Emozioni in Gazzetta / Vite in trincea - L'infermiere

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Vite in trincea L'infermiere "Gli infermieri sono quei lavoratori che ti tengono la mano mentre stai morendo, sono quelli che ti salvano la vita, sono quelli che conoscono le tue medicine e le tue paure come nessun altro." Niccolò Zancan

Seduto con gli occhi socchiusi. Barcollavo, come fossi un equilibrista, sulla vecchia sedia bianca regalatami da mio padre. Uno dei quattro piedi era privo di gommino e quindi ogni volta che mi muovevo quella fune vacillava. Ogni volta mi ripromettevo di raggiungere il negozietto a pochi metri da casa per acquistarne uno nuovo ma alla fine, svanito il fastidio serale, decevo di dare priorità a faccende meno superflue. È proprio vero, quando le azioni vengono rimandate perdono inevitabilmente di importanza. Il nervosismo, andando a scemare, riduce sempre l'efficacia dei buoni propositi finchè non si dileguano. E intanto il tempo passava ed io ero sempre lì pronto a ricordarmene tutte le volte che ero seduto su quella sedia. Quel tac associato al suo movimento mi condannava, in simbiosi con mia moglie, a riflettere su quanto fossi poco puntuale nel rispettare i miei impegni. Anche quella sera, raggiunta la soglia limite, avevo ricaricato quell'arma che il giorno successivo avrebbe sferrato il colpo. Proprio così, l'ennesima esplosione a salve. L'umidità della notte avrebbe, senza ombra di dubbio, bagnato quella polvere impedendo la partenza del proiettile. Erano appena le 21:00. La tv proiettava immagini sul mio volto stanco e pensieroso. Seguivo senza interesse un episodio di una serie tv di cui non avevo visto le prime puntate ma soprattutto senza pensare minimamente di soffermarmi sulle successive. Potevo tranquillamente cambiare canale ma, sarò sincero, non mi andava di alzarmi a prendere il telecomando. Quei due metri di distanza mi sembravano chilometri. Avevo atteso il passaggio di mia moglie per chiederle di farmi la cortesia ma alla fine, dopo un'ora di assenza, avevo immaginato fosse emigrata in Nuova Zelanda. Alla lunga, mi ero autoconvinto che, tutto sommato, poi... quella puntata concatenata al nulla non mi dispiaceva così tanto. In realtà, la mia apatia aveva un'origine. Oltre ad una stanchezza immotivata, un pensiero aveva fatto breccia nella mia mente. Un'ora prima infatti, proprio su quel canale, il tg locale aveva riportato il grafico indicante il numero dei casi positivi al COVID-19 durante la settimana in corso. Una montagnetta dipinta di rosso in graduale aumento indicava numeri sconfortanti. Tracciato privo di interruzioni, depressioni o cedimenti. Triste. Dopo tanti sacrifici e privazioni era come giungere sulla bianca cima di una montagna, desiderosi di giovare della meritata discesa, per ritrovarsi ai margini di un ripido crepaccio o, peggio ancora, ai piedi di una nuova vetta. In poco meno di un mese, i contagi avevano subito una brusca impennata. Facendo mente locale, avevo ricordato che diversi anni prima, sostenendo l'esame di statistica, un'onda identica aveva destato il mio interesse. Anche quel vettore seguiva la stessa direzione. All'epoca, però, si parlava di produzione di pomodori nel foggiano correlato ad ore di lavoro/personale assunto regolarmente. Ricordo che osservando quella linea disegnata feci un rapidissimo calcolo. Ero giunto alla conclusione che, per produrre il quantitativo di pomodori indicato, i dipendenti avrebbero dovuto lavorare almeno 22 ore al giorno. Un'altra alternativa sarebbe stata quella di raddoppiare il numero di personale contravvenendo all'ufficialità dei dati. - Che abbiano sbagliato? E se anche fossero il doppio? Comunque dovrebbero lavorare 11 ore al giorno. Non è possibile. - ...avevo esternato ad alta voce.


Dietro l'ingente quantitativo di pomodori non poteva che esserci un errore. La conclusione non dava adito ad altre spiegazioni. Avevo, poi, sospirato guardando l'orologio. Era troppo tardi per dedicarci ulteriore tempo. Sfogliai la pagina passando a quella successiva. In fondo non mi era mai importato nulla di quell'esame, figuriamoci dei suoi dettagli. "Ma che ci azzecca! Riesumare quel vettore per poi paragonarlo a questa sconvolgente situazione! Una follia!"...ponderavo. Effettivamente, quell'associazione era stata inaspettata ma soprattutto fuori luogo. Eppure il mio inconscio si ostinava a riportarmi a quel giorno datato. "Se vogliamo essere fiscali, però, neppure questa tabella sembra essere fedele alla mia realtà. Il vettore punta sempre verso l'alto, i casi positivi sono innumerevoli, il numero dei decessi è importante. In contrapposizione, dalla mia osservazione si evince che le persone contagiate sono pochissime e, inoltre, tra queste nessuna è deceduta. Nell'aria si respira una situazione di tensione generale ma, sostanzialmente, sembra esserci un clima di scarsa criticità."...avevo continuato a meditare. In quel frangente, però, seppur riuscissi a rendere tangibili le mie supposizioni mi ero reso conto che qualcosa mi tratteneva dal voltare pagina. Eppure, anche questa volta, nessuno mi impediva di associare quei terrificanti numeri, proiettati sul monitor del mio 49 pollici, ad un grossolano errore. Perché tutto possa corrispondere dovrebbe esserci un rapporto uno a venti tra meridione e settentrione. Ma dai! -

