrifici se poi, per un’occasione così importante, ero di nuovo costretta a ritornare indietro? Ero scoraggiata, arrabbiata, delusa.


Intanto, con la stessa velocità con cui scendeva la temperatura, rievocavo organizzatissimi campi scuola estivi a cui non avevo avuto accesso. Il gracchiare di un corvo aveva richiamato la mia attenzione. Era lì su un ramo, intento ad osservare. Mentre lo fissavo, le ruote di Tommy si erano impigliate in un grosso arbusto. Nel tentativo di divincolarmi avevo dato forti scossoni. La lastra di ghiaccio che mi sorreggeva, ora, traballava. Dopo qualche istante di assoluta immobilità avevo visto la mia vita scivolare giù per un dirupo. Ero sbalzata lontano dalla mia carrozzina e avevo colpito con il torace il tronco di un pino ruvido e imponente. Non respiravo ed ero chinata su me stessa. Solo una gamba era rimasta distesa. Piegavo il collo verso la spalla sinistra cercando di assumere una posizione antalgica. Ero gravemente ferita. Quell’albero


segnava il confine dei miei 10 anni. L’impatto era stato troppo violento ed io, così piccola e indifesa, ero stata costretta ad entrare per la prima volta in una sala operatoria. Artrodesi vertebrale posteriore. Il polmone sinistro accartocciato, la spina dorsale afflosciata. Busto e tutori corpo/piedi erano importanti ma non potevano bastare. Dovevo ricevere immediatamente un aiuto. Una barra in titanio mi avrebbe sostenuta per il resto dei miei giorni. La discesa aveva srotolato velocemente la pellicola della mia vita. La prima diapositiva riportava lo sguardo dolce della mia amica Elisa. Era il primo giorno di scuola elementare e lei era stata l’unica ragazza che aveva avuto il pensiero di avvicinarsi a me. Subito dopo, però, seguivano una serie di immagini in cui erano contenute le cicatrici degli anni tra prima elementare e terza media. Durante quel lasso di tempo avevo raggiunto piena consapevolezza della mia reale situazione. Ogni episodio controverso scandiva un graffio sul mio petto, ogni situazione spiacevole rinforzava il mio guscio. Se dovessi sintetizzare quel periodo con una parola mi verrebbe da dire: ESCLUSIONE. Le mie coetanee mi mettevano da parte perché la carrozzina era ingombrante e d’intralcio. Immaginate un girotondo o un nascondino. Impossibile. Non ricordo gite in cui avessi accessibilità o fossi distante dalla mia famiglia. Persino i bus non avevano posti a sedere adatti a me. Le case in cui i miei amici festeggiavano i loro compleanni non erano, per la maggior parte, accessibili quindi a malincuore ero costretta a rinunciare. Avevo scoperto, inoltre, che alcune compagne avevano volutamente deciso di mettermi da parte durante le loro uscite. La mia situazione avrebbe posto troppi limiti. In terza media, per la prima volta, mi ero infatuata di un ragazzo della mia classe. Con grande sorpresa, aprendo il diario, avevo trovato una dolcissima riflessione: MI PIACI TANTO. Era rivolta proprio a me. Avevo provato una sensazione bellissima. Il cuore mi batteva forte. Un minuto dopo, però, ero stata privata di quella pagina… di quel sussulto. Inutile dire che c’ero rimasta troppo male. Era stato come scartare una caramella e non avere avuto la possibilità di assaporarla. Fortunatamente il soggetto in questione, vedendo la mia delusione, aveva subito motivato il nobile gesto: «Se si venisse a sapere, tutti mi prenderebbero in giro!». «Hai ragione», avevo risposto. Cercate di immaginare il mio stato d’animo. Secondo il tipo, questa spiegazione, l’avrebbe scagionato da tutti i mali. La mia scorza stava diventando dura. Ero andata in ipotermia e avevo la febbre alta. Avevo depositato, sotto un cumulo di neve, il mio corpo inerme e le mie speranze residue. Poi, nella bufera, sopraggiungeva una forza imperiosa. Erano i miei genitori. Esausti. Dopo giorni di ricerche mi avevano ritrovata. Erano sempre loro a salvarmi… a proteggermi. Un cristallo non è in grado di sopravvivere alla violenza di una slavina. Con loro avrei scalato quella vetta tempestosa… con loro avrei ritrovato il calore di cui ero stata privata.


