Nacqui...

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“Nacqui, ma non mi avvertirono…” Franco Pucci racconti, pensieri e riflessioni

Chioggia, Marzo 2011 1


Senza radici fischiavano pallottole quel mattino senza sosta mia madre alla finestra celata dall’imposta guardava affascinata passare i partigiani il bimbo appeso al seno ben stretto tra le mani mentre lassù regnava ancora lo sgomento le case giù in pianura crollavan di spavento quando tornò la calma cantarono le pernici tornammo giù in città, …non furono radici… nei giorni assolati d’ignara fanciullezza anche la periferia pareva gran bellezza la scuola, l’oratorio le fughe con la bici volavan anni ingordi …non furono radici… 2


e ancora periferia negli anni quasi oro scanditi dalla voglia precoce di lavoro di libertà, di spazio, di nuove emozioni di diritti inalienabili di lotte e di canzoni anni in cui l’amore bussò violentemente e un solo desiderio occupò la mente fu casa assai presto e festa con gli amici ma non durò a lungo, …non furono radici… gli anni che seguirono rincorsero gli affanni paesi e città aliene accolsero i miei panni i fiori che erano nati cresciuti in altri tempi …mettevano radici… non presero esempi e mi domando ancora 3


se poi valse la pena fagocitar la vita, cambiare spesso scena la tournee quando finisce è replica stucchevole spettacolo imbolsito di critiche benevole [sto guardando il mare ormai col fiato corto ho fatto nuovi amici planando qui sul porto forse quando la teca si adagerà sul fondo cresceranno le radici del cuore vagabondo] …forse…

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Franco Pucci Grande sensibilità e profonda ricchezza interiore rendono particolarmente pregiate le liriche dell’autore Franco Pucci, nel suo dispiegare elaborati versi che affrontano gli argomenti più disparati. Risalta nel poeta una spiccata emotività in grado di trasmettere osservazioni non comuni, basate su elevata predisposizione a cogliere i più impercettibili particolari del contorno e delle sfumature che da esso derivano, in un mix di empatici motivi fortemente dinamici. Si nota inoltre, nel suo scrivere, un nostalgico ritorno ad attimi del vissuto, che sottolineano l’importanza di affetti essenziali e il fascino di certezze sentimentali, acquistate nel corso del tempo che passa,senza tralasciare, accenti di mirata consapevolezza, che donano ancor più tono, a saggi dell’anima. Un lessico elegante e particolarmente creativo elargisce alle poesie dell’autore una preziosità da non trascurare, immersa spesso in temi originali, che affronta con molta semplicità e con espressioni argute e spontanee. Considerazioni interessanti e mai banali rendono gli elaborati del Pucci di particolare risalto e rappresentano spunti di riflessione su cui soffermarsi con profonde meditazioni. Grande significato assumono i versi immersi 5


nell’acqua e nel cielo della sua Chioggia…in quel percorso lagunare, ricco di chiaroscuri e intensi contrasti ove inebrianti sensazioni dell’anima rappresentano meta importante di suggestive creazioni poetiche. Non tralascia l’autore, ricco di una personalità costruttiva e assai brillante, di soffermarsi su validi brani letterari, che confermano ottima apertura mentale, proprietà di linguaggio e raffinata intellettualità. Franco Pucci con il suo estroverso porsi ci presenta elaborati davvero efficaci che è un piacere leggere ed apprezzare per il loro valido contenuto. Silvia De Angelis

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Nacqui, ma non mi avvertirono. Sono nato a mia insaputa in un paesino della bergamasca, poiché quando Milano seppe delle intenzioni dei miei, pensò bene di farsi bombardare dai tedeschi. Potevano avvertirmi, però! Avrei sicuramente optato per Parigi o che so, messo alle strette, anche Sannazzaro de’ Burgundi sarebbe andato bene. Fu per questo mio essere Bastian contrario che fui ribattezzato subito “il rompicoglioni della Val Brembana”. E dire che non ho mai visto né visitato il mio paese natio, né mi sono mai peritato di farlo. Non avevano chiesto la mia opinione. Forse sottoposto a tortura avrei accettato proponendo una mediazione: modificare il nome del paese da Zogno in “Sogno”. Ma non fu così. Ergo io mi considero non nato. Mi ribello alla sola idea. Ho sempre discretamente evitato qualsiasi esibizione di documenti che comprovassero il ferale evento, ma non sempre ci sono riuscito e così cado spesso in depressione a seguito di crisi acute di identità. Lascio crescere compiacente una selvaggia e folta barba pur di evitare il confronto mattiniero con lo specchio che inevitabilmente mi riproporrebbe la crudele domanda: chi sei? No, non sei, non ti conosco, non sei mai nato, per cui non esisti. Così anche 7


adesso dopo tanti anni fatico ad accettare il fatto compiuto. Con la discutibile saggezza dei vecchi sono arrivato a una conclusione: c’era la guerra, i miei avevano fretta e nel marasma pensarono bene di “portarsi avanti coi lavoriâ€? e si dimenticarono di chiedere la mia opinione. Cazzo, potevano avvertirmi, però!

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A media luz Era da tempo che non scambiavo quattro chiacchiere con lui. Saranno vent’anni. Ci siamo ritrovati per un aperitivo a Milano, alla Bodeguita del Medio, le gambe allungate sotto un tavolino, davanti a noi due ottimi Daiquiri. Anche lui, come me, adora questo locale, dove si beve un ottimo Rum e si può apprezzare la cucina cubana, fatta di piatti poveri ma saporitissimi. Abbiamo ricordato i tempi della Milano anni ‘60/70, abbiamo parlato di donne e canzoni. Atmosfere di allora, entrambi amanti del cabaret, ci siamo inteneriti al ricordo dei Gufi, di Gaber e di Jannacci. Abbiamo fischiettato insieme “Luci a San Siro” e abbiamo finito con il classico e ormai desueto “Quelli sì erano giorni”! Poi, dopo aver simpaticamente litigato su chi dovesse pagare il conto, lui si è alzato e con fare deciso si è diretto verso la cassa ridendo “Pago iooooo!”. Non l’ho più visto. Ho atteso invano il suo ritorno. “Signore, il locale chiude - mi ha apostrofato gentilmente il cameriere - il conto l’ha pagato il suo amico”. Mi sono alzato alquanto contrariato ed è stato allora che li ho visti: un paio di splendidi Ray-Ban dimenticati sul tavolino. “Solito distratto - mi sono detto 9


non cambierai mai, sempre con la testa tra le nuvole, lassù, come un Top Gun”! Ho chiuso il cassetto ed ho inforcato i miei Ray-Ban. Mi stanno benissimo. Oggi c’è il sole.

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Alfonso e il verme. Si chiamava Alfonso, ma per noi della Baia Del Re era “el Funsin”, il piccolo. Alto non più di un metro e mezzo, dal fisico gracile, esile come un giunco, brutto da non guardarsi, si atteggiava a “ras” del quartiere e noi morivamo dalle risate. Nonostante il fisico non proprio statuario, faceva un mestiere che avrebbe per sua natura richiesto ben altre doti di forza e prestanza: el cervelee, ìl macellaio, traduzione per il volgo ma soprattutto per i non milanesi. Forse per questo aveva mutuato un’espressione di falsa ferocia che lo trasformava in macchietta vivente. Oh, ma ci metteva anche del suo, vestendosi come Al Capone, impomatandosi di pessima brillantina i capelli e facendosi crescere quei pochi e radi peli sotto il piccolo naso certamente aquilino che lui chiamava pomposamente baffi. Frequentava, anzi “imponeva” la sua presenza anche nel bar, dove la sera ci si ritrovava per una partita a scopa o a biliardo e spesso noi si evitava di andare al cinema o di fare roccolo per raccontarsi barzellette: bastava dargli spago ed ecco che Funsin prendeva la scena e non la mollava più, fino a notte inoltrata e fino all’ora della chiusura del bar. A questo punto credo 11


sia necessario collocare nel tempo e nel luogo l’aneddoto che sto per raccontarvi. Era il 1969, anno tragico per Milano e l’Italia tutta, e l’episodio si “consuma” esattamente in Via De Sanctis, periferia sud di Milano nella zona anticamente conosciuta come “La Baia Del Re”, per la storica presenza nel quartiere di un noto esponente della mala milanese, chiamato giustappunto il Re. Il bar in questione era proprio all’angolo della succitata via che sfocia nell’Alzaia Naviglio Pavese, dove scorre pigramente uno dei due Navigli di Milano, quello cioè che torna a Pavia dopo aver portato le acque del Ticino a Milano, col nome di Naviglio Grande, ed essersi soffermato nella darsena di Porta Ticinese per poi ripartire. Era dunque, come si diceva, una sera notevolmente nebbiosa e noi tutti si bivaccava nel bar in attesa di decidere come ammazzare la serata: scopa o biliardo? Scelta fondamentale per il proseguimento della serata, quando tutto d’un tratto vediamo aprirsi la porta e apparire tra le spire della nebbia che si intrufolava all’interno, la sagoma imponente (sic… un metro e cinquanta) del nostro. Qui il suo aspetto merita una citazione a parte, poiché è fondamentale per capire il seguito della storia. Cappello alla Borsalino, portato con affettata civetteria sulle ventitré, gessato fumo di Londra, esibito senza 12


alcun timore per il freddo, nonostante fosse Novembre inoltrato, scarpe di vernice nera, baffo tirato a lustro e capelli brillanti come catarifrangenti sotto la luce del locale. Entra e senza profferire parola infila cavalcioni, si fa per dire, una sedia accanto al biliardo e silenziosamente estrae dalla tasca del gessato un coltello a serramanico. A questo punto ci avviciniamo curiosi e alquanto sconcertati per l’atteggiamento, chiedendogli ragione di quel gesto. Al che il nostro, facendo scattare la lama del coltello, inizia con fare strafottente e provocatorio a passare la stessa tra le unghie delle mani, iniziando così un’incredibile, quanto ridevolissima “manicure”! Sollecitato dalle nostre domande e dai nostri sfottò, che immancabili incominciavano a piovere, ci racconta l’accaduto. Si trovava quella sera, un’ora prima dell’arrivo al bar, seduto su una panchina del giardino prospiciente le scuole, in Via Palmieri. Era in compagnia di amici, personaggi conosciutissimi nel quartiere e tutti “titolari” di soprannomi, come d’altronde era usanza e costume, coniati mutuando caratteristiche fisiche o di comportamento dei soggetti. “Funsin”, “Tequila” e “Cavallo Pazzo”, tutti e tre seduti sulla panchina e intenti a giocarsi una proibitissima partita a dadi. Sul terreno l’equivalente di 20.000 Lire di allora. 13


Mentre la sfida si era ridotta a un tete a tete tra Tequila e Cavallo pazzo, il nostro, trovato un bastoncino, giocherellava assorto con un vermetto che, malcapitato, passava da quelle parti. Ma da quelle parti passava anche una gazzella dei carabinieri i quali, notato lo strano movimento nei pressi della panchina, complice il buio e la nebbia incombente, erano apparsi improvvisi alle spalle dei tre pronunciando la famosa frase: “Fermi tutti, documenti! Cosa state facendo?” “Niente, niente risposero i due in coro, una partitina …ci giocavamo i soldi per la pizza…” “I soldi per la pizza? 20.000 lire? Mi volete prendere per il culo? – interloquì il maresciallo – documenti, forza!” Al che impallidendo avevano mostrato i documenti e, ironia della sorte, tutti e tre facevano i macellai. L’incazzatura ed il sospetto dell’ agente aumentò di intensità, così partirono le verifiche di rito via radio. Poi, notando il bastoncino tra le mani dell’Alfonso chiese: “E tu, cosa stavi facendo?” “Io?.. Niente maresciallo, giocavo col verme…” A questo punto il milite non ci vide più, caricò tutti e tre sulla gazzella e li portò in tenenza per gli accertamenti. Alfonso se la cavò con una lavata di capo e con la raccomandazione di essere più accorto nella scelta degli amici da frequentare. 14


Fu a questo punto che il nostro scoppiò in un pianto dirotto, pregando il maresciallo di lasciarlo andare. (Questa la versione di come andarono realmente i fatti quella sera, riferitaci in un secondo tempo da i due protagonisti della partita a dadi multati pesantemente e segnalati alla Questura). “ Ma tu come mai sei già qui, mentre gli altri sono ancora dentro? domandammo. “In questura mi conoscono sono un duro io, mica l’ultimo dei pirla!” fu la risposta dell’Alfonso. Non eravamo sicuri della veridicità del racconto, ma dovemmo abbozzare, d’altronde non riuscimmo mai a recuperare il solo, unico e veritiero testimone dell’accaduto: il verme.

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Appunti di viaggio Sono appena rientrato dal consueto viaggio a cui il mio datore di lavoro periodicamente mi obbliga. Come al solito l’impegno è stato portato a termine con scrupolo e professionalità: i siti visitati non presentavano anomalie o variazioni significative. Il cuore pulsava regolarmente e non vi era alcun sintomo di rigetto dopo l’ultimo trapianto. L’anima era al suo posto, benché tuttora sofferente per le ferite non ancora cicatrizzate. Tutto mi è sembrato terribilmente normale. Solo mi chiedo: questo mio continuo viaggiare dentro me stesso mi viene retribuito con una diaria normale o c’è un’indennità come inviato speciale?

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Cartolina dal fronte Mia cara, io sto bene, tu come stai? E’ tempo che gli ultimi sforzi, affinché il tragitto comune che ci condurrà alla Baia Della Tranquillità venga completato, siano compiuti all’unisono. Finora il nostro incedere bislacco ci ha fatto conquistare pochissime postazioni. Come ben sai il nemico non arretra di fronte ad un ghigno guerresco e una danza traversa da vecchi granchi, nemmeno di fronte all’agitare di chele consunte dal tempo, dobbiamo quindi affilare le armi e perfezionare la nostra strategia. Un maggiore affiatamento nell’incedere verso la meta comune io credo sarà fondamentale per l’attacco finale. Sono ben conscio della difficoltà della nostra impresa e ti scrivo questa cartolina pur sapendo che i tuoi preparativi fervono e sono a buon punto ma, ti prego, affrettati e raggiungimi presto. Il nostro nemico comune, Kronos, non perde tempo, è ben attrezzato e lo scontro si prefigura cruento. Da quassù, dalla mia postazione di avanscoperta, fatico a tenerlo sotto controllo e la tua forza sarà decisiva per sconfiggerlo. Ti attendo con ansia e ti bacio.

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Cenere Non ho rimorso, ho guardato con indifferenza gli ultimi sussulti dei miei ricordi ardere portandosi via tre quarti della mia vita nel fuoco purificatore acceso da un cuore insofferente ai lacci che lo legavano al passato. Anche l’anima ha fatto capolino dal nascondiglio, dove si era rifugiata ed ha assistito agli ultimi spasimi del mucchietto. Fischiettando indisponente ho ramazzato la cenere ed è stato allora che ho visto una piccola fiammella, giovane ma prepotente, ardere ancora incessantemente. Non voleva morire, ho guardato meglio e ho riconosciuto il ricordo cui sbadatamente avevo dato fuoco: l’amore. Come al solito avevo sbagliato tutto, i ricordi fanno parte della vita, puoi dargli fuoco e seppellirli sotto montagne di cenere, ma poi lentamente, ma inesorabilmente ritornano ad ardere, non si spengono mai del tutto. Ho recuperato la cenere e l’ho raccolta in un angolo della mia anima, mi è parsa contenta. So che alla fine torneranno a tormentarmi. Ho deciso: cambierò strategia, li affogherò in un mare di lacrime. Servirà?

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Chi ha ucciso Calimero? L’aria nella stanza si era fatta pesante. L’imbarazzo e la consapevolezza di averla combinata grossa avevano creato una coltre così spessa che potevi tagliarla a fette. L’Art Director e il Copywriter si erano dati alla latitanza occultandosi nello sgabuzzino che ospitava la macchina distributrice di atroci merendine e pessimo caffè. Gli assistenti girellavano tra i tavoli fingendo impegni improvvisi ed improcrastinabili, uno si era addirittura affettato un’unghia con il bisturi mentre stava tagliando carte colorate. Era trasalito alla domanda che il Direttore Creativo aveva posto: Chi ha ucciso Calimero? Ma facciamo un passo indietro, anzi due. Si era agli inizi degli anni sessanta e la pubblicità, come forma di comunicazione, votata soprattutto allo sviluppo della vendita di prodotti, stava mano a mano prendendo piede e, attraverso la televisione, scatola infernale che prometteva mirabolanti panacee universali, stava conquistando un posto importantissimo nella vita di tutti i giorni. Logico pensare che a seguito di tutto ciò sarebbero nate nuove professioni e nuove figure professionali: I pubblicitari. Altrettanta logica e naturale era stata la nascita di 19


Agenzie Pubblicitarie, perlopiù emanazioni di agenzie internazionali, americane soprattutto, che avevano conquistato il cuore della city per elezione: Milano. Erano spuntate come funghi e i duelli all’arma bianca per conquistarsi i clienti con i relativi opulenti budgets erano all’ordine del giorno. Milano nel frattempo stava cambiando pelle, i vecchi quartieri cari a tanta letteratura oleografica dei primi del novecento, piano piano stavano scomparendo per lasciare posto a nuovi insediamenti, perlopiù banche ed agenzie di pubblicità. La televisione nel frattempo aveva conquistato uno spazio sempre più importante nella vita quotidiana e la nascita di un “programmino” tutto dedicato alla pubblicità aveva conquistato dignità e “audience” attraverso la proposizione di filmati che, seppur brevi, raccontavano la pubblicità in forme di spettacolo a volte molto gradevole. Era nato “Carosello”! Tutto cominciò da lì... James si alzò di malavoglia, aveva ancora sonno nonostante avesse dormito otto ore filate dopo la colossale sbronza di pessimo whisky mischiato ad un altrettanto fetido rhum tracannati al Jamaica, storico locale per artisti che trovavi aperto ad accoglierti sino a tardi in 20


via Brera, a due passi dal centro di Milano. Aveva la testa pesante, un alito a dir poco omicida e, nell’attesa di un qualsiasi segno di vita da parte della caffettiera che soffriva sul fuoco, si accese la prima di un’interminabile sequela di sigarette che avrebbe accompagnato la sua giornata avvolgendola costantemente di una nuvoletta di fumo. Marlboro, of course. Stiracchiandosi si avvicinò alla finestra che dava sulla darsena. I barconi carichi di improbabili e misteriose merci erano lì, pronti a risalire il Naviglio per arrivare sino al Ticino, a Pavia. Aprì la finestra e mentre osservava distrattamente questo storico angolo della vecchia Milano, il suo pensiero veleggiò verso la città natia: San Francisco. Sì perché James era americano, uno dei tanti creativi pubblicitari che il provincialismo dei clienti italiani e la spocchia delle agenzie americane avevano reclutato negli States, patria della pubblicità, o meglio dell’“advertising” come dicevano loro. Alto, sui trent’anni mascella volitiva e quadrata, tratto somatico che denotava indubbie origini americane, era però di un colorito perennemente tra il grigio e l’olivastro decisamente malsano retaggio di una vita notturna piena, non solo di alcool. Marlboro perennemente accesa all’angolo della bocca, 21


capello vagamente lungo a ricordo di trascorsi beat, sorrideva poco, solo il necessario. Jeans rigorosamente Levi’s Original e camicia che aveva visto giorni migliori nelle lavanderie automatiche del suo quartiere natio a San Francisco, completavano il look volutamente fané, da intellettuale maledetto, alla Bukowski. La caffettiera nel frattempo aveva perso la voce nei continui e inutili richiami e il caffè era diventato decisamente imbevibile. James decise allora che avrebbe fatto colazione al bar dell’angolo, in Piazza Affari, proprio sotto la sede dell’Agenzia Pubblicitaria per cui lavorava e da cui era stato assunto con la mansione di Direttore Creativo, profumatamente pagato e con una serie interminabile di bonus che arricchivano il suo contratto. Ivi compreso l’alloggio, uno splendido, piccolo loft a Porta Ticinese, prospiciente la darsena. Prese al volo il tram, (impossibile parcheggiare qualsiasi mezzo di locomozione che non sia una bicicletta in Piazza Affari a Milano), e in un amen scese a Piazza Cordusio…”near my job” come soleva dire quando descriveva la sua vita da “emigrante di lusso” ai suoi compatrioti. Entrò immediatamente nel Bar “Affari tuoi” prospiciente l’ingresso dell’Agenzia e ordinò con fare annoiato: <<Un cappuccio, please.>> 22