Dopo due minuti netti ritornavo sulla questione: - E se questi numeri fossero veri? E se non ci fosse un errore? Qui non si parla di raccolta di pomodori. Qui si parla di salute. Ho il dovere di conoscere la veridicità dei dati. È proprio vero, l'importanza di una questione va di pari passo al coinvolgimento. Nella vita un uomo è libero di percorrere due strade: può raggiungere quell'indifferente telecomando e guardare un programma in prima serata oppure accontentarsi di una puntata qualunque di una soap opera; può cambiare una sedia senza tappino, cercando una definitiva stabilità, oppure ascoltare il tac


correlato allo scomodo movimento; può comprendere l'attendibilità di un asse cartesiano oppure voltare pagina pensando ad un banalissimo errore. Io, ad esempio, avevo scelto di essere troppo distante dal mio telecomando, poco nervoso per risolvere il problema tappino della sedia, per nulla coinvolto nella produzione di pomodori, molto motivato nel capire se quel triste grafico fosse reale. Sicuramente il lavoratore nel foggiano si sarebbe soffermato su quella pagina tanto quanto mia moglie sulla polemica nella questione tappino della sedia. Ore 22:00 L'aumento dei decibel causato da una maledettissima musichetta pubblicitaria di un prodotto nato per contrastare la cattiva digestione mi aveva svegliato di soprassalto. Avevo appoggiato scomodamente la testa sulla superficie di vetro del tavolo in pendant con la sedia di mio padre. Quel risveglio mi aveva dato la carica per alzarmi, spegnere la tv, andare a lavare i denti e, infine, recarmi a letto. Intanto mia moglie era appena rientrata dalle vacanze con la pretesa di impossessarsi del telecomando. La sua euforia da conquistatrice si era scontrata con pacifiche donne intente a lavare i panni a ridosso del fiume. Mi ero arreso ancor prima di iniziare la disputa. Diego, mio figlio, si era appena addormentato nell'amata culletta. Ore 22:05. I piedi erano sudati e freddi. Il loro contatto col piumone mi infastidiva ancor più della pubblicità. Ero ansioso, agitato. Mi giravo e rigiravo continuamente. Altre volte mi era accaduto di prendere sonno sulla sedia ed arrivare a letto sveglio, senza spiegazione, sveglio come un cardellino. Quella volta però avevo i miei buoni motivi. Nonostante spacciassi tranquillità ai quattro venti sentivo la mia anima turbinare. Il giorno successivo mi sarei incamminato per un nuovo percorso. Poche settimane prima, infatti, la vita mi aveva messo di fronte ad un nuovo bivio. Rimanere sulla strada amica o intraprendere un sentiero sconosciuto? Dopo essermi consultato con mia moglie avevo deciso di spiccare il volo. Alcune scelte vanno fatte con i giusti tempi. Non potevo aspettare che anche questo treno partisse lasciandomi sul binario. Ero certo che quell'incarico della durata di tre anni avrebbe dato un futuro migliore a me e alla mia famiglia. E così, i giorni successivi, avevo assistito al lancio della pallina della roulette da parte della fortuna. Il tassello su cui era rocambolata recitava la gloriosa destinazione che mi avrebbe fatto fare l'ambito salto di qualità: <<L'INFERMIERE PER TUTTA LA DURATA DELL'INCARICO RESTERÀ IN SERVIZIO PRESSO IL DEA (RIANIMAZIONE PAZIENTI COVID) >> Fa parte del gioco. Bisogna azzardare. Se non giochi non vinci. In quel momento, però, ero focalizzato su un altro concetto: "Se non avessi giocato non avrei perso." Ancora penso alla reazione di Stefania, mia moglie. Guardava il piccolo Diego non riuscendo a distogliere lo sguardo dai suoi occhioni profondissimi. Preoccupata, emotiva. Sapevo che se avesse pronunciato una parola avrebbe iniziato a piangere. Aveva preferito rimanere in silenzio. Io, invece, depositando la lettera sul tavolo ero rimasto in piedi vicino alla porta d'ingresso. Entrambi eravamo a conoscenza di quel luogo sconfortante. L'avevamo visto innumerevoli volte in tv. Il vento che ci avvolgeva d'incanto era cambiato. Gelido, forte, rabbioso. La rotta che avrei dovuto assecondare impattava contro desolati rami avvolti da annebbiate nuvole nere.


