Fine o Rinascita? 2012-2013

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Fine o

Rinascita?



dipinti, disegni, sculture dal XVI secolo al XXI secolo

di Laura Marchesini Premessa di Antonio Parisella A cura di Laura Marchesini, Maurizio Nobile



a cura di Laura Marchesini e Maurizio Nobile Autore del testo: Laura Marchesini Introduzione di Antonio Parisella, Università degli Studi di Parma Ringraziamenti: Elena Almici, Carola Bertorello, Daniele Bonetti, Atos Botti, Roberto Ciabattini, Frida Comparone, Guido Cribiori, Stefano Cribiori, Paolo Croci, Michele Danieli, Salvatore De Agostino, Luisa De Antoni, Giovanna De Sero, don Riccardo Fangarezzi, Giovanni Feo, Roberto Franchi, Famiglia Galgano, Mina Gregori, Mauro Lucco, Sergio Marinelli, Miriam Forni, Francesco Giura, Calo Maiolini, Didier Malka, Angelo Mazza, Philippe Mendes, Antonio Parisella, Manuela Perniola, Carmine Pizzi, Morena Poltronieri, Daniela Scaglietti Kelescian, Giancarlo Sestieri, Nicola Spinosa, Maurizio Succi, Davide Trevisani, Nicholas Turner, Giorgio Zamboni, Annafelicia Zuffrano, Zoe. Progetto d’allestimento: Maurizio Nobile Referenze fotografie: Michel Bury; Alberto Buzzanca; Stefano Martelli, Studio Blow up Progetto grafico e impaginazione: Leonardo Nassini Stampa: IGV Industria Grafica Valdarnese San Giovanni Valdarno (Ar) Italy Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti. © Maurizio Nobile In copertina: Francesco Guarino (Solofra, 1611 - Gravina in Puglia, 1651), Giuseppe il patriarca, olio su tela, cm 80x50

45, rue de Penthièvre, 75008 PARIS (France) tél. +33 01 45 63 07 75 paris@maurizionobile.com

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Indice Galleria Maurizio Nobile...................................................................................... 7 Premessa di Maurizio Nobile............................................................................... 11 Introduzione di Antonio Parisella, Univesità degli Studi di Parma......................... 13 Fine o Rinascita? 2012-2013 di Laura Marchesini................................................ 19 Il perchè di una mostra sulla fine del mondo........................................................ 19 La vastità di un tema, i confini ristretti di una ricerca: premesse metodologiche... 20 I. Conoscere il futuro.......................................................................................... 23 1. Oniromanzia.......................................................................... 23 Francesco Guarino (Solofra, 1611 – Gravina in Puglia, 1651), Giuseppe il patriarca, olio su tela cm 80x50, fig. 1

2. Profezia.................................................................................. 27 Giovanni Maria Viani (Bologna, 1636 – Pistoia, 1700), attribuito a., Il Profeta Isaia, olio su tela, cm78x105, fig. 2

II. La catastrofe come Fine. La catastrofe come Rinascita................................... 31 1. Il tempo narrativo e la catastrofe............................................. 31 2. Il Diluvio Universale............................................................... 33 Pietro Dandini (Firenze, 1646 - 1712), Diluvio Universale, olio su tela cm 67x93, fig. 3

3. Le acque si richiudono sopra gli Egiziani................................. 36 Giuseppe Romani (Como, 1654 - Modena, 1727), Mosè richiude le acque, olio su tela cm 213x305, fig. 4

4. Distruzione del tempio........................................................... 37 Luciano Borzone (Genova, 1590 -1645), Sansone nel Tempio, olio su tela, cm 113,5x105, fig. 5

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5. Terremoto............................................................................... 42 Giulietta Grimaldi, Rinascita (Chiesa di Santa Maria Maggiore, Pieve di Cento), mattone refrattario e gesso, 7x12x12 cm (2012), fig. 6

III. La morte del singolo, la salvezza per l’umanità............................................. 45 1. Il “già e non ancora”: la concezione del tempo passa da imminente a immanente....... 45 2. Cristo...................................................................................... 47 Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona, 1578 – Roma, 1649), Flagellazione di Cristo, olio su ardesia, cm 40x25,5, fig. 7

Jacopo de’ Barbari (Venezia, c. 1445-c. 1516), attribuibile a. Cristo supportato dalla Vergine e da san Giovanni, olio su tavola, cm 69x91, fig. 8

IV. La rinuncia alla vita terrena per la rinascita nella vita spirituale ovvero la castità per l’indipendenza................................................................... 55 1. Da peccatrice a santa............................................................. 55 Ambito dei Carracci, Santa Maria Egiziaca, olio su tela, cm 94x80,5, fig. 9

2. Da martire a sposa.................................................................. 57 Lorenzo Pasinelli (Bologna, 1629-1700), Matrimonio mistico di santa Caterina, olio su tela, cm 136x98, fig. 10

V. La vita, la morte.............................................................................................. 63 1. Dall’escatologia universale all’escatologia individuale............. 63 2. Le tre età dell’uomo................................................................ 63 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 – Roma, 1987), S. Gerolamo o Le tre età, tecnica mista su carta rintelata, cm 258x152 (1978), fig. 11

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3. Vanitas.................................................................................... 66 Anonimo del XVII secolo, Vanitas, olio su tavola, 34,1 x 26,2 cm, fig. 12

4. La Morte e il Tempo................................................................ 69 Anonimo ambito genovese XVII secolo, Il Tempo, olio su tela cm 157x130, fig. 13

5. Suicidio.................................................................................. 74 Alberto Carlieri (Roma, 1672 – 1720), La morte di Cleopatra, olio su tela, cm 96x134, fig. 14

VI. L’uomo causa della sua fine: distruttore / costruttore / distruttore?.............. 79 1. La guerra................................................................................ 79 Luigi Ademollo (Milano, 1764-Firenze, 1849), La guerra di Troia, penna, acquerello e biacca su carta, mm 140x220, fig. 15

2. La costruzione........................................................................ 81 Pietro Lucatelli (Roma, 1634 – 1710 circa), La costruzione del Colosseo, matita, biacca e acquerello su carta, mm 454x615, fig. 16

3. Costruzione o distruzione?..................................................... 83 Robert Guinan (Watertown, New York, 1934), North Avenue Light, acrilico su isorel, cm 112x169, (1980/1981), fig. 17

VII. Crisi o Apocalisse?........................................................................................ 87 Ettore Greco, La giostra, terracotta patinata, cm 160 (2012), figg. 18-19

Biografie degli artisti in ordine alfabetico........................................................... 92 6


Galleria Maurizio Nobile Fondata a Bologna da oltre vent’anni, la galleria Maurizio Nobile si è creata una solida reputazione nel settore dell’antiquariato. Situata nella suggestiva cornice di piazza Santo Stefano a Bologna, negli interni di Palazzo Bovi Tacconi, la Galleria Maurizio Nobile è specializzata in dipinti, sculture, disegni, mobili e oggetti d’arte che spaziano dal XVI al XXI secolo. Spinto da una vera passione per l’arte e l’antiquariato, Maurizio Nobile ha affinato il suo gusto e le proprie competenze frequentando grandi antiquari internazionali, mostre e musei. Bellezza, autenticità, qualità e rarità: questo è il credo che lo guida costantemente alla ricerca di opere e oggetti d’antiquariato destinati all’accrescimento di collezioni pubbliche e private a livello internazionale. Maurizio Nobile affianca ad una costante attività espositiva all’interno delle sue gallerie, dove non di rado trovano spazio anche opere di importanti artisti contemporanei, la partecipazione alle più importanti mostre dell’antiquariato italiano (Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, Biennale Internazionale di Antiquariato di Roma, Collezioni d’Arte alla Permanente di Milano, Modenantiquaria). 7


Nel giugno 2010 ha inaugurato a Parigi una nuova galleria, sita al 45 rue de Penthièvre, nel cuore antiquario della Rive Droite. Oltre al consueto appuntamento annuale della Nocturne Rive Droite, la sede di Parigi ha intrapreso da subito un’intensa attività espositiva. Nel settembre 2010 ha dedicato un’importante mostra a Jared French, artista di punta del cosiddetto Realismo Magico americano e di cui la galleria possiede il rarissimo fondo personale. Nel settembre 2011 ha presentato Fior di barba, la barba nell’arte dal XVI al XXI secolo tra sacro e profano, una mostra tematica dedicata al virile ornamento che ha registrato un notevole apprezzamento sia da parte della critica sia dal mondo collezionistico. Nel marzo dello stesso anno, in occasione dell’importante appuntamento internazionale del Salon du Dessin, ha invece esposto un’eccezionale miscellanea di disegni dal XVI al XXI secolo in una mostra intitolata Magia del Disegno.

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Laura Marchesini Nata a Rimini nel 1978, si laurea nel 2004 in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Parma con una tesi dal titolo Insediamenti medievali tra il Reno e il Panaro con il prof. Gianluca Bottazzi. Nel 2005 consegue il Diplôme de recherche appliqueé (DRA) presso l’Ecole du Louvre di Parigi con una tesi su L’état de la recherche sur le dessin de Leonello Spada con Catherine Loisel conservatore del Musée du Louvre. Nello stesso periodo collabora alla realizzazione di sette mostre sul disegno italiano del XVII e XVIII secolo per il Museo del Louvre, occupandosi di ricerche storico-documentarie sulle scuole pittoriche lombarda e veneta; riceve inoltre un incarico annuale presso la biblioteca dell’Institut National d’Histoire de l’Art (INHA) di Parigi. Dal 2007 al 2009 collabora con il Museo di Arte Sacra di S. Giovanni in Persiceto (BO), dove si occupa di didattica per bambini ed adulti. Nel 2008 è incaricata dallo stesso Museo del coordinamento scientifico della mostra sui Corali miniati di Niccolò da Bologna (Niccolò di Giacomo 1325-1403). Nello stesso anno sotto la direzione della prof.ssa Gisella Cantino Wattagin dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale, e per conto della Curia Vescovile di Reggio Emilia, riceve l’in9


carico di effettuare ricerche d’archivio sulle vicende strutturali della Cattedrale cittadina. Nel gennaio 2010 entra a far parte dell’equipe di Maurizio Nobile, dove ricopre il ruolo di assistente di galleria per la sede di Bologna. Nel 2011 si occupa del coordinamento scientifico della mostra La donna tra il Sacro e il Profano a cura di V. Fortunati dell’Università degli Studi di Bologna, per conto dall’Associazione Antiquari di Bologna. Fa attualmente parte di un progetto di ricerca, sotto la responsabilità del professor Giovanni Feo, presso il Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università degli Studi di Bologna. Pubblicazioni: 7 schede in L’art de la Serenissima: Dessins vénitiens des XVIIe et XVIIIe siècles des collections publiques françaises, cat. mostra, (Montpellier, settembre-dicembre 2006), Papier and Co., Parigi, 2006; 4 schede, in Le rayonnement de la République génoise et la Lombardie des Borromée. Dessins du XVIIe et XVIIIe siècles des collections publiques françaises cat. mostra, (Ajaccio, settembre-dicembre 2006), Papier and Co, Parigi, 2006; Identificazioni toponomastiche, in Chartae Latinae Antiquiores, 2nd series Ninth Century, ed. by G. Cavallo and G. Nicolaj, vol. part LXXXIX, Italy LXI, Nonantola II, publ. By G.Feo, L.Iannacci, M.Modesti, Dietikon – Zürich 2009, pp. 31-41; I corali di Nicolò di Giacomo della Collegiata di San Giovanni in Persiceto, a cura di D. Benati e L. Marchesini, Bologna 2009; I Diari dei cerimonieri di Reggio Emilia: considerazioni preliminari, in Il Mistero del Tempio, Atti della I giornata di Studio sulla Cattedrale di Reggio Emilia, Reggio E. 24-29 ottobre 2005, a cura di P. Prodi, T. Ghirelli, Bologna 2009, pp. 77-146; 6 schede in Rêve d’Italie. Paysage et caprices du XVIIe siècle au XIXe siècle, catalogo della mostra tenutasi a Parigi, 31 marzo-21 maggio 2011, a cura di M. Nobile, L. Marchesini, D. Trevisani, S.G. Valdarno (AR), 2011. Il Protoromanico tra Romanìa e Langobardia, in Bologna nell’XI secolo, Storia, cultura, economia, istituzioni, diritto, a cura di G. Feo, F. Roversi Monaco, University Press, Bologna 2011, pp. 79-161. Laura Marchesini, Fior di Barba. La barba nell’Arte tra Sacro e Profano dal XVI al XX secolo, cat. Mostra Biennale int. dell’Antiquariato di Firenze 1-9 ottobre 2011,a cura di M. Nobile, S.G. Valdarno (AR), 2011. Tradotto anche in francese. Catalogo delle opere a cura di L. Marchesini, in La Donna tra Sacro e profano, cat. Mostra F.I.M.A. Bologna, Museo di Santa Maria della Vita, Bologna 2 novembre 2011-22 gennaio 2012, a cura di V. Fortunati, Treviso 2011.

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Premessa In un momento storico di grandi cambiamenti, che vede il mio mondo, quello dell’antiquariato, profondamente in crisi mi sono chiesto quale segnale l’arte poteva ancora dare? Può l’arte del passato e del presente darci una direzione, uno stimolo per uscire da questa situazione? È stato allora che ho cominciato a interrogare la mia mente. Coadiuvato e guidato da un brillante e competente interlocutore come Giovanni Feo, che ha saputo dare forma alle mie idee confuse, ho infine avuto una visione di quello che sarebbe stato e che rappresenta per me questa mostra: È forse avventato cimentarsi in ordini letterari, accingendo da fonti conosciute e tramandate, per sottoscrivere una situazione, ormai sentita, e patita, qual è la questione della fine del mondo. Attraverso la penna e l’esperienza di Laura Marchesini, ho voluto timidamente segnalare quei rumori artistici che da anni alimentano il mio sentire, e da cui, oggi, apprendo con coscienza, la straordinaria forza della lotta dell’Io. Questo è il messaggio da cui vorrei poco discostarmi: osservare il mondo che ci chiede aiuto, lo stesso dal quale traggo spunto e gioia di rimettermi in discussione. E per chi voglia fare un tuffo in questo gorgoglio di Rinascita. Morire per rigenerarsi. Maurizio Nobile

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Introduzione

di Antonio Parisella

professore ordinario di Storia contemporanea Università degli Studi di Parma

Appare insolito che uno studioso di storia contemporanea intervenga a commento di dipinti soprattutto nell’età della Controriforma e del Barocco sui temi di questa mostra. Nel suo saggio ben costruito, la curatrice ricostruisce con cultura e intelligenza sfaccettature e implicazioni intrecciando discipline e dà conto in maniera esauriente e propone completamenti e approfondimenti. Mentre ci interroghiamo se una crisi sia fine o rinascita, stiamo vivendo mentre è in corso una non leggera crisi dei mercati finanziari d’Europa. Essa prelude ad una restaurazione di poteri e gerarchie sociali e riorganizzazione di rapporti tra economie, Stati e società con incidenza nella quotidianità delle persone e nel benessere collettivo. Tale tendenza dura da 40 anni, iniziata con la crisi petrolifera “epocale” del 1973 dovuta all’uso politico e alla crescita esponenziale del prezzo del petrolio: essa interveniva nei mercati internazionali già colpiti dalla unilaterale fine della parità tra dollaro e oro sancita nel 1946 a Bretton Woods. Per la prima volta si produsse “stagflazione”, cioè contemporanea presenza di inflazione e stagnazione, con conseguente crescita di disoccupazione. A metà percorso assistemmo all’abbattimento del muro di Berlino, all’ammainamento della bandiera sovietica sul Cremlino e, all’interno, a “tangentopoli” e alla crisi istituzionale. La tematica proposta, quindi, ha una sua pressante attualità, dal momento che la nostra generazione ha conosciuto crisi, rinascite, miracoli, cataclismi, apocalissi, ecc. Tuttavia, alcuni eventi hanno colpito la realtà precedente in maniera tanto profonda da aprire alla nascita di qualcosa talora radicalmente nuovo. Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 fu di moda l’arte della congettura definita come dei “futuribili” o futuri possibili. Ma la durezza e il prolungarsi della guerra del Vietnam e l’esplodere su scala mondiale del ’68 fecero capire che le coordinate culturali e scientifiche sulle quali si basava dovevano essere riviste. Su quotidiani e su periodici scientifici,infatti, ricorrevano profezie sulla normalizzazione delle relazioni internazionali e sulla fine del conflitto nelle società industriali avanzate. Per molti fu difficile cogliere la crisi di passaggio di metà degli anni 13


’70 con fenomeni che divennero espressioni caratterizzanti il nostro tempo. Figure bibliche o greco-romane come profeti o indovini hanno trovato scarsa attenzione: eppure, lo strapotere dei manager e del loro saccheggio delle risorse aziendali con l’autoliquidazione di emolumenti stratosferici, emerso da tracolli e da crisi bancarie d’oltre Oceano e nostrane, c’era già in Il nuovo stato industriale, analisi impietosa degli anni ‘60 dell’economista liberal statunitense John K. Galbraith. In un’intervista del 1976 il grande storico Fernand Braudel preannunciava come caratterizzante del sistema-mondo la crescita delle economie asiatiche, da Corea del Sud ad Hong Kong, a Malesia e Singapore. Paul Bairoch, storico e sociologo dello sviluppo, nei primi anni ’70 individuò i fattori di una nuova rivoluzione produttiva e sociale nell’allargamento dei mercati su scala planetaria e nell’applicazione del minuscolo chip elettronico alla miniaturizzazione delle memorie dei calcolatori. Alberto Caracciolo verso il 1978-79 evidenziava la crisi definitiva dell’homo faber come mutamento epocale, carattere costitutivo della società postindustriale. Nei primi anni ’80 Gabriele De Rosa raccolse suggestioni da studi su Controriforma e società meridionale per fornire un paradigma interpretativo del rapporto tra globale e locale come conflitto tra processi di omologazione degli stati contemporanei e le opposizioni che ad essi erano in grado di opporre culture e società locali. Laura Marchesini parla di capacità di “interpretare la realtà per vedere oltre le apparenze”, in passato vista come dono di Dio ai profeti perché rendessero palese agli uomini la sua volontà. Lo studio scientifico della realtà è scoprire come un futuro può prepararsi rimuovendo le cause delle angosce collettive: ma questo trova noi insensibili all’ascolto dei moniti o l’organizzazione degli interessi come grande freno alla prevenzione di catastrofi annunciate o temute. Gli studi di storia sviluppati dopo il terremoto dell’Irpinia e della Basilicata del 1980 cominciarono ad evidenziare che le catastrofi e i grandi timori collettivi, nei secoli dell’età moderna erano stati còlti come occasione per ridefinire gerarchie sociali e strumenti di controllo sociale. A partire dal secolo XVII, si era anche iniziato a realizzare opere di ingegneria idraulica (come i notissimi Regi Lagni) che permettessero di prevenire catastrofi come le alluvioni, puntualmente verificatesi ai giorni nostri allorché la speculazione edilizia aveva saccheggiato il territorio, vanificandole. La catastrofe è tornata a presentarsi minacciosa alla ripresa annuale dei nubifragi del primo autunno dove alvei di torrenti e invasi che dovrebbero contenerle sono stati ristretti e manomessi dall’espansione dissennata di costruzioni. Eppure, dal 1967 (dopo l’alluvione a Firenze e altrove), ad impulso di Giuseppe Medici, l’Associazione nazionale bonifiche aveva tracciato linee guida per 14


la regolazione delle acque e la protezione del suolo. Ciò precedeva di poco la nascita ufficiale dell’ ambientalismo internazionale, con il Rapporto sui limiti dello sviluppo, pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, che metteva in discussione alcuni cardini della stessa organizzazione capitalistica della produzione e dei mercati. La dialettica fra i due approcci alle catastrofi ambientali (pianificazione di previsioni e restauro di luoghi critici e riforme economiche ambientali) impedì a che si operasse, stentando a cogliere la necessaria integrazione fra le prospettive. Come ricorda la curatrice, la profezia come dono divino (nel passato lontano) o la previsione come applicazione della scienza (in tempi recenti), sarebbe rilevante nell’eliminazione non solo di angosce e di timori, ma anche di pericoli reali. Nei comuni colpiti dal terremoto nel Modenese, al dramma delle persone e delle famiglie si è aggiunto anche il senso di impotenza. Una delle acquisizioni del dopo terremoto del 1980 fu la possibilità di descrivere la sismicità delle zone in base a documenti custoditi per secoli da archivi ecclesiastici, comunali, notarili, gentilizi. La fragilità rivelata in Emilia da costruzioni realizzate in mattoni è derivata anche dal fatto che non si era verificata da oltre tre secoli alcuna manifestazione sismica, neppure secondaria. Questo richiede monitoraggi geofisici anche fuori di zone ufficialmente sismiche. Non possiamo neppure sfiorare la problematica della guerra, catastrofe per eccellenza fra quelle determinate direttamente dall’azione umana, tenuta lontana dall’Europa dall’equilibrio del terrore negli anni della “guerra fredda” e prepotentemente ritornata sul suolo europeo e alle porte di casa nostra dopo l’abbattimento del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS. Tuttavia non possiamo tralasciare eventi a tali vicende collegate. La fine del mondo bipolare, nel quale il possibile scatenarsi di un conflitto nucleare era definito come Apocalisse, fu chiamata dall’analista del governo USA Francis Fukuyama come “fine della storia”, prevedendo con il crollo dell’ “impero del male” comunista l’affermazione di un mondo pacificato. Ma così non fu, anzi si scatenarono conflitti locali (vere catastrofi territorialmente definite) che dalle sponde adriatiche si distesero fino all’Asia centrale passando per il Golfo Persico. Lo stesso crollo sovietico era stato valutato dalle previsioni dei politologi occidentali come ipotesi eventuale ma non ineluttabile: e di quello delle cosiddette democrazie popolari si sosteneva che, pur presentando tutti i caratteri preliminari di una possibile detonazione, non esplodevano per il ferreo controllo che l’URSS esercitava su di essi. Mai ipotesi furono meno profetiche: infatti, è vero che in Polonia un movimento operaio non comunista aveva messo in difficoltà il regime comunista costringendolo ad un‘ 15


