Verso la fine dell'economia epub anteprima

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Ebook Formato Epub Copyright Fuoco Edizioni – http://www.fuoco-edizioni.it 1^ Edizione Giugno 2013


Indice Introduzione Parte I: “Lo stato dei fatti” I) L’ossessione per la crescita II) La dipendenza dai combustibili fossili III) Il ruolo strategico delle materie prime minerarie IV) Pressione demografica, povertà ed urbanizzazione V) Un mondo da sfamare VI) La risorsa legno VII) L’acqua è sempre più scarsa VIII) La situazione ambientale non è più sostenibile IX) Riepilogando: undici “punti salienti” Parte II: “Verso la fine del sistema” I) Lotta per le risorse naturali II) Il potere del capitale III) L’economicizzazione del mondo IV) Collasso Parte III: “Decrescita, istruzioni per l’uso”


Fonti dei dati e sitografia Bibliografia Pubblicazioni ed articoli scientifici Autore


Introduzione Torna all’indice La recente crisi economica non sembra più avere fine. Tutto è iniziato nel luglio del 2007, quando negli Stati Uniti è scoppiata la bolla immobiliare dei mutui sub prime a causa di una scellerata corsa all’indebitamento dei cittadini americani che, sperando di ottenere facili guadagni dal continuo rialzo dei prezzi immobiliari, hanno contratto mutui per comprare la seconda o la terza casa. Nell’autunno del 2008 è fallito il colosso finanziario Lehman Borthers e quella che è seguita è una situazione di stallo a livello mondiale che, nonostante i massicci stimoli economici messi in campo dalle principali banche centrali, nessuno sa con precisione quando potrà dirsi superata. Ma questa crisi ha fatto emergere tutta la fragilità del nostro sistema economico e così ora dobbiamo fare i conti anche con la crisi del debito sovrano europeo e il rallentamento dell’economia cinese (che dipende fortemente dall’export in Europa e Nord America). Nel 2008 il prezzo di praticamente tutte le materie prime (dal petrolio alle derrate alimentari passando per le materie prime minerarie) si è impennato e nonostante il quadro macroeconomico sia fortemente peggiorato rispetto alla situazione pre-crisi, per molte materie prime siamo tornati ai massimi del 2008. E’ dai due grandi shock petroliferi degli anni Settanta che l’umanità si domanda se esiste una reale


alternativa ai combustibili fossili, ormai destinati al totale esaurimento nel giro di qualche decennio, ma la risposta è che per ora tale alternativa non esiste. Petrolio, carbone e gas naturale contribuiscono alla produzione dell’87% dell’energia che viene prodotta sul nostro pianeta e le fonti rinnovabili difficilmente potranno far fronte alla crescente domanda di energia dovuta all’affacciarsi dei paesi emergenti sulla scenda mondiale (Cina, India, Brasile e Russia, ma anche Indonesia, Messico e Arabia Saudita). Le materie prime minerarie sono alla base dell’economia mondiale anche se esistono seri problemi legati alla sicurezza della loro fornitura perché i grandi produttori sono spesso paesi poco stabili dal punto di vista politico o intenzionati a massimizzare i vantaggi derivanti dalla posizione monopolistica per motivi geopolitici o per ottenere facili guadagni (come nel caso della Cina con le terre rare). L’acqua dolce è diventata una risorsa sovrasfruttata e in molte regioni del pianeta, nonostante la crescente domanda di acqua per

irrigare

i

campi

(il

70%

dell’acqua

viene

destinata

all’irrigazione), per usi industriali o civici, la quantità d’acqua procapite è destinata a calare, mentre sempre più persone non hanno accesso all’acqua potabile a causa del crescente inquinamento. Molti dei paesi che già ora non sono autosufficienti dal punto di vista alimentare sono quelli che nei prossimi anni vedranno maggiormente crescere la popolazione e quindi la necessità di importare ulteriore cibo, in un mondo in cui la superficie destinata all’agricoltura, pari a circa 1/3 delle terre emerse, per aumentare dovrà necessariamente


passare dall’abbattimento delle ultime foreste del pianeta. L’Asia è il continente più dipendente dalle importazioni estere di cibo e con il recente aumento del reddito medio dei suoi abitanti abbiamo assistito a un vero e proprio boom della domanda mondiale di prodotti di origine animale, con il risultato che è aumentata la superficie da destinare alla produzione di cereali e leguminose necessarie alla produzione di mangimi. Nel 2011 abbiamo raggiunto i 7 miliardi di abitanti e secondo i demografi, entro il 2025 il nostro pianeta dovrà fornire tutte le risorse naturali a mantenere lo stile di vita di un ulteriore miliardo di persone (mentre entro il 2050 avremo superato i 9 miliardi di abitanti). Ogni estate assistiamo al dramma dello scioglimento della banchisa dell’Artico, segno inequivocabile del fatto che ci stiamo avviando verso sconvolgimenti del clima che saranno epocali (l’avanzata della desertificazione, l’aumento dei fenomeni meteorologici estremi come siccità e inondazioni, lo scioglimento dei ghiacciai delle principali catene montuose e quindi la diminuzione della portata dei principali fiumi del pianeta fra le conseguenze più prevedibili). La principale causa di questo fenomeno è però da attribuirsi all’attività dell’uomo; infatti, ad ogni aumento del PIL mondiale si immettono nell’atmosfera ulteriori quantità