A stretto contatto con quei pazienti positivi che avevo sentito nominare solo al Tg e che erano così distanti da me e dalla mia realtà. Dritto tra le fauci del leone. Un nuovo inizio avrebbe dovuto essere affiancato da serenità, entusiasmo e gioia e invece era accaduto l'esatto opposto. Ore 05:00 Quei dati, comunicati dal TG durante la prima serata, continuavano a lacerarmi la mente. - Lo sapevo che non dovevo andare oltre il nono canale! - ...avevo pronunciato ad alta voce incurante dello stato di allerta di mia moglie. Quell'alba me l'ero prospettata in modo diverso. Per una questione di principio ero rimasto nel letto cercando di avvicinarmi quanto più possibile alla sveglia delle 05:15. Quella notte l'avevo trascorsa quasi in bianco. Mi ero pentito di non avere continuato a sbavare sulla gelida lastra di vetro del mio tavolo. Quel momento era stato il meno irrequieto delle ultime 24 ore. Andare a letto alle 22:00 non mi era servito praticamente a nulla. Intorno alle 4:30 avevo udito il cinguettio di un solitario pettirosso. "Boh. Io, notturno cardellino dai piedi sudati, svegliato da un dissennato pettirosso prima dell'aurora." ...avevo pensato sorridendo. Poi la realtà ansiogena mi aveva prontamente ricomposto. Non era quello il momento di fare battute. Sicuramente anche quel povero pennuto impazzito avrà avuto i suoi problemi. Chissà, nel suo piccolo, che guerra stava combattendo. Mia moglie, intanto, faceva finta di dormire. Anche lei era agitata. Più volte, mentre cercavo disperatamente di stritolare le coperte come fossi un boa constrictor, mi aveva chiesto se andasse tutto bene. Io, indisposto per la banalissima domanda, avevo controbattuto affermativamente. Alla fine, rassegnato, ero fuoriuscito dalle coperte con la stessa velocità di una farfalla che abbandona il suo baco. In cucina la moka era già pronta dalla sera precedente. L'avevo preparata, per non perdere tempo, nel caso in cui non avessi sentito la sveglia. Il tempo di accendere il fornello e un intenso aroma avrebbe inebriato la casa. Intanto, durante l'attesa, avevo deciso di avvicinarmi solertemente alla culletta di mio figlio. Nonostante conoscessi bene la sua stanza mi capitava, all'incirca due volte su tre, di inciampare contro il mobiletto dei pannolini in prossimità della porta. Fortunatamente quel giorno, nonostante il mio accanimento nei confronti dello spigolo in ciliegio, non ero riuscito a svegliarlo. Dormiva beatamente. Avrei voluto dargli un bacio sulla fronte ma non volevo osare oltre per paura che si svegliasse. Per di più, mi piaceva l'idea di socchiudere la porta della sua stanzetta ed essere contagiato da quell'aria di serenità. Nel contempo, ovviamente, non avevo sentito il gorgoglio della moka che era stata spenta dalla previdente Stefania. Anche lei condivideva la mia ansia. Si era seduta in cucina attendendo in silenzio. L'aurora rifletteva pallidi colori sul suo dolce volto. Quella mattina era ancora più bella. Ora, fuori, il cinguettio non era più solitario.


Dal balcone del salone potevo finalmente vedere schiere di alberi d'olivo all'orizzonte. I loro rami erano tesi ad abbracciare nuvole sfuggenti di un nuovo cielo. La fitta rugiada, diradandosi lentamente, dava sfogo ai colori del prato verde a pochi metri dalla strada. Io, poggiando il gomito sul balcone, sorseggiavo con debolezza la scottante tazza di caffè. Quella mattina, al contrario della notte tormentata, sembrava essere tutto perfetto. L'unica nota stonata apparteneva al mio stato d'animo. - Vedrai che andrà bene. - ... aveva pronunciato dolcemente mia moglie accompagnando con una carezza le sue parole. - Speriamo - ...avevo risposto sospirando. Avrei tanto voluto trovare una scusa per non andare a lavorare.

Ore 5:50 Il preludio di una bella giornata era alle porte. La temperatura, tuttavia, era ancora troppo bassa. Ero entrato frettolosamente all'interno della mia auto. I tergicristallo anteriori meritavano di essere cambiati da diversi mesi. Seppur ne fossi a conoscenza mi ostinavo, ogni mattina, ad azionarli con la


