Santa madre Russia anteprima

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FABRIZIO DI ERNESTO

SANTA MADRE RUSSIA Putin e il ritorno di Mosca sullo scacchiere internazionale

Fuoco Edizioni


Š Fuoco Edizioni - www.fuoco-edizioni.it Stampa Universal Book - Rende (CS) 1^ Edizione Maggio 2015 ISBN 97-88899301-06-4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.


A Federico, con l’augurio che si adoperi sempre per ricercare la verità dei fatti senza fermarsi alle apparenze o al sentito dire


Map of the Russian Empire (map 1), Atlas of the Russian Empire, St. Petersburg (1792), Russian State Library.


Introduzione

Chiamato a commentare la fine dell’Unione Sovietica, avvenuta circa quindici anni prima, nel 2005 il presidente russo Vladimir Putin la definì la più grande catastrofe geopolitica del secolo. Queste parole rendono l’idea del sentimento di rivalsa che anima i russi e che in qualche modo spiegano anche la politica, spesso spregiudicata, messa in atto dall’inquilino del Cremlino per recuperare il prestigio perduto e riportare la Russia nel novero delle superpotenze mondiali. Nell’ultimo decennio del secolo scorso l’azione combinata di Michail Gorbaciov e Boris Eltsin portò, come vedremo meglio nelle pagine che seguono, la Russia a toccare il punto più basso della sua storia millenaria. Venne sciolto il PCUS e organizzata con i giovani economisti Egor Timurovič Gajdar e Anatolij Borisovič Čubais la celebre “terapia shock” che consisteva in una serie di liberalizzazioni economiche seguite dalla privatizzazione delle aziende di stato. L’Occidente plause, ma le conseguenze interne furono di un’estrema violenza sociale. Delle riforme beneficiarono i cosiddetti “oligarchi russi” (persone, gruppi e banche vicine al potere) e le società straniere in grado di offrire capitali immediati, mentre parallelamente esplose la corruzione, la criminalità organizzata e il divario tra ricchi e poveri. Lo statunitense Zbigniew Brezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, definì la Russia post-comunista “una nazione vinta”. L’impoverimento generalizzato della popolazione sembrava non dare un futuro al Paese, se non quello di essere completamente assoggettato, sia economicamente che politicamente, ai rivali d’Oltreoceano che, dopo aver sconfitto l’URSS, volevano annientarla una volta per tutte onde evitarne una possibile rinascita. Paradossalmente a salvare Mosca fu, però, proprio Boris Eltsin, il quale nominò come suo erede politico l’allora semisconosciuto Vladimir Putin, capo del FSB (una delle agenzie che succedettero al KGB, i servizi segreti sovietici), successivamente negli anni protagonista della rinascita nazionale e leader indiscusso della Russia contemporanea. 5


La frantumazione del potere centrale connesso ai Soviet, che per settant’anni avevano diretto dall’alto delle loro burocrazie, nazioni molto diverse tra di loro, non solo aveva provocato un vuoto di governo, ma soprattutto lasciato allo sbaraglio dei Paesi che non nascondevano l’intenzione di staccarsi dalla “Comunità degli Stati Indipendenti” (CSI), l’erede poco fortunata dell’Unione. Nel 1998, verso la fine del mandato presidenziale di Eltsin, un’indagine del Vsyerossiǐskiǐ tsentr izučenija obščestvennogo mnenija – VTsIOM (il Centro russo per l’analisi dell’opinione pubblica) riferiva che oltre la metà della popolazione riteneva la disgregazione della Federazione, un’eventualità “molto reale”, e stabiliva perfino una graduatoria tra i candidati all’uscita, nel seguente ordine: Cecenia (26%); Caucaso del Nord, nel suo insieme (21%); Estremo Oriente russo, Primorskij kraj e Sakhalin (8%), Daghestan (7%).1 La fine dell’URSS aveva azzerato anche tutta la grandezza della Russia; Mosca, dopo aver per decenni determinato la vita degli Stati limitrofi, a volte con metodi autoritari, si ritrovava in una posizione subalterna che per molti risultava difficile da accettare. In meno di un decennio ci fu un brusco ridimensionamento a livello economico, politico e strategico. Ad impoverire le casse statali era stato soprattutto il tracollo del settore energetico, che per anni aveva permesso al sistema comunista di sopravvivere, tracollo dovuto a tutta una serie di fattori contingenti: la scarsità di capitali, assolutamente inadeguati agli investimenti richiesti nei giacimenti già parzialmente sfruttati e la caotica frammentazione e privatizzazione del settore petrolifero che, segnato negativamente dall’inaffidabilità dei nuovi amministratori, aveva subito danni ingenti. Tutti questi fattori uniti all’impreparazione, spesso funzionale agli interessi occidentali, dei nuovi oligarchi avevano permesso così agli Stati Uniti di inserirsi in un’area, quella caucasica e centro-orientale, storicamente sotto influenza russa. L’obiettivo era quello di togliere alla Russia sia il petrolio che il gas (principali fonti di sostentamento), oltre a quello di installare basi militari di controllo in Asia centrale. Queste vicende però furono solo le conseguenze più estreme di un processo abbastanza lento. Il crollo dell’Impero sovietico non avvenne da un giorno all’altro; da molti anni c’erano stati segnali 1

