Pol.is dicembre 2008

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nuova serie - anno 1- n° 1 - dicembre 2008

pol.is

pol.is per la riforma della politica e delle istituzioni

per la riforma della politica e delle istituzioni

ALBERTO ABRUZZESE – Università IULM di Milano ROBERTO ALIBONI – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali FRANCESCO ANTONELLI – Università degli Studi Roma Tre SEBASTIANO BAGNARA – Università degli Studi di Sassari-Alghero FABRIZIO BATTISTELLI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” CLAIRE BARDAINNE – McLuhan Program in culture and Tecnology, University of Toronto SARA BENTIVEGNA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ALBERTO BENZONI – Politologo GUERINO BOVALINO – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” RENATO BRUNETTA – Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ROBERT CASTRUCCI – Assegnista di Ricerca, Università degli Studi Roma Tre VANNI CODELUPPI – Università di Modena e Reggio Emilia VINCENZO VISCO COMANDINI – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” LUIGI COVATTA – Vice Direttore Pol.is MASSIMO DE ANGELIS – Politologo GIANNI DE MICHELIS – Presidente Ipalmo PIERO FASSINO – Ministro degli Affari Esteri Governo Ombra FRANCO FRATTINI – Ministro degli Affari Esteri ANTONIO LANDOLFI – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini FABIO LA ROCCA – Ricercatore CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” ANDREA MALAGAMBA – Liceo ebraico di Roma CLAUDIA MANCINA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” PAOLO MANCINI – Università degli Studi di Perugia MAURO MARÉ – Università degli Studi della Tuscia ENRICO MORANDO – Senatore FEDERICA PAVONE – Ricercatrice CESARE PINELLI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” MARIO PIREDDU – Assegnista di Ricerca all’Università degli Studi Roma Tre ANTONIO RAFELE – Ricercatore CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is VINCENZO SUSCA – McLuhan Program in culture and Tecnology, University of Toronto FEDERICO TARQUINI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano TITO VAGNI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano ALBERTO ZULIANI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Direttore Enrico Manca

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Franco Sircana Franco Frattini Piero Fassino Alberto Benzoni Gianni De Michelis Renato Brunetta Enrico Morando Luigi Covatta Cesare Pinelli Vanni Codeluppi Alberto Zuliani Sebastiano Bagnara Vincenzo Susca Mario Pireddu

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ISBN 978-88-95923-14-7

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euro 15,00

www.bevivinoeditore.it - www.pickwick.it - www.pol-is.it

Spedizione di stampe in abbonamento postale di cui alla lettera C) del comma 2 dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 862


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nuova serie - anno 1- n째 1 - dicembre 2008

pol.is per la riforma della politica e delle istituzioni

Direttore Enrico Manca


pol.is per la riforma della politica e delle istituzioni

Direttore Enrico Manca Vicedirettori Luigi Covatta, Franco Sircana Comitato Editoriale Alberto Abruzzese - Università IULM di Milano Roberto Aliboni - Vice Presidente Istituto Affari Internazionali Sebastiano Bagnara -Università di Sassari-Alghero Luciano Benadusi - Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Alberto Benzoni - Politologo Enzo Cheli - Università degli Studi di Firenze Derrick de Kerckhove - Direttore dell'Istituto McLuhan di Cultura e Tecnologia dell'università di Toronto Alberto Gaston - Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Antonio Golini - Università di Roma “La Sapienza” Antonio Landolfi - Presidente della Fondazione Giacomo Mancini Michel Maffesoli - La Sorbonne, Parigi Claudia Mancina - Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Paolo Mancini - Università di Perugia Maria Luisa Maniscalco - Università di Roma Tre Mauro Maré - Università de La Tuscia Stefano Rolando - Università IULM di Milano Alberto Zuliani - Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Coordinamento Editoriale Piero Pocci Capo Redattore Maurizio Persiani In Redazione Lorenza Bonaccorsi Robert Castrucci Vincenzo Visco Comandini Vincenzo Susca Segretaria di Redazione Annalisa Simbari

Pol.is rivista di cultura politica edita dall’Associazione Pol.is - Centro di iniziativa politico-culturale via del Boschetto, 68 - 00184 Roma tel. 346 00 40 287 p.iva 09319481009 www.pol-is.it Autorizzazione del tribunale di Milano n. 94/2007 del 20/02/07 Costo dell’abbonamento annuale: - ordinario: euro 60,00 - sostenitore: euro 100,00 L’abbonamento alla rivista può essere richiesto telefonicamente al seguente recapito: +39 346 00 40 257

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Consulenza e realizzazione editoriale Francesco Bevivino Editore www.bevivinoeditore.it Progetto grafico Alessio Scordamaglia Concessionaria di pubblicità

Via Monfalcone, 41 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. +39 02 618002 www.rosaticommunication.com mail: pbc@rosaticommunication.com Stampa Finito di stampare nel mese di dicembre 2008 presso Digital Print - Milano Distribuzione nelle librerie JOO Distribuzione - Milano


SOMMARIO

Enrico Manca Editoriale

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Primo piano Franco Sircana Uno zoom sul mondo che cambia

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Intervista a Franco Frattini e Piero Fassino Il nuovo scenario internazionale

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Alberto Benzoni Un mondo “apolare”

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Gianni De Michelis L'Europa in un altro mondo

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Renato Brunetta ed Enrico Morando Keynes è vivo e lotta insieme a noi?

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Vincenzo Visco Comandini Dove si fermerà il pendolo dell'economia?

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Luigi Covatta La metafora di un film: Mars Attack

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Cesare Pinelli Le istituzioni internazionali nel fuoco della crisi

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Intervista a Vanni Codeluppi a cura di Robert Castrucci

Come cambieranno i consumi

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Speciale Focus Scuola, Università, Ricerca

Alberto Zuliani Università: spunti per un confronto

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Sebastiano Bagnara I competitor della scuola

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SOMMARIO

Immaginario a cura di Vincenzo Susca

Vincenzo Susca Note su Yes, we can

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Mario Pireddu A more perfect union?

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Tito Vagni Cittadinanza emozionale. Obama: l'happy end pi첫 desiderato

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Guerino Bovalino L'ultima chance della fantasia. Supereroi e politica Usa

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Federico Tarquini La via americana all'estremismo politico

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Fabio La Rocca Pratiche ed esperienze del Cruising nel territorio urbano americano

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Andrea Malagamba e Antonio Rafele I guerrieri della notte, di Walter Hill

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Enrico Manca

Un “nuovo” inizio Pol.is ha avuto molte vite caratterizzate da “nuovi inizi” e malinconici, consapevoli letarghi. Nata per la prima volta negli anni ‘90 in ambito socialista, con ramificazioni nell’area migliorista del PDS, per stimolare e sostenere la costruzione di una sinistra riformista unita, Pol.is aveva, poi, cessato le pubblicazioni dopo il fallimento di quella prospettiva, la crisi del sistema politico, il divampare della lotta fratricida a sinistra, l’azzeramento con tutti i mezzi, a cominciare da quello giudiziario – giustizialista, del partito socialista. Guardando la situazione di oggi è difficile sottrarsi alla riflessione che la Storia non fa sconti e, spesso, utilizza la dantesca legge del contrappasso . La testata Pol.is non esprime, soltanto, il significato tradizionale di città, comunità; Pol. sta per Politica e Is per Istituzioni. Politica e Istituzioni, quindi, a testimonianza che fin dall’ora i promotori avevano ben chiaro come lo snodo decisivo della democrazia italiana fosse, allora come ora, costituito dalla inderogabile necessità di una autentica riforma della Politica e delle Istituzioni. Dopo un letargo durato alcuni anni (l’infinita transizione dalla prima alla seconda Repubblica) Pol.is, su iniziativa di alcuni dei fondatori a cui si erano aggiunti altri, giovani e meno giovani, portatori di esperienze diverse: politiche, culturali, accademiche ma uniti da una solida cultura riformista, riprese le pubblicazioni cambiando, però, il titolo della testata in “InnovAzioni” a significare il profondo mutamento del quadro di riferimento politico e l’esigenza di una forte innovazione in tutti i campi della vita politica, sociale ed istituzionale del Paese. Per quanto attiene il quadro politico di riferimento, Pol.is aveva preso atto, con forte dissenso, del rifiuto dei DS di portare a coerente compimento il loro processo di revisione politica e di approdo al riformismo, dando vita, anche in Italia, ad un grande partito del socialismo europeo coronando così il progetto su cui la Rivista era nata negli anni ‘90.

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Un “nuovo” inizio

Prendendo atto della nuova situazione, il gruppo di Pol.is con la rivista InnovAzioni, intese perseguire, sia pur attraverso una strada diversa, il medesimo obiettivo: “sub-specie” Partito Democratico. In particolare, InnovAzioni nacque nella prospettiva che la Margherita corrispondesse alle attese di quanti riponevano in essa la speranza che potesse rappresentare il soggetto politico anticipatore del Partito Democratico per la sua apertura plurale e laica in cui cattolici e non, credenti e non, potessero convivere, integrando il solidarismo sociale dei cattolici con il riformismo socialista- liberale, e interagendo a livello europeo, con il PSE. Ma fu un’ illusione di poca durata. Ben presto prevalse la linea di fare della Margherita un Partito neo-cattolico che sui problemi eticamente sensibili si ispirava alle posizioni della Gerarchia e con atteggiamenti di rifiuto verso il socialismo europeo e, in Italia, con una netta chiusura verso nuovi apporti di derivazione socialista. La Margherita ha così limitato ogni suo spazio di crescita oltre i confini della ex sinistra DC, non risultando altre presenze in quel partito in grado di allargare questa identità. Questa deriva della Margherita portò alla rapida consumazione della esperienza di InnovAzioni. Ma il gruppo di liberal-democratici e socialisti che avevano animato le due precedenti esperienze editoriali decise di proseguire il proprio impegno, convinto della validità della sua proposta originaria. Quando, nel 2007, il dibattito sulla costruzione del Partito Democratico cominciò ad entrare nel vivo e si iniziò a intravedere un percorso che avrebbe potuto portare alla nascita del Partito Democratico, Pol.is dette vita a un “nuovo inizio” con un obiettivo dichiarato: contrastare la nascita di un Partito Democratico che fosse mera espressione di un meccanico accordo tra DS e Margherita impegnandosi, al contrario, perché i socialisti, pur dispersi e divisi fra loro, rivendicassero un ruolo fondativo del nuovo Partito. Con la Rivista denunciammo gli errori che avrebbero potuto portare il nascente Partito Democratico verso contraddizioni insuperabili e paralizzanti. Il primo e il più grave dei rischi che denunciammo era quello dell’esclusione, di fatto, dalla sua “rete” (paradigma lessicale qui usato per esprimere il collegamento dinamico fra differenti anime e soggetti) di una qualsiasi delle correnti riformiste che hanno segnato la storia dell’Italia.

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EDITORIALE

Un tale accadimento scrivemmo, avrebbe inficiato la possibilità di realizzare un contenitore dotato di solidità proprio in virtù della propria poliedricità e della capacità, quindi, di stabilire una sinergia dialettica tra le componenti che sono state, nel concreto, i motori della modernizzazione italiana: cattolici democratici, liberal-democratici e socialisti, ex comunisti. Lasciare anche solo una di tali componenti fuori dal processo di formazione del nuovo soggetto politico avrebbe significato pregiudicarne l’identità, poiché invece di rappresentare e mettere insieme, in modo esaustivo, le forze autenticamente riformiste del Paese, avrebbe realizzato una operazione politica miope e obsoleta prima ancora di nascere. Scrivemmo e dicemmo, con forte convinzione e passione, in tutte le sedi dove potevamo essere letti e ascoltati, che di eccezionale gravità si sarebbe rivelata l’assenza nella formazione del Partito Democratico dell’esperienza programmatica, della cultura laica e della tradizione del socialismo italiano che ha rappresentato una componente storicamente decisiva nei processi riformatori del Paese come testimoniano la svolta del primo centro sinistra nel 1964, le battaglie laiche e per i diritti civili negli anni ‘70 e l’esperienza del Governo a guida socialista a metà degli anni ‘80. L’iniziativa di Pol.is si rivolgeva non solo verso i dirigenti più accorti della Margherita e dei DS, ma anche a quegli spezzoni socialisti impegnati, in una certa fase, in un improbabile tentativo di dar vita ad una Costituente Socialista Unitaria. Nel marzo 2007 rivolgendoci ai fautori della Costituente socialista, alcuni dei quali strizzavano l’occhio anche ai gruppi della sinistra estrema massimalista, scrivevamo: “assai più lineare e stringente potrebbe essere l’iniziativa della Costituente socialista se l’obiettivo fosse quello di contrastare la nascita di un Partito Democratico espressione di un mero accordo fra post-comunisti e post-democristiani, rivendicando, invece, per i socialisti di nuovo uniti, un ruolo decisivo come terza irrinunciabile componente fondativa del Partito Democratico. Con questo apporto il nuovo soggetto assumerebbe un più promettente respiro culturale, politico e programmatico”. Sappiamo tutti, purtroppo, come nel concreto sono andate le cose: gli spezzoni socialisti riuniti attorno allo SDI hanno inseguito la chimera di un risultato elettorale autosufficiente. Solo ad un certo momento hanno ricercato un’in-

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Un “nuovo” inizio

tesa con il Partito Democratico di Veltroni che lo ha, di fatto, rifiutato chiedendo ai socialisti una inaccettabile rinuncia alla loro autonoma identità, resa ancor più clamorosa dall’intesa, al contrario, perseguita con Di Pietro a cui si concedeva ben oltre che l’onore delle armi, con le negative conseguenze per lo stesso Partito Democratico che sono dinnanzi agli occhi di tutti. Qualche timida apertura si è sviluppata durante il percorso Costituente del Partito Democratico verso aree culturali e politiche di ispirazione liberal-socialista come Pol.is, in un primo tempo invitata ad impegnarsi ma poi di fatto ignorata. In conclusione vi è stato l’azzeramento pressoché totale di ogni presenza significativamente rappresentativa nel nuovo partito della storia, della cultura, delle tradizioni del socialismo italiano. Il Partito Democratico ha così preso corpo nel modo più asfittico che mai si sarebbe potuto immaginare: come meccanica sommatoria dei post-comunisti e della ex sinistra DC. Un esempio di insipienza politica e della capacità, come si dice, di farsi del male. Alle elezioni il Partito Democratico pur raggiungendo un risultato numericamente significativo è risultato soccombente, mentre ogni rappresentanza parlamentare alla sua sinistra è stata cancellata. Ora, il Partito Democratico si muove con molta fatica, imbrigliato nelle sabbie mobili di un dipietrismo sempre più sfacciatamente aggressivo; prigioniero di un giustizialismo che ne limita l’espansione riformista; non al riparo di una sempre agitata questione morale all’insegna del principio che “c’è sempre qualcuno più puro che ti epura”. Insomma il garantismo, costola primaria del riformismo, non riesce ad avere ancor la meglio sulla cultura del sospetto e sulla messa in quarantena del principio di presunzione di innocenza fino al giudizio definitivo. Un atteggiamento che fa sì che i magistrati, anche quelli che svolgono il loro ruolo con rigore e competenza, diventino di fatto, anche non volendolo, arbitri della formazione delle liste elettorali sia a livello locale che nazionale, come della composizione delle Amministrazioni locali e dei Governi nazionali. Continua a sopravvivere il falso mito della “diversità” che non ha mai avuto né ieri né oggi alcuna motivazione di verità. Non ci sono “diversi”, ma ci sono in tutti gli schieramenti uomini che hanno comportamenti corretti e rigorosi ed altri invece che operano in modo spregiudicato e scorretto. Laicamente ciascuno va giudicato per ciò che è e per come opera. Certo, al di là della legge penale ci sono comportamenti che possono essere ri-

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EDITORIALE

provevoli sotto il profilo morale. Ciascun partito ha il diritto-dovere di darsi un suo codice deontologico le cui regole devono essere tali non da consentire comportamenti impropri né da prevaricare il principio garantista. Pol.is intende continuare a dare la sua testimonianza riformista, socialista e liberale. Dopo una pausa seguita alle elezioni dell’aprile scorso, abbiamo riflettuto su come proseguire il nostro impegno editoriale e, verificato la disponibilità di molti collaboratori, anche e soprattutto giovani, di continuare a pensare, scrivere e confrontarsi. Le vicende della politica italiana, per le ragioni che in queste righe abbiamo succintamente ricordato, hanno fatto sì che non vi sia in Italia una forza socialista come c’è in tutta Europa. Anzi, in Italia si discute addirittura se il neo-nato Partito Democratico debba, non diremo affiliarsi al socialismo europeo, ma anche solo federarsi con il PSE. Sia chiaro, nessuno nega la crisi di molti dei partiti socialisti europei, per altro comprensibile di fronte ai grandi sconvolgimenti in atto nel mondo su tutti i piani: economia, finanza, rapporti internazionali, nuovi scenari mondiali, terrorismo, immigrazione, che impongono un riposizionamento ideale, politico e programmatico della sinistra riformista. Piuttosto che rinunciare ad essere parte attiva nel PSE, il Partito Democratico dovrebbe impegnarsi per un rinnovamento suo e del Socialismo europeo tenendo salde le radici e coniugandole con una forte carica di innovazione, in grado di allargare la sua prospettiva culturale e strategica. Per usare una formulazione identitaria, l’obiettivo deve essere quello di passare dalla social-democrazia al socialismo liberale, sciogliendo un ossimoro che nel secolo scorso ha caratterizzato il rapporto tra socialismo e liberalismo; facendo del passaggio dal welfare state alla welfare society e della difesa dei Diritti, di cui il garantismo è elemento fondante, i punti di forza di un nuovo corso. Pol.is in questo “nuovo inizio” non ha e non può avere, vista la situazione attuale, alcun “editore di riferimento” per usare un’espressione che ha fatto epoca. Nella sua piena autonomia e indipendenza, che non vogliamo significhi isolamento e solitudine, la rivista è impegnata a sostenere ogni idea, ogni iniziativa, ogni azione ascrivibile ad una visione riformista e ad una ispirazione socialista-liberale sia che esse trovino espressione nel Partito Democratico sia che emergano nell’azione dell’attuale Governo dove, anche se può esser colta come una anomalia, sono presenti uomini di solida

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Un “nuovo” inizio

cultura socialista e riformista. Una anomalia, se anomalia è, su cui sarà opportuno avviare una ampia ed approfondita riflessione. In questo quadro il nostro auspicio è che coloro che sono animati da una autentica cultura riformista, operanti nell’attuale opposizione o nell’attuale Governo, pur rimanendo ciascuno se stesso e senza confusione di ruoli, si confrontino, ricerchino i margini delle intese possibili e facciano insieme quello che è possibile fare di fronte ad una crisi che pone in campo problemi inediti che investono tutti i settori della nostra società; e questo nell’interesse dell’Italia.

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Franco Sircana

Uno zoom sul mondo che cambia

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grandi eventi, soprattutto nella nostra società ipermediatica, sono straordinari acceleratori e dilatatori di conoscenza. In questo secolo, l’11 settembre costrinse il mondo occidentale a rifare i conti con la storia che, lungi dal finire, ha anche chiesto di essere riletta lungo il corso dei secoli e dei millenni per comprendere nel presente realtà, come l’Islam, messe ai margini dalle interpretazioni euro e occidentalo centriche che si erano venute consolidando e cristallizzando negli ultimi due secoli. L’elezione di Barack Obama ha invece prodotto un fantastico zoom sul futuro, sollecitando, sotto forma di innumerevoli scenari e analisi cui si aggiungono anche quelli di questo numero di Pol.is, un enorme sforzo di comprensione sulle evoluzioni possibili e necessarie a livello ormai planetario. Giunto al potere anche sull’onda della più grave crisi economica mondiale da 80 anni a questa parte, Barack

Barack Obama rimette all’onor del mondo, merito, sostanza, contenuti politici della liberaldemocrazia

Obama – questo Presidente che, secondo alcune autorevoli opinioni, gli Stati Uniti non erano ancora pronti ad eleggere – propone un’alternativa radicale di visione e di indirizzi all’ormai inconsistente congerie politica, economico finanziaria e sociale, e in ultima analisi valoriale, della precedente amministrazione repubblicana. Un’alternativa che rimette all’onor del mondo merito, sostanza, contenuti politici della liberaldemocrazia, espressione che l’amministrazione repubblicana aveva relegato, e non senza clamorose contraddizioni (Guantanamo, per esempio), alla sua valenza istituzionale, metodologica e normativa. Un’alternativa che sottintende l’insostenibilità, sulla scena internazionale, della pretesa egemonica di Bush, nella forma di rigido e non trattabile unilateralismo, versione imperiale della antica tradizione isolazionista repubblicana. Pretesa egemonica non accompagnata, al dunque, dai mezzi materiali – finanziari, ma anche militari – adeguati per sostenerla né, prima ancora, dalla proposizione di una missione che si voleva civilizzatrice, dotata di un accettabile livello di coerenza: non si può, per esemplificare, pretendere di esportare la democrazia fondandosi su falsità come quelle relative alle armi di distruzione di massa irachene o avendo nel proprio cam-

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Uno zoom sul mondo che cambia di Franco Sircana

po l’Arabia Saudita dei wahabiti, finanziatrice delle frange integraliste dell’Islam e non a caso culla del maggior numero di terroristi delle Torri. Un’alternativa che non può non fare i conti con un mondo prossimo ai 7 miliardi di abitanti, avviati a diventare 9 di qui a pochi decenni: un mondo in cui il modello e il livello dei consumi nordamericani e anche europei e giapponesi non sono probabilmente più sostenibili, ma certamente non più proponibili per il resto dell’umanità (lo erano forse nel 1940, quando eravamo 2 miliardi): occorrerebbe raddoppiare il pianeta. Quei conti, per l’appunto, che l’amministrazione Bush ha evitato di fare, coerentemente al proprio punto di vista, opponendosi con durezza al protocollo di Kyoto sulle limitazioni dell’effetto serra, ed elaborando per la bisogna un “negazionismo” ambientale, parente non poi così lontano, nella sua cifra psicologica, dal revivalismo fondamentalista e creazionista. Opposizione coerente non soltanto con la difesa del complessivo reddito nazionale, ma soprattutto con l’affermazione, tramite la fiscalità, di una distribuzione sempre più ineguale del reddito a favore delle classi alte, il cui investimento elettivo è andato sempre più orientandosi a quella finanza speculativa basata in ultima istanza sulla rovinosa espansione del consumo a debito con conseguente sollecitazione a una produzione drogata di beni e servizi. Un meccanismo avviato con lucida consapevolezza politica nell’era Reagan, sostanzialmente non discusso in quella di Clinton, ma poi sfuggito totalmente di controllo grazie alla personale insipienza di W. Bush e alla occupazione della stessa politica da parte

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del big business – vedi Cheney, Paulson e tanti altri – e culturalmente sostenuto da una versione del liberismo iperideologica e distorta a sostegno di una finanza padrona anziché ancella dell’economia reale; non importa se poi contraddetta, questa versione, da un uso assai keynesiano della spesa pubblica militare e, d’altra parte, da interventi dello Stato conseguenti a clamorosi fallimenti di grandi società finanziarie che annunciavano l’avvicinarsi del precipizio su cui gli Stati Uniti e il mondo sono oggi affacciati. Perché la recessione, non breve, è certa, e la prospettiva della depressione non è ancora del tutto esclusa. Il nuovo Presidente affronta la crisi non sorretto da un solido bilancio federale, ampiamente compromesso dall’enorme ammontare di risorse bruciate, o pronte a esserlo, nella fornace del fallimento della finanza: il deficit di bilancio si approssima a valori tra il 6% e l’8% del PIL e il debito pubblico – 33% all’epoca di Carter, 66% con Reagan e Bush Sr, 57% con Clinton – sta avviandosi a superare quota 70. Bush è clamorosamente riuscito a rendere percettibile in pochi anni quel declino americano che assennate valutazioni si attendevano sull’arco di alcuni decenni. Gli Stati Uniti hanno oggi bisogno del mondo come mai era loro ac-

La recessione, non breve, è certa, e la prospettiva della depressione non è ancora del tutto esclusa


PRIMO PIANO

L’Europa ha un assoluto bisogno degli Stati Uniti, pena l’irrilevanza sulla scena del mondo

caduto dopo la conclusione della guerra civile nel XIX secolo. Dunque, dall’unilateralismo al multilateralismo. Ma non è cosa semplice. In effetti, l’unilateralismo, nella sua rozzezza, conteneva in sé una compiuta consequenzialità politica, all’insegna di “ciò che è bene per gli USA è bene per il mondo”. Non è invece così per il multilateralismo, che è piuttosto una pregiudiziale metodologica che lascia aperto il campo a diverse opzioni valoriali e politiche e a progetti diversi. È su questo che si misurerà il valore di leader e statista di Barack Obama. L’Europa è particolarmente sfidata da questo mutamento di prospettiva e deve decidere, in tempi che la crisi mondiale e l’elezione di Obama hanno notevolmente abbreviato, se intende svolgere un ruolo positivo e significativo nel nuovo scenario. Scontato l’assoluto bisogno di Stati Uniti da parte dei paesi europei, pena la loro totale irrilevanza sulla scena del mondo prossimo venturo, e quindi l’imperiosa esigenza di rivedere in chiave di rafforzamento i legami transatlantici; è altrettanto chiaro che, per gli europei, proporsi come soggetto attivo della multipolarità significa possederne dimensioni, strumenti operativi, coerenti volontà. Certo, non si presenta bene all’appuntamento quest’Europa segnata da un’allarmante coazione a ripetere le sue divisioni e i propri egoismi nazio-

nali. In altri termini, non è particolarmente forte la consapevolezza che i distinguo tra stati e stati e financo le ambiguità di politica estera coltivate da uno stesso paese, consentiti per l’innanzi dall’unilateralismo, non saranno più possibili, se non al costo di mettere seriamente e rapidamente in discussione quel tanto di effettiva piattaforma europea che si è concorso a costruire nei decenni. Costruzione, quella europea, che, in una prospettiva multipolare assume come mai nel passato un valore mondiale di paradigma, di indicazione di metodo nell’edificazione delle istituzioni proprie per la gestione politica ed economica di aree geografiche via via più grandi: a ben vedere, la più realistica esportazione di democrazia che l’occidente può proporsi verso l’Asia, l’Africa, l’America Latina. L’elezione di Obama quindi esalta il ruolo e le responsabilità dell’Europa. Il primo banco di prova è la grave crisi economica in corso, che ci accompagnerà per il resto di questo primo decennio del secolo. Crisi che richiede una rinnovata strumentazione e una marcata intensificazione dell’intervento pubblico. E ciò può essere deciso e gestito più o meno a livello nazionale, più o meno a livello europeo. Da questi più e da questi meno passa il riavvio e il rilancio dell’Unione Europea o il rischio di un suo sfaldamento. Giocano contro la precarietà delle istituzioni europee, per di più infragilite dalle ripetute bocciature popolari del nuovo Trattato, e il narcisismo nazionalista di cui è prigioniera la classe politica di pressoché tutti i paesi dell’Unione. Gioca a favore il rinnovato, presumibile, interesse degli Stati Uniti ad un’Europa che sappia giocare il ruolo che la ragione della storia le assegna. Forza Obama.

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Intervista a Franco Frattini e Piero Fassino

Il nuovo scenario internazionale Risponde il Ministro degli Esteri Franco FRATTINI Pol.is: La campagna elettorale americana è stata caratterizzata da una diffusa consapevolezza di una generalizzata difficoltà della super potenza Usa sia sul piano militare che su quello politico ed economico. Sarebbe interessante capire se questo declino sia il semplice frutto di “errori” delle passate amministrazioni o se invece sia legato ad un processo strutturale di redistribuzione del potere verso i Paesi emergenti in un mondo ormai chiaramente multipolare e come si atteggerà rispetto a questo problema decisivo per il futuro dell’America e del mondo la nuova Presidenza americana; quali sono le Sue riflessioni in proposito? Franco Frattini: Non parlerei degli “errori” delle passate amministrazioni americane, senza aver prima ricordato il coraggio e la forza che hanno contraddistinto fino ad oggi gli Stati Uniti d’America quando, reagendo agli attacchi terroristici dell’11 settembre, sono in ogni modo diventati un vero esempio per quanti nel mondo si identificano nei valori della libertà e della democrazia. Come ha anche ricordato il Presidente Bush, è stato proprio l’11 settembre a raffor-

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zare l’America: non è stato l’inizio del terrorismo internazionale, ma l’inizio della risposta concertata della comunità internazionale. Sono convinto che, lungi dal pensare ad un “declino” dell’America, la linea seguita dalle precedenti amministrazioni sia stata efficace, corretta e soprattutto fedele al sentimento popolare. La nuova Presidenza nasce anch’essa – e sono certo si rafforzerà – sull’ondata di una crisi. Le ultime elezioni presidenziali sono state variamente descritte come le più importanti e appassionanti della storia americana recente. E questo, sia per la novità ed il carattere dei candidati, ma anche per la paura, generale e diffusa in tutto il mondo delle ripercussioni legate alla crisi economica mondiale. Anche gli Stati Uniti – così come l’Europa – hanno dovuto fare i conti con la marea della crisi finanziaria che ha raggiunto anche le coste dei Paesi emergenti. Le porte si chiudono così sul

La linea seguita dalle precedenti amministrazioni è stata efficace, corretta e soprattutto fedele al sentimento popolare. La nuova presidenza nasce sull’ondata di una crisi


PRIMO PIANO

Nell’attuale crisi finanziaria, il coordinamento a livello di G20 assume un ruolo essenziale

passato e si aprono verso scenari futuri. Per il neoeletto Presidente Barack Obama, ma anche per tutti gli attori della finanza mondiale che con la Casa Bianca dovranno confrontarsi, questo mutamento improvviso della stabilità economica internazionale rappresenterà sì una lezione, ma anche e soprattutto un’opportunità: il mondo, e in modo particolare le realtà legate all’economia, è una gigantesca barca, e in coperta ci siamo tutti, nessuno escluso. Pol.is: Il nostro Paese è stato meno esposto alla crisi finanziaria per la maggiore solidità del sistema bancario e per il minore indebitamento delle famiglie. Ma quanto può reggere questo vantaggio relativo di fronte all’emergere di evidenti fattori di criticità presenti nell’ “economia reale”? Di fronte ad una problematica di questa natura quali, a Suo avviso, gli obiettivi e gli strumenti essenziali per una solida ripresa del “sistema Italia”? Frattini: La preminenza nel nostro Paese dell’economia reale su quella cartacea è un sollievo quantomeno illusorio. Per un decennio abbiamo visto solo i lati positivi della globalizzazione economica: in sostanza, le opportunità che nascevano da un’economia più interdipendente e da siste-

mi economici e da imprese più internazionalizzati, dall’apertura e dalla crescita di nuovi mercati. Ma ormai anche i suoi lati oscuri, i rischi, della globalizzazione sono emersi con prepotenza. La globalizzazione, fatta troppo in fretta, ha liberato forze che adesso non è più facile controllare. Ci si è progressivamente resi conto, in particolare, dei rischi a cui essa conduce in assenza di un adeguamento della governance internazionale. Problemi globali richiedono soluzioni globali: cominciando a costruire, per esempio, un nuovo sistema di istituzioni e di regole internazionali, una nuova democrazia internazionale. Nell’attuale crisi finanziaria, il coordinamento a livello di G20 assume un ruolo essenziale. Allo stesso tempo, poi, occorre responsabilizzare le potenze emergenti ad assumersi gli oneri che implica la gestione dell’ordine internazionale. Rientra ad esempio, negli sforzi di “responsabilizzazione” delle potenze emergenti il processo di “outreach” che il G8 ha già avviato, attraverso il processo di Heiligendamm, con India, Cina, Sudafrica, Brasile e Messico. Un processo che da parte italiana si intende consolidare ed estendere durante la Presidenza 2009. Invitando, ad esempio, a parteciparvi l’Egitto, grande Paese arabo e mediterraneo. Venendo, infine, agli strumenti essenziali per la ripresa del sistema Italia, credo che una prima mossa per ridare ossigeno alle famiglie sia la detassazione di tredicesime e pensioni. Pol.is: La crisi finanziaria ed economica che attraversa il mondo intero ha riproposto e portato in auge un di-

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Intervista a Franco Frattini

retto intervento della parte pubblica nell’economia e pur nel quadro di una cooperazione internazionale ed europea ha ripreso anche vigore, almeno per ora, una logica di tipo nazionale anche per fronteggiare eventuali “Opa ostili” nei confronti di questa o quella società considerata strategica. C’è, a Suo giudizio, il rischio di una nuova spirale protezionista in contrasto con i principi che regolano il commercio internazionale? E se si vuole evitare ciò, quali dovrebbero essere le regole e i limiti di una politica “nazionale” di difesa e di sostegno dell’economia? Frattini: Come nella migliore tradizione, si va da un eccesso all’altro. Per anni i mercati hanno ostinatamente rigettato qualsiasi forma non dico di controllo ma di semplice regolamentazione da parte della politica. Poi, a catastrofe avvenuta, non si è trovato di meglio che partire in quarta con gli interventi statali nelle banche. Le regole per tutelare i mercati – si badi bene non limitarli o imbrigliarli – ci sono già, o vanno consolidate, ed è da lì che bisogna ripartire, il resto è socialismo fuori tempo massimo. Pol.is: In linea generale, l’attuale crisi e risposte che ad essa sono state finora formulate a livello nazionale ed europeo sembrano mettere in discussione le regole e i meccanismi del funzionamento della stessa UE; per un verso accentuandone il ruolo di iniziativa in campo economico e dall’altro verso allentando i vincoli cui sono oggi sottoposti i singoli Paesi. Sono, allora, maturi i tempi di un generale aggiornamento? E in quale direzione?

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Frattini: Non è questione di maturità di tempi, quanto di non rimandabilità di un intervento sui parametri europei. Quei vincoli funzionano solo in presenza di un dato tasso di crescita, che oggi non è pensabile. Non intervenire sui parametri comunitari almeno per la loro flessibilità, equivarrebbe a rifiutarsi di guardare in faccia la realtà. Attenzione, però, i ritocchi non devono tramutarsi in un “rompete le righe generalizzato” dove ogni Stato agisce in solitaria con l’unico criterio dell’ognun per sé: questo sì rappresenterebbe il fallimento dell’idea stessa di Unione Europea. In questo contesto di transizione della Presidenza USA, l’Europa ha una straordinaria opportunità per affermarsi come co-protagonista. Le potenzialità europee sono, del resto, già emerse durante la crisi economica. Anche oltre Atlantico si è riconosciuto come sia stata l’Unione Europea a indicare agli Stati Uniti la strada giusta per fronteggiare la drammatica situazione finanziaria. La crisi ha rafforzato la coscienza della necessità di un’azione coesa e concertata dei Paesi europei, ed ha anche evidenziato il ruolo di “scudo protettivo” dell’Euro, al punto che persino i Paesi europei che ne sono rimasti sinora orgogliosamente fuori sembrano oggi voler ri-

Per svolgere un ruolo chiave sul piano internazionale, l’UE ha bisogno di portare a termine la sua riforma istituzionale


PRIMO PIANO

L’Italia ha mantenuto fede all’impegno e alle responsabilità in difesa di un comune sentimento europeista, ratificando all’unanimità il Trattato di Lisbona flettere sulle proprie posizioni nei confronti della moneta unica. Per svolgere un ruolo chiave sul piano internazionale, per diventare veramente un attore globale l’UE ha però bisogno di portare a termine la sua riforma istituzionale: è quindi indispensabile non lasciar niente di intentato al fine di garantire una sollecita entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Pol.is: Il richiamo dell’Europa sembra, per altro verso, mantenere tutta la sua forza sino a coinvolgere Paesi situati in aree “delicate” – dalla Turchia all’Ucraina a Paesi del Caucaso – e terreno potenziale di nuovi possibili conflitti. Ma sui futuri processi di allargamento l’UE stenta a trovare una posizione unitaria, con il risultato di accentuare tensioni e difficoltà che appaiono sempre più difficilmente controllabili. Come procedere per superare questa impasse? Frattini: La nostra politica estera è già imperniata su un europeismo che vuole rafforzare sempre di più l’integrazione comunitaria e l’allargamento degli organismi regionali, concentrando l’azione sulle politiche, sulle cose concrete piuttosto che su discussioni estenuanti e retoriche. L’Italia, ad esempio, ha mantenuto fede all’impe-

gno e alle responsabilità in difesa di un comune sentimento europeista, ratificando all’unanimità il Trattato di Lisbona – un accordo che non è di per sé la ricetta per sostituire alla mancanza di politiche, ma è lo strumento che consentirà di non avere ostacoli istituzionali, che aiuterà a rendere l’Europa più capace di rispondere ai desideri concreti dei cittadini. Mi auguro che la determinazione dell’Italia, così come degli altri Paesi UE che non hanno esitato – attraverso Lisbona – a riaffermare la vocazione europeista, sia d’esempio per quei Paesi che non hanno ancora ratificato il Trattato. Ciò premesso, ammetto che, realisticamente, restano poche le speranze che il Trattato entri in vigore prima della primavera, ossia prima delle elezioni europee. Tuttavia rinviare di una legislatura, al 2013 quindi, sarebbe una situazione disastrosa. Auspico, allora, che il Consiglio europeo di dicembre possa indicare una “road map” per capire quando e come il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, e non se entrerà in vigore. Sulle altre questioni di allargamento, penso alla NATO, non ci sono al momento né accelerazioni, né rallentamenti, ma solo una forte volontà di mantenere posizioni equilibrate, volte allo sviluppo di strategie comuni, e certamente al dialogo tra tutte le parti in causa. Quindi anche con la Russia. Per superare le impasse – interrogativo che lei mi pone – le strade maestre sono due: credere nella forza e negli obiettivi delle nostre istituzioni, e ricercare sempre il più vasto consenso sulle scelte strategiche da compiere per la sicurezza e per il futuro dei nostri cittadini.

