Numero due

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Numero due; estate 2010

FoLLeLFo Rivista autoprodotta di racconti e sproloqui pseudo-letterari

Non inquinare l’ambiente. Conserva la tua copia di Follelfo per sempre. http://follelfo.wordpress.comÂ



La proprietaria era seduta dietro il bancone nell’ingresso. La prima cosa che notai fu una copia dell’« American Phoenix ». Stava esattamente dove l’avevo messa io tre settimane prima. Infastidito, andai con decisione verso il tavolo e la presi. – Non l’ha letto, vero? Lei mi sorrise con ostilità. – No, non l’ho letto. – Perché no? – dissi io. – Mi annoiava. Ho letto il primo paragrafo e mi è bastato –. Mi infilai la rivista sotto il braccio. – Me ne andrò, – dissi. – Molto presto. – Faccia come vuole.

” John Fante, Sogni di Bunker Hill


http://follelfo.wordpress.com [Milano; estate zerodieci]


Follelfo nasce tre anni fa nel mare magnum di internet e si articola da subito come contenitore di racconti, disegni e sproloqui vari, grazie alle energie di alcuni giovani ardimentosi. Follelfo ha partecipato a Wimbledoc, Ultra e ad altre cose sparse per la rete. Dall’anno scorso è anche una rivista cartacea a periodicità variabile. Follelfo è indipendente e autoprodotto. (motivo per cui è pure costantemente squattrinato; qualsiasi donazione monetaria vogliate farci è ben accetta e filantropicamente considerata).

La cavalleria è un racconto di Matilde Quarti Chiara Vanzetti è un racconto di Michele Turazzi Un poco svanita è un racconto di Gianluca Senis Nel limbo in balia dell’oblio è un racconto di Stefano Lazzari Figura uno e due sono illustrazioni di Robbe [webrobbe.com] Figura tre, quattro e cinque sono illustrazioni di Alfonso Casas Moreno [alfonsocasas.blogspot.com] Il capibara in copertina e l’alpaca del logo sono a cura di Alberto Condotta 1

Responsabile stampa: Silvia Frigerio


EDITORIALE

Finalmente il numero due. E con il secondo numero, lento e strascicato nel suo generarsi, ci è sembrato opportuno adeguarci alla consuetudine di riviste ben più antiche e valevoli e riservare una pagina ad un epigrammatico editoriale. Ma come riempire questa pagina che continuava ad essere bianca anche a bozze di stampa ultimate? Ci siamo domandati più volte se usare un tono ironico e pungente – alla Eggers e McSweeney’s, per intenderci – o, al contrario, dar sfoggio di sensibilità filologica e terminologia accademica – e sciorinare quindi tecnicismi vari come narratario, idiosincratico, paranomasia e omeoteleuto. C’era chi diceva di voler creare un pastiche postmoderno, unendo casualmente versi di poeti crepati secondo accostamenti ritmici e illuminanti – My spectre around me day and night / J’ai tous les talents – e chi, invece, preferiva scadere nella polemica spicciola contro un bersaglio qualsiasi e approfittarne per inveire – contro una qualche altra rivista, contro il sistema con la esse maiuscola; Baricco, Travaglio oppure Mourinho. I più volevano però approfittare di questa pagina per delineare la linea editoriale e spiegarla al lettore, volevano dire di non credere nelle redazioni allargate e nelle riviste

generaliste che seguono le parole d’ordine tanto, spesso tutto; volevano inneggiare alla specificità creatrice. Ma, orsù, non siamo mica Benedetto Croce. Abbiamo scartato tutte le ipotesi e c’è rimasto poco da dire, ma la pagina bianca è quasi finita. A questo punto, ci han detto, è opportuno rivolgersi al lettore. E quindi Hypocrite lecteur, –mon semblable, – mon frère, sappi una cosa; in questo numero troverai una gatta di nome Bastiglia, un’ora di ripetizioni al quinto piano di un palazzo di periferia, uno spaventapasseri solitario di fronte al mondo e una frase finale di inusitata lunghezza. Qui ci sono solo racconti e illustrazioni.


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LA CAVALLERIA

L

a prima volta che aveva ricevuto una sua telefonata, Linda si era sentita domandare cosa ne pensasse del fatto che solo gli uomini potessero usare il komboloi. Era una voce femminile, un po’ roca, sibilava le esse. Non la conosceva. Linda aveva bofonchiato in risposta che in fondo era solo un’usanza, non c’erano restrizioni vere e proprie in merito all’acquisto di un rosario ortodosso. La voce allora era parsa un po’ seccata, la trovava un’usanza misogina, e ricordava di quando, una volta, ne aveva comprato

uno in un baracchino di souvenir nel quartiere delle ambasciate e aveva visto chiaramente il venditore e sua moglie scambiarsi occhiate d’intesa sogghignando, mentre lei cercava nelle tasche i cinque euro e cinquanta con cui pagare. E poche ore più tardi un barista di Exarchia le aveva spiegato che non sarebbe mai uscito con una donna impegnata a rigirare tra le dita il suo komboloi, che era un gesto di una volgarità esasperata e sgradevole. “Ma tu chi sei?”, le aveva chiesto Linda. La voce aveva riattaccato la cornetta.