di

gas

serra

(anidride

carbonica,

metano,

cluorofluorocarburi, eccetera), responsabili del riscaldamento del pianeta. Sempre a causa dell’attività dell’uomo stiamo assistendo alla repentina perdita della biodiversità, con l’allarmante esaurimento delle risorse ittiche degli oceani e i fragili ecosistemi tropicali


sempre più a rischio. Infine, un altro effetto collaterale del nostro modello di sviluppo è rappresentato dagli inquinanti organici persistenti che – come nel caso delle diossine – si accumulano nella catena alimentare e comportano vere e proprie epidemie di tumori e altre gravi malattie. In un sistema economico basato sulla necessità di una costante crescita della produzione materiale è evidente che le sempre più acute crisi che si stanno abbattendo sull’umanità rischiano di portarci dritti verso il collasso.

Oltre alla crisi economica, infatti, esiste

anche una crisi agricola, energetica, delle materie prime minerarie, socio-demografica, delle risorse idriche e una crisi ambientale. Viviamo in un sistema socio-economico molto complesso e quindi tra le cause dell’attuale crisi economica c’è anche la crisi ambientale, perché l’eccessivo sfruttamento e il rapido deperimento delle risorse naturali ha portato all’aumento del prezzo degli input e quindi a un rallentamento della crescita della produzione materiale. Crisi ambientale che a sua volta dipende dal continuo aumento della popolazione e della povertà (in termini assoluti), che hanno aumentato le pressioni per l’accaparramento delle sempre più scarse risorse del pianeta. Esiste una forte interdipendenza tra le varie crisi che stiamo vivendo. Ma alla radice delle innumerevoli crisi che si stanno abbattendo sull’umanità

sembra

esserci

il

comportamento

dell’homo

oeconomicus, ovvero quella “razionale stupidità” che ha portato ogni


singolo attore del sistema economico – individui, imprese e stati – ad agire nel proprio interesse secondo valori prettamente economici (legati alla massimizzazione dell’accumulo di ricchezza). Perché quando i valori economici diventano preponderanti, come già teorizzava Aristotele, si arriva alla disgregazione e quindi alla fine della società. La tragedia dei beni comuni (la natura è patrimonio dell’umanità) nasce dalle scelte razionali dei singoli che per il proprio interesse arrecano danno alla collettività. Ma le perverse logiche del sistema consumista hanno finito per soggiogare anche l’uomo che, trovandosi in un perenne stato di insoddisfazione perché costretto a rincorrere le illusorie promesse della pubblicità – la più efficace delle leve del sistema produttivo –, è costretto svendere il proprio tempo e le proprie energie in cambio di una vacua felicità che durerà giusto il tempo in cui la prossima moda o trovata tecnologica avrà superato ciò che ci è costato così tanta fatica. Forse non tutto è perduto, anche se il cambiamento non potrà che venire da un radicale rovesciamento dei valori correnti in grado di fermare la folle corsa alla sempre più efficiente e rapida razzia delle risorse naturali in nome dell’altrettanto sempre più veloce ed efficiente distruzione di esse.


PARTE I “La stato dei fatti” Torna all’indice I L’ossessione per la crescita A) Rallenta la crescita mondiale ed aumenta il peso degli emergenti Il PIL – acronimo di Prodotto Interno Lordo –, occupa il posto d’onore di tutto il discorso economico in quanto essenza stessa dell’economia, ed è quindi la principale preoccupazione di governanti ed economisti. Si tratta di una misura, di un indicatore, che è stato messo appunto a metà del XX secolo dall’economista ed esperto di contabilità nazionale Simon Kuznets per poter valutare in modo preciso la ricchezza materiale di una nazione, ovvero il suo benessere. Dal punto di vista dell’offerta, il PIL è la somma algebrica del valore aggiunto in un dato periodo di tempo, ovvero una misura di ciò che viene prodotto (beni e servizi) al netto del costo dei materiali impiegati. Dal punto di vista della domanda, il PIL è una misura della spesa finale, ovvero della spesa per i consumi delle famiglie, per gli investimenti delle imprese e per la spesa pubblica (per consumi ed investimenti) dello stato. Infine, dal lato della distribuzione funzionale del reddito, il PIL è l’insieme di tutti i