Mario il barman aveva imparato a conoscerlo ormai e affettava con lui una confidenza altrimenti negata ad altri clienti <<Giornataccia, eh, James?>> disse scrutando il viso dell’interlocutore che navigava tra l’annoiato e l’addormentato, per poi virare decisamente sull’incazzato. <<Oh, yes! rispose James -mi aspettano in agenzia per una serie di maledettissimi e strarompicoglioni di brainstorming non li sopporto proprio, è una tale rottura>> così dicendo portò la tazzina alle labbra e blaterò una frase irripetibile che a Mario sembrò significare un’impronunciabile bestemmia. <<My God! Ma è bollente! Quante volte ti ho detto che lo voglio tiepido il cappuccino>> ciò detto addentò la brioche riscaldata che Mario gli aveva propinato (tanto è americano) e, senza profferire altro, prese l’uscio e si precipitò in strada. <<Segno. eh, James….>> Mario aprì il libricino e allungò la lista del conto che James aveva in sospeso e che regolarizzava ogni fine mese. James nel frattempo con quattro falcate rapide era arrivato a destinazione. Una rampa di scalini di marmo portavano ad un ingresso ampio con volte molto alte, caratteristiche dei palazzi fine secolo che davano sulla piazza. Una targa in ottone che brillava per i raggi del sole, recitava 23


in modo discreto e volutamente minimale: “Smith & Wesson – Advertising & Sales Promotion”. Il piano non era indicato, poiché l’Agenzia occupava tutti e cinque i piani del palazzo. L’ingresso, arredato in stile ultramoderno cozzava alquanto con l’immagine che il palazzo dava di se a chi vi si approcciava dall’esterno. Divani di pelle rossa sparsi con noncuranza ed apparente disordine, ammennicoli vari sicuramente di alto design, ma che dell’inutilità intrinseca facevano bella mostra, quadri futuristi alle pareti, talmente futuristi che impegnavano le persone in attesa ponendo loro il cruciale dilemma: “Sono io che non capisco un cazzo o sono davanti ad un opera storica?” Normalmente propendevano per la prima soluzione, intimoriti dall’ambiente socio-cultural-avanzato, ma i più disincantati concludevano sedendosi con un ghigno “E’ una merda, una vera crosta!” Maggie, la “centralinistareceptiontuttofareportaicaffè insalariunioni” lo accolse con un sorriso speranzoso <<Hi, James, how’re you?>> <<Bene…>> bofonchiò il nostro e si diresse velocemente verso l’ascensore. Non voleva dare assolutamente 24


corda a Maggie, per non creare attriti e invidie presso le donne dell’Agenzia. Sì perché James era considerato un ottimo partito, buono per ogni uso, matrimonio, convivenza, una botta e via, qui sulle scale, sopra la macchina delle fotocopie…insomma: ovunque e comunque! Poi. con quel che guadagnava, vuoi mettere.. Ma quella non era una mattinata felice per James, avrebbe dovuto capirlo dai molteplici segnali ed avvertimenti che il mattino gli aveva lanciato…il cappuccio bollente, le sigarette che avevano un deciso aroma che ricordava lo stallatico delle farms texane, insomma tutti i prodromi di una vera e propria, gigantesca giornata di merda! Deglutì quando le porte dell’ascensore si aprirono e si trovò di fronte Mr. Wesson, ceo dell’Agenzia e Dio in terra per tutti i dipendenti. Mr. Wesson era un ometto insignificante che dimostrava molto di più dei suoi 55 anni. Di corporatura decisamente robusta, normalmente indossava abiti di una taglia superiore, per via di una pancia prominente che ne minava la stabilità. Regolarmente abiti color grigio indefinito, da travet parastatale che a malapena coprivano camicie impresentabili, stazzonate come normalmente succede ai single americani, dato che il ferro da stiro è un elettrodomestico pressoché sconosciuto da quelle parti. 25


Cravatte..e qui si potrebbe aprire un capitolo a parte per quanto attiene la “range” di questo accessorio. Colori e decorazioni incredibili lasciavano spesso il posto a cravatte grigio topo o fumo di Londra, regolarmente annodate con un nodo piccolissimo al colletto non certo inamidato della camicia, penzolavano con tutta la loro lunghezza e venivano regolarmente infilate nella cintura...oddio nei pantaloni, perché spesso erano le bretelle a sorreggerli. Viso glabro da maialino da latte, appena rasato, (una pro-forma, tanto peli non ve n’erano) ed un olezzo di dopo barba di cui il nome è ancora adesso disputa di scommesse gigantesche nel mondo pubblicitario. <<Hi, James – apostrofò – l’attendo nel mio ufficio!>> James deglutì nuovamente e, sfoderando uno dei suoi proverbiali sorrisi per cui tutte le segretarie dell’Agenzia avrebbero sfilato in tanga, rispose <<Of course, Mr. Wesson, naturally.>> Ciò detto si infilò nell’ascensore dribblando la pancia del capo e, tirando un sospiro di sollievo, schiacciò il bottone con la targhetta che indicava “Reparto Creativo” 5° Piano. Arrivato, si fermò un attimo prima di varcare la porta a vetri, cercando di assumere l’espressione e quell’aria volutamente svagata,annoiata: 26


”giàvisto-checazzovuoledirequestofaialmenotrevariantiCristomanoncapiteuncazzo!” Si accese la proverbiale Marlboro ed entrò. E quello fu il suo primo errore. Sarah lo attendeva seduta sullo sgabello girevole del tavolo da disegno di Marco, l’Art Director del gruppo creativo di punta della Smith&Wesson. Sarah era la ragazza di James. Nata a Miami, ma vissuta quasi sempre a Roma, aveva mantenuto quei tratti e quella spigliatezza accompagnata da una leggerezza dell’essere che è propria di chi ha conosciuto i natali in una città che, seppure non si possa paragonare nemmeno lontanamente alla capitale italiana, non porta sulle spalle il peso di un retaggio storico di secoli e secoli. Donna di notevole bellezza, di animo disponibile ed incline alla bontà, aveva però un difetto, questo decisamente latino: era tremendamente gelosa. La sua gelosia era irrefrenabile, irragionevole e incontrollabile. Durante gli attacchi le sue azioni avevano il marchio dell’imprevedibilità, non sapevi mai cosa si sarebbe inventata pur di raggiungere il suo scopo: controllare James, verificare la veridicità delle sue azioni e parole, un inferno insomma! L’Alitalia la considerava 27


tra i suoi clienti Vip, Aveva la card “Freccia Alata” e la sfoderava ai check-in per avere la precedenza sui voli Az Roma – Milano. Lavorava come film-maker per una casa di produzione di Roma che curava la realizzazione e i doppiaggi del famoso personaggio disegnato dai fratelli Pagot: Calimero, il pulcino nero, protagonista di una serie fortunatissima e di grande successo di filmati messi in onda da Carosello. Calimero era un personaggio amatissimo dai giovani e meno giovani, vero compagno ed amico dei primi telespettatori Rai. Sarah ne curava l’editing ed il doppiaggio, mentre alle animazioni la maestria e la creatività dei fratelli Toni e Nino Pagot, inventori di Calimero, metteva le ali al filmato. <<’Morning James…>> disse Sarah, affettando noncuranza e sicurezza con un sorriso decisamente tirato che le disegnava qualche piccola ruga sul viso, <<dormito bene?>> James non poté fare a meno di notare quella, ormai conosciutissima da lui, nota di acidità nelle parole di Sarah e si mise subito sulla difensiva:<< Hi, honey…quando sei arrivata? potevi chiamarmi, sarei venuto a prenderti, …certo ho dormito benissimo – disse mentendo spudoratamente e reprimendo il conato di vomito che lo assalì repentinamente 28


al solo ricordo della colossale sbronza della sera precedente - hai già fatto colazione?>> Sarah non rispose e lo guardò sorridendo poi di colpo si voltò e disse: <<Ti ho cercato ieri sera, non mi hai risposto, il telefono dava libero….dov’eri?>> James si attendeva quella domanda e, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi rispose << Ero a casa di Marco per buttare giù la strategia creativa del lancio di un nuovo detersivo concorrente di Ava…sai il budget è appena stato assegnato e il segreto professionale è d’obbligo…mi spiace per Calimero – disse con un ghigno satanico – abbiamo idee eccezionali, vero Marco?>> Qui James superò se stesso, ma fu il suo secondo errore. Marco trasalì, ebbe un movimento scomposto che quasi lo proiettò sul pavimento dallo sgabello dove era seduto e, sgranando due occhi di un celeste acquoso perennemente umidi annuì, cercando nel contempo comprensione da Margherita, la segretaria che era appena entrata con un bicchiere di quel fetido caffè della macchinetta che dicevamo dianzi. Marco era un venticinquenne diplomato alle Belle Arti di Brera che mentre faceva il cameriere nel periodo estivo a Ibiza, per sbarcare il lunario, aveva incontrato Mr. Smith per pura combinazione. In un momento decisamente 29


increscioso per lui, ma altrettanto esilarante, aveva rovesciato il Martini sui pantaloni di quello che di lì a poco sarebbe stato il suo mentore, il suo “salvatore”. Mr Smith aveva inarcato il sopracciglio sinistro ed aveva assunto la classica espressione “ora ti faccio licenziare”, quando con immenso stupore degli astanti si produsse in una sonora risata e apostrofò Marco dicendogli <<Don’t worry, non preoccuparti, mi sei simpatico, siediti accanto a me, e dimmi come mai fai il cameriere? Non mi sembra proprio sia il tuo mestiere..>> Marco aprì le cateratte, raccontò di se e della sua eterna sfiga e fu così che si aprirono per lui le porte della Smith & Wesson. Da allora, assegnato al reparto creativo come Jr. Art Director, divenne a poco a poco il braccio destro di James. Ripresosi dalla momentanea defaillance, sfoderò uno dei suoi proverbiali sorrisi che avrebbe rattristato anche una iena ridens e disse a mezza voce: <<Certo Sarah, abbiamo lavorato sodo, tutta notte, la strategia creativa è quasi terminata sarà una bomba, vedrai, un’assoluta novità nel campo della comunicazione. >> Sarah lo guardò con lo stesso interesse con cui di solito si rimirava l’unghia del mignolo sinistro e disse con fare tra l’annoiato ed il minaccioso <<Sarà, ma ci crederò solo dopo 30


aver visto e letto questa fantomatica strategia>> Così dicendo si alzò e dondolando il suo proverbiale fondoschiena si allontanò guadagnando la porta e creando scompigli tra lo stuolo di giovani grafici addetti alla stesura dei lay – out. <<Bravo Marco, e…thanks, ovviamente –disse James- sei stato di una prontezza di riflessi proverbiale, ma ora dobbiamo assolutamente buttare giù questa mitica strategia, pena il mio scuoiamento da parte delle unghie affilatissime di Sarah!>> Iniziarono il lavoro e, presi dal “trip creativo”, non si accorsero del tempo che passava se non quando la donna delle pulizie non spostò con la delicatezza di un elefante un cestino della carta con un perfetto drop di sinistro alla Maradona. James e Marco capirono allora che era ora di levare le tende ma sentendo di essere vicini alla meta, decisero di proseguire con la stesura della strategia seduti ad un tavolino del Jamaica davanti ad un buon “daiquiri”. Fu così che in una notte di rhum, coca e Marlboro nacque la strategia creativa di lancio del nuovo detersivo che avrebbe dovuto sostituire nel gradimento delle consumatrici Calimero, l’ormai famoso pulcino nero testimone di un detersivo eccezionale. 31


Con il progetto sottobraccio, barcollando James si avviò verso casa dopo aver salutato Marco che al nono daiquiri era scivolato sotto il tavolino del Jamaica addormentandosi con un sorriso ebete stampato sulla faccia. Arrivato nei pressi della darsena a Porta Ticinese, la sbronza montante cominciò a dare segni di insofferenza e James dovette appoggiarsi ad un lampione fu così che si accorse, in un momento di lucidità, che non aveva più nulla sottobraccio, la cartelletta contenente il progetto, la tanto decantata strategia, galleggiava pigramente nelle acque verdastre del Naviglio, finché, presa da un gorgo, non si inabissò del tutto. James la osservò a lungo e di colpo fu preso da improvvisa tristezza che si trasformò in una fragorosa risata, rideva di gusto James ubriaco fradicio appoggiato ad un lampione alle quattro di mattina a Porta Ticinese. Lo sferragliare del tram lo svegliò e fu allora che si accorse della tragica situazione in cui si trovava: conciato da far schifo, abbracciato ad un lampione aveva dormito tutta la notte sulla riva del Naviglio. E, quel che era peggio, tutto il lavoro fatto insieme a Marco era andato perso. “Maledetto rhum”, pensò, mentre si avviava verso casa. Evitò accuratamente lo sguardo di vicini e portinaia e, giunto nel suo appartamento, si gettò sul 32


letto in preda allo sconforto. Si alzò, andò alla finestra, si accese l’ultima Marlboro imprecando e, socchiudendo gli occhi come soleva fare dopo aver visto tutti i film di Clint Eastwood, pensò a come uscire dal’impasse. Ora erano in due ad attenderlo al varco, il Cliente e Sarah e sinceramente era difficile capire quale dei due fosse più “abbordabile”. Mentre stava valutando la possibilità di una delle sue famose “fughe creative” che ogni tanto propinava ignominiosamente, ebbe un’idea, una luce si accese tra le nebbie del suo cervello. Quale era l’ostacolo maggiore che si frapponeva tra il nuovo detersivo e AVA, l’attuale, incontrastato leader del mercato? Ma Calimero, naturalmente. Ergo, eliminato Calimero, eliminato il problema. Elementare Watson! Rinfrancato da tanto acume sprizzato improvvisamente dalla sua materia grigia, si lavò, si fece la barba e diede un aspetto umano a quell’ectoplasma che lo scrutava dallo specchio. Uscì di casa e si diresse fischiettando verso Piazza Affari, al lavoro, ”his job” per l’appunto. Salutò la centralinista, che ebbe un mancamento al suo sorridere, e trionfante entrò nella sala creativi. Marco lo attendeva trascinando sul viso i segni della nottata passata sotto il tavolino del Jamaica. Gli andò incontro e sbadigliando gli 33


chiese: << Dov’è la strategia, che la passo a Margherita per la battitura? I ragazzi sono pronti per supportarla con i lay out. >> E lì James, sfoderando uno dei suoi più ruffiani e accattivanti sorrisi mise al corrente Marco dell’accaduto. Questi ebbe un mancamento, afferrò un bisturi dal tavolo da disegno e James fece appena in tempo a fermarlo, mentre cercava di tagliarsi le vene. Fu allora che James spiegò al suo Assistente la nuova strategia: eliminare in qualsiasi modo Calimero, sic et simpliciter. Già, come se fosse facile…. L’arrivo di Sarah accese improvvisamente un lampione nel cervello di James. <<’Morning honey have you had a good night? Dormito bene dolcezza?>> le disse sorridendo e andandole incontro. Sarah lo guardava diffidente mentre James le stampava un bacio in fronte. <<Certo, molto bene – rispose- tu piuttosto, hai finito la strategia? Sono curiosa di leggerla, vediamo cosa sa fare questo famoso concorrente di Calimero>> << Cara sai bene che non posso fartela leggere, via, è concorrenza, però posso dirti che per completarla ho bisogno di fare un saltino a Roma presso gli studi cinematografici, devo verificare alcune cosette. Non è una splendida occasione? Possiamo ripartire insieme e passare un po’ di giorni a Roma è sempre 34


piacevolissimo con te, poi…>> disse con quel suo sorriso da tombeur de femme. Sarah fu presa alla sprovvista e non seppe negarsi, così James passò in direzione, si fece dare un congruo anticipo sulla nota spese e, schiacciando l’occhio ad un Marco sempre più basito, disse rivolgendosi a Sarah ancora diffidente e sospettosa, <<Andiamo? Se ci sbrighiamo facciamo in tempo per il volo delle 14.10 da Linate, let’s go! >> Fecero in tempo, e presero l’aereo, due orette ed arrivarono a Roma. E qui James commise l’ultimo errore, il definitivo. Dopo aver deposto i bagagli in albergo, il mitico Raphael nei pressi di Piazza Navona, ed aver bevuto un drink in compagnia di Sarah, la accompagnò nel suo ufficio e la lasciò dicendole: << Cara, esco a fare quattro passi mentre tu prepari i testi per i doppiaggi. Compro le Marlboro e torno tra un po’…è tanto che manco da Roma.>> Sorridendo attraversò l’atrio dell’ufficio di Sarah e appoggiandosi con i gomiti alla scrivania di Mary, la segretaria di Sarah chiese con fare ammiccante: << Scusa Mary, ti chiami così, vero? Sarah mi ha detto che debbo aspettarla nella sala di doppiaggio per quel nuovo filmato di Calimero…solo che io ho dimenticato l’indirizzo nel borsello in albergo, me lo puoi dare, cortesemente? >> 35


Mary non seppe resistere e scrisse l’indirizzo su un foglietto mostrando un’abilità insospettabile, poiché scriveva e nel contempo guardava James dritto negli occhi. << Thanks dear, grazie cara >> – disse James- e le scoccò un bacio sulle labbra. Mary presa alla sprovvista cadde in deliquio e fu portata d’urgenza al pronto soccorso. Nel frattempo James era arrivato agli studi di doppiaggio e si era introdotto, mostrando il suo biglietto da visita della Smith & Wesson nella sala macchine dove, sulla moviola di lì a poco il nuovo Carosello di Ava interpretato da Calimero sarebbe passato il rallenty per il montaggio definitivo e per il doppiaggio che Sarah avrebbe curato per conto del Cliente. Fu un attimo, un lampo. Velocemente, approfittando di un attimo di distrazione dell’operatore James alzò l’intensità della lampada che proiettava la luce sulla pellicola per la lettura in slow-motion. Manovra pericolosissima, poiché poteva causare la bruciatura della pellicola e al limite, se non controllato, un incendio poiché il materiale infiammabile la faceva da padrone in quella sala. Salutò l’operatore, e in un attimo si dileguò nel traffico di Roma. Non passò neppure in albergo, andò direttamente all’aeroporto e prese il primo volo per Milano. 36


Un taxi veloce e via nel suo appartamento sui Navigli a preparare una nuova valigia, stavolta più pesante, sarebbe tornato negli States, nella sua amata San Francisco, lontano da pulcini neri rompicoglioni e da fidanzate gelose ed isteriche, vita nuova, perdio! Mentre si rivestiva, con movimento riflesso accese il televisore e la sigla ormai famosissima di Carosello catturò la sua attenzione. Il filmato del detersivo tanto famoso non andò in onda, al suo posto uno scarno comunicato recitava: “ Oggi pomeriggio un atto vandalico ha distrutto la pellicola del filmato che state aspettando. Questo gesto incosciente avrebbe potuto causare danni maggiori che fortunatamente per la prontezza dei vigili del fuoco non si sono avverati. Chiediamo scusa ai nostri piccoli telespettatori rassicurandoli, Calimero non è morto, presto tornerà, più piccolo e più nero di prima!” James capì che il suo era stato un gesto inutile, puerile. Calimero non poteva morire, era come l’araba fenice, ogni volta tornava, dopo essere stato lavato con Ava…per diventare di nuovo nero. Rassegnato si accese l’ultima Marlboro, si stese sul letto, e aspettò. Di lì a poco bussarono alla porta… 37


Chi vince prende tutto Quattrocento aironi dalle movenze sgraziate litigano un metro quadrato di laguna incespicando sui loro ossei trampoli. Grande è la confusione nell’agitar di penne e zampe come bacchette di Shangai gettate alla rinfusa nel ribollire di alghe e vongole fuggitive come minuscoli dischi volanti inabissati nel pentolone del brodo primordiale. Ormai aduso alle sceneggiate che l’alcool mi rappresenta ogni qualvolta l’umore si inabissa e la depressione cerca rifugio in una serie di cristalli variamente colmi di panacee a poco prezzo, ho scommesso sull’airone cinerino. Mi sta simpatico e poi ostenta un’aria indifferente alla tenzone, attende sornione la fine del massacro degli antagonisti in un rutilar di becchi, ali penne e zampe per affrontare il vincitore ormai distrutto dalla fatica e conquistare così facilmente lo spazio oggetto della disputa. [sorrido, ora posso finalmente dormire la mano trova sicuro appiglio sul tuo seno il consueto viaggio notturno anche stanotte ha lasciato sul terreno la vittima designata tu attendi e, come sempre, vinci…] 38


Cioccolatino rancido Lenzuola stazzonate, accartocciate come l’involucro di un cioccolatino avuto in dono e divorato in tutta fretta, con ingordigia, forse presagendo l’ultimo sapore conosciuto di te, dopo stanotte. Ho percorso il tuo corpo e l’ho assaporato in ogni sua piega ricavandone doni e omaggi a volte attesi a volte rubati. Ora che sei andata via, mentre nella bocca mi rimane un retrogusto amaro di cioccolato rancido, apro la finestra e stendo lenzuola al sole.