Linda viveva da poco più di un anno con una gatta che si chiamava Bastiglia e usciva da cinque mesi e due settimane con un ragazzo che si chiamava Gabriele. Bastiglia, la gatta, voleva ucciderla. L’aveva trovata legata alla porta della cucina il giorno in cui aveva avuto libero accesso all’appartamento, buttati malamente accanto a lei c’erano una bustina di cibo sigillata e un biglietto che recitava Ama il prossimo tuo. Il proprietario aveva motivato la sua presenza sostenendo fosse appartenuta al precedente inquilino. Bastava che non gli rovinassero i muri, aveva aggiunto. A volte a Linda capitava di svegliarsi a tarda notte e trovare Bastiglia accovacciata sul comodino, con la testa bassa, il sedere proteso verso l’alto e le unghiette che sondavano l’aria in direzione della sua faccia. In quei casi Linda si tirava su, sorreggendosi sui palmi delle mani semi affondati nel materasso, e lei e la gatta restavano a fissarsi finché una delle due non decideva di abbandonare la stanza. Spesso toccava a Linda. Ogni tanto parlavano, le sere prima di un esame, quando un tentativo di relazione finiva male, o quando un editore le rimandava indietro i suoi racconti con troppe correzioni. Linda intanto cucinava e se era in umore di confessioni le rivelava di avere paura di diventare come Arturo Bandini, che aveva scritto un solo irrilevante racconto e amava una cameriera stupida che non riusciva a sedurre. Lei amava sempre uomini stupidi che non sapevano sedurla e il suo unico racconto, che in venticinque pagine seguiva la fuga in transiberiana di uno studente accusato di aver ucciso la propria sorella tirandole un bollitore in

testa, marciva nella libreria della sua università soffocato da opuscoli neomarxisti. Bastiglia per qualche minuto sembrava ascoltarla, dilatando le pupille ed inclinando il capino sovrastato da due orecchie troppo grosse. Poi si girava a pancia in su e grattava la schiena contro il tappetino davanti al lavello, manifestando il suo disinteresse per qualsiasi cosa non fosse assolutamente attinente alla sua igiene personale. Allora Linda si ricordava di odiarla, e usciva dalla cucina chiudendo la porta a chiave. La seconda volta che aveva ricevuto una sua telefonata era domenica pomeriggio e Linda sedeva sul pavimento dell’ingresso, con la spalla destra e la testa appoggiate al muro. Aveva percorso due volte i cinque passi che separavano il suo letto dal lavandino colmo di tutti i piatti di una settimana, poi si era accasciata per terra contraendo il viso come se volesse piangere. Aveva valutato se fosse opportuno raggiungere i suoi amici in un bar a due quartieri di distanza dove stavano trasmettendo la partita, e poi non si era più mossa. Bastiglia la osservava dal termosifone, gli occhi come fessure. “Mi sono sempre chiesta come reagirebbe Leonardo Da Vinci se dovesse risorgere nel nostro secolo”, le aveva detto la voce. Linda aveva commentato che avrebbe cercato un palazzo molto alto da cui gettarsi per morire di nuovo. “Alla fine era lui che aveva teorizzato tutta quella roba sulla caduta dei gravi, no?” Secondo la voce la sua era una risposta banale e infantile. Leonardo sarebbe stato euforico, le calze antiscivolo lo avrebbero fatto sudare dall’emozione, le


palline rimbalzine strapparsi i capelli per la gioia. Sarebbe corso dal più grande fisico del pianeta a farsi spiegare il funzionamento dello sbuccia arancia elettrico e poi sarebbe diventato professore emerito in un’università dell’Ivy League. Linda, anche questa volta, era rimasta zitta finché la voce non aveva smesso di parlare. “Dovrei andare a lavare i piatti, puoi dirmi chi sei?” le aveva chiesto poi, senza ottenere risposta. Linda aveva incontrato Gabriele dopo un pessimo appuntamento. Era uscita con un ragazzo conosciuto la sera prima in un locale con le pareti nere e rosa e una dj bionda piuttosto quarantenne che faceva passare pezzi brit-pop riesumati dal dimenticatoio dei mod. Mentre era impegnata ad assecondare quello che poteva essere un tentativo di baciarla come di reggersi in piedi afferrando il suo collo, Linda aveva pensato che sembrava simpatico e che avrebbe potuto dargli una possibilità da sobrio. Si erano dati appuntamento in un irish pub che frequentava lei, Linda era arrivata in anticipo e lo aveva aspettato dentro, lui era rimasto ad aspettare fuori e poi si erano trovati sui tre gradini dell’ingresso, esattamente sotto alla serranda. Il ragazzo, di cui Linda non aveva mai ricordato il nome, studiava economia, sparava dalla finestra ai piccioni sul tetto di fronte con un fucile a salve, e aveva un passato da chierichetto e un fratello maggiore che aveva preso l’epatite durante un interrail al liceo. Alla notizia della malattia, che era stata un inciso di pochi secondi seguito da un sorso di birra, Linda aveva cominciato a scavare con l’unghia dell’indice dei solchi lunghi