autoccupazione per evitare l’intervento del Patto di Varsavia. Tuttavia, il colpo di grazia vi fu nel 1989 quando le autorità ungheresi si sottrassero al controllo e permisero ai tedeschi dell’Est di attraversare il proprio territorio per raggiungere in Occidente i loro parenti nella Germania Federale. La contraddizione fu troppo forte e scatenò il grande movimento nonviolento che culminò con l’abbattimento popolare del muro di Berlino: catastrofe per alcuni, momento di liberazione da un incubo per tutti. Eventi di grande portata – si dice – esplosi senza profeti che ne preannunciassero ravvicinatamente il verificarsi, ma non fuori della portata e del campo delle previsioni possibili. Verso la fine degli anni ’70, essi erano stati oggetto di colloqui che noi “precari” universitari della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma La Sapienza, a margine delle attività didattiche, avevamo con il nostro professore Renato Mori, già direttore dell’Archivio storico del Ministero degli Affari Esteri. Sulla base di incontri con diplomatici provenienti da varie parti del mondo, oltre che dalla lettura della stampa internazionale, elaborava linee interpretative, dalle quali emergeva sullo sfondo proprio il crollo dell’URSS e la crisi catastrofica dei regimi del socialismo reale. Era sorprendente che egli, studioso di solida scuola liberale, usasse categorie analitiche del sociologo marxista americano James O’ Connor ne La crisi fiscale dello Stato, applicando all’URSS, con dovuti distinguo, il metodo di analisi dello stato militare-assistenziale USA. Egli, però, enfatizzava, ponendola tra le cause, l’influenza che nel crollo avrebbe esercitato il risveglio dell’Islam, sul quale aveva iniziato a riflettere dopo il 1973 e prima della rivoluzione iraniana, ritenendo illusoria la prospettiva di occidentalizzare società a forte caratterizzazione islamica. Anzi riteneva – e lo verifichiamo ai nostri giorni – che la rinascita islamica avrebbe influito anche in paesi, dalla Turchia all’Algeria, dove regimi militari avevano prodotto delle borghesie che tentavano di laicizzarli. In conclusione, stiamo vivendo una fase in cui, senza catastrofi e apocalissi, ma procedendo ad alti e bassi e a zig-zag, non sta avvenendo né minaccia di accadere la fine del mondo, ma certamente la fine di un mondo: da 40 anni sta completando la sua realizzazione. Non riusciamo a rendercene conto, ma alcuni caposaldi della storia contemporanea sono venuti meno in maniera definitiva. Il primo – più volte richiamato da Laura Marchesini - è la concezione lineare e teleologica della storia: l’umanità procede verso un punto terminale realizzando attraverso fasi successive delle conquiste innovative; il secondo è la fine dell’idea di progresso, per cui una fase storica rappresenta sempre e comunque un avanzamento di civiltà rispetto alla precedente; il terzo è che l’apporto della ricerca scientifica e 16


dell’innovazione tecnologica ha sempre e comunque effetti liberatori per l’umanità; il terzo è che la storia procede verso una progressiva eliminazione della violenza nelle relazioni tra formazioni e gruppi sociali; il quarto è che la crescita culturale è sempre un fattore di pacificazione fra popoli e stati. A fronte di ciò, la possibile catastrofe – annunciata dal peggioramento dei mutamenti ambientali e climatici – finirebbe per avere effetti ancora più dirompenti e devastanti della distruzione bellica. In ogni parte del mondo sono in crescita movimenti per i quali “un altro mondo è possibile”: significativa novità, essi non si affidano soltanto a scelte di autorità, ma operano milioni di azioni positive nelle quali persone e gruppi si impegnano a migliorare la propria porzione del pianeta. In Guernica di Picasso, nell’Apocalisse del bombardamento che stravolgeva fisionomie, corpi, edifici, animali e persone, il fiore sbocciato sulla mano mozzata che stringeva la spada spezzata simboleggiava la vita che rinasceva. Così, anche nella tragedia dell’11 settembre 2001 la speranza fu riposta nel ritrovamento tra le macerie di una lettera d’amore di una impiegata al suo uomo italiano: fu possibile rintracciarli, rassicurarli e permettere loro di tornare a stare insieme con amore.

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Fine o Rinascita? di Laura Marchesini

Il perché di una mostra sulla fine del mondo Fine o Rinascita? 2012-2013 è il titolo di questo catalogo che prende spunto dalle rinvigorite paure escatologiche legate alla ormai celebre data del 21 dicembre 2012, giorno in cui, secondo le profezie Maya, il mondo dovrebbe trovare la sua fine. La tragica previsione si inserisce, almeno per l’Occidente, in un’atmosfera di profonda crisi economica, sociale e politica, che impone a tutti, assertori o detrattori della profezia, di porsi delle domande sulla direzione del nostro futuro. Siamo dunque di fronte ad una fine definitiva del “nostro mondo” o semplicemente stiamo transitando verso una rinascita, dove la fine è solo un brusco cambio di direzione? Il catalogo non si prefigge certo lo scopo di analizzare tali importanti interrogativi, ma vuole piuttosto - partendo da un fenomeno contemporaneo, come la diffusione di questa credenza - portare l’attenzione sui concetti universali di fine e rinascita, declinandone alcune accezioni con l’ausilio delle opere d’arte. L’iconografia delle opere è stata presa come pretesto per abbordare argomenti e soggetti differenti che verranno di volta in volta analizzati attraverso le due categorie di fine e rinascita. L’opera d’arte in questo caso diventa l’immagine, la personificazione della fine di un mondo, dove per mondo si intende non il pianeta terra nella sua interezza, ma piuttosto la realtà che ci circonda, la realtà che conosciamo e che i nostri sensi consentono di abbracciare o anche solo immaginare. L’immagine sintetizza infatti un’interpretazione del mondo, rende percepibile ai sensi una delle possibili letture della realtà. Le opere - disegni, dipinti e sculture che vanno dal XVII secolo all’epoca contemporanea, di soggetto sacro e profano - sono i punti chiave del testo e sono state suddivise per argomenti in sette capitoli: Conoscere il futuro La catastrofe come Fine. La catastrofe come Rinascita La morte del singolo, la salvezza per l’umanità 19


La rinuncia alla vita terrena per la rinascita nella vita spirituale ovvero la castità per l’indipendenza La vita la morte L’uomo causa della sua fine: distruttore / costruttore / distruttore? Crisi o Apocalisse. L’intrinseca natura dell’opera d’arte, votata ad essere letta su diversi piani semantici: storia, storia dell’arte, storia della religione, iconografia, iconologia, estetica, ecc., consentirà di volta in volta di affrontare il soggetto sotto aspetti differenti, dettati da quella che è una nostra personalissima proposta di storia della fine e della rinascita. La vastità di un tema, i confini ristretti di una ricerca: premesse metodologiche Questo breve scritto non ha nessuna pretesa di essere esaustivo nella trattazione degli argomenti presi in considerazione. Per motivi contingenti la narrazione si connota non solo per il carattere personale, ma anche per la parzialità delle considerazioni. Personale perché l’autrice ha scelto e organizzato il testo seguendo una sola delle tanti chiavi di lettura a cui l’argomento poteva dare vita. Parziale perché analizzare argomenti centrali e universali per l’umanità sotto tutte le possibili sfaccettature, allontanerebbe inevitabilmente dallo scopo del catalogo, che resta quello di “interrogare” e “far interagire” l’arte del passato e del presente con tematiche tanto vive nel sentire contemporaneo. Nell’intento infatti di dare una lettura anche al nostro presente abbiamo chiesto ad Antonio Parisella, Professore di Storia Contemporanea dell’Università di Parma, di scrivere con la prospettiva del contemporaneista proprio l’introduzione del catalogo. Il lettore dunque non ce ne vorrà, ed anzi forse ce ne sarà grato, se in questa sede non potremo ripercorrere l’interessantissimo ma complicato dibattito critico relativo all’escatologia. Abbiamo organizzato il nostro discorso potendo scegliere solo alcuni dei più interessanti studi relativi alla materia, i quali di volta in volta sono stati alla base delle nostre riflessioni e della costruzione del nostro discorso. In particolare ci siamo avvalsi dello scritto di Frank Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo (1966), dove l’autore analizza il bisogno umano di dare un senso e trarre senso dalla fine, prendendo come esempio il genere letterario del romanzo. La seconda ragione a cui è dovuta la parzialità di questo studio è la scelta delle opere: inevitabilmente legata alla disponibilità che di esse 20


si ha sul mercato dell’arte. Per un antiquario il limite del reperimento delle opere ha un’incidenza maggiore nello svolgimento del tema, rispetto a quanto potrebbe averne in una mostra museale, dove il curatore dispone di un ampio patrimonio amplificabile anche attraverso una vasta rete di prestiti da parte di altre istituzioni o di privati. Tuttavia pur su queste ristrette premesse resta indubbia la costante e meditata ricerca che è stata alla base della scelta delle opere, capisaldi e tappe necessarie per la costruzione del nostro discorso escatologico, concepito anche nel tentativo di suscitare interrogativi nel lettore più sensibile, chiamato perché no, ad esprimersi su tematiche a noi tutti così vicine.

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I. Conoscere il futuro

1. Oniromanzia Sin dalle sue origini l’uomo si è sforzato di conoscere il futuro, sia per combattere l’angoscia che deriva dall’ignoto che lo attende, sia per tentare di orientare al meglio le sue scelte. Tutte le culture sin dall’antichità hanno escogitato ed elaborato sistemi che gli consentissero di predire il futuro. Di norma si tratta di rituali magici che prevedono l’intermediazione di figure iniziate a pratiche magiche: indovini, sibille, auguri, cartomanti. Persone che attraverso la loro sensibilità spiccata e una conoscenza misterica entrano in relazione con la divinità, che se opportunamente interrogata, risponde alle domande dell’umanità assetata di conoscenza1. In questa lunga e variegata tradizione di divinazione un ruolo di preminenza occupa l’oniromanzia ossia l’arte di prevedere il futuro basata sull’interpretazione dei sogni. Presente in tutte le culture antiche, l’oniromanzia vede nei sogni il mezzo attraverso cui la divinità sceglie di comunicare presagi o sventure all’umanità. Per sua stessa natura il sogno risulta una comunicazione confusa perché non soggetta alle leggi della narrazione e della razionalità. Per questo motivo esso necessita di essere interpretato. La rivelazione del suo significato profondo è quindi parte stessa della comunicazione divina, come si evince particolarmente nell’Antico Testamento. Nella Bibbia Dio sceglie più volte di comunicare con il suo popolo attraverso i sogni e coloro che sanno interpretarli2.

G. Minois, Storia dell’avvenire. Dai profeti alla futurologia, Bari 2007, pp. 9-11.

1

L. Sebastiani, Nella notte mi istruisci. Il sogno nelle sacre scritture, Villa Verucchio 2007, pp. 5, 7, 47.

2

23


Tra i più conosciuti ed importanti depositari di questi messaggi divini c’è sicuramente la figura del patriarca Giuseppe. Penultimo figlio di Giacobbe, Giuseppe manifestò sin dalla più giovane età una grande famigliarità con i sogni, attraverso i quali il Signore gli anticipava quelli che sarebbero stati gli accadimenti futuri della sua vita. Giovane, bello e buono, Giuseppe era il figlio preferito di Giacobbe e l’affetto del padre alla lunga non poté che suscitare gelosia nel resto della progenie. Forse per immodestia, forse per ingenuità, un giorno Giuseppe mentre era con i fratelli a far pascolare le greggi raccontò loro di un sogno in cui li aveva veduti prostrati davanti a lui. Fu dunque in uno scatto di ira che l’invidiosa discendenza di Giacobbe decise di eliminare il giovane fratello tramortendolo e vendendolo come schiavo al mercante egiziano Putifarre. Giovane, bello e buono, in questa nuova vita Giuseppe dimostrò di essere anche bravo, conquistando, dapprima la fiducia di Putifarre, che gli affidò la gestione della sua casa, e successivamente le mire concupiscenti della moglie di quest’ultimo. Fedele al suo padrone Giuseppe rifiutò le avances dell’avvenente signora che, adirata per l’affronto subìto, non ci pensò due volte e lo accusò di violenza carnale. Giuseppe fu dunque incarcerato ma proprio durante la prigionia il suo destino stava per compiersi. Nella stessa prigione di Giuseppe vennero rinchiusi, per avere offeso il sovrano, l’ex coppiere e l’ex fornaio del faraone. Una mattina Giuseppe vedendoli angosciati chiese spiegazione del loro turbamento. Entrambi avevano fatto un sogno quella notte e non trovavano chi lo sapesse interpretare. Egli avvezzo ai messaggi onirici, chiese loro di raccontargli i loro sogni e previde la condanna a morte del panettiere e la reintegrazione del coppiere alla corte. Allo scadere del terzo giorno la predizione si avverrò. Erano ormai passati due anni, e il faraone fece due sogni: “dal fiume salivano sette vacche di bell’aspetto e grasse […] e dopo di esse salivano sette vacche brutte e magre” che all’improvviso divorarono le prime vacche. Poi il faraone sognò ancora e vide “sette spighe piene e belle venire su da un solo stelo. Poi altre sette spighe stente e bruciate dal torrido vento orientale, germogliare dopo di quelle. E le sette spighe stente ingoiarono le sette spighe granite e piene”3. Molto turbato il faraone convocò tutti gli indovini del regno, ma nessuno seppe interpretare il sogno, finché il coppiere, ricordandosi di Giuseppe, ne parlò con il sovrano che decise di mandarlo a chiamare.

Genesi, 41, 1-7

3

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Una volta ascoltato il racconto del sovrano, Giuseppe disse “il sogno di faraone è uno solo, e Dio manifesta a faraone ciò che egli sta per fare […]. Stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutto quanto l’Egitto. E dopo quelli verranno sette anni di carestia e tutta l’abbondanza non sarà che un ricordo in Egitto, perché la fame consumerà il paese” come le vacche magre e le spighe secche avevano divorato e consumato le vacche grasse e le spighe piene. Giuseppe venne quindi eletto viceré d’Egitto per occuparsi dello stoccaggio delle derrate in previsione degli anni futuri di carestia4. Il dipinto del pittore napoletano Francesco Guarino raffigura Giuseppe il patriarca a mezza figura, proteso in avanti nell’atto di porgere sette spighe (fig. 1)5. Giovane e bello il patriarca mostra le spighe che Dio ha mandato in sogno al faraone e che sono il segno al contempo della divina benevolenza accordatagli e del compimento del suo destino. Sullo sfondo in alto a destra compaiono su una nuvola le sagome di sette covoni di grano, che simboleggiano i sette anni di prosperità predetti dal giovane. Giuseppe è riccamente abbigliato con un mantello violetto fermato sulla spalla da un gioiello simbolo dell’importanza e del prestigio che egli aveva conseguito. Il viso pieno e giovane rivela tutta la tavolozza tipica del Guarino: un incarnato che dal rosa pallido passa al rosso sanguigno, per virare sui verdi nelle parti più in ombra. L’impiego del taglio di luce che mette in evidenza solo una parte del giovane è di chiara ascendenza caravaggesca, tuttavia mediata attraverso i pittori come Ribera, Battistello e Caracciolo. Lattuada così descrive la sua pittura: “Un gusto per i contorni affilati del disegno, rispettati da una pennellata precisa e corposa – stesa lentamente e spesso ricorretta a secco – accomuna Guarino agli artisti dell’ultimo periodo italiano di Simon Vouet, e lo avvicina a non pochi aspetti dello stile squillante e preciso della maturità di Aniello Falcone. […]” Per Guarino “sono le mezze figure a costituire spesso un terreno di straordinarie occasioni di ritratti idealizzati in cui la rievocazione dell’eroismo di martiri cristiane come Agata, Agnese, Caterina è incarnata in immagini femminili di una modernità che ha pochi paragoni possibili nella pittura italiana del Seicento”6. A questo genere si può dunque ricondurre an-

Genesi, 36-41.

4

Francesco Guarino (Solofra, 1611 – Gravina in Puglia, 1651), Giuseppe il patriarca, olio su tela cm 80x50; inedito. L'attribuzione è stata confermata dal Prof. Nicola Spinosa, che ringraziamo.

5

R. Lattuada, Francesco Guarino da Solofra. Nella pittura napoletana del Seicento (1611-1651), Napoli 2000, pp. 53-54.

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fig. 1 Francesco Guarino (Solofra, 1611 – Gravina in Puglia, 1651), Giuseppe il patriarca, olio su tela cm 80x50.

che il dipinto di Giuseppe. La giovane età del modello e una capigliatura prolissa che cade sulle spalle del personaggio lo rendono infatti quasi femmineo, lasciando per un attimo il riguardante nell’ambiguità dell’identificazione del sesso, se non fosse per il bastone da patriarca che Giuseppe stringe nella mano sinistra. 26


2. Profezia I sogni non sono l’unico modo che Dio sceglie per comunicare con l’umanità. Particolare importanza è riservata ad esempio anche alla profezia. La vera profezia è un dono di Dio che consente agli uomini di interpretare la realtà per vedere oltre le apparenze. Sogni e profezie inviate dal Divino rispondono dunque al bisogno e al desiderio umano di conoscere il futuro, ma manifestano, nell’ebraismo e nel cristianesimo, una fondamentale differenza rispetto ad altre culture antiche come ad esempio quella greco romana. Nella Bibbia non è l’uomo a stimolare la risposta divina, attraverso rituali e pratiche magiche, ma essa si palesa in maniera improvvisa secondo un volere superiore. Nell’universo biblico è Dio che cerca l’uomo: il messaggio divino precede l’iniziativa umana7. Di qui nasce l’importanza della figura di mediatore prescelta da Dio: l’interprete dei sogni come nel caso di Giuseppe, il portavoce della profezia come ad esempio Isaia. Il profeta, pur coltivando la visione, una pratica molto vicina al sogno allegorico come quello del faraone, arriva a poco a poco a discreditare il valore dell’attività onirica considerandola una rivelazione secondaria squalificata dal fatto di potersi rivolgere appunto anche ai pagani8. L’autorevolezza della profezia deriva invece dall’importanza del suo portavoce: il profeta9. Egli svolge un ruolo importante in seno alla comunità: rappresentare una reazione nei confronti della tendenza dominante. Promettere catastrofi in periodi tranquilli e viceversa. Quasi sempre di umili origini la sua funzione è di criticare il funzionamento delle relazioni politico sociali, annunciando il loro rovesciamento a vantaggio di un ordine conforme al disegno divino. Ogni società produce profeti che fanno parte dell’equilibrio del gruppo di cui esprimono e canalizzano le insoddisfazioni. Non sempre dunque la profezia rivela accadimenti futuri, essa a volte è semplice espressione di una volontà divina. Tuttavia nella nostra cultura il primo aspetto risulta preminente, a tal punto che oggi con il verbo “profetizzare” intendiamo un sinonimo di prevedere. In questa funzione divenuta diciamo “primaria” la profezia ha assunto una notevole rilevanza nell’indirizzare la politica. Dice il Minois “quale

A. Neher, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, 1984, p. 82

7

L. Sebastiani, Nella notte mi istruisci. Il sogno nelle sacre scritture, Villa Verucchio 2007, pp. 63, 65, 118, 121-122.

8

M. Weber, The Sociology of Religion, Boston 1922, p. 46; N. Novello, Sotto una stella umana, in Apocalisse. Modernità e fine del mondo, a cura di N. Novello, Napoli, 2008, pp. XVII-XXXIV, a p. XVIII.

9

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fig. 2 Giovanni Maria Viani (Bologna, 1636 – Pistoia, 1700), attribuito a., Il Profeta Isaia, olio su tela, cm78x105.

mezzo più sicuro della certezza di una profezia di origine divina debitamente certificata” può avere un impatto psicologico positivo per conseguire una vittoria?10. Il profeta più studiato nell’ambito del tema del profetismo politico nella Bibbia è Isaia11, considerato autore di uno dei testi profetici più belli dell’intero libro. Per questo motivo anche le arti figurative gli hanno spesso accordato molta importanza, inserendolo all’interno dei cicli veterotestamentarii di cui forse faceva parte anche questa affascinante tela attribuita a Giovanni Maria Viani (fig. 2) 12.

10

G. Minois, Storia dell’avvenire. Dai profeti alla futurologia, Bari 2007, pp. 26, 31.

A. Neher, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, 1984, p. 181.

11

12

Giovanni Maria Viani (Bologna, 1636 – 1700), attribuito a., Il Profeta Isaia, olio su tela, cm78x105; inedito. L’attribuzione è stata suggerita dal dott. Michele Danieli (comunicazione scritta del 20 giugno 2012), che ringraziamo.