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Introduzione

che indicavano il formarsi delle prime crepe nei Soviet, senza contare i campanelli d’allarme che avevano iniziato a suonare esternamente. In Polonia l’azione combinata della Chiesa cattolica, guidata in quel momento da Karol Wojtyla (Papa Giovanni Paolo II), ed il sindacato Solidarność di Lech Walesa, stava creando una frattura sempre più marcata con Mosca, facendo da corridoio alle tante “rivoluzioni democratiche” d’Oltrecortina che una dopo l’altra avrebbero spazzato via i gerarchi comunisti per dar vita a nuove forme di governo. Perfino nella sfera d’influenza atlantica i segnali del crollo del comunismo erano lampanti, in Italia il Partito Comunista, il più forte partito di sinistra in Europa insieme a quello francese, adottò una nuova identità di stampo socialdemocratico e meno legata all’ortodossia sovietica. Se il passaggio di consegne tra Gorbaciov e Eltsin fu accolto con sostanziale favore dalla comunità internazionale, ben più traumatico fu il clima che portò all’ascesa di Vladimir Putin, all’inizio considerato quasi un prestanome di un presidente con evidenti problemi alcolici ed alle prese con noie giudiziarie. Accolto con diffidenza e superficialità quest’ultimo si è rivelato invece nel tempo un vero e proprio animale politico che ha saputo sviluppare una visione sovietica della democrazia, essendo lui nato e cresciuto nel pieno dell’Unione. Non è un caso infatti che i governi occidentali lo abbiano considerato, come tuttora del resto, un dittatore “soft” o, nel migliore dei casi, un presidente autoritario avverso ad ogni forma di libertà individuale. L’obiettivo ambizioso di questo saggio è quello di ripercorrere la storia recente della Russia ed analizzare nel dettaglio la figura di Vladimir Putin, provando a capire se le accuse mosse contro di lui dal mondo occidentale siano credibili oppure strumentali ai propri interessi. Gli strateghi di Washington cercano da anni di convincere l’opinione pubblica che Mosca sia sempre più orientata verso un ritorno ad un sistema politico di tipo sovietico sotto il comando di Vladimir Putin, il quale sembrerebbe voler rispolverare dagli armadi della storia valori e istituzioni passate ormai di moda per plasmare una nuova ideologia patriottica più in linea con il terzo millennio. Già nel 2000 Putin aveva recuperato l’inno sovietico, pur cambiandone il testo, e restituito all’esercito le bandiere e le stelle rosse dei tempi dell’URSS. Nel 2013, inoltre, il Cremlino ha riesumato l’ambita onorificenza di “eroe del lavoro”, realizzato un manuale di storia unico 7


nel quale viene esaltata la figura di Stalin, personaggio ancora molto popolare tra i russi, e manifestata la volontà di ripristinare l’uniforme scolastica, segno questo dell’egualitarismo comunista. E sempre nel tentativo di recuperare la vecchia grandezza, di recente, ha riportato la ex Repubblica autonoma ucraina di Crimea nella comune casa russa, attraverso una campagna patriottica caratterizzata dal nastro nero-arancio di San Giorgio (quello della vittoria sui nazisti, vale a dire il momento storico più alto raggiunto dall’Unione Sovietica nella sua esistenza). Su queste basi sono arrivate le accuse dell’opposizione interna al Paese che in questi anni, attraverso operazioni mediatiche organizzate da figure controverse come quelle delle cantanti punk Pussy Riot o degli oligarchi russi, al centro di fosche vicende giudiziarie, non sono riuscite a screditare il presidente Putin agli occhi dei suoi cittadini. Pertanto il nazionalismo sembra di fatto un elemento sempre più determinante della politica del Cremlino. Fin da subito esso ha favorito il ritorno di questi simboli famigliari per far rivivere gli anni della Superpotenza russa e far rinascere l’orgoglio patriottico, entrando quindi in contrasto con un Occidente via via sempre più orientato verso quella globalizzazione economico-culturale che tende a mettere questi aspetti in secondo piano, dandogli perfino delle connotazioni negative. Indubbiamente Putin fa leva su una nostalgia dell’Unione Sovietica diffusa in ampi strati della società russa, ma allo stesso tempo sembra esserci la consapevolezza dell’impossibilità di far resuscitare ormai la Repubblica dei Soviet. Tra luci e ombre, la figura di Vladimir Putin emerge oggi in un mondo monopolare destinato col tempo a crollare. Putin è la Russia e non si può capire il Paese senza conoscere la persona.