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Intervista a Piero Fassino

Risponde Piero FASSINO Ministro degli Esteri del governo ombra Pol.is: La campagna elettorale americana è stata caratterizzata da una diffusa consapevolezza di una generalizzata difficoltà della super potenza Usa sia sul piano militare che su quello politico ed economico, sarebbe interessante capire se questo declino sia il semplice frutto di “errori” delle passate amministrazioni o se invece sia legato ad un processo strutturale di redistribuzione del potere verso i Paesi emergenti in un mondo ormai chiaramente multipolare e come si atteggerà rispetto a questo problema decisivo per il futuro dell’America e del mondo la nuova Presidenza americana; quali sono le Sue riflessioni in proposito? Fassino: Con le elezioni presidenziali americane si è chiuso un lungo ciclo segnato dall’unilateralismo politico e militare e da un neoliberismo economico fondato sulla deregulation e sul mito di un mercato capace di regolarsi da sé. La guerra in Iraq e l’esplosione del sistema finanziario hanno reso evidente una crisi di leadership degli Stati Uniti. Ma una crisi di leadership americana non può essere guardata con favore da nessuno. Perché se è vero che l’America da sola non può dare un ordine al mondo, è altrettanto vero che senza gli Stati Uniti è impossibile dare al mondo un assetto stabile e sicuro. D’altra parte una delle ragioni del favore elettorale americano e della simpatia dell’opinione pubblica mondiale verso Barack Obama consiste proprio nel fatto che egli si presenta

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come un Presidente che può tornare a far amare l’America e restituire agli Stati Uniti una nuova autorevolezza morale e politica. Per questo l’auspicio di tutti è che con la Presidenza Obama, gli Stati Uniti voltino pagina, lasciandosi alle spalle l’unilateralismo e imbocchino con convinzione la strada del multilateralismo e della condivisione con l’intera comunità internazionale delle scelte e delle responsabilità. D’altra parte la necessità del multilateralismo non deriva da un approccio ideologico, ma dalla presa d’atto di quanto sia cambiato il mondo. Se Stati Uniti e Europa continuano ad essere soggetti forti, tuttavia il mondo non si esaurisce più in essi. La globalizzazione ha fatto emergere nuovi grandi protagonisti. E, non a caso, si è svolto nei giorni scorsi il vertice del G20, un formato più rispondente alla nuova geografia della globalizzazione. Peraltro il mondo è investito dai mutamenti che pongono all’umanità intera nodi ineludibili: la regolazione di capitali e mercati; la sostenibilità di uno sviluppo capace di non compromettere la natura e lo stesso destino del pianeta; la estensione di sistemi sociali di protezione per quell’enorme di quantità di donne e di uomini che stanno entrando nella società della

Stati Uniti ed Europa continuano ad essere soggetti forti, tuttavia il mondo non si esaurisce più in essi. La globalizzazione ha fatto emergere nuovi grandi protagonisti


PRIMO PIANO

Il passaggio di secolo ci consegna un mondo in gigantesca, tumultuosa trasformazione. Ne deriva la necessità di associare tutte le nazioni a responsabilità condivise competizione e dei consumi; la lotta alla povertà per quell’altra parte di popolazione – ancora centinaia di milioni – che ogni anno è afflitta da fame, da malattie e sottosviluppo. Insomma: il passaggio di secolo ci consegna un mondo in gigantesca, tumultuosa trasformazione. La globalizzazione ha cambiato e cambia ogni giorno il volto del pianeta, i caratteri dello sviluppo, i rapporti tra le aree di mercato, il destino di popoli e nazioni. Di qui deriva la necessità di mettere in campo un multilateralismo che su tutti i temi cruciali – la sicurezza e la stabilità politica, la globalizzazione economica, i mutamenti climatici e ambientali, i flussi migratori – sia capace di individuare soluzioni comuni e di associare tutte le nazioni a responsabilità condivise. La prossima presidenza del G8 offrirà all’Italia l’opportunità di dare impulso ad una politica per una governance globale più efficace. Pol.is: Il nostro Paese è stato meno esposto alla crisi finanziaria per la maggiore solidità del sistema bancario e per il minore indebitamento delle famiglie. Ma quanto può reggere questo vantaggio relativo di fronte all’emergere di evidenti fattori di criticità presenti nell’ “economia reale”? Di fronte ad una problematica di questa natura quali, a Suo avviso, gli

obiettivi e gli strumenti essenziali per una solida ripresa del “sistema Italia”? Fassino: L’Italia ha subito un minore impatto della crisi finanziaria sul suo sistema bancario, ma questo non deve farci credere di essere al riparo da una recessione che è alle porte. Tre sono le priorità su cui agire: un vasto programma di investimenti infrastrutturali e in opere pubbliche che possano arginare la recessione e fare da volano ad una ripresa; strumenti finanziari di garanzia sussidiaria da mettere a disposizione delle imprese, soprattutto le piccole e medie, perché possano accedere più facilmente al credito per i propri investimenti; un programma di riduzioni fiscali per i redditi bassi e medi che consenta alle famiglie di avere una massa monetaria spendibile più consistente. Pol.is: La crisi finanziaria ed economica che attraversa il mondo intero ha riproposto e portato in auge un diretto intervento della parte pubblica nell’economia e pur nel quadro di una cooperazione internazionale ed europea ha ripreso anche vigore, almeno per ora, una logica di tipo nazionale anche per fronteggiare eventuali “Ope ostili” nei confronti di questa o quella società considerata strategica. C’è, a Suo giudizio, il rischio di una nuova spirale protezionista in contrasto con i principi che regolano il commercio internazionale? E se si vuole evitare ciò, quali dovrebbero essere le regole e i limiti di una politica “nazionale” di difesa e di sostegno dell’economia? Fassino: Se è certamente vero che il mercato e la concorrenza sono indi-

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Intervista a Piero Fassino

spensabili motori di crescita, è altrettanto vero che l’assenza di regole e principi espone mercati, imprese, famiglie e cittadini a enormi rischi. E già se ne vedono le conseguenze: nei gravissimi crack del sistema bancario internazionale; nei crolli delle borse e nel panico dei risparmiatori; nei primi segnali di una grave, e forse lunga, recessione; nella tumultuosa oscillazione dei prezzi delle materie prime, che prima hanno toccato livelli altissimi mettendo in difficoltà i paesi industriali e, poi, in poche settimane sono drasticamente scesi riducendo la risorse su cui i paesi emergenti hanno fondato politiche di sviluppo e aspettative di crescita. Una crisi che, di colpo, ha rivalutato ovunque il ruolo dello Stato e della politica, chiamati a salvare con interventi pubblici banche private e risparmi dei cittadini. Una crisi che ha reso evidente, in particolare, lo scarto grande tra le dinamiche della globalizzazione e gli strumenti adeguati a governarla. È questo un tema non nuovo. Anzi, possiamo dire che mano a mano che la globalizzazione è cresciuta in intensità e velocità, la mancanza di guida e di regole è apparsa via via più evidente. La ragione principale di questa difficoltà sta nel fatto che mentre ogni fenomeno tende alla dimensione globale – la produzione, gli scambi, la mobilità, la comunicazione sono sempre più globali – la sovranità e gli strumenti della politica continuano a essere incardinati nella dimensione statale. Ma nessuno Stato – anche il più forte – ha oggi la possibilità di gover-

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nare fenomeni globali che hanno dimensione più ampia della sfera su cui ogni Stato esercita la sua sovranità. Se i problemi sono globali, globali devono essere anche le soluzioni e, a maggior ragione, servono luoghi, sedi e strumenti di governance globale. Il tema, dunque, è proprio questo: la governance della globalizzazione. Oggi, quelle istituzioni globali sono caratterizzate da limitata indipendenza, scarso potere decisionale, insufficiente disponibilità di risorse finanziarie e umane, assenza di meccanismi cogenti o sanzionatori contro chi viola la legalità internazionale. Serve perciò una convinta e radicale inversione di rotta: una riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che sia più rispondente agli equilibri del mondo di oggi; l’istituzione di un Consiglio di Sicurezza Economico, dove siedano anche i rappresentanti delle istituzioni finanziarie e delle istituzioni di cooperazione regionale; l’allargamento del G8 alla nuova geografia dell’economia globale; la ridefinizione del ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale; il rafforzamento delle istituzioni globali – quali l’OIT, l’OMS, il WTO – e delle Agenzie ONU. Ma queste riforme saranno efficaci ad una sola condizione: che quelle

La crisi ha rivalutato ovunque il ruolo dello Stato e della politica, chiamati a salvare con interventi pubblici banche private e risparmi dei cittadini


PRIMO PIANO

Gli Stati nazionali devono trasferire una quota della loro sovranità. La crisi di questi mesi ha mostrato l’insufficienza della dimensione statale a governare fenomeni che hanno dimensione più vasta istituzioni siano dotate di poteri, competenze, risorse finanziarie e umane superiori a quelle di cui hanno avuto disponibilità fino ad oggi. E questo chiama in causa la responsabilità degli Stati nazionali che devono essere disponibili a trasferire una quota della loro sovranità. Questa è la strada. Non il ripiegamento protezionista nella dimensione statale. Proprio la crisi di questi mesi ci ha fatto vedere l’insufficienza della dimensione statale a governare fenomeni che hanno dimensione più vasta. Pol.is: In linea generale, l’attuale crisi e risposte che ad essa sono state finora formulate a livello nazionale ed europeo sembrano mettere in discussione le regole e i meccanismi del funzionamento della stessa UE; per un verso accentuandone il ruolo di iniziativa in campo economico e dall’altro verso allentando i vincoli cui sono oggi sottoposti i singoli Paesi. Sono, allora, maturi i tempi di un generale aggiornamento? E in quale direzione? Fassino: Da cinquant’anni l’integrazione europea è il motore dell’Europa che ha così conosciuto il più lungo periodo di pace della sua storia e una prosperità economica che nessun paese europeo da solo avrebbe probabilmente avuto. E l’esistenza dell’Unio-

ne Europea è stata determinante per grandi avvenimenti che hanno segnato la vita dell’Europa, dalla caduta del muro di Berlino alla scomparsa del campo comunista, alla riunificazione tedesca. E, tuttavia, come accade a chi giunto a 50 anni si interroga su cosa sarà la seconda parte della sua vita, anche l’Unione Europea è a un bivio. Per un verso, infatti, la centralità assunta da temi planetari – la lotta al terrorismo, i grandi mutamenti climatici, i più intensi flussi migratori, la competizione economica su scala globale, la gestione delle materie prime e degli scambi, la lotta alla criminalità transnazionale – sollecitano l’Unione Europea a non rinchiudersi in sé stessa e, invece, ad agire, come un “attore globale” assumendosi tutte le responsabilità – politiche, economiche e anche militari – che tale ruolo comporta. Il modo con cui l’UE ha affrontato in questi mesi la crisi finanziaria e la crisi georgiana – anche grazie alla determinazione e alla autorevolezza della Presidenza francese – ci ha mostrato il volto di un’Europa che sa decidere e assumersi responsabilità. E, tuttavia, questa stessa Europa è percorsa da inquietudini a cui il referendum irlandese – e prima quelli francese e olandese – hanno dato voce. Quei referendum ci dicono che, se per mezzo secolo stare nell’integrazione europea è stato considerato dalla maggioranza dei cittadini un’opportunità, un vantaggio, un plus, invece oggi non è più così e una parte larga di opinione pubblica guarda all’Unione Europea come ad un rischio, un vincolo impeditivo, una riduzione di opportunità. Quel che fa paura a molti è “la globalizzazione sull’uscio di casa”.

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Intervista a Piero Fassino

Ma addossare ogni responsabilità all’Europa, è una lettura sbagliata della realtà. Non è mettendo in discussione l’Unione Europea o ridimensionandone le ambizioni che i cittadini europei saranno più al sicuro. Non lasciamoci ingannare dal populismo che in maniera strumentale propone un ritorno, tanto illusorio quanto anacronistico, alle microsovranità nazionali. Proprio la crisi finanziaria di queste settimane ha dimostrato l’importanza di avere una casa europea. Il Governatore della Banca d’Italia Draghi ha sottolineato che se non ci fosse stato l’euro, l’impatto inflazionistico dell’aumento del prezzo del petrolio sarebbe stato per l’Italia cinque volte superiore. E d’altra parte in Europa la crisi finanziaria è stata ben più pesante per i paesi – come l’Islanda – che non appartengono al’Unione o che – come i paesi dell’Est – non hanno potuto farsi scudo dell’appartenenza all’area euro. E l’euro ha dimostrato di essere uno strumento prezioso per la governance della globalizzazione. Senza una forte integrazione economica e senza una moneta unica l’impatto della crisi sarebbe stato per molti paesi dell’Unione ben più drammatico. Un’Europa integrata è un fattore di stabilità e di sicurezza. Ed è più a rischio chi si chiude nella sola dimensione nazionale. È responsabilità delle forze politiche dare piena consapevolezza del valore dell’integrazione europea alle opinioni pubbliche. Naturalmente è urgente che l’Unione ritrovi smalto e offra ai cittadi-

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ni quelle certezze che le consentano di essere nuovamente percepita come conveniente e protettiva. E ciò può avvenire solo se si rilanciano le politiche di integrazione sui temi cruciali per la vita di milioni di persone. Serve prima di tutto una strategia per la crescita. Evitare il crack delle banche e delle borse è stato indispensabile per tutelare i risparmi dei cittadini. Ma questo non può bastare di fronte ad una recessione che minaccia l’economia reale, la capacità produttiva e la competitività delle imprese e il tenore di vita di milioni di famiglie. Con la stessa determinazione con cui i governi europei, la Commissione e la BCE hanno affrontato l’emergenza finanziaria, serve oggi una strategia che contrasti la recessione e ricrei condizioni di crescita: completare definitivamente il mercato unico; realizzare forme di armonizzazione fiscale; adottare un piano straordinario e pluriennale di investimenti nelle reti, nell’innovazione, nella ricerca; promuovere una politica europea e integrata per l’energia. E ciò sia accompagnato da reti di protezione sociale e del lavoro. E, dunque, è essenziale che l’Europa riorganizzi anche le sue politiche di bilancio, riformi la politica agricola e, soprattutto, possa

Un’Europa integrata è un fattore di stabilità e di sicurezza. È più a rischio chi si chiude nella sola dimensione nazionale


PRIMO PIANO

Un rilancio forte delle politiche di integrazione interna, deve accompagnarsi a un rilancio della dimensione politica e istituzionale dell’Unione disporre di risorse proprie, su cui non mancano proposte, dal fondo sovrano europeo alla emissione di titoli europei sul mercato dei capitali, proposta già alla metà degli anni ‘80 da Jacques Delors. Non meno rilevante è che l’UE consolidi e rafforzi le politiche per la cittadinanza: lo spazio di giustizia, l’immigrazione e la libera circolazione, la sicurezza individuale dei cittadini. Temi cruciali su cui, in questi anni, è spesso maturata una crisi di fiducia verso l’Unione. E un’Europa che voglia stare nella globalizzazione non può eludere le grandi sfide globali, a partire dall’ambiente, dai cambiamenti climatici e dagli obiettivi che l’UE si è data entro il 2020 per il risparmio energetico e per la riduzione delle emissioni di CO2. Pol.is: Il richiamo dell’Europa sembra, per altro verso, mantenere tutta la sua forza sino a coinvolgere Paesi situati in aree “delicate” – dalla Turchia all’Ucraina a Paesi del Caucaso – e terreno potenziale di nuovi possibili conflitti. Ma sui futuri processi di allargamento l’UE stenta a trovare una posizione unitaria: con il risultato di accentuare tensioni e difficoltà che appaiono sempre più difficilmente controllabili. Come procedere per superare questa impasse?

Fassino: Un rilancio forte delle politiche di integrazione interna, deve accompagnarsi ad un rilancio della dimensione politica e istituzionale dell’Unione. È scelta prioritaria il completamento del percorso di integrazione della Croazia – che ci auguriamo avvenga in tempi brevi – e dei Balcani occidentali, la cui definitiva stabilizzazione non potrà che derivare da una piena appartenenza all’UE di tutti i paesi della regione. E, in questo contesto, e compito primario dell’Unione favorire un’intesa tra Belgrado e Pristina che consenta il superamento delle dure contrapposizioni di questi anni. Pur consapevoli delle difficoltà e delle ostilità verso la Turchia, si deve andare avanti nella direzione di una inclusione europea di Ankara, un obiettivo strategico per la stabilità dell’Europa e per quella vasta area che si estende dal Mediterraneo al Golfo Persico. E in questo scenario è significativo che a Cipro i leader delle parti in conflitto abbiano avviato un nuovo round di negoziati per giungere finalmente ad un intesa sull’assetto dell’isola. È di grande importanza la scelta della Presidenza francese di promuovere in una nuova strategia euro-mediterranea e l’intesa per la costituzione di un Segretariato permanente dell’Unione Mediterranea richiede adesso che l’UE e i suoi paesi membri compiano ulteriori passi concreti e coerenti in questa direzione. E, infine, la crisi caucasica ha reso evidente il carattere strategico delle politiche di vicinato con quei paesi che stanno ai confini della UE. L’UE deve sentirsi e farsi garante della piena so-

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Intervista a Piero Fassino

vranità delle nazioni caucasiche e dell’Ucraina, realizzando con quei paesi relazioni sempre più intense. E adesso – ottenuta la cessazione delle ostilità militari in Georgia e dispiegati gli osservatori europei – a Ginevra si deve avviare un percorso negoziale effettivo e sincero che consenta alle autorità di Tblisi di esercitare la propria sovranità su tutto il territorio georgiano, alle comunità russofone che vivono in Ossezia e Abkhazia di vedere riconosciute la loro identità con forme di ampia autonomia e all’intera regione di approdare ad un assetto stabile e condiviso da tutti i paesi. È coerente con questo impianto agire perché l’Unione Europea sviluppi con la Russia quei rapporti di partenariato e cooperazione utili ad una inclusione di Mosca nella vita della comunità internazionale e a una piena attuazione da parte della Russia dei principi che regolano la legalità internazionale. L’insieme di queste scelte porta, infine, a sottolineare la necessità che l’UE sia fino in fondo partecipe delle politiche per la sicurezza e la stabilità del continente e del mondo. Se, per un lungo periodo, l’Europa è stata consumatrice di sicurezza prodotta da altri – gli USA – oggi all’UE spetta la responsabilità di essere coproduttrice e compartecipe della

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sicurezza comune. La NATO resta naturalmente la principale organizzazione politico-militare per la sicurezza e la stabilità, e non solo per l’Europa. E il Partito Democratico considera il legame transatlantico un pilastro della politica estera europea e italiana. Al tempo stesso proprio la crisi georgiana ci dice che vi è una complementarietà tra politiche dell’UE e funzione della NATO. Ed è per questo che sarebbe utile realizzare forme di “cooperazione rafforzata” tra quei paesi membri dell’Unione pronti ad assumere responsabilità comuni nel campo della difesa e della sicurezza. Insomma l’Europa uscirà dalle sue difficoltà e sarà all’altezza delle sfide che ha di fronte solo se non ridurrà le sue ambizioni e aprirà una nuova stagione della integrazione europea. La scelta non deve essere l’Europa minima indispensabile, ma l’Europa massima possibile.

La scelta non deve essere l’Europa minima indispensabile, ma l’Europa massima possibile


Alberto Benzoni

Un mondo “apolare”

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dunque in che mondo viviamo? Unipolare? Multipolare? O magari apolare? La questione sembra importante. Tanto da far parte, e da tempo, di un politichese praticato da governanti come da opinionisti. Ma, per sua sfortuna, è stata confiscata da ideologi. Con risultati francamente demenziali. Così ci è stato spiegato dai neo-con sino ai cattedratici no global che, dopo la caduta del muro di Berlino, il sistema da bipolare qual era è diventato unipolare (“elementare Watson: 21 fa 1”): che, insomma, nulla più era in grado di opporsi (salvo,per i veri credenti, i ”movimenti”;oppure i mujaheddin in lotta contro gli ebrei e i crociati”) alla marcia irresistibile dei marines,,delle multinazionali e del binomio, democrazia/mercato, modello Washington. Si poteva, naturalmente, vedere in tutto questo il trionfo del Bene oppure la manifestazione del Male; ma sul quadro complessivo si

Un impero mondiale, incontrastato dominatore appena qualche anno fa, oggi ridotto in polvere

era tutti d’accordo, anche e sopratutto nei primi anni del nuovo secolo e sino alla guerra in Iraq che di questo strapotere appariva la manifestazione simbolica ed estrema. Sono passati appena cinque anni. E il quadro che ci si presenta oggi è del tutto diverso. Anzi opposto. Un paese alla frutta sul piano economico, in procinto di perdere le nuove guerre asimmetriche, incapace di costruire rapporti e di governare processi, con un modello – quello del libero mercato – oggi ritenuto responsabile di tutti i mali del mondo, e potremmo continuare. In sintesi,un impero mondiale incontrastato dominatore appena qualche anno fa, è oggi ridotto in polvere. E per colpa (almeno questa è l’unica spiegazione in giro) del suo attuale gruppo dirigente, intossicato, anzi accecato dal culto della propria onnipotenza. Siamo, come si vede, al “quos deus vult perdere prius dementat”, alla trappola, ordita dalla Divinità o da un suo inviato, (in questo caso l’avventura irachena) grazie alla quale il tiranno precipita nella polvere. Una rappresentazione difficilmente accettabile da parte di qualsiasi osservatore dotato di media intelligenza e di normale spirito critico. Costui non avrà magari mai letto i te-

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Un mondo “apolare” di Alberto Benzoni

sti dedicati agli imperi ed al loro declino: ma è in grado di capire da solo che l’ipotesi di un crollo totale e nello spazio di un lustro non sta proprio in piedi. Detto in sintesi: se il mondo era unipolare cinque anni fa non può essere diventato apolare oggi; e se è apolare oggi non poteva essere unipolare cinque anni fa.

Il peso degli Usa Ma non calchiamo troppo la mano. Perché in questa rappresentazione estrema e distorta c’è pure un fondamento di verità: il peso degli Stati Uniti nei processi in atto nel mondo si è certamente ridotto, e in questo l’amministrazione Bush ha avuto una grandissima responsabilità. Prima di esaminare i fatti occorre però tornare sull’uso delle parole. Capiamo tutti che l’uso di “uni” (o ”b”, o “multi” o “a”) all’inizio di “polare” ha a che fare con la distribuzione del potere nel mondo. Già: ma di quale potere si tratta? Non certo quello di decidere del proprio destino (se cosi fosse, una società chiusa come l’Eritrea sarebbe sullo stesso piano degli Stati Uniti ,o magari più libera di loro), piuttosto quello di influenzare, con le proprie scelte, il destino di altri. E non, come si pensava sino alla metà del secolo scorso con la sola forza delle armi e con il diritto/dovere della conquista (se questo fosse oggi il metro, è bene ricordare che l’unica superpotenza militare di oggi, appunto gli Stati Uniti, non è riuscita a “vincere” né ieri in Korea e nel Vietnam, né oggi in Iraq o in Afghanistan), ma piuttosto proponendo comportamenti collettivi, politici, economico-sociali, culturali, funzionali alle

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proprie idee e ai propri interessi. Ma se così è, “l’egemonia” (che di questo si tratta) non è una posizione acquisita una volta per tutte ma un ruolo che va conquistato e mantenuto nel tempo, e che è legato di volta in volta alla capacità di formulare – all’interno di un universo concorrenziale – progetti collettivi condivisi, anzi fatti propri, dai diretti interessati. Dai diretti interessati: non dal mondo intero. Un mondo, ricordiamolo una volta per tutte, in cui convivono e convivranno sempre approcci diversi e potenzialmente conflittuali. E che è, proprio per questo, un mondo tendenzialmente multipolare (e che, per inciso, intenda rimanere tale anche nel periodo dei blocchi contrapposti; molti e anche importanti paesi li rifiutano in nome di un diverso modello di società e di politica internazionale; altri vestono l’una o l’altra giubba, senza crederci in una logica di puro opportunismo. Lo schema virtuoso di cui stiamo parlando si è comunque costantemente riproposto dal secondo dopoguerra in poi: dall’alleanza antifascista alla ricostruzione economica e politica dell’Europa occidentale, dalla liberalizzazione degli scambi alla gestione della sicurezza, sino alla vittoria pacifica nella competizione con il

Un mondo in cui convivono e convivranno sempre approcci diversi e potenzialmente conflittuali


PRIMO PIANO

Con Bush è la missione che definisce l’alleanza e non viceversa

“campo socialista” con la dissoluzione del medesimo dall’interno. In tutti questi casi l’egemonia USA passa attraverso un duplice “riconoscimento”che riguarda la centralità del problema; e,insieme a questa, la bontà delle strategie proposte per la sua soluzione. E non si tratta di un riconoscimento passivo. L’Europa darà, così, un contributo determinante al processo che porterà alla caduta del muro di Berlino (tutto merito di Reagan e papa Wojitila? Mica vero: c’entrano eccome anche la dissezione e gli accordi di Helsinki). Mentre, senza il concorso attivo, politico e finanziario, del mondo arabo, la prima guerra del Golfo non ci sarebbe mai stata. È però con l’amministrazione Bush (micidiale combinazione di imperialisti e reazionari e di internazionalisti, diciamo così, deviati) che questo schema viene abbandonato. L’egemonia (da riconfermare volta per volta) diventa “destino manifesto” (e cioè non soggetto a verifica); mentre il “progetto” si declina ora come “missione” (da condurre, se è necessario in modo unilaterale). E il tutto non richiede nessun riconoscimento preventivo ;piuttosto un concorso esterno successivo. Se questo ci sarà bene, sennò pazienza: perché è “la missione che definisce l’alleanza” e non viceversa. In sintesi ci si comporta come se

si avesse una specie di diritto divino a dettare l’agenda – da legislatori,giudici e sceriffi dell’ordine internazionale – in un mondo unipolare immaginario, con il risultato di perdere l’egemonia nel mondo multipolare reale. In ciò consiste, infatti, la sconfitta strategica di Washington in Iraq e nell’area medio orientale: non negli errori e nelle difficoltà registrate sul terreno, ma nel fatto che la missione di cui ci si è auto investiti non viene approvata, nei suoi obbiettivi e ancor più negli strumenti indicati per raggiungerli, dai vecchi e dai nuovi alleati degli Stati Uniti (in un contesto dove, per dirla tutta, i silenzi dubbiosi o ostili delle cancellerie europee e del consiglio di sicurezza pesano assai più delle proteste, scontate, dei “movimenti”). Ma la crisi viene aggravata, resa irreversibile, da due altri errori strategici. Il primo attiene alla pessima gestione complessiva della missione medio orientale. La sua centralità presupponeva, infatti, una serie di aggiustamenti interni e internazionali: riduzione della dipendenza energetica, un confronto serio con Russia e Iran o con almeno uno dei due, un impegno forte per la pace tra israeliani e palestinesi, mentre l’attenzione dedicata a questi temi è vicina allo zero. Il secondo, è francamente imperdonabile, è il continuo e petulante sabotaggio nei confronti di altre missioni considerate, queste sì, centrali dalla collettività mondiale: dai cambiamenti climatici alla giustizia penale contro i violatori dei diritti umani e alla riforma delle istituzioni,internazionali. Al termine di questo percorso, un ordine assolutamente nuovo:senza

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Un mondo “apolare” di Alberto Benzoni

una potenza egemone, con equilibri multipolari ancora da costruire e con una crisi economica e finanziaria anch’essa senza precedenti. Dobbiamo stracciarci le vesti per questo gridando alla catastrofe imminente? Probabilmente no. Perché non mancano le ragioni di serenità se non di ottimismo.

La questione dele regole Primo,l’egemonia – e nel caso specifico quella americana – se non è acquisita non è nemmeno persa una volta per tutte. Il paese rimane elemento centrale di qualsiasi ordine mondiale; e aspetta soltanto una leadership all’altezza di questa responsabilità, è per questo del resto che non possiamo non dirci tutti “obamaniaci”. E ancora, con buona pace dei nostalgici di Lepanto e dei cultori dell’”occidente fortezza” le nostre difficoltà, le difficoltà dell’ordine internazionale, non si sono tradotte in un successo per i suoi nemici. Non sono insomma alle viste nuovi “assi del male”, o nuovi conflitti armati; mentre quelli che abbiamo ereditato si sono complessivamente ridotti di intensità. In definitiva, la partita internazionale di oggi è difficile e complessa, ma non è comunque un giuoco a somma zero, dove le fortune di alcuni possano essere alimentate dalle disgrazie di altri. Di questo sono consapevoli tutti: a partire dai paesi emergenti, attuali o potenziali membri del nuovo club multipolare. Viviamo, dopotutto, in un mondo

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che, proprio perché apolare, non è, e soprattutto non può permettersi di essere anarchico. E,allora, la grande questione aperta è quella delle regole. Tutti,oggi, le invocano e in particolare quanti ritengono di aver tutto da guadagnare da un nuovo ordine internazionale: uomini di stato e esperti/operatori ansiosi di ridefinire il ruolo della politica nell’economia; nuovi componenti del “G 8 +”, dal Brasile all’India, dalla Cina al Sud Africa che legano la loro “potenza” non solo e non tanto all’affermazione della sua possibile dimensione regionale ma anche e soprattutto al riconoscimento del loro peso e del loro ruolo al livello mondiale. E di regole,allora,si discuterà nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Dei loro contenuti; ma anche dei nuovi equilibri che ,intorno a questi si determineranno, e delle strutture di “governance” che ne garantiranno l’effettività. “Il mondo è uno” ci hanno detto e ci ripetono da diverso tempo vari esponenti religiosi, in omaggio alla solidarietà derivante dal principio che siamo tutti fratelli. E non è una cattiva cosa, allora, che questo principio venga oggi riscoperto, magari in omaggio all’efficienza, anche da finanzieri con il pelo sullo stomaco e da politici sinora interessati soltanto al loro cortile di casa. Ma purtroppo, ci vorrà del tempo (e di tempo ce n’è poco) prima di passare dalla consapevolezza dei problemi a soluzioni condivise.


Gianni De Michelis

L’Europa in un altro mondo

L

a svolta è avvenuta tra il 1989 e il 1991 con la fine della Guerra Fredda; in quel momento è crollata l’architettura che aveva ingessato il pianeta, nonostante il progredire della scienza e della tecnologia, in una duplice struttura che aveva diviso le diverse Nazioni tra Est e Ovest e tra Nord e Sud distinguendole sia sulla base delle caratteristiche di funzionamento dei sistemi politici ed economici, sia sulla base del diverso livello di progresso e di sviluppo. Il repentino venire meno di tale duplice divisione da un lato ha unificato il pianeta dando vita al fenomeno che sinteticamente abbiamo definito globalizzazione, dall’altro ha messo in moto un processo di progressiva aggregazione di un

numero abbastanza elevato di aree più o meno omogenee caratterizzate da logiche specifiche di integrazione che hanno portato a dividere il pianeta, soprattutto dal punto di vista economico, in tre gruppi di Nazioni: i Paesi sviluppati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo o arretrati. Tali aree possono essere sommariamente identificate come nella tabella riportata in calce. Tra le aree nelle quali progressivamente il mondo è andato articolandosi ed organizzandosi, due si presentano come particolarmente problematiche ed instabili e cioè l’Asia Centrale e l’Africa Subsahariana, presentando sintomi particolarmente accentuati di disintegrazione e di tendenza ai fondamentalismi religiosi.

A. Sviluppati

• Unione Europea e Paesi Associati (circa 525 milioni di abitanti) • Nord America compreso il Messico (NAFTA) (circa 470 milioni di abitanti) • Asia dell’Est Sviluppato (circa 200 milioni di abitanti)

B. Emergenti

• Paesi Arabi Mediterranei con Israele (circa 350 milioni di abitanti) • Asia del Sud (India, etc.) (circa 1.260 milioni di abitanti) • Asia dell’Est e del Sud-Est (Cina, etc.) (circa 1.870 milioni di abitanti) • Cono Sud dell’Emisfero Australe (circa 245 milioni di abitanti) • Russia e Paesi limitrofi (con Kazakistan) (circa 190 milioni di abitanti)

C. Arretrati

• Asia Centrale (circa 285 milioni di abitanti) • America Centrale e Meridionale Tropicale (circa 195 milioni di abitanti) • Africa Subsahariana (circa 700 milioni di abitanti)

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L’Europa in un altro mondo di Gianni De Michelis

Questo processo ha dato vita ad una geografia multipolare, che però non può in alcun modo essere definita come apolare, tenendo conto del fatto che pur avendo progressivamente gli Stati Uniti dovuto rinunciare al loro ruolo egemone, che per un attimo durante la transizione post Guerra Fredda aveva fatto pensare a un possibile assetto unipolare del mondo, il Nord America resta pur sempre il polo più importante tra tutti sotto ogni profilo (politico, economico, militare e tecnologico). Naturalmente questa riorganizzazione delle diverse aree del pianeta è stata progressivamente caratterizzata dall’evidenziazione di molteplici ed accentuati squilibri, la cui causa principale è dovuta ai sommovimenti demografici che avevano caratterizzato anche la fase precedente della Guerra Fredda, ma che sono andati accentuandosi e soprattutto intrecciandosi nel corso degli ultimi vent’anni e per di più sono destinati a continuare almeno fino alla metà del XXI secolo. Non si tratta solo dell’aumento straordinario della popolazione e della sua ineguale distribuzione, di cui possiamo così sommariamente riassumerne l’evoluzione: A. Mondo: 1950: 2.519,5 mln, 2000: 6.066 mln, 2050: 9.322 mln; B. Paesi Sviluppati: 1950: 813,5 mln, 2000: 1.190,5 mln, 2050: 1.181 mln; C. Paesi in via di sviluppo: 1950: 1.706 mln, 2000: 4.865mln, 2050: 8.141 mln; D. BRIC: 1950: 1.071 mln, 2000: 2.607 mln, 2050: 3.396 mln.

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Ma anche di tre concomitanti fenomeni che hanno contribuito a differenziare la situazione tra le diverse aree de pianeta e cioè: A. L’invecchiamento della popolazione che riguarda soprattutto i Paesi cosiddetti sviluppati ma anche parte dei Paesi cosiddetti emergenti (soprattutto la Cina). B. L’accentuazione del trasferimento dalle campagne alle città con l’esplosione del fenomeno delle megalopoli e soprattutto con il definitivo ribaltamento dell’equilibrio tra popolazioni urbane e rurali (il XXI secolo sarà ricordato come il secolo urbano per eccellenza, in quanto soprattutto nei paesi cosiddetti emergenti l’urbanizzazione sarà la causa delle maggiori tensioni sociali ed ambientali). C. Le migrazioni internazionali che raggiungeranno dimensioni mai viste prima nella storia (pur essendo stato il fenomeno migratorio fin dalle origini dell’umanità il driver principale del progresso economico e delle tensioni politiche). Come è noto la demografia è un fenomeno le cui caratteristiche si modificano solo nel lunghissimo periodo e solo come effetto di interventi assolutamente indiretti; di conseguenza gli squilibri e le tensioni derivanti

Il Nord America resta pur sempreil polo più importante tra tutti sotto il profilo politico, economico, militare e tecnologico


PRIMO PIANO

Tentare di passare dal mondo multipolare ad uno multilaterale è la grande scommessa dei prossimi anni

dalle dinamiche demografiche, ma anche le opportunità ad esse connesse, devono essere governate attraverso politiche indirette (monetarie, logistiche, infrastrutturali, politiche, sociali, etc.). Attraverso tali politiche si può tentare di passare dal mondo multipolare ad uno multilaterale, capace cioè di essere governato attraverso la messa in opera di strumenti e di istituzioni guidate in modo multilaterale. Questa è la grande scommessa dei prossimi anni ed è anche una scommessa che la stragrande maggioranza degli umani vorrebbe vincere evitando la via che sempre nel passato l’umanità è stata costretta ad usare e cioè la via del conflitto. Su questo terreno, contrariamente a quello di cui troppi sono convinti, si offre una straordinaria opportunità all’Europa. Anche se Cina e Stati Uniti appaiono i due attori principali del confronto che si deve sviluppare attorno al problema di come realizzare un’adeguata governance mondiale dei problemi e delle sfide che sono di fronte a noi, l’Europa ha alcuni atouts fondamentali da giocare. Infatti anche se l’attenzione è stata attirata soprattutto dai BRIC, in realtà il protagonista più di successo delle trasformazioni degli ultimi

vent’anni è stata soprattutto l’Europa attraverso ovviamente l’Unione Europea e la sua evoluzione politica ed economica. L’Europa è riuscita a realizzare con successo l’unificazione del continente sanando le divisioni dovute alla I e alla II Guerra Mondiale, completando l’unificazione economica ed oggi ha la possibilità di completare tale processo gettando le basi per la definitiva integrazione anche della realtà russa in tale contesto. Con minor successo, ma comunque con determinazione, ha sviluppato una politica di vicinato e di coesione esterna rispetto all’area del cosiddetto Mediterraneo Allargato, contribuendo a ridurre le tensioni in quella che ai tempi della Guerra Fredda è stata l’area di maggior tensione su scala planetaria. Ma soprattutto ha compiuto con successo il varo dell’Euro che ha rappresentato il completamento del processo di integrazione economica avviato nel pieno della Guerra Fredda, ma nel contempo l’avvio del processo di integrazione politica del continente. Certo l’avvio di tale processo di integrazione politica è stato caratterizzato da stop-and-go, da incertezze e da difficoltà non ancora superate eppure non è senza significato che l’intero pianeta di fronte alla crisi più grave e più intensa che mai l’umanità abbia dovuto affrontare dovrà essere costretto in qualche modo a misurarsi proprio con le due sfide con le quali l’Europa ha saputo per prima confrontarsi con successo e cioè sviluppare un’aggregazione sovranazionale attraverso la teoria e la pratica dell’integrazione e governare gli squili-

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L’Europa in un altro mondo di Gianni De Michelis

bri e facilitare gli scambi economici attraverso la creazione ex novo di un ordine monetario. Forse l’Europa è meno pesante in termini politici ed economici di Cina e Stati Uniti ma senza alcun dubbio detiene il know-how di quello che anche gli altri saranno costretti rapidamente ad imparare se vorranno vincere le sfide e rimettere in moto il meccanismo dello sviluppo. Ed il tempo è poco e non favorirà gli autodidatti. Certo l’Europa dovrà sapersi muovere lungo ambedue le direttrici e cioè quella transatlantica e quella euroasiatica, sfuggendo alla tentazione di dividersi rispetto a tali direttrici. E soprattutto dovrà dimostrarsi

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capace, al di là dei trattati ed anticipando i trattati, di esprimersi con una voce sola, cosa che presuppone la capacità delle singole elites nazionali di cogliere il proprio specifico ed egoistico interesse di rimanere nel grande gioco attraverso l’unico percorso in realtà disponibile e al tempo stesso presuppone la capacità delle singole società civili e nazionali e soprattutto della parte più giovane di esse di cogliere il senso della coincidenza del destino europeo con l’opportunità di diventare coprotagonisti di un futuro migliore per il mondo globale. Il 2009 sarà un anno molto difficile però potrebbe essere soprattutto per l’Europa l’anno della grande opportunità per ridiventare protagonista.


Renato Brunetta ed Enrico Morando

Keynes è vivo e lotta insieme a noi? L’opinione di Renato BRUNETTA Ministro della Pubblica Amministrazione e Innovazione Keynes è vivo ed è ancora tra noi? No, Keynes è morto e lasciamolo riposare in pace, con il rispetto che dobbiamo ai grandi pensatori che hanno aperto nuove strade alla teoria ed alla pratica dell’economia. Evitiamo, soprattutto, di coinvolgerlo nel ripetersi, a livello di farsa, dello stantio dibattito sul ruolo dello stato, o della politica, in opposizione al mercato, frutto di una cattiva teoria e di una cattiva politica. Tanto per essere chiari, la crisi che stiamo attraversando è, innanzitutto, un fallimento della politica e non del mercato. È, infatti, lo stato, cioè la politica, che ha stabilito regole imperfette, o sbagliate, all’agire degli intermediari finanziari. E se lo ha fatto per ignoranza o scarsa comprensione dei meccanismi finanziari, non vediamo

La crisi che stiamo attraversando è il fallimento della politica e non del mercato

come la politica possa ergersi a giudice del mercato (usiamo questo termine perché non sappiamo cosa sia il mercatismo) come meccanismo di allocazione e di utilizzo efficiente delle risorse. Se, invece, la politica non ha fissato le regole corrette perché “catturata” dagli interessi privati degli agenti sul mercato, siano essi i cosiddetti “gnomi” a capo del sistema bancario o altri interessi economici forti, ne traiamo ancor più la prova che non sempre lo stato e la politica interpretano gli interessi generali, gli interessi della stabilità e della crescita economica o delle fasce più deboli della popolazione.

Aumento del “moral hazard” Ma non è solo lo stato “regolatore” ad avere mostrato insufficienza. Anche lo stato “sanzionatore” non ha brillato. Anzi, spesso, ha provocato disastri quando, esplicitamente o implicitamente, ha offerto garanzie tali da provocare un aumento del moral hazard, cioè della propensione al rischio, degli operatori economici, persuasi che lo stato avrebbe impedito, in ultima istanza, anche la sanzione del mercato in caso di insuccesso delle proprie azioni. Fatto, questo, che puntualmente sta avvenendo, ponendo il non nuovo dilemma tra la conferma di aspettative non virtuo-

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Keynes è vivo e lotta insieme a noi? di Renato Brunetta

se, con l’invio di segnali sbagliati agli operatori per il futuro, e l’esigenza di far fronte ad una crisi sistemica con un intervento forte e responsabile dello stato. Anche dal punto di vista macroeconomico l’attuale crisi non è figlia del laissez faire, del non intervento, ma al contrario di una politica interventista di tipo keynesiano. Mentre Milton Friedman, considerato il principale fautore del capitalismo e del mercato, predicava di mantenere stabile la crescita dell’offerta di moneta, e quindi anche della liquidità creata dalle banche, era Keynes, peraltro anch’esso sostenitore del capitalismo e del mercato, che predicava, sotto determinate condizioni di capacità produttiva inutilizzata, la creazione di liquidità necessaria a stimolare la domanda aggregata. Se, quindi, si vuole semplificare in modo provocatorio l’analisi, possiamo affermare che la politica economica americana dell’ultimo decennio è stata certamente ispirata più dai precetti keynesiani che da quelli di Milton Friedman.