speranza di essere sorpreso da una prova d'orgoglio. Loro, al contrario di me, potevano e volevano scioperare. Si erano dimostrati incorruttibili e coerenti di fronte alle mie pressioni. Neppure la minaccia di essere sostituiti insieme al tappino della sedia aveva sortito effetti. Quella volta però ero troppo agitato e nervoso per essere soggiogato. Al mio rientro, quelle due strisce di gomma avrebbero ricevuto ciò che meritavano. La mia autorità avrebbe finalmente prevalso. Erano anni che non mi accadeva di essere in anticipo e quindi non avevo voglia di sfrecciare sulla strada. In altre circostante avrei acceso la radio ma in quel momento non ero dello stato d'animo giusto. Un'auto, guidata da un tizio sulla sessantina, con i capelli bianchi, semi stempiato, durante una manovra di sorpasso aveva ripetutamente suonato il clacson. Pensando fosse una persona conosciuta mi ero lasciato andare ad un artificiale sorriso corredato di saluto. Poi, subito dopo davanti alla mia auto, avevo notato il riflesso di gestacci rivoltomi dallo specchietto retrovisore. Non avevo tempo e voglia di reagire e capire. Preferii , nuovamente, che le mie donne continuassero a lavare i panni sulla riva del fiume. Ore 6:35 - 6:45 Dopo un curvone, avevo finalmente intravisto la sagoma del possente DEA. Ero passato lì davanti svariate volte ma mai mi ci ero soffermato, come quella mattina. Più mi avvicinavo più si ergeva imperioso. I suoi colori erano vividi e orgogliosi. Esibiva un rosso porpora alternato ad un grigio con cornici di finestre bianche ad interrompere la continuità delle possenti mura. Dopo una serie di rotatorie ero finalmente giunto a destinazione. Sovrappensiero, avevo parcheggiato l'auto lontana dall'ingresso principale. I posti liberi, nelle immediate vicinanze, erano ancora numerosi ma, una volta incamminatomi, mi ero rifiutato di dare una spiegazione a quella scelta. Avevo mandato un messaggio vocale a mia moglie per riferirle che ero arrivato sano e salvo e, soprattutto, per sentirmi dire che sarei uscito nello stesso modo. - Eccoci. - ...avevo sussurrato. Mi ero appostato, con le mani in tasca, al centro della circonferenza dell'eliporto, proprio di fronte alla grande vetrata a specchio dell'ingresso. Piccolo ed insignificante come una zanzara prima di ricevere una manata davanti al muro. Io però, al contrario, non ero in grado di succhiare sangue e, più di ogni altra cosa, all'interno di quella zanzariera mi ci ero trovato per volere altrui. C'era ancora un po' di frescura nell'aria ma il mio corpo era in ebollizione come l'olio di una friggitrice pronta a ricevere una porzione di patatine. Con lo sguardo rivolto verso il cielo, avevo iniziato a recitare una preghiera. Non mi importava di quei pochi occhi indiscreti che mi osservavano. Solitamente, erano i momenti come questi che mi portavano ad intavolare trattative con Dio o con i suoi prestanome. Prima di iniziare la nuova avventura sentivo il dovere morale di riprendere i contatti barattando una richiesta d'aiuto che mi avrebbe reso più forte. Dopo poco meno di un minuto, terminata l'evocazione, avevo ripreso a camminare. Le gigantesche linee pedonali pennellate di bianco mi indirizzavano verso l'incerto. Ormai era tardi per tirarmi indietro. "O forse non era così?"


Ore 7:00 Dopo diverse indicazioni ero finalmente giunto nel luogo preposto. Un falso labirinto. Difatti, ancora oggi, non mi capacito sul perché quel giorno avessi impiegato così tanto tempo ad imboccare l'unica inequivocabile strada, tra l'altro segnalata perfettamente, percorribile. Fortunatamente non ero il solo ad iniziare. Avrei condiviso con altri volti tesi e contratti la stessa tachicardia. Sembrerà strano ma questa era l'unica cosa che mi acquietava. Quelli sprazzi di luminoso ottimismo dei giorni precedenti, riguardanti la mia pregressa esperienza in terapia intensiva e sala operatoria, erano caduti nell'oblio. Non erano mai esistiti. Quel deprimente luogo di raduno livellava ogni esperienza e regalava splendide amnesie. Con dinamiche ameboidi mi muovevo silenziosamente tra i colleghi. Il mio stato di demoralizzazione aveva preso definitivamente il sopravvento sui ricordi dei miei trascorsi coriacei. Ero diventato un tirocinante al primo anno a cui dovevano assegnare ancora il cartellino. Se me l'avessero chiesto non sarei stato neppure in grado di ripetere il mio nome. In quel momento, solo due concetti martellavano i miei pensieri: - Ma chi me l'ha fatta fare; Si stava meglio quando si stava peggio; -