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PARTE PRIMA Dall’URSS alla Russia: il quadro storico-politico

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Capitolo Primo - Gorbaciov e la trasparenza di un fallimento

Quando l’11 marzo 1985 Michail Gorbaciov divenne Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, la Russia era ormai un gigante coi piedi d’argilla. Politicamente ed ideologicamente il Paese era sempre più isolato, l’internazionalismo dell’ideologia comunista risultava fallimentare e all’interno della stessa classe dirigente sovietica non vi era più un blocco monolitico, ma si stavano facendo strada giovani ambiziosi portatori di nuove idee e soluzioni alternative. Nonostante le obiezioni dei “grandi vecchi” era sempre più diffusa la consapevolezza della necessità di cambiare e di innovare nella speranza di ridare prestigio internazionale al Paese e invertire la china discendente anche dentro i propri confini dove il malcontento popolare cresceva giorno dopo giorno. Piani quinquennali e gestione delle risorse dall’alto avevano dato i loro frutti per un certo periodo: alla fine degli anni Settanta, mentre gli Stati Uniti subivano le fallimentari presidenze di Ford e Carter, l’URSS era diventata, con molte probabilità, la più grande Potenza del mondo. Tuttavia dopo quei successi, le dinamiche nazionali ed internazionali cambiarono non appena Oltreoceano venne eletta alla Casa Bianca una celebrità di Hollywood prestata alla politica con l’ossessione di annientare quello che lui stesso arrivò a definire l’Impero del male: Ronald Reagan. Negli anni Ottanta la situazione precipitò; l’economia interna aveva smesso di crescere; gli indicatori denunciavano una società stagnante in cui le condizioni di vita erano immobili da almeno un decennio. Le previsioni di breve termine risultavano drammatiche: mentre il Blocco occidentale aveva sfruttato la grande crisi petrolifera degli anni Settanta per rinnovare le varie attrezzature industriali e accelerare il passaggio alle nuove tecnologie, l’URSS era rimasta ancorata ai vecchi sistemi ormai poco funzionali e del tutto inadeguati.2 Nel 1990 la popolazione attiva sovietica era così ripartita nei tre settori economici: 19% di addetti all’agricoltura, 39% all’industria e 42% al terziario. Se si confrontano