Liquidità e tassi bassi Per essere più precisi, la politica monetaria espansiva è stata utilizzata da Greenspan in modo spregiudicato, e non certo in conformità del pensiero liberista della scuola di Chicago, per sostenere proprio la domanda aggregata. Prima, alla fine del secolo scorso, essa ha accompagnato la bolla speculativa della new economy. Poi, dopo lo scoppio di questa bolla ed il conseguente crollo della ricchezza finanziaria degli americani, è stata utilizzata per compensare queste perdite con un aumento della

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ricchezza immobiliare. Forte liquidità e bassi tassi di interesse sono stati, infatti, la base sia del formarsi della bolla immobiliare sia dell’uso eccessivo della leva finanziaria da parte del sistema creditizio. Il fine era il sostegno della domanda interna ed in particolare dei consumi degli americani, fortemente dipendenti dalla ricchezza. La politica monetaria espansiva di Greenspan ha, in tal modo, assicurato un lungo periodo di prosperità agli americani, anche se la crisi finanziaria e la recessione attuale ne sono, in parte, la conseguenza. D’altra parte è ancora presto per un bilancio definitivo di questa politica. Solo al termine della crisi, quando si farà un bilancio del costo della recessione attesa, in termini di riduzione del Pil e dell’occupazione, gli americani potranno dire se le perdite attuali hanno superato o meno i guadagni di benessere accumulati nel corso della lunga fase espansiva della loro economia. Ed è solo a quel momento che gli europei, per non dire degli italiani, potranno parlare di fallimento del modello americano rispetto a quello europeo. Si dovrebbe, inoltre, ricordare che anche la bolla speculativa della new economy ebbe il merito di far confluire capitali in abbondanza ad un settore che avreb-

Solo dopo la crisi gli americani potranno dire se le perdite attuali hanno superato o meno i guadagni accumulati nella fase espansiva della loro economia


PRIMO PIANO

Il problema che abbiamo di fronte non è quello di una maggiore presenza della politica, che è sempre stata presente, ma di quale politica be cambiato il mondo e la sua economia, anche se molti risparmiatori incauti ne pagarono il prezzo. Ma non si deve dimenticare che l’idea keynesiana secondo la quale la politica monetaria espansiva, sostenendo la domanda aggregata, avrebbe creato il reddito e quindi, ex post, anche il risparmio necessario agli investimenti, non sembra aver funzionato negli Stati Uniti, a causa di una propensione al risparmio prossima allo zero. Vi è un altro tassello del puzzle, che ci mostra come dietro il mondo che alcuni pensano sia finito non ci sia solo mercato ma mani molto visibili. L’economia americana ha trovato il risparmio necessario, che non riusciva o si rifiutava di creare in casa, in Cina, ed in altri paesi emergenti, ove il governo non sottoponeva il tasso di cambio, cioè il valore della sua moneta, alla disciplina del mercato valutario, frenava salari e domanda interna, e accumulava mediante surplus commerciali riserve valutarie, prevalentemente in dollari, e le impiegava in titoli americani. Cambi amministrati e controllo del movimento dei capitali non sono il regno del libero mercato internazionale o del mercato selvaggio. Senza queste mani molto visibili gli squilibri americani, fondati sul deficit interno ed estero, non sarebbero potu-

ti crescere tanto e così a lungo. Tutto questo è per dire che, seguendo il metodo di Keynes e non banalmente ricette coniate in un mondo che non c’è più, è necessario affrontare con umiltà intellettuale la crisi attuale, per affinare la capacità esplicativa della teoria economica, che proprio dal confronto con le sfide della storia ha sempre trovato stimolo per i suoi progressi, senza rinchiudersi all’interno di scuole di pensiero ideologiche.

Gli animal spirits del mercato D’altra parte, in un momento in cui il richiamo allo stato ed alla politica prevale, per la paura che la crisi possa avvitarsi in modo incontrollabile se affidata alla cura degli animal spirits che operano sul mercato, essa rimane incerta e dubbiosa dopo aver reclamato la primazia. Se, quindi, dobbiamo essere onesti, il problema che abbiamo di fronte non è quello di una maggiore presenza della politica, che è sempre stata presente, anche nel liberista mondo anglosassone, ma di quale politica. Il problema attuale non è il richiamo all’intervento pubblico, magari sotto la bandiera simbolica di un nuovo keynesismo, ma come strutturare l’intervento pubblico, con quali strumenti e con quali finalità. E come, soprattutto, affrontare l’emergenza senza correre il rischio di spostare in avanti, magari ingigantiti, i problemi che oggi si manifestano. Come si è detto sopra, il tentativo di Greenspan di eliminare il ciclo dall’economia americana ha prodotto risultati in parte imprevisti. Un esempio forse estremo può chiarire come

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Keynes è vivo e lotta insieme a noi? di Renato Brunetta

il breve periodo possa a volte confliggere con il medio e lungo periodo, anche se è leggendaria l’affermazione di Keynes che nel lungo periodo siamo tutti morti. Di fronte ad una emergenza alimentare in paesi in via di sviluppo, di fronte ad una catastrofe umanitaria, la risposta è in genere quella di inviare cibo e derrate alimentari attraverso i programmi di aiuto internazionali. Ma non è un mistero che questi interventi contribuiscano a distruggere i mercati agricoli locali e a porre le basi per una successiva carestia. L’esempio può sembrare forte, ma questo è uno dei problemi, non ideologici, che si pongono di fronte ai governi che debbono cercare di impedire che la crisi finanziaria si trasferisca in modo catastrofico nell’economia reale. Se guardiamo all’Europa e poi all’Italia, i problemi non sono più semplici che negli Stati Uniti. Ed ancor più che negli Stati Uniti il richiamo a Keynes, o in modo simmetrico l’arroccamento ideologico all’auto sufficienza del mercato, ci sembra fuorviante.

Il debito pubblico In Italia, e in Europa, abbiamo avuto troppo poco mercato, e la vicenda Alitalia è ancora una pistola fumante. Ma abbiamo avuto anche una latitanza della politica economica, keynesiana o friedmaniana che sia. Schiacciati da un enorme debito pubblico, nascosti dietro i veti europei perché incapaci, senza il richiamo all’autorità superiore, di contrastare tutte le corporazioni che hanno saccheggiato l’Italia facendone il paese con il maggior grado di disuguaglianza ed il minor tasso di crescita

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tra i paesi europei comparabili al nostro, la politica italiana non ha dato per lungo tempo grande prova di sé. Ben vengano, quindi, eventuali apparenti incertezze sul da farsi. La necessaria prontezza di risposta dei governi non esime dalla riflessione. Risposte o annunci affrettati sono sottoposti a una immediata attenta valutazione dei mercati, che è poi la valutazione delle imprese e delle famiglie risparmiatrici e consumatrici. Se le risposte sono solo mediatiche o palesemente insufficienti, esse non incidono nelle aspettative e, quindi, nei comportamenti da cui dipende l’uscita dalla crisi, ma al contrario possono aggravare le crisi di sfiducia. Probabilmente, in Italia, l’azione pubblica nel momento attuale dovrebbe seguire tre direttive principali. Primo, un’azione di assistenza per chi è colpito dalla crisi. Il maggior finanziamento degli ammortizzatori sociali, programma peraltro che era nei piani di riforma del welfare, deve essere oggi accelerato. Anche alcuni provvedimenti fiscali a favore delle fasce deboli rientrano in questa logica e non hanno nulla a che vedere con riforme fiscali necessarie a sostenere l’offerta, riforme, quest’ultime, che devono essere discusse se-

I governi debbono impedire che la crisi finanziaria si trasferisca in modo catastrofico nell’economia reale


PRIMO PIANO

Se le risposte sono solo mediatiche o palesemente insufficienti, non incidono nelle aspettative e nei comportamenti da cui dipende l’uscita dalla crisi, anzi possono aggravare la crisi di sfiducia paratamente e devono avere, per essere efficaci, carattere strutturale. Il piano assistenziale serve ad evitare l’estendersi della logica del salvataggio, degli aiuti, dello stato proprietario, logica che rischia di aumentare la propensione al moral hazard che solo il mercato, e non la minaccia giudiziaria, può contrastare pienamente. L’assistenza è il complemento al mercato, non il sostituto. Secondo, un piano di spesa per investimenti pubblici la cui finalità non è quella di creare immediata domanda aggiuntiva, poiché le sfasature temporali lo impediscono, ma di creare quelle infrastrutture che possono migliorare le aspettative, quelle sì ad effetto immediato, di produttività e competitività delle imprese che operano sul territorio italiano. Terzo, proseguire nella paziente opera riformatrice il cui scopo è quello di far funzionare meglio i mercati e lo Stato in tutti i suoi comparti allo scopo di un recupero complessivo di produttività del sistema economico italiano. Se proprio vogliamo ricordare Keynes, potremmo richiamare la necessità di un nuovo ordine monetario internazionale, ma questo è un compito politico che spetta alla comunità delle nazioni e non al governo italiano.

L’opinione di Enrico MORANDO senatore del PD La crisi finanziaria nasce da profondi squilibri dell’economia globale e dalla totale mancanza di sedi e strumenti per il suo governo. Per questo, è tragicomico che il Presidente Berlusconi abbia dichiarato che essa “non si trasmetterà” all’economia reale: essa nasce negli squilibri macroeconomici dell’economia reale. Certo, nessuno poteva prevedere né il momento preciso della sua esplosione, né le contingenti circostanze scatenanti. Ma da tempo gli analisti più attenti denunciavano l’insostenibilità dei deficit gemelli degli Stati Uniti d’America (quello delle famiglie e quello della bilancia commerciale) – deficit che le politiche dell’Amministrazione Bush hanno scientemente alimentato, anche al fine di ammortizzare gli effetti economici dell’avventura irakena. E l’insostenibilità di lungo periodo della eccedenza di risparmio in alcune economie emergenti (la Cina, in particolare), dove questo surplus viene alimentato con costi sociali ed ambientali elevatissimi, in primo luogo tenendo vergognosamente basso – in rapporto alla ricchezza nazionale – il volume dei consumi delle famiglie. Cronica carenza di risparmio in alcune aree del mondo: cronica eccedenza di risparmio in altre: ecco le origini strutturali del crack finanziario di questi giorni. Per farvi fronte, ci sarebbe stato bisogno di buona politica, a dimensione globale; e intanto, per ciò che ci riguarda, a dimensione europea. Ma la politica cattiva ha preso il sopravvento, aiutata da

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Keynes è vivo e lotta insieme a noi? di Enrico Morando

una vera e propria ubris culturale: ai rischi crescenti, determinati dagli squilibri strutturali già richiamati, si è pensato e cercato di rispondere con la pretesa di eliminare il rischio, spezzettandolo in una miriade di prodotti finanziari da spargere nella economia globale. Col risultato esattamente opposto all’intenzione dichiarata: moltiplicare, fino a renderlo del tutto incontrollabile, il rischio stesso. Quando il rallentamento del ciclo negli USA e il rialzo dei tassi di interesse ha fatto scoppiare la bolla immobiliare e sono emerse le insolvenze delle famiglie americane, l’edificio del sistema finanziario ne è stato duramente lesionato, rischiando il tracollo. È presto per trarre un bilancio degli errori commessi e dei successi ottenuti nei tentativi di far fronte alla crisi e di impedire che essa sfoci in una lunga e drammatica recessione. Ma ad una conclusione certa e molto rilevante politicamente possiamo già giungere: le risposte che la politica ha pensato in un primo tempo di mettere in campo – tutte rigorosamente a dimensione dei singoli stati nazionali – sono miseramente fallite ed hanno addirittura moltiplicato gli effetti della crisi

L’intervento pubblico Le cose sono cambiate solo quando si è affermata la consapevolezza della indispensabilità di una risposta coordinata, alla dimensione europea e globale. Dopo il tragico fallimento del vertice a quattro di Parigi – improvvidamente convocato e peggio gestito – le Banche Centrali di tutto il mondo hanno – per la prima volta nella storia – operato una congiunta scelta di abbassamento dei tassi. E i

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governi hanno deciso di agire in modo coordinato per garantire i depositanti, facilitare la ripresa del credito tra banche e agevolarne la ricapitalizzazione, anche con interventi diretti della mano pubblica. Si è arrivati al punto che la stessa Amministrazione Bush ha cambiato “in corsa” i caratteri del Piano Paulson, al fine di renderlo più coerente con le linee essenziali degli interventi messi a punto in sede europea, soprattutto grazie alle proposte avanzate dal primo Ministro inglese Gordon Brown, della cui competenza e determinazione l’Europa intera ha potuto giovarsi... e della quale – si parva licet... – avevamo potuto giovarci anche noi del Partito Democratico, presentando in Parlamento una linea di intervento sulla crisi che il Governo italiano ha in un primo momento respinto, salvo poi – con un mutamento di orientamento di cui ci compiacciamo – farla propria nelle sedi europee ed internazionali. Mi riferisco alla Risoluzione presentata dal PD al Senato sulla Nota di Aggiornamento al DPEF, a proposito della quale va rilevato che – pur essendo stata presentata il 26 settembre, a crisi abbondantemente scoppiata – essa non faceva alcun cenno alle politiche per farvi fronte.

Cronica carenza di risparmio in alcune aree del mondo, cronica eccedenza di risparmi in altre: ecco le origini strutturali del crack finanziario


PRIMO PIANO

Quando la crisi sarà avviata a soluzione, rifluirà tutto verso la rinazionalizzazione delle politiche di regolazione o si porranno le basi per la regolazione dello sviluppo sostenibile, a scala europea e globale? Ecco allora la questione che ci si pone, tanto chiara nella sua enunciazione quanto impegnativa: quando la crisi sarà avviata a soluzione (accadrà, anche se potrebbe non essere presto e a basso prezzo, sul piano sociale) tutto rifluirà verso la rinazionalizzazione delle politiche di regolazione, di controllo e vigilanza sui mercati, a partire da quello finanziario; o i primi passi compiuti in questi giorni difficili verso il coordinamento porranno le basi per la costruzione di un robusto edificio di regolazione, vigilanza e, aggiungo, promozione dello sviluppo sostenibile, a scala europea e globale? Si tratta di una domanda che reclama dalle forze politiche una risposta precisa: mi riferisco alle forze politiche di ogni stato e a quelle che vengono organizzandosi alla dimensione continentale e globale, le quali possono trovare nell’impegno di elaborazione, lotta politica e mobilitazione su questo tema una base per la definizione della propria funzione ben più solida e gravida di futuro di quella che è loro fornita dai tradizionali riferimenti ideologici. I progressisti non dovrebbero avere esitazioni: subito, un sistema europeo di regolazione e vigilanza sul sistema del credito, che risulta ormai inestricabilmente integrato a dimensione continentale. È solo il primo passo – il più urgente, ma certo non

il più rilevante – di una strategia volta alla costruzione di una nuova regolazione europea e globale, che può nascere, per un verso, da un vero e proprio salto nel processo di integrazione europea, per coordinare le politiche economiche, fiscali, sociali, energetiche ed ambientali; e, per l’altro, dall’allargamento dell’ormai inutile G8 ai nuovi fondamentali protagonisti dell’economia mondiale. Sono queste le sedi per definire scelte di regolazione che corrispondano alle principali novità che emergono nella globalizzazione: pensiamo alle potenzialità e ai rischi connessi ai fondi sovrani, che propongono inediti problemi al tempo stesso economici e geostrategici. L’ambizione che deve muoverci è quella di concorrere alla costruzione delle sedi del governo democratico del mondo, a partire dal rinnovamento dell’ONU, nella quale potrebbe e dovrebbe sorgere – a fianco del Consiglio di Sicurezza – un Consiglio permanente per lo Sviluppo Sostenibile, del quale dovrebbero fare parte permanentemente l’Unione Europea e le altre aggregazioni regionali, oltre ai grandi protagonisti, vecchi e nuovi, dell’economia globale.

Un nuovo internazionalismo I socialdemocratici e i liberal sono spinti a questo impegno, al tempo stesso, dalla fedeltà ai loro valori e dalla volontà di tutela degli interessi di chi, nel mondo, ha meno, sa meno e può meno: la globalizzazione ha consentito di strappare alla fame e agli stenti, ogni anno, milioni di persone che ne erano vittime. A differenza di Tremonti, non diremo mai, noi riformisti, che era meglio quando in-

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Keynes è vivo e lotta insieme a noi? di Enrico Morando

teri continenti e miliardi di uomini non avevano accesso ai frutti dello sviluppo. Ma dobbiamo anche pretendere, che si riduca, nel mondo, l’aggressione alla natura che nasce dal riscaldamento globale, così come non possiamo tollerare che – in Cina e in tanti altri paesi emergenti – organizzare uno sciopero o fondare un comitato per l’igiene alimentare e la tutela dell’ambiente esponga alla condanna ad anni e anni di galera. È il terreno sul quale deve e può crescere – ben al di là dei vecchi con-

fini ideologici che ancora dividono i progressisti nel mondo – un nuovo internazionalismo: di qui l’urgenza di una iniziativa dei Democratici italiani, rivolta a tutte le forze di centrosinistra dell’Europa, perché vogliano concorrere a definire una piattaforma coerente su cui chiedere il voto dei cittadini europei la prossima primavera. Accompagnando a questa comune visione del futuro dell’Europa e del mondo la scelta di una personalità da indicare assieme per il vertice delle istituzioni comunitarie.

L’ambizione è quella di concorrere alla costruzione delle sedi del governo democratico del mondo, a partire dal rinnnovamento dell’ONU

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Vincenzo Visco Comandini

Dove si fermerà il pendolo dell’economia?

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ella storia del capitalismo occidentale il pendolo della politica ha conosciuto vistose oscillazioni fra l’intervento pubblico e il laissez faire, che i suoi moderni sostenitori hanno chiamato eufemisticamente deregolazione dei mercati. Dopo anni di rilassamento del sistema dei controlli pubblici sull’economia e di totale fideismo nelle virtù del mercato, il pendolo sembra oggi aver invertito la sua direzione, tornando verso la centralità del ruolo dello Stato. Di fronte alla crisi incombente, tutti i grandi soggetti economici, dalle imprese alle banche, dai sindacati alla Confindustria, sono tornati a chiedere più interventi diretti dello Stato, più proprietà pubblica, più regole per un sistema finanziario che invece di svolgere la sua funzione propria di volano dell’economia, è diventato esso stesso causa prima dell’attuale recessione.

Di fronte alla crisi incombente, tutti i grandi soggetti economici tornano a chiedere più interventi diretti dello Stato

La crisi economica cui stiamo assistendo presenta infatti caratteri decisamente diversi dalle precedenti: è mondiale perché le transazioni finanziarie sono ormai inevitabilmente globalizzate, non nasce da shock di domanda o di offerta dell’economia reale – le vistose oscillazioni dei prezzi delle materie prime e soprattutto di quelle energetiche hanno generato squilibri ma i sistemi economici sembrano essere stati capaci di assorbirne pur a fatica gli impatti – bensì da un crollo della fiducia, non tanto dei singoli consumatori o risparmiatori, quanto soprattutto delle istituzioni del credito fra di loro.

Bisogno di trasparenza Bollata per anni come puro portato ideologico retrò, l’affermazione di Lenin secondo cui la Borsa è il luogo dove i capitalisti si rubano i soldi l’uno con l’altro, ha cinicamente ripreso la sua rivincita, purtroppo per il motivo sbagliato. Infatti non è la sola Borsa, dove investono anche i piccoli risparmiatori, ad essere elemento di destabilizzazione, è l’intero sistema mondiale della finanza e del credito a mostrare gravi lacune, come ha recentemente sostenuto il premio Nobel Joseph Stiglitz nella sua audizione al

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Dove si fermerà il pendolo dell’economia? di Vincenzo Visco Comandini

Congresso degli Stati Uniti dell’ottobre di quest’anno. Stiglitz, che pure non è certo uomo di religione, parla di un urgente bisogno di trasparenza, etica e responsabilità, necessarie per riportare il settore finanziario al suo ruolo proprio di volano e di servizio allo sviluppo dell’economia reale. Un’iniezione di robusta trasparenza, da realizzarsi necessariamente attraverso una buona ed efficace regolazione, appare fondamentale.

Rischio e portafoglio Sono stati proprio la crescita e il complicarsi dei mercati finanziari a generare un aumento dell’asimmetria informativa fra acquirenti e compratori di titoli, cui non ha corrisposto un affinamento nei sistemi di regolazione. I manuali di economia e finanza insegnano che le scelte di portafoglio degli investimenti in titoli si diversificano in base al rischio: l’acquisto di azioni è più rischioso di quello delle obbligazioni; con le prime si comperano i diritti di proprietà di un’impresa e se ne condividono i rischi, con le seconde si presta solo denaro a tassi più o meno predefiniti. Oggi questa distinzione non ha praticamente più senso, le seconde possono essere molto più rischiose delle prime a causa dell’effetto leva, ovvero alla catena di compravendite del credito originale del titolo sempre più nascosto in cartolarizzazioni a cascata, così che il loro acquirente non saprà praticamente mai cosa c’è realmente dentro di esse. Diventa così possibile che titoli vadano in default o diventino di fatto

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illiquidi perché nessuno li vuole più acquistare senza che nessuna istituzione ne abbia mai segnalato i possibili rischi. La presenza di titoli apparentemente sicuri, in realtà altamente rischiosi è stata favorita dalla bolla speculativa in cui tutti comperavano tutto, mentre i rischi si moltiplicavano grazie al principio, osserva impietosamente Stiglitz, che qualche cretino che si compra il titolo lo si trova sempre. Si è creato il paradosso per cui il sistema dei titoli risultati più tossici, i credit default swap, ha di fatto riprodotto e imitato il noto meccanismo della catena di S. Antonio, ai limiti della legalità, sperimentato a livello macroeconomico in Albania nello scorso decennio1. Le società di rating, che dovevano svolgere un ruolo di terzietà assegnando punteggi ai titoli in modo da aiutare il risparmiatore ad orientarsi, hanno approfittato dell’asimmetria informativa esistente sul mercato per acquisire lucrose consulenze con gli stessi soggetti i cui titoli valutavano: il più classico dei conflitti d’interesse, come se un arbitro di una competizione sportiva ricevesse compensi per prestazioni professionali da una squadra che sta arbitrando. Le istituzioni finanzia-

Il sistema di titoli risultati più tossici ha riprodotto e imitato il noto meccanismo della catena di S. Antonio, ai limiti della legalità


PRIMO PIANO

L’acuirsi della crisi spinge i governi ad interventi considerati fino a pochi mesi fa “eretici”

rie, le autorità indipendenti, i governi hanno mal ripartito fra di loro le competenze relative ai controlli su queste nuove forme di investimento finanziario, lasciando di fatto ampi margini per un laissez faire opportunista. Come sempre, la crisi di fiducia colpisce in modo specifico i ceti più deboli. Non a caso è iniziata con i mutui sub-prime negli Stati Uniti, di cui sono utilizzatori proprio i soggetti più poveri e meno istruiti, ma anche in Italia c’è stata una perversa patologia nel mercato dei titoli mobiliari: siamo infatti il paese al mondo con la più alta quota di bond a rischio detenuti dalle famiglie, grazie a consulenti bancari più che disinvolti nella vendita di tali titoli, all’estero detenuti con maggiore frequenza da investitori istituzionali. Stiglitz punta acutamente il dito contro alcuni meccanismi di incentivo, fino ad oggi considerati come normali ma rivelatisi esiziali per il sistema economico, le stock options, e li collega alla crisi finanziaria attuale. Infatti l’effetto prodotto dall’uso generalizzato di tale strumento, in cui una parte della remunerazione è data sotto forma di titoli dell’impresa gestita a prezzi predefiniti (il manager è invogliato così a lavorare so-

do in modo da far alzare il valore del titolo di cui entrerà in possesso a prezzi più bassi di quelli di mercato), è di ridurre drasticamente l’orizzonte temporale su cui egli lavora, sempre più breve perché limitato al periodo in cui si realizzeranno i profitti privati ottenuti con questo strumento.

Interventi “eretici” L’acuirsi della crisi sta spingendo i governi di tutti i paesi ad intervenire sia nazionalizzando istituti di credito che rischiano il fallimento, sia fornendo a questi ultimi garanzie di solvibilità in caso di fenomeni di riscatto e di crisi di liquidità. Si tratta di interventi che fino a qualche mese fa sarebbero stati considerati “eretici” dai sostenitori del liberalismo. Ma è proprio così? Ritengo di no, perché come osserva Salvatore Rossi2, l’essenza del pensiero liberale è proprio di regolare il mercato. Ciò perché le virtù del mercato non risiedono nel fatto che esiste, ma solo ed unicamente nel benessere collettivo generato dalla concorrenza. Se lo Stato pratica il laissez faire sostanziale, il libero mercato concorrenziale o non si forma affatto, o, seppure esistente, non dura a lungo perché finisce per essere soffocato dalla naturale tendenza monopolistica dei soggetti che vi operano. Rossi cita Luigi Einaudi3 che non si stancava di mostrare come la scienza economica liberale non avesse nulla a che fare con la concezione religiosa del liberalismo, il liberismo puro e duro, che invece consiste nel non intervenire mai, nel lasciare fa-

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Dove si fermerà il pendolo dell’economia? di Vincenzo Visco Comandini

re o lasciar passare sempre e comunque, che corrisponde quasi sempre all’interesse dei monopolisti di turno, liberi di abusare del loro potere. La religione liberistica, osserva Rossi, è paradossalmente una versione rovesciata, ma di fatto identica negli esiti, dello statalismo: non intervenendo, lo Stato consente che gruppi d’interesse organizzati soffochino la concorrenza. Di qui l’esigenza che oggi è divenuta necessità improrogabile, di fissare e rendere effettivi sistemi di regole e controlli pubblici che rivestano la funzione di tutela e protezione del mercato. Ciò vale soprattutto per la tutela della concorrenza, funzione pubblica oggi più importante che mai. Il rischio per un sistema politico ed economico debole come quello del nostro paese è di rifugiarsi nell’illusione di un protezionismo tanto inefficiente quanto dispendioso per le finanze pubbliche. Il protezionismo non a caso fu prerogativa del fascismo, ed ebbe come conseguenze un grave ritardo economico e tecnologico da cui l’Italia si sarebbe ripresa solo con il boom degli anni Sessanta. Dunque, la tutela della concorrenza va accelerata e non colpevolmente limitata con la scusa dell’interesse nazionale, in modo da tentare di ridurre il vistoso gap di crescita che si sta riformando nei confronti di gran parte dei paesi europei. Concorrenza non vuol dire laissez faire, né assenza della politica: significa assegnare a quest’ultima il suo ruolo proprio di ideazione delle strategie del sistema paese che i singoli gruppi industriali non sono

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spesso in grado di svolgere (e ciò vale in particolare per il nostro paese dove le imprese multinazionali si contano sulle dita di una mano), armonizzate in un contesto di competizione di mercato. In particolare, emerge il bisogno di politiche industriali rivolte all’ammodernamento e ampliamento delle grandi infrastrutture nazionali che, da vanto del nostro paese, in pochi anni depauperandosi sono diventate un elemento di freno allo sviluppo. Lasciare al capitale privato le scelte fondamentali su questo tema sarebbe opzione non solo ideologica, ma anche inefficace. Si pensi alle politiche per promuovere le reti di comunicazione a banda larga e, nel futuro ormai prossimo, larghissima, che richiedono scelte improrogabili. Tutti i governi dei principali paesi industrializzati, compresi quelli emergenti, si sono infatti mossi da tempo con interventi mirati di messa a fattor comune degli investimenti nelle reti. Forme consortili fra operatori, società miste pubblico-privato, regulatory holiday, separazione funzionale fra reti di trasporto e di distribuzione sono tutte opzioni possibili di politica, a patto di sceglierne tempesti-

I rischi per un sistema politico ed economico debole come il nostro sono di rifugiarsi nell’illusione di un protezionismo inefficiente e dispendioso


PRIMO PIANO

vamente una e di perseguirne pervicacemente le finalità, ossia sopportarne nell’immediato i costi per godere dei benefici nel futuro. La speranza è che l’attuale crisi spinga la politica italiana ad intromettersi meno nella gestione ordinaria e immediata dei processi – sostituto povero delle inefficienze delle nostre organizzazioni pubbliche e private – e a concentrarsi sui grandi disegni, per evitare di perdere l’ennesimo treno della crescita.

Concorrenza non vuol dire laissez faire, né assenza della politica

In quel paese, società finanziarie gestite dai politici emettevano titoli ad elevato tasso d’interesse, ripagato solo dalla liquidità delle nuove sottoscrizioni, andate ben presto in default, rovinando i risparmi di milioni di famiglie che si erano fidate. 2 La crisi, il mercato e il pensiero liberale, LaVoce.Info 20.11.2008 3 L. Einaudi, 1931, Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello del liberalismo, in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1988. 1

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Luigi Covatta

La metafora di un film: Mars Attack

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ualche settimana fa è passato in televisione un film demenziale degli anni ‘90, Mars Attack, che ironizza sull’impotenza dell’Amministrazione americana di fronte a un’invasione di marziani. Falliscono sia la colomba Jack Nicholson che il falco Rod Steiger, per non parlare dello scienziato Pierce Brosnan, che i marziani riducono a una testa senza corpo. Sull’happy end populista della storia (i marziani debellati con la straziante musica country sparata a tutto volume da una nonnetta dura d’orecchio) non c’è da giurare. Ma per il resto il film di Tim Burton offre una metafora efficace del disorientamento con cui il sistema politico mondiale sta fronteggiando l’epidemia indotta dai titoli tossici; e nei particolari più caricaturali (per esempio Tom Jones che canta e balla in un casinò mentre arrivano gli alieni, o Danny De Vito che rinuncia a salvarsi per non stare scomodo) anche dell’inconsapevolezza con cui, nel suo piccolo, sta reagendo il sistema politico nostrano, che a bufera già iniziata ha alternato lo psicodramma del maestro unico a quello della Commissione di vigilanza sulla Rai. Di teste senza corpo come quella di Brosnan già in questi primi mesi di crisi ne abbiamo viste molte. A cominciare da quelle degli economisti

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che oziosamente si chiedono se la politica potrà salvare il mondo, senza rendersi conto che essa, anche se forse non può, deve comunque farlo: che la politica, cioè, è esattamente l’attività con cui da sempre l’umanità ha fronteggiato le emergenze ed attraverso di esse si è rinnovata, benché non necessariamente in meglio.

I dilemmi geopolitici Questa emergenza, poi, postula un surplus di politica. Non solo perché esige un maggiore intervento dello Stato nell’economia. Né tanto perché induce nostalgici di ogni genere e specie a rispolverare vecchi arnesi, dalla teoria marxista del crollo del capitalismo a quella schumpeteriana della “distruzione creatrice”. Soprattutto perché propone dilemmi geopolitici la cui soluzione è della politica stessa da sempre la quintessenza. Per ora c’è solo da sperare, anzi, che la ricerca di un nuovo equilibrio

Il film di Tim Burton è una metafora efficace del disorientamento con cui il sistema mondiale fronteggia l’epidemia indotta dai titoli tossici


PRIMO PIANO

Ad Obama toccherà tentare di ristabilire un equilibrio multipolare, ma in quale direzione non si sa

planetario non comporti la prosecuzione della politica con altri mezzi. La sostituzione del G8 col G20, infatti, è ancora il problema, piuttosto che la soluzione; così come la soluzione non è la sostituzione di Bush con Obama. Al nuovo Presidente degli Stati Uniti toccherà ovviamente tentare di ristabilire un equilibrio multipolare, ma in quale direzione per ora non si sa. Così come non si sa quale sarà il ruolo dell’Europa dei mercanti dopo il collasso del mercatismo, e se in Europa le medie potenze come la nostra avranno ancora ruolo. Si sa già, invece, che è a rischio l’autonomia monetaria di una trentina di Stati (il Botswana e la Namibia, ma anche la Lettonia e l’Islanda). E si spera che in Europa non ci si debba occupare più dell’idraulico polacco.

Il sistema politico europeo La crisi comunque mette alla frusta il sistema politico europeo. I vertici dei capi di governo che si susseguono ingoiano in un solo boccone ora un patto di stabilità, ora una norma sugli aiuti di Stato. Perfino alla BCE si sono accorti che è successo qualcosa, anche se non sanno bene che cosa, per cui rallentano decisioni tanto ovvie da essere da loro stessi annunciate con mesi di anticipo (bei tempi quelli in cui le misure di poli-

tica monetaria venivano cotte e mangiate fra il venerdì sera e il sabato mattina, a mercati chiusi di qua e di là dell’Atlantico). Gli unici che non si sono ancora accorti di niente, e che seguono gli eventi col loro operoso silenzio, sono i “partiti” europei: il PPE, l’ALDE, ed anche il PSE, attorno all’adesione al quale, in Italia, si sono consumate e probabilmente si consumeranno scissioni delle famiglie politiche indigene. In realtà Gordon Brown, Nicolas Sarkozy e Giulio Tremonti condividono più o meno le stesse strategie, mentre nessuno sa come la pensino il mitico Rassmussen e l’immaginifico Schultz. E se qualcuno pensa che centosessant’anni dopo il Manifesto di nuovo uno spettro si aggiri per l’Europa probabilmente si riferisce proprio al socialismo europeo. La crisi resetta e semplifica, e non tiene in gran conto antichi schemi di battaglia. La destra deve leccare le ferite del capitalismo finanziario allegramente alimentato negli ultimi dieci anni. La sinistra, però, farà bene a non rincorrere idee del passato remoto, e nemmeno di quello più prossimo, magari identificandosi, per malinteso statalismo, coi salvataggi a spese del contribuente, o tornando con la memoria a quel Beneduce che in fondo aveva chiamato Idea Socialista la sua primogenita. Del resto l’astuzia della Provvidenza, che spesso si identifica con la saggezza dell’elettorato, ha già provveduto a risolvere la causa della dialettica fra destra e sinistra quando ha plebiscitato leadership nazionali e bocciato leadership divisive. Le leggi della politica hanno fatto il resto, co-

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La metafora di un film: Mars Attack di Luigi Covatta

stringendo alla coalizione democristiani e socialisti in Germania e rilegittimando il Labour di Brown in Gran Bretagna. La destra e la sinistra risorgeranno, ma solo dopo essersi temprate alla prova del fuoco. Lo spettro evocato da Marx ed Engels, comunque, era quello del proletariato, mentre quello che si aggira oggi per l’Europa è lo spettro del ceto medio: di una classe sociale, cioè, che si è formata anche e soprattutto per impulso della socialdemocrazia, e che il turbocapitalismo sta distruggendo in Occidente dopo che il comunismo lo aveva distrutto in Oriente. In questo senso, e a prescindere dalla cattiva performance della burocrazia socialista europea, il socialismo liberale ha una nuova chance, che dovrà giocarsi contro una destra che, come negli anni ‘30, interpreterà l’insicurezza del ceto medio nel segno dell’egoismo e della xenofobia. La giocherà bene se ricorderà che la crisi del Welfare State precede l’implosione del turbocapitalismo, e che non dipende quindi dalla globalizzazione, ma da sue debolezze intrinseche: innanzitutto dall’inevitabile tendenza alla burocratizzazione, in secondo luogo dall’altrettanto inevitabile degenerazione corporativa. Peter Glotz aveva scritto della “società dei due terzi” dieci anni prima che Reagan e la Thatcher andassero al potere. Ed anche noi, nel nostro piccolo, a Rimini conducemmo analisi appropriate in merito, e suggerimmo rimedi. Se da queste macerie sia possibile costruire un nuovo regime di Welfare (e ridare ossigeno al ceto medio per evitare lacerazioni nel tessuto democratico) dipende quindi dal rilancio del sociali-

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smo liberale. Che i “riformisti” italiani lo sappiano o no è irrilevante, come del resto sempre più irrilevanti sono le posizioni del PD. È rilevante, invece, convincersi che senza un progetto di respiro dalla crisi non si esce indenni.

Un nuovo welfare Alcune condizioni per un nuovo Welfare, peraltro, è proprio la crisi ad offrirle, man mano che da Wall Street si trasferisce in Main Street ed aggredisce l’economia reale. Nella realtà virtuale dell’ultimo decennio, infatti, per il Welfare effettivamente non c’era spazio, e non avevano torto quanti ne individuavano la debolezza nel declino della politica degli Stati nazionali, e comunque del legame fra potere politico e territorio. Mentre ora solo dal territorio, benché devastato dallo tsunami mercatista, si può ricominciare a costruire una nuova struttura produttiva e un nuovo modello di convivenza sociale. Ma il nuovo Welfare deve essere per l’appunto nuovo. Non per reggere alla “sfida della globalizzazione”, dalla quale oggi bisogna piuttosto difendersi, ma per superare i limiti in cui esso si è incarnato nel “secolo socialdemocratico”. Da questo punto di vista è desolante l’atteggiamento del-

Per l’Europa si aggira lo spettro del ceto medio, che si è formato per impulso della socialdemocrazia e che il turbo capitalismo sta distruggendo


PRIMO PIANO

Con la crisi è finita la politica a somma zero, fondata sulla legge del pendolo e le regole elettorali che ne oliano i meccanismi

la sinistra italiana sulle politiche sociali, a cominciare dalla politica scolastica. Protestare contro i tagli invece di cogliere l’occasione per affamare una bestia che merita di essere affamata è segno di arretratezza culturale e di nullismo politico. Del resto la regressione di gran parte del ceto medio alla categoria dei “non capienti” si è verificata, specialmente in Italia, anche per le storture del Welfare realizzato: delle lauree facili a carico della fiscalità generale, del clientelismo con cui si governa il sistema sanitario, dell’iniquità del sistema pensionistico, dei subprime all’italiana che hanno surrogato le politiche per la casa, di una politica fiscale ridotta alla lotta all’evasione, senza l’ambizione di indirizzarla invece ad obiettivi di coesione sociale. Per non parlare della garrula incoscienza con cui la sinistra sta seguendo i pifferai magici del “federalismo fiscale”.