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La grande precisione disegnativa di ascendenza bolognese, a cui si accompagna anche un certo vigore fisico della figura si fonde in questo dipinto ad una accurata resa luministica. L’intento edificante e narrativo del soggetto, dall’impianto compositivo molto semplice, è tutto demandato agli attributi, a cui il pittore accorda molta importanza. Alle spalle del profeta abbigliato “all’orientale” si trova un putto che mostra una sega. Lo strumento fa riferimento al fatto che Isaia era stato segato in due dopo aver suscitato l’ira del re Manasse. Empio ed idolatra, il sovrano stanco di sentire i rimproveri sulla sua condotta aveva fatto giustiziare Isaia nel 700 a.c.13. L’attributo riporta dunque alla memoria del fedele il ruolo chiave di Isaia nella politica del tempo, ruolo di cui Dio l’aveva insignito e che infine l’aveva condotto a morte. Fino ad allora i profeti quando si rivolgevano ai sovrani prendevano di mira la loro persona, giudicando le doti individuali e non le loro azioni politiche. Isaia invece critica le loro scelte strategiche, introducendo un radicale cambiamento: Dio tramite il profeta diventa agente nella politica dello Stato ebraico14. Isaia è tuttavia figura chiave del Cristianesimo anche per un’altra ragione, alla quale fa riferimento l’attributo del cartiglio che il profeta tiene tra le mani che così recita: Dominus ab utero Vocavit me Isaia 49 15 Con questi versetti tratti dal suo libro, il profeta introduce l’idea dell’arrivo di un messia individuale e non dinastico di cui già aveva parlato anche Geremia (Isaia, 42, 1-7,; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53). Questa figura salvifica non verrà per salvare solo il popolo di Israele, ma tutte le genti fino agli ultimi confini del mondo16, preannunciando quindi l’arrivo della figura di Cristo. Per Isaia, il popolo si dividerà: alcuni troveranno la morte, altri la vita,

M. Bocian, I personaggi biblici. Dizionario di storia, letteratura, arte, musica, Casal Monferrato 1991, ad vocem

13

A. Neher, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, 1984, p. 181.

14

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Dio mi ha chiamato sin dal ventre di mia madre Isaia 49 (Isaia, 49, 1)

Isaia, 49, 6

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da un unico popolo risorgerà l’umanità eletta17. Da questa immagine viene la forza della profezia di Isaia18. Le distruzioni inviate da Dio sono quindi delle prove, degli ammonimenti e sono necessarie al restauro morale voluto dal Signore19. La salvezza non è conseguente alla catastrofe totale e finale dell’Apocalisse, ma sta all’interno della Storia. Solo pochi, solo i giusti sopravviveranno alle continue prove.

17

Isaia, 6, 13

A. Neher, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, 1984, p. 184.

18

A. Lods, Le prophètes d’Israël et les débuts du judaïsme, Paris 1950, pp. 70-74.

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II. La catastrofe come Fine. La catastrofe come Rinascita

1. Il tempo narrativo e la catastrofe In Occidente la concezione del tempo ha uno sviluppo narrativo che deriva dalla struttura di uno dei testi fondatori della nostra civiltà: la Bibbia. Il Testo Sacro infatti comincia con un inizio/creazione, raccontato nella Genesi e procede verso una fine, l’Apocalisse1. La Sacra Scrittura introduce quindi una concezione lineare del tempo, a dispetto di un’idea ciclica propria, per esempio della cultura greco-romana2, secondo la quale il tempo segue il ciclo naturale delle stagioni che porta annualmente ad un ritorno allo stesso punto di partenza. Il tempo per i cristiani si distende invece lungo una linea che è formata dagli eventi salvifici e conduce, non verso un rinnovamento, ma verso una fine definitiva della vita sulla terra, la cui immagine terrificante è affidata al testo dell’Apocalisse. Per quanto il termine significhi in realtà Rivelazione, nel pensiero comune associamo alla parola Apocalisse un significato di distruzione totale caratterizzato da grandi sconvolgimenti naturali che porteranno alla fine del mondo. L’uomo occidentale non può dunque fare a meno di concepire il tempo secondo questo schema narrativo, che lo pone nella condizione di attendere la Fine. Saremmo quasi tentati di coniugare il verbo al passato, quindi attendeva, ma il recente riaccendersi dell’interesse sulla probabile ed imminente fine del mondo profetizzata dai Maya, non può fare altro che trattenerci. Ma di questo parleremo più avanti … appunto alla fine!

E. Weber, Apocalissi. Culti attese e profezie, Cernusco (Mi) 2000, p. 256.

1

A. Placanica, Segni dei tempi. Il modello apocalittico nella tradizione occidentale, Venezia 1990, p. 58 cfr. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1976; M. Weber, La sociologia della religione, Milano 1982, II, pp. 369-370.

2

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E’ significativo infatti ricordare che nell’antichità i grandi eventi naturali avevano in sé una valenza segnica di natura strettamente storica; allo stesso tempo ogni grande fatto storico era preannunciato dai segni e dal farsi di una catastrofe: “perché una sola è la legge divina che presiede storia e natura”3. A differenza dell’Uomo primitivo che dava spiegazione ad ogni evento dell’Universo come manifestazione di una divinità, l’Uomo moderno si trova invece in un certo senso più disarmato di fronte ai cataclismi. I primi segni di una netta inversione di mentalità ci sono giunti con gli scritti degli Illuministi, confrontati con i tremendi terremoti di Lisbona del 1755 e di Messina del 17834. A tal proposito la Giacomoni dice: “l’accettazione della dimensione del cambiamento nel corpo della natura riconsegna la catastrofe alla dimensione della possibilità e non a quella dell’ineluttabilità”5. La religione non appaga con le sue spiegazioni tutte le coscienze, e paradossalmente la scienza ci ha reso l’Universo molto meno conosciuto e meno comprensibile6, lasciando aperta la questione della funzione/spiegazione della catastrofe. In un dispiegarsi lineare del tempo Augusto Placanica per esempio sostiene che la catastrofe altro non è che il “filo conduttore” che realizza per fasi e gradi la fine del mondo7. La catastrofe infatti viene interpretata dall’Uomo quale prefigurazione dell’Apocalisse ed è per l’umanità la rappresentazione simbolica del bisogno di dare un senso compiuto8 al proprio percorso sulla terra. La catastrofe preannuncia la fine e il momento in cui tutte le cose avranno finalmente un significato.

A. Placanica, Segni dei tempi. Il modello apocalittico nella tradizione occidentale, Venezia 1990, p.32.

3

Cfr. Voltaire-Rousseau-Kant. Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Milano 2004; A. Placanica, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento, Torino 1985.

4

P. Giacomoni, Immagini della catastrofe, in La terra trema. Catastrofi terremoti tsunami dalle stampe della collezione Kosák, cat. mostra Trento, Palazzo delle Albere Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 10 giugno-24 luglio 2005, a cura di P. Giacomoni, Rovereto 2005, pp. 13-31, a p. 19.

5

G. Minois, Storia dell’avvenire. Dai profeti alla futurologia, Bari 2007, p. 44

6

A. Placanica, Segni dei tempi. Il modello apocalittico nella tradizione occidentale, Venezia 1990, p. 31.

7

A. Tagliapietra, Catastrofe e Apocalisse. Le figure del disastro e la fine di tutte le cose, in La terra trema. Catastrofi terremoti tsunami dalle stampe della collezione Kosák, cat. mostra Trento, Palazzo delle Albere Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 10 giugno-24 luglio 2005, a cura di P. Giacomoni, Rovereto 2005, pp. 33-53, p. 40.

8

32


Frank Kermode sosteneva che “se il mondo, coerentemente con il plesso centrale della cultura e della fede ebraico-cristiana, deve essere visto come un’opera, come un prodotto di un creatore, anche per quest’opera vale il principio poetico che conferisce ad ogni opera un senso, quello che armonizza l’inizio con la fine”9. Come il dipanarsi di un racconto, affinché esso abbia senso è necessario partire da un inizio per giungere ad una fine. Weber suggerisce poi che “inserendo la sofferenza umana in un contesto cosmico, come parte di un ordine globale che contiene la conclusione, la catastrofe è nobilitata, dotata di un significato e perciò resa sopportabile”10. 2. Il Diluvio Universale “Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame i rettili e gli uccelli del cielo perché sono pentito di averli fatti. […] Ecco io manderò il diluvio”. E rivolgendosi a Mosè Dio disse “Entra nell’arca tu con la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinnanzi a me”11. Il diluvio come catastrofe è un tema presente in numerose culture antiche, non solo in quella ebraica. Esistono un gran numero di “miti d’acqua”, ovvero cataclismi rigeneratori ad opera delle acque, che si ritrovano nelle tradizioni culturali di tutto il mondo, a partire dal quelle sumero-babilonesi ma anche in quelle niente affatto imparentate con il ceppo euroasiatico, come quelle dei nativi americani. Il mito del diluvio è considerato dagli antropologi uno dei più universali della storia dell’umanità, in quanto si fonda sull’idea che l’equilibrio tra natura e uomo sia instabile e che quest’ultimo con il suo operato minacci continuamente di sovvertirlo. Nel mito babilonese ad esempio le vicende umane si sono a tal punto ingarbugliate che non resta altra alternativa che cancellare tutto attraverso le acque. L’umanità post-diluviana non ha niente in comune con quella pre-diluviana, perché l’individuo salvato non è un uomo ma un semidio, un eroe. Identica struttura è presente nel diluvio della mitologia greca. Deuca-

F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, p. 10.

9

10

E. Weber, Apocalissi. Culti attese e profezie, Cernusco (Mi) 2000, p. 256.

Genesi, 6-7.

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lione e Pirra, i salvati, sono esseri umani. La nuova razza umana che da loro discende ha dunque un’origine sovraumana. Nel diluvio biblico invece a salvarsi è un uomo con la sua famiglia: Noè12. Il diluvio come catastrofe non spezza quindi la storia ma diventa una sorta di stretto passaggio, quello stesso di cui aveva parlato il profeta Isaia, attraverso cui l’umanità deve transitare per poter Rinascere. Il tema del diluvio entra precocemente a far parte dell’iconografia cristiana dell’Occidente, dove se ne ritrovano testimonianze di rappresentazioni pittoriche già nelle catacombe. Tuttavia fin dal Rinascimento la rappresentazione del diluvio, in coerenza con il suo forte significato teologico, si focalizza sull’arca di Noè, puntando sulla simbologia che vede in lui una prefigurazione del Cristo, nell’arca la figura della croce e della chiesa, nell’acqua la figura del battesimo e nell’arcobaleno l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Le cose cambiano con l’affresco di Paolo Uccello dipinto tra il 1425 e il 1430 in Santa Maria Novella, a Firenze. Il pittore decide di rappresentare infatti per la prima volta, non le acque solcate dall’arca, ma l’inondazione in essere, dove gli uomini che ancora per poco sopravviveranno al diluvio cercano disperatamente riparo e salvezza aggrappandosi a ciò che trovano attorno a loro. Quest’opera apre nuove strade di investigazioni artistiche sul tema, centrando sull’uomo e il suo castigo l’iconografia del cataclisma primitivo, assurto a paradigma di tutti i disastri naturali13. Il bozzetto olio su tela di Pier Dandini (fig. 3)14 rispecchia a pieno questa concezione. In esso infatti non vi è traccia né dell’Arca, né tantomeno dell’arcobaleno. La costruzione della scena, in accordo con la descrizione della Genesi, sembra voler rappresentare due movimenti contrapposti: quello discendente della caduta della pioggia e quello ascendente della salita delle acque. Il livello degli abissi ha già superato la linea mediana dell’orizzonte, mentre la pioggia si abbatte sull’umanità inerme e impreparata. Lo sfondo grigio è attraversato da pennellate

Neher, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, 1984, p. 113; Cfr. anche Il diluvio universale, catalogo della mostra Trento Museo tridentino di Scienze Naturali, dicembre 1999-gennaio 2000, Trento 1999.

12

S. Wuhrmann, R. Cariel, “Diluvio e sua dimostrazione in pittura”: les enjeux artistiques du déluge, in Vision du déluge de la Renaissance au XIXe siècle, cat. mostra Dijon, Musée Magnin, 11 ottobre- 10 gennaio 2007, Paris 2006, pp. 10-14.

13

Pietro Dandini (Firenze, 1646-1712), Diluvio Universale, olio su tela cm 67x93; Si ringrazia la Prof.ssa Mina Gregori per la redazione dell'expertise; per un inquadramento generale si veda: F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Incice degli artisti e delle loro opere, Torino 2009; F. Baldassari, Dipinti fiorentini del Seicento e Settecento, Padova 2007.

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fig. 3 Pietro Dandini (Firenze, 1646– 1712), Diluvio Universale, olio su tela cm 67x93.

che come graffi ridisegnano il cielo dall’umore instabile e terribile. Il vento soffia carico di sventura, soffia in tutte le direzioni e tira verso il basso, verso la propria fine, un’umanità indegna. Le figure cercano di elevarsi, ma si tratta solo di una salita fisica e disperata. Un’ascesa scomposta e disordinata almeno quanto la vita dissoluta che ha attirato su di loro l’ira divina e negato qualsiasi possibilità di salvezza. La composizione nella disarmonia dei gesti convulsi sembra avere una delle primordiali funzioni dell’arte: la rappresentazione delle emozioni. Così la corsività e rapidità realizzativa tipica del bozzetto amplifica “l’espressionismo” della composizione, dove i sentimenti si traducono in gesti ampi e disarticolati. Il diluvio è prefigurazione degli ultimi istanti dell’umanità vicina all’annientamento15.

15

S. Wuhrmann, R. Cariel, “Diluvio e sua dimostrazione in pittura”: les enjeux artistiques

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Per quanto Pier Dandini fosse ancora lontano da temi cari al romanticismo, che attribuivano alla catastrofe un valore estetico come espressione del sublime16, questa concezione è invece viva nello spettatore e fruitore moderno. La catastrofe suscita in noi repulsione e attrazione. Lo spettacolo della potenza della natura che si dispiega davanti ai nostro occhi soggioga, spaventa, affascina e seduce. 3. Le acque si richiudono sopra gli Egiziani La catastrofe come fine per l’umanità corrotta e la Rinascita per gli eletti introduce il tema del secondo dipinto di questo capitolo. Il tema centrale del diluvio è non solo l’Alleanza offerta da Dio al suo popolo, ma anche l’accettazione da parte di quest’ultimo delle leggi impostegli da Dio. La figura chiave depositaria delle leggi e attraverso la quale si rinnova l’alleanza è Mosè, a cui Dio consegnò le tavole dei dieci comandamenti. Mosè era un ebreo nato in Egitto e abbandonato, in una cesta sulle acque del Nilo, dalla madre poco dopo la nascita nel tentativo di salvarlo dalla strage dei neonati maschi di origine ebrea ordinata dal faraone. Ritrovato dalla sorella di quest’ultimo, Mosè aveva vissuto alla corte, dalla quale era poi fuggito per aver ucciso una guardia del palazzo accanitasi contro uno schiavo ebreo. Chiamato dal Signore per liberare il suo popolo, Mosè tornò in Egitto per chiedere al faraone di liberare gli ebrei e lasciarli partire con lui. Al rifiuto perentorio e protratto del sovrano, Dio reagì mandando sette piaghe sulla terra d’Egitto. Solo l’ultima, culminante con la morte dell’erede al trono, convinse il faraone ad accordare agli ebrei la liberazione. Tuttavia furioso e spergiuro della parola data, il faraone inseguì gli ebrei con il suo esercito. Il Signore allora venne nuovamente incontro al suo popolo aprendo le acque del Mar Rosso davanti agli ebrei per richiuderle subito dopo sui soldati egiziani lanciati nell’inseguimento. E’ questa la scena che Giuseppe Romani descrive e racconta in questo

du déluge, in Vision du déluge de la Renaissance au XIXe siècle, cat. mostra Dijon, Musée Magnin, 11 ottobre- 10 gennaio 2007, Paris 2006, pp. 10-14, a p. 12. Sul tema della fascinazione che l’uomo prova davanti alla catastrofe scriveva Lucrezio nel II libro del De Rerum natura: «Dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti / l’ampia distesa del mare, l’altrui gravoso travaglio»; non perché rechi piacere che qualcuno si trovi a soffrire, / ma perchè scorgere i mali da cui siamo liberi è dolce. Cfr. a. Le Brun, Perspective depravée. Entre catastrophe réelle et catastrophe imaginaire, Bruxelles 1991; P. Morton D., The Apocalyptic Sublime, New Haven, Londres 1986.

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dipinto (fig. 4) 17 dalle dimensioni colossali. In una prospettiva poco convincente, ma che tuttavia ben rende l’idea della contemporaneità degli eventi, il faraone e l’esercito vengono travolti da acque tumultuose pilotate dalla divina provvidenza. La costruzione della scena si articola su una diagonale tracciata da una linea immaginaria che partendo dal braccio del faraone sul punto di annegare scende fino al piede della figura femminile di spalle in primo piano a sinistra. La catastrofe incombe: lo sfondo è saturo di verde e blu scuro e il cielo si mescolerebbe all’acqua, se la diversa consistenza, soffice e arrotondata per le nuvole non si contrapponesse ai profili aguzzi come pietre dei flutti marini. Gli ebrei raccolti in un capannello in basso a sinistra sono ora certi della salvezza e già paiono aver dimenticato le tribolazioni e gli antichi nemici, le cui pene non meritano che lo sguardo distratto di qualcuno fra loro. Sebbene le misure del dipinto favoriscano le dimensione “mastodontiche” delle figure, questa sorta di gigantismo è un canone tipico delle opere di Romani. L’eredità lombarda dell’artista derivatagli dalla sua formazione in terra patria ben si coglie nella ricerca luministica orientata sui contrasti delle ombre ottenuti esplorando le sfumature dei vivacissimi colori delle vesti. La composizione, soprattutto per le pose di alcuni personaggi, è invece debitrice della tradizione emiliana. L’artista infatti aveva a lungo lavorato nel Ducato Estense (sulle orme dello Stringa), dove aveva trovato la fama. 4. Distruzione del tempio Nella storia sacra prosperità e indipendenza dipendono strettamente dall’osservanza del patto con Dio, la stabilità politica infatti è conseguenza del rinnovo dell’antica Alleanza. Tra il Popolo Dio sceglie delle figure guida, dei liberatori: Sansone è uno di questi18. Sansone è prefigurazione del Cristo, in un sistema di corrispondenze che vede normalmente il Vecchio Testamento come una “anticipazione degli accadimenti” del Nuovo19. Anche le circostanze della nascita

Giuseppe Romani (Como 1654 - Modena 1727), Mosè richiude le acque, olio su tela cm 213x305; il dipinto è pubblicato in A. Mazza, «Pitocchi diversi al naturale». Giuseppe Romani, un pittore lombardo nel Ducato Estense, in corso di stampa. Si ringrazia il Professor Angelo Mazza per aver confermato l’attribuzione e per messo a disposizione l’impaginato del testo ancora in lavorazione, al quale si rimanda per un’esaustiva bibliografia.

17

Vita di Sansone, traduzione a cura di E. De Luca, Milano 2002, p. 7.

18

Cfr. J. Van Laarhoven, Storia dell’arte cristiana, Milano 1999, pp. 270-271.

19

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fig. 4 Giuseppe Romani (Como, 1654 – Modena, 1727), Mosè richiude le acque, olio su tela cm 213x305.



miracolosa favoriscono in effetti l’assimilazione di questa figura biblica a quella del Messia. La madre di Sansone infatti era sterile, finché un giorno non le apparve un angelo che le annunciò: “concepirai e darai alla luce un figlio, sul capo del quale non passerà rasoio. Egli sarà nazireo fin dalla nascita e comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei”20. Sansone sin da fanciullo era dotato di un carattere a dir poco suscettibile e di una forza straordinaria, infusagli dal Signore attraverso i capelli. Le vicissitudini della vita lo portarono ben presto ad attirare su di sé le ire dei Filistei. Questi ultimi desiderosi di liberarsi di lui, costrinsero allora l’avvenente filistea Dalila, con la quale Sansone aveva una relazione, ad estorcere al “campione” ebreo il segreto della sua potenza. Recise le trecce la sua forza sparì e Sansone venne facilmente catturato, accecato e ridotto in schiavitù. D’altronde la storia sacra è, come dice Erri de Luca, “una geografia di tradimenti”21. Un giorno i Filistei per celebrare la loro vittoria, condussero Sansone nel tempio del loro dio Balam, per mostrarlo a tutti come trofeo. Ormai cieco ed in catene Sansone si fece condurre sotto le colonne portanti dell’edificio e in silenzio invocò Dio affinché gli restituisse per un’ultima volta la forza di un tempo. La grazia scese su di lui, la forza tornò nelle sue braccia e Sansone fece crollare il tempio uccidendo sé stesso e tutti i Filistei. Il volere divino era compiuto. Sansone è quindi una figura colossale di “eroe suicida a scopo di catastrofe”22. E’ nell’attimo che precede la fine, quando Sansone ritrova l’antico vigore, che Luciano Borzone23, dotato e raro pittore genovese, lo rappresenta (fig. 5)24.

Giudici, 13, 5.

20

E. De Luca, G. Matino, Sottosopra: alture dell’Antico e del Nuovo Testamento, Milano 2007, p. 16.

21

E. De Luca, G. Matino, Sottosopra: alture dell’Antico e del Nuovo Testamento, Milano 2007, p. 16.

22

Luciano Borzone (Genova, 1590 -1645), Sansone nel Tempio, olio su tela, cm 113,5x105; inedito

23

Dal punto di vista stilistico è evidente l’influsso caravaggesco nell’uso della luce. Interessante è rilevare anche il trattamento dell’incarnato dove per dirla con le parole del Manzitti “pare stendere il colore con la carta vetrata per poi lumeggiarlo qua e là. Allo stesso modo egli tratta le carni, non plasticamente ma solo carnosamente e così capelli e le barbe a graffi di biacca”. Inconfondibili invece le pieghe delle vesti definite a giusta ragione “a creste spumeggianti” (C. Manzitti, Influenze caravaggesche a Genova e nuovi ritrovamenti su Luciano Borzone, in “Paragone” n. 259 (1971), pp. 31-42, a p. 36; cfr. C. Manzitti, Riscoperta di Luciano Borzone, in “Commentari”, fasc. III, luglio-settembre (1969), pp. 210-222). Il pittore è stato fatto recentemente oggetto di una monografia in corso di pubblicazione.