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All’interno la situazione era sempre più deficitaria. La quasi totalità della popolazione viveva in condizioni di estrema povertà e non solo per gli standard occidentali. La popolazione stanca di questa situazione vedeva sempre più con disappunto i politici di professione che ai livelli medio-alti riuscivano a condurre vite di gran lunga migliori di quelle della massa. L’industria era bloccata e non riusciva a competere con i ritmi dei Paesi filo-atlantici: le infrastrutture erano obsolete, i servizi mediocri, tutto il processo produttivo era rallentato ed ostacolato dall’eccessiva prevalenza dell’industria pesante su quella leggera. Gli impianti inoltre erano ormai vetusti ed anche i materiali non erano certo i migliori reperibili sul mercato. In questa situazione di forte disagio alcuni agenti esterni, tutt’altro che disinteressati, trovarono terreno fertile per corrompere il regime sovietico e disseminare il malcontento della popolazione. Nonostante ciò per quasi tutti gli Anni ’80 il Cremlino riuscì a gestire, non senza difficoltà, la situazione interna anche se l’azione logorante di Washington si faceva sempre più pressante. Tra la fine degli Anni ’70 e gli Anni ’80 tuttavia ipotizzare il crollo di Mosca ed il trionfo di Washington appariva un azzardo, anche questi dati con quelli del 1960 la modificazione risulta profonda, in quanto in quell’anno quasi il 40% dei lavoratori era addetto all’agricoltura, il 33% all’industria e il 27% al terziario. La crescita economica del Paese, mantenutasi elevata per molti decenni, verso la fine degli anni Sessanta registrò un rallentamento e poi, alla fine degli anni Ottanta, una vera e propria stasi, delineando una situazione di crisi economica di vaste proporzioni. Le difficoltà dell’economia sovietica furono dipese dall’inefficacia della pianificazione centralizzata e da un’ulteriore serie di elementi negativi quali la scarsa qualità dei prodotti, gli sprechi nella produzione, la presenza di una manodopera spesso demotivata al lavoro, la lentezza con cui le scoperte scientifiche erano applicate alla produzione, l’arretratezza tecnologica in alcuni campi, la corruzione ed una vasta economia sommersa. Dall’inizio degli anni Ottanta e ancor più nel periodo di Gorbaciov (198591) si è tentato di riformare gradatamente il sistema economico. Ci si è resi conto che la “sfida” in campo economico con l’Occidente era persa e che la potenza dell’URSS nel mondo non era più sostenibile economicamente. Gli alti costi della presenza dell’Armata Rossa all’estero, la costosissima sfida tecnologica con gli USA in campo militare e aerospaziale, i finanziamenti e le materie prime a basso costo fornite ai Paesi “amici” hanno inciso sulla scelta di ridurre le spese per l’affermazione della politica di potenza nel mondo e per orientarle verso l’interno. Da: Enciclopedia Italiana Treccani, V Appendice (1995), XXXIV, p. 816; App. I, p. 1098; II, II, p. 1065; III, II, p. 1043; IV, III, p. 754. http://www.treccani.it/enciclopedia/ urss_%28Enciclopedia_Italiana%29/

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Gorbaciov e la trasparenza di un fallimento

all’interno degli stessi confini statunitensi, ma in pochi anni molto era cambiato nel mondo, specie Oltreoceano. L’ex attore e sindacalista dell’Illinois in principio non sembrava in grado di sostenere il peso dell’incombenza, infatti pochi giorni dopo l’inizio del suo mandato, per la cronaca il 30 marzo 1981, fu vittima di un attentato, il modo in cui però si riprese in appena tre mesi fece aumentare non solo la sua popolarità ma anche la sua stessa autostima. Lì iniziò di fatto la sua presidenza e la sua sfida all’URSS e per farlo non badò a spese. Impresse un deciso aumento alle spese militari arrivando a ventilare per primo il progetto delle “Guerre stellari”, idea poi ripresa anche dai suoi successori alla Casa Bianca; l’accelerazione americana sugli armamenti costrinse la controparte a fare lo stesso. Il Cremlino però non potendo sostenere le spese necessarie per rimanere al passo con i tempi pagò conseguenze pesantissime a livello economico e sociale. Se ad Ovest Reagan dava il meglio di sé e stava facendo rinascere l’America, ossessionando i suoi cittadini con i concetti di democrazia, libero mercato, ricchezza e superpotenza, a Est la classe politica sovietica aveva già iniziato il suo declino; Konstantin Černenko, Jurij Andropov e Leonid Breznev erano politicamente vecchi e superati, pur non avendo preso parte, per ovvi motivi anagrafici, alla Rivoluzione d’Ottobre, durante la Seconda Guerra Mondiale erano nel pieno della loro maturità ed avevano quindi sviluppato quel modo di pensare che avrebbe poi condizionato tutta la Guerra Fredda. In questo quadro l’ascesa al potere di Gorbaciov prese tutti alla sprovvista. Il mondo non ne aveva praticamente mai sentito parlare ed anche all’interno rappresentava una novità assoluta. Divenne Segretario del PCUS ad appena 51 anni e contrariamente ai suoi predecessori aveva compiuto studi nel campo dell’agronomia, settore del quale si era precedentemente occupato, e della giurisprudenza. Politico dotato di buone intuizioni e consapevole della realtà internazionale di quegli anni, Gorbaciov ebbe se non altro il merito di capire per primo, soprattutto nel suo Paese, che ormai l’Unione Sovietica stava fallendo e che non avrebbe più saputo o potuto tenere il passo del suo antagonista storico. Sua grande colpa, invece, fu quella di sottovalutare la portata della crisi economica, politica e sociale che il Blocco sovietico stava attraversando, non riuscendo in questo modo a adottare le giuste contromosse, anche se, 13