Bipartitismo imperfetto Questa sinistra italiana non regge alla crisi perché non ha né visione né progetto. Figlia legittima dell’antipolitica degli anni ‘90 (benché affollata di politicanti come mai nessun partito della prima Repubblica), fonda la sua identità sull’interpretazione passiva di un ruolo nello scenario del bi-

polarismo e della democrazia dell’alternanza. Ma con la crisi è finita anche la politica a somma zero, quella fondata sulla legge del pendolo e sulle regole elettorali che ne oliano i meccanismi. E comunque nessun pendolo si fermerà mai dalla parte di chi non sa neanche recitare decentemente la parte in commedia. Nella migliore (!) delle ipotesi, il suo destino è quello dell’opposizione perenne, alla maniera del vecchio PCI. Nell’edizione riveduta e peggiorata del “bipartitismo imperfetto” può anche darsi che l’arrocco scelto dalla CGIL offra a questa sinistra una qualche constituency, benché sia difficile immaginare che il sindacato maggiore possa a lungo estraniarsi dal concerto finalizzato alla ricostruzione, come accadde negli anni ‘50 dopo l’affossamento del Piano del lavoro. Per ora, comunque, l’onere della ricostruzione grava tutto sul governo e sulla sua capacità di dialogo con le forze sociali disponibili, benché neanche il governo sembri avere un disegno, visto che il premier predica ottimismo, il ministro dell’Economia officia i riti della Quaresima, ma nessuno intravede la Resurrezione. Lo scontro politico, quando inevitabilmente si verificherà, avrà per oggetto la modernizzazione del paese e la definizione di quel nuovo rapporto fra Stato e società che la seconda Repubblica in quindici anni non ha saputo costruire: fra uno Stato che, come ha osservato sulla Stampa del 24 novembre Luca Ricolfi, è in agonia perché ha privilegiato il software degli stipendi pubblici rispetto all’hardware delle infrastrutture e delle istituzioni; e una società sempre più

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La metafora di un film: Mars Attack di Luigi Covatta

parcellizzata fra particolarismi corporativi e flessibilità selvagge. È uno scontro che sarà vinto da chi saprà approfittare delle ristrettezze di bilancio per proporre riforme incisive innanzitutto nelle politiche sociali. Difficile che ne siano protagonisti quanti ondeggiano fra il referendum sul maestro unico e la reverenza per chi nel suo meditato Mein Kampf paragona Berlusconi ad Hitler. Ma difficile anche che la maggioranza resti compatta su un programma che, se vuole essere all’altezza dei problemi posti dalla recessione, dovrà disboscare la giungla degli ammortizzatori sociali, unificare il mercato del lavoro azzerando la dicotomia fra insiders ed outsiders, incidere radicalmente i bubboni dell’istruzione, dell’università e della ricerca, razionalizzare la governance territoriale, fronteggiare i problemi dell’immigrazione nelle nuove condizioni determinate dalla crisi, per non parlare dei problemi

della giustizia civile e penale e della lotta alla criminalità. È su questo terreno, peraltro, che si formerà il nuovo sistema politico. Ed è su questo terreno che potrebbe battere un colpo una sinistra riformista degna di questo nome, se avesse davvero una “vocazione maggioritaria” e non si accontentasse di rincorrere consensi assemblando proteste, né fosse paralizzata dal timore di esporsi all’accusa di intelligenza col nemico, senza considerare che la madre degli imbecilli che credono che dialogo e inciucio siano sinonimi è sempre incinta, e che quindi non è il caso di preoccuparsi delle sue gravidanze. Altrimenti, non ci resta che sparare a tutto volume la musica country della nonnetta di Mars Attack mentre falchi e colombe soccombono sotto il fuoco dei marziani e una testa senza corpo ci spiega che la crisi del capitalismo finanziario non è né sostanza, né accidente.

Quando si verificherà lo scontro politico, avrà per oggetto la modernizzazione del paese e la definizione del nuovo rapporto fra Stato e società

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Cesare Pinelli

Le istituzioni internazionali nel fuoco della crisi

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a crisi della finanza globale ha imposto un immediato cambiamento dell’agenda politica, e delle rappresentazioni del mercato che avevano dominato nell’ultimo ventennio. Man mano che la crisi americana dei subprime si trasmette al resto del mondo e all’economia reale, anche nei paesi culturalmente più refrattari a misure del genere si susseguono salvataggi o nazionalizzazioni di grandi banche, aiuti alle imprese e alle famiglie, progettazioni di grandi opere pubbliche. Sembrerebbe un déjà vu che sfida tutte le ideologie: quando il mercato non ce la fa, interviene il potere pubblico. Il paragone con gli anni Trenta del secolo scorso parrebbe immediato, visto che anche allora l’economia mondiale veniva da un intenso ciclo di globalizzazione dei mercati, la crisi partì da Wall Street per propagarsi al resto del mondo, e le ricette contro la crisi comportavano ovunque mas-

Le componenti che hanno interagito nel produrre la globalizzazione degli anni ‘90 furono del tutto diverse dal passato, e alcune sono destinate a sopravvivere alla crisi odierna

sicci interventi pubblici. Ma il paragone è troppo impressionistico, non solo perché gli strumenti di allerta e coordinamento intergovernativo e interbancario sono molto più sofisticati, ma soprattutto perché le componenti che hanno interagito reciprocamente nel produrre la globalizzazione degli anni Novanta furono del tutto diverse dal passato, e alcune sono destinate a sopravvivere alla crisi odierna.

Tecnologia e piazze finanziarie Come è noto, fu grazie alla rapida diffusione di nuove tecnologie delle comunicazioni e del trattamento delle informazioni che le piazze finanziarie del mondo cominciarono a collegarsi fra loro e a restare quindi aperte per tutto l’arco delle ventiquattro ore. D’altra parte, però, senza decisioni ed eventi politici di grande portata tale possibilità sarebbe rimasta puramente tecnica. Furono i governi Reagan e Thatcher a renderla effettiva con la liberalizzazione dei prodotti finanziari, fu il crollo del muro di Berlino a immettere i Paesi del dissolto blocco sovietico nel mercato globale, e fu la scelta della Cina di avviare un’inedita combinazione fra capitalismo e totalitarismo ad estendere ulteriormente quel mercato. È sufficiente ricordare queste cose

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Le istituzioni internazionali nel fuoco della crisi di Cesare Pinelli

per comprendere perché il paragone con gli anni Trenta regga solo parzialmente. Se è vero infatti che, oggi come allora, il fallimento dei mercati ha richiesto l’intervento degli stati, lo scenario è profondamente diverso per tutto il resto. La crisi di Wall Street portò al protezionismo su larga scala, con politiche tariffarie e dazi doganali che a loro volta agevolarono l’ascesa del totalitarismo europeo e con esso la guerra mondiale. È estremamente difficile ipotizzare che la crisi del 2008 vedrà il ripetersi di una sequenza del genere, proprio perché le componenti di ordine tecnico e di ordine storico-politico che venti anni fa avevano reso possibile la globalizzazione finanziaria non sono scomparse con la crisi, e a certe condizioni potrebbero anzi concorrere a superarla. Questo è particolarmente il caso dell’Unione europea, i cui Stati membri non avrebbero resistito senza l’euro all’onda d’urto della crisi, ma che si trova ancor più di prima a dover scegliere se diventare uno dei quattro o cinque global players o cadere nell’irrilevanza.

Stati e mercati Se, per le ragioni dette, sarebbe riduttivo guardare solo alla reazione immediata degli stati e delle loro banche centrali di fronte alla crisi, sarebbe del tutto fuorviante desumerne un ritorno a politiche di intervento pubblico stile anni Sessanta: si perderebbero così di vista i problemi derivanti dalla perdurante interdipendenza fra stati e mercati, e soprattutto la natura politica delle relative soluzioni. A un rischio del genere non si sottrae nemmeno il saggio nel quale

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Giulio Tremonti era riuscito a prevedere la crisi, indotta da megabanche liberatesi dall’originario rischio sui prestiti col trasferimento a terzi inconsapevoli del rischio “spazzatura” che potevano così assumere. Invece di spiegare come le istituzioni finanziarie internazionali avrebbero potuto arginare la crisi, perché i loro interventi si sarebbero rivelati insufficienti e quali interventi alternativi sarebbero serviti, Tremonti si limita in un rapido passaggio a notare che i mercati si affidano alle iniezioni di liquidità procurate illimitatamente dalle banche centrali, che sono pubbliche, per dimostrare così il fallimento della pretesa totalizzante dell’ideologia “mercatista”1. L’attacco al “mercatismo” della finanza globale, che occupa il resto del libro, è portato con toni e argomenti che non sfigurerebbero nel pamphlet di un no-global, ed è condito di accuse alla sinistra riformista europea di cedimenti alla ideologia “mercatista”: c’è invece bisogno di “una politica alternativa al mercatismo e per farla serve una ‘filosofia’ politica diversa, una filosofia che ci sposti dal primato dell’economia al primato della politica”, che, aggiunge addirittura, può trovare il suo punto d’appoggio solo sulle “radici giudaico-cristiane dell’Europa”2.

L’Unione Europea si trova a dover scegliere se diventare uno dei quattro o cinque global players o cadere nell’irrilevanza


PRIMO PIANO

Se la stratregia di Lisbona è fallita, lo si deve alle disastrose disfunzioni dei processi decisionali dell’Unione

Ho già ricordato che la globalizzazione della finanza fu il prodotto delle liberalizzazioni di Reagan e Thatcher, oltre che dell’innovazione tecnologica e della caduta del Muro di Berlino, quando lo stesso Tremonti riteneva giustamente “irreversibile” il processo di unificazione del mercato, e proponeva altrettanto giustamente “la piena e seria comprensione di questo processo” in alternativa alla “demonizzazione del mercato”3. Aggiungo che la sinistra si trovò al governo in quasi tutti gli Stati membri dell’Unione europea solo a cavallo del nuovo secolo; che l’Unione varò allora, a Lisbona, una Strategia che senza rinnegare Maastricht puntava sull’innovazione e sulla ricerca come leve di nuova occupazione; che, se la Strategia di Lisbona è fallita, lo si deve alle disastrose disfunzioni dei processi decisionali dell’Unione, di cui tutti gli Stati membri sono i primi responsabili indipendentemente dal colore politico dei governi in carica. Ma la cosa più importante del libro non è tanto il tentativo di rovesciare la contrapposizione destra-sinistra, quanto il modo per arrivarci. Tremonti, che pure è un profondo conoscitore dei meccanismi dei mercati finanziari, si guarda dallo spiegare al lettore come funzionano, e tantomeno dall’indicare dove potrebbero incep-

parsi i congegni di concertazione fra banche centrali preposti a prevenire e contenere l’instabilità e la volatilità dei mercati finanziari. Su questo punto, nel libro c’è un non detto. Se i mercati ricorrono alle banche centrali, e queste non riescono a ridare stabilità al sistema, nulla viene detto su cosa potrebbe succedere. Il libro non prevede né sembra auspicare il ritorno alle chiusure delle frontiere. Ma tace anche dei possibili assestamenti del rapporto fra banche, mercati e pubblici poteri su scala globale. Questo non detto è un artificio che serve a legittimare la nuova politica della paura.

Bisogno di sicurezza Il bisogno di sicurezza di popolazioni spaventate dalla perdita di riferimenti istituzionali e di legami comunitari che la globalizzazione porta con sé è un problema che tutta la classe politica dovrebbe porsi molto seriamente. Cosa diversa è però farne il principio-base della convivenza, il veicolo di un ritorno a “Dio, patria e famiglia”, valori ai quali non tanto il “mercatismo”, quanto la democrazia, la libertà e l’eguaglianza dovrebbero subordinarsi. Allora, il bisogno di sicurezza viene usato per ricorrere alla paura, antichissima arma del potere per guadagnare consenso. L’attacco al riformismo socialista europeo si inscrive così in una più ampia sfida culturale alla tradizione democratica. Non servirebbe insistervi se i suoi primi destinatari, nella specie italiani, non avessero mantenuto un silenzio assordante e probabilmente inconsapevole. Per raccogliere la sfida, occorre però fare i conti con i limiti dell’ap-

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Le istituzioni internazionali nel fuoco della crisi di Cesare Pinelli

proccio del riformismo europeo alla globalizzazione degli anni Novanta. Che non si condensano affatto nel “mercatismo”, ma casomai nell’incapacità o nella non volontà di trovare una strada comune per misurarsi con i problemi di strategia istituzionale che la globalizzazione imponeva di affrontare, e la cui mancata soluzione pesa come un macigno sulla strada della fuoriuscita dalla crisi. Nel 1991 Robert Reich, Ministro del lavoro con Bill Clinton, poteva ancora auspicare che tra “il cosmopolita laissez faire” interessato a massimizzare profitti, e i “nazionalisti a somma zero”, per i quali ogni vantaggio competitivo di un’economia nazionale andrebbe a scapito di un altro Paese, si facesse strada la figura del cittadino legato a un vincolo politico nazionale ma consapevole che, in presenza di “una sfera di capacità e di conoscenze umane in espansione”, la crescita del benessere nazionale non impedisce la crescita altrui: “Mentre la principale responsabilità del singolo è la cura del proprio giardino, ognuno ha la responsabilità secondaria e un genuino interesse per la fioritura di tutti i giardini”4.

Più sovrani degli altri Perchè, a parte le nuove questioni poste dal terrorismo internazionale, ossia dal “lato oscuro della globalizzazione”, l’auspicio non ha avuto seguito né negli Stati Uniti né in Europa? Un cittadino può sentirsi interessato alla fioritura di tutti i giardini se fra di essi regna un minimo di ordine. A questo fine i governi e le organizzazioni sovranazionali e internazionali non solo dovrebbero limitare

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e regolare l’azione dei mercati – il che avviene solo per quanto riguarda i beni e i servizi, non per la finanza – ma dovrebbero anche cooperare fra loro. Invece ciascuna istituzione continua ad andare per la sua strada. Organizzazioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sarebbero le sedi ideali, grazie alle analisi imparziali garantite dai loro uffici, per ridurre le tensioni economiche fra gli Stati, per eliminare i paradisi artificiali dei proventi della corruzione, per affrontare i problemi posti dai cambiamenti climatici. Ma, come è stato notato, si pongono qui due ostacoli. Anzitutto, alcuni dei maggiori Paesi industriali continuano a sentirsi più sovrani degli altri, con la conseguenza che i loro governi non accettano interferenze interne da parte delle organizzazioni internazionali e nello stesso tempo le adoperano per intervenire nelle politiche interne di altri Paesi. I politici e l’opinione pubblica dovrebbero perdere i loro atavici riflessi nazionalistici e accettare l’idea di una gestione collettiva delle conseguenze della globalizzazione. Il secondo ostacolo è costituito dal sospetto dei Paesi meno sviluppati nei confronti delle organizzazioni economiche internazionali, che certamente non viene rimosso dal fatto che i Pae-

I governi e le orgnizzazioni sovranazionali dovrebbero cooperare fra loro. Invece ciascuno continua ad andare per la sua strada


PRIMO PIANO

Nella misura in cui il potere tende a nascondersi, la globalizzazione è una sinecura per i governanti

si più ricchi vi mantengono le loro arcaiche prerogative. Ci sarebbe bisogno di una libera e trasparente selezione dei vertici del Fondo monetario, della Banca mondiale e dell’OMC nell’ambito dell’intera comunità internazionale, piuttosto che dell’attuale spartizione informale di quelle cariche fra europei e americani5. Si può dire dunque che il mancato coordinamento su scala internazionale dipende dalla convenienza delle classi politiche nazionali a non adeguare ai cambiamenti indotti dai mercati globali sia il loro rapporto con l’elettorato sia le strutture decisionali delle organizzazioni internazionali, ancora rette da statuti adottati all’indomani del secondo dopoguerra. A questo bisogna aggiungere l’inerzia che spinge naturalmente qualunque grande organizzazione alla non-riforma. Dopotutto, è per ragioni non molto diverse se l’assetto istituzionale delle Nazioni Unite, altrettanto obsoleto di quello della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, sta resistendo ad ogni innovazione. Questa paralisi generalizzata potrà forse scoraggiare il riformatore volenteroso. Ma c’è un aspetto preliminare di cui di solito si tiene poco conto, e che riguarda direttamente la politica. Di questioni del genere, tanto più perché formalmente etichettate al-

la voce “affari esteri”, un cittadino bene informato sa pochissimo. Potrà leggere magari molto su vantaggi e svantaggi dei mercati globali (e dovrà fare la tara della forte impronta ideologica di molti commenti). Ma solo raramente troverà a portata di mano qualche notizia utile su come funzionano le organizzazioni internazionali e le reti transnazionali che sono chiamate a regolare i mercati, e quali disfunzioni presentano. E meno le voci interessate a sollevare il problema della riforma arrivano all’opinione pubblica, più rischiano di apparire voci di tecnocrati. Eppure, il bisogno di coordinamento delle istituzioni internazionali chiamate a regolare i mercati globali è più una questione di buonsenso che di sofisticate ingegnerie istituzionali: non sarebbe difficile spiegare perché ve ne è bisogno, o quali conseguenze derivano dalla tendenza opposta.

Rovesciare le responsabilità all’esterno Oltre a favorire la non-riforma degli assetti istituzionali, la generale disinformazione agevola i numerosi governi che preferiscono tenere all’oscuro l’opinione pubblica dalla conduzione degli “affari esteri”, in modo da scaricare sulla globalizzazione le loro responsabilità, se non da attivare, nel peggiore dei casi, la politica della paura. Nella misura in cui il potere tende a nascondersi, la globalizzazione è una sinecura per i governanti. Consente di rovesciare all’esterno le responsabilità derivanti dai poteri ancora intestati agli Stati, e di evitare che l’opinione pubblica sia messa a parte delle decisioni che essi prendono in quanto membri delle or-

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Le istituzioni internazionali nel fuoco della crisi di Cesare Pinelli

ganizzazioni internazionali. Esemplare, in questo senso, è il funzionamento dell’Unione europea. È vero che il grado di integrazione raggiunto in Europa è incomparabilmente più elevato di quello delle organizzazioni internazionali; che l’integrazione europea è in qualche misura irreversibile, e riguarda ormai tutti gli aspetti della convivenza; che, se ciò fa aumentare i problemi, costringe anche a cercarne le relative soluzioni. Ciononostante, i rapporti fra gli Stati membri e l’Unione soffrono della stessa malattia che abbiamo appena descritto. Cosa c’è di meglio, per i governi degli Stati membri, di un sistema che consente loro di continuare a prendere le decisioni che contano in seno al Consiglio dei Ministri dell’Unione, scaricandone i costi su un’organizzazione rappresentata come tecnocratica, lontana, rarefatta, e nello stesso tempo caratterizzata da procedure complesse, defatiganti e tutt’altro che trasparenti? E chi ha voluto che le procedure fossero tali, se non i Capi di Stato e di governo riuniti in Conferenza intergovernativa? C’è una oggettiva convenienza, e connivenza, degli Stati membri nel mantenere un’immagine dell’Unione come organizzazione il più possibile distante dai cittadini. Nessuno è interessato a raccontare con parole sem-

plici ai cittadini i vantaggi che già hanno nello stare insieme nell’Unione, tutti esibiscono un assenso solo formale all’integrazione, che è quanto basta per mandarla avanti, salvo a far capire alle rispettive opinioni pubbliche che la vera politica si gioca fra le pareti dello Stato nazionale. Questa voluta schizofrenia è il buco nero del deficit democratico, ben al di là delle modifiche dei trattati, compreso il pur indispensabile rafforzamento del Parlamento europeo. Ma perché, alla lunga, i costi politici di questo scarico di responsabilità non sono distribuiti simmetricamente fra destra e sinistra? Rispondo con le parole di un intenditore: perché “l’impoverimento politico non è certo un problema, per la ‘destra’: domestico o imperiale, nazionalista o imperialista, imploso o esploso, l’egoismo si trova infatti bene dovunque. Ma non è così per la ‘sinistra’. Per cominciare, non ci può essere più una sinistra italiana, una sinistra francese o una sinistra tedesca: ormai, la sinistra o è universale o non è. E, per essere universale, la sinistra non può avere altro che una ragione d’essere, a sua volta universale, ma opposta rispetto alle cause di sgretolamento degli Stati nazionali: deve concentrarsi sulle migrazioni mondiali della povertà, invece che della ricchezza”6.

G.Tremonti, La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla, Mondadori, Milano, 2008, 19. G.Tremonti, La paura e la speranza, cit., 62. 3 G.Tremonti, Il futuro del fisco, in F.Galgano, S.Cassese, G.Tremonti e T.Treu, Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, il Mulino, Bologna, 1993, 61. 4 R.Reich, L'economia delle nazioni. Come prepararsi al capitalismo del Duemila (1991), Milano, 1995 rist., 380. 5 R.G.Rajan, The Future of the IMF and the World Bank, in American Economic Review, 2008, 114. 6 G.Tremonti, Il futuro del fisco, cit., 72-73. 1

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intervista a Vanni Codeluppi a cura di Robert Castrucci

Come cambieranno i consumi Di fronte alla crisi di livello internazionale, di cui già si ravvisano le ricadute negative sul piano dei consumi nel nostro Paese, abbiamo rivolto alcune domande al prof. Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi che insegna presso l’Università IULM di Milano e l’Università di Modena e Reggio Emilia. Le sue ricerche riguardano i fenomeni comunicativi presenti nel mondo dei consumi e nella cultura di massa. Tra i volumi più recenti pubblicati, segnaliamo: La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società (Bollati Boringhieri, 2007), Dalla corte alla strada. Natura ed evoluzione sociale della moda (Carocci, 2007) e Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni (Bollati Boringhieri, 2008). Traduzioni dei suoi saggi sono uscite in Francia, Spagna, Inghilterra e Giappone. Con riferimento al filo rosso che lega

Il consumo è il più importante strumento di comunicazione del ruolo sociale dell’individuo. Rinunciarvi significa ammettere una sconfitta personale

le sue ricerche più recenti gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande. Pol.is: La crisi economica internazionale sta già producendo un ristagno nei consumi e, per il futuro, da più parti si prevede un periodo di recessione. In Italia, inoltre, l’Istat ha recentemente rilevato come gli Italiani siano in maggioranza insoddisfatti della propria condizione di reddito. Tutti questi indicatori suggeriscono come la fiducia dei consumatori italiani sia in calo, non solo per le condizioni di reddito soggettive, ma anche per il quadro economico generale. Tenuto conto di queste considerazioni, in che modo lei ritiene che si modificheranno le abitudini di consumo? Il paniere dei beni delle famiglie italiane varierà? E in che modo? Esistono a suo avviso dinamiche divergenti a seconda dei diversi livelli di reddito? Vanni Codeluppi: La fase di tipo recessivo che l’economia internazionale sta attraversando produrrà indubbiamente degli effetti anche sui modelli di consumo degli italiani. Come sempre in periodi di crisi, il baricentro degli acquisti si sposterà progressivamente verso i consumi essenzia-

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Come cambieranno i consumi a cura di Robert Castrucci

li. Ciò non comporterà tuttavia che i modelli di consumo precedenti dovranno necessariamente scomparire. Essi continueranno infatti ad esercitare il loro ruolo, anche se il consumatore, avendo meno risorse economiche a disposizione, cercherà di acquistare sostanzialmente gli stessi prodotti che acquistava in precedenza, ma accontentandosi di prodotti non di marca, imitazioni e usato. Anche in altre fasi recessive, a cominciare dalla crisi del ‘29, si è verificato lo stesso fenomeno. La ragione di tutto ciò è di tipo psicologico: poiché il consumo è il più importante strumento di comunicazione del ruolo sociale dell’individuo, rinunciare al livello di consumo e di benessere raggiunto significa ammettere, a se stessi e agli altri, una sconfitta personale. Pol.is: In molti suoi scritti lei sostiene che attraverso i consumi le persone contribuiscono a costruirsi un’identità, in base a propri valori e stili di vita. In quest’ottica, risulta centrale il ruolo della “marca” come veicolo di tali valori e base per un modo di essere e di rappresentarsi da parte del consumatore. In altre parole, in questi anni si è enormemente sviluppata una propensione al consumismo culturale. Siamo di fronte a una crisi del modello della società dei consumi? Codeluppi: Credo che le società occidentali stiamo sempre più muovendosi verso quello che io definisco “biocapitalismo”, cioè il capitalismo che non si accontenta di utilizzare i corpi degli esseri umani come semplici strumenti di lavoro, ma cerca di

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estrarre valore economico da tutte le componenti biologiche e da tutte le dimensioni mentali, relazionali e affettive degli individui. Anche il capitalismo classico in qualche modo si impossessava dei corpi, ma una volta le macchine della fabbrica facevano lavorare soltanto le gambe e le braccia. Oggi invece il computer ha messo all’opera anche il cervello. Le persone sono sempre più costrette ad utilizzare nel lavoro tutte le loro capacità mentali. Non sono però soltanto i dipendenti a dover far lavorare tutto il loro corpo e tutto il loro cervello. Sono anche i consumatori. O meglio gli stessi dipendenti, i quali una volta tornati a casa dall’ufficio possono continuare a lavorare per la loro azienda, ma anche cominciare a lavorare per altre, nella nuova veste di consumatori. Così, al supermercato, impacchettano e pesano la frutta o leggono con lettori ottici portatili i codici a barre prima di mettere i prodotti nel carrello, oppure prenotano su Internet un volo aereo. E grazie a Internet crescono le imprese in grado di creare relazioni coinvolgenti con i consumatori, spesso addirittura prima ancora che i prodotti arrivino sul mercato. Cioè quando vengono progettati o testati. Oppure nella fase di ideazione delle nuo-

Con il “biocapitalismo” le persone sono sempre più costrette ad utilizzare nel lavoro tutte le loro capacità mentali


PRIMO PIANO

Nei paesi occidentali un’ideologia liberista priva di freni ha arricchito le élites sociali e impoverito drasticamente la fascia bassa della popolazione ve forme di comunicazione o in quella della promozione mediante il passaparola. Pol.is: Ritiene, in particolare, che la “costruzione sociale” dell’identità, fondata sul consumo, potrebbe subire dei cambiamenti a seguito delle dinamiche di riduzione dei consumi in atto? Codeluppi: Credo che quella che è in atto sia soltanto una classica crisi ciclica del capitalismo, destinata a rallentare semplicemente un processo che è in corso da decenni e che ci sta sempre più portando verso il “biocapitalismo”. Pol.is: Con riferimento alle diverse possibilità di consumo accessibili secondo i diversi livelli di reddito dei consumatori, non c’è il rischio che per le fasce di popolazione più colpite dalla crisi in atto sia negato l’accesso a tale “costruzione sociale” dell’identità? In altre parole, il prevedibile allargamento della forbice tra i detentori di medi, alti redditi e le fasce che risultano maggiormente impoverite dalla crisi in atto, come può influenzare la “definizione di sé” e la costruzione sociale dell’identità? Codeluppi: È chiaro che il discorso che ho fatto sinora riguarda princi-

palmente le fasce medie e alte della popolazione. C’è anche una fascia bassa per la quale il consumo rappresenta sostanzialmente uno strumento per la sopravvivenza. Tale fascia non può porsi pertanto il problema della costruzione dell’identità sociale attraverso il consumo. E va considerato anche che nei principali paesi occidentali l’imporsi negli ultimi anni di una ideologia neoliberista priva di freni ha arricchito le élites sociali e impoverito drasticamente questa fascia bassa. Pol.is: Secondo alcuni autori (Lash e Lury, Global Culture Industry: The Mediation of Things) che fanno riferimento al filone dei cultural studies, gli odierni consumi sono caratterizzati per gli elementi immateriali che permettono al consumatore di differenziarsi, più che per le caratteristiche intrinseche degli oggetti. In tale ottica la marca, il brand, grazie alla propria capacità di differenziare i consumi, diverrebbe centrale nello stesso processo di valorizzazione delle merci. Questa tendenza spiegherebbe anche l’aumento del peso nell’economia postindustriale delle professioni creative e del “lavoro immateriale”, determinando peraltro uno sviluppo delle economie a capitalismo avanzato verso l’economia della conoscenza. Codeluppi: Non so dire se esiste un legame diretto tra il ruolo sociale fondamentale che le marche hanno assunto negli ultimi anni e lo sviluppo del lavoro immateriale. Sono piuttosto portato a pensare che le marche non sono oggi che uno strumento fondamentale dell’attuale condizione “biocapitalistica” del sistema econo-

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Come cambieranno i consumi a cura di Robert Castrucci

mico. È questa condizione che ha portato ad una trasformazione radicale dei contenuti del lavoro. Come ha sostenuto André Gorz, il lavoro si sta trasformando soprattutto nella “gestione di un flusso continuo di informazioni”. Ciò non significa che il lavoro manuale faticoso e alienante sia scomparso. Si è soltanto trasferito in realtà produttive situate in altri angoli del pianeta oppure in altri settori economici, come la ristorazione veloce o la grande distribuzione. E al lavoratore manuale del passato, il quale non possedeva i suoi mezzi di produzione, si sostituisce sempre più frequentemente un lavoratore che è invece proprietario del suo principale strumento di lavoro: la conoscenza. Ciò è il risultato dello sviluppo di una nuova forma di economia, nella quale le componenti immateriali dell’essere umano, come i processi mentali, le immaginazioni e le visioni del mondo, diventano sempre più importanti come strumenti di produzione. Vale a dire che la fonte del valore economico è ancora rappresentata dal lavoro svolto dagli individui, ma la delocalizzazione produttiva in aree geografiche dove il costo del lavoro è minimo e la crescita della potenza delle tecnologie produttive fanno sì che il lavoro in Occidente possa sempre più focalizzarsi sulle attività di ideazione, progettazione, promozione e commercializzazione dei prodotti. Cioè sulle attività di marketing e comunicazione e sul loro orientamento verso la ricerca di una relazione con i consumatori. Dunque, oggi la fonte del valore economico per le aziende non risiede più nel lavoro consacrato a produrre il bene, ma in quello passa-

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to a concepire quest’ultimo. Ciò comporta che nel lavoro assumano un peso importante le esperienze e le conoscenze maturate dagli individui al di fuori degli ambienti di lavoro e che le tradizionali frontiere tra lavoro e tempo libero si sgretolino progressivamente. Si può dire, insomma, che la produzione tende ad uscire dalla fabbrica ed è la società nel suo complesso a divenire la vera sorgente del progresso tecnico, mentre i meccanismi capitalistici di produzione del valore si estendono a tutto il tempo e lo spazio sociali. Pol.is: Rimanendo nel paradigma dei cultural studies, è nota la centralità che sullo sviluppo economico ha il cosiddetto “lavoro emozionale del consumatore”, cioè il rapporto che si stabilisce tra il consumatore stesso e l’oggetto del suo consumo, assumendone valori e stili di vita. Nel caso in cui, a causa della crisi in atto, si determini una diminuzione del “lavoro emozionale del consumatore” nei processi di acquisto, potrebbero risultarne penalizzati quei settori economici che più si sono avvantaggiati della cultura del consumo? Codeluppi: In effetti, da qualche anno l’obiettivo del marketing aziendale sta

Assumono un peso importante le esperienze e le conoscenze maturate dagli individui al di fuori degli ambienti di lavoro


PRIMO PIANO

Il marketing aziendale cerca di far sperimentare all’individuo delle sensazioni fisiche ed emotive gratificanti durante la sua relazione con il prodotto e la marca diventando quello di cercare di fare sperimentare all’individuo delle sensazioni fisiche ed emotive gratificanti durante la sua relazione con il prodotto e la marca. Ad esempio, attraverso i punti vendita, dove i sensi del consumatore sono sempre più coinvolti da luci, suoni, immagini e materiali. Oppure attraverso i messaggi pubblicitari, i quali parlano alla ragione, ma parlano sempre più frequentemente anche ai sensi e alle emozioni. In tal modo, si produce per l’individuo un’esperienza, la quale ha il vantaggio di essere vissuta come qualcosa di personale e di essere memoriz-

zata per lungo tempo. La produzione e l’offerta all’individuo di esperienze sensoriali tende a configurare la nascita di un modello produttivo basato sull’esperienza. Si tratta di una nuova forma di produzione di valore economico che succede alle tre precedenti, imperniate rispettivamente sulle materie prime, sui prodotti e sui servizi. Non è un caso infatti che tenda a manifestarsi una riduzione dell’importanza dei prodotti, i quali stanno sempre più diventando dei semplici sostegni, degli strumenti per la messa in scena dell’esperienza, offerti spesso gratuitamente per convincere a comprare la merce vera, e cioè quella “esperienziale”. La mia opinione, ancora una volta, è che questi fenomeni sono talmente radicati nei processi di sviluppo economico e sociale attivi da qualche anno che non possono che rallentare la loro corsa, in conseguenza della crisi economica attuale, per poi riprenderla con forza.

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Alberto Zuliani

Università: spunti per un confronto Premessa 1. Quelle che seguono sono riflessioni sull’università da parte di un interno, dal 1959 come studente, assistente dal 1964, quindi dal 1975 professore di prima fascia, a Padova poi a Roma Sapienza. Non si tratta di un’analisi organica, ma di approfondimenti circoscritti, valutazioni, spunti per un confronto e per possibili interventi*.

Alcune tappe significative 2. Alcune date, situazioni, episodi hanno segnato l’evoluzione recente dell’università e ce la consegnano oggi con i suoi problemi, le sue distorsioni, ed anche con le potenzialità che offre per lo sviluppo del paese. Non intendo scrivere la storia dell’università italiana. Però, ripercorrere alcune tappe significative serve per capire che cosa non abbia funzionato, quali norme e comportamenti abbiano provocato danni, quali abbiano prodotto risultati positivi, in modo da trarne spunti per prossime iniziative. 3. A partire dagli anni Sessanta si è registrato un incremento elevato delle iscrizioni alla scuola secondaria superiore, per motivi demografici – la leva era in aumento costante ed aveva superato il milione di nascite proprio all’inizio di quella decade – ed anche perché era aumentata la propensione

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a proseguire gli studi dopo l’obbligo, in relazione all’unificazione della media e alle migliorate condizioni economiche del paese. Per corrispondere alla domanda, il personale docente venne reclutato con procedure non concorsuali e spesso poco rigorose, alimentando il fenomeno che sostanzialmente da allora viene definito “precariato”. Seguirono le immissioni in ruolo. Lo stato della scuola secondaria è sotto gli occhi di tutti. Era evidente che un fenomeno dello stesso tipo si sarebbe prodotto per l’università, sfasato di qualche lustro, ma non si è avuto la capacità di fronteggiarlo correttamente. Anche per l’università sono arrivate le “ope legis” che hanno determinato uno sbarramento per il reclutamento dei giovani e, in qualche misura, per gli avanzamenti in carriera. La piramide dell’età per il personale docente ancora ne risente. Ovviamente, parte degli immessi in ruolo aveva capacità vere, ma

Negli anni ‘60 si incrementarono le iscrizioni alla scuola. Il personale docente venne reclutato con procedure concorsuali poco rigorose, alimentando il fenomeno del “precariato”


SPECIALE FOCUS Scuola, Università, Ricerca

Ruberti si adoperò per aumentare le risorse per università e ricerca. Berlinguer introdusse la laurea triennale e la revisione dei meccanismi concorsuali venne sancita una forte disomogeneità delle prestazioni e si determinò un abbassamento del livello medio di qualità, così com’era avvenuto in precedenza per la scuola secondaria superiore. Quando non c’è selezione, o quando diviene soltanto formale, in generale non si fa un buon reclutamento. Effetti a catena, com’era prevedibile, si sono prodotti sia sulla ricerca, sia sulla formazione, sia sul reclutamento successivo. 4. Un punto di svolta è segnato dal ministro Ruberti. Si adoperò perché le risorse per l’università e la ricerca aumentassero, consapevole che negli altri paesi europei si investiva molto di più. Ritenne che la programmazione universitaria avrebbe potuto definire le scelte di fondo e che l’autonomia avrebbe garantito comportamenti virtuosi. Ci credemmo, ma non è stato così. Per fare soltanto qualche esempio, i comitati regionali per la programmazione universitaria non sono riusciti a svolgere il compito loro assegnato e quindi a definire un quadro coerente di offerta formativa sul territorio; l’autonomia è stata esercitata opportunisticamente, fuori di un quadro di regole generali, mai dettato organicamente, e inoltre senza che ad essa corrispondesse la responsabilità per le decisioni assunte e le azioni svolte. Ruberti introdusse anche i diplomi uni-

versitari, una prima risposta al problema delle lauree brevi, presenti e spesso prevalenti negli altri paesi europei. Molti di essi, tuttavia, avevano seguito una strada diversa, avviando i cicli brevi insieme alla cooptazione nell’istruzione superiore dei migliori istituti secondari tecnici, i quali hanno assunto denominazioni diverse: Iut in Francia, Fachochschulen in Germania, Sup in Svizzera. In effetti, ovunque, salvo eccezioni, l’università non aveva la cultura della formazione professionale ed era velleitario voler ricondurre in essa tutto il post-secondario. 5. Una successiva tappa importante è quella del ministro Berlinguer, segnata da due principali innovazioni: l’introduzione organica della laurea triennale e la revisione dei meccanismi concorsuali. Ho già scritto sul primo argomento e rinvio senz’altro a quel approfondimento (Zuliani, 2003). La riforma era necessaria in relazione all’omogeneizzazione in ambito europeo dei percorsi formativi universitari. Si calava però in un contesto che aveva operato fino ad allora in modo diverso e che quindi non era capace, in generale, di corrispondere alle esigenze prospettate. Gli atteggiamenti prevalenti nelle università sono stati di due tipi: di ostilità (e talvolta di irrisione); di difesa delle posizioni personali acquisite e dei contenuti disciplinari sottesi ai curricula esistenti; il secondo è il motivo principale dell’aumento sia dei corsi di laurea – la cui entità va tuttavia ridimensionata rispetto all’opinione comune – sia degli insegnamenti. In relativamente pochi casi si è proceduto ad una revisione degli ordinamenti coerente con gli obiettivi che la riforma si prefiggeva.

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Università: spunti per un confronto di Alberto Zuliani

Riguardo al secondo intervento, la disciplina introdotta per i concorsi ha determinato un forte provincialismo degli esiti, ha inibito sostanzialmente la mobilità dei docenti sul territorio, ha abbassato in generale il livello di qualità, attraverso il meccanismo della tripla idoneità. Ogni concorso poteva generare fino a tre idonei (raramente ne è scaturito un numero inferiore), uno dei quali era quasi sempre il candidato “previsto” dalla sede che aveva bandito il concorso – in diversi casi a prescindere dalle sue reali capacità – e per gli altri risultava agevole trovare una convergenza. Successivamente, le idoneità sono state ridotte a due. Una delle motivazioni della scelta adottata allora risiedeva nella mancata regolarità temporale delle tornate concorsuali precedenti le quali si erano svolte a distanza anche di cinque anni l’una dall’altra; si era ritenuto, dunque, che si potesse snellire la procedura di reclutamento. La previsione della presenza di un “commissario interno” designato dalla sede che aveva bandito il concorso era orientata a tenere conto nella procedura concorsuale delle esigenze espresse appunto dalla sede. Si pensava che sarebbero riusciti i migliori e che le università avrebbero chiamato sulla base dei risultati. Non è avvenuto così. Il meccanismo delle “unità di conto”, introdotto successivamente per correlare il reclutamento alle risorse disponibili, ha favorito l’up-grading interno, per il passaggio alla prima e alla seconda fascia, rispetto al reclutamento dall’esterno e a quello di ricercatori; la pressione locale ha accentuato questa distorsione e l’università si è ingessata. I dati di Durante e Laberti-

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no (2008) citati da Perotti (2008) sono in proposito illuminanti: nell’università di Palermo il 66,8% dei docenti è nato nella provincia e il 57,4% nello stesso comune; nell’università di Catania, le due percentuali sono 66,5% e rispettivamente 52,2%; nell’università di Messina, 63,9% e 50,3%. Però, anche a Torino le due percentuali sono elevate: 56% e 46,5%. 6. Il ministro Zecchino ha tentato di riattivare il meccanismo della mobilità attraverso incentivi. Spesso non si è trattato di mobilità genuina ed è stato favorito il rientro di coloro che erano stati “costretti” ad assumere servizio in sedi diverse da quelle nelle quali si erano formati e avevano operato in precedenza. 7. Con il decreto ministeriale n. 270/2004 il ministro Moratti ha ritenuto di porre rimedio a quelle che sono sembrate (il tempo trascorso dall’inizio dell’esperienza è stato troppo poco; è questo, in generale, uno dei difetti principali della normazione italiana che corregge prima di aver valutato gli effetti delle iniziative precedenti) le deviazioni più evidenti, determinate dalle scelte di attuazione del decreto n. 509/1999. C’è stato qualche miglioramento. Però, quel governo ed anche il successivo hanno mantenuto le due idoneità per i

Si deve alla Moratti l’iniziativa per “il rientro dei cervelli”, di portata limitata ma positiva


SPECIALE FOCUS Scuola, Università, Ricerca

Fra il 2000 e il 2005 la spesa totale per il sistema universitario è rimasta pressoché invariata

concorsi, una modalità fortemente criticata dalle forze migliori dell’università ed invece richiesta da quanti intendono mantenere inalterati i comportamenti di sempre (tuttavia, non sarebbe obbligatorio che le commissioni facessero due idonei). Si deve allo stesso ministro l’iniziativa per il “rientro dei cervelli”, di portata limitata ma senz’altro positiva. 8. Il 5 aprile 2007, il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante il regolamento concernente la struttura e il funzionamento dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Qualche mese prima, in occasione della discussione della legge finanziaria, il Senato aveva votato un ordine del giorno (fra i firmatari Rita Levi Montalcini) che esortava ad orientare fondi di ricerca verso gli under 40. 9. Da ultimo, il Governo ha emanato due normative riguardanti l’università. La prima è contenuta nella legge n. 133 del 6 agosto 2008, la seconda nel decreto legge n. 180 del 10 novembre 2008. La legge n. 133 ha, per la verità, portata più generale e già dal titolo si caratterizza come legge di finanza pubblica. Gi articoli che riguardano l’università sembrano dettati più dalla condivisione acritica di luoghi comuni che dalla consapevolezza dei

reali problemi da fronteggiare: si coniugano velleitarismo ed incompetenza. Riguardo al suo contenuto è montata giustamente la protesta degli studenti e del personale universitario, per cui è stato emanato il decreto legge n. 180, una normativa in generale di buon senso, con qualche ingenuità e qualche pericolo. Ad esempio, viene ritenuta salvifica la presenza esclusiva dei professori di prima fascia per tutti i livelli concorsuali; viene di nuovo reso conveniente, così sembra, l’up-grading interno; non si innova sulla doppia idoneità, probabilmente per il timore di ricorsi. Anche gli emendamenti finora introdotti in sede di conversione in legge del decreto risultano andare nella direzione giusta.