24

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fig. 5 Luciano Borzone (Genova, 1590 -1645), Sansone nel Tempio, olio su tela, cm 113,5x105.

Inquadrato fino a metà gamba, Sansone si avvita su sé stesso nell’atto di divellere una colonna. Sebbene la tensione muscolare e la presa sicura raccontino delle sue antiche prodezze, il gesto risulta privo di controllo. La potenza non ha l’ausilio della vista, lo sguardo di Sansone infatti non segue l’azione, i suoi occhi sono vuoti e il capo reclinato verso sinistra riceve la luce divina di cui l’eroe può solo percepire il calore senza poterne vedere la guida. 41


Altre luci non ce ne sono. Lo sfondo si perde in un nero profondo perché il tempio dei pagani è avvolto nell’ombra. I veri ciechi sono i Filistei idolatri, incapaci di riconoscere Dio. Tuttavia la fine è vicina e la tenebra impenetrabile del tempio diventa per tutti, pagani e credenti, una prefigurazione dell’oscurità della tomba. 5. Terremoto I recenti accadimenti nella nostra regione, l’Emilia Romagna, hanno tristemente risvegliato l’attenzione su quella che è una delle forme di catastrofe naturale più devastante psicologicamente e fisicamente per l’umanità: il terremoto. Il terremoto è un evento in cui alla distruzione fisica si accompagna il dissolversi delle umane certezze. La completa sovversione dell’ordine e la frantumazione dell’essere faticano ad essere ricomposti dai sentieri rettilinei di una razionalità che invano cerca una ragione di tanto dolore. La perdita delle vite umane è ferita insanabile. Ma chi resta deve fare i conti anche con la mancanza di riferimenti: la distruzione della propria casa e la devastazione del paesaggio urbano. Il volto di centri storici secolari depositari di tradizioni e arte sono stati distrutti nella frazione di pochi secondi. Chi è sopravvissuto deve confrontarsi con la necessità di ricostruirsi un’identità culturale che non dimentichi le proprie radici e che da quelle macerie, ancora palpitanti di vita e storia,possa ripartire e ridisegnarsi. Su questa idea è stata concepita e creata l’opera di Giulietta Grimaldi (fig. 6)25. L’artista ha utilizzato un frammento di materiale edile26 recuperato tra le macerie della chiesa di Santa Maria Maggiore di Pieve di

Giulietta Grimaldi, Rinascita (Chiesa di Santa Maria Maggiore, Pieve di Cento), mattone refrattario e gesso, 7x12x12 cm (2012)

25

L’idea di utilizzare macerie, stracci, recuperi e rottami trova importanti derivazioni dall’arte del Novecento, dove il loro impiego si configura con una fisionomia estetica anti-figurativa con estese corrispondenze anche nello spazio della tradizione letteraria. Scrive Appiano nel capitolo dedicato all’arte da Duchamp a Schwitters “Il frammento collocato a metà strada tra il proprio vissuto e il bagaglio inconscio dell’individuo, permetteva agli artisti di dialogare con la profondità temporale più remota rappresentata dall’usura. Essi cercavano sulla pellicola sgualcita della superficie dei vari pezzi, come su una mappa, l’incontro/scontro del destino dell’oggetto, la sua storia, la sua trasformazione […]” (A. Appiano, Estetica del rottame. Consumo del mito e mito del consumo nell’arte, Roma 1999, pp. 16, 109). Anche nelle opere della Grimaldi si interroga il frammento alla ricerca del racconto del suo vissuto. Tuttavia la frattura e la distruzione che l’hanno originato determinano un senso di sospensione, dove trova spazio l’intervento plastico e figurativo dell’artista e configura nel frammento la “trasformazione” di cui accenna Appiano.

26

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fig. 6 Giulietta Grimaldi, Rinascita (Chiesa di Santa Maria Maggiore, Pieve di Cento), mattone refrattario e gesso, 7x12x12 cm (2012).

Cento (BO), uno dei paesi colpiti dal terremoto, sul quale ha applicato il calco di un dettaglio di volto femminile. L’opera è impostata su più livelli semantici: l’immagine della catastrofe tra dolore e estetica e l’idea della fragilità della vita e della morte alla quale si contrappone la forza della rinascita. La furia distruttrice del terremoto è leggibile nel frammento lapideo. Parte di una storia secolare, nelle opere di Giulietta Grimaldi diventa simbolo di una narrazione sospesa, interrotta dall’arrivo di una imprevedibile sovvertimento dell’ordine. La maceria richiama lo spettacolo grandioso della catastrofe, la cui vista possiede sempre qualcosa di prodigioso e incommensurabile. 43


I frammenti di pietra o mattone, non sono più solo ruderi, ma rivelano l’occulta corrispondenza che c’è tra la materia inanimata, e la fugace brevità della nostra esistenza. Eppure non tutto è perduto. Dalla pietra ferita rinasce la nostra identità smarrita: la forma di un volto femminile emerge dalla materia informe e trae la sua spinta vitale, da quella che la Grimaldi definisce “una presenza luminosa, un’anima viva che appartiene alle macerie”. E’ questa luce che riesce a dare un senso alla catastrofe: dall’inanimata pietra scaturisce l’Immagine, il Volto di un Futuro che ancora non esiste, ma che solo l’Arte contemporanea può descrivere, invocare e riconoscere prima di chiunque come la nostra Rinascita.

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III. La morte del singolo, la salvezza per l’umanità

1. Il “già e non ancora”: la concezione del tempo passa da imminente a immanente L’arrivo del Messia ha cambiato la percezione del tempo per i cristiani e in generale nell’Occidente. La sua venuta era il segno tangibile che la fine del mondo era reale e stava per arrivare. Tuttavia il Messia annunciò la fine con un messaggio all’apparenza contrastante: il Regno dei cieli “è già e non ancora”1. Che cosa significava? E come questa concezione ha cambiato la percezione del tempo? Il Regno dei cieli è già tra le genti, ma la fine deve ancora compiersi. Le prime comunità cristiane dovettero percepire come imminente l’arrivo di questa tanto sospirata fine, basandosi anche sulle parole di Gesù: “In verità vi dico che alcuni di coloro che sono qui presenti non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il regno di Dio venuto con potenza”2. Si diffusero allora numerose teorie escatologiche e vennero predette innumerevoli date per la fine del mondo, tutte per altro contraddette sinora3. Tra i chiliasti più noti vi furono sicuramente i millenaristi, che attendevano la fine del mondo per l’anno mille, secondo una lettura dell’Apocalisse incentrata sull’interpretazione numerologica4. A tal

E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino 1977, p. 289.

1

Marco, 9, 1.

2

Cfr. N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Torino 2000.

3

4

Alcuni passi dell’Apocalisse sono stati letti secondo un simbolismo numerico. In particolare il testo Apocalisse 20, 1-6 ha offerto lo spunto per il cosiddetto millenarismo o chiliasmo, sia nella forma estremista che mitigata: si attende un tempo futuro e una

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proposito tutti ricordano la celebre frase "mille non più di mille" tradizionalmente attribuita a Gesù, della quale in realtà non c'è traccia nelle Sacre Scritture5. Ad invertire queste tendenze escatologiche, senza tuttavia estirparle, furono ad esempio gli scritti di Sant’Agostino. Secondo il Padre della Chiesa la tensione chiliastica verso il futuro tradisce quello che invece è il senso e il messaggio dell’Apocalisse nella Sacra Scrittura. Perché il Regno dei cieli è già presente sulla terra, a farlo cominciare era stata proprio la venuta di Cristo. La prefigurazione e realizzazione del Regno era infatti nella Chiesa. La tensione escatologica venne così definitivamente allontanata e da lì in poi divenne materia delle sette6. “Intanto visto che il diavolo è legato per mille anni, i santi regnano con Cristo per mille anni ancora, proprio questi mille anni che bisogna intendere come appartenenti all’epoca presente della venuta di Cristo”7. Il già evangelico era dunque spiegato proprio dalla venuta di Cristo: l’indefinitezza temporale dell’arrivo della Fine dei secoli non era più dunque imminente, cioè collocabile in un futuro anche se molto prossimo, ma immanente8, ovvero già dentro a questo tempo e già presente tra le genti e già parte della storia che l’umanità stava vivendo. Come interpretare l’idea del non ancora? Con l’espressione non ancora ci si riferiva ad un rinvio del compimento della promessa del Regno, che permettesse di costruire un margine tra i due avventi, cioè tra la prima venuta di Cristo e la seconda che avrebbe coinciso con la fine del mondo. Lo scopo era quello di rendere “nuovamente fruibile” il mondo per l’umanità9. Essa non era destinata ad un inerme attesa del ritorno di Cristo: le genti erano anzi invitate, da un lato ad agire con rettitudine in attesa

situazione storica di reale confronto e di benessere eccezionale riservata ai credenti. Dopo 1000 anni satana sarà liberato per “breve tempo” per essere poi sconfitto e condannato definitivamente (Apocalisse 20, 7-10). I mille anni rappresentano la pienezza ed evocano la condizione inaugurata dalla vittoria di Cristo, alla quale sono associati i redenti fedeli e martiri (R. Fabris, L’Apocalisse di Giovanni tra esegesi e spiritualità, in Apcalisse. L’ultima rivelazione, cat. mostra, Illegio Casa delle Esposizioni 28 aprile-30 settembre 2007, a cura di A. Geretti, Milano 2007, pp. 13-24, a p. 18). G. Duby, C. Frugoni, Mille e non più di mille. Viaggi tra le paure di fine millennio, Milano 1999, p. 6.

5

J. Taubes, Escatologia occidentale, Cernusco (Mi) 1997, pp. 110-111.

6

Agostino, De civitate Dei, XX, 9.

7

F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, p. 18

8

De Martino parla di operabilità del mondo si vedano in particolare E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino 1977, pp. 284-286.

9

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del giorno del Giudizio Universale, dall’altro a diffondere il messaggio del Vangelo, per affrettare i tempi del compiersi della promessa10, che dopo la venuta di Cristo riguardava non solo il Popolo Eletto ma l’intera umanità. Al posto dell’escatologia universale subentrò dunque quella che viene chiamata l’escatologia individuale. L’attenzione della chiesa si rivolse al destino dell’anima del credente e il timore per il tempo della fine venne sostituito dalla paura per l’ultimo giorno della vita umana11. La Chiesa trasferì la concezione escatologica, cioè di attesa della fine del genere umano, da un ambito reale ad un piano simbolico12, attraverso l’amministrazione del rito e dei sacramenti, che nel tempo liturgico rinverdiva e ricordava ogni anno la venuta del Cristo e le sue promesse. Come dice Weber “il Cristianesimo era un’aggregazione di dottrine a volte discordanti ebraiche, apostoliche, greche o altre meno definite. Il mondo era creazione di Dio ma anche regno di satana;[…] era il tempo finale ma la parusia veniva per il momento accantonata. Era meglio non parlare dell’avvento, ma ogni anno i sermoni del tempo dell’Avvento ricordavano ai fedeli la Venuta promessa, così come i sermoni pasquali ricordavano loro la Passione di Cristo”. La dialettica tra l’adesso (sofferenza, travaglio, oppressione) e il non ancora (redenzione, emancipazione, trionfo) proseguì13. 2. Il Cristo La figura chiave sulla quale questa concezione si imperniava era naturalmente il Cristo. Il cristiano trovava corrispondenza tra le sue sofferenze e quelle che già aveva scontato il figlio di Dio incarnato e grazie al suo sacrificio poteva sperava nella redenzione e nel Regno dei Cieli. L’arte, raffigurando e diffondendo le immagini della vita di Gesù e della sua Passione, si configurava come lo strumento più adeguato nelle mani della Chiesa occidentale per diffondere e amplificare il messaggio salvifico14.

E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino 1977, p. 286

10

J. Taubes, Escatologia occidentale, Cernusco (MI) 1997, pp. 110-111.

11

E. Weber, Apocalissi. Culti attese e profezie, Cernusco (MI) 2000, p. 246.

12

E. Weber, Apocalissi. Culti attese e profezie, Cernusco (MI) 2000, p. 247.

13

Non si affronterà in questa sede il complesso argomento dell’utilizzo delle immagini da parte della Chiesa nell’evangelizzazione. Basti ricordare che a sancirne il valore

14

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fig. 7 Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona, 1578 – Roma, 1649), Flagellazione di Cristo, olio su l’ardesia, cm 40x25,5.


Le sofferenze subite dal Cristo sulla terra dovevano creare nel fedele una sorta di empatia ed immedesimazione, suscitandone la pietà. In particolare la Passione, rievocata dettagliatamente anche nella liturgia, stimolava la fantasia degli artisti che si cimentarono in soluzioni iconografiche di grande effetto. In questa Flagellazione di Cristo (fig. 7) 15 realizzata dal pittore veronese Alessandro Turchi detto l’Orbetto, l’accuratezza pittorica si accompagna alla rarità e pregevolezza del supporto. Questa composizione su lavagna è ascrivibile al primo decennio del Seicento quando il pittore lavorava ancora nel Veronese. Agli stessi anni sono infatti riconducibili diverse versioni di questo soggetto16, il cui impianto manieristico risente ancora del maestro Felice Brusasorci. Nella scena Cristo è legato ad una bassa colonna che ricorda quella detta di Santa Prassede. La colonna che prende il nome dall’omonima chiesa romana che la conserva era stata portata da Gerusalemme nel XIII secolo dal cardinale Colonna. Sebbene da sempre venisse venerata, essa trovò un impiego massivo in pittura solo dopo la Controriforma17.

e l’importanza, come coadiuvante per il credente nel suo percorso di fede, era stato il Concilio di Trento. Frutto di quelle lunghe riflessioni erano poi stati diversi trattati, tra i quali si segnalano: G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna 1582, Federico Borromeo, De pictura sacra, Milano 1625 o G. D. Ottonelli, P. Berrettini, Trattato della pittura e Scultura, uso ed abuso loro, composto da un Theologo e da un Pittore, Firenze 1625. Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona, 1578–Roma, 1649), Flagellazione di Cristo, olio su ardesia, cm 40x25,5. L’attribuzione è stata confermata dal Prof. Mauro Lucco che ringraziamo.

15

Cfr. l’esemplare passato all’asta nel 1979 (Vienna, Dorotheum, 13.11.1979, n. 138) presenta i due medesimi angeli in volo ed è supposto essere il prototipo della serie; Altre versioni si trovano: a Verona, Museo Castelvecchio inv. 5521 – 1B976; Padova, Musei Civici, inv. 492, e a Firenze Poggio Imperiale, con varianti rispetto alle due precedenti nella posizione del Cristo e dei due aguzzini (M. Casciu, scheda n. 24 in Pietre colorate. Capricci del XVII secolo dalle collezioni Medicee, a cura di M. Chiarini e C. Acidini Luchinat, cat. della mostra Pal. Franchi Servanzi, S. Severino Marche, 29 luglio -10 settembre 2000, Cinisello Balsamo 2000, pp. 13-18); un’ulteriore variante in collezione privata veronese prevede invece l’inserimento di due figure sulla destra e in alto di un lume artificiale (pubblicata in G. Peretti, scheda n. 81, in Alessandro Turchi detto l’Orbetto 1578-1649, a cura di D. Scaglietti Kelescian, catalogo della mostra Verona, Museo di Castelvecchio 19 settembre – 19 dicembre 1999, Milano 1999, p. 236, con bibliografia precedente; un’altra versione della Flagellazione di Cristo, olio su lavagna, cm 35,8 x 26,5 è conservata al Poznan, Muzeum Narodowe w Poznaniu (D. Scaglietti Kelescian, scheda n. 19, in Alessandro Turchi detto l’Orbetto 1578-1649, a cura di D. Scaglietti Kelescian, catalogo della mostra Verona, Museo di Castelvecchio 19 settembre – 19 dicembre 1999, Milano 1999, p. 108).

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D. Scaglietti Kelescian, scheda n. 10, in Alessandro Turchi detto l’Orbetto 1578-1649, a cura di D. Scaglietti Kelescian, catalogo della mostra Verona, Museo di Castelvecchio 19 settembre – 19 dicembre 1999, Milano 1999, p. 90.

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Nel dipinto Cristo è legato per i polsi e costretto in una posizione china e inerme, mentre riceve le frustate dai due sgherri accanitisi contro le sue carni ormai esangui. L’incarnato livido ne prefigura la morte imminente e contrasta fortemente con il colorito sanguigno dei due aguzzini che, tesi nello sforzo dell’azione riprovevole, avvampano di calore. La fine è imminente e tangibile. La scena è priva di riferimenti spaziali e temporali, essa infatti non si svolge in un paesaggio o in un interno, ma su uno sfondo nero e compatto. L’intento narrativo lascia spazio a quello educativo e moraleggiante. Si tratta di un nero assoluto, che sebbene ottenuto attraverso la brillantezza della pittura a olio lascia trasparire il colore naturale della pietra sottostante. La lavagna è riflettente inaccessibile e conferisce al trio un’atmosfera di gravità presagio della fine. Tuttavia la presenza degli angeli in alto a sinistra serve a ricordare che l’apparente insensatezza della morte di Cristo, ha come ultimo scopo la salvezza e la redenzione dell’umanità intera. Dato l’inusuale supporto del dipinto vale forse la pena dedicargli una piccola digressione. L’uso della lavagna è di matrice locale Veronese18. Fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento va segnalata la produzione di dipinti su pietra di paragone e lavagna da parte di un gruppo di pittori veronesi, per i quali il fondo scuro della pietra si prestava a realizzare ambientazioni notturne di tradizione bassanesca19, nonché ad accogliere suggestioni caravaggesche20. La diffusione di questa tecnica, il cui inventore è ritenuto essere Sebastiano del Piombo,21 corrisponde al desiderio di realizzare opere

D. Scaglietti Kelescian, scheda n. 15, in Alessandro Turchi detto l’Orbetto 1578-1649, a cura di D. Scaglietti Kelescian, catalogo della mostra Verona, Museo di Castelvecchio 19 settembre – 19 dicembre 1999, Milano 1999, p. 100; Questa tecnica si diffonde nel veronese, del resto come testimonia lo Scamozzi nel 1645 “s’imbarcano sull’Adige per Venetia” marmi nerissimi che “ricevono un pulimento e lustro mirabile, e però sono detti Paragoni (…) de’ quali paragoni se ne fanno Altari, depositi, avelli, iscrittioni e altri ornamenti” (Rinaldi S., Supporti lapidei e vitrei, in I supporti nelle arti pittoriche. Storia, tecnica, restauro, a cura di C. Maltese, I, Milano 1990, pp. 216-263, a pp. 227228).

18

A. Ottani Cavina, Dipinti su lavagna, in “Bolaffi Arte”, 1971, n. 6, p. 24.

19

A. Cerasuolo, I dipinti di Sebastiano del Piombo del Museo di Capodimonte. Note sulla tecnica, pp. 128-147, in particolare nota 2 p. 128; cfr. M. Chiarini, Pittura su pietra, in Pietre colorate. Capricci del XVII secolo dalle collezioni Medicee, a cura di M. Chiarini e C. Acidini Luchinat, cat. della mostra Pal. Franchi Servanzi, S. Severino Marche 29 luglio -10 settembre 2000, Cinisello Balsamo 2000, pp. 13-18.

20

La paternità della tecnica a Sebastiano del Piombo sulla scorta delle precoci testimonianze di Vasari e Soranzo è stata unanimemente accolta cfr. A. Cerasuolo, I dipinti di Sebastiano del Piombo del Museo di Capodimonte. Note sulla tecnica, pp. 128-147, in particolare nota 2 p. 128.

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eterne: incorruttibili dai tarli, insensibili al fuoco e all’umidità delle pareti. In particolare il colore scuro della lavagna mette in forte risalto la pennellata e consente di raggiungere velocemente il tono di colore desiderato. La preziosità della materia poi incuriosiva e stimolava i collezionisti. Tuttavia il peso ingente del supporto rendeva queste opere poco maneggevoli e ne determinò un precoce abbandono22. La venuta del Cristo, si diceva, era funzionale al perdono di Dio. Attraverso la sofferenza del figlio si riversava sopra l’umanità la misericordia divina23 e centrali nelle arti visive divennero i segni delle torture subite. Nacquero dunque nuove iconografie, che nessuna attinenza avevano con i racconti evangelici, ma che avevano lo scopo di mostrare il corpo straziato del Messia al fine di suscitare pietà e immedesimazione nel fedele. Accanto all’Ecce homo, all’Uomo dei dolori e al tradizionale Compianto, che vedeva tutti gli attori degli ultimi istanti della vita di Gesù disperarsi sul suo corpo, si diffuse a partire dal XV secolo, l’iconografia del Cristo morto sorretto dagli angeli o dalla Vergine e san Giovanni. L’intento principale di queste raffigurazioni era l’ostentazione del corpo martoriato al fine di suscitare sentimenti di tragicità e di rassegnazione. In quest’opera attribuibile a Jacopo de’ Barbari (fig. 8)24 il cadavere è completamente abbandonato nelle braccia della Vergine, che lo sorregge con l’aiuto di san Giovanni. Per quanto le ferite siano evidenti, il Cristo è molto bello e pare addormentato. Sulle membra martoriate si devono leggere quindi pena e martirio, Redenzione e Resurrezione, vita terrena e divina. In questo dipinto le due anime del percorso artistico di de’ Barbari, cominciato sotto la tutela di Alvise Vivarini e la tradizione antonellesca, si ar-

A. Cerasuolo, “Un nuovo modo di colorire in pietra” Vasari e la fortuna dell’invenzione di Sebastiano, in Sebastiano del Piombo e la cappella Borgherini nel contesto della pittura Rinascimentale, a cura di S. Arroyo Esteban, B. Marocchini e C. Seccaroni, Piacenza 2010, pp. 47-53, a pp. 47-48.

