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Avvocatura • Grazia Volo

Che la giustizia torni nelle aule Basta parlare solo di sè. Basta apparire nei salotti televisivi. Basta evitare i veri dibattimenti. Con lo stesso metodo scientifico con cui vorrebbe veder affrontati i processi in tribunale, Grazia Volo compone la sua accusa all’avvocatura italiana di Giovanna Mingardi

Grazia Volo, avvocato penalista

orte, credibile e autorevole. Questa è l’essenza dell’avvocatura per Grazia Volo. Anzi, quello che dovrebbe essere. Perché da vent’anni a questa parte in Italia si è perso di vista il senso della professione. L’avvocatura, che dovrebbe rivestire - come è stato in passato - un ruolo da protagonista nel rinnovamento del sistema giudiziario e della giurisprudenza, si trova invece incapace di reagire per via di avvocati troppo concentrati ad apparire sui mass media, e un sistema di accesso alla professione, infine, troppo permissivo, che ha creato giovani impazienti di affermarsi, bruciando le tappe. La soluzione è solo una: «Rifondare la centralità del processo perché è questo il terreno dell’avvocato». Quali cambiamenti vede nella professione, da quando lei ha iniziato a oggi? «Oggi l’avvocatura affronta una profonda crisi, che è una crisi di assenza di pensiero. Sono circa trent’anni che arranca, a seguito delle iniziative che sono state prese dalla magistratura. Negli anni 70, quando ho iniziato io, in ogni città d’Italia c’erano due o tre avvocati famosi e autorevoli, molto più noti dei magistrati». Quando parla di iniziative della magistratura a cosa si riferisce? «Da trent’anni a questa parte la magistratura è stata delegata dalla politica alla risoluzione dei grandi problemi, esercitando un’attività di supplenza politica. E nella sostanza si è determinato il fatto che i pubblici ministeri sono diventati i gestori delle questioni più importanti che

hanno riguardato la vita del Paese: il terrorismo, la grande criminalità organizzata, i rapporti complessi tra politica e imprenditoria e tra politica e criminalità. Fino ad arrivare oggi a toccare i santuari della finanza, le banche, e a incriminarne le scelte strategiche. Mi riferisco alle ultime indagini sulle scalate. La centralità delle procure ha determinato la crisi della fase dibattimentale del processo, perché ormai tutto si concentra nella fase delle indagini preliminari. E gli avvocati non sono stati capaci, anzi non siamo stati capaci, di sviluppare un’efficace resistenza. A conseguenza di tutto ciò si è determinata la tendenza a risolvere i processi prima della fase dibattimentale, con una difesa debole e quindi con accordi come patteggiamenti e riti abbreviati. Questo ha determinato in via definitiva la perdita di prestigio dell’avvocatura». Da dove inizierebbe per invertire questa tendenza? «Intanto bisogna trovare il modo di far emergere forti opinioni da parte degli avvocati, che non si limitino a proporre in maniera strumentale e aggressiva la separazione delle carriere, un conflitto tra l’altro di modesta rilevanza. Occorre andare ai grandi temi. Sono convinta che uno di questi riguardi una grande degenerazione che è avvenuta nel nostro Paese: il giustizialismo, che è diventato di destra e di sinistra, e ha eliminato lo spazio del garantismo, che invece è profondamente liberale, legato alla centralità dei diritti dell’uomo. Su questo purtroppo c’è poca attenzione».

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