I dati 10. Quali problemi maggiori ci vengono consegnati dal susseguirsi di norme, interventi, riorientamenti, aggiustamenti che ho descritto finora? Nella tabella 1 sono descritti gli andamenti di alcuni principali aggregati riguardanti l’università. L’intenzione è quella di offrire elementi conoscitivi per riflettere. Ne trarrò anch’io qualche considerazione. In generale, confronterò la situazione del 2007 con quella del 2000. Per i dati di spesa l’informazione risulta disponibile fino al 2005. 11. Fra il 2000 e il 2005, dunque, secondo i dati elaborati per l’Ocse dal Ministero dell’università e della ricerca, nelle diverse denominazioni adottate nel corso del tempo, la spesa totale per il sistema universitario, valutata in moneta costante, è aumentata del 2%. La spesa di fonte pubblica è cresciuta dell’1,1% e quella proveniente

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65


Università: spunti per un confronto di Alberto Zuliani

dalle famiglie – e in misura molto minore da altri soggetti – ha segnato un incremento del 3,8%. Nello stesso periodo, il fondo di finanziamento ordinario alle università, sempre in moneta costante, è cresciuto del 7,4% e fino al 2007 dell’11,4%. La spesa per il personale delle università pubbliche è aumentata del 24,1% fra il 2000 e il 2005 e fino al 2006 del 28,3%. 12. Gli studenti iscritti sono risultati in crescita dell’8% fra il 2000 e il 2005; successivamente, nel 2006 e 2007, hanno registrato una limitata contrazione. Tuttavia, è utile riferirsi agli studenti equivalenti in regola con gli studi, cioè al numero teorico di essi che sarebbe necessario per determinare il numero di esami superati (ora di crediti formativi universitari conseguiti) in un certo anno, se tutti fossero in regola con gli studi. Questo dato è disponibile con continuità soltanto dal 2004. Il rapporto fra studenti equivalenti e totale degli studenti iscritti risulta di poco inferiore al 50% e non presenta un particolare andamento nei quattro anni considerati. 13. Più difficile è l’interpretazione del flusso annuale di laureati. Infatti, l’aggregato complessivo è alquanto disomogeneo al suo interno, essendo formato da laureati e diplomati dell’ordinamento didattico precedente al 2000, da laureati triennali, magistrali e a ciclo unico del nuovo ordinamento. Per poter valutare la dinamica temporale può essere utile calcolare il numero dei “laureati equivalenti a triennali”. Ho quindi determinato il monte anni di studio legali necessario per ottenere i diversi titoli (2 anni per i diplomi; 4,1 anni per le lauree del pre-

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pol.is - dicembre 2008

cedente ordinamento didattico, tenuto conto che alcune – ingegneria, architettura e medicina e chirurgia – avevano una durata maggiore di quattro anni; 3 anni per le lauree triennali; 2 anni per quelle magistrali e 5 per le magistrali a ciclo unico) e l’ho rapportato a 3. La serie ottenuta da conto di un forte incremento del numero di laureati nel corso del tempo. Essi, in termini equivalenti, sono passati 208.380 nel 2000 al massimo di 354.918 nel 2005 (+70,3%). Sono quindi diminuiti nei due anni successivi e nel 2007 ammontavano a 314.297, riducendo l’aumento di periodo a 50,8%. In effetti, si stanno estinguendo i laureati dell’ordinamento didattico precedente al 2000: sono risultati 63.863 nel 2007. L’introduzione del nuovo ordinamento ha in qualche misura accelerato i loro tempi di laurea e il numero è cresciuto considerevolmente in tutto il periodo fra il 2000 e il 2004. A partire dal 2002 comincia il flusso dei laureati triennali, passati da 22.304 in quel anno a 173.668 nel 2007, alimentati, almeno nei primi anni, anche dai transiti dal precedente al nuovo ordinamento. Oggi, il flusso può essere considerato a regime e, se lo rapportiamo agli immatricolati di quattro-cinque anni prima, possia-

Dal 2002 comincia il flusso dei laureati triennali: da 22.304 passano a 173.668 nel 2007


SPECIALE FOCUS Scuola, Università, Ricerca

Fra il 2000 e il 2005 il personale docente di ruolo cresce del 16% nel 2007 aumenta ulteriormente; l’incremento nell’intero periodo è del 19,3% mo avere un’idea dell’efficienza del nuovo sistema; poiché gli immatricolati ai corsi triennali del 2003 e 2004 sono stati in media 310.000, se ne trae un tasso di laurea del 56%. L’analogo tasso per i laureati del precedente ordinamento didattico nell’anno 2005 rispetto agli immatricolati del 1999 risulta pari a circa 50%. Al momento, quindi, si registra un miglioramento, sia pure limitato. 14. Il personale docente di ruolo è cresciuto fra il 2000 e il 2005 di 8.298 unità (+16%). Successivamente, fino al 2007 è aumentato di ulteriori 1678 elementi, cosicché l’incremento nell’intero periodo è risultato del 19,3%. La crescita è risultata differenziata per le tre fasce di docenza: i professori ordinari sono passati fra il 2000 e il 2007 da 15.026 a 19.625 (+30,6%); gli associati da 17.259 a 18.733 (+8,5%); i ricercatori da 19.668 a 23.571 (+19,8%). L’imprevedibilità temporale delle tornate concorsuali è registrata nell’andamento delle tre serie. 15. Il personale tecnico-amministrativo nel complesso delle università, statali e non statali, è leggermente diminuito, da 60.853 unità nel 2000 a 58.767 nel 2007 (-3,4%), toccando il minimo di 56.344 unità nel 2004. 16. Nella tabella 2 sono calcolati alcuni indicatori che mi sono sembrati utili. La spesa pubblica e quella tota-

le per il sistema universitario in rapporto al pil sono rimaste abbastanza stabili nel periodo 2000-2005. La prima è passata gradualmente da 0,80% a 0,75%, la seconda, con oscillazioni, da 1,23% a 1,16%. È diminuita la quota della spesa pubblica per l’università rispetto alla spesa pubblica complessiva, passata da 1,74% a 1,53%. La spesa totale media annua per studente equivalente si attesta su circa 20.000 euro nel 2005; quella pubblica intorno a 13.000 euro. Il numero medio di studenti equivalenti per docente di ruolo è diminuito progressivamente fra il 2004 e il 2007, passando da 15,4 a 13,6. Il numero medio di laureati equivalenti a triennali per docente di ruolo ha raggiunto il suo massimo, pari a 5,9, nel 2005 ed è quindi diminuito a 5,1 nel 2007. Il prodotto per unità docente, che si tratti dei crediti formativi universitari erogati, espressi attraverso gli studenti equivalenti, o dei laureati equivalenti, sta dunque diminuendo. 17. Non ho prodotto volutamente una tavola di indicatori comparativi internazionali, sebbene ne citerò qualcuno in seguito. In effetti, i sistemi istituzionali possono essere anche molto differenti e i procedimenti di omogeneizzazione utilizzati raggiungono il loro scopo soltanto parzialmente. A questo aspetto di metodo, si aggiunge la considerazione che i problemi emergono con chiarezza anche attraverso l’analisi temporale dei dati nazionali. Tuttavia, una valutazione critica dei dati comparativi prodotti dalle agenzie sopranazionali ed internazionali sarebbe estremamente utile.

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(a) Dati elaborati per l'Ocse.

pol.is - dicembre 2008

8012

3921

1689

308

810

108,5

307

446

108,1

1

Numeri indice (base 2000 = 100)

Personale tecnico amministrativo

Numeri indice (base 2000 = 100)

Ricercatori

Numeri indice (base 2000 = 100)

Professori di seconda fascia

100

60853

100

19668

100

17259

100

15026

Numeri indice (base 2000 = 100)

Professori di prima fascia

100 51953

Personale docente di ruolo

Numeri indice (base 2000 = 100)

5825 2971

99

53741 817

22304

4247

7299

10454

7855

29620

9423

51040

11114

92304 138307 161445 173668

95,5

58085

102,1

20090

93,6

56938

94,5

57487

103,9

20426

20900 106,3

104,8

18096 107,2

18502 103,6

17875

119,5

17958 120,7

18131

131,7 56480

122,3 57533

112,4

16891

54856

108,7

92,6

56344

107,9

21229

104,9

18102

120,3

18071

57402

144,3

93,7

57044

111,9

22010

109,9

18966

128,3

19275

60251

153,7

96,1

58495

117,2

23046

110,6

19083

132,1

19845

61974

143,8

96,6

58767

119,8

23571

108,5

18733

130,6

19625

61929

135,3

232423 252655 284142 306023 335375 357226 334210 314404

-

Laureati equivalenti a triennali

Laureati magistrali

6

Laureati magistrali a ciclo unico

1267

-

Laureati triennali

64309

161484 174112 182015 172135 164971 144682 100078

17484

324 114,1

845

1806

111,4

7154

2007

Laureati quadriennali (ordinamento pre 2000)

20136

116,9

832

1809

108,9

6993

2006

161484 175386 205235 234672 268821 301298 300566 300131

17592

337 118,7

844

1824

107,4

6894

102,0

16695

103,8

5895

101,1

10800

2005

Laureati

Diplomati

331 116,5

332

319 112,3

284 100,00

1820

Numeri indice (base 2000 = 100)

1814

1768

102,2

6562

102,4

16756

104,2

5921

101,4

10835

2004

Iscritti al primo anno (migliaia di unità)

1722

1689

101,3

6502

97,8

15997

93,9

5333

102,8

6599

94,0

15375

79,7

4528

99,8

10664

2003

884

101,9

6544

97,8

15997

96,0

5454

100

6420

100

16363

100

5681

101,5

10846

2002

Studenti equivalenti in regola con gli studi (migliaia di unità)

Studenti (migliaia di unità)

Numeri indice (base 2000 = 100)

Fondo di finanziamento ordinario (milioni di euro 2005)

Numeri indice (base 2000 = 100)

Spesa totale per il sistema universitario (milioni di euro 2005) (a)

Numeri indice (base 2000 = 100)

Spesa privata per il sistema universitario (milioni di euro 2005) (a)

98,7

10544

100

10682

Spesa pubblica per il sistema universitario (milioni di euro 2005) (a)

Numeri indice (base 2000 = 100)

2001

2000

Aggregati

Università: spunti per un confronto

di Alberto Zuliani

Tabella 1. Alcuni principali aggregati relativi all'università italiana (2000-2007)


4,6 105,9

4,9 99,0

5,4 101,8

98,2

5,8

4,5 117,1

Laureati equivalenti per docente di ruolo

Personale tecnico-amministrativo/personale docente di ruolo (%)

15,4

50,0 48,6

52,3

Studenti equivalenti per docente di ruolo

54,1

Studenti equivalenti/studenti iscritti (%)

63,3

70,4

34,8

Spesa totale per l'università per laureato equivalente (migliaia di euro 2005)

38,2

32,3

41,7

60,6

46,0

61,2

Spesa pubblica per l'università per laureato equivalente (migliaia di euro 2005)

60,8

64,7

1,60

19,0

62,1

66,7

1,59

70,6

1,66

0,77

2004

Spesa totale per l'università per studente equivalente (migliaia di euro 2005)

Fondo finanziamento ordinario/spesa pubblica per l'università (%)

65,9

1,61

0,72

2003

0,79

2002

12,3

60,1

Spesa pubblica per l'università/spesa totale per l'università (%)

0,78

2001

Spesa pubblica per l'università per studente equivalente (migliaia di euro 2005)

1,74 65,3

Spesa pubblica per l'università/spesa pubblica totale (%)

0,80

2000

Spesa totale per l'università/pil (%)

Indicatori

96,7

5,9

14,0

46,3

46,7

30,2

19,8

12,8

63,8

64,7

1,53

0,75

2005

94,4

5,4

13,4

46,0

2006

94,9

5,1

13,6

46,8

2007

SPECIALE FOCUS Scuola, Università, Ricerca

Tabella 2. Indicatori essenziali per l'università italiana (2000-2007)

pol.is - dicembre 2008

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Università: spunti per un confronto di Alberto Zuliani

I problemi maggiori 18. Veniamo ai problemi che ci troviamo a fronteggiare. Spesso la dialettica politica li esacerba; in altri casi li banalizza. Né l’uno né l’altro atteggiamento aiutano a trovare le soluzioni. Cercherò di fare un poco di chiarezza, nella misura in cui i dati aiutino. 19. La prima questione che si pone è relativa al finanziamento dell’università. Occorre dire subito che il rapporto fra spesa per ricerca e sviluppo e pil ci vede agli ultimi posti nella graduatoria dei paesi europei, con 1,1% nel 2005. Complessivamente, il paese destina all’università lo 0,75% del pil, una percentuale abbastanza stabile fra il 2000 e il 2005, ultimo anno per il quale il dato è disponibile. 20. La spesa media totale per il sistema universitario per ciascuno studente è risultata pari a 9.153 euro nel 2005; quella media per studente equivalente in regola con gli studi a 19.772 euro, più del doppio. Il secondo indicatore non è distante, spesso la supera, dalla spesa unitaria che si registra negli altri paesi sviluppati. Purtroppo, non si dispone di una serie temporale lunga; tuttavia la tendenza risulta in aumento. Il contributo delle famiglie e degli altri soggetti privati al finanziamento, per le prime essenzialmente attraverso le tasse e i contributi, è relativamente basso, anche se cresce nel tempo; esso risulta inferiore rispetto ai livelli che raggiunge negli altri paesi confrontabili. A questo proposito, occorre tenere conto che la selezione sociale opera in modo prevalente ai livelli formativi che precedono quello universitario e quindi ci sarebbe spa-

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pol.is - dicembre 2008

zio per un aumento della partecipazione delle famiglie alla spesa, mettendo in atto, d’altra parte, un intervento significativo a sostegno degli studenti capaci, provenienti da famiglie in condizioni di reddito insufficiente. 21. Gli impieghi sono fortemente sbilanciati verso le spese per il personale; c’è una forte dispersione correlata a quella delle sedi sul territorio e alla frammentazione delle iniziative. 22. In effetti, nel 2007 erano presenti nel paese 64 atenei pubblici (comprese tre scuole superiori e due università per stranieri), oltre a 16 privati. Operano, inoltre, 10 università telematiche alle quali il ministro Mussi ha posto opportunamente condizioni limitative. Insediamenti universitari, spesso orientati alla sola formazione, erano presenti nello stesso anno in ogni provincia ed in ben 274 comuni, anche se in alcuni di essi esistevano soltanto corsi dell’area medica con pochi iscritti. I corsi di laurea triennali e a ciclo unico erano, sempre nel 2007, 3.102 (considerando anche quelli disattivati e in esaurimento, 3338); quelli di laurea magistrale censiti nell’offerta formativa 2.415 (di cui con iscritti effettivi 2361). Si tratta in complesso di un numero elevato. Tuttavia, il confronto

Nel 2007 hanno operato 64 atenei pubblici (comprese tre scuole superiori e due università per stranieri) ,16 privati e 10 università telematiche


SPECIALE FOCUS Scuola, Università, Ricerca

La diffusione di sedi sul territorio ha aumentato la staticità degli studenti

con la situazione precedente alla riforma innescata dal decreto n. 509/1999 dovrebbe considerare i soli corsi triennali e a ciclo unico. Nell’anno 2000 il numero dei corsi di diploma e di laurea del precedente ordinamento risultava pari a 2.262; ad essi si dovrebbero forse aggiungere i 182 corsi di laurea triennale rilevati nello stesso anno, presumibilmente trasformazione sperimentale di precedenti quadriennali, specialmente presso Ingegneria; il totale sarebbe allora pari a 2.449. Quindi, l’aumento del numero dei corsi dal 2000 al 2007 si attesterebbe fra il 30 e il 45%. Incidentalmente, c’è anche una discreta fioritura di sedicenti università non riconosciute le quali attraggono un’utenza non trascurabile e sprovveduta, oltre che di centri per la preparazione agli esami. Ambedue queste iniziative mostrano le carenze delle università “vere”. 23. La diffusione di sedi sul territorio ha accresciuto la già forte staticità degli studenti. Nell’anno accademico 2007-08, il 51,7% frequentava un’università situata nella stessa provincia di residenza, il 76,8% nella stessa regione e soltanto il 23,2% in altre regioni del paese. È poco plausibile ritenere che i corsi più prossimi territorialmente garantiscano sempre una buona qualità. La sostanziale assenza di

una politica per l’edilizia universitaria e di facilitazioni reali per gli studenti fuori sede ha senz’altro contribuito ad alimentare il fenomeno. 24. I corsi di laurea tecnico-scientifici assorbono una percentuale del totale degli studenti inferiore rispetto a quella che si registra negli altri paesi sviluppati. È questa l’esigenza del paese? C’è una distorsione indotta dall’offerta dei corsi di laurea? legata al territorio? 25. . I dipartimenti nel 2007 erano 1.865, in media 21 per ateneo e 3 per facoltà. Il rapporto fra personale docente di ruolo e dipartimenti risulta pari a 33, un valore che nasconde una forte variabilità territoriale e che in molti casi risulta lontano da quello necessario per fare massa critica per l’attività di ricerca. Nel lungo periodo che va dall’istituzione (decreto del Presidente della Repubblica n. 382 dell’11 luglio 1980) ad oggi, essi non hanno ancora guadagnato il ruolo che competerebbe loro nelle sedi decisionali. Le facoltà, che avevano una lunga tradizione e una rappresentanza radicata, hanno difeso e mantenuto la loro dominanza. Invece, è proprio ai dipartimenti che occorrerà riferirsi principalmente in futuro, se si intenda invertire alcune linee di tendenza orientate negativamente ed in particolare se si voglia rilanciare l’università attraverso la ricerca.

Misurare il prodotto e la sua qualità 26. Misurare il prodotto della ricerca e della formazione è un tema finora molto trascurato da noi, spesso invocando la specificità come giustificazione. Senza sottovalutare i problemi che si incontrano e che occorre ri-

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Università: spunti per un confronto di Alberto Zuliani

solvere, c’è ormai consenso diffuso in sede internazionale sugli indicatori e le metodologie da adottare. 27. Il metodo più accreditato per valutare la qualità della ricerca è quello “bibliometrico”, legato peraltro al criterio del referaggio e quindi, in definitiva, all’approccio della peer review. È possibile, per questa via, fare valutazioni quantitative (numero medio di pubblicazioni per ricercatore) e qualitative (numero medio di citazioni); quest’ultimo indicatore può essere opportunamente normalizzato per tenere conto che la propensione alla citazione varia da settore a settore disciplinare, cosicché occorre pesare di più le citazioni in quelli più “avari”. Gli indicatori bibliometrici non sono esenti da critiche (Hascall e altri, 2007), vanno usati con cautela, all’interno di settori sufficientemente omogenei, insieme ad altri; ma costituiscono al momento il modo migliore per valutare la qualità della ricerca, valido certamente a livello individuale e utilizzabile ragionevolmente per la comparazione fra paesi. Un importante punto di svolta è stato costituito dall’esercizio valutativo svolto dal Comitato di indirizzo e valutazione della ricerca, Civr, con riferimento al triennio 2001-03. Esso presenta alcuni aspetti criticabili, ma complessivamente costituisce un’esperienza estremamente positiva (Consiglio italiano per le scienze sociali, 2006). L’aspetto maggiormente critico è esterno al processo di valutazione: i suoi risultati non sono stati sostanzialmente utilizzati per orientare la distribuzione delle risorse, con il pericolo che in futuro, se mai e quando sarà possibile ripetere l’esperienza, essa

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pol.is - dicembre 2008

venga vissuta come un appesantimento burocratico. Nel merito, a parte eccellenze di settori e personalità, l’Italia non esibisce in generale risultati importanti nel confronto con gli altri paesi evoluti (per utili informazioni sul tema, si possono vedere Perotti (2008) e le segnalazioni bibliografiche lì contenute). 28. La valutazione della formazione è un terreno infido, poiché la scelta degli indicatori può indurre comportamenti opportunistici e determinare risultati indesiderati. Ad esempio, l’uso dei tassi di passaggio o della durata degli studi per l’allocazione delle risorse può abbassare la qualità della formazione. Gli indicatori di successiva riuscita economico-sociale dei laureati hanno una forte distorsione territoriale. Tuttavia, possono costituire un elemento informativo prezioso per l’orientamento delle immatricolazioni. Le imprese, in generale, non riescono o non sono interessate a valutare la qualità dei laureati, anche a motivo del nostro modello di specializzazione industriale; in molti casi, considerano il titolo un prerequisito, a partire dal quale innescare propri processi formativi. Secondo una rilevazione dell’Istat (2006), soltanto il 68% dei laureati che lavorano, a tre anni dal conseguimento del titolo di studio, ritie-

Molte imprese considerano il titolo un prerequisito per innescare propri processi formativi


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L’università italiana non attira studenti dall’estero e questo è un chiaro segnale della limitata qualità che si riconosce alle nostre istituzioni ne che una laurea sia necessaria per l’attività che svolge e soltanto il 31% che la laurea necessaria sia quella posseduta. Ovviamente, le differenze sono forti fra settore e settore di studi: la seconda percentuale è massima per il gruppo medico (85%), elevata per ingegneria, architettura e giurisprudenza (40-50%) e minima per il gruppo politico-sociale (6%). Può essere utile riflettere su un indicatore interno che viene riferito spesso: il numero medio di studenti per docente di ruolo. Mentre il denominatore è sostanzialmente certo, il numeratore esprime molto impropriamente la pressione sul sistema universitario, per l’elevata dispersione che vi è presente. Per questo motivo, è stata definita la categoria degli “studenti equivalenti”, utilizzata anche nelle tabelle 1 e 2. Come si è visto, il numero di studenti equivalenti per docente di ruolo è risultato pari a 13,6 nel 2007, un livello non diverso – in parecchi casi anche inferiore – da quello che si registra in molti altri paesi evoluti, dove pure, d’altronde, sono presenti fenomeni di rallentamento degli studi, in generale meno acuti che da noi. 29. Un secondo indicatore interno di interesse è fornito dal rapporto laureati per docente di ruolo. Per valutarne l’andamento nel tempo ci si può riferire al numero di laureati equivalen-

ti a triennali. Come ho già considerato in precedenza, il rapporto è molto aumentato negli anni recenti, a motivo della velocizzazione dei percorsi di studio relativi all’ordinamento didattico precedente al 2000. L’onda si sta però esaurendo e questo riverbera sul numero complessivo di laureati. Soltanto fra qualche anno, si potrà trarre conclusioni fondate sulla “produttività” del nuovo sistema. 30. In prospettiva, il riferimento d’obbligo per la valutazione della formazione è costituito dai “descrittori di Dublino”, in corso di affinamento in sede europea, ma già utilizzati largamente per i confronti internazionali. L’accreditamento delle sedi a partire da standard di servizio, da parte di un’agenzia indipendente, potrebbe orientare le scelte degli studenti e delle famiglie che, oggi, si fanno largamente “disorientare” dai poco affidabili rating pubblicati ogni estate dai quotidiani maggiori. La prossimità delle sedi universitarie ai luoghi di residenza degli studenti prevale, d’altra parte, sulla valutazione della qualità, come ho avuto già modo di osservare. L’attrazione esercitata dalle lauree magistrali riguardo a studenti provenienti da altri atenei può essere un buon indicatore di qualità. È possibile che, fra qualche anno, sia proposta un’indagine comparativa internazionale sulle competenze acquisite all’università, analoga a quella che l’Ocse svolge relativamente ai livelli formativi pre-universitari (indagine PISA). Quasi certamente, si procederà a verifiche indipendenti dei livelli di alcuni degli indicatori di Dublino. 31. L’università italiana non attira studenti dall’estero e anche questo è

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un segnale chiaro della limitata qualità che si riconosce alle nostre istituzioni nel complesso. In effetti, nel 2005, il rapporto fra iscritti stranieri e iscritti italiani è risultato pari a 2,2%; lo stesso rapporto era pari a 2,5% in Spagna, a 11,5% in Germania e a 17,3% nel Regno Unito (Ocse, 2007). Naturalmente, gioca un ruolo negativo anche il fatto che le lezioni si tengano generalmente in italiano, una lingua la cui conoscenza è poco diffusa nel pianeta. 32. Nel frattempo, la procedura di attivazione dell’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca è stata sospesa. Non si procederà quindi, in tempi brevi, al secondo esercizio valutativo della ricerca; né risulta che i risultati del primo esercizio siano stati oggetto di approfondimento, in vista di migliorare la replica. Dovrebbero proseguire, invece, le rilevazioni, in generale riferite alla formazione, svolte dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario. 33. Qualche revisione dell’impalcatura organizzativa prevista per la costituenda Agenzia e delle competenze ad essa affidate potrebbe essere utile. In effetti, i compiti assegnati sono troppi ed eterogenei. Il ruolo e i corrispettivi economici previsti per i componenti e per il personale dovrebbero essere maggiormente attrattivi, allineandosi a quelli riconosciuti alle autorità indipendenti (Zuliani, 2008). Ai risultati della valutazione dovrebbe essere data ampia diffusione, in modo da alimentare la costruzione della reputazione, positiva o negativa, delle sedi. Decisiva, come ho già accennato, è la loro reale utilizzazione ai fini dell’allocazione delle risorse.

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Reclutamento 34. Il problema del reclutamento è centrale e riguarda sia la dimensione, sia le procedure. Quanto al primo aspetto, non si è mai programmato con la necessaria consapevolezza, né si è rispettata la regolarità temporale prevista dalle norme, cosicché sono percepibili sulla piramide delle età frequenti “colpi di fisarmonica”, con estensioni della cassa armonica in occasione delle “ope legis”. Le procedure concorsuali hanno angustiato pressoché tutti i ministri che si sono succeduti al governo del settore da quaranta anni a questa parte. Di volta in volta, ognuno di essi ha ritenuto di aver trovato la soluzione giusta; da ultimo, il ministro Gelmini, prevedendo che le commissioni di valutazione siano composte da soli professori ordinari per tutti i livelli del reclutamento e riproponendo l’estrazione all’interno di una rosa di eletti, una modalità criticata da molti. Il problema non è di facile soluzione. In tutti i paesi nei quali i meccanismi di reclutamento e di avanzamento sono pubblici si rilevano difetti più o meno vistosi. Né quello privatistico è migliore; d’altronde, potrebbe funzionare molto limitatamente nel contesto italiano. Quando si plaude alla qualità delle università degli Usa, si dimentica che ci si riferisce

In tutti i paesi nei quali i meccanismi di reclutamento e avanzamento sono pubblici si rilevano difetti


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Il fenomeno del familismo è presente in molti ambienti di lavoro. È un comportamento intriso nella cultura del nostro paese alle migliori dieci-venti; per le altre, la qualità della docenza ha stratificazioni non diverse da quelle che si presentano da noi e, seppure in misura minore, negli altri paesi europei evoluti. 35. I disastri maggiori, come ho già accennato, sono stati provocati dalla territorializzazione dei concorsi e dal meccanismo delle idoneità, non perché le due modalità non potessero avere effetti positivi (rappresentare l’esigenza delle sedi, ampliare il reclutamento in ragione della irregolarità temporale delle tornate concorsuali), ma per il modo in cui sono state piegate perversamente. Complessivamente, la norma ha accentuato oltre il limite tollerabile il provincialismo e favorito percorsi clientelari e familistici. 36. Sul fenomeno del familismo si deve riflettere senza pregiudizi e senza dover essere ad ogni costo moralisti. Esso è presente in molti ambienti di lavoro (per fare qualche esempio, professioni liberali, farmacisti, notai, diplomatici, magistrati, cinema e televisione, politica, pubblico impiego in generale); si tratta, purtroppo, di un comportamento intriso nella cultura del paese che risulta particolarmente grave nel settore pubblico, dove il reclutamento avviene attraverso procedure concorsuali che dovrebbero offrire garanzia di equità. In ogni caso, è da accertare se esso sia più frequente nel-

l’università. Credo di sì, ma la percezione di una maggiore diffusione potrebbe derivare anche dal fatto che la platea è ristretta e, in alcuni settori (giurisprudenza e medicina ad esempio), la notorietà dei protagonisti è maggiore. Comunque, la qualità dovrebbe essere sempre garantita, mentre in diversi casi non è stato così; inoltre, l’eleganza formale ed anche la corretta dinamica decisionale nelle sedi di governo delle facoltà e dei dipartimenti vorrebbero che persone dello stesso nucleo familiare non vi fossero presenti contemporaneamente. 37. Il personale docente è mediamente anziano, molto di più che in altri paesi confrontabili, anche a motivo della relativamente elevata età al pensionamento: nel 2006 il 46,6% dei professori di prima fascia aveva oltre 60 anni; nella stessa situazione era oltre un quinto dei professori di seconda fascia. Quasi metà dei ricercatori, il 43,4% aveva più di 45 anni. Complessivamente, 55% dei docenti aveva oltre 50 anni, rispetto a percentuali del 30% nel Regno Unito, 30,9% in Spagna, 35,6% in Germania e 40,8% in Francia (Ministero dell’università e della ricerca, 2008). Nel tempo, il numero dei docenti è andato progressivamente aumentando e la tornata concorsuale sospesa dal decreto legge n. 180/2008 prevede ulteriori concorsi per circa 800 professori di prima fascia, 1.200 professori di seconda fascia e 300 ricercatori. Naturalmente, occorre tenere conto della mobilità verticale prodotta dai concorsi, la quale determina modificazioni di status ma non altera la numerosità. 38. La maggiore anomalia è l’assenza della struttura piramidale per

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fasce, coerente con i processi di selezione e tipica di questo settore negli altri paesi confrontabili. Occorrerà anche tener conto del numero elevato di uscite nei prossimi 5-10 anni e programmare conseguentemente il reclutamento. Non mi pare che su questo problema sia stata posta finora l’attenzione necessaria. 39. Il personale tecnico-amministrativo è diminuito in numero fra il 2000 e il 2007, passando da 60.853 a 58.767 unità (-4,4%). Poiché, nel frattempo, è aumentato il numero degli atenei, delle loro sedi territoriali, delle facoltà e dei dipartimenti, si registra certamente una forte disomogeneità. D’altronde, sperequazioni sono presenti anche all’interno degli atenei, con un vantaggio consistente per le strutture centrali, e fra dipartimento e dipartimento. La composizione è molto sbilanciata in favore del personale amministrativo, rispetto a quello tecnico e bibliotecario e questo non giova alla qualità del servizio reso. In via generale, il rapporto 1:1 fra personale docente e non docente è ritenuto corretto se il livello dei servizi è buono; in alcune situazioni, dove il sostegno alla ricerca e alla didattica da parte del personale tecnico e bibliotecario è maggiore, il rapporto può aumentare anche consistentemente. Si possono trovare importanti eccezioni. Il dipartimento di fisica del MIT, ha 123 faculty members e 41 persone nello staff amministrativo. Per inciso, il dipartimento fa eccezione anche per la composizione per categorie di personale di ricerca, fortemente sbilanciata verso i livelli elevati: 87 fra professori ed emeriti, ma molti sono giovani, e 30 fra assistant, associate e adjunct professors.

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Quali misure 40. Prima di indicare alcune misure che mi sembra possano essere utili per superare qualcuno dei problemi illustrati in precedenza, ritengo necessario esprimere alcune mie convinzioni: - non esistono regole buone e regole cattive in assoluto, anche se una cattiva norma favorisce applicazioni dannose; ma quante volte abbiamo assistito ad un uso di buone regole opportunistico e produttivo di effetti perversi? Molto, quindi, dipende dai comportamenti che si assumono e da come le regole vengono usate. Se alle decisioni prese fossero collegate reali responsabilità, delle istituzioni ed anche personali; se insieme alle regole fosse definito un sistema di convenienze, i comportamenti sarebbero orientati più frequentemente nella direzione giusta; - purtroppo, schiavi del formalismo giuridico, si ritiene da parte dell’esecutivo e del legislatore che una norma possa magicamente risolvere i problemi dal giorno successivo alla sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale; manca nell’esecutivo, in modo pressoché totale, la cultura dell’implementazione; manca la capacità di valutare, operare selettivamente, distinguere, governare la variabilità delle situazioni;

Nell’esecutivo manca la cutura dell’implementazione, manca la capacità di valutare,distinguere, governare la variabilità delle situazioni


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I tempi della politica sono convulsi: la cultura dell’azione prevale su quella del risultato. I tempi dell’università e della ricerca sono, invece, strategici - le norme vengono scritte, in molti casi, con l’intenzione di contrastare comportamenti non virtuosi e abbiamo visto quanto poco ci siano riuscite finora; ma anziché pensare a mosse e contromosse per impedire, che finiscono per frenare anche i comportamenti corretti, occorrerebbe suscitare azioni coerenti con il raggiungimento degli obiettivi che ci si pone; - infine, ritengo che vadano individuati una strategia e i conseguenti traguardi da raggiungere, prevedendo per essi tempi definiti; lungo queste linee dovrebbero essere fatte le scelte da parte del potere politico; inoltre, si deve lasciare il tempo necessario perché risultati possano essere prodotti; valutarli; correggere le traiettorie che risultassero in contrasto con gli obiettivi mediante interventi selettivi, legati a un sistema di convenienze. I tempi della politica sono da noi convulsi; la cultura dell’azione, quando non del mero annuncio, prevale su quella del risultato. I tempi dell’università e della ricerca sono invece strategici, ma sembra che si sia dimenticato. 41. Ecco ora alcune misure che possono risultare utili. Esse sono suggerite con riferimento all’assetto attuale, nella consapevolezza che non possa cambiare radicalmente nei prossimi cinque-dieci anni. Allorché si volesse effettivamente assumerle, le implica-

zioni andrebbero valutate approfonditamente, con riferimento agli effetti diretti ed indiretti, locali e di sistema (a quest’ultimo riguardo, si pensi alla forte interazione che sussiste fra scuola secondaria superiore e università: un intervento migliorativo sul livello pre-universitario avrebbe effetti salutari sulla formazione terziaria). 42. Il fondo di finanziamento ordinario, possibilmente aumentato e non ridotto nei prossimi dieci anni, dovrebbe essere distribuito per una quota progressivamente maggiore in base al merito. Si potrebbe procedere linearmente dal 10% nel primo anno fino a un massimo da decidere, il quale potrebbe arrivare al 40% al termine di dieci anni; successivamente, la quota potrebbe essere stabilizzata. Della progressione dovrebbe essere data certezza. Le risorse dovrebbero essere indirizzate ai dipartimenti, per una frazione pari almeno al 70%, e alle facoltà per il residuo, in relazione ai risultati di una valutazione alla quale gli uni e le altre dovrebbero chiedere di essere sottoposti. Non tutti i dipartimenti e le facoltà valutati dovrebbero necessariamente essere destinatari di questi finanziamenti. Quelli che scegliessero di non essere valutati rimarrebbero esclusi dalla distribuzione del fondo premiale e parteciperebbero, insieme a tutti gli altri, alla distribuzione del fondo residuo, secondo parametri essenzialmente dimensionali, riferiti alle proprie risorse e alla produzione formativa e scientifica. Ampia pubblicità dovrebbe essere garantita ai risultati della valutazione e al processo di allocazione selettiva delle risorse. La trasparenza è un modo poco invasivo ed estremamente utile per esercitare il

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controllo da parte della collettività. Nel corso dei dieci anni dovrebbero essere verificati i risultati dell’intervento, orientato a valorizzare le sedi migliori e via via ad asciugare quelle marginali. In prospettiva, i fondi potrebbero convergere su una stessa istituzione, i dipartimenti, i quali dovrebbero farsi carico di alimentare razionalmente l’attività formativa; proporlo oggi sarebbe prematuro. Dovrebbe essere affermato con chiarezza e mantenuto fermo che le situazioni di difficoltà determinate da scelte non convenienti non verrebbero più sanate e che, anzi, le eventuali responsabilità verrebbero sanzionate. 43. Si deve finanziare congruamente alcuni programmi su tematiche di frontiera, in grado di attrarre ricercatori dall’interno e dall’estero e di innervare, nel volgere di relativamente pochi anni, sedi scientifiche di qualità elevata. 44. I co-finanziamenti per progetti di ricerca dovrebbero essere indirizzati verso un numero limitato di progetti, di particolare impegno finanziario. Una quota dovrebbe essere orientata verso aree di ricerca ritenute strategiche, in particolare quelle scientifiche e tecnologiche. Le facoltà e soprattutto i dipartimenti dovrebbero essere incentivati ad assumere comportamenti virtuosi. Attualmente, i pareri (obbligatori) sui progetti di ricerca presentati dai loro afferenti a qualsiasi soggetto finanziatore sono sempre positivi, poiché sui fondi che eventualmente venissero concessi gli stessi dipartimenti attingerebbero per quota. Diverso sarebbe l’atteggiamento se divenisse conveniente privilegiare soltanto i progetti migliori, ad esempio disponendo

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uno specifico finanziamento destinato ad essi in relazione alla quota, misurata sugli importi, di progetti finanziati rispetto a quelli presentati. D’altra parte, il contributo da parte delle università dovrebbe attingere a disponibilità non acquisite per precedenti progetti di ricerca; non dovrebbe essere possibile, quindi, la doppia rendicontazione. 45. Occorre incentivare opportunamente occasioni e modalità di interazione e cooperazione fra università ed imprese. I liason offices sono troppo poco. Si deve procedere verso la creazione di reti di ricerca su tematiche di frontiera e la costituzione di joint labs fino a joint research institutes. 46. Ritengo che il sistema dei concorsi non sia attualmente rinunciabile, pur essendo consapevole che in altri paesi i meccanismi di cooptazione (è difficile pensare ad alternative) si esprimono in forme diverse. Lì, però, i corrispettivi economici per i ricercatori possono essere differenziati e la reputazione delle sedi gioca un ruolo attrattivo non marginale (da noi, invece, è ancora molto limitato). All’interno, dunque, dell’attuale sistema, alcune iniziative possono essere prese: I) dare e rispettare regolarità temporale alle occasioni concorsuali; II) eliminare la figura del com-