22

(Matteo, 9,36; 14,14; 15,32). Sul valore salvifico della sofferenza cfr. A. Greco, Fenomenologia del dolore. Riflessione teologica sul valore salvifico della sofferenza, Roma 2004.

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24

Jacopo de’ Barbari (Venezia, c. 1445-c. 1516), Cristo supportato dalla Vergine e da san Giovanni, olio su tavola, cm 69x91; La proposta attributiva è stata avanzata dal dott. Davide Trevisani della galleria Maurizio Nobile, con il quale ho condiviso le considerazioni in merito a questo dipinto. Si fa quindi riferimento in questa sede alla sua inedita scheda dell’opera. Per l’artista si vedano anche A.de Hevesy Jacopo de Barbari: le maitre au caducee, Paris-Bruxelles, 1925; L. Servolini, Jacopo de’ Barbari, Padova 1944; C. Balistreri-Trincanato, D. Zanverdiani, Jacopo De Barbari, il racconto di una città,Venezia 2000; S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Milano 2006.

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fig. 8 Jacopo de’ Barbari (Venezia, c. 1445-c. 1516), attribuibile a., Cristo supportato dalla Vergine e da san Giovanni, olio su tavola, cm 69x91.

monizzano con la conoscenza dell’incisione italiana ed in particolare modo del Mantegna, e il dialogo con il Nord (da Schongauer a Dürer)25. L’impianto compositivo, di cui esistono numerose varianti di artisti coevi al nostro, è di derivazione veneta. Sicuramente il modello più famoso a cui anche il De Barbari non rimase indifferente è il dipinto di analogo soggetto di Giovanni Bellini, già a Bologna in collezione Sampieri e oggi a Brera. Alla rigidità delle membra che

Uno dei problemi più spinosi per la critica riguarda proprio la formazione e gli esordi dell’artista ancora al vaglio degli studi cfr. in particolare S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Milano 2006.

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sopraggiunge all’atto della morte26 evidente in Bellini si sostituisce in quella del de’ Barbari un dolce abbandono27. Inoltre il dialogo serrato tra i volti della Vergine e del Cristo si fa più distaccato, sebbene lo sguardo di lei non abbandoni il figlio. Giovanni, che deriva dai modelli di düreriana memoria anche per la leziosa resa dei boccoli, guarda verso lo spettatore. La torsione del busto, rigida e classicheggiante, invece ha una derivazione diretta da soluzioni portate dalla Lombardia a Venezia già nell’ultimo decennio del Quattrocento28, ma si rifà anche a canoni estetici propri della scultura della bottega dei Lombardo.

G. de Vincentiis, Il cadavere nell’arte, Roma s.a, p. 50.

26

La posizione delle braccia e il capo reclinato avvicinano molto il nostro modello ad un altro dipinto del Bellini, il magnifico Compianto monocromo oggi conservato agli Uffizi di Firenze.

27

S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Milano 2006, p. 28.

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fig. 9 Ambito dei Carracci, Santa Maria Egiziaca, olio su tela, cm 94x80,5


IV. La rinuncia alla vita terrena per la rinascita nella vita spirituale ovvero la castità per l’indipendenza 1. Da peccatrice a santa Il personaggio raffigurato in questo ovato di ambito bolognese della metà del Seicento è santa Maria Egiziaca (fig. 9)1. L’agiografia della santa, vissuta nel IV secolo, affonda le radici nella leggenda. Di lei si narra che all’età di dodici anni decise di lasciare la famiglia per trasferirsi ad Alessandria dove cominciò a prostituirsi per mantenersi. La giovane visse un’esistenza spensierata, libera e piena di piaceri per diciassette anni, finché un giorno non vide una processione di pellegrini in procinto di imbarcarsi per Gerusalemme. Maria decise allora di unirsi a loro e non avendo di che pagare il viaggio, ricompensò i marinai concedendosi a loro. Una volta giunta in Terrasanta e in procinto di entrare nel Tempio, Maria non riuscì a varcarne la soglia: una forza invisibile la tratteneva all’esterno. In quel momento le apparve la Madonna, che invitandola a pentirsi per la sua vita dissoluta e indicandole la via della redenzione, compì su di lei il miracolo della conversione. Maria dunque decise di ritirarsi nel deserto oltre il Giordano per espiare le sue colpe. Nel suo eremitaggio soffrì i tormenti della carne per un numero di anni pari a quelli in cui si era dedicata al meretricio. Quando le sue vesti andarono in brandelli per l’usura del tempo ella poté coprirsi solo con la sua lunga chioma. Gli anni trascorsero finché un giorno un monaco di nome Zosimo la vide. Lei gli si avvicinò chiamandolo per nome pur non conoscendolo e il monaco capì dunque di trovarsi di fronte ad

1

Ambito dei Carracci, Santa Maria Egiziaca, olio su tela, cm 94x80,5; il dipinto è ancora al vaglio degli studi, si ringrazia il prof. Nicholas Turner per aver espresso il suo avviso sull’opera individuandone il possibile ambito culturale di riferimento.

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una donna ispirata direttamente da Dio. Dopo aver raccontato la sua vita Maria, chiese al monaco di tornare l’anno seguente per impartirle la comunione. Trascorso quel tempo la donna si presentò all’appuntamento e attraversò il Giordano camminando sulle acque. Ricevuto il sacramento ella rinnovò a Zosimo l’invito per l’anno successivo quando però egli la ritrovò morta già in odore di santità2. La vita di Maria Egiziaca è stata costruita sulla base di dozzine di storie delle cosiddette amma, le madri che avevano scelto la vita ascetica, intrapresa da molti nei primi secoli della cristianità. I cristiani veneravano queste donne che avevano soppresso la loro femminilità, strumento di tentazione per gli uomini. La donna poi era considerata più lussuriosa dell’uomo, e quindi doppiamente meritevole di lode per essere riuscita a reprimere la propria natura lasciva. L’importanza di queste donne paradossalmente non dipendeva dalla loro forza morale, dall’indipendenza o dall’ambizione dimostrate vivendo in condizioni estreme, ma dalla mancanza di femminilità, dall’abbigliamento disadorno, dall’aspetto cadaverico, dalla soprannaturale asessualità che andava al di là della semplice castità3. Il Concilio di Trento aveva insistito perché si rappresentassero tutti i santi antichi e moderni in una dimensione atemporale lontana da qualunque tipo di esperienza terrena4, ed è questa la condizione in cui è raffigurata l’Egiziaca nel nostro dipinto. Maria Egiziaca ancora nel pieno della giovinezza indossa un’umile veste di pelli, mentre in basso compare un piccolo angioletto segno della vicinanza di Dio. I lunghi capelli dai riflessi rossi avvolgono in parte il suo corpo, mentre lo sguardo è rivolto verso l’alto in un momento di estasi. Il sentimento estatico, indice di un dialogo con Dio, era spesso rappresentato dagli artisti barocchi, che erano soliti spingere l’emotività fisica dell’estasi ai limiti della sensualità. Questo è il caso della bella Egiziaca, le cui vicende biografiche l’avvicinano alla storia di una ben più nota meretrice redenta: Maria Maddalena. Quest’ultima era la figura attraverso cui la chiesa post tridentina volle recuperare e riconsiderare la tragica fatalità umana alla quale la

Cfr. Grande dizionario illustrato dei santi, Casal Monferrato (Al) 1991, ad vocem.

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E. Abbot, Storia della castità. Dalle vestali a Elisabetta I, da Leonardo da Vinci a “Magic” Johnson, Milano 2008, pp. 77-78, 90, 100.

3

A. Cottino, Il senso del tempo nella pittura del Seicento: riflessioni preliminari, in Chronos. Il tempo nell’arte barocca all’età contemporanea, catalogo della mostra 28 maggio-9 ottobre 2005 Caraglio, Il Filatorio, a cura di A. Busto, A. Cottino, F. Poli, Cuneo 2005, pp. 49-60, a p. 59

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donna era stata associata sin dall’antichità5. In un saggio illuminante Daniel Arasse fa preciso riferimento al ruolo giocato dall’iconografia della Maddalena come modello concreto a cui le donne si potevano ispirare. Per le mortali era insperabile raggiungere la perfezione asessuale della Vergine. Era molto più facile infatti identificarsi nella Maddalena, riscattata e redenta nell’integrità di tutta la sua corporalità e femminilità. L’eroticità della donna veniva poi “sublimata” attraverso la rappresentazione dell’avvenente chioma sciolta6, che tanto l’accomunava a Santa Maria Egiziaca. Nel nostro dipinto, la sensualità della santa presenta tuttavia qualcosa di ambiguo e apparentemente inspiegabile. A ben guardare sotto la capigliatura fascinosa e maestosa il corpo di Maria non ha nulla di femminile, le braccia e le spalle sono poderose e non si intravede la forma del seno sotto i vestiti. L’abito poi ricorda incredibilmente la veste di pelli di cammello che normalmente caratterizzava anche san Giovanni Battista. Forse il pittore che inizialmente voleva rappresentare un san Giovanni ha cambiato soggetto in corso d’opera. O forse la sensualità della santa peccatrice andava stemperata con forme androgine che riportassero l’attenzione sulla redenzione di quest’ultima piuttosto che sui suoi trascorsi goderecci. Allo stato attuale degli studi le nostre restano solo ipotesi, piste di possibili indagini future. 2. Da martire a sposa La santa raffigurata in questo dipinto di Lorenzo Pasinelli è santa Caterina d’Alessandria, nell’atto di ricevere un anello da Gesù Bambino (fig. 10) 7. L’agiografia della santa presenta lacune ed incertezze. Quello che si sa di questa importante figura per il Cristianesimo è

Les vanites dans la peinture au XVIIe siècles. Méditations sur la richesse, le dènuement et la rédemption, sous la direction d’A. Tapié, Ville de Caen, Musée des BeauxArts, 27 juillet-15 octobre 1990, Paris1990, p. 136.

5

D. Arasse, On y voit rien. Descriptions, Paris 2003, pp. 95-122.

6

Lorenzo Pasinelli (Bologna, 1629-1700), Matrimonio Mistico di santa Caterina, olio su tela, cm 136x98; inedito. L’attribuzione è stata confermata dal prof. Nicholas Turner. Si ringrazia il professore per aver condiviso con noi alcune importanti osservazioni stilistiche (comunicazione scritta del 14 maggio 2012). Per un inquadramento generale si vedano C. Baroncini, Lorenzo Pasinelli: pittore (1629-1700): catalogo generale, Rimini 1993; C. Baroncini, Vita e opere di Lorenzo Pasinelli (1629-1700), Faenza 2010; C. Baroncini, Lorenzo Pasinelli: pittore (1629-1700): catalogo generale, Rimini 1993 con bibliografia precedente.

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fig. 10 Lorenzo Pasinelli (Bologna, 1629-1700), Matrimonio mistico di santa Caterina, olio su tela, cm 136x98.


che Caterina visse ad Alessandria nel IV secolo. Figlia di una famiglia nobile era stata invitata come il resto del popolo, in occasione del passaggio in città dell’imperatore Massenzio, a fare sacrifici agli dèi pagani. Giunta nel tempio però la giovane non solo si rifiutò di assistere ai rituali di sacrificio, ma cercò anche di convertire l’imperatore alla parola del Signore. Massenzio convocò allora un gruppo di intellettuali che persuadessero la giovane, ma durante la discussione Caterina ebbe la meglio e furono loro a convertirsi al Cristianesimo e per questo furono giustiziati. Allora anche l’imperatrice con il generale Porfirio vollero incontrarla, ma anche per loro arrivò la conversione. La giovane fu quindi condannata a morte tramite la ruota dentata. Miracolosamente lo strumento di tortura si frantumò sotto le membra di Caterina, che dopo poco venne però uccisa tramite la decapitazione8. A partire dal Medioevo la santa era molto venerata e la sua rappresentazione entrò precocemente nelle arti visive, sia come martire che come protagonista del Matrimonio Mistico. Le vergini rappresentavano una sorta di medium di trascendenza dei limiti tra la natura e il soprannaturale. Le vergini martiri poi godevano addirittura di maggior considerazione dei martiri semplici. Queste giovani erano infatti simbolo della libertà a ogni costo, al prezzo della loro vita, rappresentavano il sogno più profondo dell’umanità cristiana. “La verginità rendeva uguali uomini e donne uniti e combattenti per la libertà nella parola del Signore”9. Il dipinto raffigura la santa al cospetto della Vergine che tiene sulle ginocchia il Bambino mentre due angeli musicanti assistono alla scena. Si tratta di un dipinto di grande formato la cui composizione è armonicamente studiata nel suo sviluppo verticale. Questa opera sembra un repertorio di richiami e rimandi all’intero panorama artistico a cui il Pasinelli faceva riferimento. Si coglie l’influsso del Cantarini mentre gli angeli musicanti ricordano Ludovico Carracci. Caterina raffigurata di schiena come una giovane della nobiltà, la cui eleganza percepibile nell’abbigliamento e nella posa ricorda le donne del Parmigianino. La scena si svolge in un ambiente ovattato e fuori dal tempo. I colori delle stoffe che con ampi panneggi circondano i personaggi accen-

M. Donnini, Santa Caterina di Alessandria, in Il Grande libro dei santi. Dizionario enciclopedico, a cura di E. Guerriero, D. Tuniz, Cinisello Balsamo (Mi) 1998, pp. 381-382; Per la figura della santa si veda soprattutto R. Coursault, Sainte Catherine d’Alexandrie: le mythe et la tradition, Paris 1984.

8

E. Schulte van Kessel, Vergini e madri tra cielo e terra. Le cristiane nella prima età moderna, in G. Duby e M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di N. Zemon Davis, A. Farge, Bari 1997, pp. 156-200, a p. 161.

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tuano il carattere di dolcezza di ascendenza baroccesca, che ben si coniuga con il rito tutto femminile che si sta compiendo. L’episodio raffigurato si riferisce ad una visione avuta dalla santa10, in cui vide apparirgli la Madonna con il Bambino in grembo proteso verso di lei nell’atto di porgerle un anello, in chiaro riferimento alla simbologia del sacramento nuziale. Il matrimonio mistico, così era chiamato questo vincolo, trova la sua origine nella religione ebraica. Già all’epoca del Talmud (V-VI secolo d.C.) i rabbini insegnavano che il rapporto tra Dio e Israele era concepibile come un matrimonio spirituale. Quest’idea si riscontra soprattutto nel Cantico dei Cantici, che introduce tanto per il cristianesimo quanto per l’ebraismo l’uso di un linguaggio sessuale e matrimoniale per descrivere il rapporto tra Dio e il suo Popolo. L’idea di questo matrimonio mistico era molto diffusa nel Medioevo, si hanno per esempio attestazioni a Venezia di sponsali tra il doge e il mare o tra il nuovo doge e la badessa di un monastero importante. In generale però l’idea di questa unione spirituale si ritrova nei monasteri femminili, dove la monaca o aspirante tale in quanto femmina era facilmente assimilabile ad una sposa. Il matrimonio mistico è dunque un topos del cristianesimo medievale dalla storia lunga e complessa, comprendente esegesi biblica, liturgia, cerimonie pubbliche, misticismo e vita monastica. Questo vincolo ebbe per le donne un potenziale liberatorio, pur costringendo le monache soprattutto dopo le restrizioni imposte dal Concilio di Trento, ad una severa clausura. Esse acquisivano innanzitutto uno statuto di superiorità rispetto alle donne comuni11: “la Provvidenza si serve delle sue creature per costruire la storia della redenzione umana”12. Inoltre, all’interno delle mura monastiche, avevano la possibilità di esprimere un’autonomia artistica e spirituale altrimenti loro negata. Questa indipendenza era offerta loro proprio dal voto di castità e dal legame con Dio che il cristianesimo interpretava come potere massimo13.

I. da Varagine, Legenda aurea, ed. 1998.

10

E. Ann Matter, Il matrimonio mistico, in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Bari 1994, pp. 43- 60, a pp. 47-48; cfr. anche P. Iacobone, Il Matrimonio mistico di santa Caterina d’Alessandria nell’arte italiana (XIV–XVI secolo), in “Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”, n. 6, 2006, pp. 187-212.

11

G. Zarri, Da Caterina a Osanna: immagini della santità femminile nell’arte dal XV al XIX secolo in Osanna Andreasi da Mantova 1449-1505: l’immagine di una mistica del Rinascimento, cat. mostra Mantova 2005, a cura di R. Casarin, Mantova 2005, pp. 31-55, a p. 32.

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E. Ann Matter, Il matrimonio mistico, in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a

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Entrambi i dipinti sono a loro modo portatori di un messaggio di sottomissione e Redenzione ma al contempo di liberazione ed emancipazione, quindi di fine e rinascita. “La storia di Maria era edificante ma dava anche il brivido della sovversione. Con il suo scivolone in gioventù ella aveva peccato. Aveva scelto la professione più infame ma quel che è peggio vi si era trovata bene. Con la sua trionfale chioma rossa di henné Maria era la più allegra delle puttane. E dio l’aveva vista così e l’aveva amata e le aveva mandato i segni della salvezza. Maria forgiata dalla meditazione e dalle privazioni era poi rinata purificata. Maria aveva conservato tutta l’indipendenza della prostituta sopportando la solitudine e l’ambiente aspro del deserto senza neanche il conforto della Bibbia. Non aveva bisogno di niente le sue forze erano interiori e la sua devozione a Dio bastavano e avanzavano. Maria la più povera tra i poveri aveva l’anima più ricca in assoluto”14. Santa Caterina invece era una donna che era riuscita a convertire i sapienti inviati dall’imperatore Massenzio a dissuaderla del suo proposito di perseveranza nella fede cristiana. La figura di Caterina impersonò per il Cristianesimo la vittoria della Teologia sulle Scienze: per questo motivo sin dal XIII secolo ella era stata riconosciuta patrona dei dottori dell’Università di Parigi. Caterina era una donna della stirpe reale che aveva rifiutato il matrimonio per votarsi a Cristo, il quale sanzionava la sua promessa consegnandole un anello, proprio come uno sposo in carne ed ossa. La principessa assurse a modello dell’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa e a tipo della verginità consacrata15.

cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Bari 1994, pp. 43- 60, a pp. 54-58. E. Abbot, Storia della castità. Dalle vestali a Elisabetta I, da Leonardo da Vinci a “Magic” Johnson, Milano 2008, pp. 77-78.

14

G. Zarri, Dalla profezia alla disciplina (1450-1650), in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia, G. Zarri, Bari 1994, pp. 177-225, a pp. 177-178.

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V. La vita, la morte

1. Dall’escatologia universale all’escatologia individuale La Redenzione ad opera del Cristo aveva spostato la tensione escatologica da una dimensione universale ad una più intimistica ed individuale, la cui amministrazione era demandata alla Chiesa e ai suoi sacramenti. La morte, vissuta sino a quel momento come parte dell’ordine naturale delle cose e quindi come qualcosa di familiare, con la Controriforma si caricò di angoscia e terrore1 e cominciò ad essere percepita come una rottura2. Nell’Occidente cristiano, la morte personale, propria e dei propri cari, “era sentita sempre vicina, in crudele ascolto tremendamente probabile ad ogni istante”, a differenza dell’Apocalisse ormai rimandata nel futuro3. 2. Le tre età dell’uomo Nella nostra concezione lineare del tempo, l’essere umano occidentale sente la necessità di immaginare e concepire la propria vita come una sorta di racconto che da un inizio proceda verso una conclusione. Ogni uomo infatti- che non abbia la fortuna o sfortuna di assistere alla fine del mondo- nasce, vive e muore nel mezzo delle cose, non conosce mai la fine ultima di tutto. Il Kermode sostiene quindi che per l’uomo è essenziale avere un limite che renda il tempo finito e comprensibile, “puntualizzato dai

F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, p. 41.

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P. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano 1998, p. 52.

2

A. Placanica, Storia dell’inquietudine. Metafore del destino dall’Odissea alla Guerra del Golfo, Roma 1993, pp. XIII-XIV.

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significati che derivano dalla fine”4. Per fare questo la mente umana si crea dei modelli del mondo, che consentano di abbracciare passato e futuro in un sistema di corrispondenze armoniche che rendano tollerabile, e spiegabile aggiungiamo noi, la nostra esistenza. Particolare importanza assume quindi la struttura del tempo e il suo scandirsi attraverso il cambiamento5. L’esigenza di vedere suddivisa la vita attraverso delle fasi caratterizzate da un principio ed una fine non è altro che un artifizio che ci aiuta a visualizzarla e ad attribuire un senso al nostro passaggio sulla Terra. Attraverso l’umano bisogno di figurare la propria esistenza in tappe vorremmo leggere questo dipinto di Renato Guttuso che rappresenta le Tre età dell’Uomo (fig. 11) 6. Il tema risale al mondo antico e ha riscontri non solo nell’arte ma anche in poesia e in letteratura. Il soggetto era per lo più impiegato con un intento moraleggiante che inducesse alla riflessione sul significato dell’esistenza, sulle differenti caratteristiche di ogni età della vita e sul mistero del tempo che continuamente scorre7. Guttuso interpreta, come molti altri artisti, questa allegoria in maniera autobiografica e raffigura la sua infanzia nel ragazzino in alto a sinistra, la sua giovinezza nell’uomo in piedi davanti ad una donna nuda e la sua vecchiaia nel vegliardo al centro della tela. Le scene si articolano in un ambiente marittimo dai colori molto tenui e freddi, che tuttavia non contraddice il senso mediterraneo dell’ambientazione, che ricorda l’isola di Capri. La figura centrale attorno a cui le altre sembrano disporsi a corolla è il vecchio. Per esso Guttuso trasse ispirazione direttamente dall’incompiuto dipinto del san Girolamo di Leonardo da Vinci oggi conservato presso i Musei Vaticani di Roma. Il santo, smagrito dai digiuni protratti durante l’eremitaggio nel deserto, stringe tra le mani la pietra con cui battersi il petto in segno di penitenza e volge lo sguardo sul leone (attributo tipico del santo) di cui si intravede solo la forma. L’animale è un collage di cartine, un’ombra senza profondità. Altrettanto evanescente è la donna distesa tratteggiata a matita.