un paio di centimetri nel legno del tavolo. Era terrorizzata dall’epatite da quando, in terza media, aveva ricevuto via e-mail una catena di sant’Antonio a proposito di un’adolescente sedotta e abbandonata da uno sconosciuto che l’aveva lasciata con una rosa nera e un biglietto che la avvertiva del contagio. “Credo che io e te non dovremmo più vederci”, lo aveva informato. “Ma siamo qui da mezz’ora”, il ragazzo senza nome era rimasto a guardarla sconfortato, cercando di ricordarsi ogni singola parola detta, senza capire che cosa esattamente potesse avere sbagliato. Poi si era alzato ed era uscito, con le spalle leggermente incurvate e i pugni contratti nelle tasche dei pantaloni. Linda se n’era accorta, di quei pugni, e aveva sollevato le sopracciglia con disappunto, spostando lo sguardo verso lo spazio vuoto davanti a lei. E poi era arrivato Gabriele, pallido e con i capelli rossicci, sicuramente non bello. Si era seduto sulla sedia rimasta libera e le aveva offerto una birra. Quindi aveva bevuto in silenzio la sua guardando Linda con un espressione quasi seccata. Non avevano avuto niente da dirsi, Gabriele era un interlocutore antipatico e supponente, un maschio alfa dal naso aquilino e pochi bicipiti che con ostinato e ostentato silenzio aveva sistematicamente soppresso ogni tentativo di Linda di dare un senso alla sua presenza. Nel momento in cui, dopo aver vuotato il bicchiere, si era avviato a pagare, Linda si era resa conto che non avrebbe potuto tollerare di tornare a casa da sola dopo due appuntamenti falliti nella stessa serata e di doversi giustificare con la gatta che, ne era sicura, la stava aspettando sveglia.


Tre quarti d’ora dopo Bastiglia era stata esiliata in cucina. “Uno a zero per me”, le aveva bisbigliato Linda. Da allora le piaceva considerare Gabriele il suo ragazzo. La terza telefonata della voce era stata più breve delle precedenti. “Hai mai pensato che potresti essere la comparsa morta numero settantadue?” “L’unica volta che ho recitato qualcosa avevo dieci anni; interpretavo Marte in uno spettacolo sul sistema solare. E Marte è una vedette, nel cosmo, non una comparsa”. “No, non hai capito. Tu sei la comparsa morta numero settantadue, sei il povero personaggio senza nome che viene tagliato in due da un fascio di luce perché ha visto il cattivo aprire il cervello dell’uomo che scioglie l’acciaio per assimilare il suo potere. E nessuno se ne accorgerà mai, che tu sei stata tagliata in due, perché nel giro di un istante tutti gli sguardi saranno puntati sul supereroe che entrerà nel locale gettandosi con la sua superforza sul cattivo. Il tuo ruolo non dura neanche una scena, non ti è concessa nessuna battuta, solo uno sguardo sgomento mentre una luce bionica verde si fa strada tra le tue costole come se fossero di pongo”. “Non è che l’altro supereroe se la passi meglio eh. Quello che viene ucciso perché scioglie l’acciaio”. “Ma a te non cambia, sei comunque la comparsa morta numero settantadue”. “D’accordo io sono la comparsa morta, tu chi sei?” La voce aveva interrotto la chiamata. Linda, principalmente, nella sua vita arrivava in ritardo. I suoi amici ai tempi

del liceo avevano l’abitudine di darle appuntamento mezz’ora prima rispetto all’orario effettivo e così arrivava puntuale pur essendo convinta del contrario. Aveva sviluppato una teoria secondo la quale, siccome tutti tenevano sempre il lettore cd nello zaino, avrebbero ascoltato la musica mentre la aspettavano senza rendersi conto del tempo che passava. L’unica volta che era arrivata all’orario che riteneva giusto e si era ritrovata sola con una compilation ska-punk, Linda si era resa conto di quanto brevi potessero essere tredici brani di cui cinque erano già stati ascoltati durante il tragitto. Ma nonostante questo non aveva modificato il suo rapporto con il tempo e nessuno sembrava essersi più formalizzato. Invece con Gabriele le cose andavano diversamente, e questo la disorientava. Gabriele, dopo cinque mesi e due settimane di frequentazione, non avendo altro da fare che studiare per esami che non avrebbe mai dato, passava gran parte delle sue giornate nell’appartamento di Linda. Spesso se usciva preferiva aspettarla a casa e lei, ogni volta, al suo ritorno lo trovava nell’esatta posizione in cui lo aveva lasciato minuti o ore prima. Se si fosse concentrata sui dettagli si sarebbe accorta che qualcosa effettivamente era cambiato, un capello sul lavandino, della cenere sul bordo della finestra, la tazza di caffè, che prima era piena, abbandonata con gli avanzi che seccavano sul fondo. Ma in ogni caso, nel momento in cui Linda varcava la soglia, Gabriele era lì dove si trovava quando si erano salutati pronto a ricominciare qualsiasi cosa, discorso, amore, stessero facendo, come se niente li avesse interrotti.