Occorre incentivare opportunamente occasioni e modalità di interazione e di cooperazione fra università e imprese


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Si dovrebbe prevedere la figura del ricercatore a tempo determinato, per un massimo di due-cinque anni e destinare risorse significative per il corrispondente reclutamento missario interno che, nell’esperienza fin qui fatta, ha prodotto più danni che vantaggi; III) impegnare tutti i partecipanti alla selezione a rendere pubblico il proprio curriculum, l’elenco delle pubblicazioni e gli indicatori bibliometrici; IV) prevedere la “tracciabilità” del docente in qualità di commissario ed esibirne gli esiti, un’indicazione che mi è suggerita da un arguto collega di Sapienza: risulterebbe chiaro chi ha mandato avanti chi. In generale, andrebbero adottate misure utili ad impedire che non si voglia vedere o sapere, per non sentirsi responsabili. 47. Si dovrebbe prevedere la figura del ricercatore a tempo determinato, per un massimo di due-cinque anni, e destinare risorse significative per il corrispondente reclutamento. Verrebbe ripristinato, per questa via, un flusso di alimentazione della base – dalla quale poter selezionare – oggi rinsecchita dall’assenza per troppo tempo di prospettive convincenti. Il carico didattico per i ricercatori dovrebbe essere ridotto al minimo per garantire loro il tempo necessario per l’attività di ricerca. Dopo un certo numero di anni, comunque inferiore a cinque, i ricercatori che non fossero mantenuti presso le università potrebbero essere indirizzati all’insegnamento nelle scuole pre-universitarie, condiziona-

tamente ad un accertamento della loro idoneità a questo impiego. 48. Le uscite dei professori a settanta anni andrebbero rimpiazzate con l’ingresso di ricercatori nello stesso settore scientifico-disciplinare. Lo svecchiamento prevedibilmente indotto dalla legge n.133/2008 e dal decreto legge n. 180/2008, comunque da salutare positivamente, potrebbe essere così incentivato. Tuttavia, personalità di particolare valore potrebbero essere mantenute, consentendo loro, ad esempio, l’accesso a finanziamenti di ricerca. Qualche volta, si tratta di capiscuola e sarebbe veramente negativo privarsi della loro competenza. 49. La mobilità territoriale dei docenti dovrebbe essere stimolata, in particolare in occasione degli avanzamenti di carriera, con idonei meccanismi premiali. La staticità è un comportamento diffuso nell’università e, d’altronde, nel paese. Andrebbero valutati gli effetti che hanno avuto le norme emanate a suo tempo per riattivare i trasferimenti. Iniziative coadiuvanti potrebbero essere la creazione di campus per docenti (come avviene in qualche università) o il contributo per l’acquisto/affitto di abitazioni; all’estero è spesso un fringe-benefit riconosciuto al momento del reclutamento. 50. La mobilità andrebbe favorita anche fra gli studenti, in particolare quelli di talento, che dovrebbero essere orientati verso le sedi migliori, individuate in base ai risultati della valutazione effettuata dall’Agenzia preposta. Esse dovrebbero sempre prevedere il numero chiuso e procedere sempre a prove d’ingresso, even-

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tualmente anche senza il vincolo della saturazione. Dovrebbero poter stabilire tasse di iscrizione anche elevate, nei limiti di quelle medie delle sedi di eccellenza straniere. Naturalmente, andrebbero previste borse di studio ed altre agevolazioni, congrue con il livello effettivo delle spese da sostenere, per gli studenti provenienti da famiglie sprovviste dei mezzi necessari. In generale, potrebbero essere detassati gli affitti per abitazioni date a studenti non residenti. Le famiglie per i cui componenti fossero erogate borse di studio dovrebbero essere obbligatoriamente, o in quota significativa a sorteggio, sottoposte ad accertamento fiscale. 51. Il tema del “numero chiuso” è vissuto spesso come antidemocratico. È invece, un problema di correttezza dell’offerta, una garanzia – in primo luogo per gli stessi studenti – di ricevere un servizio formativo adeguato, in strutture che abbiano la ricettività strutturale, logistica e strumentale necessaria e dispongano di un corpo docente appropriato. Incidentalmente, dovrebbero essere previste occasioni di formazione didattica per i docenti, che all’estero è spesso obbligatoria e formalizzata. La recente introduzione dei così detti “requisiti minimi” rappresenta una risposta timida. 52. Dovrebbe essere previsto il raddoppio di tasse e contributi per l’iscrizione, a partire dal secondo anno successivo a quello in cui si è conclusa la durata legale del corso di laurea; per i lavoratori studenti, l’aumento potrebbe scattare dopo un numero maggiore di anni. A nessuno dovrebbe essere consentito di poter

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protrarre gli studi dopo un periodo di due volte la durata legale, aumentato un poco per i lavoratori studenti; a regime, dovrebbe essere definito lo status di studente part-time da parte di tutte le università. Alcune hanno già provveduto. 53. Dovrebbe essere ridotto il numero di occasioni di accertamento che frammenta l’azione formativa, premia la costanza, spesso legata alle condizioni economiche, e allunga i tempi del percorso di studi. In nessun altro paese evoluto, le sessioni di esami sono tre e gli appelli anche oltre otto. 54. I dottorati di ricerca dovrebbero essere concentrati in poche sedi, quelle che sono effettivamente in grado di garantire una formazione alta e di orientare alla ricerca. Anche a motivo delle assai ridotte possibilità di reclutamento da parte dell’università, negli ultimi cinque-dieci anni la leva degli aspiranti si è molto impoverita in quantita e qualità (Bruno, 2008). I dottorati devono essere rilanciati ed alimentare non soltanto la domanda accademica ma anche e in misura importante quella delle imprese, come avviene negli altri paesi avanzati. Le imprese vanno stimolate attraverso opportuni incentivi, poiché sono resistenti, per ragioni culturali, settoriali e dimensionali, al reclutamento di

I dottorati di ricera dovrebbero essere concentrati in poche sedi, quelle che sono effettivamente in grado di garantire una formazione alta e di orientare alla ricerca


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Puntare decisamente sulla ricerca per migliorare la qualità dell’università; attrarre e far avanzare i migliori fra i ricercatori e gli studenti; stimolare la competizione dottori di ricerca. Altrove, la loro attitudine innovativa e capacità di fronteggiare le discontinuità e l’incertezza sono state progressivamente apprezzate. D’altra parte, il personale di ricerca delle imprese, spesso all’avanguardia, dovrebbe essere coinvolto nella docenza. I corsi di terzo livello devono essere in grado di attrarre studenti dall’estero ed è questo un indicatore del quale tenere conto al momento di decidere se mantenere o chiudere alcuni di essi. 55. L’internazionalizzazione andrebbe favorita in via generale. È un’esigenza forte. La definizione di misure opportune comporterebbe un approfondimento che qui non è possibile anche abbozzare. 56. Si capisce bene quanto sia necessario che l’agenzia nazionale di valutazione inizi la sua attività al più presto. Essa dovrebbe operare in assoluta indipendenza. Le risorse da destinare alla sua attività, correlate ai compiti assegnati, dovrebbero essere commisurate alla spesa pubblica per l’università. Si deve essere consapevoli che le competenze professionali necessarie sono scarse nel nostro paese e vanno costruite gradualmente. Il loro reclutamento, in prima attuazione, potrebbe essere effettuato attraverso un bando internazionale.

Considerazioni conclusive 57. L’orientamento delle misure appena suggerite dovrebbe essere chiaro: puntare decisamente sulla ricerca, come componente essenziale per migliorare la qualità dell’università; attrarre e far avanzare i migliori fra i ricercatori e fra gli studenti; stimolare la competizione, creare un sistema di reali convenienze per suscitare comportamenti positivi e neutralizzare quelli negativi; collegare l’esercizio dell’autonomia all’assunzione di corrispondenti responsabilità. 58. Dovrebbe diventare atteggiamento costante a tutti i livelli, da quello del governo fino a quello dei dipartimenti, che ogni intervento sia attento alle conseguenze di sistema e locali e proceda lungo il percorso: analizzare, convincere, costruire, valutare, intervenire di nuovo. 59. L’università è sotto tiro, non senza colpe. Molti di noi, quelli che fanno il proprio dovere ogni giorno, che si impegnano in una didattica aggiornata, che svolgono con continuità attività di ricerca e contribuiscono al progresso della conoscenza, sono indignati. Dirò due motivi per i quali sono personalmente indignato e ritengo che siano largamente condivisi. Non si può prendere spunto da quanto avviene nelle facoltà di medicina, spesso purtroppo, o in alcune sedi o da parte di alcuni per mettere sotto accusa l’intero sistema. Non è possibile che i politici siano oggi fra i principali accusatori, poiché sono largamente corresponsabili della situazione. 60. L’università che ha scelto di fare ricerca per vocazione, che ritiene di svolgere un compito importante per il progresso del paese, non vuole sot-

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trarsi alla valutazione; anzi, la invoca e chiede che ai suoi esiti siano collegati le scelte, gli interventi, le sanzioni se necessarie. 61. I governi dovrebbero darsi orizzonti lunghi quando riflettono e decidono in materia di formazione superiore e di ricerca. Se si ha consapevolezza di vivere nella società della conoscenza, il sapere a tutti i livelli deve tornare ad essere una priorità.

Riferimenti bibliografici essenziali Bruno S. (2008), “Università, il male oscuro”, www.sbilanciamoci.info. Consiglio italiano delle scienze sociali (2006), La valutazione della ricerca, Marsilio, Venezia. Grassi M. e Stefani E. (2007), Il sistema universitario italiano, Cedam, Padova.

Hascall V. e altri (2007), “Impact Factor Page Rankled”, Asbmb Today. Istat (2006), I laureati e il mercato del lavoro. Ocse (2007), Education at a glance, Paris. Ministero dell’Economia e delle Finanze – Commissione tecnica per la finanza pubbblica (2007), Misure per il risanamento finanziario e l’incentivazione dell’efficacia e dell’eficienza del sistema universitario, Doc. 2007/3 bis. Ministero dell’Università e della Ricerca (2008), L’università in cifre, 2007. Perotti R. (2008), L’università truccata, Einaudi, Torino. Zuliani A. (2003), “Tre più due: i conti possono tornare”, Induzioni, n. 26. Zuliani A. (2008), “La valutazione della ricerca: alcune riflessioni”, Statistica e società, 6, numero speciale.

* Molti colleghi mi hanno dato suggerimenti utili su una prima stesura del lavoro: Giorgio Alleva, Sergio Bruno, Claudio Gnesutta, Maurizio Franzini e Giovanni Vittorio Pallottino. Li ringrazio tutti. In particolare, ringrazio Giuliana Matteocci che ha ricercato pazientemente i dati e ha prodotto le elaborazioni necessarie.

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Sebastiano Bagnara

I competitor della scuola

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a scuola ha sempre avuto ed ha dei competitori nel suo specifico, nei processi educativi. La famiglia, in primo luogo, è sempre stata un ambiente, per certi versi, in competizione con la scuola, anche se continui sono stati, e sono gli auspici ed i richiami alla collaborazione. Ma, proprio la quasi ossessiva domanda sta ad indicare che la collaborazione, nella gran parte dei casi, è debole, spesso manca, anzi si configura come una sorda e perenne guerriglia, che attraversa fasi alterne, con apparenti successi dell’una o dell’altra, ma mai vinta del tutto. Da nessuno. La famiglia ha conosciuto una trasformazione rapida, da organismo complesso e gerarchico (matriarcale o patriarcale, non fa molta differenza), che incorpora attività lavorative, a gruppo ristretto (padre, madre, uno o due figli), in cui il lavoro è generalmente espulso, alla famiglia network,

La famiglia è sempre stata un ambiente, per certi versi, in competizione con la scuola

in cui i ruoli sono temporanei ed episodici, con tempi privi di ogni continuità. Anche la sua competizione con la scuola si è venuta man mano cambiando. Ma non è chiaro quale sia la direzione del cambiamento e come questo si configura. Viene il dubbio che si vada verso una competizione fondata sul reciproco ignorarsi. Il che significa che la competizione muta in ostilità.

Ignorarsi reciprocamente Un altro competitore è stato l’ambiente dei pari, i gruppi, le forme di aggregazione più o meno spontanei, a geometria variabile: possono essere molto ristretti (i fidanzatini) e larghissimi (i fan di un cantante o gli ultras di una squadra di calcio). La dimensione di ambiente di apprendimento dei gruppi è stata scoperta negli anni Trenta dello scorso secolo in concomitanza con la (allora nuova) dimensione urbana del vivere associato. Queste forme di aggregazione sono state in qualche modo rese “ufficiali”, esaltate ed utilizzate dalle organizzazioni politiche, ideologiche e religiose: hanno come tali conosciuto un successo clamoroso, ma ora hanno perso smalto e forza. Sono archeologia sociale. Non sono più dei forti competitori. Pure i ragazzi continuano ad ave-

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I competitor della scuola di Sebastiano Bagnara

re forme di aggregazione socializzante fra pari, solo che non sono più “guidate”. E la scuola non ne conosce i contenuti, modelli, valori che vanno a costituire gli ambienti specifici di apprendimento. Ma, se si conosce, si contratta, negozia, contrasta, ci si attrezza. Se non si conosce, semplicemente si ignora che cosa altro entra nella testa dei ragazzi, come si combina con quello che si insegna a scuola, la sua forza. Un competitore ormai tradizionale della scuola è la “televisione”, considerata la “cattiva maestra” per eccellenza. Vi era chi consigliava di mitridatizzarsi, prendendola a piccole dosi (per un certo periodo, una decina d’anni fa, imperversavano proposte di diete televisive) o, più semplicemente, la si proibiva. Altri, i più, la usavano come comoda baby-sitter gratuita. Pochi hanno però considerato che la televisione è, come tutti i mass media, pubblica: anche quando è privata e commerciale (ma c’è differenza con la televisione che si proclama di servizio pubblico?) nel senso presenta in pubblico, sono disponibili contenuti e modelli educativi. Tutti ne hanno accesso, anche la scuola, e i buoni maestri! La televisione, i mass media sono competitori leali e trasparenti. Solo una colpevole pigrizia mentale ha portato a bollarli come cattivi maestri, seguendo l’ossessione antimoderna di qualche filosofo sicuramente (egli si!) mass-mediatico. La scuola ha preferito ignorare la televisione e a esorcizzarla: ha perso l’occasione per confrontarsi a viso aperto col primo competitore non subdolo e cangiante. Un bel guaio!

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Un ulteriore competitore ha introdotto una caratteristica veramente nuova nell’ambiente di apprendimento che propone: la tecnologia. I videogiochi (che si usano, perché emblematici, per riassumere tutta la varietà di ambienti tecnologici di apprendimento, anche molto sofisticati) hanno portato un salto di qualità nel confronto con la scuola.

Scuola e videogichi Per la prima volta, un ambiente di apprendimento interessa contemporaneamente sia il corpo che la mente. Si discute tanto di “imparare facendo”, ma l’ambiente dove questo motto si applica in modo assoluto è proprio l’ambiente dei videogiochi. Con questo ambiente, la scuola non è mai stata in competizione: è stata semplicemente bypassata e surclassata. Non c’è semplicemente competizione. Di più. Vi è un’altra caratteristica peculiare di questi ambienti che li rende incomparabili con la scuola: la modalità di fruizione, di apprendimento, è personale, individuale. La socialità diventa un’appendice, è secondaria. Si è nel gruppo, ma contemporaneamente si è soli. Solo una parte della persona è pubblica. Ed è quella che si desidera mostrare, anche se tutte le transazioni lasciano traccia.

La televisione e i mass media sono competitori leali e trasparenti, anche se bollati come cattivi maestri


SPECIALE FOCUS Scuola, Università, Ricerca

La scuola ragiona per classi, gruppi. Gli ambienti tecnologici di apprendimento propongono una socializzazione diversa, fatta di moltitudini di individui La scuola ragiona per classi, gruppi. Gli ambienti tecnologici di apprendimento propongono e supportano una socializzazione diversa, fatta di moltitudini di individui che si mostrano in modo parziale, frammentato, per episodi. Non liquido, che indica una continuità che non c’è. Che cosa succede quando uno o più dei quattro competitori, o magari tutti e quattro, in qualche modo si combinano? Si sa veramente poco in cosa consista la competizione di ciascuno di essi con la scuola. Ma in modo avvenga una loro qualsiasi combinazione e che effetti abbia sulla scuo-

la rimane un mistero, che ci si rivela attraverso improvvisi lampi, le sortite su You Tube. Di certo, avviene. Magari improvvisamente. Come dimostrano le moltitudini di ragazzi che, apparentemente senza alcun avviso visibile, si radunano in posti improbabili. Sono mescolanze di tecnologia personalizzata, aggregazione sociale, coinvolgimento di corpo e mente, forme di comunicazione di massa, di cui sia la scuola che la famiglia sanno poco. Spesso, non sanno nulla. Si parla tanto di azienda scuola. Ma esiste un’azienda che non fa l’analisi dei competitori e “si posiziona” rispetto ad essi? Non credo. E se esistesse, fallirebbe in poco tempo. Non è il caso di partire con un programma di ricerca, almeno con una fase di esplorazione, per capire chi sono i nuovi competitori della scuola, e come la scuola si può attrezzare per confrontarsi con i nuovi ambienti di apprendimento?

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Vincenzo Susca vincenzo.susca@ceaq-sorbonne.org

Lo spirito della cultura digitale e le forme della politica.

How can we change?

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mmaginario si ripresenta ai lettori della nuova edizione di Pol.is con la stessa ambizione che ne ha ispirato il cammino sin dall’inizio, un’idea ossessiva: percepire le basi immateriali delle nostre società contemporanee al fine di comprenderne ed eventualmente anticiparne lo scricchiolio delle architetture fisiche, politiche e comunicative, ovvero di cogliere le piattaforme che si preparano ad occupare il primo piano della scena in gestazione. Il nostro percorso editoriale riparte dall’America, che rappresenta per la cultura occidentale un poderoso archetipo, l’allegoria di ogni innovazione possibile e contemporaneamente del sacrificio, dello strappo e della violenza che ogni conquista trascina con sé. I contributi di Fabio La Rocca, Federico Tarquini, Tito Vagni, Nuccio Bovalino, Mario Pireddu, Antonio Rafele e Andrea Malagamba, a tal proposito, gettano luce su nodi storici, forme sociali e narrazioni culturali utili a fotografare dei tratti pertinenti della “terra” e del retroterra culturale che sostanziano l’immaginario americano e danno conto dei suoi processi politici contemporanei.

Origini I cambiamenti che affiorano sulle superfici delle istituzioni politiche

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americane, di cui Barack Obama è un indice emblematico, così come le piaghe esibite dalla crisi del sistema finanziario, entrambi eventi che pongono all’attenzione l’urgenza e la profondità di un passaggio storico critico, non sono altro, in effetti, che le prime lampanti emergenze di una mutazione antropologica e culturale di vaste dimensioni, che scombussola gli assi portanti su cui la modernità occidentale si è incardinata. Una trasformazione incubata nei sotterranei dell’immaginario collettivo americano e occidentale, l’underground che oggi progressivamente si impone sul ground come il protagonista della vita collettiva. Qual è l’origine simbolica e comunicativa del neopresidente americano? Una lunga parabola ha accompagnato il dispiegamento della storia politica statunitense dell’ultimo secolo, operando verso un detrimento progressivo dei contenuti astratti,

L’underground si impone progressivamente sul ground della scena come protagonista della vita pubblica


IMMAGINARIO

programmatici e ideologici della sostanza politica appannaggio di dati emozionali, affettivi e immaginari prossimi alle trame del vissuto collettivo. Da Roosevelt a Kennedy passando per Reagan e Clinton sino a Schwarzenegger e Obama: nonostante tutte le differenze e le sfumature che caratterizzano tali figure, possiamo scorgere nella loro processione le sostanze di uno slittamento verso un paradigma politico-culturale dove lo spettacolo, il coinvolgimento passionale e sensibile, insieme con l’adesione simbolica, prevalgono su tutto il resto. Si realizza così un passaggio cruciale dalla politica-spettacolo, ovvero da una forma di scenografia mediatica che funge da leva ad un discorso che resta fondato su un asse programmatico e ideologico, alla politicizzazione dello spettacolo, allorché lo show è in sé e per sé il cuore vivo del sistema, la sua anima profonda.

L’emozione pubblica Le gesta di passione collettiva e connettiva che hanno gettato con forza, quasi come uno schiaffo gioioso, Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America, con il loro carico di leggende, miti struggenti e coinvolgimenti viscerali, suggeriscono l’a-

Obama si rivolge all’“emozione pubblica”, ovvero a una soggettività che pensa con i sensi e non semplicemente con la testa

scesa dal basso di una soggettività multisfaccetata, composta tra l’altro dal caleidoscopio di emarginati, di outsider e di poeti maledetti del nostro tempo (che altro sono gli hacker, i blogger e i nuovi creativi se non l’attualizzazione anodina di questa figura storica?). Si tratta di una figura dalle tante facce che pressa dal basso per soppiantare la classe dirigente sinora al potere, con tutti gli orpelli narrativi e culturali che porta con sé. We can change, we can change, we can change è il ritornello che tambureggia come una formula magica dal sapore estatico nell’ambito del videoclip di Will.i.am Yes we can, tormentone mediatico che a partire da YouTube ha attraversato gli schermi e i display di tutta l’America (e non solo) ponendosi come una linfa simbolica in grado di fondere ad Obama larga parte delle sensibilità a cui egli ha ammiccato prima e durante la campagna elettorale. La promessa di un cambiamento radicale è la leva strategica del suo successo, orientata su un’organizzazione sistematica e crossmediale – con la rete al centro e la stampa, la televisione, il faccia a faccia e gli altri media a completare l’operazione – di mezzi e simboli atti a testimoniare e a suggellare un poliedrico cambiamento di stile. Esso si incarna contemporaneamente nel corpo del leader, giovane, agile e tendenzialmente informale, nel colore della sua pelle, nella maniera in cui il messaggio politico è articolato dal basso, in modo orizzontale e connettivo, apparentemente senza un vertice e una scrittura predeterminati, così come nel modo di rivolgersi non più a una mera “opinione pubblica”,

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Lo spirito della cultura digitale e le forme della politica. How can we change? di Vincenzo Susca

di tipo razionale e astratto, ma alla “emozione pubblica”, ovvero a una soggettività che pensa con i sensi e non semplicemente con la testa.

Yes we can e la tecnomagia Su questa scia, il videoclip Yes we can è l’apoteosi della riproduzione digitale di Obama. Esso è stato prodotto, non a caso, non da un’agenzia di comunicazione politica ma da Will.i.am, musicista dei Black Eyed Peas, e da Jesse Dylan, figlio di Bob. Nel video compaiono, in un montaggio serrato che non ha niente da invidiare alle creazioni delle grandi major americane, star come Scarlett Johansson, John Legend, Herbie Hancock, Common e Nick Cannon. I cantanti, tramite un caleidoscopio in cui sono remixati in modo fabuloso suoni, parole e immagini, recitano i toccanti passaggi del discorso con cui Obama ha aperto le primarie nel New Hampshire. Il corpo del candidato è gradualmente associato a quello delle star, la sua voce superposta alla loro e tradotta in musiche, sino al momento in cui si giunge a una sorta di confusione tra star e politico in cui è la prima ad esibire il vero volto del secondo, che abdica al fascino della fantasmagoria spettacolare. In questa epifania il corpo di Obama celebra ed è sacrificato ai culti mondani e pagani delle tribù elettroniche. I suoi discorsi sono macinati dal linguaggio tecnomagico e polverizzati in pillole di estetica emozionale che sollevano il pathos e stabiliscono un rapporto mistico in cui gli utenti, Obama e le star si ritrovano fusi in una grande comunione. L’identificazione simbolica è raggiunta per mezzo della condivi-

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sione di sostanze estetiche pregne di elementi affettivi e immaginari. Il contenuto politico tout court è così relativizzato e ridotto a rumore di fondo di tale trance. Le frasi pronunciate dal video contemplato da milioni di persone palpano il cuore dello spettatore, vengono ritmate secondo una scansione che genera prima una partecipazione affettiva e poi un progressivo incantesimo. Il testo fa leva su un uso della rete che privilegia l’aspetto tecnomagico e non-razionale del mezzo. L’utente ha un ruolo limitato nell’interpretazione del messaggio, può solo lasciarsene incantare o rifiutarlo. Obama, le star e il pubblico, compenetrati come sono dal testo tramite la congiunzione di volti, parole e ritmi, divengono all’interno di questa poesia un corpo unico che vibra all’unisono. Con un ritmo sempre più sincopato, si giunge alla ripetizione forsennata di sole tre parole che, come una formula magica, suscitano l’estasi dello spettatore: Yes we can, che anticipa il finale sublime in cui hope si dissolve in vote. Ma qui il volto di Obama non compare più, coperto com’è dagli strati di carne e di bit di cui egli è un’espressione e non l’origine, un interprete e non il regista.

We can change è il ritornello che tambureggia come una formula magica dal sapore estatico nel videoclip Yes we can


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L’identificazione simbolica è raggiunta per mezzo della condivisione di sostanze estetiche pregne di elementi affettivi e immaginari Dall’immaginario al governo Siamo giunti a uno snodo critico delicato e denso di conseguenze: Obama ha incentrato il suo percorso elettorale sull’identificazione del suo corpo politico in primo luogo con quello delle reti, a tal punto da porsi come il primo Presidente espressione della cultura digitale, così come di una molteplicità di figure sociali che hanno trovato una manifestazione privilegiata nella rete senza tuttavia esserne native. Siamo quindi al cospetto di un fenomeno complesso, dove il successo dei blog, dei forum, di YouTube e dei video clip entra in sinergia con una cospicua rivincita, tra gli altri, dei sobborghi metropolitani e della working class. Obama ha indossato il web 2.0 a tal punto da scaturirne in modo spontaneo, naturale, realizzando con esso una sublime dissolvenza incrociata in grado persino di nascondere i tratti più intrinsecamente politici del senatore afroamericano, la sua appartenenza alle élite contro le quali tuttavia la sua candidatura punta l’indice. Marshall McLuhan scriveva negli anni Sessanta che “se il medium è il messaggio, l’utente è il suo contenuto”. La formula luccica in modo lapalissiano di fronte alla configurazione

del web 2.0: sono gli utenti i protagonisti del medium, il loro cuore pulsante, la sorgente simbolica, affettiva e cognitiva – nell’ordine di pertinenza del paesaggio digitale – di ogni sua manifestazione. Obama sgorga da un torrente culturale – da un’onda elettronica e antropologica – di cui non è né il creatore, né il regista, ma un attore: un divo proiettato dalle fantasmagorie del cyberspazio sulla poltrona più nobile di Washington. Dopo l’elezione, dislocato come sarà dai forum della rete agli uffici delle istituzioni, cosa ne resterà di questa origine simbolica? Potrà Obama conciliare lo spirito delle rete con quello dei partiti, delle burocrazie e degli attori economici che ancora reggono e governano il sistema di potere americano? Se è vero che ogni epoca storica configura il proprio sistema politico e di sapere attorno alle proprie basi immateriali – all’immaginario, ai sentimenti e alle relazioni che ordinano la vita quotidiana – e a misura del medium che parla il sentire collettivo, fino a che punto il paradigma politico affinatosi sulle logiche del modello televisivo può soddisfare l’anima e le forme della cultura postmoderna? Sinora Obama ha scelto di lasciarsi trasportare dall’onda elettronica, lasciando sottotraccia in modo sottile i propri tratti più spiccatamente politici. Da questo momento in poi le regole del gioco e gli attori cambiano. Dalla rete già si levano, d’altra parte, mormorii amari rispetto alla selezione di un’équipe di governo che Le Monde non ha esitato a definire in prima pagina “centrista”.

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Lo spirito della cultura digitale e le forme della politica. How can we change? di Vincenzo Susca

Una delle lezioni consegnate dall’ultimo decennio di storia politica è che l’immaginario collettivo può essere sedotto e persino vampirizzato durante le campagne elettorali, mentre le frasi ad effetto e le promesse di felicità disseminate prima del voto si traducono in violenti boomerang nelle fasi di passaggio ai fatti, quando la politica, deludendo le aspettative suscitate, si mostri, dura e cruda, spoglia di tutti i sogni liberati nell’aria, per quello che è. Nell’ambito di questa dialettica il ruolo di Obama rischia di essere limitato, ostacolato com’è, al di là di quale possa essere la sua vera anima, dalla pesantezza del sistema che lo sovrasta alle spalle. Il rischio del tradimento è dietro l’angolo. How can we change?

Vincenzo Susca è docente e ricercatore del CeaQ presso l’Université Paris Descartes Sorbonne. Collabora con l’Università IULM di Milano.

Per approfondire A. Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci. Il crepuscolo dei barbari, Bevivino Editore, Milano, 2009. C. Bardainne, V. Susca, Ricreazioni. Galassie dell’immaginario postmoderno, Bevivino Editore, Milano, 2008. G. da Empoli, Obama. La politica nell’era di FaceBook, Marsilio, Venezia, 2008. M. Maffesoli, La trasfigurazione del politico. L’effervescenza dell’immaginario postmoderno, Bevivino Editore, Milano, 2009. V. Susca, D. de Kerckhove, Transpolitica. Nuovi rapporti di potere e di sapere, Apogeo, Milano, 2008.

Potrà Obama conciliare lo spirito delle rete con quello delle istituzioni e degli attori economici che reggono il sistema di potere americano?

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Mario Pireddu

A more perfect union?

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el settembre del 2008, in seguito a un monumentale lavoro di scansione e digitalizzazione, Google ha arricchito di nuovi contenuti il proprio servizio GoogleNews. Si tratta dei quotidiani statunitensi degli ultimi duecento anni, che Google sta rendendo così disponibili e facilmente accessibili a tutti. Come si legge sul sito: «not only will you be able to search these newspapers, you’ll also be able to browse through them exactly as they were printed – photographs, headlines, articles, advertisements and all». Andando a ritroso nel tempo, anche navigando tramite la timeline dell’archivio, si può ripercorrere gran parte della storia culturale, politica, economica degli Stati Uniti d’America e non solo. È possibile così rileggere, per riflettere sulla recente elezione di Obama alla presidenza e sul lungo percorso della questione razziale negli

Quando Obama parla di “more perfect union”, il suo riferimento è duplice

States, gli articoli sulla morte di Malcolm X, oppure sugli atleti di colore americani che alle olimpiadi messicane del 1968 inneggiano al “black power”, e andando ancora più indietro, al dibattito politico pubblico sulla schiavitù. La rete offre così la possibilità di lavorare direttamente su un patrimonio eccezionale di materiali, a partire dalla consultazione delle fonti dirette. Lo staff di Obama, peraltro, durante la campagna elettorale ha puntato molto sull’utilizzo della rete e dei suoi linguaggi.

GoogleNews dal presente al passato e ritorno Ma c’è una relazione di qualche tipo tra le origini della società americana, il discorso politico e i linguaggi delle reti? In un suo appassionato discorso dal titolo A more perfect union, il presidente Obama ha affrontato di petto la questione delle origini della società americana, parlando esplicitamente di “peccato originale” («this nation’s original sin of slavery»). Nei discorsi di Obama, come nel linguaggio di molti politici statunitensi, le metafore di tipo religioso sono frequenti e continuamente richiamate. Il futuro come nuova frontiera, il richiamo al sentimento di comunione e le aspettative quasi messianiche che hanno caratterizzato la campagna pre-

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A more perfect union? di Mario Pireddu

sidenziale del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti sono tutti elementi che dall’Europa identifichiamo come prettamente ‘americani’, e che mostrano l’inconsistenza delle accuse di antiamericanismo lanciate da alcuni avversari repubblicani verso il neopresidente. Quelle accuse muovevano in modo implicito da un retaggio culturale che vuole l’America come nazione ‘bianca’ o wasp, retaggio culturale che costituisce peraltro il riferimento principale dell’estrema destra americana. Esponenti di questa destra che si richiamano al Ku Klux Klan parlano della necessità di un “ritorno alle origini”, di un Paese fondato da coloni europei bianchi e quindi legato a una specifica cultura, a precisi valori e tradizioni. Sostengono l’impossibilità di una reale integrazione, «perché non si può cambiare la natura delle persone e l’ambiente conta fino ad un certo punto», e soprattutto paventano un futuro in cui «se non cambiamo in fretta, entro quarant’anni noi bianchi saremo una minoranza». Siamo di fronte a due visioni politiche completamente opposte: l’America dell’integrazione (condivisa, anche se in maniera differente, da Democratici e Repubblicani) e l’America del ritorno alle origini. C’è qualcosa però che unisce queste due letture del cambiamento, qualcosa che si può rintracciare nel continuo attingere a elementi religiosi, in una sostanziale assenza di laicità dello sguardo verso il passato e verso il futuro. Un legame che comporta, come si vedrà più avanti, anche una pesante rimozione, paradossalmente – ma neanche tanto – più accentuata nella visione degli integrazionisti. A rileggere i discorsi

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di democratici, repubblicani ed estrema destra, a rivedere i video dell’ultima campagna elettorale, ci si ritrova immersi in veri e propri sermoni infarciti di miti e grandi narrazioni. Quasi che gli unici discorsi davvero in grado di fare presa siano quelli capaci di idealizzare in qualche modo le origini, la storia e l’avvenire degli Stati Uniti.

Più della somma delle parti: “we are truly one” Quando Obama parla di “more perfect union”, il riferimento è duplice: all’unione tra bianchi e neri e all’Unione intesa come la nazione americana, gli Stati Uniti fondati dalle tredici colonie britanniche ribellatesi alla madre patria alla fine del XVIII secolo. Con le parole dello stesso Obama: «this nation is more than the sum of its parts – that out of many, we are truly one». E l’appello del neopresidente, a dispetto delle teorie razziste dei seguaci del nuovo KKK, deve aver fatto presa tra gli americani. Gran parte della cultura americana contemporanea ha a che fare più o meno direttamente con la cosiddetta ‘black culture’, o comunque è figlia di una continua contaminazione; i “coloured” si sono dimostrati sempre attivissimi per quanto ri-

Internet è stata descritta per anni come una nuova terra all’orizzonte, un nuovo mondo, una “nuova frontiera” dischiusa dalle nuove tecnologie


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La Rete non è quella realtà pacificata e armonica in cui la dimensione del conflitto viene riassorbita e neutralizzata

guarda la produzione musicale, artistica, cinematografica, etc. Anche se in alcune zone di certi stati è ancora difficile trovare gruppi ‘misti’ di persone nei bar e nei locali, è facile riscontrare come la maggioranza degli elettori statunitensi abbia abbandonato la concezione dell’americano come ‘bianco’. Furono d’altronde i repubblicani a nominare due afroamericani nel ruolo di segretario di Stato, con Colin Powell e Condoleeza Rice. Ancora con le parole di Obama: «we may not look the same and we may not have come from the same place, but we all want to move in the same direction – towards a better future for our children and our grandchildren». Obama utilizza una metafora legata al territorio, a una nuova frontiera, un cammino da percorrere in comune verso un futuro migliore per gli americani che verranno. Alle origini dell’America come frontiera da conquistare si rifanno anche, in modo meno trasfigurato e più diretto, gli appartenenti a correnti politiche dell’estrema destra. Quel che per la destra si risolve in una identificazione statica tra territorio e cultura (la frontiera conquistata fisicamente equivale alla frontiera culturale e ai valori ‘tradizionali’ dei primi coloni americani), nel discorso democratico diventa una tensione ideale verso una fron-

tiera pacificata ma non più geografica, una frontiera quasi esclusivamente culturale. In quest’ottica, le frontiere geografiche interne non sono più un problema da tempo (mentre si mantengono e si difendono quelle con l’esterno: Mexico, Cuba, etc.); resta il magma delle frontiere e delle barriere culturali, multiformi e continuamente in movimento. Gli sconfinamenti prevalenti dell’oggi sono dunque nei territori dell’economia, della cultura, e naturalmente nei territori digitali.

Il mito della frontiera Non pochi commentatori, infatti, hanno collegato le retoriche del cyberspazio e delle reti al mito della frontiera, mai scomparso veramente dall’immaginario nordamericano. Quanto il tema del cyberspazio sia connesso al mito della frontiera lo dimostrano anche la potenza dell’immaginario d’avventura e la capacità di lavoro evocativo relativo agli spazi sterminati della frontiera: nel romanzo Neuromancer di William Gibson (pubblicato nel 1984), in cui il cyberspazio come concetto assume i connotati che ancora in parte gli riconosciamo, l’hacker protagonista viene definito “cowboy del cyberspazio”. Nell’immaginario americano il cowboy continua a rappresentare la figura dell’uomo che si muove liberamente in territori sconfinati e pericolosi (in italiano, ad esempio, “vaccaro” non è propriamente sinonimo di avventura). Ma si pensi anche a un termine come “rivoluzione”, preso a prestito dalla politica, che viene utilizzato sin dagli anni Novanta del secolo scorso da imprenditori, analisti e studiosi più o

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meno critici delle reti, per descrivere un processo di “cambiamento del mondo” connesso a un allontanamento dalle logiche e dalle pratiche comunicative e produttive precedenti all’avvento della rete. Il sociologo francese Philippe Breton, prendendo in esame gli scritti di diversi “profeti del web”, ha rintracciato nei loro discorsi la «promessa, imbevuta di religiosità, di un mondo migliore sulla Terra», di «una nuova armonia per una comunità umana infine riconciliata con se stessa». Secondo Breton – e in misura diversa anche secondo analisti come Pierre Musso o, per restare in Italia, come Carlo Formenti – Internet è stata descritta per anni come una nuova terra all’orizzonte, un nuovo mondo, una “nuova frontiera” dischiusa dalle nuove tecnologie. Scrive il sociologo: «Più libertà, più lavoro, più ricchezza, più democrazia, più sapere […] la promessa di un mondo a un tempo diverso e complessivamente migliore». Breton ha il merito, pur eccedendo in conservatorismi e rimpianti per il bel mondo che fu, di averci ricordato la genesi delle spesso acritiche quando non entusiastiche teorie della Rete, descrivendo la “mistica della comunicazione” e le insidie della “utopia della trasparenza”. Cambiare il mondo attraverso Internet, equivale dunque nelle teorie sulla Rete a «renderlo più armonioso, implica la rinuncia ai conflitti, alle opposizioni, alla divisione, alla critica, ai giochi di potere». In questa visione, convergerebbero dunque l’eredità della controcultura e «il nuovo establishment liberale nel settore dell’informatica». Pierre Musso, nei suoi studi sulle reti comunicazione, parla del cyber-

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spazio come di una realtà costruita che riscatta l’ordine religioso e lo inserisce nelle tecnologie. Scrive Musso: «dimenticando il territorio, in questo spazio ideale e idealizzato, tutto diventa possibile […] nel cyberspazio le frontiere scompaiono e il territorio fisico si annulla». Tra i tanti esempi, Musso cita Jeremy Rifkin, il quale sostiene che «il passaggio dal territorio al cyberspazio costituisce una delle grandi rivoluzioni dell’organizzazione umana».