redditi, ovvero la remunerazione dei fattori produttivi che hanno concorso alla produzione materiale di beni e servizi. L’intera nostra società, attraverso le sue istituzioni (i governi centrali e gli enti locali, le banche centrali, le authority, i tribunali, le camere di commercio, eccetera) è progettata per favorire e stimolare la crescita, cioè lo sviluppo dell’economia. Da quando il termine PIL è diventato sinonimo di economia, è emerso chiaramente quale fosse lo scopo, il fine della nostra società (una società dominata dall’economia e dai suoi valori): ovvero la crescita del PIL – cioè una sempre maggiore produzione di beni e servizi. Nel 2009 abbiamo assistito ad una contrazione del PIL mondiale pari al 2,33%, ovvero alla prima battuta d’arresto del treno della crescita economica dal secondo dopoguerra ad oggi. A luglio del 2007, gli Stati Uniti, ovvero il paese più ricco al mondo, sono stati colpiti da quella che forse è stata la più grave crisi finanziaria di sempre, culminata con il fallimento a fine 2008 del gigante della finanza Lehman Brothers e tamponata dalle massicce iniezioni di liquidità delle banche centrali di tutto il mondo. Ma è importante notare come la recessione mondiale del 2009 ben si intersechi in un processo di lungo termine, ovvero nel graduale rallentamento della crescita economica mondiale, fenomeno iniziato con le tensioni legate al prezzo del petrolio degli anni Settanta (con i due shock petroliferi del 1973 e del 1979), ma sintomo anche di un’economia che sembra aver esaurito lo slancio iniziale legato all’applicazione su larga scala delle


tecnologie della Seconda rivoluzione industriale (fondata sull’energia elettrica ed il motore a scoppio) e che non ha ottenuto quei “miracolosi” benefici provenienti dalle nuove tecnologie (computer, cellulare, fibra ottica, eccetera). Nel periodo che va dal 1971 al 1989, il tasso di crescita medio dell’economia mondiale è stato pari al 3,73%, mentre dal 1990 al 2010 del 2,71%, cioè inferiore di oltre un punto percentuale nonostante la dirompente crescita dei paesi emergenti e le nuove tecnologie (vedi Grafico 1).

Grafico 1: Tasso di crescita di PIL e popolazione mondiale dal 1970 al 2010


Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Il primo decennio del nuovo millennio ha infatti registrato il boom dell’economia cinese, cresciuta secondo la Banca Mondiale del 171%, ma anche di quella indiana, che si è più che raddoppiata in soli dieci anni (+109%) e di quella indonesiana (+66%). Fra le prime 15 economie del mondo, troviamo ben sei paesi emergenti (Cina, India, Russia, Brasile, Messico ed Indonesia), con i BRIC che pesano per 1/4 del PIL mondiale (ed il 42% della popolazione del pianeta). Dal 2000 abbiamo assistito ad un calo dell’importanza delle economie dei paesi sviluppati (ovvero di quelli a reddito alto), con un generale ribilanciamento a favore delle economie dei paesi a reddito medio-alto (che nel 2010 valevano 1/3 del PIL mondiale) – anche se occorre comunque specificare che i paesi ricchi rappresentano ancora la parte più importante dell’economia mondiale – ovvero il 55,19% del PIL mondiale (vedi Grafico 2).

Grafico 2: Andamento quota percentuale pil mondiale per gruppi di reddito dal 1980 al 2010


Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Il processo di trasferimento (attualmente in atto) di quote della ricchezza prodotta nel nostro pianeta dai paesi ricchi a quelli non ancora sviluppati trova le sue radici nella globalizzazione, che ha portato i paesi con un piÚ basso reddito pro-capite a convergere con quelli con un piÚ alto reddito pro-capite. Dal 1980 al 2010, il contributo alla crescita del PIL mondiale dei paesi in via di sviluppo (ma nel complesso anche per i paesi poveri) è stato maggiore rispetto a quello dei paesi ad alto reddito. B) Globalizzazione: la creazione di un mercato unico mondiale


L’attuale sistema economico abbraccia in toto l’economia di mercato, un’economia profondamente capitalista, perché anche la Cina – l’ultimo grande paese comunista – ha abbracciato l’ideale del liberismo in campo economico quando nel 2001 ha deciso di entrare a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (l’OMC o WTO). L’ortodossia economica ritiene che la globalizzazione dovrebbe favorire la crescita della produzione di beni e servizi, ovvero l’aumento del PIL, soprattutto nei paesi più poveri, con il fenomeno della convergenza (i capitali tendono ad andare dove i fattori della produzione, come il lavoro, costano meno e inoltre i paesi più poveri adottano la tecnologia di quelli più ricchi). La globalizzazione potrebbe essere definita come un aumento, a livello mondiale, della circolazione di capitali, merci e persone (ma anche idee, tecnologie, culture, specie animali e vegetali e via dicendo). Con l’abbattimento dei dazi doganali e delle misure protezionistiche (il cui ultimo atto si è tenuto nel novembre del 2001 con la firma degli accordi del Doha Round), viene promossa la libera circolazione di merci, capitali e persone e si entra nella fase più avanzata della globalizzazione economica, che era iniziata con la caduta della “cortina di ferro”. La prima fase è stata caratterizzata dell’affermarsi dell’ideologia liberista negli ambienti economici prima e politici poi.