Poco dopo, a quelle fissazioni si era aggiunto un nuovo inopportuno stimolo tradotto in un impellente bisogno di urinare. "Piove sempre sul bagnato. Inspiegabile." ...avevo pensavo. Eppure mi ero liberato prima di partire da casa. Esternavo un atteggiamento da uomo adulto e contemporaneamente morivo dentro. Intanto, un'infermiera addetta alla formazione, aveva spalancato la porta della nostra sala. Un silenzio tombale aveva accompagnato il suo ingresso. Era facile comprendere che non si trattava di una di noi per due motivi: indossava, sopra i suoi vestiti, un camice bianco; era sicura di sé. A occhio e croce, avrà avuto circa una sessantina di anni per poco più di un metro e sessanta di altezza. Capelli lisci e castani più corti che lunghi. Occhiali a forma di occhi di gatto con lenti oscuranti e asticelle scure. Occhi castani. Voce ferma e timbro forte e pronunciato. L'intensità con cui ci osservava infondeva coraggio. La precisione con cui esponeva e dettagliava minimi particolari ci riportava tra i suoi infiniti giorni in trincea. Aveva schivato troppe cannonate per aver paura di assediare la Capitale. Era evidente che avrebbe sferrato un ennesimo attacco con o senza di noi. - Buongiorno Signori. Prima dell'ingresso eseguiremo due ore di corso di vestizione, svestizione e utilizzo dei DPI (dispositivi di protezione individuale). Fate molta attenzione. Un errore nelle procedure potrebbe portare a contaminarvi e di conseguenza a contaminare. Inutile soffermarmi su quanto il vostro operato andrebbe ad incidere su di voi, sui vostri colleghi, sulle persone ricoverate e sui vostri familiari. Questo non è un esame universitario in cui ci si può accontentare della sufficienza. Nel mondo che incontrerete è ammessa solo la perfezione. Se avrete dei ripensamenti ricordate sempre che nessuno vi ha imposto di essere infermieri. C'eravamo prima di questa situazione e ci saremo anche dopo. Abbiamo lavorato a testa bassa come abbiamo sempre fatto anche quando non si parlava di noi, anche prima che questo uragano sconvolgesse le vite di tutti. Agiamo per i nostri cari e per chi ci vuole bene, per chi in questo momento sta soffrendo e per chi lotta per restare; agiamo per chi è esausto, per chi ha deposto le armi e per chi se ne vuole andare. Noi siamo l'alba e il tramonto; noi siamo l'appiglio e il conforto. Mostriamo l'orizzonte più bello così da mantenere vivi i loro colori. Qualche domanda prima di iniziare? Per brevi tratti il suo modo di porsi mi aveva riportato al discorso del Sergente maggiore Hartman. Solo che ad ascoltare non vi era il signor Leonard Lawrence ma uomini/infermieri, alcuni dei quali alle prime esperienze in una Rianimazione, che avevano bisogno proprio di quelle parole. Il carisma di quella donna ci aveva lasciato a bocca aperta. La forza, la passione e il suo amore avrebbe contagiato chiunque. Un esempio che avevamo l'obbligo di seguire e che ci ricordava il perché avessimo scelto di essere infermieri. Poi, aveva ripreso il discorso: - Qualcuno ha avuto esperienze di Sala Operatoria? Avevo alzato timidamente il dito con la speranza che non mi vedesse. Pensandoci bene, era più rivolto verso il basso che verso l'alto. Effettivamente mi sarei sentito più onesto se avessi detto di non ricordare proprio nulla di ciò che avevo fatto fino ad allora. - Bene. È stato in sala operatoria? - aveva domandato, captando l'irrisorio spostamento del mio indice.


- No! Veramente dovrei andare in bagno. - ...avevo deciso che sarebbe stato più corretto fare una repentina ritirata spagnola. Appena rientrato, dopo aver ritrovato il mio equilibrio somatico, avevo recepito la fine di un discorso: - ...e quindi dovete comportarvi agendo come se gli elementi sterili, all'interno dei vostri dispositivi di protezione individuale, foste proprio voi. Qualcosa non è chiaro? Avrei avuto tanto bisogno di una ripetizione completa e quindi non ero intervenuto confidando nell'intervento di qualche anima pia. Non potevo disturbare nuovamente. Avevo deciso, quindi, di attendere fiducioso. Dopo qualche secondo di enfasi, però, avevo realizzato che nessuno mi sarebbe venuto incontro e, lasciando da parte la timidezza, avevo richiesto di ricominciare.

Ore 7:15 Due donne spettro, durante la ripetizione della spiegazione, avevano silenziosamente attraversato la stanza. Totalmente assenti, visibilmente esauste. Guardavano verso la porta d'uscita senza badare a chi le circondasse o le osservasse. Senza farsi sentire, un componente del nostro gruppo mi aveva riferito di averle viste provenire dalla porta in fondo al corridoio. Dietro di essa vi era contenuto il filtro svestizione. Ero rimasto scioccato. Il loro stato era indicibile. Divise zeppe di sudore e capelli grondanti. Avevo visto i miei vestiti in quelle condizioni solo dopo la centrifuga finale durante il lavaggio in lavatrice. I loro volti erano sfioriti. Sotto le pronunciate occhiaie, evidenti solchi causati dalla compressione della mascherina. Il viso macchiato da diffusi arrossamenti. Due fiori sfuggiti ai radar della falce. Avrebbero raccolto i loro petali distanti da quel luogo. Vicine al loro sole.