Una coperta di lana mi aveva ricoperto il corpo ed io avevo appoggiato la testa sulle spalle forti di mio padre. Non era lontano il luogo del rifugio. Il cielo alternava colori tra bianco e grigio. Guardavo nel vuoto intensamente come per trovare un modo per uscire dalla mia situazione. “Da grande diventerò come Tecna!”… non conosco il motivo per cui era venuta a galla quella riflessione datata. Tecna era la fata della tecnologia appartenente ad un gruppo, composto da sei ragazze, chiamato Winx. I suoi requisiti non rispondevano ad azione, forza e dinamismo, bensì ad intelligenza, razionalità e logica. Era diventata da subito la mia eroina. Le sue qualità rispecchiavano le mie possibilità. Da quel momento avevo deciso di avvicinarmi all’informatica. Mentre mio padre camminava mi ricordai della scuola superiore. Era il primo giorno e mia madre mi aveva accompagnata fino all’interno della classe. Ogni banco disponeva di due posti a sedere. Ero stata una delle prime ad arrivare e per questo avevo avuto la possibilità di scegliere dove posizionarmi. Dopo venti minuti tutti i banchi erano completi ma io ero rimasta sola. Dopo aver fissato lo spazio vuoto, avevo indirizzato lo sguardo fuori dalla finestra. Pensavo che sarebbe stato l’unico modo di nascondere la mia amarezza. In quel momento, avevo incrociato gli occhi di mia madre. Mi osservava premurosamente dalla strada regalandomi un bacio accompagnato da un tenero sorriso. Non ho mai portato rancore nei confronti dei miei nuovi compagni. In fondo, nel credere comune, l’associazione tra disabilità fisica e ritardo mentale è molto frequente. Sapevo che, per farli ricredere, avrei dovuto pazientare solo alcuni giorni. «Sbaaammm!!!» una porta si era chiusa facendomi spalancare gli occhi. Non eravamo, ancora, arrivati al rifugio ma quel risveglio così improvviso mi aveva ricondotto alla mia realtà. Questa volta, erano le braccia di mia madre a sostenermi. Mi trasportava per il corridoio dando avvio ad una nuova giornata. Mi chiamo Elisa. Vivo con i miei genitori. Ogni mattina mi preparano la colazione, mi lavano, mi vestono e poi vanno a lavorare. Per ovvi motivi, devo sottostare agli orari degli altri e per questo non ho facoltà di decidere quanto, quando e come dormire. Durante la notte, per assumere una posizione più confortevole, sono costretta a chiamare mia madre o mio padre. Le mie terminazioni nervose funzionano perfettamente, per questo avverto sia il dolore che sensazioni piacevoli come il solletico e le carezze. Quando ho un prurito o devo espletare un bisogno devo attendere pazientemente che qualcuno rientri a casa. Ho imparato col tempo a sopportare e ad essere paziente. Sono molto delicata e per questo ho una gran paura di ammalarmi. La mia respirazione è debolissima e i muscoli respiratori sono privi di energia. Ogni volta che mi raffreddo ho difficoltà a tossire e ad espellere le secrezioni tracheo-bronchiali. Dispongo di un macchinario (macchina della tosse) che insuffla ed esuffla aria meccanicamente. Avete presente Penguin Race? Da piccola ero particolarmente affezionata a quel gioco. Passavo ore ed ore ad osservare quel pinguino solitario salire una scala automatizzata che poi l’avrebbe fatto


slittare giù per uno scivolo. In quel pinguino mi ci ritrovavo tanto. Il colore riportava il mio stato d’animo, le scale erano la notte, lo scivolo la mia quotidianità.

Adesso vi avrò sicuramente spaventati. In effetti, rileggendo questa presentazione, non posso darvi tutti i torti. Quella di cui vi ho parlato fino ad ora è solo una parte di me e della mia vita. Poi c’è anche un’altra Elisa. Mi ripresento. Mi chiamo Elisa e ho 21 anni.