Grafico 3: Variazione del peso di import/export sul totale del PIL per area geografica dal 1970 al 2010


Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

La seconda fase è stata invece quella dell’abbattimento dei dazi doganali e dell’adozione delle grandi innovazioni tecnologiche nel settore dell’ICT, come il computer, internet, il cellulare, le fibre ottiche e via dicendo, che hanno permesso la libera circolazione delle idee e dei capitali (peraltro sempre più virtuali). A partire dall’inizio degli anni Novanta, l’incidenza del commercio estero (inteso come somma dell’import e dell’export) è passato dal 38,76% del PIL mondiale nel 1990, al 49,61% del 2000, un balzo di oltre dieci punti


percentuali in soli dieci anni (vedi Grafico 3). Il culmine degli scambi commerciali a livello internazionale (sempre in rapporto al PIL) è stato toccato nel 2008 (allo scoppio della crisi finanziaria americana), quando il commercio internazionale arrivò a pesare per il 59,44% del PIL prodotto dall’umanità. Ma la globalizzazione non ha raggiunto lo stesso grado di intensità ovunque. Ad esempio, nel 2010 gli scambi commerciali con l’esterno dell’Unione Europea erano pari al 79% del proprio PIL, mentre per la Cina, sempre per lo stesso anno, erano pari al 55% della propria economia, mentre troviamo che è il Nord America la regione più “autarchica”: gli scambi con l’esterno pesano per poco più del 30% del valore del prodotto interno lordo (cosa sorprendente visto il ruolo che gli USA e le grandi multinazionali nordamericane hanno avuto nella costruzione “istituzionale” di questa globalizzazione). Con la globalizzazione si assiste anche a un aumento della circolazione delle persone oltre le frontiere nazionali e questo fenomeno si manifesta con le migrazioni dei lavoratori dai paesi poveri a quelli più ricchi e con l’aumento del flusso di turisti. Nel periodo che va dal 1960 al 2010, il fenomeno delle migrazioni dai paesi più poveri verso quelli più ricchi è aumentato di quasi undici volte (secondo la Banca Mondiale nel 1960 quasi 2 milioni di persone hanno dovuto migrare verso i paesi ricchi, mentre nel 2010, il numero di persone che hanno deciso di migrare alla ricerca di migliori condizioni di vita sono state 23 milioni). Le due grandi ondate migratorie sono avvenute tra il 1990 ed il 1995 (+37% rispetto al quinquennio precedente) e tra il 2000 ed


il 2005 (+51% rispetto al quinquennio precedente, con quasi 7 milioni di migranti in più). Anche il turismo ha registrato una costante crescita –anche se a differenza delle migrazioni si tratta di spostamenti temporanei e che riguardano principalmente la popolazione più ricca. Secondo la Banca Mondiale, il numero di arrivi è aumentato del 67% in 14 anni, passando dai 531 milioni del 1995 ai 923 milioni del 2009. Dopo aver analizzato l’aumento della circolazione delle merci e delle persone degli ultimi 20 anni, ci rimane da affrontare l’ultimo aspetto della globalizzazione, cioè la libera circolazione dei capitali oltre i confini nazionali. Secondo McKinsey, dal 1990 al 2010 gli investimenti oltre confine a livello globale sono quasi decuplicati, passando dagli 11.000 miliardi di dollari del 1990 ai 96.000 miliardi del 2010. Il 32% degli investimenti internazionali sono prestiti, che sono stati concessi da banche e istituti finanziari a soggetti oltre i confini, il 21% sono titoli obbligazionari detenuti all’estero e un altro 21% sono investimenti diretti esteri, il 15% titoli azionari detenuti all’estero e infine, il 9% sono riserve straniere. C) Il fattore produttivo capitale: risparmio, stock monetario e finanziario Il risparmio viene indirettamente considerato un fattore di produzione (che va a incidere sull’offerta aggregata), perché attraverso l’intermediazione del sistema finanziario, diventa capitale. Un sistema finanziario sufficientemente sviluppato permette alle


imprese (ma anche allo stato e alle famiglie che investono ad esempio nell’istruzione o nell’acquisto dell’abitazione di proprietà) di finanziarsi tramite i risparmi delle famiglie (ma anche di imprese ed enti pubblici). Il risparmio svolge quindi un ruolo molto importante