F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, p. 184.

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F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, p. 184.

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Renato Guttuso (Bagheria, 1911-Roma, 1987), S. Gerolamo o Le tre età, tecnica mista su carta rintelata, cm 258x152 (1978); Bibliografia: Guttuso. Opere dal 1931 al 1981, catalogo della mostra Venezia, 4 aprile-20 giugno 1982, a cura di C. Brandi, M. Calvesi, V. Rubiu, Firenze 1982, p. 207; C. Brandi, Guttuso: con antologia critica a cura di V. Rubiu, Milano 1983, p. 209; Guttuso grandi opere, catalogo della mostra Milano, Pal. Reale 12 dicembre 1984-24 febbraio 1985, a cura di V. Rubiu, Milano 1984, pp. 130131, 211.

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E. De Pasquale, Morte e Resurrezione, Milano 2007, p. 96.

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fig. 11 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 – Roma, 1987), S. Gerolamo o Le tre età , tecnica mista su carta rintelata, cm 258x152 (1978).


La consunzione della vecchiaia e l’approssimarsi della morte sono la chiave di lettura che permette all’artista di rivivere a ritroso la sua storia. Non la saggezza ma la malinconia caratterizza questo momento. La donna sul giaciglio, adesso è solo l’ombra dell’avvenente e formosa fanciulla che amoreggiava con l’artista sulla spiaggia, le cui fattezze Cesare Brandi suggerisce di mettere in relazione con quelle di un arcangelo. Confinato in una lontana prospettiva spaziale e temporale si vede poi la spensieratezza dell’infanzia incarnata dal fanciullo (Mercurio?) 8. Il bambino è nudo e a contatto con la natura, dove la sua parte più istintuale può esprimersi perché ancora priva dell’inibizione dell’esperienza. Questo dipinto realizzato nel 1978 è il primo di una triade a cui l’artista diede il nome di Allegorie. Ne facevano parte Il Sonno della ragione produce mostri (1979) e I viaggi (1979). I tre dipinti furono concepiti come rappresentazioni della melanconia, mentre l’unità formale era garantita in tutti e tre dall’inserimento di figure tratte da dipinti del Rinascimento9. 3. Vanitas La parola vanità deriva dal latino vanus che significa vuoto, caduco. Nelle arti visive questo nome venne attribuito a delle particolari composizioni nate all’interno del genere della Natura Morta, e il cui intento era prettamente moraleggiante. Questi temi trovarono con l’età barocca la loro massima diffusione, soprattutto nei paesi di riforma protestante, a causa dell’avversione che calvinisti e luterani mostrarono per le opere d’arte a carattere religioso. I grandi motivi etici e religiosi vennero dunque trasposti su opere di carattere profano come le scene di genere o le nature morte. Attraverso la rappresentazione di oggetti simbolici come ad esempio clessidre e orologi si voleva far riferimento alla fugacità del tempo, una candela che si consuma o una farfalla in volo ricordavano la brevità dell’esistenza, un teschio in penombra l’ineluttabilità della morte10.

Guttuso. Opere dal 1931 al 1981, catalogo della mostra Venezia, 4 aprile-20 giugno 1982, a cura di C. Brandi, M. Calvesi, V. Rubiu, Firenze 1982, pp. 207-208.

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Guttuso. Opere dal 1931 al 1981, catalogo della mostra Venezia 4 aprile-20 giugno 1982, a cura di C. Brandi, M. Calvesi, V. Rubiu, Firenze 1982, pp. 207-208; C. Brandi, Guttuso: con antologia critica a cura di V. Rubiu, Milano 1983, p. 209; Guttuso grandi opere, catalogo della mostra Milano, Pal. Reale 12 dicembre 1984-24 febbraio 1985, a cura di V. Rubiu, Milano 1984, pp. 130-131, 211, con bibliografia precedente;

9

E. De Pasquale, Morte e Resurrezione, Milano 2007, p. 99.

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Il teschio non simboleggiava più come nel Medioevo un pensiero macabro, doloroso e minaccioso, ma ricordava la necessità di una vita cristiana davanti all’inconsistenza dell’esistenza. Il pensiero della morte a cui il cranio fa diretto riferimento doveva condurre all’umiltà, invitare al distacco dai beni terreni e a liberare l’uomo dall’orgoglio, fonte di peccato. La vanitas era contemporaneamente un ammonimento ma anche il segno della speranza della Resurrezione11. La Vanitas così addomesticata e resa familiare comincia a permeare diversi campi semantici. Essa non viene percepita solo in un sistema cristiano come segno di salvezza o dannazione, ma poteva portare altresì alla constatazione “di un niente” verso il quale l’uomo era incessantemente sospinto. Riflessioni oggettive sulle cose e sulla condizione umana erano sollecitate anche dal progredire degli studi sulla natura e sull’uomo12. In questo contesto variegato va dunque collocata anche questa Vanitas su tavola realizzata da autore anonimo nel primo trentennio del XVII secolo (fig. 12)13. L’opera è così descritta da Alain Tapiè “l’effige di un incredibile potere visuale per la semplice partizione tra l’ombra e le luci, mette in evidenza la fluidità e la sobrietà concettuale e l’espressività gestuale caratteristica del nord Europa. Questo assoluto capolavoro rivela che l’audacia di una tale immagine non è riservata all’ambiente della devozione più severa, perorata dai Gesuiti intorno al 1640. La sua potente portata meditativa va ricondotta piuttosto al grande movimento di rinnovamento spirituale che toccò il pensiero cattolico dopo il Concilio di Trento”14.

Les vanites dans la peinture au XVIIe siècles. Méditations sur la richesse, le dènuement et la rédemption, sous la direction d’A. Tapié, Ville de Caen, Musée des BeauxArts, 27 juillet-15 octobre 1990, Paris 1990, pp. 212; E. Z. Merlo, La morte e il disinganno. Itinerario icnografico e letterario nella Spagna cristiana, in Humana fragilitas. I temi della morte in Europa tra Duecento e Settecento, a cura di A. Tenenti, Clusone (BG) 2000, pp. 219-250, a p. 241.

11

P. Scaramella, L’Italia dei Trionfi e dei Contrasti, in Humana fragilitas. I temi della morte in Europa tra Duecento e Settecento, a cura di A. Tenenti, Clusone (BG) 2000, pp. 2588, a pp. 75-76.

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Anonimo del XVII secolo, Vanitas, olio su tavola, cm 34,1 x 26,2; Per la paternità del dipinto sono stati fatti gli importanti nomi d’Antonio de Pereda (c. Valladolid, 1611 – Madrid, 1678) specialista in questo genere pittorico, o allora un pittore di ambito tedesco degli inizi del XVII secolo influenzato da George Flegel (cfr. Scheda inedita Vanité Anonyme du XVIIe siècle, huile sur bois, cm 34,1 x L. 26,2 a cura della gallerie Mendes, Paris) bibliografia: Tapié, Alain, Vanité: Mort que me veux-tu ?, catalogo della mostra, Fondation Pierre Bergé Yves Saint-Laurent, 23 giugno–19 Settembre 2010, Paris, 2010, p. 30, ill. p. 8.

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Tapié, Alain, Vanité: Mort que me veux-tu ?, catalogo della mostra, Fondation Pierre Bergé Yves Saint-Laurent, 23 giugno–19 Settembre 2010, Paris, 2010, p. 30, ill. p. 8.

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fig. 12 Anonimo del XVII secolo, Vanitas, olio su tavola, cm 34,1 x 26,2.

Il carattere internazionale che questo tipo di soggetti assunsero nel XVII secolo spiega l’anonimato dell’artista. Essa appartiene certamente alla famiglia delle “vanità austere” degli anni 1620-1630, realizzate 68


su uno sfondo vuoto con inquadratura frontale e quasi a monocromo. Alcune analisi fisico chimiche condotte sull’opera hanno rivelato che il pittore ha utilizzato pochissima materia pittorica, diluita in una soluzione bruna e dorata applicata senza preparazione e in maniera uniforme su tutta la tavola15. Il risultato è un delicato gioco di trasparenze animato da contrasti luminosi e tocchi dorati sapientemente posizionati sulle zone sporgenti del cranio16. Vale la pena accennare alla fortuna che questo genere pittorico ha incontrato nei secoli successivi. A fronte di una perdita d’importanza nel Settecento, quando venne meno gran parte del suo afflato macabro, nell’Ottocento esso conobbe una fiacca ripresa. È a partire dal Novecento che il teschio riacquista popolarità. Con il nuovo millennio poi l’effigie recupera un posto di primo piano nelle arti visive. Un vertiginoso incremento quantitativo e qualitativo a cui però non corrisponde però una rinnovata vitalità. Sembra che l’arte vi si sia talmente assuefatta da esserne anestetizzata a da aver fatto perdere al simbolo tutta la sua carica di paura e riflessione morale17. È interessante registrare poi come effettivamente l’atteggiamento verso il teschio sia notevolmente mutato anche nel quotidiano. Recente, e probabilmente passeggera, è la tendenza che vede riprodurre teschi colorati o di brillantini su capi di abbigliamento, accessori o oggetti d’uso quotidiano. Anche il mondo delle “app” per smartphone non è rimasto esente dal fenomeno, riproponendo per iPhone dei veri e propri memento mori per l’era digitale come in “Vanitas” (Tale of Tales, disponibile sull’ App Store)18. 4. La Morte e il Tempo Sebbene anche il Medioevo e il Rinascimento avessero visto il fiorire di immagini macabre, è tra Seicento e Settecento che questo confronto cosciente e insistito dell’individuo con la propria morte inaugura

Locatelli C., Pousset D., Étude xylologique et dendrochronologique d’un panneau peint représentant la Vanité, Galerie Mendes – Paris (75), Mai 2010, Laboratoire d’expertise du Bois et de la Datation par Dendrochronologie (LEB2d) – CIPRES, Besançon, 2010-06, 10p.

15

Scheda inedita Vanité Anonyme du XVIIe siècle, huile sur bois, cm 34,1 x L. 26,2 a cura della gallerie Mendes, Paris

16

A. Zanchetta, Frenologia della vanitas. Il teschio nelle arti visive, Truccazzano (Mi) 2011.

17

http://www.youtube.com/watch?v=QpQ8V29hWSo; Si ringrazia per la segnalazione il dott. Carlo Maiolini del Museo MUSE di Trento.

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forme di rappresentazione in gran parte originali e specifiche che diedero luogo ad un vero e proprio genere pittorico dalla straordinaria fortuna, di cui ancora oggi sentiamo il fascino. Il dipinto di anonimo genovese della metà del XVII secolo presenta una qualità altissima a fronte di un’incertezza attributiva e iconografica entrambe ancora al vaglio degli studi (fig.13)19. Gli innumerevoli attributi che accompagnano le due figure rendono particolarmente ricca e complessa la loro identificazione. Tuttavia si cercherà, in questa sede, di darne conto fornendone una chiave di lettura più esaustiva possibile. Su un paesaggio di rovine, forse di mano di un secondo autore (uno straniero in Italia?), si affrontano due personaggi: sulla sinistra un putto con una fiaccola rovesciata e sulla destra un vecchio canuto vestito solo di un perizoma. Quest’ultimo è seduto su una colonna spezzata con le gambe incrociate, mostrando un piede deforme, mentre stringe nella mano destra una clessidra. Al suolo giacciono un teschio e una falce. L’iconografia del putto sulla sinistra deriva dall’antichità e sembra rappresentare un genio funerario, nell’atto di rovesciare la fiaccola simbolo della vita che si spegne. Questa figura era spesso rappresentata sui sarcofagi antichi ed ha una lunga tradizione che la vede sopravvivere nel Medioevo, dove si trova per esempio sulla facciata del Duomo di Modena, fino all’Ottocento, quando Canova la utilizza più volte nei suoi monumenti funerari (si veda ad esempio la tomba di Clemente XIII in San Pietro a Roma). L’identificazione del vegliardo si presenta invece più complessa. L’aspetto e la clessidra stretta tra le mani l’apparentano alla figura del Tempo di cui l’attributo scandisce lo scorrere. Questa allegoria ha una lunga tradizione iconografica che ha visto fondere, a partire dal Rinascimento, gli attributi del Tempo, chiamato dai greci Chronos con quelli del dio romano Saturno nominato Kronos. Alla base di questa fusione dovette risiedere certamente l’assonanza tra i loro nomi, alla quale si andava a sommare una certa somiglianza formale nelle loro rappresentazioni. Entrambi infatti avevano l’aspetto di un vecchio barbuto, creatore di tutte le cose e provvisto di ali il primo, associato alla vecchiaia e alla morte e dotato di falcetto, ad indicarne il ruolo di Patrono dell’agricoltura, l’altro. Quando si arrivò a identificare le divinità del Pantheon greco-romano con i Pianeti, la coincidenza tra il Tempo e Saturno divenne ancora

Anonimo di ambito genovese XVII secolo, Il Tempo, olio su tela, cm 157x130; inedito. Si ringrazia il Prof. Nicholas Turner per aver dato un suo preliminare parere sul dipinto.

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fig. 13 Anonimo ambito genovese XVII secolo, Il Tempo, olio su tela, cm 157x130.

più stringente20. La nuova figura nata da questo sincretismo e chiamata da Panowsky Padre Tempo poteva agire sia come “Distruttore” (il tempo che passa modifica e distrugge ciò che incontra) che come

Cfr. R. Klibansky, E. Panowsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, Torino 2002, in particolare pp. 131-148.

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“Rivelatore” (ad esempio il tempo fa emergere sempre la Verità). Gli attributi delle due figure si mescolarono o mutarono di significato. Ad esempio la falce, che ritroviamo anche nel nostro dipinto, caratterizzava sia Saturno decano dell’agricoltura, sia il Tempo per il quale simboleggia, come ricorda Servio, tempora quae sicut falx in se recurrunt21. Tuttavia questo attributo sin da tempi antichi era tipico anche della Morte, a cui Saturno era spesso assimilato. Tant’è vero che ancora oggi facilmente associamo la falce alla Morte. Brandendo la falce il Tempo entrò sempre più in relazione dunque con la figura della Morte. Fu proprio da questa stretta corrispondenza che a partire dal XV secolo la “Nera Signora” cominciò invece a prendere in prestito dal Tempo l’attributo della clessidra, anch’esso presente nel nostro dipinto, arrivando quasi a rimpiazzarne il significato di mero strumento di misura con quello invece di un segno funesto. Le rovine che fanno da scenografia alla composizione rievocano poi l’intima corrispondenza che c’è tra di esse e la nostra fugace esistenza, inserendosi in una tradizione ormai conclamata nella storia dell’arte22. In particolare il frammento della colonna su cui il vecchio è seduto fa riferimento alla vita spezzata dalla morte, ed è spesso impiegata come simbolo funerario sulle tombe. Lo stesso può dirsi del teschio abbandonato al suolo. Il cranio utilizzato come strumento di riflessione sulla vanità e brevità della vita doveva ricordare immediatamente la morte. Tutti gli attributi della figura del vecchio sembrano apparentarlo sia con il Tempo, di cui però non possiede le ali, sia con la Morte, di cui non possiede però l’aspetto. La descrizione che di quest’ultima fa il Ripa nel suo trattato di Iconologia è infatti quello di una donna pallida con occhi serrati vestita di nero[…] 23. L’ispirazione per le fattezze di questo vegliardo va dunque forse cercata in altre fonti scritte. Nei sarcofagi antichi spesso si trova l’iconografia di due geni funerari, talvolta alati, scolpiti con le gambe incrociate affrontati tra loro e nell’atto di spegnere la fiaccola. Lessing fu il primo a proporne l’identificazione nei due gemelli figli

I tempi che come la falce si rincorrono.

21

cfr. Ruinen des Denkens, Denken in Ruinen, a cura di N. Bolz, W. van Reijen, Frankfurt 1996.

22

Cesare Ripa, Iconologia, Roma 1593, ad vocem.

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della Notte Hypnos (il Sonno) e Thanatos (la Morte)24. In Esiodo25 si legge che Hypnos “si aggira sulla terra e sull’ampio dorso del mare tranquillo e dolce per gli uomini, l’altro invece ha un cuore di ferro, un animo di bronzo, spietato nel petto; e tiene sempre l’uomo che un giorno ha preso, ed è odioso persino agli dèi immortali”. La differente indole trova talvolta riflessi anche nella loro differente conformazione fisica. Nel testo di Euclide da Megara26, si dice per esempio che Hypnos “è più giovane e adolescente”, mentre Thanatos è “più grigio e vecchio”27. Particolarmente interessante è inoltre il passo in cui Pausania28 descrive la decorazione dell’arca Cipselo del tempio di Era ad Olimpia. Sopra il suddetto oggetto era scolpita una donna che sosteneva con la destra un bimbo bianco addormentato, mentre con la sinistra un bimbo nero ed entrambi avevano i piedi storti29. Sempre il Lessing ricorda poi come nel Rondel si specificasse che presso gli antichi i piedi storti del Sonno erano soliti alludere all’incertezza e fallacia dei sogni. Tuttavia il Lessing confuta l’ipotesi sostenendo che non tutte le visioni oniriche sono prive di valore per gli antichi e che inoltre la morte si caratterizzi per l’assenza di sogni. L’idea quindi di fanciulli dai piedi storti o deformi viene a perdere di senso. Lessing propone piuttosto di tradurre il passo “con i piedi incrociati”, dato che quella è la posizione che normalmente sui monumenti antichi assume il dormiente ed è la posa della persona che riposa30. Alla luce di quanto letto potrebbe dunque spiegarsi il dettaglio atipico del piede deforme del vecchio, che l’anonimo pittore potrebbe aver desunto da una traduzione sbagliata delle fonti antiche. Questo ulte-

Sulla somiglianza e corrispondenza tra sonno e morte presentate come due divinità si trovano diversi riferimenti anche in Omero cfr. M. Zanatta, Immagini della morte in Omero, in Homo moriens, a cura di M. Zanatta, Cosena 2006, pp. 13-114.

24

Esidodo, Theog. 762-766 citato in M. Zanatta, Immagini della morte in Omero, in Homo moriens, a cura di M. Zanatta, Cosena 2006, pp. 13-114.

25

riportato da Stobeo, Anth., VI, 65 citato in M. Zanatta, Immagini della morte in Omero, in Homo moriens, a cura di M. Zanatta, Cosena 2006, pp. 13-114, nota 89, p. 93

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citato in M. Zanatta, Immagini della morte in Omero, in Homo moriens, a cura di M. Zanatta, Cosena 2006, pp. 13-114, nota 89, p. 93.

27

Pausania V, 18,1. Pausania scrisse una guida della Grecia la cui editio princeps risaliva al 1516 (J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica: Manuale delle fonti di storia dell’arte moderna, Citta di Castello 1998, p. 12).

28

Il traduttore latino riporta “distortis utrimque pedibus” e quello francese “les pieds contrefaits” (G. E. Lessing, Come gli antichi raffiguravano la morte, 1789, ristampa Palermo 1983, p. 37).