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Come una lavandaia Ho sempre considerato la mia anima come un fazzoletto di terra da curare amorevolmente. Durante la mia giovinezza l’ho seminata a prato. Un verde, tenerissimo e affascinate prato. I miei pensieri, le mie emozioni la sorvolavano leggeri come nuvole multicolori di farfalle. Gli anni, come mandria imbizzarrita di bufali, l’hanno attraversata calpestandola, lasciandola brulla e lordandola di escrementi indesiderati. Ora, con l’esperienza e le poche forze che mi rimangono, mi accingo ad una impresa titanica: la pulirò e laverò come provetta lavandaia, portandola alla fonte a me più vicina e cara, il mare. Poi seminerò di nuovo e aspetterò…

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Come una lucertola Il bambino guardava stupito gli effetti del piccolo delitto che aveva commesso. Rincorrendo una lucertola e prendendola per la coda, era rimasto con un pezzetto della stessa tra le mani. Sconcertato dal continuo agitarsi del moncherino si chiedeva come potesse muoversi ancora, vivere di vita autonoma, nonostante fosse ormai staccato dal corpo. “Strano, pensò, eppure quando stacco un petalo da un fiore o un’ala ad una farfalla quelli poi mica si muovono”. Con la certezza di avere fatto una importante scoperta, si infilò il pezzetto di coda nella tasca dei pantaloncini e rivolse la sua attenzione altrove. Gli scatti nervosi del “reperto” ogni tanto gli ricordavano il piccolo misfatto, ma poi fu rapito dal procedere goffo ed impacciato di uno scarabeo verde rimasto incastrato tra le foglie. Così il pezzetto, ormai privo di vita ed inerte, rimase confinato nella tasca per tutto il pomeriggio finché alla sera, rovistando nelle tasche, venne alla luce, testimone ormai inerte dell’ innocente ed inconsapevole misfatto. Erano i giorni in cui i pomeriggi d’estate passati nei campi che circondavano la periferia della città alla caccia di lucertole o rincorrendo farfalle, contribuivano a far crescere la sete di 41


conoscenza e la richiesta di risposte ad una domanda via via più pressante: perche? “Bella domanda…” pensò l’ormai adulto bambino. Certo, tutte le risposte avute a suo tempo da genitori ed insegnanti erano state esaustive….ma i perché nella vita erano continuati ed ogni volta, come una lucertola, un pezzetto di vita si era staccato e, dopo un breve agitarsi, era definitivamente morto. Si guardò svogliatamente allo specchio e contò una per una le cicatrici che segnavano il suo corpo, ricordi indelebili di tante piccole “code”. Perché? Si domandò. Fu allora che cominciò ad agitarsi con piccoli scatti convulsi, freneticamente. Come una lucertola.

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Così preciso, così perfetto… L’aria respirava il sapore dei ceri. Distesa nel biancore alienante della stanza, la sagoma sul letto pareva un nero insulto all’ordine prestabilito delle cose. Comunque era li, parallela alla linearità delle piastrelle anni ’50 che quadrettavano ordinate e sussiegose l’improbabile pavimento. Chili di gel piegavano come tondini di ferro i radi capelli coartandoli in un percorso a loro indigesto e congenitamente alieno. Un solco discriminatorio come spartiacque ne divideva le incombenze, viaggiavano quindi paralleli anch’essi all’iter pretenzioso delle piastrelle. Un gessato di un grigio spento che un dì fece furore a Londra rivestiva l’immota sembianza e l’ordinato percorrere del bianco gesso, come binari che percorrono il rettilineo di una vita spesa senza sussulti, disegnavano nell’insieme una scena di rara e ordinata perfezione mortuaria. Il silenzio, ritmicamente rotto da un sommesso sgorgare di finte lacrime, venne lacerato da un grido straziante: <<Lì…lì…>> la mano tremante indicava con tremebonda iterazione il piede del caro estinto, la scarpa destra, inopinatamente slacciata, in completo disordine, i lacci sparsi in allegra anarchia. Un ultimo grido e la donna svenne. Fu il caos. 43


Dormi, il buio ti è amico. Dormi cucciolo, dormi. Il buio non ti è nemico, è il rifugio dell’anima, la dolce alcova dove racchiudere i tuoi sogni, l’elfo protettore delle tue incertezze. Così mi dico tutte le sere, mentre l’angoscia mi assale e mi alzo ripetutamente dal letto. Dormi piccolo, dormi. Come vorrei ancora una voce materna, rassicurante, una voce che mi racconti una fiaba dolce, senza orchi e streghe. Dormi, dormi che è ora. Non temere il buio, non temere…la risata si spegne violenta contro il cuscino accanto mentre l’ultimo brivido mi percorre. Accendo la luce. Dormi cucciolo, dormi. Ancora quella voce..

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Due piccole foglie di castagno. A guardare bene, aguzzando gli occhi là , oltre il limite di quella collina, tra un castagno e l’altro, il rosso dei coppi spuntava come fiamma di vita esplosa verso il blu del cielo. Ogni volta, alla loro vista, un senso di angoscia mi prendeva, conoscevo a memoria quali sarebbero state le mie mosse successive, i miei pensieri, le mie paure. Conoscevo quel tetto, quel cappello rosso che proteggeva la casa oggetto della mia inquietudine delle mie apprensioni. Spuntava dal verde in lontananza come un fungo, uno di quei classici funghi bellissimi al vedersi ma altrettanto velenosi e letali. Mura di calce bianchissima, stranamente candide, virginee, senza il minimo segno dello scorrere del tempo e delle intemperie circondavano la costruzione. Una porta in legno di castagno massiccio, imposte dipinte di un verde improbabile che denotavano la voglia di mimetizzarsi, di non insultare oltremodo l’ambiente circostante con la loro presenza avulsa dal contesto. Desiderio represso di essere accettata come parte integrante del panorama, della natura che la nascondeva e in qualche modo la fagocitava. Mi era capitato spesso di 45


incrociarla, a volte me la trovavo dinanzi all’improvviso, quasi spuntasse dal suolo così, come i funghi nel profondo delle forre o ai piedi degli alberi. I castagni, appunto. Pareva vivesse di vita propria, autonoma, completamente indifferente all’insulto che la sua presenza recava alla quiete e allo scorrere della vita silvana. Appariva e scompariva, sempre uguale, arrogante con i suoi colori sempre vivi, splendenti, come se un misterioso truccatore ne curasse l’aspetto, rinnovandone la vivezza dei toni di volta in volta. Finché un giorno decise. Si stabilì definitivamente là, tra i castagni, oltre il limite della collina. Inevitabilmente il mio sguardo correva lì ogni volta e come sempre quel senso di vuoto, misto a morbosa curiosità, mi attanagliava lo stomaco… [è un lungo trascinare l’anima pei campi aridi solchi dove il grano germoglia annoiato ai piedi del colle che lo assiste accigliato c’è quel sentiero che allarga l’orizzonte sali a cogliere l’azzurro, abbandoni il solco oltre il limitare del tuo sguardo, tra i castagni, il sole sta morendo, ma tu non te ne accorgi…]

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Divoro la distanza a passi concitati, mi avvicino a lei con circospezione e timore ma con una voglia incontrollabile di entrare, violare quella inquietante, insopportabile arroganza. Come sempre mi fermo dinanzi all’uscio, una sorta di tremore montante impedisce i movimenti, mentre rivoli di sudore gelato scendono lungo la schiena e le gambe si fanno di gesso. Così, mentre combatto contro la mia stupida, seppure concreta paura, nella mente lentamente vanno formandosi immagini in rapida sequenza, come in un film, in slowmotion. Apro la porta senza alcuna difficoltà. Un ingresso anonimo mi accoglie, pochi mobili in legno di castagno, un tavolino là, un divanetto qua. Sul muro carta da parati di gusto un po’ pacchiano: malinconiche foglie gialle e verdi si rincorrono, falsi simulacri di una natura ormai asservita. Ecco che mi vedo mentre percorro i pochi metri dell’ingresso, superando il tavolino alla mia sinistra mi ritrovo nel salone. Un pianoforte attende muto in un angolo, un divano dalla tappezzeria in nuance con quella del muro, anche qui foglie gialle e verdi sparse in forzata allegria, sembra attendere tronfio e discretamente annoiato. Mi siedo, sono stranamente stanco, quasi avessi percorso chilometri in quel bosco. Ora posso guardarmi intorno con più calma, il 47


salone è grande , forse troppo, ho l’impressione che qualcosa non funzioni, la casa pare avere un a unica stanza, pare non ci siano altre stanze . Tutto in ordine, le suppellettili, i mobili, tutto lindo e pulito. Sembra quasi che un’impresa di pulizie abbia terminato il suo lavoro da poco. Eppure una strana atmosfera, un’indefinita sensazione di vecchio e di polveroso mi prende alla gola, quasi avessero da poco alzato un sipario e avessero rinnovato la scena lucidando e pulendo ogni dove per la bisogna, per una nuova recita. L’iniziale stupore lascia il posto a un più regolare battito del cuore e i pensieri più razionalmente cominciano ad affollare la mia mente. A questo punto una strana sensazione mi pervade: io questo posto lo conosco! Qui ci sono stato altre volte, sono sicuro. All’improvviso tutto ha un sapore di dejà vu, già vissuto. [al dolore del richiamo risponde l’ignavia se la ragione non ti interpella il cuore non mente è inutile fuga verso l’approdo sicuro…] Mi alzo di scatto, il sudore ha ripreso a scorrere lungo la schiena e non risparmia neanche le mie mani. A passi malfermi, quasi circospetti mi avvio verso la porta con un unico 48


desiderio: uscire, fuggire da questa casa, dall’angoscia che mi trasmette. Un particolare attira la mia attenzione mentre sto per uscire: sopra il tavolino di castagno è appeso un quadro. Niente di strano, penso, ma è appeso al contrario, mostra di sé il retro, nascondendo l’immagine contro la parete. Nonostante l’apprensione che mi avvince, la curiosità mi costringe, mi fermo. Con mano insicura stacco il quadro dal muro, lo giro e…mi vedo, sì mi vedo! Sono io in una fotografia recentissima, seppure riprodotta in color seppia, quasi fosse un’antica dagherrotipia di fine ottocento. Tutto gira intorno a me, mi aggrappo invano al tavolino e cado.Il rumore del comodino di castagno nella mia camera fa da eco alla imprecazione che fuoriesce quasi vendicatrice, liberatoria del terrore che mi ha accompagnato sinora. Siedo sul bordo del letto mentre a pugni chiusi, il cuore a mille, urlo a me stesso: è un incubo!, sì è stato un incubo, solo un incubo… Una fitta dolorosa mi attraversa la mano. Lentamente, dolorosamente, nonostante le nocche livide dallo sforzo e con il cuore che accelera apro il pugno e scopro il motivo del dolore che poco prima mi aveva attraversato: stringo fra le dita una chiave! Una stupida, banale chiave di ottone, comunissima come tante, se non fosse per un particolare, su 49


un lato c’è un’incisione smaltata, una miniatura. Due foglie di castagno, una gialla e una verde… I coppi rossi laggiù, oltre il limite della collina, mi stanno aspettando.

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E’ bello qui. E’ bello qui. Sdraiato sull’erba, supino, le mani intrecciate dietro la testa, guardo con attenzione, volgendo il capo da una parte e dall’altra, il panorama intorno a me. Una tranquilla distesa verde, un prato. Qualche albero rompe con la sua presenza la placida monotonia del paesaggio. Calma. Tutto intorno a me traspira calma e serenità. Guardo con interesse crescente le nuvole che punteggiano l’azzurro del cielo e mi ritrovo a giocare sì, a giocare! Un gioco infantile, mi diverto a interpretare la forma delle nuvole. Così, rincorrendo la mia fantasia, tra le parvenze di un cane o di una casa di campagna, il tempo trascorre…quanto? Non so dire, in fondo non ha importanza. E’ bello qui. In pace con me stesso la mente sgombra e un sorriso che m’illumina continuamente il viso. Certo, quando sono partito ho portato un bagaglio con me. Ora è lì, posato sull’erba, vicino. E’ un vecchio baule, di quelli color verde scuro con le cerniere d’ottone ormai mezze arrugginite dal tempo e il ricordo di un lucchetto che penzola dai ganci della chiusura. Svogliatamente lo apro, non so perché lo faccio. So benissimo cosa contiene. Sono anni che lo preparo, con cura, raccogliendo i miei pezzi sparsi durante il 51


percorso della vita. Non è sempre stato facile, a volte ho dovuto fare violenza a me stesso. Ma ora sono lì, rinchiusi alla rinfusa dentro a questo vecchio baule. Un senso di ripulsa mi spinge a richiudere con lestezza il baule. La nausea mi assale, immagini che volevo dimenticate ritornano a rincorrersi nella mente. Basta! Perché mai l’ho messo fianco a me, accanto alla scrivania, prima di sedermi al computer? Torno a fissare le nuvole. Piano piano il respiro rallenta. Calma. Guarda quella nuvola Franco, sembra una donna nuda, vero? Però che tette…E’ bello qui.

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Fiori di loto, acqua e sale Stamattina ho raccolto stupendi fiori di loto migranti sulla laguna. Non ci credete? Fate bene, non è vero. Oggi le sue acque indifferenti mi propinano solo alghe putrescenti. In queste acque mi specchio e l’immagine che mi torna, seppure spezzettata dai riflessi, mi parla di nuove storie, di nuova vita. Ho lavato in laguna le mie ferite e l’acqua salata le ha cicatrizzate definitivamente. Ora il sole provvederà ad asciugarle, le ho stese accanto alla mia anima, appese ad un filo che unisce il mio cuore a queste parole. Così, mentre mi perdo con passo più leggero tra calli e ponti, respiro a pieni polmoni la magia di quest’isola che non c’è e, come un Peter Pan un po’ acciaccato, attendo l’arrivo di Campanellino discutendo coi gabbiani del più e del meno. Anche per oggi la mia cura a base di fiori di loto, acqua e sale, produrrà i suoi effetti benefici, devo solo stare attento a non esagerare con le dosi, i fiori stanno finendo…

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Forse erano lacrime Di là dal vetro gli occhi inseguivano quattro foglie arrugginite di platano che in volo carpiato si tuffavano nella pozzanghera sul grigio selciato. Le compagne verde oro in attesa le accolsero con un girotondo festoso e inscenando un’ardita figura di nuoto sincronizzato sparirono nel tombino. Lo sguardo faceva lo slalom tra i piccoli falsi diamanti sparsi sui vetri mentre la noia aveva il sapore della pioggia che cantava a squarciagola, il Naviglio indifferente ingoiava quelle lacrime che nessuno aveva pianto e la notte dal seno matrigno carezzava la mia mano ingannando Morfeo. Il pianto dapprima sommesso lentamente mutava in canto di protesta, martellando il silenzio lacerava le trame del sipario dell’indifferenza. Il cucciolo ancora in me reclamava affamato il diritto ad un cielo sereno, mentre gli occhi arrugginivano inseguendo il volteggiare delle stagioni. Pioveva quella notte a Milano, ma forse erano lacrime.

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Ho realizzato il desiderio di una stella Me ne andavo assonnato così, la mattina dopo la notte di San Lorenzo, vagabondando senza meta per strade deserte che mostravano chiaramente i segni dell’invasione notturna. Una strana ansia spingeva le mie gambe verso una meta sconosciuta ed il mio corpo, troppo stanco per ribellarsi, le seguiva passivamente. La mente ingombra di desideri affastellatisi durante la caccia agli astri cadenti, non aveva la lucidità sufficiente per mettere a fuoco quello che stava accadendo. Fu così che all’improvviso mi ritrovai seduto su di uno scoglio con l’acqua che mi accarezzava i piedi, mentre ammiravo il rosso dell’oriente che lentamente prendeva possesso del nuovo giorno. Stupefatto mi guardai attorno ed in un attimo realizzai: ero nello stesso posto, sullo stesso scoglio che avevo occupato durante la notte sedendomi su di esso per riposarmi dalle corse affannate inseguendo code di stelle per soddisfare almeno un desiderio. Mentre prendevo coscienza della stranezza dell’accaduto un pulsare ed un battere strano sulla coscia destra catturò la mia attenzione. Portai allora la mano in tasca ed estrassi uno strano sassolino che appena, fu allo scoperto, brillò nella mia mano aperta con un bagliore 55


improvviso e fulmineo spiccò il volo verso il sole lasciandosi alle spalle una scia luminosissima. Non so quanto tempo rimasi come basito a naso in su cercando ancora nel cielo la presenza di quella stellina che evidentemente avevo raccolto durante la notte ma che avevo dimenticato nella tasca dei pantaloni, ritenendola piccola e insignificante, un sassolino per l’appunto. Abbassai lo sguardo e fu allora che la vidi. Sul palmo della mia mano rimasta aperta era impressa, come tatuaggio, una scritta: libertà. Paradosso della notte di San Lorenzo: avevo inconsciamente realizzato il desiderio di una stellina. Tornai allegramente sui miei passi, ora finalmente potevo andare a dormire, la notte non era passata invano - pensai – la libertà non deve mai essere un desiderio, è un diritto.

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Ho tolto il tappo, non è ancora aceto… Il primo strato che incontri é quello dei ricordi più dolorosi. Se riesci ad abbattere il muro che hai costruito per seppellirli. Vengono a galla, risalgono la superficie dell’ignavia che li ha tenuti lontano dal tuo cuore evitandoti sofferenze e si mostrano così al mondo, nudi. Ora che hai rotto gli argini, mi dico, vai avanti non fermarti. L’emozione è forte, i ricordi tentano di sommergermi. Dove sei stato fino adesso? Perché proprio ora? E’ come aver tolto il tappo ad una bottiglia di vino che stava andando in aceto. Mi mancava il cavatappi, mi sono risposto. Poi ho convenuto con me stesso che era una delle mie solite scuse. Che grandi cazzate si inventano gli uomini pur di non ammettere i loro errori! Mi sono messo a scrivere.

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Ieri, un fiocco di nuvola L’urlo disperato di un gabbiano, forse troppo in alto e troppo solo, falciò come erba gramigna il piccolo campo di nuvole che andava rosseggiando all’Est. Fiocchi d’incredibile neve spolverarono il crespo tranquillo del blu all’orizzonte e il sole scopertosi nudo decise che non avrebbe atteso il canto del gallo. Un nuovo giorno. Una nuova stagione. La lama di luce ferì i miei occhi mentre il riflesso dorato si spezzettava in miriade di piccoli diamanti sul mare. Decisi allora che l’emozione valeva il tentativo di sollecitare la memoria ornai disusa a contenere le emozioni e le pulsioni che il cuore provava ciclicamente. Affannosa ricerca di un lapis, di un lembo di carta. Nulla. Nulla di tutto quello che sgorgava dal cuore e mi turbinava nella mente, sarebbe potuto essere annotato, scritto, tramandato. Angoscia. Il gabbiano smorzò il suo canto sgraziato producendosi in un’ardita quanto improbabile evoluzione e ammarrò poco distante. L’ultimo fiocco di nuvola planò dolcemente tra la neve che da tempo incorona il mio capo. Fu allora che decisi di violentare la memoria e scolpii nella mente il nome di quell’emozione: poesia. Sì, poesia, un banalissimo e scontato appunto nel block notes 58


dei sentimenti, sottolineato con la matita blu dell’emozione. Ora è lì, campeggia solitario nel bianco. Lo spazio vuoto che le siede accanto attende da tempo che il fiocco di nuvola sciogliendosi porti via scolorando la neve degli antichi ricordi e le dita riprendano a inseguire il ticchettio delle parole. Lo stridio sgraziato del gabbiano ferì di nuovo il silenzio, era tornato lassù, in un cielo ormai senza nuvole. Troppo in alto, troppo solo. Un delirio, un sogno, chissà. Forse solo il desiderio di scrivere, ma l’urlo straziante della vita che falcia come grano fuori stagione uomini inermi, senza ali, in attesa di un’alba restia a mostrare il sorriso, rimbomba nelle orecchie. Guardo il cielo. Si sta annuvolando il gabbiano è sparito. Straccio il foglio degli appunti, la poesia si accartoccia, la memoria resetta. Troverò un altro titolo.