ad onor del vero, mise in campo varie misure di contrasto, tutte però insufficienti. Spinto dagli USA sull’impervio terreno del riarmo militare, in un primo momento continuò la politica dei suoi predecessori in questo settore, tanto che, per sua espressa volontà, nel 1986 le spese furono perfino aumentate, ma questo fu più che altro un fuoco di paglia, dal momento che di lì a poco sarebbe sceso a patti con “il nemico”. Impossibilitato a tenere le uscite statali a quei livelli di spesa (a metà degli Anni ’80 l’URSS dedicava alle spese militari tra il 20 ed il 30% del PIL, contro circa il 7% degli USA)3, ben presto firmò trattati militari che, non solo certificavano la superiorità americana ma che, a conti fatti, si rivelarono delle vere e proprie rese incondizionate. Il tutto in nome della glasnost (trasparenza) e della perestrojka (ristrutturazione), anche se, come spesso accade, queste riforme sulla carta avrebbero dovuto avere un peso che poi all’atto pratico fu molto diverso. Gorbaciov, da un lato, non riuscì a sviluppare appieno le sue idee per via dell’opposizione interna immobile su posizioni conservatrici, dall’altro perché non solo mancavano i fondi nelle casse statali, ma anche perché era impossibile reperirli fuori dai confini nazionali. Soprattutto però non ebbe il coraggio di portarle fino in fondo sfidando i vertici del PCUS. Le prime innovazioni che varò furono timide e superficiali. Dapprima avviò una riorganizzazione istituzionale del settore agricolo, quello che meglio conosceva visto che se ne occupava dal 1978; soppresse alcuni ministeri accorpandoli nel Gosprom, l’ennesimo organo centrale della burocrazia sovietica, anche se la sua intenzione era proprio quella di snellire l’obsoleta macchina decisionale per meglio stimolare e orientare la produzione e le industrie di trasformazione. In un periodo in cui Mosca non riusciva a sfruttare le enormi ricchezze del suo sottosuolo investì tutto o quasi nell’agricoltura attraverso il commercio del grano e di altri prodotti agricoli di prima necessità. Se però le 3 Mark Adomanis, 7 reasons that Russia is not the Soviet Union, Forbes, 31 December 2013. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute data base, tra gli Anni ’70 e gli Anni ’80, l’URSS, nella sua rincorsa all’equilibrio strategico con gli Stati Uniti, si trovò costretta a più che quadruplicare il suo budget dedicato al settore militare, passando dagli 82,2 miliardi di dollari del 1978 ai 371,3 del 1988.

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Gorbaciov e la trasparenza di un fallimento

ricchezze minerarie ed energetiche potevano essere commercializzate in tutto il mondo, l’unico mercato per le merci agricole russe era rappresentato dai Paesi del Blocco sovietico che, già avviati anche loro verso la crisi che li avrebbe travolti, non potevano sostenere il sistema di interscambio comunista.4 Sistemata, o almeno così credeva Gorbaciov, l’agricoltura l’azione riformatrice si spostò nel campo industriale. L’unica innovazione degna di nota fu però quella di istituire un servizio ispettivo sulla qualità della produzione; qualora le imprese non avessero rispettato gli standard decisi a tavolino avrebbero subito pesanti sanzioni e, in casi estremi, perfino venire chiuse. Se all’interno i frutti delle sue riforme tardavano ad arrivare, all’esterno il suo operato accelerò il declino sovietico. Nell’ottobre del 1986, in Islanda, Gorbaciov incontrò il primo mandatario di Washington per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa. Come stabilito in quel vertice, pochi mesi dopo fu stipulato e firmato il trattato INF sull’eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio nel Vecchio Continente e, in segno di distensione verso gli USA, ritirò le truppe sovietiche dal pantano afgano. Mentre nei confini sovietici montava il malcontento nei confronti dell’operato di Gorbaciov, la comunità internazionale lo plaudeva, anche se il suo atteggiamento appariva ambiguo, da una parte infatti auspicò il rilancio dell’organizzazione economica multilaterale degli Stati comunisti, mentre dall’altra avanzò la candidatura dell’URSS al GATT, l’accordo generale sulle tariffe e il commercio, e avviò negoziati per stingere accordi con la Comunità economica europea, oggi UE. Nonostante le tante riforme e le numerose aperture alla comunità internazionale però la crisi interna al sistema comunista non rallentava. In questo quadro nel 1988 Gorbaciov decretò di fatto la fine dell’Impero sovietico dichiarando decaduta la Dottrina Breznev, o dottrina della sovranità limitata, per la quale nessuna nazione dell’Europa orientale Dal 1949 al 1991 fu attivo il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON) con sede a Mosca. Questa era un’organizzazione economico-commerciale degli Stati comunisti e riuniva Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, Romania, Polonia, Cuba, Mongolia e Vietnam. I rapporti commerciali tra i Paesi del Blocco avvenivano primariamente con scambi di merci, senza l’intermediazione di pagamenti monetari.