Gabriele si dondolava alternando il peso sull’una e sull’altra gamba, con le mani in tasca e la spalle rigide, mordicchiando con gli incisivi il labbro inferiore. “Credo di aver perso Bastiglia a poker”, aveva detto a Linda appena si era avvicinata abbastanza da poterlo sentire. “Scusa?” “Mi sono giocato la gatta a poker. Ieri sera. È passato il corriere a ritirarla poco fa. Scusami”. Linda lo aveva osservato per qualche secondo, poi era salita in casa e si era messa a cercare ogni oggetto di proprietà di Gabriele. Li raccoglieva con calma, uno per volta, e mano a mano li posava con delicatezza sul pianerottolo appena oltre la soglia in un gruppo ordinato in file verticali di tre, che visto da lontano avrebbe potuto ricordare un rettangolo.

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L’unico ostacolo alla loro routine era rappresentato dai ritardi di Linda. In quelle circostanze Gabriele aspettava il suono delle chiavi estratte dalla tasca per aprire la porta e andarsene in silenzio, o altrimenti cominciava ad urlare, i muscoli del collo tesi, fino a che la voce non gli si strozzava in gola e Linda si ritrovava a cucinare dei pancake per farsi perdonare. Quando Linda, arrivando con dodici minuti di ritardo, aveva visto Gabriele aspettarla davanti al portone, dopo averlo lasciato accovacciato sul pavimento a disegnare un percorso di croccantini per Bastiglia, aveva intuito che fosse accaduta una catastrofe delle dimensioni dell’elefante che reggeva il mondo sulla testa, in bilico sulla schiena della tartaruga.

Quando aveva ricevuto la quarta telefonata Linda era appoggiata allo stipite della porta d’ingresso lasciata aperta per metà. Guardava i piedi di Gabriele che, appoggiato allo stipite della porta della cucina, guardava a sua volta i piedi di Linda. “Ho scoperto che quello che gli occidentali intendono con harakiri in realtà si chiama seppuku. L’harakiri non è altro che una banale esecuzione, sai una decapitazione o via dicendo, mentre lo squarcio suicida delle budella è il seppuku. Madama Butterfly è tutta sbagliata”, le aveva detto la voce appena aveva alzato la cornetta. “Sai, credo che non dovresti più telefonare qui”, le aveva risposto Linda. E aveva riagganciato. ■


Alberto Condotta, Juste le temps, olio su tela, 73 x 89 cm


CHIARA VANZETTI

I

l soggiorno è ampio e spoglio; la parete biancastra è nuda. Una grande porta-finestra di vetro separa la stanza dal terrazzino e, quindi, dai palazzoni, dalle antenne, dalle lamiere e le sopraelevate, dal sole quasi al tramonto. Al centro della sala un tavolo rettangolare di legno scuro troneggia maestoso e un tremolante raggio rossastro ci passeggia sopra, come una venatura di sangue. Io sto seduto su di una sedia e appoggio i gomiti sul tavolone reggendomi il mento, cerco di raggrinzire i muscoli facciali in un’espressione pensosa e vagamente intellettuale. Poi scosto qualche ciuffo di capelli dagli occhi e torno a fissare il disco purpureo del sole. Io sono il prof delle ripetizioni. Mi chiamo Matteo de Matteis, ho venticinque anni, due mesi e quindici giorni. Ho gli occhi grigi, i capelli color sabbia stinta e una precoce stempiatura asimmetrica che mi invecchia di qualche anno. Ho una laurea triennale in filosofia, una laurea magistrale in filosofia e nessun lavoro fisso. Non voglio iscrivermi a nessun master, nonostante la volontà contraria del parentado e i consigli di alcuni amici che sanno sempre cosa dire; soprattutto non voglio iscrivermi a nessun master in filosofia, ammesso che esistano. Lavoro qualche giorno a settimana, leggo almeno cinque libri al mese e odio la metropolitana. In particolar modo odio la linea verde.