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Il migliore dei mondi possibili: il mio. Non era molto alto. O almeno così mi apparve, seduto, quasi arrampicato sulla poltroncina che sono riuscito, dopo sforzi sovrumani, a incastrare nell’angusto spazio disponibile del mio poggiolo e che di solito ospita, preferibilmente di notte, le mie elucubrazioni e considerazioni filosofiche sulla fallacità dell’essere umano (questa mi è venuta bene, me la segno). Non ho mai capito questo proliferare di poggioli angusti, asfittici che va tanto di moda nel Veneto, quasi fossero pensati per una popolazione di piccoli alieni avari. Dei piccoli Arpagone in salsa francoveneta. Non era molto alto, dicevo, di colorito bluastro e con due fessure sottili che a prima vista classificai come occhi, ma che a ben pensarci, avrebbero potuto essere delle piccole faglie che segnavano, come in una cartina geografica, con il loro lampeggiare, un tracciato di rughe e pieghe rocciose. Era un volto? Non mi posi la domanda, ero come impietrito, per l’appunto, quasi lo sguardo del piccolo alieno racchiudesse in se i poteri del mitico Argor o della Medusa. Aveva girato la testa e ora mi fissava. Una luce arancione si muoveva con studiata lentezza nei suoi occhi, percorrendo le due cavità alternativamente, da 60


sinistra a destra e viceversa, quasi fosse un lettore elettronico, uno scanner che ispezionava e interrogava il mio corpo, la mia presenza. Si fermò, infine, quel raggio indagatore e una voce metallica, che parve uscire da altrove, ordinò: “Vieni!” Stese la mano, il piccolo essere e rimase in attesa. Attimi lunghi anni, decisi di ubbidire, come soggiogato da tanta autorevolezza e afferrai la sua mano. Fu un lampo, una scarica di adrenalina, chiusi gli occhi…volai? “Abduction…abduction, ” nella mia mente ripetevo questa parola, l’unica che io conosca a significare quello che, in quel momento, mi parve essere un vero e proprio rapimento. “Guarda – disse la voce con tono imperiosoapri gli occhi e guarda!” Il tono non ammetteva repliche o disobbedienza, aprii gli occhi e… Fu in quel momento che una voce a me cara apostrofò dolcemente preoccupata: “Che fai lì sul poggiolo, a quest’ora? Sempre con la testa tra le nuvole, eh? Vuoi un caffè?” Non risposi subito, ero come impietrito e, mentre fissavo la poltroncina vuota davanti a me, mi accorsi di non avere mosso un passo…chissà da quanto ero fermo così, in trance. “Certo, cara, vengo subito” trovai la forza di rispondere e, mentre mi voltavo, distogliendo lo sguardo dalla scena vissuta poc’anzi, un lampeggiare arancione 61


parve accompagnare i miei movimenti. Tornai a letto alquanto scosso per l’esperienza, ma con una punta di rammarico dentro di me, poiché non nascondo che avrei fatto con piacere un “viaggetto” in un altro mondo, civiltà sconosciute, tecnologie avanzatissime, chissà (la lama arancione pulsava ancora nei miei occhi)... Istintivamente allungai una mano, la risposta fu subitanea nella stretta serena e consapevole della mano di chi ogni notte mi rapisce. Mi girai e immediatamente ritrovai il migliore dei mondi possibili. Il mio.

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Il mio nemico L’acqua del fiume scorreva lenta attorcigliandosi in pigri mulinelli, seduto sulla sponda, lo sguardo fisso al niente, attendevo un evento che desse senso alla vita sino allora vissuta. Solo lo sciabordio del fiume teneva desti i miei sensi. Non so quanto tempo ho trascorso così, sulla riva di quel fiume. I mulinelli inghiottivano i cadaveri dei miei anni ormai consunti ed erosi ma attendevo, sicuro che il nemico di lì a poco sarebbe passato. Lo vidi arrivare, finalmente, e lo seguii con lo sguardo: ero io. Soddisfatto lasciai la riva di quel fiume e me ne andai. Ora, seduto sulla sponda di un altro fiume attendo che passi il cadavere dell’ultimo nemico: il tempo. Ma forse è già passato e non me ne sono accorto.

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Il respiro calmo della laguna A guardarla bene, la laguna pare un rifugio di cristallo per creature fiabesche, una boccia verdeazzurro incastonata nel cuore dell’isola, in attesa di una mano ansiosa che la scuota per interrogarla sul futuro, come si fa con le classiche sfere di vetro delle indovine. Oggi non mi va, non m’importa del futuro, voglio stare così, seduto sulla panchina, perso nei miei pensieri, occhi distratti sui riflessi improvvisi che i gabbiani in volo concedono alla lastra riflettente. Forse l’improvviso apparire di una magica creatura mi scuoterebbe dal mio inutile, quanto masochistico rimuginare. Ma tant’è, oggi ho riaperto uno dei miei zaini che regolarmente mi carico sulle spalle, quello dei ricordi, dei rimpianti, delle leggerezze. “Potresti evitarlo, sai che non lo sopporti, lascia stare” una voce dentro di me ammoniva con tono sarcastico. Lo scorrere impetuoso dei miei pensieri si ferma improvviso, la mano scorre automatica verso le spalle a incontrare il nulla, gli occhi cercano invano in ogni anfratto della panchina, nulla. All’appello manca il mio zaino preferito, quello che abitualmente riempio delle cose più belle, poche in verità ma importanti, fondamentali, due su tutte: l’amore e la poesia. 64


Non c’è, nulla. Eppure ero convinto di averlo portato con me. Il rumore improvviso dell’alzarsi in volo di un gabbiano attira la mia attenzione, fisso il punto della laguna ora increspato dal piccolo gorgo d’acqua ed ecco che vedo apparire una massa scura, dapprima indistinta che si avvicina lentamente verso la riva. Viene verso me, con tutta evidenza, sospinta da chissà quale corrente o vento favorevole. Dapprima irriconoscibile, poi a mano a mano più precisa, inconfondibile: il mio zaino! Sì, quel mio piccolo, indispensabile ricettacolo della parte migliore di me. Sorridendo, ma stupito, mi chino e lo raccolgo. Mentre gocce verdeazzurro bagnano la panchina, uno sciabordio contro la riva attira la mia attenzione. Una voce severa, ma nel contempo rassicurante, mi lascia a bocca aperta con un senso di inquietudine tuttavia mitigato da una strana serenità, sicurezza: “Imperdonabile pessimista autodistruttivo, eccoti il tuo zaino. Portalo sempre con te. Non disturbarmi oltre”. L’aria ora è più tersa, l’azzurro del cielo si fonde magicamente col verde della laguna. Ora il respiro è più calmo.

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Incubo Dovrei smettere di non fumare. Mi fa malissimo, sto velocemente andando incontro ad una mutazione genetica: mi sto trasformando in un orrendo, viscido, antipaticissimo “bravo ragazzo”. Eppure ho tutte le mie brave tacche sul calcio della Colt! Evidentemente ho perso l’ultimo duello, la pistola si è inceppata, ho capitolato. Ora di notte, tra una litigata con la tastiera e una ricerca affannosa di un qualcosa che possa sostituire anche se lontanamente una sana Marlboro, scrivo. Le uniche spire di fumo che aleggiano nella stanza non sono quelle di sigaretta…Cazzo! Sto tornando involontariamente un ragazzaccio di strada. Non lo dirò più, prometto. Dovrei smettere di non fumare. Mi fa malissimo.

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Io, Alice e il Gatto Distratto osservo una marcia ordinata di formiche incolonnate come soldatini dirigersi verso un buco del terreno per sparire poi improvvise come inghiottite da un vortice nascosto. Un tordo poco distante segue con occhio traverso ogni movimento ma decide che un bruco grassoccio e verde di passaggio sia argomento più interessante. La goccia di sudore che fastidiosa insiste nel penetrarmi tra le ciglia e gli occhiali da sole m’irrita e mi rende consapevole della scomodità della mia posizione. Effettivamente penzolare a testa in giù da un’amaca improvvisata nel terrazzo di casa, può provocare un qualche disagio fisico. L’ultima quadriglia di formiche è sparita nel buco, del bruco verde non v’è più traccia e il tordo fischietta soddisfatto dalla gronda poco più in alto. Il sole assassino di questo mezzo Agosto al mare mi sta cuocendo il cervello, pensai, mentre disperatamente accucciato, cercavo inutilmente di vedere, di capire dove quel buco ingordo avesse termine, non accettavo una fine così ovvia e ordinata della situazione. D’altronde tutto era così ovvio e scontato in quell’estate del ’65 a tal punto che mi parve persino inutile dirle che era tutto finito. Le scriverò, decisi, e così, 67


vigliaccamente, mi adeguai alla nuova situazione. Improvvisamente della fine di quel piccolo manipolo di formiche e della presenza del tordo ingordo non mi fregava più niente, avevo trovato la soluzione: un buco nero nella coscienza avrebbe ingoiato quell’amore ormai appassito. Ora le formiche potevano pure tornare a percorrere caoticamente i sentieri che le crepe del vecchio terrazzo offrivano allegramente. Persino il fischio del tordo aveva un che di dodecafonico, di volutamente atonale, allegramente anarchico. Il mio sorriso aveva la sembianza di un ghigno soddisfatto, solo quella piccola, fottutissima goccia di sudore che insisteva tra le mie ciglia trasmetteva un’ansia, un disagio, la consapevolezza di una prossima, vicinissima resa dei conti. Fu a quel punto che caddi a testa in giù dall’amaca e mi svegliai completamente, mentre Alice mi guardava sorridendo e il Gatto correva dietro ad un tordo. La solita, caotica colonna di formiche attraversava il terrazzo e il bruco verde aspettava di trasformarsi in farfalla… cara Alice, volevo dirti (quarant’anni dopo) Non so se fossero le stesse, non credo. Anche queste marciavano ordinatamente incolonnate 68


al ritmo e agli ordini di un istinto superiore che le guidava. Un frullio d’ali sparigliò la situazione e fu caos completo. La mente corse immediatamente a quella terrazza sul mare di tanti anni fa e il parallelo fu naturale, anche se la logistica affatto differente. Come allora stavo in panciolle, distratto nei miei pensieri, la su di un’amaca pericolosamente tesa tra il muro e il vuoto, qui sul levigato marmo di una panchina. Stesso mare, stesse vibrazioni. Comunque acqua salata in cui immergere le emozioni e conservarle così in una specie di salamoia, quasi un brodo primordiale. Ma torniamo alle nostre formiche. Il ritmo ora era frenetico, era diventato una corsa affannosa alla ricerca di un riparo, di una protezione. Metà scomparve in una crepa alla base della panchina ove ero seduto, l’atra metà vagò ininterrottamente lungo il muretto che circonda la laguna e scomparve alla mia vista. Strano come la vita ti riproponga ciclicamente analogie, dejavu, emozioni e situazioni già vissute – pensai – mentre con la mente riandavo a quell’estate del ’65. Come allora, nonostante fossero passati ormai più di quarant’anni, mi ritrovavo a tu per tu con me stesso, alle prese con un consuntivo sicuramente più corposo, ma altrettanto denso di significato. Certo, allora il sole e il mare 69


avevano effetti diversi sulla mia pelle, raccontavano desideri, speranze e utopie che sembravano possibili, se non proprio immediate. Ora tutto aveva un ritmo più calmo, indolente, compiaciuto, quasi consapevole di una saggezza inevitabile. Che noia. Perché poi lo scorrere inevitabile, del tempo dovrebbe portare con sé saggezza da elargire a piene mani? E che me ne faccio di una saggezza acquisita quando ormai sei vicino al traguardo e vorresti invece tornare bambino e fottertene di tutto e di tutti nell’allegria di una sana incoscienza? Non ero allegro evidentemente. D’altronde il tempo non aiutava e qui, sulla laguna, la nebbia e il grigio della giornata la facevano da padroni. Si stava facendo buio e il freddo, condito dall’inevitabile e caratteristica umidità del luogo, mandava avvisaglie perentorie. Mi alzai stancamente e lo sguardo colse, illuminato dalla luce giallastra del lampione che si stava accendendo, un piccolo importante particolare. Sul grigio del marmo, la dove un attimo prima io sedevo scompostamente immerso nelle mie sempiterne divagazioni e lacerazioni d’animo, una formica dimentica correva affannata alla ricerca dell’anfratto, della casa comune ove ripararsi e trascorrere la notte incipiente. 70


Anche lei, come me, in ritardo. Perennemente in affanno, alla ricerca di quel traguardo che, quando credi di avere raggiunto, la vita beffardamente sposta in avanti. Fu a quel punto che un gatto randagio attraversò la strada. Come basito mi fermai ad osservarlo, ero certo di averlo già incontrato. Non so quanto tempo stetti così, appoggiato alla balaustra del ponte con lo sguardo inebetito. Poi sparì, come inghiottito dal buio di un portone. Di lui è rimasto un sorriso, una specie di ghigno ironico che m’insegue da ieri sera. Lo racconterò ad Alice, chissà se mi crederà. alla ricerca di Gatto (ritorno al futuro) Non mi ha creduto, ma soprattutto non mi ha perdonato di non avere posto attenzione a Gatto e di essermi fanciullescamente trastullato con un manipolo di formiche isteriche. Ho provato inutilmente a spiegarle che ero talmente assorto nei miei pensieri crepuscolari da non rendermi per niente conto del tempo che passava. Francamente mi ero scordato di quel felino saccente e arrogante, tutto pieno di sé e della sua boria, in fondo che mi fregava delle sue doti paranormali, l’importante era che non mandasse me in paranoia! Così ho dovuto prometterle che sarei 71


andato alla ricerca del bastardo, poiché stanotte non è rientrato e la sua presenza sembra essere fondamentale per il proseguimento del nostro rapporto. A onor del vero, più che un rapporto a me pare essere un verbale di conciliazione stilato presso un giudice di pace ma tant’è…non voglio vederla sparire un’altra volta dentro la tana di un coniglio. Stretto nel piumino d’ordinanza, ho raggiunto il luogo del misfatto e mi sono ingegnato a percorrere all’inverso il tempo trascorso ieri sera sulla riva della laguna. Mi sono seduto sulla solita panchina e ho girato lo sguardo tutt’intorno. Nulla di anormale, il manipolo di formiche marciava compatto e impettito. Il solito merlo, sfuggito chissà come alla strana moria di questi tempi, teneva d’occhio i loro movimenti osteggiando indifferenza. Solo un gabbiano, volando più basso del solito, mi sfiora stridendo e atterra elegantemente su una boa. Sono francamente infastidito dalla situazione, di Gatto non v’è traccia e l’umidità urla attraverso ogni mia congiunzione ossea. Ma…sì, ora mi ricordo! Prima di salutarmi con il suo ghigno mefistofelico si era infilato in quel vecchio portone! Ho raggiunto velocemente il ponte e, attraversandolo con incoscienza e facendo lo slalom tra le macchine mi sono fiondato 72


all’interno del vecchio edificio. Un anonimo androne, maleodorante di muffa con le cassette raccogli - posta debitamente sventrate da mani vandaliche e una lunga scala che porta ai piani superiori immersa nella penombra per poi sfociare man mano nel buio più assoluto. Sto facendo i conti con quella strana sensazione di timore misto ad ansietà che mi coglie ogni qualvolta mi trovo in queste situazioni, quando un miagolio mi distoglie ed acuisce i miei sensi. L’ho riconosciuto, come no, è lui il bastardissimo felino! Dove sarà mai? Il suono sembrava provenire dai piani superiori, così divoro le scale e la paura dell’ignoto in un lampo e mi ritrovo, senza rendermene conto, all’ultimo piano dell’edificio. Davanti a me una porta di metallo scrostato m’invita socchiudendosi e aprendosi alternativamente. Un respiro profondo e…varco la soglia. La luce del sole di Agosto m’investe in pieno, l’amaca dondola invitante e l’esercito di formiche sta marciando spedito verso il buco nel pavimento. La brezza marina mi avvince, mi stendo sull’amaca e, mentre il ghigno di Gatto dondola indisponente tra le piante del balcone, torno a sognare la nebbia della laguna. Strana estate quell’estate del ’65, vero Alice?.... Alice? 73


La chiave rossa [Serata torrida, umidità da bagnomaria. Decido che fare “quatro ciàcoe” in quel di Venezia, nel salotto buono della venexiana più ospitale della laguna sarebbe stata un’idea da Oscar, la cui brillantezza mi avrebbe inorgoglito per parecchio tempo. Ipso facto, rompo “il porcellino del pensionato”, racimolo una manciata di euri e mi accingo ad accendere un mutuo per pagare il taxi driver lagunare che mi avrebbe traslocato sino alla magione ambita.] Infilo un paio di braghe decenti, arraffo i conquibus e mi fiondo in darsena, a Chioggia, dove il fido capitano Marco mi attende sul suo bragozzo Ulisse I per traghettarmi sino alla calle gentilizia dove il Rosso Veneziano del palazzetto si specchia nel canale. Classica decorazione delle finestre, col bianco calce che ne disegna il profilo e quell’aura di dolce opulenza che trasuda da ogni particolare. Non dirò, nemmeno sotto tortura, dove si trova questa meraviglia architettonica, né tanto meno svelerò il percorso che il navigato capitano ha fatto per canali e rii sino ad arrivare a destinazione, dirò soltanto che il bragozzo attraccò dolcemente alla sponda del 74


canale dove un portone verde bottiglia abbagliava il rosso riflesso dell’edificio con lo splendore e il luccichio dei suoi ottoni. Il rosso, già. Questo colore sarà il fil rouge di tutta la serata, inevitabilmente. Mentre metto a repentaglio la mia integrità fisica con un balzo sul cemento, la coda dell’occhio viene attirata da una scena inusuale: un gabbiano dondolante sull’acqua osservava come inebetito il suo candido piumaggio assumere toni di rosso acceso che col dondolio sfumavano dolcemente in rosa antico per poi morire tra i riflessi sanguigni del canale. Tre gradini e fui dinanzi al portone. Istintivamente misi una mano in tasca e trovai l’amichevole contatto con la chiave, la chiave di “casa”. Non stupitevi, la padrona di casa, vista la mia assidua frequentazione del suo salotto, mi fece dono della chiave, come segno di amicizia e di stima nei miei confronti. Oh, ma non è una chiave diciamo così, normale, innanzitutto è rossa, di un bel rosso vivo, acceso, poi è finemente cesellata. Anche qui la classe e l’attenzione per i dettagli, i particolari raffinati, denotavano la personalità e l’amore per il bello della mia ospite. Non feci in tempo a usarla, la porta si spalancò e il Sorriso mi accolse con un “benvenuto, finalmente!” Per i non habitué: il Sorriso è l’aura, il mood che si respira in questa 75


casa ti accoglie, ti accompagna e ti fa da anfitrione guidandoti alla scoperta delle splendide sale e salotti che si aprono su corridoi vivificati da splendidi dipinti alle pareti. Ringraziai Sorriso, ma francamente non avevo bisogno della sua guida, conoscevo la dimora come le mie tasche… (sì, la chiave era ancora lì, verificai istintivamente). Il brusio che saliva di tono a mano a mano che m’inoltravo lungo il corridoio segnalava che da lì a poco mi sarei trovato nel salone principale, quello delle feste, per intendersi. Capannelli di volti sconosciuti, moltissime presenze intraviste sporadicamente e, più in là, quasi in disparte, un crocchio di volti e voci conosciute. Un’escalation di suoni, parole e commenti che veleggiavano sulle teste degli astanti, rimbalzavano inesausti e andavano a morire sugli stucchi dorati dei muri. Affettai diversi sorrisi di circostanza, azzardai qualche ironico commento e proseguii, attraversando il salone con una rosa rossa in mano e un calice di Franciacorta nell’altra, alla ricerca della padrona di casa, memore della mia precedente visita con fuga finale “all’inglese”… Non la trovai, o meglio, non riuscii a incontrarla. Farfalleggiava tra gli ospiti da perfetta padrona di casa commentando 76