Ore 10:00 Dopo due ore di corso, era arrivato il momento di mettere in pratica gli insegnamenti. La prima disconnessione con la realtà sarebbe avvenuta depositando gli oggetti personali all'interno dell'armadietto per la durata dell'intero turno. Sembrerà una banalità ma, al tempo dei social, non è scontato disabituarsi a riferimenti come il cellulare. "E se fosse accaduto qualcosa a Diego? E se volessi avvisare, ante tempore, su un eventuale ritardo? E se avessi semplicemente bisogno di ricercare le complicanze di un farmaco? E se ricevessi una telefonata importante?"...pensavo. Avevo telefonato a Stefania per dare il numero della Rianimazione. Da quel momento tutte le informazioni degne di nota sarebbero passate da quella cornetta. Avrei ricevuto, in differita, delucidazioni su eventuali accadimenti appartenenti alla mia famiglia. Un collega avrebbe raccolto la telefonata per me e inoltrato il messaggio. Mi ero augurato, fin da subito, che quel telefono non avesse mai dovuto squillare. Era stato quello il preciso momento in cui avevo concretizzato di essere seduto ai bordi della barca in attesa della capriola che avrebbe dato vita all'immersione.


Il mare era crespo e agitato. Talmente scuro che i raggi del sole non riuscivano a filtrare fino in profondità. Mi sentivo troppo piccolo per una responsabilità così grande. Avevo buttato l'ancora nel bel mezzo dell'oceano. Non ricordavo cosa avessi mangiato la sera prima ma, durante il corso, mi erano rimasti impressi due pensieri: "sono i dettagli a fare la differenza; in gioco c'è la nostra vita e quella di chi vi circonda;" Vedevo ancora la luce in superficie ma nuotavo nella direzione opposta. Eravamo stati ripartiti in gruppetti da due unità ciascuno. Ognuno di noi aveva il compito di controllare la corretta esecuzione della procedura di vestizione dell'altro. I più esperti, invece, lo facevano di fronte ad uno specchio rettangolare di circa un metro e mezzo per un metro. Attuavano movimenti minuziosi, regolari e precisi. Nessuno di loro si affrettava. Non avevano nulla di cui vantarsi o da dimostrare. Se potessi riassumere il loro operare in una parola mi verrebbe da dire: maniacali. Intanto, io e il mio compagno, ci osservavamo terrorizzati. Non avrei mai immaginato, prima di quel giorno, di affidare il mio futuro ad un estraneo. Ignoravo il suo presente e passato ma dovevo comunque fidarmi della sua responsabilità e del suo amore per la vita. Sapere che ci accomunava lo stesso stato d'animo e la stessa voglia di fare bene mi doveva bastare. Le sole correnti non contribuiscono ad orientare. Affinché ci si possa smuovere si deve remare nella stessa direzione. Su internet, in tv, sui giornali avevo visto milioni di foto di colleghi bardati nel reparto Rianimazione. Ad essere sincero, però, non avevo mai riflettuto su tutti i passaggi che avevano compiuto prima di essere casualmente immortalati. Una sintesi scomposta della foto sarebbe importante per far prendere atto di quanto sia alta l'impalcatura che sostiene un comodo concetto espresso in tre parole: ANDRÀ TUTTO BENE. Lavare le mani con antisettico; infilare primo paio di guanti e cuffia; controllare tuta (buchi, strappi, anomalie); togliere le scarpe e indossare la tuta dai piedi fino alla testa lasciando libero il cappuccio; rimettere scarpe e i calzari (dopo aver accertato le integrità fissare con nastro); inserire il polsino dei guanti sotto la manica della tuta; ancorare l'asola della tuta al terzo dito della mano; mettere la mascherina FFP3 e appoggiare le mani sulla stessa inspirando rapidamente per mantenere l'aderenza al viso; verificare la tenuta (ripetere la procedura se si dovessero verificare problemi); posizionare gli occhiali di protezione; sollevare il cappuccio e chiudere la cerniera completamente fissandola con la linguetta protettiva sotto il mento; indossare la visiera; mettere un secondo paio di guanti sopra la tuta (se occorre utilizzare un nastro per bloccarli).