La figura femminile seduta di fronte a me si chiama Chiara Vanzetti e frequenta la quarta o la quinta all’artistico di via Hajech. Ha gli occhi neri, adombrati d’ombretto e una frangia liscia che le ricade sulle palpebre. Una camicetta raggrinzita lascia intravedere qualsiasi cosa al di sotto del cotone e quando il mio sguardo incespica sulle rotondità del seno, mi rendo conto immediatamente che non è affatto male. Chiara Vanzetti fa schifo in italiano, storia e, ovviamente, filosofia; non riesce a distinguere un congiuntivo da un condizionale e crede che l’Orlando Furioso sia un film con Russel Crowe. In compenso porta una terza di reggiseno e millanta di avere plurime esperienze sessuali. Chiara Vanzetti oggi chiede aiuto per un tema. Io sono il prof delle ripetizioni e guadagno dodici euro l’ora. Ascolto Devendra Banhart e i Calexico. Gli Explosion in the sky e Mark Lanegan. Ascolto pure qualche cosa Jazz e la canzone d’autore italiana. Credo fermamente che i Pink Floyd siano stati il miglior gruppo musicale di tutti i tempi e nella diatriba tra Gilmour e Waters che ha portato allo scioglimento della band, parteggio per Waters, nonostante la pochezza dei lavori solisti successivi. Una volta suonavo la chitarra, ma sapevo a mala pena distinguere gli accordi tra di loro, quindi, come si suol dire, scelsi di appendere la chitarra al chiodo. L’ho spaccata sul muro quando mi resi conto che non sarei mai riuscito a eseguire l’assolo di Starway to Heaven in tempi brevi. Avevo iniziato a suonare da tre


settimane. Sono sempre stato una persona impulsiva. Chiara Vanzetti apre il diario ed estrae un foglietto spiegazzato che mi porge accennando un sorriso. Il foglietto è la traccia del tema: Che utilità pensi possa avere la cultura? Soffermati in particolar modo sull’utilità che questa può avere nel tuo presente e in un’ottica futura. Lo leggo a voce alta e le chiedo se ha già pensato a qualche cosa, a qualsiasi cosa. Mentre rileggo la temibile consegna percepisco un accenno di bile risalire le interiora fino al palato, mi soffermo con gli occhi sulla parola cultura e la percepisco estranea e distante. Un fossile pachidermico di qualche dinosauro estinto moltissimi anni fa. Chiara Vanzetti, immobile nel suo finto sorriso pacchiano, dice di non avere alcuna idea. Ho bevuto il mio primo alcolico a dieci anni in una baita innevata col nonno; ho fumato la mia prima sigaretta a tredici, nascosto dietro un vecchio Ciao; la mia prima canna a sedici, offerta dal mio vicino di banco; ho provato i funghetti a diciannove a Vondelpark, come tutti; ho preso il mio primo cristallo di md a venti, seguendo il culo di una ragazza che ballava Ellen Allien; il mio primo trip di LSD a ventidue, tra spighe di grano. Non ho mai sniffato cocaina, né ingerito chetamina. Ora ho smesso con quasi tutto. Sono tornato ad essere semplicemente un fumatore da un pacchetto al giorno che ama passare le proprie sere al pub. Come quando ero piccolo. A che cosa serve la cultura? Suggerisco a Chiara di stilare una piccola scaletta con alcune argomentazioni e nel frattempo incrocio i miei occhi riflessi da uno

specchio appeso alla parete. Vedo qualche piccola ruga incorniciare le palpebre e noto i miei denti ingialliti dal fumo, i capelli arruffati; mi vedo vecchio e spossato. Chiara Vanzetti sussurra che, forse, la cultura potrebbe aiutare a raggiungere un buon posto di lavoro, ma credo percepisca un alone di sgomento tra le pieghe del mio volto perché subito ritratta ciò che ha detto. Sussurro tra me e me la parola lavoro con icastica reiterazione, mentre dozzine di facce conosciute si susseguono nella mia mente come foto segnaletiche impazzite in parata. Le faccio un segno affermativo con la testa e le dico di segnarlo tra le argomentazioni, poi penso a stage non retribuiti, lavori interinali, contratti a progetto, master infiniti, lavori saltuari, contratti a chiamata, lavori in nero, pagamenti dilazionati, pagamenti a sessanta giorni, pagamenti irrisolti. Penso a nessun pagamento. I miei primi ricordi legati al mondo del calcio risalgono a Capello allenatore e al divin codino. Non ricordo quasi nulla di Italia ’90, tranne il piccolo Tango con impresso sopra il logo del mondiale. Quell’omino, composto da decine di piccoli cubi verdi bianchi e rossi, è universalmente riconosciuto come la peggior mascotte mai ideata, progettata e disegnata nella centenaria storia del calcio. Di Usa ’94 ricordo invece ogni singola partita: dalla sconfitta all’esordio con l’Eire, al rigore sbagliato da capitan Baresi. Il calcio mi piace, ma non vado mai allo stadio. Allo stadio fa freddo, la gente grida e non si possono bere alcolici. Solo caffé Borghetto. Il manto erboso di San Siro l’ho visto solo in tivù, ma continuo a nutrire timore e riverenza ogni qualvolta costeggio il perimetro dello stadio con la mia bicicletta