positivamente e con un sorriso accattivante ogni argomento o discussione che il suo innato senso dell’ospitalità catturava tra gli invitati. Consegnai a Sorriso la mia rosa, con la preghiera che fosse recapitata alla padrona di casa (la volta precedente la lasciai sul cuscino della sedia) e, sorseggiando le mie bollicine, mi avvicinai all’uscita del salone. Mi ritrovai su un corridoio a me del tutto sconosciuto, poco illuminato. La mia attenzione fu colpita da una porta chiusa, con i battenti affatto diversi per qualità e forma degli stessi, quasi fossero stati realizzati da una mano diversa, da un altro artigiano, sicuramente in epoca diversa, più recente. Mi avvicinai e fui colto dalla voglia irrefrenabile di entrare, di conoscere cosa celasse quell’uscio chiuso, cosa vi era di là da esso. Girai la maniglia, ma la porta non si aprì, era evidentemente chiusa a chiave. Non so perché, ma la mia mano finì in tasca e strinse tra le dita la chiave rossa. “Ci provo”, pensai. Infilai la chiave nella toppa e, con mia somma sorpresa, la stessa girò dolcemente, senza intoppi. Due scatti della serratura, girai la maniglia e fui dentro. Il buio avvolgeva la stanza, ma una lama di luce lunare entrava dalla finestra e illuminava di sbieco la scena. Era spoglia, vuota o perlomeno quasi vuota. Nel centro, postovi da una mano distratta e 77


frettolosa, troneggiava un vecchio canterano, con la sua ricca sequela di cassetti chiusi come una serie di bocche cucite poco disposte a interloquire. La luce lo colpiva in pieno, mettendone a nudo con crudele evidenza le crepe, i tarli e le polverose tracce degli anni trascorsi in chissà quali soffitte. Rimasi molto colpito da questa scena, che contrastava decisamente con gli ori, le luci e lo sfavillio della dolce ma ricca opulenza dogale dell’ambente. Mi avvicinai, preso da un irrefrenabile impulso di curiosità e tirai a me il primo cassetto che avevo a portata di mano. Sentii un lamento, poi una voce dolorosamente mi redarguì, “Finalmente, ce ne hai messo di tempo, dove sei stato? Torna dentro!” Rabbrividii, poiché avevo riconosciuto la voce, era la mia. Sì, ero proprio io, vecchio canterano polveroso con i cassetti ricolmi di carte ingiallite zeppe di ricordi che, corrompendo con furbizia il Sorriso di guardia al palazzo, fuggivo dalla mia identità per folleggiare tra i riflessi rossi della laguna… Non aspettai oltre, uscii di corsa dalla stanza, chiudendo la porta alle mie spalle e attraversai velocemente il salone affettando sorrisi di circostanza e saluti frettolosi. Un abbraccio affettuoso e il Sorriso divenne un 78


ammiccamento complice e, sussurrandomi all’orecchio un “grazie” da parte della mia ospite, aprì il portone. Mi ritrovai seduto sull’ultimo dei gradini di marmo mentre lo sciabordio del canale m’inumidiva i piedi e tentavo goffamente di mettermi in comunicazione con Marco, il mio taxi driver. Lo sguardo mefistofelico del gabbiano (ancora ammollo nello stesso punto) seguiva i miei movimenti che si facevano viepiù nervosi, convulsi. Il riflesso rosso dell’acqua del canale colorava anche i miei lineamenti, dando alla scena un che di girone dantesco. Fu allora che, preso da un moto di follia, infilai la mano in tasca traendone la chiave rossa per gettarla lontano, nel canale, ma il movimento fece cadere in terra un foglietto che evidentemente avevo trovato nel cassetto del canterano e che poi, travolto dagli eventi, avevo infilato in tasca senza avere il tempo di leggerlo. Era piuttosto ingiallito, ma lo scritto, seppure sbiadito, era perfettamente leggibile: “se il tuo posto non ha ricordo della tua presenza e la tua voce non alza la polvere delle tue colpe non illudere il tempo fuggendone il percorso ma affrontane l’ingiuria, la chiave è nelle tue mani” 79


Ora il rosso stinge poco a poco, la luna riavvolge la coperta stellata, la pece della notte va morendo nel rosa acceso del mattino. Il capitano non è venuto, il gabbiano si è fatto lo shampoo ed io sono qui, seduto sul freddo di un gradino, le braghe zuppe dallo sciabordio dell’acqua, con un sorriso ebete stampato in volto, che giro e rigiro tra le dita questa enigmatica chiave rossa‌

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Lacrime di laguna e perle di cristallo L’onda s’infranse contro il muretto che recinge e delimita la laguna del Lusenzo. Miriadi di goccioline come piccole, coloratissime perle di cristallo istoriate di magici riflessi rotolarono sparse sui sampietrini che attoniti assistevano all’evento. Pareva fosse un moto di stizza, di rabbia, chissà. Forse il passaggio continuo dei motoscafi e dei motori, rompendo in continuazione la calma e la serenità dell’istante avevano provocato quella reazione. Improvvisa ma contenuta, tutto sommato, seppure energica. Seduto sulla solita panchina, che ormai conoscendomi a fondo non si stupisce più delle mie assurde ed improvvide considerazioni, osservavo l’evento. Fui preso dalla incontenibile, assurda voglia di catturare qualcuna di quelle piccole perle iridescenti. Volevo farne una collana, affinché tu mi perdonassi delle mie continue assenze. Sarebbe stata benissimo sul tuo collo, un mirabile e unico gioiello da far invidia alle murrine di Murano. Incredibile! Si può essere gelose di una laguna? Certo che si può, quando la natura sfodera tutta la sua magica bellezza. Così dentro di me speravo nel nuovo passaggio di qualche stupido e rombante motore che avrebbe sicuramente prodotto l’effetto sperato: 81


la rabbia della verde azzurra fata e la conseguente onda. Mi lesse nel pensiero e, nel silenzio più assoluto e benché niente potesse giustificare una sia pur lieve increspatura dell’acqua, innanzi a me venne a infrangersi una piccola, gentilissima onda che mi regalò una miriade di minuscole, iridescenti, perle di cristallo. “Grazie” – sussurrai- attonito. Una voce ormai a me nota rispose: “Non sono perle, vecchio credulone ma lacrime” In quel momento il rombo di un motoscafo ferì la magia dell’istante e un’orrida e untuosa macchia di petrolio venne a lordare il muretto, picchiettando di nero pece il cotto dei sampietrini. “Lacrime, ricordalo, lacrime”… mi sussurrò la voce nell’infrangersi dolorosamente contro la riva. Ne conservo ancora una nel mio fazzoletto, ogni tanto trasluce tra lo sporco di petrolio. La collana di perle che ti ho regalato non è la stessa cosa.

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La luce spenta di un piccolo diamante Non sapevo che il nero profondo del buio potesse accecare come un lampo improvviso nella notte. Eppure brancolo nel buio accecante del profondo dell’anima sperando di ritrovare il filo rosso che mi riporti alla luce naturale, allo splendore del rosso acceso del mio cuore. Sprofondato nel nero assoluto anelo la gioia dei colori della poesia. Piccolo, iridescente diamante sfaccettato, racchiuso nella mia mano che da tempo ha spento i suoi meravigliosi riflessi. Ti metterò lì, incastonato, vicino al cuore. I suoi battiti ti faranno rivivere, tornerai a regalarmi l’iride dei tuoi colori.

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La panchina Era lì da tempo immemorabile, consunta, ridipinta varie volte con il legno che marciva inesorabilmente: il tempo non era stato certamente clemente con lei. Pur tuttavia era colma di saggezza, di ricordi che puntualmente tornavano alla mente ogni qualvolta un essere umano posava le sue terga su di lei. Un tempo era verde, di quel bel verde brillante che metteva allegria al solo vederlo. Giovane e forte, accoglieva teneramente trepidi innamorati o placidi vecchi. La sua casa era il parco di una vecchia e austera cittadina del nord dell’Inghilterra, pioppi e ontani rinfrescavano con la loro presenza le rare giornate di sole che interrompevano saltuariamente il grigio plumbeo caratteristico di quelle lande. Non aveva un nome, anche se era stata battezzata più volte da giovinastri in vena di divertimento che avevano inciso su di lei messaggi amorosi, improperi, volgarità. Eppure era felice, di quella felicità serena che solo l’età e l’aver raggiunto la pace con se stessi permetta di avere. La curiosità e l’immutato amore verso la vita che ogni volta le si rappresentava diversa e piena di novità e incongruenze avevano fortificato la sua fibra al 84


punto tale che l’avresti paragonata sicuramente a un vecchio contadino dai lineamenti scolpiti dal tempo e dalla durezza della vita. Questi pensieri si rincorrevano nella mia mente mentre la guardavo e mi accingevo con una sorta di timore reverenziale a sedermi su di lei. E’ tutto molto sciocco, -pensai-, la conosco molto bene, ci incontriamo ogni giorno, è solo la solita panchina che, a dir la verità, sta diventando viepiù scomoda. Ma una sorta di ansia mi attanagliava e con il fiato sospeso iniziai a leggere il quotidiano mentre i nervi erano tesi come in spasmodica attesa di un non ben identificato, ma ineluttabile evento. Finii il quotidiano, mi stiracchiai pigramente le membra e feci per alzarmi, deciso a cancellare quel senso di disagio che ancora sentivo dentro di me con una salutare passeggiata. Non riuscii ad alzarmi. Una forza misteriosa mi teneva incollato su quella panchina. Dopo un primo, comprensibile attimo di smarrimento cercai lucidamente di dare una spiegazione razionale alla situazione che, se guardata con disincanto, poteva senz’altro apparire ridicola. Fu a questo punto che sentii una voce suadente, carezzevole provenire dalla panchina: “il tuo tempo è scaduto, sei molto stanco…..riposa”. 85


Se passate per il parco di quella cittadina del nord d’Inghilterra, cercate pure quella panchina ma, per amor di Dio, non sedetevi!

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La stella che invidiava le stelle Quella notte avevo deciso di ammirare il cielo stellato da una posizione privilegiata, seduto su di un poggio naturale lassù in montagna dove avevo acquistato una casetta. Lo spettacolo naturale era di quelli mozzafiato, che solo la montagna in stato di grazia sa donare. Ad un passo dal cielo tutto acquista una dimensione più intimistica, il respiro si cheta e lo sguardo viene inevitabilmente catturato dalla magnificenza di un cielo stellato. Stavo così, rapito, la mente sgombra da fardelli inutili, in pace con me stesso, quando fui attratto da un pianto sommesso. Era un suono flebile seppure distinguibile che immediatamente riconobbi come un pianto. Sì, qualcuno stava piangendo sommessamente accanto a me. Alquanto preoccupato, poiché reputavo esser solo, scattai in piedi, girai lo sguardo e faticosamente cercai qualche presenza nel chiarore riflesso della notte. Nulla, non vi era nessuno. Sedetti di nuovo e nuovamente il pianto fu percettibile, stavolta più distintamente. Abbassai istintivamente lo sguardo e allibii. Una stella alpina proprio accanto a me stava singhiozzando disperatamente. Non credendo ai miei occhi e soprattutto ai miei orecchi mi chinai verso lei e 87


fu allora che sentii distintamente una vocina che diceva: <<Vorrei un paio d’ali. >> Sempre più basito non seppi trattenermi e domandai <<Un paio d’ali? Come mai e cosa ne faresti, tu d’un paio d’ali?>> Mi rendevo conto che la situazione era assurda, ma la montagna fa anche di queste magie. <<Raggiungerei le mie sorelle – disse la stella – loro sì che sono ammirate e hanno vestiti brillanti che attirano sguardi. Io qui, ancorata alla terra, nessuno mi vede. >> Invano cercai di convincerla spiegandole che una stella alpina come lei era un dono meraviglioso della natura, la firma inconfondibile della sua bellezza. Niente da fare. Lassù, sulle montagne quella notte una stella piangeva di invidia.

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L’attesa Aprii di colpo gli occhi. Un sudore gelido ed appiccicaticcio mi teneva incollato al letto e la sensazione di essere osservato era sempre lì, prepotente. Girai lo sguardo e fu allora che La vidi. Seduta accanto al letto con la testa china, pareva dormisse accanto a me. Attendeva. Fu così, per un anno. Cambiavo spesso letto e stanza, ma Lei non si confondeva ed ogni volta la ritrovavo seduta, paziente, in attesa. Quante volte ho provato a spiegarle che la mia presenza era fortuita, non voluta. Non alzava neppure lo sguardo, immobile statua di sale, muta. La sua presenza, seppure così inquietante, alla fin fine mi fa compagnia pensai- mi stavo quasi abituando a questi strani e periodici incontri fatti di completi silenzi e di attesa oramai condivisa. Una voce a me cara mi richiamò alla vita. Era l’ultimo giorno. La Signora alzò la testa e vidi i suoi occhi gelidi pezzi di cristallo sfaccettato che riflettevano la mia immagine e me la rimandavano scomposta, spezzettata. “Non si fa aspettare così una Signora…” mi disse aprendo per la prima volta quella specie di ferita sghemba che le attraversava il viso. Si alzò e scomparve. La puttana. 89


Le mani di Mary Mary aveva mani piccolissime, come una bambina. D’altronde anche Mary era piccola, col suo metro e mezzo di altezza l’avresti scambiata facilmente per una dodicenne. Solo un seno decisamente fuori proporzione tradiva il suo esser donna. Capelli nero corvino incorniciavano un viso dall’espressione perennemente seria, severa, sottolineata da labbra rosso acceso naturale. Gli occhi neri, profondi ti agganciavano al primo sguardo per non mollarti più. Si lamentava spesso del suo essere piccola, tascabile, ma era orgogliosissima delle sue mani. Possedevano un’abilità rara, sapevano adeguarsi velocemente a qualsiasi attività manuale lei decidesse intraprendere, erano la sua vera e unica fortuna. Era nata in un paesino sperduto della Lucania, Rabatana di Tursi, abbarbicato su una collina rocciosa e mezzo diroccato. Paese fantasma, quasi disabitato che tra le bellezze naturali e le rarità architettoniche nascondeva la ferita profonda di quelle terre: la povertà e molto spesso l’ignoranza, sua figlia prediletta. Non fatevi ingannare dal nome decisamente “yankee” della nostra eroina, l’aveva chiamata così sua madre in memoria di un 90


soldato americano conosciuto alla fine dell’ultima guerra, chissà come sperdutosi tra quelle rocce aspre e meravigliose che circondano Matera. Mary si lavò le mani, delicatamente ma accuratamente, in profondità, come un chirurgo. Le asciugò con pignoleria e si infilò i guanti di lattice. Già, perché Mary faceva l’infermiera in una piccola clinica privata di Milano dove si era trasferita una decina di anni orsono. Strofinò col batuffolo imbevuto di disinfettante la natica del paziente disteso sul letto e si accinse ad iniettare la solita dose di calmante prescritta dalla cartella medica. Fece molta attenzione, poiché di carne ve n’era molto poca, e le ossa la facevano da padrone su quel corpo di ottantenne. La clinica dove svolgeva le sue mansioni era più che altro un piccolo gerontocomio, in realtà ospitava anziani a lunga degenza o malati terminali. Posto non certo allegro, ma Mary aveva innata la caratteristica propria della gente della sua terra, la tenacia e la dedizione seria e completa al lavoro, qualsiasi esso fosse, faticoso, noioso, pericoloso o meno. Era molto apprezzata per quella sua abilità manuale e ormai era richiesta come assistente da molti dottori e chirurghi del plesso 91


ospedaliero. Bucò con mano lieve ed esperta la pelle del paziente il quale sorrideva beatamente, non si era accorto di nulla. Era quella la specialità di Mary, l’abilità e la leggerezza del tocco delle sue mani, oppure la forza e la determinata precisione delle stesse ove ve ne fosse la necessità. Sfregò energicamente col batuffolo di cotone, sorrise distaccata all’anziano, ed uscì dalla stanza sfilandosi i guanti. Si diresse subito verso gli spogliatoi del personale, aveva finito il suo turno e si accingeva a rientrare a casa, dove l’aspettavano le incombenze domestiche giornaliere, comuni a tutti i single. “Eh, sì…single” – pensava assorta Mary mentre attendeva la metropolitana seduta su una panchina d’attesa - “single…” ripeteva mentalmente in maniera quasi ossessiva e non si era accorta che nel frattempo un treno era già passato e lei distrattamente aveva perso quella corsa, completamente immersa nei suoi pensieri. L’arrivo della corsa successiva la risvegliò da quella specie di trance in cui era sprofondata e salì con piglio deciso sulla prima carrozza disponibile. Non aveva posta molta attenzione ne cura nella scelta della vettura, era salita così, d’istinto senza accertarsi se fosse piena o meno. In realtà era semivuota, cosa che a Mary non dispiacque affatto. Si 92


sedette con calma accanto ad una donna di colore e, sgomberando la mente dai pensieri che l’avevano assillata pocanzi, si accinse al seppur breve viaggio. Si guardò intorno, dapprima distrattamente, una coppia di giovani seduta poco distante catturò la sua attenzione. Era una coppia di ragazzi come ve ne sono molti attualmente. Lui sui diciotto’anni, capello nero corvino con frangia proiettata sugli occhi a nascondere chissà quali timidezze o lampi di vivacità degli occhi e viso moderatamente offeso da acne giovanile, vestiva la divisa d’ordinanza: jeans extra extra extra large portati regolarmente sotto l’inguine a mostrare biancheria intima che una volta aveva vissuto periodi di bianco splendore e maglietta in sintonia la cui taglia avrebbe potuto essere tranquillamente utilizzata come tenda canadese in un campeggio. Lei, minuta, dall’apparente età di sedici anni, aveva un viso pulito, da bambina. Gli occhi pesantemente bistrati lampeggiavano di furbizia e malizia decisamente non consone all’età. Anche lei inguainata in un paio di Jeans sdruciti e portati a vita bassa come comanda la moda attuale a mostrare il classico tatuaggio incastonato tra le natiche che occhieggiava dall’elastico della biancheria intima. Un tanga probabilmente indossato a dispetto del parere 93


materno. Maglietta extra extra extra small ad evidenziare un ombelico sottolineato dal luccichio di un brillantino. Un particolare attrasse l’attenzione di Mary, il seno della ragazza. Decisamente sviluppato, armonioso, ma di dimensioni tali da apparire quasi non proporzionato al resto del corpo. Istintivamente le mani si posarono sul suo, carezzandolo quasi lascivamente, con un gesto incontrollato che la sorprese. Non aveva pensato minimamente ad una cosa simile…ma lo sguardo tra il divertito ed incuriosito della donna che aveva a fianco la richiamò alla realtà. Si ricompose arrossendo e si immerse nuovamente nei suoi pensieri. L’avvenimento l’aveva scossa, di solito lei, così controllata e professionale, poneva molta attenzione ai gesti e ai movimenti. La vista del seno di quella ragazzina aveva scatenato in lei una ridda di ricordi e si era rivista bambina nel suo paese natio quando giocava coi coetanei e veniva spesso derisa per le dimensioni del suo seno, raffrontate con quelle delle mani. I commenti, si sa tra bambini sanno essere feroci e Mary ne aveva sofferto molto. Poi era cresciuta e aveva imparato ad apprezzare quelle sue caratteristiche fisiche che le avevano permesso da un lato una professione gratificante, 94


dall’altro una decisa attrazione verso di lei da parte degli uomini. “Gli uomini…”, pensò Mary e immediatamente rivide come in un film spezzoni di rapporti nati e conclusi subitaneamente, sesso e niente amore, ragioni e torti, partenze e ritorni, insomma il diario condensato in pochi minuti di una vita da single. Un brusco movimento la proiettò contro la spalla della donna di colore seduta accanto a lei, la quale le sorrise mostrando una fila di perle bianchissime che splendevano in contrasto con il colore del viso. Mary si scusò, sorrise a sua volta e si accorse che il treno era arrivato a destinazione, era la sua fermata: Rogoredo. Uscì sveltamente evitando le porte che si stavano chiudendo e dandosi della stupida si avviò verso l’uscita della metropolitana. Entrò nel bar-tabacchi presso l’uscita, ordinò un caffè e acquistò un pacchetto di sigarette. Fumava pochissimo, ma una sigaretta ogni tanto le dava un senso di sicurezza e pareva le si schiarissero le idee. Si incamminò verso l’uscita accendendosi una Marlboro Light e si avviò speditamente verso casa. Il vecchio palazzo anni ’50 ormai in disfacimento la inghiottì in un lampo e mentre quella impicciona della portinaia la salutava affettando un sorriso sdentato, si infilò bofonchiando una risposta nell’ascensore che 95