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poteva uscire dal Patto di Varsavia. A preoccupare Gorbaciov, e i russi, era l’economia che ristagnava e non dava segni di ripresa ed ogni misura messa in campo appariva fallimentare. A quel punto resosi conto dell’inattuabilità del sistema statalista fuori dai confini del Patto di Varsavia si convinse di poter portare l’URSS verso il liberismo e il capitalismo. In campo economico fin dal suo insediamento era stato chiaro: la perestrojka avrebbe cambiato il sistema, anche introducendo elementi propri del libero mercato. Gradualmente il rublo si sarebbe dovuto trasformare in moneta convertibile e il mondo del lavoro sarebbe stato totalmente liberalizzato tramite la formazione di un settore privato delle professioni e delle attività artigianali e un sistema di agevolazioni per la creazione di imprese cooperative. Lo Stato avrebbe continuato ad emanare i piani quinquennali che però sarebbero stati meno rigorosi; i prezzi, non più stabiliti dalle autorità, avrebbero fluttuato in base ad una logica di mercato che i russi non avevano mai sperimentato prima. La liberalizzazione del mercato ebbe però conseguenze negative nel settore agricolo che era quello che stava permettendo a Mosca di rimanere a galla. L’indebolimento del ruolo, fino a quel momento monopolista, dello Stato e la possibilità di cedere in affitto gli appezzamenti delle fattorie collettive a famiglie contadine provò a far nascere una piccola fascia di contadini-imprenditori, anche se la riforma escludeva tassativamente la proprietà privata. A vanificare il tutto fu la decisione di abolire la tradizionale consegna obbligatoria allo Stato di derrate agricole. Ora gli agricoltori avevano frutta e verdura da vendere, ma mancavano i russi che potevano permettersele non avendo denaro a disposizione. Il sistema non resse perché fallì il perno attorno a cui ruotava tutta la perestrojka, ovvero la legge sull’autonomia delle imprese statali varata nel giugno 1987, con la quale si obbligavano le imprese ad amministrarsi secondo i criteri del calcolo economico e di provvedere con i propri redditi alla gestione. All’interno di queste norme che Gorbaciov definì “socialismo di mercato” si tentò di introdurre anche il primato della pianificazione privata su quella statale e l’elettività della classe dirigente delle imprese senza però aver prima preparato i russi ad utilizzare questi strumenti. Non più dirette in modo ferreo dallo Stato, le imprese iniziarono a barcollare, le Repubbliche sovietiche e le varie regioni immagazzinavano 16


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materie prime e merci e trattenevano sul proprio territorio ciò che veniva prodotto senza avere un mercato a cui rivenderle. Si innescò una spirale inflattiva tra salari e prezzi che tolse ulteriore potere d’acquisto alle famiglie, beni di prima necessità divennero irreperibili su molti mercati con lo Stato che non riusciva più a distribuirli, il mercato nero impazzava più di prima arrivando a livelli mai toccati ed alcune aziende arrivarono perfino a praticare il baratto tra di loro. Se l’economia sovietica uscì distrutta dalla cura Gorbaciov, ben più tragiche furono le conseguenze della sua opera riformatrice in campo politico, anche se la scelta più sciagurata e gravida di conseguenze fu sicuramente la decisione di separare il partito dallo Stato. La nomenclatura che fino a quel momento aveva comandato sull’URSS, il PCUS e i partiti comunisti sparsi per il mondo, vide drasticamente ridotto il proprio potere ed entrò in aperto contrasto con lui. Venne rivoluzionato il sistema elettorale con l’introduzione di una nuova assemblea, il Congresso dei Deputati del Popolo, dotato di poteri enormi, composto da oltre 2.200 rappresentanti; un terzo dei quali designato direttamente dal partito e dalla sua organizzazione giovanile, mentre gli altri due terzi eletti in collegi uninominali sulla base di candidature plurime e non più singole come in passato. All’interno di questa assemblea sarebbe poi stato scelto un nuovo Soviet supremo di oltre 500 membri, che avrebbe rappresentato il nuovo Parlamento. Tra il 1989 ed il 1990 il nuovo sistema politico entrò in vigore e, sia a livello nazionale che locale, molti furono i notabili comunisti battuti da peones o personaggi di secondo piano, segno evidente della volontà dei russi di lasciarsi alle spalle il passato e provare finalmente qualcosa di diverso. Su espressa volontà di Gorbaciov fu abolito l’articolo 6 della Costituzione che imponeva il sistema del partito unico ed autorizzata la formazione di nuove aggregazioni politiche e sindacali. Cambiò assetto anche il vertice dell’Unione con la creazione della carica di presidente dell’URSS, ruolo che fu subito ricoperto da Gorbaciov, circondato da un Consiglio presidenziale e da uno federale. Questa mossa però indebolì ulteriormente il ruolo e l’influenza del partito nello Stato. A tal proposito l’intenzione del presidente apparve chiara: effettuare un passaggio di potere graduale dal partito alle amministrazioni continuando però a dirigere lui stesso dall’alto questa delicata fase di transizione. In linea puramente teorica al declino del partito come centro 17