Sono convinto che pochissimi abbiano letto fino alla fine la procedura. Un riassunto composto da tre domande, però, potrebbe destare maggiore interesse: Margine d'errore? Zero. Indice di rischio? Massimo. Posta in palio? Assenza di contaminazione. Questo l'appiattimento di una complessa opera d'arte. Avevo trivellato il terreno aspettandomi il nulla e improvvisamente ero stato inondato da un'esplosione petrolifera. Ero stato costretto ad ammettere a me stesso che le impressioni ricevute davanti alla tv erano tutt'altro che scontate. Intanto, la mia prima vestizione, era a buon punto. Ogni presidio che indossavo mi dava l'impressione di aver omesso qualcosa o, perlomeno, di aver dimenticato il giusto ordine. Il mio compagno, invece, controllava saccentemente il mio operato. Avrei voluto simulare quella procedura per almeno un'altra settimana ma poi alla fine, ero consapevole, che anche questa sarebbe stata insufficiente. Non si è mai abbastanza pronti per affrontare un pericolo. Come quando avevo espresso a mio padre la volontà di imparare a nuotare. Era un pomeriggio di settembre. Avevo insistito più volte affinché potessimo accorciare i tempi. Non sarebbe trascorso un altro anno senza dichiarare le mie imprese da nuotatore. Dopo i continui assilli ero riuscito a portare a termine la mia opera di convincimento. Il mare era calmo e il cielo azzurro. A pochi metri dalla riva una vasca naturale creava uno strapiombo della profondità di circa un paio di metri. Fatto l'ingresso in acqua mi ero già pentito della richiesta. Mia madre, sotto l'ombrellone, monitorava, da instancabile vedetta, il simpatico teatrino. Mi stringevo fiducioso al petto di mio padre. Non mi avrebbe lasciato fin quando non sarei stato pronto. Avvertivo una sensazione di panico totale. - Vai! - aveva recitato mio padre dopo un inaspettato slancio. Sapevo che se mi avesse visto in difficoltà sarebbe intervenuto subito dopo mia madre ma in quel momento il mio istinto di sopravvivenza mi impediva di concentrarmi su imprecazioni richiedenti aiuto. Dopo due pedate a vuoto ed una caterva di schizzi avevo ruotato il dorso iniziando a galleggiare. Se mio padre non si fosse comportato in quel modo io non avrei mai avuto il coraggio e la forza di cominciare. In questo caso, invece, tutta la fiducia era riposta nello sguardo clinico del mio collega sconosciuto. Era lui che mi avrebbe mantenuto a galla permettendomi di nuotare. Era quello il giusto giorno per agire. Far decorrere ulteriore tempo nell'attesa di trovare lo spirito giusto avrebbe significato non dare valore al tempo di chi in quel istante aveva bisogno di noi. Dopo 10 minuti eravamo dentro.


L'adrenalina era aumentata con la stessa velocità con cui si era aperta quella porta. Impacciato e goffo, avanzavo a piccoli passi come Armstrong sulla superficie lunare. Un terrificante silenzio veniva interrotto dagli allarmi dei ventilatori e dei monitor. Ogni tanto un urlo squarciava la routine. La cuffia e il cappuccio attutivano i rumori. La mia tachipnea, invece, tambureggiava forte e limpida. Ero stato indottrinato sull'organizzazione della struttura ma era sorprendente il mio stato di disorientamento. Un corridoio giallo sabbia, dal pavimento privo di fughe, collegava tre ali: una a sinistra, dove sarei dovuto entrare, e due a destra. Il luogo che mi avrebbe iniziato si trovava all'interno del primo ingresso. - Ma questa è una zona di guerra! - avevo esclamato impaurito. La vera disconnessione dalla realtà si trovava in quell'ambiente e non era minimamente paragonabile alla sensazione causata dalla mancanza del cellulare. Il grande open space accoglieva otto posti letto distanziati circa tre metri l'uno dall'altro. Il personale era irriconoscibile. Completamente bardati, esponevano dietro mascherina e visiera i loro occhi incassati. Il mio riferimento si era dileguato. L'intensa luce del neon rifletteva il giallo cupo delle pareti sui pazienti. Non una finestra mi collegava con il mondo esterno. Dal soffitto, tra bianchi quadri, tubi di areazione aspiravano in continuazione. Non riuscivo a percepire un minimo collegamento con l'esterno. Anche gli odori mi avevano abbandonato. Quattro uomini erano intubati mentre gli altri quattro erano svegli. Uno di questi implorava di essere intubato. Costretti ad un decubito prono. Invasi dagli allarmi. Schiacciati da una maschera ad alto flusso. Desaturati, tumefatti, arrossati.

Un pannolone, da cui fuoriusciva un catetere vescicale, tratteneva quel che era rimasto della loro dignità.