Let’s change “Change”, suggeriva dai manifesti e dagli adesivi il volto di Obama durante la campagna elettorale. Il riferimento è naturalmente al cambiamento del partito al governo e della politica di George W. Bush, ma anche a una “more perfect union” tra i cittadini degli Stati Uniti, così come a una sorta di restituzione del potere politico ai cittadini. Ed è proprio su questo punto che lo staff di Obama è riuscito a lavorare al meglio: collegare esplicitamente l’immagine idealizzata del web e le effettive potenzialità liberatrici “dal basso” della rete – con le sue logiche partecipatorie e di user generated content – all’ascesa politica del neopresidente come espressione di una nuova cittadinanza in fermento e non di uno dei due grandi partiti americani con i

Collegare l’immagine idealizzata del web all’ascesa politica di Obama come espressione di una nuova cittadinanza in fermento


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In America la dimensione del conflitto sociale non è scomparsa con l’ultima elezione presidenziale

relativi sponsor. Molta enfasi è stata posta sui milioni di dollari raccolti da Obama grazie ai cosiddetti contributi individuali, ovvero donazioni di singole persone comuni, di attivisti, di gruppi di volontari, etc., quasi in stile “web 2.0”. Ma a osservare meglio i dati non si può non notare il decisivo contributo economico di gruppi della finanza di Wall Street, di industrie farmaceutiche, di potenti studi legali, e soprattutto di aziende importanti alla voce Comunicazioni ed Elettronica. A dispetto della pur efficace campagna elettorale, va riconosciuto che il Partito Democratico americano non è Wikipedia, così come la Rete non è quella realtà pacificata e armonica in cui la dimensione del conflitto viene riassorbita e neutralizzata. Non è il caso di analizzare le prese di posizione sulla effettiva blackness di Obama (David Brooks, columnist conservatore del New York Times, ha scritto che il neopresidente appartiene alla nuova aristocrazia americana ed è più simile a un wasp che alla maggior parte degli afroamericani), anche perché pare che la maggioranza degli afroamericani si senta ora finalmente adeguatamente rappresentata. Quel che è sicuro, al di là della comprensibile felicità in diverse parti del mondo, è che la dimensione del conflitto sociale non è scomparsa con l’ultima

elezione presidenziale. Nei giorni del trionfo di Obama, la comunità gay californiana ha perso il referendum indetto per abolire la legge che permetteva agli omosessuali di sposarsi. Lo stesso Obama si è espresso più volte a favore di riconoscimenti simili ai Pacs francesi, piuttosto che al matrimonio omosessuale.

Il leader e gli elettori Ancora, sui fronti caldi come Iraq, Afghanistan, Iran e Russia, è probabile che l’amministrazione democratica di Obama scontenterà molti dei suoi sostenitori, anche non americani. È probabilmente il prezzo da pagare per una campagna elettorale che nella ricerca di un largo consenso ha caricato di aspettative quasi messianiche il nuovo presidente. Ancora una volta il linguaggio religioso. Nella home page di my.barackobama.com, il portale di una “online community” creata dai Democratici per supportare Obama nella sua campagna, compare una frase del neopresidente: «I’m asking you to believe». Vi chiedo di credere. Ma in cosa? «Not just in my ability to bring about real change in Washington... I’m asking you to believe in yours». Da una parte si suggerisce che con Obama saranno le singole persone ad avere peso e a contare davvero nel cambiamento. Dall’altra, con riferimenti religiosi espliciti, che il corpo del leader rappresenta il corpo elettorale, e in senso figurato l’intera nazione americana. Era stato proprio il senatore dell’Illinois a dire, qualche tempo prima del voto: «This time we want to talk about the men and women of every color and creed who serve together, and fight together, and bleed together under the same proud

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flag». Al tentativo dell’estrema destra di restaurare le differenze razziali e culturali tra bianchi e neri (e più in generale tra i bianchi e tutti gli altri), e alle affermazioni di certi esponenti repubblicani sull’antiamericanismo di Obama, si risponde con la comunione e con la annunciata costruzione di un futuro in cui combattere tutti insieme sotto la stessa bandiera. Nel sito dell’American Nazi Party si leggono frasi riferite ai neri e agli ispanici come queste: “illegal aliens who have invaded our Nation”; “white America will be a total minority in a Nation that was once their birthright!”; “we are White men and women who care deeply for the future of our children in a decadent, corrupt world gone mad. A world where decency is ‘wrong’ – and ‘perversion’ is more than ‘acceptable’ – why, it’s a preferred ‘lifestyle choice’!”, “The Truth is right there in front of you”.

La Luna, un Re e una terra promessa Sono proprio le follie dei neonazisti a consentirci di chiarire ora la natura del paradosso insito nella rimozione cui si è accennato più sopra, e che accomuna la maggior parte delle visioni politiche americane, così cariche di significati religiosi e divinatori. L’assenza di laicità nel politico si concretizza da un lato come chiamata alla reazione paranazista contro la perversione e la corruzione del mondo contemporaneo, dall’altra come invito a credere e a sentirsi parte di una comunità finalmente unita per fronteggiare le insicurezze e le oscurità del domani. Nel primo caso, la riappropriazione del territorio coloniale da parte dei

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bianchi che lo hanno fondato, dall’altra la colonizzazione del futuro visto come nuova frontiera da abitare e a cui dare le proprie leggi. «A President who chose the moon as our new frontier; and a King who took us to the mountaintop and pointed the way to the Promised Land», cantano le persone sulla voce di Obama nel video di Yes, we can. Se allora a funzionare ancora potentemente è la metafora del legame come religio (nell’etimo latino re-ligare, unire insieme), nel primo caso si fa riferimento a una dimensione originaria di comunità, mentre nel secondo si privilegia il modello della comunità online, quasi che queste forme di struttura sociale possano garantire da sole un nuovo (o rinnovato) e forte legame sociale – uno su base razziale, l’altro utopicamente alieno dal conflitto. Qual è allora la rimozione paradossale di fronte alla quale ci troviamo? Seguendo un movimento circolare, è la consultazione di GoogleNews a evidenziarla in modo preciso. Se si sfogliano i quotidiani del XIX secolo, infatti, ci si imbatte di frequente in articoli volti a costruire la figura leggendaria dell’americano “autentico”. Si tratta per la gran parte di testi che esaltano le gesta di coraggiosi ufficiali e dei loro uomini, nella descrizione delle

Credere e sentirsi parte di una comunità finalmente unita per fronteggiare le insicurezze e le oscurità del domani


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Sfogliando i quotidiani del XIX secolo ci si imbatte di frequente in articoli volti a costruire la figura leggendaria dell’americano “autentico” tante aggressioni americane agli accampamenti indiani. Articoli come quelli del New York Times su Little Big Horn, su Sand Creek e su altre battaglie vinte o perdute dall’esercito americano, su aggressioni reciproche tra ‘nativi’ e nuovi padroni, danno l’idea della rimozione pesante che il discorso mitico della frontiera e delle origini opera sistematicamente. GoogleNews ci ricorda che la più grande democrazia del mondo, il paese delle opportunità e delle speranze, l’unico Paese in cui, afferma Obama, la sua storia sarebbe stata possibile, nasce dallo sterminio delle popolazioni native nordamericane, dall’appropriazione delle loro terre da parte dei coloni. Allora il vero “peccato originale”, per usare le parole del presidente eletto, grave come e quanto la tratta dei neri e la schiavitù, è il genocidio degli indiani d’America. Il sorgere di una Nazione sulla violenza colonialista, che non si ritrova in nessun richiamo ai valori fondanti dei primi americani. Lo storico dell’imperialismo Niall Ferguson ricorda che Thomas Jefferson, quando sosteneva che “tutti gli uomini sono stati creati uguali”, era proprietario anch’egli di circa duecento schiavi, e ne liberò solo sette. Nel dibattito politico contemporaneo, nella continua costruzione e ricostruzione dell’immaginario connesso alle origini della Nazione America-

na, a destra come a sinistra si evita accuratamente di ricordare che sulle terre colonizzate dagli Inglesi poi ribellatisi alla madrepatria c’erano già uomini a modo loro liberi. La denominazione di “primitivi” è servita, nella tipica costruzione dell’altro connessa al colonialismo europeo, a rendere gli indiani un ostacolo assimilabile alle forze della Natura, da tenere a bada o da eliminare se necessario. Nonostante oggi l’atteggiamento verso i nativi sia molto diverso da allora, quella visione da antropologia positivista non è mai del tutto scomparsa. Persino il testo di Yes we can, confermando la rimozione, recita testualmente: «it was sung by immigrants as they struck out from distant shores and pioneers who pushed westward against an unforgiving wilderness». Nelle parole così evocative che hanno contribuito all’ascesa di Obama i pionieri sono spinti verso Ovest, verso i limiti sempre nuovi della frontiera in espansione, “contro uno spietato deserto”. L’immagine del deserto rappresenta con una metafora la Natura e le difficoltà affrontate dai bianchi nel colonizzare le terre che appartenevano agli indiani. Che quelle difficoltà concretamente hanno significato muovere guerra agli abitanti di quelle terre, non lo si dice, così come non si menzionano mai i trattati imposti, le riserve, i tassi di alcolismo e suicidio tra gli indiani. Il paradosso è che, se il discorso democratico preferisce rimuovere il vero “peccato originale”, l’estrema destra lo ricorda ma in modo rovesciato, continuando oggi a sostenere assurdamente per i neri e gli immigrati la tesi degli “illegal aliens who have invaded our Nation”. Qualcosa che forse hanno pensato i nativi americani osser-

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A more perfect union? di Mario Pireddu

vando i fucili e le carovane dei coloni inglesi, con dietro gli uomini neri tenuti in catene. Il senso delle parole di Obama, «we are one people, we are one nation» appare dunque rafforzato: è vero, bianchi e neri, sinistra e destra americana condividono una stessa cultura, uno stesso destino. Ma questo implica anche una stessa rimozione, quasi uno stesso senso di colpa, seppur diversamente sublimato.

Democrazia, libertà, opportunità Ancora Barack Obama, nella notte della vittoria elettorale: «above all, I will ask you to join in the work of remaking this nation, the only way it’s been done in America for 221 years – block by block, brick by brick, calloused hand by calloused hand. […] The true strength of our nation comes not from the might of our arms or the scale of our wealth, but from the enduring power of our ideals: democracy, liberty, opportunity and unyielding hope […] This is our time, to reclaim the American dream and reaffirm that fundamental truth, that, out of many, we are one». È di un anno fa la notizia, apparsa velocemente sui giornali, del gesto degli indiani Lakota (tra i Sioux più celebri per via delle figure di Toro Seduto e Cavallo Pazzo, anch’esse avvolte dalla leggenda e dal mito): una loro delegazione ha indicato in un messaggio indirizzato al Dipartimento di Stato che la nazione Sioux si è ritirata unilateralmente dai Trattati conclusi col governo federale americano, alcuni dei quali vecchi di oltre centocinquanta anni. Con le parole di Russell Means, attivista indiano per i diritti umani: «non siamo più cittadini degli Stati

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Uniti d’America e tutti coloro che vivono nelle regioni dei cinque Stati su cui si estende il nostro territorio sono liberi di unirsi a noi». I Lakota definiscono i Trattati «parole senza valore su carta senza valore», giacché «sono stati violati a più riprese per privarci della nostra cultura e delle nostre usanze e per rubare la nostra terra». Uno sguardo laico alle origini e al senso dell’essere americani oggi, allora, al di là delle differenze razziali, dovrebbe ripartire da queste sollecitazioni. Ps: Dove trovare informazioni e contatti per approfondire questi temi? Su YouTube e sul web (http:// www.republicoflakotah.com).

Riferimenti bibliografici Abruzzese, A., Susca V., Tutto è Berlusconi. Radici, metafore e destinazione del tempo nuovo, Lupetti, Roma, 2004. Breton P., Il culto di Internet. L’interconnessione globale e la fine del legame sociale, Testo&Immagine, Torino, 2001. Formenti C., Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Raffaello Cortina, Milano, 2008. Jenkins H., Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007. Musso P., L’ideologia delle reti, Apogeo, Milano, 2007.

This is our time, to reclaim the American dream and reaffirm that fundamental truth, that, out of many, we are one


Tito Vagni tito.vagni@iulm.it

Cittadinanza emozionale Obama: l'happy end più desiderato

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avid Palmer è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America. Eletto nel 2001, dopo aver amministrato il suo Paese, mettendolo al riparo da continui attacchi terroristici, fu brutalmente ucciso con un colpo d’arma da fuoco mentre godeva della vista di Los Angeles dalla finestra del suo appartamento. Non si tratta di uno scherzo. È semplicemente la sceneggiatura di 24, serie televisiva americana di grande successo (con una sorte meno entusiasmante in Italia) che ha costituito un precedente per l’elezione di un presidente afroamericano. David Palmer (Dennis Dexter Haysbert) non è l’unico caso di un inquilino di colore alla Casa Bianca. Prima di lui Morgan Freeman, nel film catastrofista Deep Impact del 1998, aveva dovuto affrontare il pericolo di una cometa che minacciava la Terra dovendo prendere delle decisioni difficili nel ruolo di

Le narrazioni mediali rappresentano oggi il modo privilegiato di conoscere il mondo

Presidente degli USA. Nel film di Roland Emmerich 2012 l’attore Danny Glover sarà chiamato a interpretare un presidente nero eletto alla vigilia della fine del mondo.

2001: David Palmer Presidente La differenza che intercorre tra un film di fantascienza e una serie televisiva è enorme. I film di fantascienza presuppongono una disponibilità dello spettatore alla visione di avvenimenti inconsueti. L’elemento innovativo costituito dal presidente nero ha la stessa forza immaginifica delle macchine che volano, degli alieni che invadono la terra e così via. L’unico vincolo che il film è tenuto ad avere è la coerenza interna. Non è un caso che nelle produzioni cinematografiche è stato introdotto il segretario di edizione, una figura professionale incaricata di controllare che il montaggio non produca salti narrativi che possano spiazzare il pubblico. Lo spettatore è consapevole che un film di finzione lo esporrà a fenomeni, storie e personaggi insoliti e ponendosi alla visione assume questo “rischio”. Ma il patto che stabilisce con il film prevede che la narrazione abbia una logica endogena, che rispetti un codice. Il presidente nero risponde a tale esigenza, senza tuttavia essere un tentativo di annodarsi alla realtà ma-

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teriale. Detto in altri termini, inserendo l’elemento inconsueto del presidente afroamericano in un flusso di altre “stranezze”, la finiction esorcizza quello che mostra banalizzandolo e quindi privandolo di qualsiasi forza predittiva e critica. Lo spettatore ha buon gioco nel pensare che probabilmente gli Stati Uniti avranno un presidente nero quando le macchine voleranno. Nella serie televisiva 24 la situazione è differente. I fatti e le ambientazioni proiettano il telespettatore in una dimensione verosimile che lo induce a riflettere in maniera più attenta sulla coerenza tra il film e la vita reale. Le ventiquattro ore di Jack Bauer, agente del CTU (Unità anti terrorismo) di Los Angeles raccontate in ventiquattro episodi, narrano la giornata di un uomo che mette in mostra fragilità, amori, ansie, gioie e debolezze. Tratti tremendamente comuni legati però ad aspetti più peculiari. L’agente Bauer è un eroe contemporaneo, che carica sulle sue spalle il destino dell’America, senza rassicurare lo spettatore che riuscirà realmente nella sua missione. Bauer è vulnerabile, non è infallibile e gli capita di sbagliare. Contravviene alle regole del suo Paese per combattere i veri trasgressori. Jack Bauer è un eroe dal corpo umano, con una gran voglia di controllare gli eventi da cui è invece inevitabilmente trasportato. 24 è nelle corde della tradizione e della mentalità americana, corrisponde a un canone che lo rende riconoscibile come prodotto culturale a stelle e strisce. 24 racconta tutto quello che ci si aspetta dagli americani, persino un presidente nero. Per questo motivo l’artificio

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retorico del presidente Palmer ha rappresentato qualcosa di più di una provocazione o di una predizione cieca. Ha insinuato nelle menti del pubblico la convinzione che un nero alla casa bianca sia un fatto possibile, perché inserendolo in un contesto che riproduceva in maniera attenta la quotidianità degli americani fatta di ansie, paure, rabbia nei confronti del pericolo terrorista, ha contribuito alla “normalizzazione del nero”. Per questo David Palmer potrebbe essere considerato il primo presidente afroamericano. La sua figura costringe il pubblico a confrontarsi con una situazione potenziale e allo stesso tempo lo sensibilizza a tale ipotesi.

Vite mediate Le narrazioni mediali rappresentano oggi il modo privilegiato di conoscere il mondo. Potremmo non essere mai stati negli Stati Uniti, ma ci sembra nitidamente di conoscerli. Il sistema mediale americano produce un immaginario degli USA che spesso quando voliamo oltreoceano scopriamo incompleto o errato. Ma fin quando non c’immergiamo in questo bagno di realtà, la nostra idea di America è quella veicolata dalle serie televisive, dai film di Hollywood, dai romanzi e dalla musica.

L'elezione di Obama è stato l'happy end più atteso di un sogno collettivo


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La “reputazione” di Obama è legata al suo modo di porsi come un elemento di rottura e di cambiamento

Mai nel mondo si era registrata tanta attenzione per l’elezione del presidente degli Stati Uniti, come nell’ultimo appuntamento elettorale. Il motivo è certamente dovuto al fatto che l’America è una superpotenza le cui scelte politiche si ripercuotono sulla vita di tutti. La nostra esistenza non subisce più in maniera esclusiva le influenze della politica locale ma è completamente esposta ai cambiamenti politici globali. A questo punto nessuno è più nella condizione di dire I don’t care (non me ne importa). A tale motivazione pragmatica se ne accosta una di ordine differente. I giornali, le televisioni, i siti internet hanno iniziato a raccontarci la storia di un giovane senatore nero, il più liberal del senato americano, che si candidava contro la corazzata Clinton. Un uomo con un sogno, to change! Ancora una volta il nostro punto di osservazione sul mondo è stato lo schermo del televisore o del computer e, come accade spesso, siamo stati spinti a prendere parte, a posizionarci, a congiungerci empaticamente con quello che osservavamo piuttosto che giudicarlo criticamente. Quello che scorre sullo schermo è finzione e allo stesso tempo racconto di una porzione di realtà. Il nostro sguardo confuso non distingue tra i diversi generi e i prodotti, classificando tutto quello

che osserviamo sullo schermo e attraverso di esso come una narrazione. Siamo periferici rispetto alla scena, non siamo parti in causa, ma semplicemente spettatori. La complessità dell’articolazione sociale, del resto, ci impedisce di dominare con uno sguardo quello che ci accade intorno e siamo costretti ad affidarci alle narrazioni dei media. Ci siamo appassionati a questo uomo, scorgendo in lui qualcosa di nuovo. Abbiamo iniziato ad adorarlo, immaginandolo come simbolo di un cambiamento radicale. Abbiamo atteso con trepidazione l’esito delle primarie del partito democratico ed abbiamo gioito quando lo abbiamo visto vincere. Poi abbiamo iniziato a temere che gli americani non avrebbero mai votato un presidente nero, che la loro paura avrebbe infranto il nostro sogno. Abbiamo sperato, abbiamo atteso, e alla fine è arrivato il 4 novembre. Mentre si faceva sempre più intensa la notte, spasmodico lo zapping tra le trasmissioni televisive che documentavano la lunga corsa, abbiamo avuto la notizia che Barack Obama era il nuovo presidente americano. L’happy end più atteso, quello che desideravamo e in cui avevamo investito emotivamente. Un brivido ci ha percorsi quando lo abbiamo visto salire sul palco da presidente e pronunciare la frase che aspettavamo change has come to America!.

Siamo tutti americani All’indomani dello schianto dei due boing dell’American Airlines sul World Trade Center, il Corriere della Sera titolava: “Siamo tutti americani”. Nelle ore dell’attentato la breaking

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news della Cnn era “America under attack” e Ferruccio de Bortoli, alla guida del giornale di via Solferino, sentiva che tutta la civiltà era stata attaccata dalla barbarie sfigurata del terrorismo.

Linguaggio digitale Anche il 4 novembre 2008 molti hanno pensato, “siamo tutti americani!” Perché quello che abbiamo vissuto è stato un sogno collettivo che ci ha visto vincere tutti. Barack Obama, il giovane afroamericano, su cui avevamo proiettato le nostre attese e con cui ci eravamo identificati, diventava il nuovo Presidente degli USA. Il suo successo è stato costruito principalmente attraverso l’uso dei linguaggi digitali, dalla raccolta dei fondi avvenuta sulla rete, agli sms inviati ai propri suppoters prima ancora di presentarsi al pubblico di Chigaco e della televisione. Recentemente Manuel Castells, professore all’University of Southern California, ha sostenuto che gli utenti della rete hanno premiato un candidato che presentava degli elementi nuovi, di rottura: Obama era un candidato nero, giovane e fuori dall’establishment. Grazie a queste caratteristiche la sua “reputazione”, (declinazione virtuale dell’affidabilità) era cresciuta al punto da poter aggregare intorno a sé un movimento sterminato che lo appoggiasse. Quello che colpisce è però la composizione della moltitudine alle spalle del candidato democratico. La rete, lo sappiamo, non percepisce i confini nazionali. Tende piuttosto a immaginare la dimensione in cui agisce come uno spazio liscio in cui non sono riprodotte le divisioni territoriali tradi-

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zionali. Così chiunque ha potuto sostenere Obama perché si sentiva vicino al suo progetto, a quello che diceva o semplicemente perché attratti dal suo simulacro. Obama è stato veicolato dai mezzi di comunicazione di massa come qualsiasi altro prodotto dell’industria culturale americana ed è stato consumato avidamente, in una sorta di “cosmopolitismo pop” (Jenkins) che ha edulcorato le distanze e reso insignificanti i posizionamenti geopolitici di ciascuno. Il fenomeno Obama, presidente americano a cui avrebbero voluto dare il proprio voto le genti di tutto il mondo, porta in primo piano la questione degli stati nazionali come stanchi giganti, figli di una geopolitica passata e incomprensibile soprattutto ai netcitizen, poco avvezzi a barriere e confini di qualsiasi genere. La letteratura sociologica dibatte da tempo sul destino degli stati-nazione e sulla cittadinanza, stimolata da fenomeni di grande rilievo come le migrazioni, il consumo globalizzato e il superamento del senso del luogo amplificato dai nuovi media. In senso giuridico il diritto di cittadinanza comporta un combinato di diritti e doveri che sono all’ordine del giorno nell’agenda politica globale. Quello che sembra sfuggire è invece l’aspetto

Obama è stato veicolato dai mezzi di comunicazione di massa come qualsiasi altro prodotto dell’industria culturale americana


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La dimensione del sentire si è affiancata a quella razionale e non è più possibile sottovalutarla

desiderante dell’essere cittadino. Le orde di migranti che abbandonano luoghi di guerra o situazioni sociali disastrate per inseguire il sogno di una vita migliore, così come i tanti giovani che sognano di vivere nel grande set cinematografico che è l’America, immaginandosi protagonisti di quelle serie televisive come Sex and the city, Beverly Hills, O.C., Nip/Tuck, Californication, che li hanno indotti ad amare un particolare stile di vita, identificato come “americano”, riconfigurano la questione della cittadinanza come un aspetto non solo politico-razionale, ma come un elemento onirico ed emozionale. I libri di storia hanno l’abitudine di riportare l’espressione di Massimo d’Azeglio “l’Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli italiani”; uno dei padri fondatori del nostro Paese sosteneva che l’unificazione della penisola non era “in sé” una condizione sufficiente per creare una Nazione. Occorreva sviluppare un “sentire comune” che agisse da collante per unificare soggetti con tradizioni, lingue e culture differenti. Le genti dei regni italici erano chiamate a fondersi, a gioire e soffrire in comune per costituire una nazione. Il “sentire” non è quindi un elemento nuovo nel dibattito sulla cittadinanza, anche se in apparenza sembrerebbe un concetto dismesso. Ridurre la cittadi-

nanza a un semplice puzzle di diritti e doveri, peraltro acquisiti con un vincolo territoriale, sembra la difesa strenua di un mondo che sta per essere sommerso. I tre milioni di utenti di Facebook, connessi in ogni parte del mondo, che hanno voluto sostenere Obama nella sua avventura politica, danno concretezza all’ipotesi secondo cui la dimensione del sentire si è affiancata a quella razionale e non è più possibile sottovalutarla.

Deterritorializzazione Si potrebbe dire con Foucault che la Nazione è una “formazione discorsiva” multipiattaforma, che individua un insieme di significati capaci di strutturare lo spazio sociale, in cui ciascuno mette in pratica differenti strategie di identificazione. La Nazione, che Benedict Anderson aveva definito “comunità immaginata”, nata con i romanzi e i giornali, viene sabotata dai linguaggi digitali che avviano un processo di deterritorializzazione in cui viene a mancare il legame finora inscindibile tra luogo e azione. Lo spazio fisico perde la centralità che gli era tributata in favore di un nuovo territorio transnazionale che si esplora in qualità di produttori e consumatori globali e non più come cittadini. Essere cittadino significa sentirsi parte di una comunità di destini, e se nel passato il destino di ciascuno era simile a quello del proprio vicino di casa con cui si condividevano la lingua, la posizione sociale, la fede e i tratti fisici, oggi possiamo fuoriuscire da questa traiettoria obbligata e sentire propria una terra che i nostri padri non hanno mai calpestato, co-

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municare con una lingua che i nostri padri non conoscono, odiare gli spaghetti al dente, e avere Barack Obama come presidente.

Tito Vagni è dottorando di ricerca in Comunicazione e nuove tecnologie presso l’Università IULM di Milano e in Sciences Humaines et Sociales preso l’Université Paris Descartes, Sorbonne. Si occupa di cultura pop, immaginario politico, nuovi media.

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Bibliografia Abruzzese A., Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Bevivino Editore, Mlano, 2009. Castells M., La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2002. Jenkins H., Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007. Marramao G., Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Genova, 2000. Susca V., de Kerckhove D., Transpolitica, Apogeo, Milano, 2008.


Guerino Nuccio Bovalino nucciobovalino@hotmail.com

L'ultima chance della fantasia. Supereroi e politica negli USA

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‘eroe McObama: il medium è il corpo. Il corpo è stato al centro del dibattito americano preelettorale, così è già avvenuto per le elezioni in Francia e in Italia. Alberto Abruzzese, attualizzando il pensiero di McLuhan, afferma che il medium è il corpo, che vi è perciò un’equivalenza tra forma espressiva e contenuto. L’evanescenza del messaggio parlato in epoca virtuale e mediatica trova sostanza incarnandosi nel viso e nella fisicità di McCain e Obama: sul viso sfigurato del vecchio soldato di guerra e nel colore della pelle del democratico, nelle braccia del senatore repubblicano parzialmente provate dalle torture subite durante la prigionia in Vietnam e nella postura elegante e hollywoodiana del democratico. È ben manifesta in entrambi la capacità di inglobare ogni tipo di mitologia, motivata dal tipo di comunità policultu-

La cultura politica americana dell’epoca Bush nasce dall’attualizzazione di Platone, Machiavelli e Strauss

rale e polisemantica che l’America incarna. I candidati sono entrambi dei “supereroi”. Interpretano l’essenza della missione americana: salvare il mondo e propugnare il credo dell’uguaglianza, oltre ogni differenza di religione o razza. La religione è stata appunto al centro della campagna di entrambi. Obama è il predicatore di una teologia privata, una spiritualità da proiettare nella società. McCain ha edulcorato la propria laicità scegliendo come potenziale vicepresidente Sarah Palin, simbolo di una religiosità invece esogena, inglobante, nella quale sfera pubblica e privata coincidono, in un fideismo che è messaggio salvifico e funzionale ad un vivere sociale civile. McCain è l’eroe della continuità, di una battaglia perpetua di cui si fa carico l’America, Obama è l’eroe di un nuovo progetto morale ed esistenziale. Un parallelo mediologico potrebbe essere tra i due candidati con le due generazioni diverse dei supereroi massmediatici americani. I primi supereroi apparsi erano insigniti di tale ruolo fin dalla nascita. Predestinati ad essere le sentinelle del bene. È il caso di McCain, il cui patriottismo si consuma come difesa identitaria e irrazionale, istintiva. Gli eroi di seconda generazione sono persone comuni che venendo in-

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L'ultima chance della fantasia. Supereroi e politica negli USA di Guerino Nuccio Bovalino

vestiti da un evento casuale e traumatico, assumono superpoteri e la conseguente identità eroica, loro malgrado. McCain come Superman, nasce a Krypton-Usa, con l’innato compito di lottare per la giustizia e per la propria nazione, Obama è l’estraneo che prende coscienza razionalmente del suo ruolo profetico e successivamente gestisce il fattore discriminante del suo colore come motivazione esistenziale.

Archeologia dell’immaginario neocon Gli anni di Bush sono considerati l’attuazione di un programma ideologico definito neoconservatorismo, che con il tramonto dell’era Bush è ipotizzabile abbia esaurito il proprio impulso, o forse riuscirà a reinventarsi come corrente interventista accanto ai “vecchi” democrats clintoniani, con cui molti neocon sono stati in sintonia negli anni della guerra balcanica. Coloro che sono stati definiti neoconservatori hanno solo successivamente accettato questa etichetta. Riconoscendo di essere una corrente culturale vicina ai repubblicani, essi hanno spesso ribadito un’originaria appartenenza alla sinistra liberal statunitense di fine anni Sessanta. Si definiscono liberal assaliti dalla realtà. I neocon accusarono i vecchi compagni di sinistra, da cui si allontanarono, di istinti estremisti e utopistici, a lungo andare dannosi per il sistema americano, di cui non si doveva mettere in discussione il dna liberale accanto alla pur opportuna politica solidale tipicamente progressista. Il credo dei neocon è l’assunto che il compito degli Usa è

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di esportare la democrazia nel mondo ad ogni costo, in ragione di un investimento divino che li responsabilizza messianicamente. La loro influenza intellettuale, come direbbe il sociologo Goffmann, si è consumata nel retroscena, lasciando il ruolo di primo attore a Bush. Nel pensiero neocon molti scorgono tracce della filosofia di Strauss, di cui i neocon hanno adottato l’arte della reticenza nel discorso politico, per una gestione efficiente della politica di uno Stato. Altri hanno contemplato nella loro ideologia una rivisitazione del pensiero platonico. Le assonanze con il filosofo greco trovano veridicità nell’attuazione neoconservatrice del suo concetto di filosofi re, che nella Repubblica ideale di Platone avrebbero dovuto costruire il pilastro decisionale dell’intero sistema. I neocon hanno rappresentato pienamente tale concetto, avallando un’aristocratizzazione della politologia. Il discorso politico diviene elitario e machiavellico quando si evince il diritto-dovere di nascondere alcune verità se ciò può giovare al funzionamento della società. Il circolo degli intellettuali vicini al capo, per salvaguardare il popolo stesso, lo tiene tenuto all’oscuro dei veri fatti, poiché lo ritiene incapace di razionalizzarli.

L’urgenza del vissuto sociale è il tessuto che costituisce le comunità e i network della rete


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Obama è l’interprete dell’ultima utopia democratica globale, all’ombra delle postdemocrazie

I supereroi neocon nascondono la propria identità, come molti eroi dei fumetti mantengono l’anonimato per evitare di banalizzare la propria figura eroica, o ancor peggio mettere in pericolo la propria vita nei momenti in cui sono cittadini comuni e desacralizzati. I neoconservatori si annidano silenziosi, studiando la società e le sue dinamiche geopolitiche e culturali. Rinchiusi nei sotterranei di Gotham City, individuano strategie di contrasto dell’Asse del Male. I neocon escono dall’anonimato, per difendere l’America e conseguenzialmente il Mondo. Si passa da un livello personale a uno pubblico, si pubblicizza l’individualità. Gli Usa trasfigurano essi stessi uno Stato-supereroe fatto di singolarità eccezionali, che mette a disposizione della comunità mondiale la propria forza, pubblicizzando le proprie qualità private. L’ONU e le organizzazioni internazionali risultano un intralcio burocratico, frutto di una buonista democratizzazione decisionale che finisce per mediocrizzare l’azione mondiale. Batman nella sua azione anticrimine si trova ad essere egli stesso catalogato come criminale per i suoi metodi poco ortodossi, funge così da eroe e antagonista. La polizia lo bracca, come l’ONU vigila sugli

Usa, ma il Batman-neocon elude i controlli e machiavellicamente si applica per difendere la giustizia nel mondo con metodi più efficaci di quelli democratici e politicamente corretti dei burocrati di Gotham City e del “Palazzaccio di Vetro”. Il Messia America risente di una forte connotazione religiosa. Tocqueville già nel secolo scorso esaltò la forte religiosità del popolo americano come fattore di moderazione e stabilità dell’intera società. Oggi i teocon, neocon nella loro declinazione religiosa e tradizionalista, sono gli attuali testimoni di tale aspetto culturale. I teocon considerano, come Toqueville, fondamentale per la società proteggerne moralità e valori: questi convergendo con il paganesimo da eroi Marvel dei neocon danno il senso del messianesimo americano. Già Reagan affermava che l’America venne investita direttamente dal nostro Dio di un ruolo salvifico fin dalla propria nascita. Nella manipolazione informazionale dei neocon c’è la rivelazione della verità al popolo solo a posteriori, così come la religione si rivelò al mondo terreno in seguito alla controversa e drammatica avventura del Cristo in terra. La stessa America ha suggestioni storico-immaginarie con Cristo, poiché con la scoperta del Nuovo Mondo si apre uno scenario simile alla “natività”: scoperta (o scopertasi) quando la storia aveva già visto succedersi millenni di vita, così la nascita di Cristo non coincide con la nascita del Mondo, ma entrambi gli avvenimenti spezzano il vissuto in una zona liminoide e dalla quale niente sarà come

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prima. Le frontiere si aprono all’inatteso che diviene profeta screditato e solo a posteriori riconosciuto. La cultura neocon è l’ideologia di una missione eroica e messianica: il sacrificio dell’America per il mondo. Privilegio e Responsabilità.

Utopie dal non-reale La vera diatriba culturale fra repubblicani e democratici è nella differente modalità politica con cui massimizzare il sistema democratico ed il benessere economico e sociale dell’America e del Mondo. Potremmo definire entrambe le metodologie come utopie dal non-reale. Nelle ultime elezioni Obama ha vinto la scommessa di affidare la propria campagna alla potenza moltiplicatrice della rete, alimentando una sorta di populismo postdemocratico. Negli ambienti intellettuali mediologici postdemocratici si scorge la “realtà” e l’urgenza del vissuto sociale soprattutto nella virtualità del web. Le nuove forme di partecipazione al dibattito politico culturale che costituiscono i cybersoviet (Carlo Formenti, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, 2008, Raffaele Cortina Editore), comunità e network della rete, cercano di influenzare il reale costituendosi come cyberindividuo collettivo materializzatosi dal virtuale. Nella (ir)realtà mediata e quindi modellata dai media, si trovi lo stesso antidoto per difendere l’essenza umana, la vita umana nella sua armonia. Tracce del creatore nell’opera che gli consentono di riportarsi in vita. I media ed i new media inglobano l’attività e l’esperienza umana inizialmente atte-

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nuandone l’essenza, ma a posteriori facendone risalire i tratti salienti in superficie. E se il post-umano fosse un purgatorio dell’umano? I neocon utilizzano la tattica della comunicazione reticente e relativa diffusione di realtà prestrutturate, funzionali all’obiettivo di democratizzare la Realtà sociale mondiale. La reticenza neocon è un atto dovuto nell’incapacità della massa di riconoscere il profeta. Solo a posteriori vi sarà riconoscenza e legittimazione. I neocon sostengono, a conferma di questa tesi, che la valenza storica dell’operato dell’amministrazione Bush godrà di un adeguato riconoscimento solo in futuro, a seguito di una rilettura storica priva di pregiudiziali ideologiche e politiche. Entrambe le metodologie, Neocon e Obamiana, profetizzano il realizzarsi dell’utopia democratica nel nonreale, come luogo immateriale (cyberspazio) i primi, come alterazione necessaria del reale gli altri (reticenza e falsificazione positiva).

La convergenza delle utopie: Obama, l’impero e le moltitudini Bisogna chiarire come gli USA rappresentino una realtà unica, che si produce in dinamiche incomprensibili se analizzate con metodi di po-

Nella società americana si compie il miracolo immaginifico della covergenza di visioni neoplatoniche e di utopie postdemocratiche e messianiche


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Dopo la vittoria Obama fa inviare un messaggio ad ognuno dei suoi elettori: sms e mail individuali per ringraziare una moltitudine di singolarità litologia obsoleti e provinciali. Nella società americana si compie il miracolo immaginifico della convergenza di visioni neoplatoniche e di utopie postdemocratiche e messianiche. Nella misura in cui Obama rappresenta l’urgenza del popolo internazionalista, democratizzazione globale grazie ad Internet, è certo che il nuovo presidente sarà guidato da una visione pragmatica, realista e attenta primariamente alla prosperità degli USA, non nella mala fede ma nella necessità di preservare il proprio sistema economico-sociale funzionale alla loro missione messianica. Obama dovrà dare peso ai suoi nuovi filosofi re, cercando un dialogo con gli intellettuali che hanno segnato l’azione politica americana nell’ultimo decennio, molti dei quali non hanno reali collocazioni politiche, ma sono solo fedeli al proprio credo, intercambiabile nell’incoerenza apparente di una coerenza fattiva ed efficiente. Obama è Don Giovanni nella sua mixture di culture ed identità, è Dracula nel momento in cui egli si autorappresenta come immagine viva di una cosa morta, è cioè l’hinc et nunc di quelle lotte alla segregazione razziale e relativi eroi. Durante la diretta della Cnn il giorno delle elezioni, alcuni giornalisti in collega-

mento da sedi esterne sono apparsi in studio sotto forma di ologramma, ed al momento dell’elezione ho creduto potesse apparire anche l’ologramma di Martin Luther King, sanzione definitiva, apice fantasmagorico. Obama è il presidente che incorpora l’attesa, l’atteso e l’inatteso. Il fascino di Obama è reazione al surplus di brutto che i nostri tempi vivono. L’esteriorizzazione eccessiva del brutto e del tragico hanno saturato l’individuo. L’arte e le forme estetiche sono state costrette ad incarnare la drammaticità della vita, raccontandone gli aspetti degradati e non decantandone il bello. Tale ideologia nasce per impedire che l’uomo-consumatore-fruitore si alieni nel culto del bello, che è consolatorio, illusorio ma una rimozione non funzionale al suo impegno sociale. Questa violenza intellettuale, tale sovraesposizione del tragico, queste massicce dosi di iperrealtà, hanno trovato l’antidoto Obama, perfetta sintesi di bellezza classica e futuribile, in cui armonia fisica e morale sembrano esplodere silenziose: egli è un corpo erotico. Obama, l’istante dopo la vittoria, fa inviare un messaggio ad ognuno dei suoi elettori: sms e mail individuali sui network sociali di internet che lo hanno sostenuto, volendo ringraziare non una folla indistinta, ma una moltitudine di singolarità. Obama nel suo mandato dovrà riuscire a coniugare le diversità, e guidare le strutture sovranazionali che in un mondo globalizzato hanno il preciso compito di dare risposte globali. Una commissione Attali in prospettiva internazionale, che offra una vi-

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L'ultima chance della fantasia. Supereroi e politica negli USA di Guerino Nuccio Bovalino

sione concreta di dove e come agire. Il vero nodo è volersi far carico di un problema di decisionismo e di vera democrazia nelle strutture globali esistenti come l’ONU, vittime di giochi di potere, di presunte corruzioni e ambiguità sostanziali oltre che di forma. I filosofi re planetari hanno l’opportunità di mettersi alla corte dell’imperatore Obama, nodo (fisico e

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virtuale) di congiunzione e mediazione con le moltitudini, classi creative e trasversali, minoranze etno-culturali, che hanno sacrificato la propria vocazione antipolitica per una nuova scommessa utopica, in bilico fra neodemocrazia e postdemocrazie. L’ultima loro illusione di burocratizzare le speranze e infondere emotività e fantasia rigeneratrice nelle burocrazie.