nelle

economie

moderne,

perché

permette

l’accumulazione di capitale tramite gli investimenti produttivi di imprese, stato e famiglie. Secondo la Banca Mondiale, negli ultimi quarant’anni il tasso di risparmio mondiale è calato, passando dal 25% del reddito prodotto (il PIL) nel 1970 a valori al di sotto del 20% nel 2010. Il calo del tasso di risparmio mondiale è dovuto al calo del tasso di risparmio registrato nei paesi a reddito alto, che detengono ancora la maggioranza del risparmio (sempre secondo la Banca Centrale nel 2010 pesavano per il 54,31% del totale mondiale). I paesi a reddito alto rappresentano oltre 1/3 del risparmio mondiale (il 36,83% nel 2010), ed è emblematico il fatto che sia uno di questi paesi il maggior risparmiatore al mondo. Secondo la Banca Centrale, la Cina, infatti, con 3.063 miliardi di dollari è il più grande risparmiatore al mondo, destinando il 51,69% del proprio reddito – una percentuale molto più alta rispetto alla quota di risparmio degli Stati Uniti, pari l’11,51% del proprio PIL – a investimenti o consumi futuri. Lo stock finanziario totale, in quanto capitale finanziario, è una buona approssimazione del fattore produttivo capitale, perché in grado di convertirsi, di comprare il capitale fisico (macchinari, terra,


lavoro). Ma questo può essere aumentato anche da un incremento della moneta presente nel sistema economico con un intervento della banca centrale che aumenta la base monetaria, ovvero l’offerta di moneta. La moneta “creata” dalla banca centrale entra quindi a far parte del sistema finanziario, che ha poi il compito di indirizzarla agli investimenti e ai consumi di imprese, famiglie e stato. Per valutare l’andamento dello stock monetario, ho preso in considerazione l’andamento di M2, una misura dell’aggregato monetario che si definisce come la somma di M0 (circolante e depositi delle banche presso le banche centrali), M1 (moneta elettronica e depositi in conto corrente) più tutte le attività finanziarie che, come la moneta, hanno elevata liquidità e valore certo in qualsiasi momento (in sostanza tutti i vari tipi di depositi).

Grafico 4: Andamento stock monetario in rapporto al PIL per classi di reddito dal 1960 al 2010


Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Dal 1960 al 2010 abbiamo assistito ad una crescita della moneta a percentuali più elevate rispetto alla crescita del PIL, con M2 che nel 2010 ha raggiunto, a livello mondiale, il 120% del PIL (vedi Grafico 4). La Cina è il paese che detiene il maggior quantitativo di moneta in percentuale al proprio PIL (pari al 167%), ed è seguita dai paesi ad alto reddito (con valori pari al 135% del PIL), quelli a reddito mediobasso (58% del PIL) e infine da quelli a basso reddito, per cui M2 pesa per il 42% del PIL. La quantità di moneta totale in rapporto al valore dell’economia mondiale è aumentata del 15% nel primo decennio del nuovo millennio (nel 2000 era pari al 105% del PIL mondiale), con il maggior incremento che è stato registrato nei paesi


a reddito basso, che hanno registrato un aumento del 55% (nel 2000 M2 pesava per il 27% del PIL di questi paesi). Seguono la Cina, che ha visto aumentare l’incidenza dell’aggregato monetario, rispetto al valore totale della propria economia, del 34% (nel 2000 valeva il 116% del PIL cinese) e i paesi ad alto reddito, che hanno visto aumentare il proprio stock di moneta del 17%. Negli ultimi anni lo stock finanziario mondiale è cresciuto ad una percentuale maggiore rispetto all’economia reale, raggiungendo la cifra record di 212.000 miliardi di dollari Usa nel 2010 (vedi Grafico 5) – con il primo che dal 2000 al 2010 è cresciuto dell’87,27% contro il 40,9% della seconda – , sintomo del crescente indebitamento della nostra economia (uno stock finanziario rappresenta sempre – in ultima analisi – un debito del sistema economico, anche se può non esserci l’obbligo alla restituzione ad una scadenza fissa, come nel caso dell’emissione di azioni da parte di un’azienda). Nonostante lo scarso vigore registrato dalle economie mature negli ultimi anni (la Banca Mondiale indica il tasso annuo medio di crescita del PIL dei paesi ad alto reddito nel periodo che va dal 2000 al 2010 pari all’1,81%, paragonato a quello di Cina ed India che è stato, rispettivamente, del 10,3% e del 7,36%), i paesi sviluppati detengono la quasi totalità dell’intero stock finanziario mondiale con una quota pari all’82,4% del totale – il 32% appartiene agli Usa, il 30% all’Europa Occidentale e il 12% al Giappone (vedi Grafico 6).