L'aria era stracolma di veleno. Il mostro ci scrutava dall'alto della sua invisibilità. Godeva dei nostri fallimenti, delle nostre sconfitte. Subdolo e impassibile. Soddisfatto dello stato in cui aveva ridotto quei poveri uomini indifesi. Incurante dei loro sacrifici, del loro ruolo e della loro vita. Ogni urlo lo compiaceva, ogni silenzio lo rendeva vittorioso. Un signore sull'ottantina gesticolava, visibilmente provato, cercando di esprimere un bisogno. Fame d'aria e affanno scoraggiavano l'articolazione dei suoi pensieri. Avvicinandomi mi era sembrato di capire che non volesse più assumere quella posizione. I segni della maschera ad alto flusso avevano scavato nei suoi zigomi e nella sua anima. Memore della mia esperienza pregressa avevo provveduto, avvalendomi dell'ausilio di un tampone imbevuto, a rimuovere la mascherina e bagnare le sue secche labbra. Una collega, con disegnato un piccolo cuore sul petto, si era avvicinata chiedendomi di aiutarla a gestire il posizionamento. Non avevo neppure fatto in tempo a presentarmi che ero già all'opera. Il caldo all'interno della tuta era soffocante. I miei occhiali avevano avuto un inizio di appannamento e, per di più, avvertivo un gran prurito vicino all'attaccatura della mascherina. - Ricordati di non toccarti. - ...aveva immediatamente intimato la collega intuendo la mia intenzione di procurarmi sollievo. La sua navigata esperienza mi riportava alla visione di quel serpente che attendeva con pazienza il mio primo passo falso. Intanto, rispondendo affermativamente, non avevo potuto fare a meno di notare il suo sudore intrappolato nella parte inferiore degli occhiali protettivi. Sembrava che i suoi occhi verdi galleggiassero. - È arrivato il mio momento. Per favore lasciatemi andare. - ...queste parole, invece, le avevo riconosciute. Dispnoiche, soffocate, sanguinanti ma chiare e compressibili per il mio cuore. Una scossa del suo terremoto mi aveva investito. Quello sguardo da uomo nudo e indifeso mi penetrava. Avevo stretto forte la sua mano con la speranza che potesse percepire una sola onda del mio mare. Non potevo più permettermi di vacillare. Avevo scelto di essere un infermiere per camminare dove il buio si era impossessato della speranza. Sofferenza, impotenza e desolazione facevano parte di ciò che il mio lavoro mi portava ad affrontare ogni giorno. D'incanto, ricordavo nuovamente i miei trascorsi, le persone che avevo incrociato, quelle che mi avevano arricchito e quelle che erano andate via. Ricordavo i successi, i fallimenti, le speranze, le delusioni, i pianti, i sacrifici. Ricordavo le notti insonni e le festività perdute. Ricordavo le carezze delle madri e le ultime promesse dei figli. Ricordavo giornate di sole e notti di tempesta. Ricordavo il perché avessi scelto di essere quello che sono diventato. Un soldato non scappa durante una guerra, la combatte. Un forte vento aveva finalmente spazzato le mie paure. Ero determinato a ricominciare. La mia collega mi aveva guardato intensamente. Era la prima volta che da dietro un volto coperto riuscivo a catturare un'emozione. Avevo finalmente compreso la sua rabbia ritrovando la mia. Quel luogo angusto ospitava nonni, genitori, fratelli. In balia di una fortuna che gli aveva privati della salute, dell'orientamento, degli affetti. A quell'invisibile mostro non importava nulla dei loro trascorsi e della loro vita. Sarebbero stati avvelenati fin quando il loro cuore non avesse smesso di battere. Soli. Costretti ad affidarsi a noi, perfetti sconosciuti. In apnea, giacevano sul fondo tra le fredde acque di


un oscuro abisso. Il movimento dei nostri fari era l'unica speranza di salvezza. Noi avevamo l'obbligo di metterli in salvo, di riportarli in superficie. Dopo circa tre ore e mezza la mia collega dagli occhi verdi mi aveva avvisato della fine del turno. Aveva trascorso le ultime sette ore senza idratarsi e senza espletare i propri bisogni. Dopo un rapido passaggio di consegna ripercorrevo quel triste corridoio. Gli allarmi continuavano a suonare, le urla ad implorare. Il mio ossigeno era terminato ed io ero costretto a risalire in superficie. Ancora qualche minuto di pazienza. - Non ti deconcentrare. - ...aveva pronunciato la collega. Sarei stato invulnerabile solo fuori dall'acqua. Non dovevo toccarmi, non dovevo toccare, dovevo ricordare. L'adrenalina era tornata in circolo ed io avevo ripreso consapevolezza del pericolo. Non potevo vanificare tutto per una disattenzione. Non sarei mai stato complice di quella macabra invisibilità. Ogni indumento che sfilavo, ogni oggetto che disinfettavo, ogni procedura che eseguivo conteneva il rispetto nei confronti della mia vita e quello per la vita degli altri; conteneva l'amore per mia moglie e quello per mio figlio; conteneva la responsabilità per i miei genitori e quella per i miei nonni; conteneva la dedizione e l'impegno di tutti coloro che erano coinvolti in questa battaglia che doveva terminare con una vittoria. Quel mondo sommerso mi apparteneva più di quanto avessi mai immaginato. Intanto, un'anziana donna aveva chiesto ad un collega informazioni sul proprio marito. Indossava una giacchettina rosa e un pantalone in tessuto nero. Un fazzoletto bianco stropicciato, capelli bianchi crespi e due occhi neri, gonfi di tristezza. Vagava solitaria di fronte all'ingresso del DEA alla ricerca di un abbaglio. Avrei voluto dirle di svegliarsi dal brutto sogno ma malauguratamente la sua sveglia era già suonata. Ero uscito rapidamente all'esterno. Quel respiro a pieni polmoni aveva un altro sapore. Il cellulare aveva ripreso la sua attività. Sulla strada del ritorno avevo visto un'auto in panne. Con mia grande sorpresa, avevo riconosciuto l'uomo che la mattina gesticolava blaterando dallo specchietto retrovisore. Chiedeva un umile passaggio. Il suo sfogo omicida si era placato. Ora erano le sue donne a lavare i panni al fiume. Sarebbe stato irrispettoso non farle continuare. Un sentito ringraziamento a Fernando e Stefania per la testimonianza.

Antonio Romano Immagini di Maria Concetta Olimpio



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