si mosse sferragliando come un vecchio treno. Ultimo piano, una mansardina da 850 Euro al mese, tre quarti del suo stipendio da infermiera, decrepita la sua parte, ma arredata dignitosamente e piena di tutte quelle piccole cose insignificanti ma particolari, spesso acquistate nei mercatini rionali o nei negozietti di articoli etnici. Chiuse accuratamente la porta e si diresse verso il bagno, accendendo nel contempo un bastoncino di incenso alla vaniglia che sporgeva da un contenitore di finto ebano sul tavolinetto dell’ingresso. Si muoveva con cautela nei 45 metri quadri dell’appartamento, piccolo in verità, ma decisamente su misura per lei. Si spogliò e si soffermò a rimirare il suo corpo di donna così particolare, inusuale piccola statura, viso da eterna bambina, seno importante, poderoso ma ancora sodo, sicuramente attraente e le mani…sì, quelle piccole, straordinarie mani da bambina che avevano eccezionali qualità, erano la sua fortuna. Si infilò sotto la doccia e si lasciò andare a pensieri, ricordi, desideri...il tepore e lo scro0scio dell’acqua la rilassavano completamente. Allungò la mano verso il portasapone per afferrare la saponetta, ma mancò la presa e afferrò invece la boccetta dello shampoo, stupita rifece il gesto, e anche stavolta la mano sembrava non ubbidirle, 96


afferrando di nuovo la boccetta. Preoccupata e leggermente ironica verso se stessa pensò “sto invecchiando, non riesco a coordinare i movimenti più semplici..bah, sarò stanca…” stavolta la mano di Mary ubbidì e afferrò la saponetta. Finita la doccia, canticchiando un po’ per farsi compagnia, un po’ per scacciare cattivi pensieri, indossando un accappatoio decisamente fuori taglia per lei, ma estremamente morbido, entrò in cucina e si accinse a preparare la cena. Aveva invitato un addetto alla mensa della clinica conosciuto a pranzo, mentre serviva al bancone del selfservice. Un ragazzone sui trent’anni alto un metro e novanta con due mani che sembravano pale da forno per pizzaioli. Decise che avrebbe preparato degli ottimi spaghetti aglio olio e peperoncino, chissà…, e poi un caprese con mozzarella di bufala fatta arrivare dal paese e pomodorini freschi. Rinfrancata dalla nuova allegria ritrovata e dal pensiero della cenetta imminente, prese una pentola dalla credenza. Movimento usuale che spesso aveva fatto, ovviamente, ma che quella sera divenne un campanello d’allarme. Sì, perché anche stavolta le mani non ubbidirono, si ostinarono per lunga pezza a descrivere movimenti assurdi, non rispondevano agli impulsi che il cervello di Mary mandava, pareva avessero vita 97


propria, un loro cervello, una loro volontà. Mary si rabbuiò e si preoccupò notevolmente, le sue mani non avevano mai fatto così…si fece forza e preparò la cena ponendo la massima attenzione a tutti i movimenti che le sue mani andavano facendo, e controllandone la rispondenza. Con animo irrequieto si vestì non facendo molto caso a ciò che indossava e accese la televisione, nell’attesa dell’incontro. Il pensiero ormai andava sempre più frequentemente agli avvenimenti poc’anzi accaduti e la preoccupazione cresceva. Il suono del campanello la distolse dalle sue angosce aprì la porta e si trovò dinanzi il metro e novanta di Gerry, ovvero Gerardo, parzialmente nascosto da un enorme mazzo di rose. <<Ciao, Mary sono in ritardo? Ho una fame. >> Alla vista di Gerry, più che del mazzo di rose, Mary riacquistò di colpo serenità e, dimenticando le nubi che avevano attraversato la sua mente sino ad allora, rispose con un sorriso: <<Benissimo Gerry, accomodati…che splendide rose, non dovevi…>> le solite frasi di circostanza insomma. Frasi che Mary aveva ripetuto ormai dozzine di volte ad ogni incontro con gli occasionali compagni della sua vita. Tutti attirati dalla prorompente ed esplosiva bellezza del suo seno, dalla maestria e dalla stupefacente abilità delle sue mani e dal 98


focoso temperamento di donna del sud che a letto, nonostante quel viso da bambina dodicenne, esplodeva nel sesso più sfrenato come la più navigata delle puttane di un bordello caraibico. Si accomodarono a tavola e di nuovo le sue mani non le ubbidirono più, rovesciando gli spaghetti sui calzoni di Gerry, mentre Mary lo serviva. <<Mio Dio che disastro! Scusami, sono mortificata…non so come possa essere successo – mentì preoccupatissima – togliti i pantaloni, vedo cosa posso fare, dovrei avere del borotalco in bagno, per assorbire la macchia d’olio…scusami ancora>> Sorridendo tra l’imbarazzato e l’accondiscendente Gerry annuì, si tolse i pantaloni e li consegnò a Mary, rimanendo in mutande. Nonostante la taglia decisamente “large” dei boxer, una notevole protuberanza rivelava il regalo che madre natura gli aveva fatto. Cercando di distogliere lo sguardo, ma aveva visto benissimo, con il cuore in tumulto per tutto ciò che stava accadendo, Mary prese in consegna i pantaloni e si recò in bagno. Si fermò davanti allo specchio e, respirando profondamente guardandosi nel contempo le mani pensò: ”Mio Dio, che mi sta succedendo"? “Sarà sicuramente lo stress di questa ultima settimana…questo lavoro mi sta uccidendo…” 99


si rassettò e in quel momento il suo pensiero corse all’immagine di Gerry in mutande e di quello che la protuberanza prometteva…Il suo temperamento e il desiderio di non restare sola in quella sera così strana e preoccupante scacciarono tutte le preoccupazioni. Tornò in cucina e prese le portate della caprese gridando con voce allegra: <<Gerry, adesso rimedio al disastro, ti piace la mozzarella di bufala?>> Si avviò verso il soggiorno, non prima di avere slacciato maliziosamente un altro bottoncino della camicetta. Ora un capezzolo occhieggiava dalla scollatura della seta e il continuo frusciare lo aveva eccitato platealmente, tanto che attirò immediatamente l’attenzione di Gerry che non mangiò quasi nulla della caprese e non distolse lo sguardo dal seno di Mary durante tutto il resto della cena. Mary lo invitò ad accomodarsi sul divano per sorseggiare un caffè e fu allora che davanti al metro e novanta di Gerry ormai completamente eccitato le mani di Mary ruppero gli indugi e afferrando con violenza il membro dell’uomo lo trascinarono decisamente verso la camera da letto. Gli sguardi dei due si incrociarono. Mary atterrita ed imbarazzata da quel gesto assolutamente non voluto delle sue mani, Gerry stupito ma sorridente nonostante l’inaspettato movimento. Fecero l’amore per ore. Ogni volta 100


che l’uomo si ritraeva stanco e spossato le mani di Mary lo riportavano sapientemente e crudelmente di nuovo all’azione. Stanco infine e alquanto alterato, Gerry si alzò di scatto dal letto: <<piccola puttana! – apostrofò – senza ritegno, non ti basta mai, eh? e pensare che con quella faccia da bambina..ridammi i pantaloni che me ne vado, non mi frega niente se sono macchiati, muoviti! >> La voce di Gerry si era fatta improvvisamente dura, un tono che non ammetteva contraddizioni, metteva quasi paura. Stancamente, quasi si aspettasse questo epilogo, Mary andò in bagno, raccolse i pantaloni di Gerry e glieli consegnò. L’uomo finì di vestirsi, aprì la porta e se ne andò, sbattendola, senza profferire parola. Mary si accese l’ennesima sigaretta e fumando pensierosa si sedette sul bordo del letto guardandosi distrutta le mani. Quelle piccole mani da bambina che tutti ammiravano per le loro capacità, che avevano costruito la sua piccola fortuna nel lavoro, ora non le obbedivano più, le stavano distruggendo la vita. Gerry era forse l’ultima chance, l’ultima speranza di dare un senso alla sua triste e vuota vita da single e queste maledette mani stasera la avevano definitivamente allontanata. 101


Si sdraiò sul letto e la mente corse a quando era piccola, là nella piazza del paese mentre ancora bambina giocava con i coetanei ma aveva presente il peso degli sguardi dei vecchi bavosi sul seno che rigoglioso stava spuntando. Come in un film rivide allora tutta la sua vita, la fuga l’arrivo a Milano, il lavoro, le congratulazioni e l’ammirazione per l’abilità e la professionalità delle sue mani. Già, le mani. Anche la sua vita da single, costellata da molte presenze maschili, tutte meteore attirate dal suo aspetto di donna/bambina e tutte fuggite nell’arco di una notte di amore furioso e annichilente. Già, le mani. Maledettissime mani, quando ormai sembrava che la corsa affannosa verso una dimensione di vita fosse giunta al traguardo, improvvisamente non avevano più risposto ai suoi comandi, avevano deciso di agire, di pensare a modo loro.incredibile. Mary era sopraffatta da questa scoperta. Le mani erano gelose!! Atterrita e sconvolta si tolse la collanina d’oro che portava al collo dal giorno della prima comunione. <<Signorina Mary!...Signorina Mary! >> La voce stridula della portinaia rimbombava nel silenzio del caseggiato, mentre con il comandante dei Vigili del Fuoco bussava alla porta di Mary. Non avendola vista uscire alla solita ora, la zelante 102


portiera si era preoccupata e, dopo aver aspettato un bel pezzo era salita sino all’appartamento. Non avendo ricevuto risposta alle reiterate scampanellate, si era decisa a chiamare i pompieri. << Signorina..signorina…>> << Deve essere successo qualcosa - disse rivolgendosi al vigile accanto - non ha mai fatto così.>><< Si sposti signora - rispose il pompiere - forziamo la porta, non c’è altra soluzione >> Entrarono alla fine. Non c’era bisogno di fare molti passi, l’appartamento era molto piccolo e in un attimo, evitando la confusione ed il disordine, arrivarono in camera da letto. Fu lì che a Giuseppe, comandante di zona dei vigili del fuoco e ormai con esperienza più che ventennale, si presentò una scena che difficilmente avrebbe dimenticata negli anni a venire. Una bambina dal viso apparentemente poco più che dodicenne giaceva supina sul letto. Due piccole mani livide per lo sforzo stringevano selvaggiamente il suo collo. Solo il seno discinto e rigoglioso pareva non rendersi conto dell’accaduto.

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Milano persa “Te se ricordet i temp indrè…” Quel lembo di periferia che andava dall’“Isola” a “Cascina Abbadesse” era il mio regno e di chi, nato in prossimità della fine dell’ultima guerra ha avuto il piacere e l’avventura di vivere e crescere in una Milano, viva, pulsante, ricca di tradizioni, accogliente, vera! Una pessima imitazione di Colt dei Cow Boys, cartucce sfiatate, soldatini di gesso con l’anima in fil di ferro, e pochissimi spiccioli in tasca da dedicare al ferramenta dietro casa. I “tollini” (tappi delle bibite) da mettere sui binari del 2 che sferragliava sino a Niguarda e da raccogliere piatti come ostie della Domenica a Messa da collezionare. E i “botti” di Carnevale da inventare, con i “petardi” che costavano 5 Lire l’uno e che non avevi mai… E ci si arrangiava con il potassio in polvere ricavato tritando pastiglie per la tosse e spalmato sul filetto delle viti di enormi bulloni fregati sulla massicciata della ferrovia in Fulvio Testi. Bulloni così confezionati da far “esplodere” battendoli sul selciato! Il “carrellotto" sorta di miniveicolo realizzato con assi, cuscinetti a sfere da spingere e saltarci sopra in corsa. 104


E le prime “Giubek” rapinate al tabaccaio dicendo che erano per il padre, i primi pruriti del giovane in piena tempesta ormonale e le serate con la Gina infrascati nei giardinetti di Piazzale Massari alla scoperta di quello che con una parola “grossa”, pomposa chiamavano “sesso”. E la Domenica sul sagrato della chiesa per cuccare le pochissime ragazze disponibili da portare alle feste allestite rigorosamente a pasticcini, Coca Cola e, per una botta di vita assicurata, pessimo Martini Rosso. Poi arrivò la “Milano da bere” e se la bevvero davvero tutta, tutta d’un fiato. Era talmente buona che non ne rimase niente, solo l’eco di un fetido rutto.

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Milleduecento battute per parlarne Si dice che i vecchi parlino volentieri dei ricordi, perché non hanno visione del futuro. Vivono il presente come un dovere, strascicando l’anima avanti e indietro lungo il corso della vita. Gradini sempre più alti, difficoltosi da affrontare i piccoli grandi problemi quotidiani. Vorrebbero delegare ad altri il mestiere di vivere, ma sono ormai abbarbicati alla consuetudine di riconoscersi al mattino. Certo la fortuna è diseguale, le opportunità pure. Pensieri come questi spesso m’inseguono quando, da un po’ di tempo a questa parte, mi ritrovo da solo a tirare le somme. Non sempre la matematica mi dà ragione, anzi spesso è un’opinione. Oggi no, oggi mi godo quest’ultimo sole seduto sulla mia panchina preferita, la testa sgombra da residui di ricordi e pensieri crepuscolari mentre una gabbianella impertinente mi fa l’occhiolino. E’ difficile svuotarsi di tutto e di tutti e, quando ci riesci, raggiungi il nirvana. Ma, c’è un ma. Questo piccolo pensiero dovevo pur tenerlo a mente e allora tutto è andato a puttane! Ora c’’è un vecchio seduto al sole convinto che un sorriso e un malizioso occhiolino possano cancellare almeno per un po’ la fatica di ricordare. Parliamone, allora. 106


Nero di china Lo incontrai alle tredici e trenta un Lunedì di Aprile del 1961 in Viale Zara, a Milano, alla fermata del tram della linea n°2. Alto circa un metro e settantacinque, moro, di corporatura normale e di aspetto gradevole, sfoggiava con disinvoltura un fresco Principe di Galles decisamente in anticipo anche per la precoce primavera di allora. Milano conservava ancora i sapori e i profumi di buono nelle periferie sorte un po’ caoticamente nel dopoguerra e prese alla sprovvista dalla prorompente dinamica economica, il boom. Il sole in quel mese di Aprile giustificava un certo ottimismo e metteva di buonumore, i primi tepori primaverili si mischiavano con i desideri impellenti di luce e calore dopo i mesi di freddo e di nebbie. Si avvicinò con fare indolente e sorridendo mi chiese da accendere, portandosi una sigaretta alle labbra. Giovane, pensai, certamente giovane. Scommisi con me stesso che non poteva avere più di sedici, diciassette anni. Azionai il mio “Zippo” estraendolo dal taschino dei Jeans (con un moto di orgoglio, fumavo anch’io allora) e mentre lui si inchinava per accendere la sigaretta, ebbi modo di vederlo bene in viso. Mi parve di riconoscerlo, era un viso a me noto..Lo 107


sferragliare del tram sulle rotaie interruppe il mio gesto di cortesia e rimandò di poco l’approccio ormai avviato. Come il solito, la ressa davanti al bigliettaio formava un tappo che impediva il regolare fluire dei passeggeri e i mugugni e le invettive verso il malcapitato tranviere si sprecavano. Vidimai il mio tesserino settimanale e così fece anche l’elegante interlocutore che avevo poco fa conosciuto. Ci accomodammo pressati come sardine in circa trenta centimetri quadrati e il viaggio ebbe inizio… Non aveva terminato gli studi regolari, mi disse, poiché desideroso di autonomia economica e giudiziosamente (almeno così pareva) conscio delle difficoltà economiche che il percorso scolastico creava sulle spalle della sua famiglia. Aveva così preso al volo l’opportunità che si era presentata di un “impiego” come apprendista disegnatore tecnico. Otto ore al giorno davanti ad un tecnigrafo a sfornare lucidi su lucidi di schemi elettrici. Passare a china su carta lucida i disegni che i disegnatori preparavano a matita utilizzando una penna particolare, il Graphos. Timbrare il cartellino con un occhio all’orario per evitare le trattenute sullo stipendio e alla sera a scuola! Cercava di accontentare i 108


desideri del padre che lo voleva Perito Elettronico e allora…frequentava a singhiozzo l’istituto tecnico. Poco interessato a resistenze e transistor, “bigiava” spesso le lezioni ed era diventato uno spettatore assiduo di film del neorealismo francese (alcuni terrificanti e terribilmente pesanti alla stregua della Corazzata Potemkin) e di avanspettacolo che improbabili compagnie di guitti e scartellate ballerine mettevano in scena al Cinema Teatro Alcione. Aveva anche una ragazza, bionda, occhi verdi, seno prorompente, tratti raffinati su un viso di madonnina ingenua. Non contento degli impegni presi amava la musica e occupava i pochi minuti liberi dedicandosi allo studio della chitarra. Mi raccontava tutto con fare quasi distaccato, da viveur consumato, bulletto di periferia azzimato incartato in un vestito appariscente troppo, troppo da “grande”. A questo punto gli chiesi l’età ed ebbi la conferma della mia prima impressione: diciassette anni! Avevo vinto la scommessa. Gli scossoni dell’incedere traballante del tram interrompevano spesso il racconto e davano all’insieme un che di surreale, di artefatto sembrava quasi un film di Ridolini, lui raccontava interrompendosi a ogni fermata della vettura e poi riprendeva daccapo, ripetendo parte delle cose già dette… 109


Ma io non lo ascoltavo più ormai, la mia attenzione era tutta rivolta verso una macchiolina nera che faceva capolino dalla manica della giacca sul polsino della sua camicia azzurra. Strano, pensai, possibile che il giovane elegantone non si sia accorto di questo”neo” nel suo abbigliamento? D’altronde non potevo non notare la “falla”, avevo il suo avambraccio a un palmo di naso. Si accorse del mio interesse e mi disse con noncuranza, sospirando, “è china, quel maledetto Graphos non ne voleva sapere di funzionare, l’ho agitato troppo forte e così… purtroppo non va via più” Lo stop improvviso del tram, la sua esclamazione di disappunto, il suo saluto frettoloso…”cazzo sono arrivatooo ciaoooo”. Sparì inghiottito dalla ressa dei passeggeri che si stava sciogliendo come un ghiacciolo al sole. Scesero tutti quel Lunedì del ’61 a quella fermata del 2, alla Stazione Centrale di Milano. Io no. Avrei dovuto, il tecnigrafo mi aspettava, la carta da lucido era già fissata con le puntine sul tavolo da disegno e il Graphos, quel maledetto, anarchico attrezzo, sicuramente se la rideva nel cassetto della scrivania. Non ne avevo più voglia. Al diavolo anche il cartellino penso, mentre con tenerezza infinita, quasi accarezzandolo, 110


richiudo l’astuccio che lo protegge assieme alla sua dotazione di pennini. Sono cinquant’anni che giace nel cassetto dei ricordi, oggi mi è capitato tra le mani. Non smetto di aprire e chiudere la sua custodia, infine mi decido, lo prendo, provo a innestare un pennino, lo 0.16, quello che usavo per segnare le quote sui lucidi. Non scrive. Stupidamente provo ad agitarlo, è senza inchiostro Franco, cosa fai? Domani mi comprerò una nuova camicia azzurra.