Grafico 5: Andamento stock finanziario mondiale per tipologia dal 1990 al 2010 (in migliaia di miliardi di dollari Usa)

Fonte: Rielaborazione dati McKinsey

Questo risultato dipende dalla marcata “finanziarizzazione”delle economie mature dove, secondo la Banca Mondiale,

il credito

bancario è superiore al 200% del PIL, il peso dei mercati azionari ha superato il 100% del valore dell’intera economia già nel 2000 e, secondo McKinsey, si trovano il 73% dei depositi mondiali. I paesi sviluppati mostrano anche un più alto indebitamento pubblico


rispetto alle economie emergenti, fondamentalmente a causa dei maggiori costi sociali (dovuti all’invecchiamento della popolazione e alla più alta disoccupazione) e alla miglior reputazione sui mercati internazionali (anche se questo sta in parte cambiando, dopo la crisi del debito sovrano dei paesi periferici dell’area euro).

Grafico 6: Quota di stock finanziario per area geografica (2010)

Fonte: rielaborazione dati McKinsey

È però importante notare che, nonostante i paesi emergenti rappresentino ancora una quota minoritaria dello stock finanziario


mondiale (il 17,6% del totale), stanno anche in questo caso crescendo a percentuali più alte rispetto ai paesi sviluppati (secondo McKinsey, la crescita dello stock finanziario cinese dal 2000 al 2010 è stata pari al 21%, quella indiana del 23%, contro il 5,2% di Stati Uniti ed Europa Occidentale e il 2,4% del Giappone). Prendendo ad esempio il caso cinese, notiamo che sempre secondo McKinsey, il solo mercato azionario cinese nel 2010 ha raccolto il 45% del controvalore di tutte le IPO mondiali – contro il 12,5% della borsa di New York –, con i depositi bancari cinesi che, dal 2009 al 2010, sono cresciuti del 12,4%. Secondo la Banca Mondiale, la Cina è il più grande risparmiatore al mondo, con uno stock di risparmio che nel 2010 ammontava a 3.063 miliardi di dollari. Per cui a livello di stock finanziario, nonostante il dominio dei paesi più ricchi, stiamo anche in questo caso assistendo all’affermarsi dei paesi emergenti. D) Il fattore produttivo lavoro Il lavoro, inteso come occupazione retribuita col denaro, è il punto di contatto tra le famiglie e le imprese, con gli individui che prestando le proprie energie intellettuali e fisiche al processo di produzione ottengono in cambio denaro con cui possono acquistare i beni e i servizi necessari a soddisfare i propri bisogni. Per disoccupazione s’intende invece il numero di persone che non hanno un lavoro retribuito e che lo stanno cercando. La somma delle persone occupate e di quelle disoccupate si definisce forza lavoro. Per quantificare il fattore produttivo lavoro di un’economia si considera


la forza lavoro. L’area geografica Pacifico ed Asia dell’Est è il serbatoio mondiale di lavoratori, la zona dove si ammassa il più grande ammontare di fattore produttivo lavoro, pari a 1.200 milioni di individui (vedi Grafico 7). Quest’area geografica (che comprende paesi come Cina, Indonesia, Corea e Giappone) ha registrato un aumento pari al 62% della propria forza lavoro nel periodo che va dal 1980 al 2009, grazie al forte incremento demografico registrato dai paesi

emergenti.

Diversamente,

nel

periodo

considerato,

l’incremento più contenuto di forza lavoro è avvenuto in Europa ed Asia Centrale (+16%) ed in Nord America (+44%), regioni caratterizzate da un più alto reddito pro capite.

Grafico 7: Contributo all’aumento della forza lavoro per area geografica dal 1980 al 2009


Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

e) Il ruolo del progresso tecnologico A parità di capitale e lavoro, una determinata economia può ottenere una produzione maggiore di un’economia tecnologicamente più arretrata. Ma il primo vincolo di questa funzione deriva dal fatto che esistono dei rendimenti decrescenti sia del capitale, che del lavoro: aumentando l’uno e mantenendo costante l’altro (o vice versa), la produzione di beni e servizi subirà andamenti via via decrescenti (ad esempio, se in un ufficio abbiamo tre impiegati e due computer, un


computer aggiuntivo aumenterà molto la produttività, ma il secondo porterà ad un bassissimo, quasi nullo aumento di produttività). Il capitale può essere scomposto in due tipologie: il capitale fisico (macchinari, computer, fabbricati e via dicendo), che dipende dagli investimenti, a loro volta determinati dai risparmi di un’economia (tramite il sistema finanziario la parte di reddito non consumato e quindi risparmiato diventerà investimento) e il capitale umano, cioè le abilità e le capacità dei lavoratori, che dipendono dall’istruzione e dalla formazione che viene loro fornita. La prima implicazione dell’esistenza di rendimenti decrescenti del capitale (in particolare fisico), implica che la sola accumulazione di capitale (quindi il solo tasso di risparmio) non è in grado di sostenere in modo permanente un maggior tasso di crescita del PIL. Emerge quindi la centralità del progresso tecnologico come determinante della crescita economica. Per capire il livello tecnologico raggiunto dai diversi paesi, e in particolare da quelli più ricchi rispetto a quelli non ancora sviluppati, ho preso in considerazione alcuni indicatori che mostrano il livello di diffusione di alcune tecnologie dell’ICT (diffusione dei cellulari e utilizzatori di internet), altri che manifestano lo sforzo delle varie economie per aumentare il proprio livello tecnologico (numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche e spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL) e infine il grado di tecnologia delle imprese di quel paese (misurato dal livello di tecnologia che viene esportato). Quello che emerge è che i paesi più ricchi sono anche quelli più avanzati dal punto di vista tecnologico. Considerando la penetrazione