e custode di ogni potere ci sarebbe dovuta essere una forte autorità a capo dello Stato, soprattutto per mantenere l’unità dell’Unione Sovietica e garantire l’applicazione delle riforme, un progetto che però lui stesso non fu in grado di realizzare e che sarebbe riuscito solo a Putin anni più tardi. Il Paese stava cambiando molto ed anche velocemente, ma la situazione per i russi non migliorava, anzi la povertà aumentava ed il malcontento verso il regime era sempre più marcato, il Muro di Berlino era caduto pochi mesi prima, inoltre Gorbaciov vedeva aumentare ogni giorno il numero dei suoi antagonisti. L’opposizione dei vertici del partito al segretario si manifestò apertamente durante il XXVIII Congresso del PCUS, del luglio 1990, che, oltre a numerose piattaforme politiche alternative a quella ufficiale, presentò ai russi ed al mondo un personaggio che di lì a poco avrebbe recitato un ruolo cruciale nella storia del Paese: Boris Eltsin. Qui il futuro presidente si fece portavoce delle istanze democratiche di più parti sostenendo la necessità di attuare ulteriori trasformazioni politiche più rapide ed incisive rispetto a quelle varate fino a quel momento. Da allora iniziò un braccio di ferro tra Gorbaciov e Eltsin che si concluse con la vittoria del secondo. Il presidente, pur davanti ad un Paese affamato e ad un Blocco sovietico che si stava sgretolando sotto i suoi piedi, si ostinava a non cedere. Per anni aveva sminuito il ruolo del partito nello Stato e della sua stessa carica ed ora ne pagava le conseguenze venendo incalzato dai vertici del PCUS e da giovani politici in cerca di visibilità che uscivano dal partito per fondare una propria formazione oppure cavalcavano il malcontento popolare all’interno della sua stessa compagine. Liberismo era la parola d’ordine per organizzare la nuova unione dei Soviet. Tutti erano diventati riformisti ed esperti di economia. Il copione delle proposte di Gorbaciov era sempre lo stesso: liberalizzazioni e privatizzazioni da realizzare in cinquecento o perfino in quattrocento giorni. La situazione però era così compromessa che solo misure drastiche ed impopolari avrebbero potuto in parte risolvere i problemi, ma chiunque le avesse applicate si sarebbe trovato contro tutta la popolazione. L’URSS all’inizio degli Anni ’90 era un Paese senza più identità. Le riforme di Gorbaciov avevano sì smantellato l’impianto comunista della società, ma non erano riuscite a creare nessun sistema 18