ammaccata. Sono fermamente convinto che Giorgione Weah sia stato un grande attaccante. Chiara Vanzetti, visibilmente annoiata, gioca con la matita che tiene ora in mano, ora in bocca e tamburella il piede avvolto nelle scarpe griffate contro la gamba del tavolo. Le chiedo, per provare a sollevarla dal torpore, che cosa pensa di fare una volta terminato il liceo. “Voglio iscrivermi all’accademia”. Le chiedo allora se abbia qualche ambizione artistica. “Mi piace disegnare”. Cerco di battere il ferro finché è caldo; le dico che chiunque abbia una qualche volontà pseudo-artistica non può prescindere da una solida base culturale perché qualsiasi creazione necessita di sistemi teorici solidi per essere una vera opera d’arte e non solo semplice tecnicismo destinato a rimanere lettera morta. Chiara sgrana gli occhi e trascrive sul foglio protocollo parte della mia delucidazione, poi emette un sospiro e sbadiglia. Io inizio a pensare di non avere la minima idea di che utilità possa avere la cultura nella vita di una persona. Sono invece estremamente convinto che non avrà mai nessun peso nella vita di Chiara Vanzetti. I miei primi ricordi legati al mondo politico risalgono alla discesa in campo del Silvio nazionale, ricordo una grande scrivania di mogano da cui spuntava una testa simil-pelata che in seguito smise di essere pelata. Da quell’infausto momento in cui ebbi il mio sverginamento politico, ho visto sedersi sullo scranno di palazzo Chigi dapprima Berlusconi, poi Prodi, poi ancora Berlusconi, poi Prodi. Infine ancora Berlusconi. Prodi ha ora smesso con la politica, ma Berlusconi no. Sembra, infatti, che Silvio voglia continuare a governare fino alla morte,

sembra inoltre che intenda morire non prima del 2020. Voto a sinistra, spesso per gruppi extraparlamentari. Il mio è un voto totalmente inutile. Non ho partecipato a nessuna delle varie manifestazioni contro il governo. Non sono nemmeno sicuro che siano realmente esistite quelle manifestazioni. Mi sento soffocare nella stanza vuota e asfissiante, mi alzo in piedi e mi dirigo verso la finestra. La spalanco e mi immergo nella contemplazione del sole rossastro che si nasconde dietro ad un paio di palazzoni grigi a diciannove piani. Continuo comunque imperterrito a cercare una via d’uscita per questo tema assurdo; suggerisco a Chiara Vanzetti che la cultura può aiutare a concepire il mondo con una mentalità più aperta, a farsi una propria idea sulle questioni importanti. “Sviluppa lo spirito critico” le dico. Termino la mia orazione sottolineando il fatto che avere spirito critico è necessario per essere veramente liberi, per avere la possibilità di compire scelte autonome, ma smetto di credere alle mie parole ancor prima di aver emesso le ultime sillabe. Chiara Vanzetti annuisce distrattamente e rimpolpa la striminzita scaletta del suo tema, senza comprendere una sola parola del mio discorso. Non le posso dare tutti i torti: io per primo non comprendo il mio discorso. Mi piace la doppio malto, correre ad occhi chiusi tra la nebbia arancione di circonvallazione, scovare bancarelle scassate di libri usati disperse nelle stazioni della metropolitana, mi piace la carne alla griglia. Mi piace ruttare e cantare, mi piace Hopper e Twin Peaks. Mi piace la malinconica ironia di Pagliarani, l’estro dialettale di Zanzotto


sul Montello e il mondo metafisico di Savinio. Le Big Babol, le serie televisive degli anni ’80, le figurine della Panini. Mi piace sentire la pioggia che batte sul tetto, mi piace il sesso e l’autoerotismo. Mi piacciono i vecchi filmini porno amatoriali in cui si vedono solo ombre indistinte, le impalcature metalliche che avvolgono i grattacieli in costruzione, i distributori automatici, gli sconti del 50 per cento, le scommesse alla Snai, le casalinghe in fila al supermercato intente a osservare la propria spesa nel carrello. Amo guardare i vecchi che giocano a bocce e i vecchi che guardano i vecchi che giocano a bocce. Mi piace il gioco delle bocce in generale. Più del bowling. Chiara Vanzetti allunga le braccia e si stiracchia, lasciandosi scappare un piccolo gemito, dopodiché si sbottona la camicetta bianca e se la sfila. Ora le sue piccole tette tonde mi fissano seminascoste da una canottiera attillata prossima alla trasparenza. La piccola Vanzetti, con movimenti leggeri ed eterei, lascia il suo posto di studio e si alza. Mi cerca con lo sguardo, e mi trova ancora davanti alla finestra. Cammina verso di me in punta di piedi e mi raggiunge. Mi chiede che cosa io stia guardando attraverso il vetro, me lo chiede sussurrandomi all’orecchio, e lo fa appoggiandosi con il corpo sottile al mio fianco sinistro. Non le rispondo, non mi muovo, non respiro. Quella mi dà qualche piccolo morso al lobo, fa scivolare la mano sinistra sulla mia coscia e s’aggrappa ancor più al mio corpo. Immediatamente mi rendo conto che l’unica cosa che devo fare è riempire il silenzio del momento con una frase inutile, scostarmi dal suo abbraccio e dirle di essere intenzionato a proseguire la lezione. Invece le chiedo: “Sei sicura