29

G. E. Lessing, Come gli antichi raffiguravano la morte, 1789, ristampa Palermo 1983, pp. 34-38.

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riore dettaglio fa propendere per una lettura del vecchio come una raffigurazione della Morte, sebbene l’ambiguità degli attributi non renda l’identificazione univoca. Resta da stabilire se effettivamente il putto possa interpretarsi come il Sonno raffigurato in coerenza con il dettato delle fonti e quindi come il “gemello diverso” della Morte o come un suo semplice alter ego iconografico. 5. Suicidio Per il Cristianesimo e per i teologi il suicidio aveva sempre costituito una fonte di imbarazzo, la cui esistenza fu il più possibile ignorata. L'atto di togliersi la vita era infatti considerato come un affronto alla volontà di Dio, padrone della vita e della morte. Tuttavia il suicidio di Giuda ricordato nel Nuovo Testamento necessitava di un’interpretazione e una giustificazione e venne quindi considerato preludio necessario alla morte del Cristo secondo la volontà del Signore. Nell’Europa moderna l’opinione sul suicidio era palesemente divisa su due posizioni. Da un lato una concezione di ascendenza stoica che coglieva l’eroismo nell’atto volontario di togliersi la vita, dall’altro l’idea che esso fosse qualcosa di peccaminoso e illegale. A queste due correnti di pensiero si andavano poi ad affiancare altre opinioni, che vedevano nell’atto di togliersi la vita il sintomo di una malattia, oppure, in ambiente protestante, l’opera del demonio. Questo tema ampiamente dibattuto nell’ambito umanistico e teologico trovò diffusione anche nelle arti visive, soprattutto in Italia, in Francia e in Germania. Per quanto concerne la rappresentazione, dei leggendari ed eroici suicidi di donne come Lucrezia, Sofonisba, Didone o Cleopatra si profilò una sorta di “secolarizzazione”. In particolare queste iconografie, già molto frequentate a dire il vero a partire dal Cinquecento, trovarono un’ulteriore diffusione dalla metà del Seicento. La ragione era dovuta secondo Brown31 alla risoluzione del medievale dibattito attorno alla rappresentazione del corpo della donna. La carica di lussuria e vizio che portava con sé la vista di un corpo femminile, mal si coniugava con l’idea di un eroismo virtuoso di cui queste donne si facevano portatrici. Nel processo di ridefinizione del suicidio, la lussuria giocava ora un altro ruolo. Gli artisti uomini subivano la fascinazione della morte di una bella donna e attraverso le loro opere

R. M. Brown, The Art of Suicide, London 2001, p. 95.

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suggerivano l’idea che il suicidio fosse una debolezza in stretto rapporto con la femminilità. Soggetti presi dalla storia antica permettevano quindi di dipingere una donna discinta perché apparentemente il messaggio di lussuria trasmesso dal corpo nudo era sostituito dal significato simbolico che legava il suicidio alla femminilità. La convenzione è chiaramente evidente nelle immagini della morte di Cleopatra che ritrae quest’ultima a seno scoperto con in mano l’aspide velenoso che l’ha morsa. Il valore simbolico come una forza distruttrice e la natura fallica del serpente indicano la natura equivoca del suicidio. Quali furono infatti le ragioni di questa morte? Il guadagno? La paura di essere ricondotta a Roma? Il risultato di avidità e vanità? Una questione di potere? L’idea che si andava profilando con l’arte del XVII secolo era che uccidendosi la donna acquisisse potere e vantaggi non posseduti dalle sue pari ancora viventi. Uccidendo il corpo segno tangibile delle proprie esperienze e dei propri dolori la donna perpetrava in realtà la propria individualità. Irrazionale o no questa fantasia sottintendeva un desiderio di controllare non solo il futuro, la morte e la vita ma anche di preservare la propria reputazione32. In questo dipinto di Alberto Carlieri, pittore romano di architetture, la scena della morte di Cleopatra si svolge in primo piano all’interno di un palazzo grandioso (fig. 14) 33. Nonostante la sua specializzazione in scenografie Carlieri riesce a fondere perfettamente la scena drammatica con l’impianto architettonico di sfondo. La felice riuscita di queste composizioni fu alla base infatti di un numero considerevole di opere in cui le scene storiche si svolgevano all’interno di architetture maestose. Il tocco del pennello è quasi da miniaturista, ogni personaggio è perfettamente caratterizzato nell’ostentazione del dolore del recente lutto. L’identità del pittore di figura resta tuttavia ancora al vaglio degli studi. Potrebbe infatti essersi trattato di una collaborazione con un altro artista. Le dimensioni ridotte dei personaggi aumentano la monumentalità e imponenza del palazzo teatro della scena. La parete centrale è interamente ornata di fregi antichizzanti in un gioco virtuoso che sembra

R. M. Brown, The Art of Suicide, London 2001, pp. 88-97; cfr. S. Stack, D. Lester, Suicide and the Creative Arts, New York 2009; R. Andres, Historia del suicidio en Occidente, Barcellona 2003.

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Alberto Carlieri (Roma, 1672 – 1720), La morte di Cleopatra, olio su tela, cm 96x134; la proposta attributiva si deve al prof. Sestieri, che pubblicherà l’opera nella monografia dell’artista in corso di stampa; per il pittore si veda: D. R. Marshall, The architectural piece in 1700: the paintings of Alberto Carlieri (1672-c. 1720) pupilo f Andrea Pozzo, in “Artibus et historiae, n. 25 (2004), pp. 39-126; H. Voss, The painter of architecture: Alberto Carlieri, in “Burlington magazine”, n. 101 (1959), pp. 443-444.

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fig. 14 Alberto Carlieri (Roma, 1672 – 1720), La morte di Cleopatra, olio su tela, cm 96x134.



suggerire la presenza di un dipinto a grisaille dentro al dipinto principale. Lateralmente si aprono invece due alti loggiati ritmati da statue e colonne colossali realizzati attraverso una sapiente ricerca luministica che conduce l’occhio verso profondità insperate. La prospettiva si apre su altre parti dell’articolato edificio: ancora portici, terrazze e sculture stagliate su un cielo terso dall’azzurro intenso. Un lontano orizzonte mostra un paesaggio pallido con il profilo di una città. La giornata funesta che vede la morte della più celebre regina dell’antichità è una giornata serena aperta sul futuro.


VI. L’uomo causa della sua fine: distruttore / costruttore / distruttore? 1. La guerra La catastrofe non è solo naturale o divina, fanno parte delle pene della vita soprattutto le guerre e le ricostruzioni che ad essa si susseguono ed accompagnano. Il conflitto è insito nella natura umana e da essa è imprescindibile. Kant scriveva che esso permette di mantenere attiva, reattiva e in movimento la vita, anche se include momenti di opposizione e negatività. Il conflitto infatti è legittimo quando tutte le parti in causa hanno la possibilità di far valere liberamente le loro pretese, le loro ragioni e le loro critiche reciproche di fronte all’istanza di un giudizio superiore. Il conflitto illegittimo è quello invece che si verifica quando non viene rispettato il diritto e la libertà altrui: la guerra appunto. La guerra dunque è moralmente inaccettabile ed è un fenomeno di per sé negativo che è un dovere superare1. James Hillman ribalta la prospettiva e analizza invece il fascino che la guerra suscita nell’umanità. La guerra secondo l’autore sarebbe una pulsione primaria e ambivalente della nostra specie dotata di carica libidica non inferiore a quella delle di altre pulsioni, che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Lo psicologo parte dal presupposto che se di questa pulsione non si ha un’idea lucida, che sia disposta anche ad accettare la consapevolezza dell’attrazione che si prova verso di essa, difficilmente riusciremo a liberarcene. La guerra dunque più che un’incarnazione del Male è una costante della dimensione umana, lo dimostrano le similarità tra gli

G. Cunico, Introduzione. Pace, guerra e conflitto in Kant, in I. Kant, Guerra e Pace: politica, religiosa, filosofica. Scritti editi e inediti (1775-1798) a cura di G. Cunico, Reggio Emilia 2004, pp. 9-32, a pp. 10-14.

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odierni report di guerra e le descrizioni omeriche. Dice Hilmann “la guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipa del cosmo. È un’opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessuno altro amore è riuscito a vincere”. In questa prospettiva tutte le guerre del passato e del presente appariranno semplici variazioni della guerra più emblematica dell’Occidente classico, quella cantata nell’Iliade2. E proprio di quella guerra narra il disegno di Luigi Ademollo databile agli ultimi anni del Settecento (fig. 15) 3. Il disegno fa parte di un nucleo compatto benché incompleto che raffigura le Metamorfosi di Ovidio. La scena tratta dal capitolo XII della leggenda di Troia raffigura uno dei momenti finali del conflitto che vide affrontarsi Greci e Troiani per oltre dieci anni. Le mura della città inespugnabile erano state vinte con lo stratagemma del cavallo e gli Achei si erano riversati per le vie di Troia seminando morte e dolore. Il foglio di Ademollo è saturo di figure i cui movimenti contrapposti creano quasi un intreccio senza soluzione di continuità. La tecnica è pittorica: la penna disegna i contorni e i dettagli mentre l’inchiostro acquerellato e la biacca conferiscono profondità e ombre in un monocromo che ricorda i bassorilievi dell’antichità. La svolta neoclassica del pittore a queste date non si è ancora compiuta e l’interesse per i canoni estetici della classicità sono mediati ancora da una ricerca “espressionista”4 percepibile in tutta la serie di disegni a cui questo esemplare appartiene. Più volte nella sua carriera infatti l’artista si cimenterà con i temi mitologici tratti dalle Metamorfosi, ma raramente riuscirà a toccare una così alta qualità e sintesi tra classicismo e vivacità narrativa. Se la guerra è una costante della dimensione umana, ad essa normalmente fa sempre seguito una ricostruzione. Fenomeno questo che al

J. Hilmann, Un terribile amore per la guerra, Milano 2005.

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Luigi Ademollo (Milano, 1764-Firenze, 1849), La guerra di Troia, penna, acquerello e biacca su carta, mm 140x220; inedito. Bibliografia essenziale sull’artista: F. Leone, Napoleone a Pitti nei disegni di Luigi Ademollo, Roma 2010; F. Leone, Aspetti dell’arte neoclassica a Roma, Roma 2009; Luigi Ademollo (1464-1849): l’enfasi narrativa di un pittore neoclassico: olii, disegni e tempere, a cura di F. Leone, catalogo Galleria Carlo Virgilio, Roma 2008; Le metamorfosi di Ovidio illustrate da Luigi Ademollo, catalogo della mostra Roma, Galleria Paolo Antonacci, dicembre 2006, Roma 2006; A. Desideri, Luigi Ademollo e il sacro, in “Artista” (2004), 6-37.

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Ademollo trascurò i canoni fondamentali del pensiero neoclassico quali quello della bellezza ideale e dell’olimpica staticità winckelmanniane e finì per aderire ad una poetica dell’antigrazioso, del rustico del dionisiaco (S. Pratelli, Storie di eroi: Omero e Plutarco come fonti per le incisioni di Luigi Ademollo, in Biografia dipinta e ritratto dal Barocco al Neoclassico, atti del convegno Siena 26-27 ottobre 2007, Montegriggioni 2008, pp. 207-221, pp. 207-209).

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fig. 15 Luigi Ademollo (Milano, 1764-Firenze, 1849), La guerra di Troia, penna, acquerello e biacca su carta, mm 140x220.

giorno d’oggi assume aspetti inquietanti e ambivalenti. Basti pensare a come l’Occidente molto spesso celi dietro la guerra contro Paesi più poveri interessi legati piuttosto alla forte spinta economica che deriva dalla ricostruzione. 2. La costruzione La ricostruzione o la costruzione sanciscono molto spesso un momento di passaggio, sono il segno tangibile dell’opera dell’uomo che esprime attraverso l’impulso e la forza costruttrice una volontà, un pensiero, un nuovo indirizzo. E’ questo il caso della fondazione del Colosseo di Roma, soggetto raramente presente nelle arti visive, a cui Pietro Lucatelli dedica invece questo magnifico foglio fuori formato (fig. 16)5.

Pietro Lucatelli (Roma, 1634 – 1710 circa), La costruzione del Colosseo, matita, biacca e acquerello su carta, mm 454x615, inedito. Bibliografia essenziale: C. Lucatelli, Pietro Lucatelli (1637 – 1710), pittore romano ancora da scoprire in “Lazio ieri e oggi”, n. 46, (2010), 547, pp. 171-173; C. Lucatelli, Pietro

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fig. 16 Pietro Lucatelli (Roma, 1634 – 1710 circa), La costruzione del Colosseo, matita, acquerello, biacca su carta, mm 454x615.

La costruzione del grande anfiteatro avvenuta attorno all’80 d.C. segnava in qualche modo la fine del regno di Nerone e della sua tirannia. Il luogo prescelto per l’erezione di questo importante spazio pubblico era stato infatti il giardino della residenza privata dell’imperatore, la Domus Aurea, dominata da una sua statua colossale, da cui il Colosseo avrebbe tratto il nome. Nell’inedito disegno di Lucatelli la composizione scenica si caratterizza per una certa dinamicità: a destra gli operai si affaccendano sulla struttura in costruzione mentre a sinistra in primo piano altri avanzano sotto le direttive dell’architetto. Il foglio s’inscrive negli interessi che il Lucatelli nutriva per l’antichità e di cui ampia testimonianza se

Lucatelli (1637 – 1710), pittore romano ancora da scoprire in “Lazio ieri e oggi”, n. 46, (2010), 646, pp. 146 – 148; P. Betti, Testimonianze di pittura romana a Lucca tra Sei e Settecento, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte”, n. 60 (2005), pp. 213-223; E. G. Manieri, Pietro Lucatelli, in Pietro da Cortona, cat. mostra Roma 1997-1998, a cura di A. Lo Bianco, Milano, 1997, pp. 265-270; P. Dreyer, Pietro Lucatelli in “Jahrbuch der Berliner Museen, n. 9 (1967), pp. 232-273.

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ne ha nella sua produzione. Tuttavia a differenza delle tanto familiari composizioni con rovine e personaggi, si fonde in questo disegno una certo gusto compiaciuto per una narrazione a metà strada tra la storia e la mitologia. 3. Costruzione o distruzione? L’uomo oggi è ancora capace di essere artefice positivo e armonico modulatore degli spazi sul nostro pianeta o costruisce senza ragione e senza cuore in una spinta verso il progresso che tutto omologa e distrugge? Andrea Clemente ad esempio osserva come parlare di città oggi sia quasi anacronistico. La città si è radicalmente trasformata con il passaggio della scala urbana da circoscritta a smisurata. Da tempo ormai le caratteristiche del fenomeno urbano non sono più concentrazione e continuità ma dispersione e frammentazione: il fenomeno urbano è interminabile. Questo trasforma la città a luogo di passaggio, e non di abitazione. Attraverso le sue vie si transita anche per lunghi tratti al solo scopo di raggiungere un altro luogo, magari ancora nella stessa città. Se questo fenomeno di occupazione smisurata del suolo un tempo riguardava solo l’Occidente oggi interessa invece tutti i continenti. Per un verso il mondo diventa città, grazie al sistema delle grandi imprese economico-finanziarie che invadono il mercato con uguali prodotti e servizi. L’omologazione è particolarmente tangibile e familiare quando per esempio si pensa all’invasione su scala mondiale di determinati prodotti di consumo. Identici contenitori commerciali, stessi marchi, analoghe strategie di persuasione all’acquisto, si appropriano delle città, indifferenti ai contesti geografici e alle identità culturali di origine6. Il Sassen scrive che è stato dimostrato come “alcune città fra le quali New York, Tokyo, Londra, San Paolo, Hong Kong, Toronto, Miami, Sydney si siano evolute in “spazi” di mercato transnazionali e, avendo prosperato in quanto tali, abbiano finito con l’avere più cose in comune fra loro che non con le rispettive aree regionali e nazionali, molte delle quali sono andate perdendo d’importanza”7.

A. Clemente, La città con fine, in Apocalisse. Modernità e fine del mondo, a cura di N. Novello, Napoli, 2008, pp. 271 -279, pp. 271-274.

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S. Sassen, La città nell’economia globale, trad. it. di N. Negro, Bologna, 1997, p. 8.

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fig. 17 Robert Guinan (Watertown, New York, 1934), North Avenue Light, acrilico su isorel, cm 112x169, (1980/1981).

Questo straordinario dipinto di Robert Guinan (fig. 17)8 trasmette questo sentimento di disorientamento. Il paesaggio urbano che ci offre potrebbe essere lo scorcio di una qualunque periferia del mondo, se a caratterizzarla non fosse il silos sospeso tipico degli Stati Uniti. L’artista, appartenente alla corrente del realismo, si era a lungo interessato alla rappresentazione di scenari urbani e credo che niente di

Robert Guinan (Watertown, New York, 1934), North Avenue Light, acrilico su isorel, cm 112x169, (1980/1981); bibliografia: A. De Maistre, Robert Guinan, Paris 1991, pp. 150151; bibliografia essenziale sull’artista: F. Magani, C. Malberti, La pelle nera, catalogo mostra Monza, galleria Marieschi 1997, Milano 1997; P. Bordes, Grenoble: Musée de Peinture et de Sculpture; Lyon, Musée des Beaux-Arts: tabelaux de Guinan, in “Revue du Louvre”, n. 34 (1984), pp. 53-55; A. Loeb, Robert Guinan: peintures, dessins et lithographies, Grenoble 1981.

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meglio delle parole di Jean Clair pubblicate in occasione della mostra del 1979 “City of the Night”, possano esprimere quello che era il sentimento dell’artista nel dipingere questi scenari. “Da nord a sud vi erano dappertutto gli stessi immobili di mattoni a due piani, d’ocra gialla, di ocra rossa, di ocra grigia, gli stessi tetti piatti, pali cementati, gli stessi campi incolti; niente di distintivo che potesse mostrare che fossimo a Brooklyn, Chicago o Los Angeles. Simultaneamente una medesima minaccia incombeva su di essi: precarie le costruzioni sembravano votate alla rovina imminente; le si rimpiazzava con altre, che sarebbero pertanto state identiche a quelle, come ciclo indefinito di una febbre urbana che demolisce e edifica nuovamente in maniera identica e che risponde al ciclo infernale del clima che rovina costruendo in fretta, sopra un suolo uguale e indifferente, nugoli e glaciazioni di tutte le specie”9.

Jean Rechy, Cité de la Nuit, catalogue de l’exposition à la Galerie Albert Loeb, 1979 citato in A. De Maistre, Robert Guinan, Paris 1991, p. 126.

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fig. 18 Ettore Greco, La giostra, terracotta patinata, h. cm 160 (2012), dettaglio.


VII. Crisi o Apocalisse?

Prima della Fine si configura un tempo che non appartiene ad essa ma neanche alla fase precedente. Questo breve periodo che si instaura tra il prima e il dopo si può chiamare transizione. Il primo ad identificare l’esistenza di questo periodo fu Gioacchino da Fiore nel XII secolo, interpretando lo scritto dell’Apocalisse dove si fa un riferimento preciso all’esistenza di tre anni, detti della Bestia, che precedono la fine dei tempi. La teoria fortemente osteggiata dalla Chiesa si è invece insinuata secondo il Kermode nella nostra coscienza modificando i nostri atteggiamenti nei confronti della storia. Come osserva Ruth Kestenberg-Gladstein, la “triade di Gioacchino ha reso inevitabile il fatto che il presente sia un puro e semplice stadio di transizione e lasci la gente con la sensazione di vivere in una svolta decisiva”. La transizione gioachimita sarebbe quindi l’antenato storico del moderno concetto di crisi. Quando parliamo infatti di transizione da un epoca all’altra, per esempio nella storia o nella storia dell’arte, facciamo riferimento ad un sistema in crisi che sta muovendo verso un nuovo equilibrio, un nuovo status quo o un nuovo linguaggio. Per questo motivo i momenti di crisi ricordano che si approssima una fine ma anche un nuovo inizio. L’ansietà che deriva dal fatto di vivere un’epoca di crisi è una caratteristica della nostra tradizione, se non addirittura una conformazione fisiologica. Il concetto di crisi è infatti un elemento centrale nel nostro modo di dare un senso alla realtà. Una delle caratteristiche del rapporto che c’è tra l’uomo e il futuro dice Frank Kermode “è quello di pensare che la propria vita abbia con il futuro un rapporto di eccezionalità”1. Noi pensiamo che la crisi in cui viviamo sia preminente, più tormentosa, più interessante delle altre crisi che l’umanità ha dovuto affron-

F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, p.119.

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tare in passato e per questo siamo ben disposti e aperti ad accettare ogni prova che possa dimostrarci che la nostra è un’autentica fine o un autentico inizio2. Su questo terreno forse hanno trovato tanta facilità di diffusione e interesse le profezie escatologiche dei Maya. In generale esse fondendosi con teorie New Age altro non fanno che prospettare una Fine prima di una Grande Rinascita, a cui per altro sono destinati solo coloro che hanno l’animo predisposto3. Teoria tutto sommato abbastanza familiare alla luce di quello che si è enucleato in questo breve scritto. A questa percezione di vivere in un momento di transizione a mio avviso bisogna aggiungere un’altra osservazione. Si è visto come l’uomo abbia progressivamente spostato i timori escatologici verso la naturale paura della propria morte. Oggi stiamo assistendo invece ad un’inversione di questo processo. La morte dell’individuo infatti è percepita come qualcosa di inesistente, di cui non si parla, qualcosa di alieno alla natura umana e che si configura nella vita come un inconveniente invece che come la sua naturale conclusione4. A contribuire a questo moderno sentire ha sicuramente giocato un ruolo chiave il progresso esponenziale che hanno avuto la medicina e la scienza che hanno scongiurato quasi definitivamente il timore di una morte improvvisa tanto temuta in passato. Si fanno strada invece nuove paure. Si teme piuttosto la fine fisica del nostro mondo, della nostra civiltà a causa, non di un volere divino lontano, ma piuttosto per una forza autodistruttiva dell’Uomo che si manifesta con guerre, epidemie incurabili in avanzata, calamità ambientali, l’assottigliarsi delle risorse, squilibri demografici, inquinamento ecc5.

F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Milano 1972, pp. 42, 111114, 119-120.

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La bibliografia e i siti dedicati a questi argomenti sono tantissimi e molto variegati. I loro intenti e la scientificità con cui vengono trattati gli argomenti sono altrettanto diseguali. Si segnalano alcuni testi pro e contro la fine del mondo, che in parte ci hanno aiutato a farci un’idea sulle ipotesi più diffuse: Il mistero del 2012. Cataclismi e sconvolgimenti naturali o l’alba di una nuova umanità?Predizione, profezie e possibilità: 25 esperti ci aiutano a capire, Vicenza 2008; P. Geryl, Sopravvivere al 2012: la rinascita di una nuova civiltà, Cesena 2008; Endredy, 2012: l’uomo al bivio, Trento 2009; W. Strieber, 2012: l’apocalisse, Roma 2009; S. Alten, 2012: la resurrezione, Roma 2010; R. Cascioli, A. Gaspari 2012: catastrofismo e fine dei tempi, Milano 2010; J. L. Fezia, 2012: conto alla rovescia, Torino 2010; A. Giannuli, 2012: la grande crisi: le guerre finanziarie segrete, la possibile fine di Obama e il debito Usa, l’incognita Cina, l’Europa sotto attacco, l’Italia a rischio secessione: il peggio deve arrivare?, Milano 2010; W. Strieber, 2012: l’apocalisse, Roma 2009.

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Cfr. P. Ariès, Storia della morte in Occidente, Milano 1975.