Gorbaciov e la trasparenza di un fallimento

in grado di sostituirsi a questo. Il passaggio ad un’economia diversa si era rivelata fallimentare. Mancava un qualsiasi mercato interno e soprattutto erano venuti meno quegli strumenti statali che, nel bene e nel male, per settant’anni avevano permesso ai cittadini di sopravvivere ed avere di che sfamarsi. A rendere il quadro ancora più desolante furono le tante rivoluzioni che una dopo l’altra stavano spazzando via i regimi comunisti sparsi nell’Est europeo togliendo a Mosca mercati e merci. Tutta questa combinazione di fattori aveva reso Gorbaciov sempre più isolato, non solo all’interno del suo Paese, ma anche all’esterno, dove gli Stati Uniti stavano aspettavano impazienti l’oramai inesorabile caduta dello storico nemico. La sua sconfitta fu formalizzata durante il 17° Summit del G7 del luglio del 1991 a Londra quando la maggioranza dei Paesi riuniti, guidati da Washington, si rifiutò di concedere crediti all’URSS che li stava quasi elemosinando nella speranza di riuscire con questi a tamponare la crisi interna e rinviare un fallimento difficilmente evitabile. In quell’occasione Gorbaciov giocò tutte le sue carte, elencò i presunti risultati raggiunti nel campo delle riforme politiche e istituzionali per dimostrare come l’Unione Sovietica avesse ormai imboccato la strada della democrazia e dei diritti umani; ricordò come la smilitarizzazione dell’economia e la riconversione industriale della difesa fossero in avanzata fase di attuazione, ma non ci fu nulla da fare: l’Occidente aveva deciso che l’URSS doveva cadere. Senza quel prestito per il Paese, nel frattempo trasformatosi in Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, fu la fine, uno ad uno Gorbaciov perse rapidamente i suoi più stretti collaboratori finché la situazione precipitò. Tra il 19 ed il 21 agosto 1991, mentre il plenipotenziario di Mosca tentava di cambiare ancora nome all’URSS per dare all’estero un’immagine di efficienza e democrazia, fu trattenuto in Crimea dai vertici del PCUS timorosi per le ripercussioni che la politica del Segretario stava avendo nel Paese. Fu un vero e proprio colpo di Stato organizzato dai golpisti per salvare il regime e il Paese anche se le conseguenze furono opposte. In quelle ore concitate Gennadij Janaev, vice presidente dell’URSS, prese possesso della televisione e della radio. La popolazione però, specie a Mosca e Leningrado, manifestò contro i golpisti e si mise al fianco delle forze armate, a sorpresa rimaste fedeli a Gorbaciov. A quel punto andò in scena il capolavoro 19


politico di Boris Eltsin, nel frattempo divenuto presidente della nuova entità federale. Prese in mano la situazione e sfidò apertamente gli insorti, organizzando e guidando la resistenza dalla Casa Bianca, la sede del Parlamento russo. Per arringare la folla salì su un carro armato e condannò a viva voce gli eventi. Nell’occasione l’uomo di Butka diede un’immagine di forza e sicurezza che non riuscì più a replicare in seguito, ma che nell’immediato rafforzò la sua posizione agli occhi dell’opinione pubblica. Un assalto all’edificio del Parlamento programmato dal Gruppo Alpha, le forze speciali del KGB, fu annullato quando le truppe si rifiutarono unanimemente di eseguire l’ordine. Un’unità di carri armati disertò dalle forze del governo e si pose in difesa del Parlamento con le armi puntate verso l’esterno. Dopo due giorni di scontri per le strade, il 21 agosto, la quasi totalità delle truppe presenti a Mosca si schierò definitivamente con Eltsin ed il golpe fallì miseramente. Gorbaciov era salvo, ma il vero vincitore era il suo rivale che di lì a poco avrebbe raccolto i frutti del suo successo. Ritornato nella Capitale solo grazie alla protezione di Eltsin, Gorbaciov rassegnò le proprie dimissioni da Segretario del PCUS, mentre il 25 agosto Boris Eltsin, con il decreto n. 90, nazionalizzò le proprietà del Partito Comunista, non solo sedi e comitati di partito, ma anche istituzioni educative, hotel e circoli vari. Il successivo 6 novembre con il decreto n. 169 ogni attività del PCUS in Russia fu dichiarata terminata e messa fuori legge. Ai primi di dicembre i più alti rappresentanti di Russia, Ucraina e Bielorussia si incontrarono nella Belavezskaja pusca, tra Bielorussia e Polonia, per firmare l’accordo che dichiarava finita l’URSS e la sua sostituzione con la Comunità degli Stati Indipendenti. Il 25 dicembre 1991 Gorbaciov si dimise da presidente della disciolta Unione Sovietica e tutti i poteri passarono al presidente russo Eltsin. Alle 18.35, alla presenza di pochi curiosi e alcuni giornalisti, quasi tutti occidentali, la bandiera rossa, che da decenni sventolava sul Cremlino, fu ammainata e sostituita con il tricolore russo. Il giorno successivo il Soviet supremo prese ufficialmente atto della dissoluzione dell’URSS stabilendo che entro il 2 gennaio 1992 tutte le istituzioni ufficiali dell’Unione Sovietica avrebbero dovuto smettere di funzionare. Era la fine dell’URSS e la nascita di una nuova Russia, quella che avrebbe toccato il punto più basso della sua millenaria storia. 20


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