che i tuoi genitori non siano a casa?”. Chiara Vanzetti, nonostante non sappia riconoscere il tempo verbale di siano, risponde prontamente di essere a casa da sola fino a sera e mi sbottona la patta. Poi si inginocchia a terra. Nel momento in cui la vedo prendere il mio cazzo in bocca mi rendo conto che Chiara Vanzetti ha capito tutto del mondo e si è adeguata ad esso nel migliore dei modi, mi rendo conto che il flusso vitale del tempo, del nostro tempo, è perfettamente in lei e natura non può che esserne orgogliosa. Chiara Vanzetti entrerà nel mondo degli adulti dalla porta principale. Io, invece, questa sera prenderò un foglio protocollo, lo piegherò a metà e ci scriverò sopra un tema di traccia: “Che utilità pensi possa avere la cultura? Soffermati in particolar modo sull’utilità che questa può avere nel tuo presente e in un’ottica futura”.

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UN POCO SVANITA

U

n viaggiatore spensierato che si trovasse a camminare per un primaverile viale di ciliegio fiorito potrebbe, portando lentamente la mano a grattarsi una stanca zona del cerebro, smuovere col piede curioso quel tappeto di delicati petali rosa sotto cui riposano dolcemente fuggevoli storie ormai dimenticate. Una di esse racconta d’un eroe bislacco, un coraggioso spaventapasseri vestito di stracci e di curiosità per il mondo e le sue cose tutte, sentimento che lo portò a ribellarsi candidamente a quella natura cui avrebbe dovuto invece sottostare ferocemente. Appeso in mezzo al campo, muovendo lo sguardo che vagava protraendosi lungo il filo dell’orizzonte, cercava di ovviare agli svantaggi di una immutabilità imposta, destinato com’era ad esser per sempre impalato a quei legni che avrebbero dovuto far di lui duro intimidatore. Insofferente a questa fissità mostrava comunque un sorriso composto, testimone d’uno spirito leggero che, librandosi tra il biancore delle nubi, vagava meravigliato guardando o meglio immaginando ciò che solo d’intatta fantasia può esser frutto ed oggetto; fu così che poco a poco e quasi inconsciamente crebbero in lui ardenti desideri che lo portarono a confondere lo stesso destino, cominciando a nutrire una sincera ammirazione ed un sentimento di simpatia per le seducenti creature che scorgeva volteggiare leggere nel vento. Quando lo sentiva soffiare vitale tra i suoi secchi bracci di paglia fantasticava

d’esser con loro dimenticando come invece questi lo scansassero pieni di terrore. Inquieto, non potendo sopportare l’ingiusta solitudine, decise di escogitare un approccio nuovo e dolce al fine di attirare gli uccelli che s’affollavano tumultuosi sopra la sua testa e da cui avrebbe potuto ricevere quelle descrizioni e quei mirabolanti racconti cui poteva soltanto inutilmente aspirare. Fu così che poco a poco il nostro impavido spaventapasseri riuscì ad attrarre l’attenzione di un gran numero di volatili e, guadagnandosi la loro simpatia, cominciò ad accompagnare le proprie giornate con le loro chiacchiere: passeri che parlavano di vette alberi passere e lombrichi, corvi che blateravano di piumaggi splendenti e riflessi metallici, grossi uccellacci che narravano di straordinarie migrazioni compiute trasvolando i mari del globo. Ma la creazione che ci destina ad un preciso scopo nell’esistenza non è molle e malleabile nel suo imporsi, e lo stato di letizia che sembrava pervadere il suo essere intero venne presto ad essere afflitto della frustrazione d’un uomo che, vedendo quel fantoccio di pezza prendersi gioco delle sue fatiche e del suo sudato raccolto, decise di intervenire con fermezza nel tentativo di salvaguardare le giuste ragioni e di disfarsi dell’ingenuo buono a nulla. Avventandosi rabbiosamente contro il povero spaventapasseri mostrava occhi che vomitavano collera, e dopo averlo rimproverato brutalmente lo sganciò con foga dal marchingegno di sostegno per