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A. Placanica, Storia dell’inquietudine. Metafore del destino dall’Odissea alla Guerra

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E c’è chi in virtù di questo cambiamento chiamato progresso parla di una fine del Mondo già in atto, che l’umanità passa sotto silenzio. Tommaso Ariemma in una provocante pubblicazione che indaga i rapporti tra il mondo dell’arte contemporanea e Facebook dice “la fine del mondo è già avvenuta […]. Con fine del mondo intendiamo una sorta di compimento di ciò che pensiamo e sappiamo del mondo. Perché il mondo è innanzitutto un’idea, una rappresentazione della mente”. La tecnologia ed in particolare il Web con l’introduzione di Facebook hanno permesso l’immediata identificazione dell’altro. L’identificazione spinta in questo modo all’ennesima potenza pone fine al mondo inteso come un luogo e uno spazio dove si concretizza “la possibilità dell’oltre, la possibilità che a qualcosa si possa aggiungere dell’altro”. Nel Web tutto è mostrato e tutto è palese e finito e sta andando verso una chiusura un’implosione. Al contrario il mondo dell’arte e in particolare quello dell’arte contemporanea si manifesta come una vera e propria apertura. “Contro le identificazioni essa pone oggetti, situazioni, incontri dove diventa evidente che c’è qualcosa di non evidente, che sfugge, che si sottrae, anche quando l’oggetto mostrato sembra comune e ben identificato. […] per andare al di là del noto e del celebrato, forse vale la pena soffermarsi ancora intorno all’arte […]. Forse il mondo dell’arte è ora l’unico mondo dopo la fine del mondo”6. Siamo noi i primi ad essere convinti che l’arte abbia ancora qualcosa da aggiungere e qualcosa da dire al mondo, siano essi racconti, immagini, suggestioni, messaggi nascosti. A parlarci ancora è tutta l’arte quella del passato, che chiede di essere ancora ascoltata, reinterpretata e vissuta nel nostro presente e l’arte contemporanea che invece già parla di futuro. Con questa idea lasciamo la parola all’arte antica e chiediamo oggi agli artisti contemporanei di farsi per noi interpreti sensibili della realtà e nuovi profeti del nostro futuro. L’opera di Ettore Greco (figg. 18-19)7 ispirata all’Apocalisse pone l’immagine della fine di tutte le cose in una prospettiva contemporanea. La scultura si configura come un’alta torre attorno alla quale gli uomini agiscono, si muovono, creano, distruggono, compongono, configurano realtà e forme, legati avvinghiati tra loro e nella materia. Il continuo ritorno delle cose è trasmesso dalla dinamica disordinata con cui i corpi sembrano lottare disperatamente. Capaci di muoversi

del Golfo, Roma 1993, pp. XIII. T. Ariemma, Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea, la filosofia, Milano 2012, pp. 9, 104-105.

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Ettore Greco, La giostra, terracotta patinata (2012), cm 160.

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fig. 19 Ettore Greco, La giostra, terracotta patinata, h. cm 160 (2012), dettaglio.


ma mai indipendenti sono come i pezzi di una giostra il cui movimento è ripetitivo, stabilito e imbrigliato. La plasticità delle membra ricorda le opere di Rodin, tuttavia il loro disfarsi e disarticolarsi ha il fremito e la vibrazione dell’inquietudine tutta contemporanea. Tuttavia il mondo non può finire, non può essere privo di rinascite e questa opera più che una prefigurazione di un futuro vuole essere una constatazione di quella che deve profilarsi come un passaggio, una transizione (2012), oltre la quale necessita forzare lo sguardo, superare il contingente, sebbene difficile, per aspirare ad una vera rinascita (2013?).

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Biografie degli artisti in ordine alfabetico

Fig. 15 Luigi Ademollo (Milano, 1764-1849) Allievo di G. Traballesi all’Accademia di Brera, dipinse scene teatrali a Torino e a Parma, arrivando a Roma per la prima volta verso il 1785, dove collaborò alle illustrazioni della Grecia che preparava L. F. Cassas. Eletto all’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1789, fu di nuovo a Roma nel 1791-1792 e a più riprese negli anni successivi. Tuttavia la sua carriera si svolse principalmente nella Toscana, a Siena nell’ultimo decennio del Settecento poi a Firenze. Fu assieme a F. Giani il più cospicuo pittore di affreschi per palazzi e teatri dell’epoca, non trascurando affatto la produzione grafica alla quale si dedicò intensamente. Ademollo fu un grande appassionato lettore e conoscitore dei classici, della Bibbia e degli autori cristiani da cui trasse la maggior parte dei soggetti delle sue opere (La pittura del 700 a Roma, a cura di S. Rudolph, Milano 1983, ad vocem). Stilisticamente “Ademollo darà vita ad una pittura vibrante, veemente, teatrale e fantasiosa – almeno fino ai primi anni del 1800: una ricerca formale in continua evoluzione, che attraverserà una fase più aulica e solenne (primi anni dell’800) fino a giungere (dagli anni 20 fino alla morte) ad un’esasperazione plebea e drammatica, e ad una riduzione fortemente illustrativa dello stile” (S. Pratelli, Storie di eroi: Omero e Pluraco come fonti per le incisioni di Lugi Ademollo, in Biografia dipinta e ritratto dal Barocco al Neoclassico, atti del convegno Siena 26-27 ottobre 2007, Montegriggioni 2008, pp. 207-221, p. 207). Fig. 5 Luciano Borzone (Genova, 1590 -1645) Di umili origini venne avviato agli studi letterari presso la casa dello zio paterno Filippo Berlotto, dovè potè cominciare a muovere i primi passi nella pittura. Il giovane dotato di talento venne allora ammesso alla scuola di Corte per volere di Alberico Cybo principe di Massa, dove venne notato da Giovanni Carlo Doria per il quale realizzò alcune tele. Nel 1624 seguì poi quest’ultimo in un viaggio a Milano, dove Borzone ebbe l’opportunità di farsi conoscere ricevendo numerose commesse. Rientrato a Genova aprì una sua bottega intessendo rapporti con gli intellettuali locali come il poeta G. Chiabrera. Borzone si dedicò lungamente alla ritrattistica e pare non disdegnasse collaborare in attività editoriali, il cui apporto nella città natale è ancora al vaglio degli studi. Molte sue opere citate nelle fonti risultano al momento disperse e molta chiarezza potrà sicuramente fare l’imminente uscita della monografia dell’artista. Stilisticamente si avvicinò dapprima ai modi lombardi, per poi guardare gli esempi di Strozzi e Gentileschi, non rimanendo quindi indifferente alla ricerca luministica di Caravaggio. Tra le sue opere si ricordano: nella Pinacoteca civica di Savona il Miracolo di s. Antonio e una Natività; nella chiesa di S. Teresa in Savona, di notevole scioltezza nell’impianto spaziale, appartenente al periodo maturo dell’artista, la Madonna col Bambino e s. Giorgio (Genova, pal. S. Giorgio), Giuseppe venduto dai fratelli nella chiesa di S. Lorenzo Monticelli d’Ongina, a Chiavari, nella cattedrale, S. Francesco; Roma in collezione privata Achior riceve la testa di Oloferne. Nell’ultimo periodo della sua vita lavorò intensamente per Giacomo Lomellini detto il Moro. Morì nel 1645 cadendo da un’impalcatura mentre stava lavorando (C. Manzitti, Borzone Luciano, in La pittura del Seicento in Italia, II, Milano 2001, pp. 648-649.). Fig. 14 Alberto Carlieri (Roma, 1672 – 1720) Carlieri fu allievo di Giuseppe de Marchis che lo avviò allo studio della pittura di architetture, per la quale dimostrò un vivo interesse. Il giovane entrò allora in contatto con Andrea del Pozzo, del quale divenne allievo e collaboratore. Le vicende della sua vita restano al momento abbastanza oscure, così come risulta difficoltosa la ricostruzione del suo corpus di opere. L’imminente uscita della monografia del prof. Giancarlo Sestieri potrà finalmente fare chiarezza. Nei suoi dipinti come già aveva modo di scrivere la Pampaleone “si riscontrano motivi stilistici comuni: ricchezza della architettura e sua disposizione compositiva, vivacità nell’atteggiamento delle figure, contrasto acuto fra luce e ombra, brillantezza e scioltezza infine nell’uso del colore, le cui particolari tonalità risentono della tavolozza di Andrea Pozzo”. Vi sono poi contatti con la produzione di G. Ghisolfi e Viviano Codazzi. (A. Pampaleone, Dizionario biografico degli italiani, vol. 20 1977, ad vocem).

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Pietro Dandini (Firenze, 1646– 1712)

Fig. 3

Pittore molto prolifico nella Firenze Barocca si formò nella bottega di famiglia sotto la guida dello zio Vincenzo Dandini. Negli anni giovanili si registra un viaggio a Venezia che gli permise di acquisire la conoscenza della pittura del Cinquecento, le cui suggestioni si riscontrano nella pittura del primo periodo. Dopo un viaggio a Roma, dove studiò lungamente le opere di Pietro da Cortona, e un nuovo soggiorno a Venezia, dipinse opere sacre e profane per la famiglia granducale, la nobiltà locale e la committenza religiosa. Particolarmente significativa è anche la sua attività come frescante con interventi nelle residenze medicee (Palazzo Pitti, villa della Petraia e Pratolino), in palazzi fiorentini di prestigio (Orlandini, Corsini, Ridolfi, Del Sera), e in alcune chiese locali (San Frediano al Cestello, San Marco e San Salvatore in Ognissanti). Il linguaggio maturo dei primi del Settecento è raggiunto negli affreschi di villa Ferroni de Bellavista a Borgo a Buggiano e in quelli della residenza medicea di Lappeggi dell’Antella. (F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Incice degli artisti e delle loro opere, Torino 2009, p. 284). Jacopo de’ Barbari (Venezia, c. 1445-c. 1516)

Fig. 8

La sua data di nascita è incerta ma la si fa risalire in un periodo compreso tra il 1445 e il 1470. Della sua formazione si sa poco anche se l’ipotesi più accreditata è che si sia educato presso la bottega di Alvise Vivarini. Importanti per la sua formazione furono poi le opere del Dürer e del Mantegna soprattutto per quanto concerne l’attività incisoria. A partire dal 1500 de’ Barbari è però testimoniato in Germania dove lavorò per l’imperatore Massimiliano I di Norimberga, Federico il Saggio e infine per Gioacchino I di Brandeburgo. Al servizio poi di Filippo I di Castiglia rientrò dapprima a Venezia per poi trasferirsi definitivamente in Olanda. Margherita d’Asburgo, che a Filippo I subentrò sul trono, continuò ad avvalersi dei suoi servigi, arrivando ad accordargli negli ultimi anni di vita una pensione. Fu attivissimo anche come incisore dove soleva firmarsi con un caduceo. Rinomate sono soprattutto le sue Vedute di Venezia. Tra le sue opere più importanti si ricordano: Natura Morta, con pernice e dardo di balestra, olio su tavola, Alte Pinakothek, Monaco di Baviera, Sparviere Nationa Gallery, London, Ritratto di Luca Pacioli, Museo di Capodimonte Napoli. Morì nel 1516 (cfr. S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Milano 2006). Ettore Greco

Figg. 18-19

Ettore Greco è nato a Padova nel 1969 e si è diplomato all'Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1992. Nel 1994 ha aperto un suo atelier e due anni più tardi ha tenuto la prima mostra personale. Dal marzo del 2011 un suo “San Sebastiano” è in permanenza al Vittoriale degli Italiani, la casa-museo di Gabriele d'Annunzio a Gardone Riviera (Bs) e dal Giugno dello stesso anno Ettore Greco è presente alla 54° Biennale di Venezia. Le sue sculture sono state esposte in molte città, tra cui Milano, Torino, Firenze, Berlino, Parigi, New York. Dal 2010 collabora anche con la Galleria Maurizio Nobile. Vive e lavora a Padova. Giulietta Grimaldi

Fig. 6

Giulietta Grimaldi è nata nel 1978 a San Giovanni in Persiceto (BO) e si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2006 (indirizzo scultura). Ha partecipato a numerose mostre collettive esponendo a Bologna, Carrara, Genova, Trieste, Rimini. Attualmente sta lavorando, in collaborazione con il Comune di Cento (FE), ad un progetto chiamato Rinascita, legato al tema del terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna nel maggio 2012. Vive e lavora a Rimini. Francesco Guarino (Sant’Agata Irpina, 1611 – Gravina in Puglia, 1651)

Fig. 1

Figlio del pittore Tommaso Guarino, Francesco si trasferì a Napoli per formarsi presso la bottega di Massimo Stanzione, dove venne in contatto con le opere di Caravaggio, Battistello e di Filippo Vitale. Nella prima fase della sua carriera lavorò nella bottega paterna, partecipando a numerosi lavori collettivi nei quali non è sempre agevole riconoscere la mano del nostro. A questo periodo risalgonogli importanti affreschi nel soffitto della Collegiata di Solofra. Verso la metà degli anni Trenta partecipò alla generale temperie neoveneta e vandyckiana che investì l’ambiente napoletano eseguendo opere come l’Immacolata della Congrega dei Bianchi a Solofra (1637) o l’Annunciazione di Solofra (1642). Tra i suoi committenti più prestigiosi ebbe anche gli Orsini per i quali realizzò numerose opere di piccolo formato. Nelle ultime opere per la Collegiata di Solofra si nota già l’influsso del classicismo di Poussin, del Domenichino e di Francesco Cozza. Morì giovane e prematuramente lasciando tuttavia un cospicuo corpus di opere di eccellente qualità (A. Spinosa, Guarino Francesco, in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 2001, p. 772).

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Fig. 17 Robert Guinan (Watertown, New York, 1934) Sin dalla più giovane età mostra interesse per l’arte cimentandosi nel disegno di scene di guerra od eroiche suggestionato dalle fotografie e dalle illustrazioni dei libri di storia. Col tempo la sua ricerca artistica si affina, orientandosi verso la rappresentazione di oggetti alla ricerca della loro intrinseca essenza. Si avvicina alla tecnica del collage che inizialmente sembra favorire la sua indole creativa. I risultati ottenuti però non lo soddisfano ancora a pieno, risultando troppo tenui e smorzati. Si rivolge quindi alla pittura che per vastità e duttilità di tecniche e materiali meglio si adatta alla sua indole. “Le tele, quasi esclusivamente ritratti e vedute metropolitane, materializzano l’atmosfera malinconica, alienata e ad un tempo febbrile e appassionata dei grandi agglomerati urbani americani, in cui la musica, i sapori, gli odori, il frastuono della grande città ed il silenzio della solitudine dei suoi abitanti, si fondono a costituire una unica forza, che la mano di Guinan tenta di cogliere e fissare in un tempo assoluto e immobile”. Dalla metà degli anni Settanta, riceve i primi importanti riconoscimenti, particolarmente in Europa, con diverse esposizioni in Francia, Italia, Belgio e Svizzera. In particolare nel 2005 l’Accademia di Francia a Roma gli ha dedicato un’ampia retrospettiva nella prestigiosa sede di Villa Medici. Le sue opere fanno oggi parte di un significativo numero di collezioni, private e pubbliche, tra le più importanti nel mondo (URL: http://www.undo.net/it/mostra/26130 (mostra Roma, Villa Medici); cfr. A. De Maistre, Robert Guinan, Paris 1991) Fig. 11 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 – Roma, 1987) Pittore siciliano di grande fama, Renato Guttuso scopre dalla più tenera età una forte attrazione per il mondo dell’arte ed in particolare della pittura. Le prime suggestioni gli vengono proprio dall’ambiente familiare di cui egli stesso racconta “tra gli acquarelli di mio padre, lo studio di Domenico Quattrociocchi, e la bottega del pittore di carri Emilio Murdolo prendeva forma la mia strada avevo sei, sette, dieci anni...”. Dopo aver frequentato l’atelier futurista di Pippo Rizzo, nel 1928 partecipa a Palermo alla sua prima mostra collettiva. Nel 1931 espone due dipinti alla Quadriennale Nazionale d’Arte Italiana a Roma, dove ha occasione di confrontarsi con le opere dei più grandi artisti contemporanei italiani. Si trasferisce poi a Roma dove collabora con giornali e riviste e già dalla scelta dei suoi primi soggetti critici si delineano le sue scelte in favore di una pittura impegnata. Gli anni tra il 1937 e il 1939 saranno molto importanti per l’artista. Stringerà infatti amicizia con Alberto Moravia, Antonello Trombadori e Mario Alicata, e i suoi studi pittorici diventeranno veri e propri circoli culturali. La sua opera più famosa, Crocefissione, risale invece al 1940 e si configura come un vero e proprio grido di dolore per la tragedia della guerra. L’opera è tuttavia disapprovata dal Vaticano che proibisce ai credenti di guardarla. Allo stesso anno risale il suo primo lavoro a delle scenografie teatrali, attività che svolgerà poi a più riprese per tutta la vita. Nel 1943 lascia Roma e entra a far parte della lotta partigiana. Nel 1950 ottiene a Varsavia il premio del Consiglio Mondiale per la Pace, e nello stesso anno tiene la sua prima personale a Londra. Seguono anni che lo vedono partecipare a mostre in Europa e negli USA e stringere amicizie significative e importanti come quella con Picasso e Vedova. Nel 1965 Si trasferisce definitivamente a Palazzo del Grillo dove continuerà ad abitare e lavorare fino alla morte. Nel 1981 Giuliano Briganti scrive la presentazione per la sua mostra a Roma sul ciclo delle Allegorie, della Malinconia. Il 18 gennaio del 1987 muore lasciando alcune opere, tra le più importanti, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Bagheria gli ha intitolato il Museo Guttuso, che ha sede nella settecentesca Villa Cattolica e raccoglie così la più ampia collezione di opere, quadri, disegni e grafica dell’artista (URL http://www.guttuso.com). Fig. 10 Lorenzo Pasinelli (Bologna, 1629-1700) Formatosi alla bottega del Cantarini passò nel 1648, per la morte di quest’ultimo, a quella di Flaminio Torri. I suoi maestri furono i tramiti con cui il Pasinelli colse l’eredità di Guido Reni, accompagnata ad un forte interesse naturalistico e a continui rimandi all’arte veronesiana. Le opere che consacrano il successo dell’artista sono due grandi tele realizzate nel 1657 per la chiesa di San Girolamo della Certosa di Bologna. Si associò poi al quadraturista Andrea Seghizzi, con il quale lavorò nella residenza dei Gonzaga di Marmirolo (MN), e assieme al quale nel 1661 si trasferirà a Torino. Nel 1663 trascorse a Roma qualche tempo presso l’Ambasciatore Campeggi, mettendo a frutto il suo

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soggiorno con lo studio di opere antiche e del Rinascimento. Rientrato a Bologna lavorò per committenti importanti quali il Conte Alessandro Fava, il generale Montecuccoli e per i principi del Liechtenstein. L’ultima opera pubblica è la Trinità eterna (1668) per Santa Maria degli Alemanni a Bologna. Morì nella sua città natale due anni dopo (C. Guidetti Roli, Pasinelli Lorenzo, in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 2001, p. 838). Giuseppe Romani (Como ?, 1654 circa-Modena, 1727)

Fig. 4

La prima formazione lombarda affiora nelle sue opere dove tuttavia è preponderante l’influenza modenese in ambito dello Stringa. Pittore di tele d’altare, la sua fama resta legata piuttosto a dipinti di genere: paesaggi e quadri di animali, nei quali è più evidente la matrice lombarda. Si coglie infatti un’attenzione soprattutto per la paesistica alle opere di Francesco Peruzzini e Marco Ricci. I quadri di genere sembrano debitori della maniera del Crivellone e paiono anticipare alcune soluzioni del Duranti. La monografia sul pittore di prossima pubblicazione potrà determinare meglio il corpus dell’artista, solo di recente indagato (C. Guidetti Roli, Romani Giuseppe, in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 2001, p. 867; cfr. Mazza, «Pitocchi diversi al naturale». Giuseppe Romani, un pittore lombardo nel Ducato Estense, in corso di stampa). Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona, 1578-Roma, 1649)

Fig. 7

Allievo nella sua città natale di Felice Brusasorci, alla morte di questi (1605) ne ereditò la bottega. Negli anni giovanili compì quasi certamente un viaggio a Venezia, mentre tanta parte nella sua formazione dovette avere la conoscenza delle collezioni gonzaghesche di Mantova e dell‘opera di Rubens. Per la complessa formazione dell’artista determinante risulta la conoscenza della cultura bolognese, avvenuta tramite le stampe carraccesche e un probabile soggiorno nel capoluogo emiliano. Dopo il 1614 Turchi si trasferisce a Roma e lavora assieme a Carlo Saraceni e Giovanni Lanfranco, alla decorazione della Sala Regia nel Palazzo del Quirinale. Nell’Urbe egli seppe tessere legami importanti; ricevette alcune commissioni dall’influente cardinale Scipione Borghese ed entrò a far parte dell’elite aristocratica romana contraendo matrimonio nel 1623 con donna Lucia del nobile casato dei San Giuliano. Nel 1618 è membro dell’Accademia di San Luca, di cui diviene principe nel 1637 (E. Rama, Turchi Alessandro, in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 2001, pp. 906-907). Fig. 2

Giovanni Maria Viani (Bologna, 1636-1700) Allievo di Flaminio Torri, il Viani porta avanti anche istanza neocarracesche. La ricostruzione del suo corpus di opere è ancora al vaglio della critica. Sono sicuramente riconducibili alla sua mano alcuni importanti dipinti a Bologna tra i quali: il San Rocco della chiesa dei Ss. Vitale e Agricola, quattro lunette affrescate nel portico della chiesa dei Servi, una copia da Guido Reni da un affresco in San Michele in Bosco per la chiesa del medesimo complesso, a cui Viani affianca un pendant di sua invenzione con San Bernardo Tolomeo; ed un tardo San Pio per il santuario di San Luca; Si ricordano inoltre: due grandi ovali La Madonna appare a sant’Ignazio e Cristo appare a sant’Ignazio per la chiesa modenese di San Bartolomeo (1696) e Diana ed Endimione oggi all’Accademia Albertina di Torino (C. Guidetti Roli, Viani, Giovannino Maria, in La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 2001, p. 918).

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Stampato nel mese di settembre 2012 da Industria Grafica Valdarnese


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