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Notte in bianco di un rosso innaturale Quella notte dormii male. Un sonno agitato, convulso, abitato da presenze, sogni, incubi. Mi giravo e rigiravo nel letto ansiosamente, come in attesa di un evento ineludibile. Nel dormiveglia contavo le ore scandite dalla luce fredda del led della radiosveglia sul comodino. Assurdo, pensai, alla mia età vivere queste sensazioni di timore latente, paura dell’ignoto. Improvvisa una luce rischiarò la stanza, o almeno così a me apparve, senza minimamente incidere nel sonno di chi mi stava accanto, mi catturò e sprofondai in una sorta di coma profondo, sospeso in un limbo tra ragione e follia, consapevolmente inconsapevole dell’incubo che stavo vivendo. Eppure mi piaceva, un sottile senso di libidine interiore, quasi fisica, mi attirava verso la scoperta di quella strana forma di malia che mi attanagliava. Ombre danzanti dapprima indistinte, viepiù precise col tempo pullulavano la mia mente impedendone un percorso logico. Con uno sforzo, che a me apparve immane, distolsi il mio sguardo dalla rappresentazione e mi vidi. Sì, mi vidi. Disteso su un piano di marmo. Nudo, immobile, gli occhi chiusi, dormiente. Vittima sacrificale in attesa di un verdetto che sancisse finalmente la 112


fine della dicotomia che da sempre aveva caratterizzato la mia vita. PerchÊ assistere alla fine di una parte di me stesso? E poi, chi aveva organizzato questa messa in scena? PerchÊ? Scientemente mi ribellai, utilizzando una vecchia tecnica: svegliandomi. Il led azzurrino della radio sveglia disegnava ombre rassicuranti sul muro della stanza. Il respiro regolare accanto a me rassicurava il mio ansimare calmandolo. Solo un particolare, un piccolo particolare stonava in questo quadretto rassicurante: in un angolo della stanza, per terra, un cappello da strega stagliava irridente un’ombra incerta sul muro.

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Only you Ho rovesciato lo zaino sul letto. Un disastro, non potete immaginare quanti ricordi vi fossero stipati lì dentro! Al confronto la borsetta di mia moglie mi appare come un lindo ed ordinatissimo archivio di analisi ospedaliere. Mi siedo sul bordo del letto affranto, mentre mi domando con insistenza: ma perché cazzo l’avrò mai fatto? Adesso mi tocca fare ordine…e questo mi mette in angoscia. Già perché per me “mettere in ordine” significa passare meticolosamente in rassegna tutto il contenuto e decidere: -questo lo tengo, questo lo butto-e allora l’analisi del ricordo si spinge nel profondo e vecchie cicatrici riaffiorano, dolori sopiti, dimenticati fanno capolino sogghignando dal marasma disordinato in cui erano sepolti pochi istanti prima. Figli di puttana! Perché non li eliminati l’ultima volta, quando ho fatto pulizia? Oddio è stato talmente tanto tempo fa che non me lo ricordo neppure più. Comunque è da farsi. Prendo un bel respiro e…vediamo, potrei incominciare da quel paio di calzoncini corti con uno sbrego sul sedere…ah, sì..ora ricordo, me lo sono fatto quando ho scavalcato il cancello della villa nel Quartiere Maggiolina di Milano dove regolarmente a Maggio penetravo 114


per rubare le prime rose da portare alla mamma…(giustificavo così il mio essere diciamo così un po’ discolo)…ma e quell’armonica? Guarda, guarda, proviamo…suonerà ancora? Pochi lamenti striduli, sfiatati, polverosi escono dallo strumento. Eppure è stato il primo strumento che ho imparato a suonare, frequentavo le medie, ricordo, in quel “lager” così chiamavamo a Milano l’Istituto Parini.. e un mio compagno mi iniziò all’utilizzo del piccolo ma efficacissimo strumento. Lui sì che era in gamba, d’altronde veniva da una famiglia di musicisti, che nel tempo ebbero un discreto successo. Era Paolo, sì Paolo Ciarchi. Quanta polvere! Quasi quasi rimetto dentro tutto così, come viene viene, alla rinfusa. Ora la mia attenzione è catturata da un vecchio vinile, un quarantacique giri così sbeccato che probabilmente non emetterebbe alcun suono, neanche a rianimarlo con masterizzazioni o recuperi digitali avanzatissimi. Però la copertina della custodia è ancora visibile: “Only you” cantata dai Platters, improvvisamente tutto gira intorno a me , il respiro, gli oggetti, la stanza , lo zaino tutto sospeso in aria fluttuante, galleggia in una scena assurda, come se la forza di gravità fosse improvvisamente sparita, come se fossimo su 115


una navetta spaziale…ma forse è così. La voce dei Platters mi trapana il cervello, ecco apparire il mio primo “filarino”, i miei primi vagiti di piccolo uomo in calzoni corti, le prime prove di “tempeste ormonali”, il cortile, i giornalini, i miei quindici anni..un vortice che aumenta di velocità gira, gira….Cado. Pesantemente. I miei quasi cento chili non perdonano…ora sono supino sul letto, sudato come mai in vita mia…eppure poco fa ero lì, in cortile, mano nella mano con lei, la ragazzina tredicenne che mi guardava e canticchiava in un inglese improbabilissimo: “Only you can make this world seem right Only you can make the darkness bright Only you and you alone… E’ tutto il giorno che mi aggiro per casa canticchiando questa vecchia canzone, con uno strano sorriso ebete stampato sulle labbra. Non ho dato risposte convincenti ed esaurienti a mia moglie che ha pensato immediatamente ad una demenza senile incipiente. In realtà ho deciso dentro di me di non ripetere mai più il gioco assurdo dell’immaginaria pulizia di primavera dei ricordi rinchiusi negli zaini polverosi dell’anima. No. Troppo pericoloso, rimbecillisco. 116


Ora sÏ Ascolto un ciottolo accidentalmente colpito rimbalzare con archi diseguali sull’acciottolato della strada che costeggia il molo. La luce fredda della luna rischiara il bianco cemento della panchina che algida mi invita. Accetto la sfida e mi sorprendo seduto mentre osservo i cerchi concentrici che il sasso forma sprofondando nel nero liquido del porto. Un gabbiano nottambulo mi sorvola lanciando il suo grido distrattamente. CosÏ sotto un lampione, seduto su una fredda panchina di una fredda notte di inverno, ascolto i miei sensi acuirsi e la calma appropriarsi del mio corpo. Ora sÏ, come vorrei una sigaretta, ora.

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Pacco, posta, visita, partenza Venti luglio duemiladieci, ore quattro e trenta del mattino rientro a casa sfatto dopo aver passato un’ora seduto sulla consueta panchina sul molo in cerca di refrigerio a questo caldo assassino che mi sta divorando le notti in un lago di sudore. Finalmente un vento deciso, senza per questo essere fastidioso pulisce l’aria e porta sollievo ai polmoni carbonizzati. Spazza via dalla mia mente anche le nebbie che si sono accumulate in tutti questi anni. Ora, con la mente lucida e il blocchetto degli appunti sott’occhio il ticchettio della tastiera è l’unico rumore distinguibile in questa notte che ormai volge al mattino. Scrivo, ed è importante aver rilevato con precisione la data, poiché questa è una dedica a me stesso, nel giorno del mio compleanno. Il battere delle dita sui tasti mi spinge al ricordo e immediatamente la mente va al periodo più bello e piacevole della vita: l’infanzia con la sua spensieratezza e i suoi giochi. “Un due tre, stella!”, voltarsi all’improvviso e trovare i compagni immobili, bloccati di colpo e punire chi ancora fosse in movimento, “Ciapa el tram balurda”, seduti in cerchio e passare al compagno di fianco un qualsiasi oggetto seguendo la nenia canticchiata da chi conduceva il gioco, i 118


“cinque sassolini” da lanciare in aria e raccogliere uno dopo l’altro con una mano sola, ecc. Tutti giochi cui partecipavo spinto più che altro dal desiderio di comunicare, socializzare, per nascondere una timidezza di fondo che spesso da bambino mi accompagnava nei rapporti con gli altri. Dire, fare, baciare, lettera, testamento, ecco, questo gioco aveva per me un fascino particolare, mi attirava e cercavo in ogni modo di esserne partecipe. Forse perché solleticava in me il desiderio innato di essere accettato con le mie timidezze e con gli slanci improvvisi di effimera allegria. Ma il mio preferito era, seduto sulla massicciata della ferrovia, attendere il passaggio del treno e “battezzare” i vagoni in sequenza con il celebre “pacco, posta, visita, partenza” e attendere la fine del treno per sapere cosa il treno ti avrebbe portato. Inutile dire che ho passavo delle ore in attesa di un responso favorevole. Poi il tempo, la vita, ha travolto tutto, i giochi sono diventati cose serie, e il timido bambino si è costruito e guadagnato la vita giocando e lavorando nel mondo dell’effimero. Ironia della sorte! Un timido con tendenze malinconiche e crepuscolari che campa e vive fingendo allegria per tutti questi anni! Sono quasi le sei, mi alzo e vado a sedermi sul poggiolo, (sorta di davanzale 119


allargato che qui in Veneto sta a indicare un rachitico balconcino), guardo il canale e respiro di nuovo il Garbino che nel frattempo si è fatto più imperioso. Ora sono più calmo, i sentimenti e i ricordi fluiscono con dolcezza e il cuore ha un ritmo accettabile. E’ iniziato il traffico nel canale e i passaggi dei pescherecci e delle imbarcazioni si vanno infittendo. ”pacco, posta, visita, partenza”…nooooo! Di pacchi ne ho ricevuti tanti, la posta la guardo sempre con un misto di curiosa ansietà e terrore e i treni, beh quelli sono passati e partiti tutti, ormai. Ho comprato una indefinibile tortina preparata con prodotti “ecosostenibili”, la infilzerò con sessantasei candeline, le accenderò e attenderò che si squaglino completamente, ricoprendo di cera fusa quell’orrida torta, rendendola immangiabile persino all’appetito del più sfigato dei gabbiani. Non mi piace questo gioco, non ci gioco più.

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Pagine bianche. Angoscia. Alienazione. La matita nella mano compiva evoluzioni improbabili tra le dita. Era sempre cosÏ ogni volta davanti ad un foglio bianco, immacolato, intatto. Ogni volta il pensiero, la paura di non sapere come riempirlo mi attanagliava lo stomaco strizzandolo come si strizza uno straccio bagnato. Poi, di colpo, la mano partiva autonoma seguendo percorsi a me non ancora ben definiti ma sicura, spavalda. Sapeva perfettamente dove arrivare. CosÏ ogni volta un pezzetto di me moriva per rinascere su quel foglio in forme, pensieri e colori diversi. Vittima e carnefice insieme, protagonista di una messinscena a volte sincera, spesso studiata. Ora che la matita riposa, pagine bianche come vergini speranzose attendono che mani sapienti diano loro vita riempiendole di parole. La storia si ripete. Quanto di me è rimasto da far rinascere su pagine bianche?

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Permette signora? Eskimo color militare comprato a poco prezzo alla bancarella della “ Fiera di Senigallia” a Milano in Porta Ticinese, jeans Levi’s rigorosamente originali, Zippo nel taschino per accendere la Marlboro necessariamente di contrabbando, ed eri pronto per il tuo debutto ufficiale nei mitici anni ’60. La periferia di Milano mano a mano si riempiva di immigrati venuti dal sud per poter godere del lavoro e del “miracolo economico”. Sedici anni o poco più, che ti fregava di tutto questo? Troppo giovane per aver vissuto veramente la guerra e per poter godere dei vantaggi che quel tempo offriva. Tutto allora ti sembrava a portata di mano, bastava allungarla. Come al cinema, quando cercavi conquiste facili e trovavi solo vecchie carampane in cerca di giovani emozioni. La domenica quando eri in “grana”, (ossia tuo padre mosso a compassione ti aveva allungato un paio di mille lire), facendo collette tra gli amici provavi l’emozione della variante trasgressiva alle feste in casa: andare a ballare in qualche balera dei paesi limitrofi rubando la bici al “prestinée, ” (fornaio) e mentendo spudoratamente sulla tua età all’ingresso della sala da ballo. 122


Cercando di assumere aria da vissuto “playboybagninoriminese” alla Piero Focaccia, cercavi di rimorchiare robuste contadinotte paralizzate sulla panca ai bordi della pista da ballo: “Permette signora, mi guarda da un’ora vuol dir che stasera si é accorta di me…Balla? No! Sono impegnata….” Mitici anni ’60!

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Peso lordo meno tara uguale peso netto? Aveva un’andatura claudicante, ondeggiava quasi fosse sul cassero di un peschereccio. Lo seguivo dappresso anch’io con la mia camminata circospetta di chi sente la terra ritmare strani brani latini americani sotto i piedi e non ha mai imparato a ballare. Maledetta cervicale! Il mio amico mi precedette e si accomodò sulla panchina di pietra, istoriata da dediche più o meno oscene, prospiciente al molo e mi attese. Non feci in tempo a sedermi e a riversare su di lui tutte le mie considerazioni sulla meteoropatia, il tempo assassino e balle varie, che mi apostrofò con la sua voce chioccia e stridente di vecchio gabbiano navigato. “Perché porti quel peso sulle spalle?” La domanda giunse inaspettata, ma mi acconciai alla risposta affettando una nonchalance a dir poco regale. “Lo zaino, dici?”- risposi fissando con intenzione la ruggine di un vecchio peschereccio ormeggiato lì vicino - “Ah, ma è la mia vita, i miei ricordi, i misfatti, tutto insomma, i miei anni.” “E lo porti sempre con te?” continuò l’amico grattandosi l’ala destra con una certa difficoltà. Dopotutto non era di primo pelo neppure lui e gli anni e l’umidità della laguna avevano arrugginito anche i suoi 124


movimenti. “Certo – continuai – ormai è una mia propaggine, fa parte di me, non posso staccarmene”. “Deve essere ingombrante, però…hai provato a svuotarlo e a fare un po’ di ordine lì dentro? Magari ci sono cose che non ti servono più, vedrai, ti sentirai più leggero, dopo!” Rimasi basito, ma sì tutto sommato forse il gabbiano aveva ragione. Così, sfidando il ridicolo della situazione poggiai lo zaino sulla pietra e iniziai la pulizia svuotandolo completamente di un colpo, con un solo movimento, rovesciandolo. Anni, ricordi, pezzi di vita masticata e mai digerita, piccoli amori, piccoli dolori, grandi cazzate, grandi giornate tutto rotolò sul molo e qualche pezzo finì direttamente in acqua, non me ne dolsi. Cominciai così la pulizia, ma la cosa andava per le lunghe, sicché il mio amico si stancò e, dopo essersi stiracchiato con le sue zampe, ormai di un giallo rancido data l’età, si alzò in volo stancamente apostrofandomi: “Buon lavoro, vecchio mio, ma ricordati, butta via anche lo zaino, altrimenti è un lavoro inutile!” “Sì – gli risposi – ma il resto, dove lo metto? “ “Lascialo lì, che te ne fai? E’ solo peso morto” – gracchiò ormai lontano – e sparì dietro agli ultimi pescherecci.

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Forse ha ragione, pensai, dopotutto chissenefrega. Guarda: cammino anche piÚ sicuro, non dondolo piÚ. CosÏ, con l’illusione di una nuova e ritrovata leggerezza mi avviai verso casa, lasciando sul molo e sulla panchina quel che era rimasto della mia vita passata. Inutile dire che dopo dieci minuti sono corso incespicando con un groppo in gola a recuperare il tutto. Ho comprato un nuovo zaino. Giallo, figo.

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Quella sera a Venezia Ora sono qui, seduto su questa sedia stile Luigi XVI, in questo salotto dove respiro Venezia e dove tutto ciò che mi circonda me la ricorda e descrive. Sono qui, arrivato buon ultimo in punta di piedi per non recare disturbo alcuno, che mi guardo attorno e cerco di trovare una posizione meno scomoda sulla sedia. Non sono abituato evidentemente. La tazzina con il caffè che gentilmente mi è stato offerto al mio arrivo ora viene rigirata pigramente tra le dita, il caffè freddo non l’ho mai amato, è una vera schifezza. Giro lo sguardo intorno a me e vedo molte facce note, ma anche molti nuovi convenuti. Manco da tempo, si vede. Le conversazioni si intrecciano, colgo mozziconi di frasi e di argomenti. Il fastidio per la posizione innaturale assunta sulla sedia sta viepiù crescendo. Raccolgo un sorriso complice dalla padrona di casa che sta farfalleggiando impegnata tra i nuovi ospiti. Non ho profferto una parola, finora. Dopo aver cercato inutilmente un tavolino appoggio delicatamente la tazzina colma della schifezza nera gelata sul tappeto e mi alzo. Sfoderando uno dei miei migliori sorrisi idioti saluto gli astanti con un cenno del capo, inarcando un sopracciglio e mi avvio in punta di piedi, come 127


sempre, verso l’uscita. Sulla sedia una rosa rossa fiammeggia il mio grazie alla padrona di casa. Chiudo la porta alle mie spalle, senza far rumore. Mi accolgono le note del Rondò Veneziano provenienti da chissà dove. Ah, Venexia…na.

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Questo piacerebbe a Gigi Marzullo. Metamorfosi in atto o periodo di involuzione costante? Non amo le rime eppure mi sgorgano così, inevitabili, mi attendono al varco del pensiero e subito lo trasformano velocemente andando a cercare le parole come velocissimi correttori di Word. Così leggo e rileggo, in perenne dislessia mentale; monto, smonto e rimonto frasi con un susseguirsi di ricerca affannata di parole, verbi e assonanze ritmiche o baciate. Eppure il dire è così semplice: basta prendere un bel respiro e pensare di dover scrivere una lettera ad una vecchia zia ottuagenaria ecco, stanotte farò così, tornerò all’antico, come quando scrivevo articoli sul giornale locale e penserò a quella vecchia zia che forse le rime non le avrebbe capite, ma un bel discorso chiaro, diretto con verbi e aggettivi appropriati, quello sì che lo avrebbe letto e poi si sarebbe addormentata senza togliersi gli occhiali, crollando sul cuscino con un dolce sorriso sulle labbra…

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Ruggine Cerchi concentrici di acqua circondavano il ruggine di una foglia di platano che ribelle aveva deciso di posarsi sull’acqua. Le sue sorelle in disparte occhieggiavano con i loro verdi sottobosco e le loro sfumature di ocra e giallo d’autunno inoltrato. Solo lei spiccava per quel suo inconfondibile colore. Affascinato ho seguito con lo sguardo il lento roteare della foglia che piano veniva inghiottita dall’acqua. Mi sono svegliato madido di sudore. Sul bianco candido del cuscino accanto a me spiccava una macchia a forma di foglia. Color ruggine.

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Sette palloncini anarchici Nel pomeriggio assolato di una domenica di Maggio, in una di quelle domeniche di primavera ormai inoltrata, quando l’aria tersa rende i colori piÚ vividi e il cielo sembra una tavola cobalto appiccicata lassÚ da qualche artista in vena di omaggi a un pubblico spesso indifferente e distratto, una brezza dispettosa, ritardataria, dimentica di Marzo, scarmigliava le chiome ormai rigogliose degli alberi, che parevano usciti da un salone di bellezza, tanto il make-up e il look erano attraenti e decisamente alla moda. Il vociare dei bambini che si rincorreva tra le panchine del parco, le gote rosse, gli occhi ridenti e i giochi a cavallo tra fantasia e sogno faceva da cornice a un’istantanea che per poesia e colore avrebbe ispirato il sogno, la bravura e i colori del grande Monet. Lo scampanellio argentino del carretto del gelataio suonava indiscreto a interrompere la magia del momento, mentre in un angolo un venditore di palloncini offriva ai bambini la magia e il sogno coloratissimo di quei compagni sorridenti, sospesi sempre tra la terra e il cielo grazie ad un filo che la mano tratteneva come leggero ed etereo guinzaglio. Il capannello dei bimbi che circondava il dispensatore di sogni era lÏ a testimoniare 131


l’amore e la forza d’attrazione che il multicolore mazzo stretto tra le mani dell’uomo spandeva tutt’intorno. A uno a uno, come in un’allegra processione i palloncini passarono dalle mani del venditore in quelle dei bambini e si sparpagliarono tra le panchine e il verde degli alberi. Tanti magici fili li trattenevano e sospingevano in danze a volte leggere e morbide a volte in evoluzioni frenetiche e sussultorie. Ben presto la tavola blu del cielo si trovò punteggiata da una miriade di anarchici puntini colorati che gioiosamente ondeggianti festeggiavano, sospinti dalla complice brezza birichina, la libertà conquistata sfuggendo alle inesperte e dimentiche mani dei bambini. Volteggiando e danzando interpretarono il loro inno sino a che la stanchezza non li avvinse e lentamente, dolcemente atterrò lontano, sparendo alla mia vista. Si stava facendo tardi, il sole arrossiva colorando il cobalto di viola e le prime ombre si stagliavano sul parco. I bambini a poco a poco, a malavoglia, abbandonando i giochi, avevano risposto ai richiami delle mamme e avevano lasciato il parco orfano della loro chiassosa allegria. Chiusi il libro, mi alzai dalla panchina e m’incamminai lungo il vialetto che attraversava il parco con andatura calma, 132


sorridendo e respirando l’aria dolce e profumata che Maggio sa offrire in serate come queste. Benché primavera inoltrata, verso sera l’aria si fa più sottile, dispensando ancora qualche leggero brivido, retaggio di un inverno testardo che ha faticato ad accettare la dipartita. Passi frettolosi dietro di me distolsero i miei pensieri e incuriosito mi girai verso il punto da dove proveniva il rumore. Non vi era anima viva. Il mio sguardo fu attirato da una macchia multicolore che ondeggiava leggera e faceva capolino altalenando da dietro una siepe. La curiosità prese il sopravvento e mi avvicinai. A mano a mano l’indistinta, coloratissima macchia prendeva forma. Erano palloncini, sì coloratissimi, gioiosi palloncini. Fui colto da un dubbio, poi da una certezza, sicuro! Erano i palloncini sfuggiti di mano ai bimbi poco prima. Accelerai il passo e, giunto alla fine della siepe, svoltai. Mi ritrovai in uno spazio circondato da panchine prospicienti il laghetto artificiale che recentemente era stato ricavato nel parco. In un angolo, laggiù, mezzo nascosto dalle fronde di un giovane salice, sette giovani palloncini anarchici ondeggiavano calmi trattenuti dai loro fili saldamente in mano ad un uomo seduto sulla panchina. 133


Il buio ormai avvolgeva il parco, mi avvicinai e la luce fioca del lampione mi presentò l’ultimo attore di quella giornata talmente bella e colorata che si stava chiudendo con note malinconiche. Ha un viso tondo e rubizzo un cappotto liso sui gomiti, un mazzo di palloncini colorati in mano. E' l'ultimo uomo di questa storia.