di cellulari e internet (due prodotti simbolo della rivoluzione dell’ICT), notiamo che secondo quanto reso disponibile dalla Banca Mondiale siamo arrivati ad un punto di saturazione per quanto riguarda i cellulari e ad una penetrazione pari al 75% per quanto riguarda internet (mentre siamo rispettivamente intorno all’80% e al 40% per i paesi a reddito medio-alto). Inoltre, l’81% delle ricerche pubblicate su riviste scientifiche nel 2007 proveniva da paesi ad alto reddito (vedi Grafico 8).

Grafico 8: Numero di articoli pubblicati su riviste accademiche scientifiche per classi di reddito dal 1981 al 2007


Fonte: rielaborazione dati Banca Mondiale

Sempre secondo la Banca Mondiale, Giappone, Stati Uniti e Unione Europea mantengono comunque (nonostante la debole crescita economica degli ultimi anni) un investimento in ricerca e sviluppo che è superiore all’1,5% del PIL, rispetto a valori medi che per i paesi emergenti vanno dallo 0,5% all’1% del PIL (ma con l’eccezione della Cina, che nel 2007 già investiva l’1,44% del proprio reddito nella ricerca). La situazione cinese è l’emblema della veloce convergenza, anche dal punto di vista tecnologico, che sta portando i paesi emergenti (e in particolar modo quelli del continente asiatico) ad avvicinarsi agli standard dei paesi sviluppati. La Banca Mondiale stima che l’export di tecnologia da parte del dragone cinese abbia raggiunto nel 2009 un importo pari a 348 miliardi di dollari, consacrando quindi al primo posto la Cina, che si è trovata davanti a Germania e Stati Uniti, con un valore rispettivamente pari a 143 e 141 miliardi di dollari. Le così dette “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) insieme alle “tigri minori” (Malaysia, Indonesia, Thailandia e Filippine), nel 2009 hanno esportato tecnologia per un valore pari a 310 miliardi di dollari. Ma anche sul fronte degli articoli pubblicati su riviste scientifiche, notiamo che i paesi non ancora sviluppati hanno quasi triplicato la


quota di pubblicazioni, passate dal 6,63% del 1986 al 19,25% del 2007 (vedi Grafico 8).

II La dipendenza dai combustibili fossili Torna all’indice Energia primaria ed energia elettrica Negli ultimi 20 anni, abbiamo assistito ad un incremento del consumo mondiale annuo di energia primaria pari al 51% e nel 2011 sono stati consumati 147.296 TWh di energia (vedi Grafico 9). La parte più consistente di questo incremento annuo registrato dal 1991 al 2001 (pari a 50.037 TWh) è avvenuto nell’ultimo decennio (per l’esattezza si tratta del 69% dell’incremento mondiale annuo dei consumi energetici), prevalentemente ad opera dei paesi non-OCSE (per

una

quota

pari

al

96%).

Questo

risultato

dipende

dall’impressionante crescita economica registrata dai paesi emergenti a partire dal nuovo millennio, che ha fatto letteralmente esplodere la domanda di energia di queste economie. La Cina ha visto crescere del 151% i propri consumi energetici dal 2001 al 2011 ed è ora il più grande consumatore di energia al mondo – ne assorbe oltre 1/4 del totale (vedi Tabella 1). Ma nell’ultimo decennio si sono impennati anche i consumi energetici di altri paesi emergenti: India +88%, Arabia Saudita +77% e Iran +75%.


Grafico 9: Consumo energetico mondiale per aree geografiche dal 1965 al 2011 (in TWh)

Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

Il 33% dell’energia prodotta sul nostro pianeta proviene dal petrolio, il 30% dal carbone ed il 24% dal gas naturale, cioè l’87% di tutta


l’energia necessaria a garantire lo stile di vita degli oltre 7 miliardi di persone che popolano il nostro pianeta proviene dai tre combustibili fossili e non è quindi rinnovabile (vedi Grafico 10). Il resto proviene per il 6% dall’idroelettrico, il 5% dal nucleare e poco meno del 2% da fonti rinnovabili diverse dall’idroelettrico (eolico, geotermico, biomasse, eccetera).