Federico Tarquini federico.tarquini@iulm.it

La via americana all’estremismo politico

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l termite terrorismo ha un significato fondamentale nella storia recente degli Stati Uniti. Non è ardito sostenere che questo tema sia stato l’alfa e l’omega dell’ultima amministrazione presidenziale, e che abbia drammaticamente caratterizzato, nel bene e nel male, la figura e il giudizio storico su George W. Bush. Gli attentati alle torri gemelle del settembre 2001 rappresentano uno snodo fondamentale per comprendere tutte le recenti scelte politico-economiche adottate dagli Stati Uniti sia in materia di politica interna, sia, e soprattutto, per ciò che concerne il loro posizionamento nello scacchiere internazionale. Contro il terrorismo sono state intraprese due guerre, molti giovani militari hanno perso la vita, migliaia di civili sono stati vittime dei conflitti armati. Nell’immaginario americano, ma è bene allargare il campo a tutte le popolazioni cosiddette occidentali, il

Il terrorismo è entrato nel nostro immaginario come massimo grado d’incertezza tra noi e il nostro vicino

terrorismo rappresenta oggi la paura principale. Esso è il pericolo che giustifica tutte le misure di restrizione della libertà personale che da quel disgraziato pomeriggio sono state adottate. Il terrorismo è perciò entrato nel modo di percepire il mondo che ci circonda come massimo grado d’incertezza tra noi e il vicino che ci siede accanto su un aeroplano o su un treno, marcando un mutamento di atteggiamento soprattutto nel vivere gli spazi sociali. Un dato su tutti qualifica l’iperbolica barriera che il terrorismo è riuscito ad abbattere: per la prima volta gli Stati Uniti sono stati attaccati da una forza straniera dentro il proprio territorio. Con le Torri Gemelle è crollata anche la totale invincibilità di cui l’America aveva sempre goduto. Tale avvenimento ha reso drammaticamente attuali le conseguenze collaterali (come la riduzione delle distanze fisiche ) del progresso scientifico-industriale, pietra angolare del primato statunitense sul resto del mondo, che per decenni preservò il territorio americano dal cuore dei conflitti bellici. Questo aspetto, legato al suo primato industriale, concesse agli Stati Uniti, almeno fino all’esaurirsi del Ventesimo secolo, la capacità di presentarsi di fronte a qualsiasi avversario come un gigante, o come una superpotenza (termine del tutto

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La via americana all’estremismo politico di Federico Tarquini

pertinente e con una netta sfumatura hollywodiana).

Terrorismo e immaginario collettivo L’impatto devastante di questo nuovo terrorismo ha ridefinito i contorni di un fenomeno per decenni interpretato come derivazione classica delle tradizioni politiche moderne, all’interno, perciò, di una storia delle idee del tutto “nostra”. La forza d’urto di Al Qaeda ci ha fatto scordare decenni di conflitti interni che hanno caratterizzato le cronache recenti di quasi tutti gli stati occidentali. In Italia gli anni di piombo portano ancora dietro di sé strascichi penosi, stragi mai risolte, segreti di Stato e tutto il peggio che la nostra cultura ha espresso da quarant’anni a questa parte. Eppure se è possibile accostare un simbolo al termine terrorismo e inquadrarlo nel nostro immaginario, siamo certi che anche nel nostro paese, certamente distante dal cuore dell’impero americano, ciò significhi terrorismo islamico. Con un punto di vista storico questo mutamento intercorso nella percezione collettiva potrebbe rendere arduo contestualizzare il fenomeno in un processo che mantenga dei tratti unitari. Per molti aspetti ciò è innegabile. Domandarci se si possa trovare una “via americana all’eversione armata”, o una caratteristica, seppur nascosta, che riconduca tutte le forme di eversione statunitense ad una medesima matrice culturale, a questo punto appare arduo. A ben vedere siamo però convinti che possa essere un’operazione fattibile, e perché no?, persino utile. “At a tumultuous meeting of anti-

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Vietnam War militants at the Chicago Coliseum in 1969, Bill Ayers helped found the radical Weathermen, launching a campaign of bombings that would target the Pentagon and United States Capitol. Twenty-six years later, at a lunch time meeting about school reform in a Chicago skyscraper, Barack Obama met Mr. Ayers, by then an education professor. Their paths have crossed sporadically since then, at a coffee Mr. Ayers hosted for Mr. Obama’s first run for office, on the schools project and a charitable board, and in casual encounters as Hyde Park neighbors. Their relationship has become a touchstone for opponents of Mr. Obama, the Democratic senator, in his bid for the presidency. Video clips on YouTube, including a new advertisement that was broadcast on Friday, juxtapose Mr. Obama’s face with the young Mr. Ayers or grainy shots of the bombings.” Con questa introduzione lo scorso quattro ottobre sul New York Time Scott Shane apriva il suo lungo articolo sul rapporto di conoscenza tra Barak Obama e Bill Ayers, ex leader dei Weather Underground. Mesi prima, precisamente il diciotto aprile, sul Washington Post Peter Slevin spiegava: “Sen. Hillary Rodham Clinton’s campaign picked up on the connection to suggest skeletons in Obama’s closet. On

L’impatto devastante del nuovo terrorismo ha ridefinito un fenomeno da sempre figlio delle tradizioni politiche moderne


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I Weather Underground sono stati l’esperienza terroristica più vicina a quelle realizzatesi in Europa

Wednesday night in a televised debate with her rival, Clinton (N.Y.) mentioned it as ‘an issue that certainly the Republicans will be raising’". In questo caso lo spettro che viene agitato contro Obama è una sua presunta connivenza con uno dei protagonisti dei Weather Underground, formazione eversiva che durante gli anni Settanta si rese protagonista di molteplici attentati.

Weather Underground: il terrorismo rosso americano Dall’armadio del nuovo presidente degli Stati Uniti spunta fuori lo scheletro dei Weathermen. Che cosa ha rappresentato e come si colloca la storia dei Weather Underground all’interno del terrorismo americano è un tema di notevole interesse, nonché ottimo elemento di paragone per rintracciare un tratto costante tra le tante forme di terrorismo sviluppatesi negli Stati Uniti. Ci serviremo, per sostenere tale ipotesi (in altre parole la ricerca di una specificità “americana” nel suo terrorismo), proprio della vicenda che sembra non rispettare il nostro punto di vista. I Weather Underground sono stati l’esperienza terroristica più vicina a quelle realizzatesi in Europa. La più simile alle forme nostrane di banda armata, che hanno caratterizzato tutto il decennio dei

Settanta nel vecchio continente. Vorremmo sostenere ciò perché crediamo che molte assonanze possono essere riscontrate nelle vicende storiche che ne hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo, altresì nelle pratiche di guerriglia, nell’organizzazione del gruppo e nel credo politico che ne armò la mano. I Weathermen furono una delle evoluzioni del movimento giovanile e pacifista degli anni Sessanta. La fase embrionale del gruppo si ebbe durante la stagione di protesta contro la politica estera degli Stati Uniti, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta. Tutti i protagonisti di quella stagione, dopo essere stati leader carismatici delle occupazioni nelle università e punti di riferimento del movimento pacifista, maturarono la convinzione di un necessario uso della violenza per combattere il sistema. Per un singolare scherzo del destino Bill Ayers dichiarò in un’intervista, apparsa sul New York Time l’undici settembre del 2001, di non rinnegare l’uso dell’esplosivo come forma di lotta. Il gruppo assunse ben presto la forma della minoranza armata e rivoluzionaria, organizzandosi secondo uno schema rintracciabile nelle classiche tesi leniniste sulla guerra rivoluzionaria. I Weathermen furono protagonisti di un’incredibile successione di attacchi esplosivi, che visse il suo momento più alto negli attacchi dinamitardi al Pentagono e al Campidoglio di Washington. Con la fine della guerra nel Vietnam la spinta rivoluzionaria dei Weathermen si esaurì. L’impossibilità di rilanciare la propria proposta politica, una volta raggiunto l’apice con

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La via americana all’estremismo politico di Federico Tarquini

le bombe al Pentagono e a Washington, indirizzò la parabola dei Weather Underground verso un lungo periodo di decrescita. I protagonisti si rinchiusero in una latitanza coatta che di fatto segnò la fine del movimento.

La sconfitta dei weathermen e la vittoria dello “stile” La fine dei Weather Underground è pressoché identica al declino di altri movimenti europei, ad esempio le brigate rosse; essa è cioè rintracciabile nella crisi inevitabile patita in quegli anni in senso più generale dalla controcultura giovanile. Declino provocato dalla progressiva impossibilità di porsi in una posizione dialettica nei confronti di una cultura dominante delineata e riconoscibile, o di fare quel definitivo salto di qualità che sarebbe dovuto coincidere con il coronamento del loro progetto politico: la presa del potere. Solo grazie alle classiche schermaglie elettorali americane la storia dei Weathermen è riemersa sulle colonne dei maggiori media statunitensi, funzionando solamente come cartuccia mediatica da sparare al momento appropriato, altrimenti sarebbe rimasta sepolta in un passato che non provoca più nessun tipo di sentimento. È stupefacente notare come Brian Flanagan, uno dei protagonisti dei Weather Underground, dopo tutte le lotte intraprese e i lunghi anni di latitanza, oggi sia il pacioso proprietario di un bar a Manhattan, e sia ritornato agli albori delle cronache grazie alla vincita di 23.000 dollari dovuta alla partecipazione a Jeopardy, popolare quiz televisivo statunitense. Aver raccontato questa storia, spe-

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cialmente il declino e l’oblio in cui oggi sono caduti i Weather Underground, ci serve per riprendere le fila della nostra riflessione e soffermarci su quel tratto comune che ha sempre caratterizzato l’eversione statunitense. A questo punto saremmo obbligati ad allargare il discorso a tutte le forme di controcultura che si sono succedute negli Stati Uniti, poiché il legame storico tra eversione e controcultura è pressoché ineludibile. Ciò richiederebbe uno sforzo troppo esteso, e a ben vedere non è questa la sede per intraprendere tale esercizio. Ci serviremo, pertanto, del nocciolo vitale della controcultura americana: il ribaltamento del “senso comune” e della scala dei valori impersonificata dai rappresentanti delle istituzioni statunitensi. Tanto si potrebbe scrivere sulla cultura americana. Ci limitiamo tuttavia qui a porre la nostra attenzione su uno dei suoi aspetti principali che è stato definito da Theodore Roszak come “tecnocrazia”. Nel 1968, nel suo saggio Nascita di una Controcultura (Feltrinelli, 1971), il sociologo americano rifletteva sull’impossibilità di trovare “un’altra analisi in grado di fornire il senso dei più importanti sconvolgimenti politici degli ultimi decenni, se non quella che oppone

L’antagonismo americano ha da sempre contrapposto al potente di turno l’alternatività del proprio corpo


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L’attacco alle Torri Gemelle ha completamente mutato la percezione immaginaria intorno al fenomeno terrorismo

una minoranza militante di giovani dissenzienti alla pigra politica, ispirata al consenso e alla coalizione, dei loro compatrioti più anziani delle classi medie. Questa dicotomia tra generazioni costituisce un fatto nuovo nella vita politica, ed i giovani europei si sono dimostrati più riluttanti ad accettarlo che non quelli americani. Gli eredi di una istituzionalizzata eredità di sinistra, i giovani progressisti europei, hanno ancora la tendenza a considerarsi paladini del popolo contro l’oppressione della borghesia. Di conseguenza si sforzano ai moduli familiari del passato. […] Paradossalmente sono i giovani americani, con la loro inadeguata preparazione ideologica di sinistra, che sembrano aver compreso più chiaramente di tutti il fatto che la lotta principale dei nostri giorni viene condotta contro un avversario molto più agguerrito perché molto meno palese, quello al quale do il nome ‘tecnocrazia’”. Tale distinzione non è da sottovalutare poiché rimarca quella caratteristica che ha permesso alla cultura americana di perdurare nel tempo e d’irradiarsi in tutto il globo. Ciò che ha sempre contraddistinto l’antagonismo americano è un “modo diverso di abitare il mondo”, non solamente un modo alternativo di intendere i rapporti di forza in seno all’organizzazione socio-economica dello stato.

Lo stile di vita come tratto comune Tale discrasia può essere sintetizzata come differenza tra “presenteismo” del vissuto e visioni ideologiche di un futuro tutto da conquistare, tra sentire e vedere, tra esserci e dover essere. Questa sfumatura ci chiarisce il motivo per cui la cultura americana gode, ancora oggi, di un primato che non può essere interpretato solo grazie ad analisi economiche. La particolare composizione sociale degli Stati Uniti, il suo melting pot, ha creato nei secoli conflitti interni che sono maturati in forme d’antagonismo incentrate su peculiarità legate alla persona e in un secondo momento alla condizione sociale. Le black panthers, i figli dei fiori, i fondamentalismi religiosi di destra, il Ku Klux Klan, fino ad arrivare alle ultime e più raffinate forme di dissenso quali hackerism, crackerism e il terrorismo islamico, condividono nella loro stupefacente diversità tale costante. Tutti questi esempi si posizionano all’interno di una dinamica controculturale, e non dentro una dialettica politica nel senso classico del termine. In essi si è avuto un ribaltamento del rapporto verticale tra idee e azioni, capace di sedimentarsi nel costume americano e quindi di sopravvivere nel tempo. Ciò ha forzato le barriere della dialettica proprio in quanto istanza sensibile di uno stile di vita, che mette im primo piano sempre l’azione rispetto alle categorie assolute. Essendo declinazioni di particolari stili di vita, le eredità di questi fenomeni resistono nella società americana anche dopo la loro estinzione formale. Spesso tali lasciti hanno ali-

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mentato la rigenerazione del sistema di dominio americano, funzionando come spunti perfetti per creare e ricreare i flussi mediali che sempre di più sono il territorio in cui si esercita tale dominio. Quando l’espressione di dissenso nei confronti della cultura dominante combacia con la propria pelle, parte da essa, si manifesta in uno stile estetico ed esprime una scala di valori antagonista a quella istituzionale partendo dal vissuto quotidiano delle persone, il perno di tale rivolta deve essere rintracciato nella nuda vita. In altre parole “essere antagonista” indica appunto un esserci nel mondo, una presenza hic et nunc caratterizzata dall’essere nero, o dall’avere i capelli lunghi e praticare l’amore libero. L’antagonismo americano ha da sempre contrapposto al potente di turno l’alternatività del proprio corpo: è quest’ultimo il tratto comune che attraversa molte delle forme di eversione politica e di controcultura di cui si sta discutendo. Prova ne è proprio l’attacco alle Torri Gemelle che ha completamente mutato la percezione immaginaria intorno al fenomeno terrorismo, e nonostante ciò ha

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ribadito di nuovo la centralità del corpo in tale ambito. Tutte le simbologie intorno al termine terrorismo sono state ricreate generando una nuova scala di significati, di potenziali pericoli, impersonificata nei tratti somatici ed estetici dell’islamico, da lì in poi icona del terrore. Questo grazie ad un attacco terrorista realizzato tramite l’auto-annientamento del corpo stesso degli attentatori. In quell’episodio, icona indelebile del nascente nuovo millennio, tutta la tradizione americana, i suoi conflitti etnici e controculturali, la sua qualità non-nativa di popolo e stato-nazione, ha funzionato come detonatore per un’esplosione di fatto capace di sintetizzarla e al tempo stesso di esaurirla, e di causare un nuovo inizio. Federico Tarquini svolge un dottorato di ricerca in cotutela presso l’Istituto di Comunicazione dello IULM di Milano, e presso il Ceaq dell’Università Descartes Paris V “La Sorbonne”. Prepara una tesi diretta da Alberto Abruzzese e Michel Maffesoli sul rapporto tra estremismo politico e società delle reti.


Fabio La Rocca flr@ceaq-sorbonne.org

Pratiche ed esperienze del Cruising nel territorio urbano americano

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el rapporto con il mondo sociale, la città è senza dubbio il laboratorio della nostra esperienza di vita dove l’individuo dispiega le pratiche quotidiane che danno un senso al sé e alla società nel suo complesso. Nell’osservare e pensare lo spazio urbano americano, che da sempre affascina e alimenta il nostro immaginario, la mente e lo sguardo ci conducono a evidenziare comportamenti e azioni che, nel complesso, definiscono una cultura. In questo senso, la nostra osservazione si dirige verso gli sconfinati spazi delle megalopoli contemporanee, di quel suburbio che costituisce l’essenza del mondo urbano caratterizzato da uno sconfinamento del territorio. In altre parole, siamo di fronte ad un passaggio dallo spazio chiuso del centro all’universo infinito del suburbano. Nel contesto americano, la ten-

Nel territorio urbano americano l’uso dell’automobile diviene una pratica esistenziale

denza dell’attuale trasfigurazione della geografia urbana ci porta a considerare delle specifiche forme e stili di vita che connotano in maniera particolare il divenire stesso della città. L’estensione senza limiti del territorio urbano genera di conseguenza dei dispositivi esistenziali che cambiano l’universo delle pratiche cittadine. Queste ultime, in effetti, determinano su un piano pratico e simbolico la sostanza stessa di una città, ne definiscono le caratteristiche, la connotano e la animano. In un’analisi della città, quindi, le pratiche urbane si sostituiscono ai concetti nel determinare le tendenze fondamentali della vita urbana e culturale dalla quale emergono particolari forme di vita, tracce distintive dell’esperienza vissuta dall’individuo che, nelle trame della rete urbana, formano una singolare relazione spirituale e spaziale. In questo senso, gli effetti dell’ambiente geografico hanno un’influenza notevole sul comportamento e sulle identificazioni delle varie tribù metropolitane nel loro quotidiano. La città è quindi un processo continuo di esperienze in cui lo spazio urbano agisce ed è agito, offrendo in tal modo la possibilità di dare libera espressione al proprio vissuto e costruire, di conseguenza,

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Pratiche ed esperienze del Cruising nel territorio urbano americano di Fabio La Rocca

una sorta di narrazione collettiva. Nella sfera delle avventure quotidiane, l’individuo vive in molteplici contesti ridisegnando così, nella frammentazione urbana, la propria mappatura esistenziale tramite l’attraversamento e il consumo di luoghi e di spazi.

Flânerie versus erranza motorizzata Una particolarità che emerge nel territorio urbano americano è la tendenza all’uso dell’automobile come pratica esistenziale. Infatti, nel gigantismo di alcune città, l’automobile diventa il simbolo della vitalità delle strade e, in particolare, nell’ambiente suburbano costituisce e dà forma a determinati comportamenti degli individui. Se, per esempio, si pensa a una città senza confini come Los Angeles, l’individuo è connotato dall’essere principalmente un automobilista. Il quotidiano quindi non è più esperito nella sensitività del camminare, della filosofia di “vita della strada” con i suoi odori, la folla anonima, la prossimità fisica e gli “spintoni” ai passanti, ma piuttosto dal muoversi in auto. L’abitacolo diventa, in questo senso, uno spazio privato che opera una separazione dalla città e di conseguenza consente una posizione in cui si è attraversati da essa piuttosto che attraversarla. Ovviamente, oltre alla semplice praticità dell’automobile come mezzo di connessione negli spazi e come veicolo legato ad una funzione, ovvero il tran tran quotidiano che da casa ci disloca nel luogo del lavoro, nei templi del tempo

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libero o dello shopping, essa denota anche una maniera di vivere, di essere al mondo. Dal punto di vista del modo di abitare lo spazio suburbano, tale pratica elude in sostanza il contatto fisico, la prossimità corporale, la tattilità ovvero le caratteristiche di base della flânerie cittadina classica. Quest’ultima rappresenta una delle esperienze urbane che ha connotato in maniera decisiva l’immaginario della città tradizionale o meglio moderna. La figura mitica ottocentesca del flâneur cantata nella poesia lirica di Charles Baudelaire e scolpita nella filosofia empirica di Walter Benjamin nella Parigi del XIX secolo, rappresenta la maniera più semplice ed incisiva per scoprire la città, abbandonarsi ad essa, andare alla ricerca della perdita del sé svelando così le parti nascoste della città. Una condotta, un’attitudine questa tipicamente metropolitana che ci porta ad una sospensione della nostra relazione quotidiana con la città e in cui si aziona una terapia dello choc, della sorpresa, dell’insolito. Sensazioni che ritroviamo ugualmente in una certa misura nella libera mobilità, nelle deambulazioni surrealiste e nella pratica della deriva e della psicogeografia situazionista. Una

La forma più consona che assume oggi la “sensorialità” urbana è quella dell’erranza, del nomadismo


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Il Cruising è un modo di girovagare in automobile, uno stile di vita che detiene anche una connotazione erotica

città, in fondo, definita dalle azioni, dalle situazioni più che dalle forme costruite, come ne è un esempio il progetto Living City di Archigram a cui vari architetti contemporanei si sono ispirati. Quel camminare quindi, che da sempre è stata una delle maggiori funzioni di esperienza, una pratica estetica, un ready made urbano dadaista in grado di modificare e riempire di senso e significato gli spazi metropolitani. Una forma in sostanza, come nell’esempio della Transurbanza del gruppo Stalker, che genera la scoperta dell’esistenza di armonie territoriali, di vitalità e dinamismo di forme urbane al di là dello spazio museificato del centro. Un’esperienza, un viaggio nell’interno della città che ci porta ad una definizione di territori passionali come nelle mappe di guida psicogeografica di Guy Debord. Questi elementi, nel loro insieme, costituiscono una sorta di arche-tipologia del vissuto quotidiano in ambito urbano che si riattualizzano e assumono nuove forme al passo con la climatologia postmoderna. Climatologia da intendere come una metafora espressiva del nostro tempo, ovvero l’atmosfera nella quale siamo immersi che dà senso ad una visione del vissuto

quotidiano nella città. Alla stessa maniera dei meteorologi, questa metafora determina quindi il “clima del presente”, un tipo di riflessione socio-culturale che porta con sé delle osservazioni su dei parametri caratterizzanti l’universo delle città, quali “vento culturale”, “precipitazioni simboliche”, “temperatura sociale”. In questo contesto la flânerie, ovviamente, non ha più la stessa connotazione dell’epoca ma resta tuttavia una figura di valenza sociologicamente rilevante1 che, nello spirito del tempo, rivive una nuova natura ed è, in ogni caso, elemento di fascino per una lettura sensoriale della città. Nella trasfigurazione della scena urbana dal moderno al postmoderno, potremmo affermare, nell’ottica di un’ontologia dell’attualità, che la forma più consona che assume oggi la “sensorialità” urbana è quella dell’erranza, del nomadismo. Un’altra maniera, si potrebbe dire, per dare un nuovo significato alla flânerie nella città contemporanea in cui, secondo il filosofo Bruce Bégout2, non esiste più qualcosa di inatteso da scoprire e per questo la flânerie perde di significato. In questa ottica, alle pratiche del camminare e dello scoprire gli interstizi urbani, si contrappone la figura dell’automobilista che vive la città attraverso il parabrezza della sua macchina. Nelle megalopoli americane e nei suoi contorni suburbani, la dimensione sensoriale allora è vissuta attraverso la vista mediata dal vetro e rappresenta in tal senso il tratto distintivo di quella che potremmo definire come un’erranza motorizzata. Il

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Pratiche ed esperienze del Cruising nel territorio urbano americano di Fabio La Rocca

parabrezza è quindi il medium sensoriale attraverso il quale vediamo scorrere il teatro della vita quotidiana e, metaforicamente, si potrebbe paragonarlo allo schermo del cinema attraverso cui diventiamo spettatori della scena urbana. L’errante motorizzato è quindi la forma che ridefinisce il reale della vita quotidiana e il senso del vagabondare. In effetti, l’automobile, oltre ad esprimere uno status symbol legato all’essenza della produzione in serie dell’industria, manifesta anche una metafora dell’appartenenza tribale e un’estensione della soggettività, di un privato che si costruisce all’interno dell’abitacolo. Gli individui si trovano quindi inglobati nelle molteplici forme dell’automobile, di cui attualmente lo scafandro del SUV (Sport Utility Vehicle) costituisce un esempio lampante di una pratica esistenziale, di un’apparenza sociale attraverso la quale si vive l’erranza e l’esperienza urbana. In sostanza, questo errante motorizzato si sostituisce al flâneur baudelairiano, ma nel suo nomadismo suburbano nel contesto americano non cerca l’inatteso o la perdita del sé, ma piuttosto una familiarità con il panorama geografico urbano. Nell’erranza motorizzata, dunque, è la città stessa che porta a perderci ma, allo stesso tempo, l’esperienza del girovagare motorizzato negli spazi illimitati può anche essere considerata come una nuova espressione del Dasein contemporaneo, ovvero l’esserci secondo una terminologia heideggeriana. Ed è in quest’ottica che s’inserisce nella cul-

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tura di vita americana l’esperienza del cruising.

Estetica del Cruising Questo termine richiama normalmente alla circolazione, alla crociera, ed è nella tendenza culturale americana usata generalmente per indicare il girovagare in automobile. Una pratica che risale agli anni cinquanta, abitualmente associata al mondo dei giovani che amano spostarsi con le loro automobili nell’ambiente urbano. Uno stile di vita che possiede anche una forte connotazione sessuale, creando così delle tipiche espressioni in uso nel linguaggio comune degli americani come Cruising for a girl e Cruising for bruising. Una tendenza tra l’altro ben visibile nella cinematografia americana, che ci offre degli esempi della tendenza all’uso dell’automobile come simbolo di ritrovo, di esibizione, di apparenza della propria esistenza e come maniera di “rimorchiare”. Ad esempio, American Graffiti di George Lucas ci mostra un universo giovanile che si riversa nella Main Street di una città californiana con le grosse auto dell’epoca (Cadillac, Chevrolet, Pontiac), alla ricerca del flirt, degli incontri ai semafori e agli angoli di strada. In questo film, sul-

Cruising, uno stile di vita che possiede anche una forte connotazione sessuale


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Il cruiser diventa l’attore protagonista del nomadismo individuale quotidiano

lo sfondo della musica rock’n’roll dell’epoca, vagabondare in auto costruisce un metodo di sessualizzazione dello spazio e di erotizzazione del movimento circolatorio che, d’altronde, possiamo ritrovare anche in un’altra illustrazione cinematografica come The Brown Bunny di Vincent Gallo. Ovviamente l’aspetto erotico-sessuale è una delle caratteristiche insite nell’immaginario del cruising, ma al di là di tale connotazione, in questa pratica urbana possiamo trovare una chiave di lettura di un senso estetico del vissuto. Il cruiser diventa, in questa ottica, l’attore protagonista del nomadismo individuale quotidiano, una forma ideal-tipica weberiana, un insieme significativo che ci permette di cogliere una singolarità culturale del nostro tempo. Il girovagare a zonzo in auto nella routine quotidiana può essere paragonato, in una certa misura, ad una obsolescenza della flânerie o meglio alla sua scomparsa.

Guido ergo sum È soprattutto nella zona del suburbano che il cruising si attua come pratica esistenziale: “Io guido quindi sono”, potrebbe essere una formula espressiva del vissuto di una parte del mondo giovanile americano che spende il suo tempo nel

circumnavigare con la proprio auto. Il cruising senza meta diventa quindi un’estetica di un “nuovo” tipo di vagabondaggio, di un nomadismo al quotidiano a 50km/h, come direbbe Bruce Bégout3, che del cruising ha fatto una teoria del XXI secolo. Una crociera automobilistica senza un fine, un girovagare indefinito che diventa la regola fondamentale della vita ordinaria dell’errante urbano. Il cruising ci porta ad una visione dello spazio urbano senza limiti, ad un’allucinazione estetica dove dal parabrezza si assiste allo scorrere del banale, del quotidiano, della vita ordinaria. Una visibilità questa, ispirata anche dai travelling cinematografici di David Lynch, attraverso la quale l’immagine della città è assorbita e fatta propria. La metafora del parabrezza per l’esperienza del cruiser diventa uno specchio della contemplazione della città che invade l’abitacolo. In sostanza questa pratica culturale ed esistenziale proietta l’individuo in una contemplazione del mondo urbano e sociale di cui egli stesso diventa un’immagine peculiare. Attraverso questa si attua in sostanza una ridefinizione del reale, una nuova specie di dromomania che trova nell’uso dell’automobile il simbolo di un’esperienza di vita, di una partecipazione all’erranza universale fatta di interazione visuale con la città e, in egual misura, con gli altri. Il cruiser costituisce nell’immaginario una figura “desiderosa”, un nuovo nomade itinerante che naviga nei meandri della geografia urbana, in cui la velocità e i cambi di direzione tracciano un cammino indefinito

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Pratiche ed esperienze del Cruising nel territorio urbano americano di Fabio La Rocca

che lo porta a galleggiare sulla superficie della città e a fondersi con il suo ambiente naturale. Fabio La Rocca è sociologo ricercatore al Centre d’Etude sur l’Actuel et le Quotidien (CEAQ) dell’Università Paris Descartes Sorbonne dove ha fondato e dirige il GRIS (Groupe de Recherche sur l’Image en Sociologie).

Filmografia generale di riferimento American Graffiti (1973), George Lucas Cruising (1980), W. Friedkin Lost Highway (1997), D. Lynch Paris, Texas (1984), D. Lynch Taxi Driver (1976), M. Scorsese The Brown Bunny (2003), Vincent Gallo

Per un approfondimento sulla tematica rimandiamo a G. Nuvolati, Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni, Il Mulino, Bologna, 2006. Bruce Bégout «Du monde (urbain) clos à l’univers (suburbain) infini», conferenza Cruising L.A. Los Angeles, capitale du XXème siècle. Un portrait philosophique de la ville et de son importance dans la vie urbaine et la réflexion sur la ville. Ecole d’Architecture Paris-Belleville, 18 marzo 2008. 3 Si veda ad esempio, B.Bégout, L’éblouissement des bords de route, Ed. Vericales, Paris, 2004. 1

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Andrea Malagamba andrea.malagamba@yahoo.it Antonio Rafele antonio.rafele@libero.it

I guerrieri della notte, di Walter Hill

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na ruota delle meraviglie illuminata di fuxia si staglia nella notte di un quartiere degradato alla periferia di New York, Coney Island. Il treno della metropolitana attraversa i titoli di testa per accompagnare il viaggio che porterà i Guerrieri nel Bronx, dove un carismatico capo, Cyrus, ha organizzato un raduno per unire tutte le bande metropolitane contro le forze dell’ordine, la “criminalità legalizzata”. Come Matrix, I guerrieri della notte (1979) non è assimilabile al genere comunemente definito “cinema d’autore”. Entrambi sono raffigurazioni “pure” di un contesto o circostanza sociale, prive di mediazioni “pesanti” che contraddistinguono, ad esempio, Arancia meccanica di Kubrick, in questo caso vero e proprio precursore del tema. Questo rende I guerrieri immediatamente vivo, in quanto direttamente riferibile al periodo che raffigura o descrive, ma anche, a distanza, im-

La divisa ostentata dalle bande sembrava organizzare la divisione del tessuto metropolitano, la geografia politica della città

mediatamente superato, proprio in quanto non separabile dai costumi o contesti o personaggi o ancora stili di vita che incarna. Si potrebbe dire che, al pari di un articolo di moda, esso costituisce l’esposizione e presentazione di una marca, valida solo per quel periodo che promuove e per quel pubblico che vi si identifica. Il film si apre, infatti, come un gran defilé nelle gallerie del metrò: ogni banda ostenta la sua divisa, che appare agli occhi smaliziati dello spettatore di oggi un po’ troppo prêt à porter; fatto sta che quella divisa sembrava organizzare negli anni Ottanta la divisione del tessuto metropolitano, la geografia politica della città. Ora Cyrus, leader carismatico dei Riffs, chiede una tregua che consenta di ridisegnare quella geografia. Le bande e lo spettatore si trovano improvvisamente immersi in un discorso politico: secondo il carismatico leader, la polizia sfrutta la divisione interna delle bande per mantenere il controllo sulla città e alimentare la sua buona reputazione mostrandosi come tutore di un ordine che sono proprio le bande, facendosi guerra l’un l’altra, a minacciare. Cyrus propone ai membri di queste tribù metropolitane un’alleanza che li metta in grado di dominare la città, l’utopia del controllo assoluto; ma di fatto una

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I guerrieri della notte, di Walter Hill di Andrea Malagamba di Antonio Rafele

tale proposta coincide, almeno in prima battuta, con una forma di denudamento, di rinuncia alla divisa che costituisce per ognuno di loro il tratto fondativo della propria identità sociale, una seconda pelle, l’unica vera. I guerrieri mettono in scena tribù newyorkesi degli anni Ottanta: Riffs, Rogues, i Furies (“i giocatori di baseball”), gli "skinhead" (i Turnbulls Ac’s), le Lizzies (una banda femminile), gli Orfani, i “pattinatori” (Punks). Lo stile deriva, di volta in volta, dall’immaginario veicolato dallo sport, dalla tv, dalla pubblicità, dalla musica, dalle marche di moda, dai film, dai quartieri metropolitani stessi. La prima impressione è che la loro varietà si giustifica in un continuo rapporto di interazione e di comunicazione. La seconda è la totale assenza, al loro interno, di qualsiasi appartenenza politica classica – nel corso del film, la polizia o i simboli pubblici appaiono, infatti, sempre come corpo estraneo. La coesione non sembra fondata, come in Alex di Arancia meccanica, su una leadership particolarmente forte o eccezionale, ma sulla partecipazione o empatia ad uno stile quotidiano: slogan, lessico, indumenti, movimenti del corpo. Più che una vera e propria identità, quello della tribù sembra essere un continuo processo di identificazione, dove l’individualità viene come rimpiazzata dalla forza del gruppo, in questo caso, unica matrice dell’essere insieme. I personaggi realizzano una sorta di identità arcaica, l’io appare come immediatamente incollato all’altro, e le tribù, di riflesso, si giustificano nella loro continua differenza, quindi rapporto, comunicazione, con le altre.

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Forse per questo Cyrus viene brutalmente ucciso. La colpa dell’omicidio viene affibbiata dagli assassini ai Warriors; comincia così la loro notte, il loro sofferto – e come potrebbe essere altrimenti – nóstos. Il viewer si aspetterebbe che il vero assassino abbia agito per motivi precisi (rifiuto del piano di Cyrus, vendetta personale), e scopre solo a fine film di essere stato depistato: l’assassino dichiara di aver agito senza alcuno scopo, solo per fare qualcosa di divertente. Un principio di assoluta anarchia si impadronisce della pellicola, e per i Warriors è guerra aperta: essi sono nel mirino di ogni banda della città che difende il proprio “lercio piccolo pezzo di terra”, anche di quelle escluse dall’incontro col grande padre Cyrus: gli Orfani, non a caso. I Guerrieri tentano di evitare lo scontro finché possono, cioè fino a quando gli Orfani non intimano loro di spogliarsi della loro divisa per poter attraversare indenni il loro territorio, vale a dire di rinunciare di colpo alla loro identità (e dignità) metropolitana. Le tribù sono, quindi, congenite al medium metropoli, e all’interno di questo contesto sfruttano altri media – la radio – che ne intensificano l’azione e la comunicazione. La lunga notte dei Warriors è commentata dal-

I personaggi realizzano una sorta di identità arcaica, l’io appare come immediatamente incollato all’altro


IMMAGINARIO

I Guerrieri appare un “avanzo di sogno”, un prodotto ancora seducente ma solo in quanto oggetto desueto

la voce senza volto di una speaker radiofonica che accompagna le diverse fasi della vicenda. La radio, sostiene McLuhan, è un potentissimo strumento del comunicare: «le sue profondità subliminali sono cariche degli echi risonanti di corni tribali e di antichi tamburi». La radio scandisce il tempo delle tribù metropolitane, della loro lotta per il territorio, «riduce il mondo ad un villaggio» e funziona come un segnale di fumo, avvertimento dell’arrivo dei Guerrieri. Tutto ciò che mostra la macchina da presa, l’occhio dello spettatore, deve essere registrato e ritradotto dalla radio, «un’estensione del sistema nervoso centrale»: la sconfitta degli “orfanelli spastici” e dei battitori di baseball, il fallimento delle novelle Esperidi, la discolpa finale. In questo uso del medium, il film appare forse obsoleto rispetto a Matrix, dove il medium centrale non è più la metropoli ma quello informatico, come dispositivo che istituisce, esso stesso, una nuova realtà e non come mezzo utile al contesto metropolitano. In entrambi i casi, il medium produce tribù effimere, ma mentre nei guerrieri sono tribù riconoscibili e localizzate, in Matrix appaiono vaghe e come sospese, immateriali. Dopo aver lottato tutta la notte, i Guerrieri rientrano nel loro territorio.

È giorno, la ruota delle meraviglie non brilla più e appare anch’essa desolata nello scenario avvilente di Coney Island: «guarda che posto di merda, e abbiamo lottato tutta la notte per ritornarci», conclude amaro Swan, il nuovo leader dei Guerrieri. Rimane loro soltanto la soddisfazione di difendere il loro onore scontrandosi direttamente con gli assassini di Cyrus: l’ammissione di non amare il luogo in cui vivono non li ha resi meno guerrieri. I Guerrieri appare, sotto quest’angolo, un “avanzo di sogno”, un prodotto ancora seducente ma solo in quanto oggetto desueto. Sotto un altro punto di vista – quello del rapporto tra film e videogioco – appare invece un elemento, certamente archeologico, ma ancora attivo nell’immaginario contemporaneo: la recente trasposizione videoludica (2007) testimonia di una disponibilità tematica e narrativa, in questo caso ante-litteram, ai percorsi del “giocatore”, e lo pone, automaticamente, in una posizione di continuità con le narrazioni filmiche contemporanee – Matrix, eXistenZ, Strange Days – costruite e volte, sin dal principio, a riprodurre sequenze videoludiche (pensiamo qui in particolare alle tecniche del compositing e del bullet time) e catturare lo sguardo e la sensibilità del giocatore. Andrea Malagamba insegna Letteratura Italiana al Liceo ebraico di Roma. È cultore della materia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Antonio Rafele, sociologo, ricercatore presso il CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne”. Collabora con l’Istituto di comunicazione dell’Università IULM, Milano.

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ALBERTO ABRUZZESE – Università IULM di Milano ROBERTO ALIBONI – Vice Presidente Istituto Affari Internazionali FRANCESCO ANTONELLI – Università degli Studi Roma Tre SEBASTIANO BAGNARA – Università degli Studi di Sassari-Alghero FABRIZIO BATTISTELLI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” CLAIRE BARDAINNE – McLuhan Program in culture and Tecnology, University of Toronto SARA BENTIVEGNA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ALBERTO BENZONI – Politologo GUERINO BOVALINO – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” RENATO BRUNETTA – Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ROBERT CASTRUCCI – Assegnista di Ricerca, Università degli Studi Roma Tre VANNI CODELUPPI – Università di Modena e Reggio Emilia VINCENZO VISCO COMANDINI – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” LUIGI COVATTA – Vice Direttore Pol.is MASSIMO DE ANGELIS – Politologo GIANNI DE MICHELIS – Presidente Ipalmo PIERO FASSINO – Ministro degli Affari Esteri Governo Ombra FRANCO FRATTINI – Ministro degli Affari Esteri ANTONIO LANDOLFI – Presidente della Fondazione Giacomo Mancini FABIO LA ROCCA – Ricercatore CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” ANDREA MALAGAMBA – Liceo ebraico di Roma CLAUDIA MANCINA – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” PAOLO MANCINI – Università degli Studi di Perugia MAURO MARÉ – Università degli Studi della Tuscia ENRICO MORANDO – Senatore FEDERICA PAVONE – Ricercatrice CESARE PINELLI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” MARIO PIREDDU – Assegnista di Ricerca all’Università degli Studi Roma Tre ANTONIO RAFELE – Ricercatore CeaQ, Università di Parigi “La Sorbonne” FRANCO SIRCANA – Vice Direttore Pol.is VINCENZO SUSCA – McLuhan Program in culture and Tecnology, University of Toronto FEDERICO TARQUINI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano TITO VAGNI – Dottorando di Ricerca Università IULM di Milano ALBERTO ZULIANI – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

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