Frequento il terzo anno di università e ho una media esorbitante. Amo la tecnologia e per questo non posso stare senza il mio tablet o il mio cellulare. I miei genitori prima di uscire di casa si accertano, sempre, che tutto sia alla mia portata. Sono una maga dei videogames e gioco tantissimo online. Sono felicemente fidanzata e ho una sorella. Da mio padre ho preso la passione per la musica metal, da mia madre quella per la cucina. Sono solare, sorridente, simpatica. A due anni e mezzo parlavo correttamente l’italiano, a quattro leggevo in modo perfetto. A scuola eccellevo in tutte le materie. La SMA non intacca la capacità di ragionare anzi, spesso, i soggetti come me hanno un’intelligenza superiore alla media. Pensateci bene: superiore alla media. È proprio su queste parole che vorrei focalizzare la vostra attenzione. Quello che dovrebbe essere il mio punto di forza è proprio la mia condanna. Un’arma a doppio taglio. È come avere le ali ma essere incapace di volare. Avete mai visto un leone in libertà? Io ho avuto il piacere di osservarlo in due occasioni: la prima, nel cartone animato della Disney, il Re Leone, in cui il piccolo Simba si era dimostrato all’altezza dei racconti e delle mie aspettative; la seconda, in un documentario, ambientato in Kenya, in cui veniva riportato sulla vetta di una piramide, all’interno della categoria dei supercarnivori. Sopra di lui il nulla. Condivideva la sua supremazia con la famelica orca assassina ed entrambi erano consapevoli, salvo allarmanti imprevisti, che non si sarebbero mai incontrati. Ero attratta dalla forza di quel mammifero. Aveva il pieno controllo di ogni cosa, era invulnerabile. La settimana successiva, putacaso, si era presentata l’occasione di vederlo in carne ed ossa. Che gioia. Il circo era arrivato in paese e lui aspettava solo di essere ammirato. Era disegnato sulla locandina pubblicitaria e non dava adito a dubbi. Era come lo immaginavo: forte, rapido, aggressivo, libero. Afferrava con gli artigli la sua preda non dandole via di scampo. Avevo pregato mio padre affinché si liberasse dai suoi impegni. Non potevo mancare al grande appuntamento. Ero stata posizionata in prima fila. La gabbia era già pronta. Un uomo temerario, dall’uniforme dorata, aveva dato il via al pericolosissimo spettacolo. Una grata si era sollevata e, rullo di tamburi, erano entrate loro: quattro belve feroci pronte a sbranare il moscerino presuntuoso e fastidioso. Dopo tre secondi netti, però, l’entusiasmo aveva lasciato il posto alla tristezza. Il moscerino luccicoso dettava legge dall’alto di un frustino. Sorrideva a pecore impaurite aventi sembianze di leoni. Non un ruggito, non un cenno di ribellione. I loro occhi erano spenti tanto quanto il loro orgoglio. Nulla rimaneva di quella locandina. Privati del loro istinto eseguivano meccanicamente ciò che veniva loro imposto. Il domatore invece di domare aveva appiattito la loro natura, il loro istinto, il loro ricordo di libertà. Dopo quindici minuti di supplizio e frustrazioni la grata si era risollevata. Era stata la parte più bella del dramma. Le belve feroci salivano la scala automatizzata, pronte a scivolare ancora, proprio come il mio pinguino. All’uscita avevo visto un uomo felice, con un cappello nero da mago, affacciarsi dal botteghino: «Solo due euro!!! Vedrete i leoni divorare una bistecca!» Erano rientrati in un’altra gabbia. Questa volta più piccola.


Avevo chiesto a mio padre di riportarmi a casa. Avere la vitalità e l’istinto di un leone ma essere contenuta dalla gabbia del proprio corpo. Il domatore è una società che mi ricorda continuamente quello che ho e quelli che sono i miei limiti.

Il suo frustino mi ferisce quando... … non riesco ad accedere all’interno di un negozio per misurare una maglietta o per fare un regalo; … non ho la possibilità di entrare in un ristorante o in un bar per mangiare una pizza o un gelato; … non vedo una passerella che arrivi sufficientemente vicino al mare; … fallisco nel prenotare un viaggio perché i tour operators non prevedono pacchetti per persone con i miei problemi; … ho difficoltà a muovermi per strada per assenza di passatoie o a causa di ostacoli e barriere architettoniche; … non esiste una normale pianificazione per un’esperienza Erasmus o per l’accesso alla casa dello studente; … non posso prenotare, automaticamente, un biglietto per un concerto; … non è disponibile una navetta per il mare, per l’università o per la discoteca; … non raggiungo una fermata per l’assenza di una rampa e quando piove non sono in grado di ripararmi... … potrei continuare all’infinito ma la vita mi ha insegnato che lamentarmi non mi aiuta ad evitare le frustate da parte del domatore. Superiore alla media mi fa guardare avanti, al di là dei miei limiti; Superiore alla media mi fa arrabbiare quando non sono in grado di fare quello che tutti riescono a fare e mi rende più felice quando riesco a conquistare. Superiore alla media mi ricorda che sono in grado di costruire e aiutare. Superiore alla media mi rammenta il sogno di essere una Punto e la realtà di essere Elisa.

Un sentito ringraziamento a Barbara ed Elisa per essersi messe a nudo raccontando la loro storia.

Antonio Romano Immagini di Maria Concetta Olimpio



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