Tabella 1: I 10 maggiori consumatori di energia per il 2011


Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

Grafico 10: Consumi energetici mondiali del 2011 per fonte


Fonte: Rielaborazione dati BP Statistics

In genere, i paesi sviluppati (paesi OCSE) utilizzano una maggior percentuale di petrolio, gas naturale e nucleare, mentre quelli in via di sviluppo privilegiano il carbone; a tal proposito basti pensare che, secondo BP, la Cina nel 2011 produceva il 70% della propria energia dal combustibile solido. Secondo l’EIA, oltre la metà dell’energia che viene consumata annualmente sul nostro pianeta è destinata al settore industriale – che comprende l’industria manifatturiera, ma anche il settore agricolo, quello minerario e delle costruzioni, il 26% al settore dei trasporti, il 14% a quello residenziale ed infine l’8% a quello commerciale. Sempre secondo l’EIA, notiamo che l’energia prodotta dal settore industriale proviene per il 28,9% dai


combustibili liquidi, per il 26% dal carbone, per il 23% dal gas naturale, per il 14,6% all’energia elettrica e infine per il 7,4% dall’energia proveniente da fonti rinnovabili. Il settore dei trasporti (trasporto di persone e merci su strada, ferrovia, aria, acqua e gasdotti/oleodotti), assorbe circa il 26% del totale dell’energia consumata e proviene per il 95,2% dai combustibili liquidi e per il 3,7% dal gas naturale. Il settore residenziale (inteso come consumo di energia da parte di famiglie o singoli individui) assorbe circa il 14% dell’energia consumata dall’umanità, derivante per il 40,2% dal gas naturale (utilizzato per riscaldarsi, lavarsi e cucinare), per il 31,3% dall’elettricità, per il 19% dai combustibili liquidi e per l’8,5% dal carbone. Il settore commerciale (cioè tutte quelle istituzioni private e pubbliche che forniscono servizi a famiglie, imprese e settore pubblico) pesa per l’8% del totale dell’energia consumata globalmente (il 50% dell’energia consumata dal settore commerciale proviene dall’energia elettrica, il 29,5% dal gas naturale). L’energia elettrica primaria proviene dalle risorse naturali quali l’acqua (idroelettrico), il vento (l’eolico), il sole (solare e fotovoltaico), le maree e le onde. L’energia elettrica secondaria proviene invece dal calore della fissione nucleare, dal calore dei sistemi geotermici o bruciando combustibili primari come il petrolio, il carbone, il gas naturale e i rifiuti, oppure da combustibili rinnovabili, come il legno o i biocarburanti. Secondo BP, il consumo


mondiale di energia elettrica dal 2001 al 2011 è aumentato del 41%, raggiungendo nel 2011 i 22.018 TWh. Il consumo di energia elettrica è cresciuto di più rispetto al consumo di energia primaria (che comprende anche l’energia elettrica) che nello stesso periodo è cresciuto del 30%. Nel 2011, i paesi OCSE hanno consumato il 49% dell’energia elettrica prodotta mondialmente, in calo rispetto alla quota del 2001, pari al 62% del totale. Il 40% dell’energia elettrica è stata consumato nei paesi appartenenti ad Asia e Pacifico, il 24% in Europa ed Eurasia, il 22% in Nord America, il 6,5% in America Latina e Caraibica, il 4% in Medio Oriente ed il 3% in Africa. Sempre secondo BP è la Cina è il paese che divora il più grande quantitativo di energia elettrica (ma anche di energia primaria), con un consumo che nel 2011 è stato pari a 4.700 TWh, ovvero il 21,3% del totale mondiale (e una crescita nell’ultimo decennio pari al 217%). Seguono gli Stati Uniti, con 4.308 TWh di energia elettrica consumata (ed una quota pari al 19,6% del totale) e il Giappone, con 1.104 TWh consumati (e una quota pari al 5% del totale). Globalmente, solamente il 30% dell’energia che viene consumata per produrre energia elettrica viene effettivamente utilizzata sotto forma di energia elettrica, mentre il 70% viene dispersa nei processi di conversione e distribuzione (vedi Grafico 11). Ad esempio, secondo l’EIA, una centrale a carbone è in media efficiente al 38% e questo significa che poco più di 1/3 dell’energia contenuta nel carbone viene effettivamente convertita in energia elettrica, mentre il resto si disperde nell’atmosfera. Ma occorre inoltre aggiungere le perdite


della rete di distribuzione elettrica – che secondo l’EIA nel 2009 erano pari all’8,82% dell’energia elettrica prodotta mondialmente – e l’uso poco efficiente che viene fatto dell’energia elettrica (una lampadina ad incandescenza utilizza solamente il 5,5% dell’energia che le viene fornita dalla rete per l’illuminazione, il restante 94,5% viene disperso sotto forma di calore).


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