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Spesso la verità è un incubo Iersera ho scommesso con me stesso che sarei riuscito a contare le mie cicatrici, mi sembrava di contare le pecore e mi sono addormentato. Ho sognato, più che un sogno era un incubo. Pigiavo come un forsennato sulla tastiera del computer, le parole apparivano per un secondo, poi si dissolvevano, scivolando verso il fondo del monitor per poi sparire definitivamente. Il bianco del foglio elettronico evidentemente rifiutava ulteriori vulnus da parte mia. Il caldo e l’apprensione che sempre sottolinea gli incubi, mi hanno svegliato definitivamente. In un bagno di sudore ho acceso il computer e sto dedicandomi queste poche righe. Vedo con gioia che le lettere, le parole e poi le frasi si fissano e rimangono sul foglio ed allora intuisco che è giunto il momento di voltare pagina, di usare altra metrica, di chiudere definitivamente il baule dei ricordi e seppellirvi in esso tutte le cicatrici. Non so se ci riuscirò, tutto questo richiederà del tempo, ma sono un ragazzaccio di strada, tosto quel tanto che basta per rinascere sempre dalle proprie ceneri. Ho visto altre stagioni, ho vissuto altre emozioni per farmi impressionare da un “Nightmare”! Una, due, tre…. 135


Spritz e “sarde in saore”? Secondo un'indagine Istat il metacarpo è un maschio metà carpa (61% degli intervistati, indagine condotta attraverso la metodica messaggio a/r con piccione viaggiatore) non si capisce però cosa centri il carpione... mmmmh mi sa che non è credibile. Al secondo spritz ero sicuro: carpo e metacarpo non vogliono diventare carpa per non finire in carpione...beh così mi sembrava meglio. Ho deciso, il carpo e il metacarpo me li tengo così e la carpa la faccio in carpione...oppure il carpo e la carpa si fanno metà carpione ciascuno? Dio che casino... Al terzo spritz, la carpa è scappata, carpo e metacarpo mi fanno un male boia e per il carpione…meglio le sarde!

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Sorriso profondo rosso Il sorriso m’insegue pervicace nelle notti bianche, quando la bora filtra tra le serrande e l’urlo improvviso della sirena annuncia l’arrivo dell’acqua alta. Il sibilo del vento mi trapana il cervello, mentre le dita si rifiutano di scorrere sulla tastiera. L’anima in sciopero ha deciso di assistere da una posizione di privilegio il progressivo disperdersi di pensieri e idee, mentre il cuore non sa se alternare aritmie parossistiche a periodi di relativa calma. Eppure sorrido. Che cazzo avrò da ridere, penso dentro di me. Sono le quattro e francamente sono stufo del susseguirsi di notti insonni al computer cercando di afferrare per la coda un qualche pensiero decente da trasferire sul foglio elettronico che algido mi osserva, pronto a coprire e inghiottire come un sudario le frasi sconnesse che la bora spettina continuamente. Ricordi, emozioni, giovani amori, anni affastellati uno sull’altro, stipati in quel caos organizzato che è la mia memoria. Sorrido. Sto innervosendomi, non riesco a controllarmi. Mozziconi di frasi compaiono improvvise sul monitor, per essere immediatamente fagocitate dal bianco alieno, come se una straniera mano assassina avesse premuto il tasto “canc” in vece mia, coartando 137


la mia volontà. Sto sudando, mi fermo. Ora il sibilo che filtra dalle vecchie imposte si è fatto viepiù insistente, quasi un richiamo. Mi alzo stancamente, mi avvio alla finestra e tutto mi appare regolare. Il bidone della spazzatura galleggia sull’acqua che ormai ha invaso la calle e una miriade di gerani, che il vento ha sradicato dai balconi, galleggia tra mutande e magliette poco fa appese alle corde ad asciugare dimentiche della parola del vento. Adesso il sorriso è dietro di me, mi ha superato, è alla poltrona davanti al computer e sta picchiettando sui tasti. Il sudore gela. Devo assolutamente smettere di scrivere di notte, mi dico, ma non riesco a prendermi sul serio, un’ansia del tutto ingiustificata m’ingabbia, mi coinvolge e mi spinge alla poltrona in preda alle convulsioni di una risata isterica che fatico a trattenere. Gli occhi cercano affannosamente una qualche giustificazione del rumore poco prima sentito, ma sul bianco non vi è traccia di parola, solo una piccola macchia rosso sangue in alto, a destra, cattura la mia attenzione. Lentamente, ma inesorabilmente, la macchia si allarga e colora tutto il foglio. Il programma si chiude, il foglio scompare e il computer si spegne inopinatamente. Le labbra si serrano gelate, la 138


risata sembra provenire dalla calle. Con i brividi che ora compaiono ad accapponare la pelle, torno alla finestra e rimango di sale: un sorriso galleggia sull’acqua mandando sinistri bagliori, nonostante la pece della notte orfana della luna. Mentre sul nero del monitor rosseggia la scritta: game over, spengo la luce e torno a dormire. Dormire? Mi vien da ridere.

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Tanti piccoli soldatini Ricordo il mio nome, il numero di matricola che pazientemente mia madre aveva ricamato su mutandine, magliette, asciugamani e le poche cose che la piccola valigia poteva contenere. Il treno che da Milano portava alla colonia era stracolmo di bambini, ragazzini urlanti, vocianti ed eccitati per l’esperienza nuova o l’agognata vacanza. Era una Milano del primo dopoguerra quella che il treno si lasciava alle spalle e tutto intorno ancora aveva il colore, il sapore di un periodo appena trascorso. Il viaggio in verità era assai breve: meta la Liguria, destinazione Chiavari, precisamente la colonia Leone XIII, fulgido esempio delle politiche sociali del ventennio passato. Che volete che importi, che volete ne sapesse un bimbo di 6 anni, mentre incolonnato con altri 100 attendeva di presentarsi all’appello e al controllo medico? Seguendo la suora di turno che impartiva ordini come un caporalmaggiore arrivai finalmente a destinazione e si compì così la mia iniziazione: divisa, schedatura, visita e purga di rigore, non si sa mai, il cambio d’aria... Ricapitoliamo: il numero di matricola ce l’avevo, la divisa pure, schedato ero schedato.. la purga aveva fatto effetto…un 140


perfetto piccolo soldato. Che volere di più? “Signore….signore…” la voce gentile di un’infermiera mi svegliò da quel sogno fatto ad occhi aperti mentre attendevo il mio turno per la consueta visita di controllo. Mi guardai attorno e pensai: tutto era cambiato per rimanere tutto come prima.

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Trattativa sindacale Guardo con apprensione la folla dei pensieri affastellati all’ingresso dell’anima. La porta chiusa nega l’ingresso a qualsivoglia disturbatore. Adesso sono lì, che premono sulle dita cercando di scoprire quale meccanismo recondito attivare per forzarne l’inerzia. Eppure il cuore vorrebbe, sorretto da un amore indicibile. Da lassù, dal mio rifugio, osservo con disincanto l’agitarsi scomposto dei manifestanti e disapprovo questo sciopero non autorizzato. Mi angustia il senso di abbandono e di solitudine interiore che da un po’ di tempo mi pervade,anche se cerco con distacco di porvi rimedio. Forse dovrei scendere dalla nuvola ed affrontarmi. Lo farò, mi siederò al tavolo delle trattative e firmerò l’accordo. Finalmente.

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Tre piccole rose gialle La macchia gialla in lontananza ondeggiava piano,il verdeacqua della laguna la inghiottiva e risputava. Così, in un gioco a rimpiattino, con i suoi riflessi argentati la luna mi rimandava una strana danza colorata, catturando la mia attenzione altrimenti addormentata. Scrollandomi di dosso una noia abbarbicata come cozza mi alzai in piedi pronto al un nuovo gioco, alla sfida. Solo tre pietre, pensai, solo tre per colpire il giallo La macchia gialla appariva e scompariva.La prima pietra fuggì lontano, un tonfo sordo ne salutò l’arrivo .La macchia riapparve ondeggiando, irridente ora si avvicinava. La seconda si inabissò assai vicino ed il rumore fu gemello. Ancora una, pensai, ancora una. So far di meglio. La macchia riapparve, la terza pietra mi scappò quasi di mano. Arrivò a destinazione. Il giallo scomparve nel verdeacqua, gemendo. Mi avvicinai alla sponda con un senso di angosciosa attesa:tre piccole rose gialle dondolavano nell’argenteo riflesso della luna. Una era screziata di rosso. Di nuovo quel gemito.

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Vertigine Cammino, un passo dopo l’altro, con circospezione, misurando le distanze, aggrappandomi al vuoto che mi circonda. La notte che solitamente mi è amica e compagna mi segue con attenzione quasi ostile, ironica, sbeffeggiando la mia difficoltà. Il passo non ha l’agilità né la leggerezza giovanile, eppure si ostina a rimanere ancorato al terreno. Ondeggio. Nel vuoto della mia mente il rumore dei passi strascicati rimbomba creando cadenze curiose. Una luce improvvisa taglia obliqua il molo, a fatica mi fermo, ma dentro di me la cadenza dei passi prosegue, ininterrotta. Il rimbombo si fonde con i battiti del cuore. Respiro. La ragazza sorride e si avvia verso i cassonetti della spazzatura. Riprendo il mio andare dondolante, movimento sincrono col rollio dei pescherecci ormeggiati e allineati in perfetto ordine, come tanti scheletri d’acciaio che seguono incuriositi il mio beccheggio. Non ho bevuto ne fumato, d’altronde non fumo più, ma il mio incedere è come etilico. Ora i pescherecci beccheggiano lassù, tra i gabbiani nel nero pece di un cielo orbo di stelle e mentre l’aspro odore delle calli che sfociano sul porto mi assale, mi sveglio. In un lago di sudore mi alzo, mi vesto esco da casa. I pescherecci sono 144


al loro posto, ansimanti al respiro della darsena, mentre l’aria densa e acre mi assale. Una ragazza passa e mi sorride. La luce fioca del lampione sottolinea la sua andatura ciondolante e ritmata dai tacchi sul selciato. Una luce improvvisa la inghiotte e scompare. Resto cosÏ, inebetito, negli occhi il suo sorriso, nella mente un dejà vu. Vertigine.

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Vita di condominio Alla c.a. del Rag. Pompeo Pompa Amministratore del Complesso Residenziale “Villette Olmo” Oggetto: violazione condominiale

del

regolamento

Le scrivo per lamentarmi del comportamento della coppia che occupa l’appartamento al secondo piano della villetta sita nel Condominio dell’Olmo al numero 16 int. XVI citofono Giusy ( sapesse che sinfonia quando si attaccano al citofono…”pronto, c’è Giusy? Noooo? E la Cremeria?) due.. Ma torniamo a noi e all’argomento di cui in oggetto. Come Lei ben sa mi sono trasferito da poco in questa vostra amena e ridente cittadina lasciando a malincuore il mio paese, Vancimuglio di Grumolo delle Badesse ( nome che ogni volte che pronuncio mi causa tuttora crampi alla lingua), ed ho acquistato un’unità nel condominio. Non ho avuto e non ho purtroppo molto tempo, per motivi di lavoro, da dedicare alla vita sociale, per cui la mia conoscenza del vicinato è limitata, direi quasi nulla. Conosco, solo di vista avendoci scambiato pochissime parole in un’occasione 146


incresciosa di allagamento dell’appartamento, la signora Jole. Non mi chieda il cognome, perché non me lo ricordo, è ininfluente e non mi interessa granché, posso dire soltanto che la conoscono tutti i residenti del condominio. E’ l’inquilina del piano di sopra, ma non è di lei che voglio parlarle, anche se debbo dire che il vederla ciabattare per le scale del condominio non depone certo a favore del decoro dello stesso e di chi ci abita. Perennemente con un foulard in testa a protezione della permanente fatta in non so quale epoca del Terziario, vestaglietta di improbabile cotone Made in autentica China, comperata al mercato delle pulci e perennemente presuntuosamente senza reggiseno, con evidenti impedimenti alla deambulazione. Ma, ripeto, non è di lei che voglio parlarle, quanto del marito, fantomatica persona che non ho avuto mai modo di incontrare, ma di cui si avverte prepotentemente la presenza ( nonostante l’utilizzo da parte sua di litri di profumo, mi pare”Eau de Carogne Fraciche”) rumorosa ed invadente. Peraltro non vorrei dilungarmi nella descrizione, anche perché come le dicevo ho pochissimi riscontri visivi. Altro discorso per ciò che attiene i rumori, gli elementi qui non mancano! 147


Vorrei quindi portare alla sua attenzione il seguente fatto, per me increscioso, che mi ha costretto a chiedere un periodo di aspettativa dal lavoro, per riprendermi dallo choc emotivo. Deve sapere che la camera dal letto della coppia in questione è situata proprio sopra la mia cucina, disposizione bizzarra creata da quella magnifica testa d’uovo dell’Architetto progettista del complesso. Orbene l’altra sera verso le ventitré i signori in questione hanno pensato bene di esibirsi in effusioni diciamo così “amorose”. Il concerto che ne è scaturito era di assoluta qualità, meritevole di ben altri palcoscenici…dai gridolini da gatta in amore della Jole ai grugniti di maiale da allevamento del marito, dal rumore ritmico della testiera del letto battente contro il muro al continuo scorrere dell’acqua in bagno contornati dai boati dello sciacquone del cesso. Queste esibizioni, ormai consuete da quando li conosco hanno raggiunto come le dicevo proprio l’altra sera l’acme, il culmine della rappresentazione: nel momento di massimo orgasmo la Jole ha gridato al marito: << Amorrrreeee, famolo strano!>> Al che il marito ha risposto, tra un sibilo di enfisema e l’altro,<<Tranqui, Jole, ci penso io…>> Di lì a poco ho sentito un cigolio diverso dal solito ed un tintinnare di cristalli, come quando si 148


avvertono le prime scosse di terremoto ed il mio pensiero è corso subito al lampadario..in quel mentre un boato ha fatto tremare il soffitto della mia cucina, mentre l'urlo del marito di Jole accompagnava la caduta dei calcinacci sul mio Baccalà alla Vicentina rovinandomelo irrimediabilmente : <<Cristo! Si è rotta la catenellaaaaaaa!>> Porterò indubbiamente questo fatto increscioso all'attenzione della prossima riunione di condominio, nel frattempo La invito,dopo il dovuto richiamo alla coppia in questione, ad inoltrare regolare domanda di risarcimento danni in mio nome e per conto all’Assicurazione. In mancanza di un preciso e congruo riscontro mi vedrò costretto ad adire le vie legali. Distinti saluti. (vita di condominio cap II) Ho conosciuto il marito della Jole, la mia vicina. L’ho incrociato l’altra sera uscendo di casa, sul pianerottolo. Stava scendendo le scale smadonnando e bofonchiando perché l’ascensore era come al solito in malattia, ma in compenso la luce delle scale aveva il singhiozzo e non si vedeva una beata. Andava e veniva 149


illuminando la scena come le vecchie pellicole in bianco e nero proiettate nella sala parrocchiale. Sembrava una scena di un film di Dario Argento: io con le chiavi ancora in mano, basito dall’inaspettato incontro, lui che fermandosi mi aveva gettato un’occhiata interrogativa chiedendosi se ero io quel rompicoglioni che gli aveva procurato un richiamo dall’Amministratore durante l’ultima riunione condominiale. Riunione che avevo deliberatamente e un po’ vigliaccamente disertato. Facendo così, però mi ero perso purtroppo scenette da avanspettacolo degne delle migliori performance della compagnia “The Four Girls Four” che aveva per mesi calcato le scene del mitico teatro/cinema “Alcione” di Milano. Una compagnia che aveva nel balletto di quattro sgallettate il proprio punto di forza. Ma torniamo al mio incontro che, vi assicuro mi ha procurato un che di inquietudine mista ad una “ridarola” nervosa che mi ha accompagnato per tutta la giornata. Come vi dicevo, l’immagine del nostro appariva e scompariva al ritmo singhiozzante della luce delle scale. Potevo così pezzo dopo pezzo, frame by frame (citazione dotta da vocabolario di vecchio creativo) costruire l’immagine del nostro focoso amatore. Poco più alto della misura minima per essere 150


giudicati abili alla leva militare (160 cm. l’altezza del Re), segaligno e di carnagione olivastra, aveva baffetti scuri che sottolineavano un inesistente labbro superiore di un ghigno che fatico a chiamare bocca. Naso adunco ed aquilino decisamente importante che sbilanciava il viso in avanti, sguardo obliquo e un po’ incattivito per l’incontro in parte desiderato, ma sicuramente avvenuto in modo insolito ed inaspettato. Capelli neri ed impomatati e qui apro una parentesi: mia madre, buonanima, di origini umbre, ma sicuramente con ascendenti toscani, aveva nel sangue la classica ironia di quella regione e soleva descrivere gli uomini così impomatati con questa definizione: “sorca acquaiola”. Orbene avete presente quelle pantegane di fiume che quando escono dall’acqua hanno il pelo liscio liscio attaccato al corpo e lucente perché bagnato? Ecco, mai definizione mi sembrò più adatta: “sorca acquaiola”, così lo chiamerò d’ora innanzi. Indossava un gessato nero fumo, rigato bianco sporco, camicia bianca bucato mal riuscito e cravatta rossa a pois bianchi. Una divisa perfetta, stile gangster anni ’30. Tutto questo intravisto tra un flash di luce e l’altro. Si fermò di colpo mi squadrò e, agitandomi il dito indice sotto il naso, mi apostrofò: <<E’ lei che ha scritto 151


all’Amministratore?...Stia attento..>>Tutto si svolse rapidamente: la luce si spense del tutto e sorca acquaiola, nell’impeto del concione fece un movimento falso. Quello che sentii mi fece immaginare l’accaduto. Un rumore fragoroso sulla rampa delle scale, un tonfo e un grido strozzato: <<Joleeeee, ancora…che sfigaaa!>> Il nostro aveva messo un piede in fallo ed era ruzzolato giù per i gradini procurandosi una frattura al perone destro, escoriazioni, ecchimosi varie ed una lussazione all’anca: prognosi 30 giorni ingessato, salvo complicazioni. Ora potete capire perché sono percorso da un senso di inquietudine: un mese passa presto, e le “sorche acquaiole” sono animali molto, ma molto vendicativi…

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