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potersi finalmente disfare della sua scomoda presenza; il misero spaventapasseri, così deposto dalla croce di legno fu con indifferenza gettato al bordo del campo lasciato a marcire insieme agli scarti del vecchio foraggio, con la testa infossata nel terriccio umido che col passare dei giorni lo sprofondava in un abisso sempre più fondo. In questo stato di freddo e tenebra asfissiante, lo spaventapasseri perse del tutto cognizione del resto e rimpiangendo amaramente i giorni in cui poteva almeno sognare di smuovere lo sguardo, non riusciva comunque a maledirsi per l’aver osato varcare la soglia dell’incubo che ormai l’affliggeva senza posa. Giunto alla condizione assoluta di non pensiero, aspettava con rassegnazione l’assedio dei vermi che dopo aver trovato accoglienza nel vecchio cappello di paglia marciavano con irriverenza sull’innocuo sorriso che ancora, nonostante tutto, si conservava fresco sul volto deturpato e agonizzante.

Fu davvero prodigioso perciò quel giorno in cui quel lento mastodontico pachiderma, conosciuto nelle zone per la sua particolare ingenuità e dabbenaggine, incuriosito dalla piccola montagnola da cui pareva spuntasse a tratti una figura quasi umana, decise di liberarla e portarla con sé nel lungo pellegrinaggio di fortificazione che avrebbe dovuto renderlo degno della nobile arte del Paese. Lo spaventapasseri, del tutto incosciente, si sentì sollevato con prepotenza dal terreno e ruotato su se stesso, appoggiarsi su di un flaccido morbido cuscino; ancora in preda al più completo stupore, recuperando lentamente l’orientamento scoprì di essere sostanzialmente sospeso viso all’aria. Ciò che osservò fu meraviglioso; il suo sguardo si perdeva nel piacevole intenso azzurro del cielo, seguendo l’armonioso circolo degli uccelli che, fendendo il tenue biancore delle nubi si perdeva nella lucentezza ardente di quel sole che morendo tra le braccia della terra mai aveva goduto di tanto


splendore. Il gigantesco lottatore gli parlò della predizione d’un sapiente maestro circa un gioioso incontro che avrebbe per sempre cambiato la sua esistenza, la scoperta d’un compagno cui avrebbe dedicato le sue cure e i suoi sforzi al fine di nobilitare i suoi intenti. Qualcuno vide incamminarsi quella strana coppia, tanto stravagante quanto la sorte che aveva deciso il loro incontro; la docile ippopotamesca figura parlando senza sosta di nobiltà di spirito, di doveri irrinunciabili, di esercizi e di nobili gesta; il lieto spaventapasseri gustando quelle piacevoli ciance, mai pago del goder che aveva dei misteri dei cieli e delle serene notti stellate. Tuttavia, l’ invidia e la malvagità che possono impossessarsi dell’animo umano sanno prendere a volte le forme più crudeli, accanendosi torbidamente nel castigare le più indifese debolezze; così dopo diversi giorni trascorsi tranquillamente, girovagando tre le chiacchiere le beffe e i piccoli scherzi dei più bonari, una terribile notte i due amici furono violentemente assaliti da briganti senza pietà che, nell’intenzione di derubarli e trovatili provvisti d’alcunché, decisero di sfogare l’amarezza punendo oltremodo l’innocente ingenuità dei nostri sventurati. Bastonate caddero come grandine sull’ umile buontempone che, pur munito d’indomito coraggio ma forse troppo stanco dagli esercizi quotidiani e spiritualmente fiaccato dalle lunghe meditazioni, non fu in alcun modo in grado di evitare che la sua bocca ansimante grondasse sangue lucente mentre il suo altrettanto

sfortunato compagno da ardente fiaccola qual’era veniva smorzato da fragorose risate e schizzi di piscio. Sanguinanti e tanfanti furono raccolti il mattino seguente e portati ad un sanatorio in disfacimento che raccoglieva la gente più misera e disperata dell’intera regione. Il nobile lottatore dovette restare immobile nel suo giaciglio per diverse settimane, e in quelle infinite notti l’abbandonato spaventapasseri inorridiva pensando alle sciagure sue, ed alle atrocità che leggeva ogni giorno negli sguardi vuoti delle persone, individui muti, disperati. Quando il giovane ebbe un poco riacquistato le forze, fu condotto insieme allo spaventapasseri presso la cima d’un monte poco distante dove dimorava un vecchio asceta un tempo maestro kabuki, uomo cieco dalla fronte candida e ampia come una nuvola. Dal suo crine screziato pendeva una lunga ciocca intrecciata che egli era solito lavorare mentre pronunciava strane massime come “sventurato colui che non osa accostare termini mai avvicinati prima” e ancora “dottrine senza errori sono chimere come dragoni ed ippogrifi”. Alla base della nuca si gonfiava una gibbosa bolla cerebrale, sede secondo molti delle continue ed incessanti visioni che affliggevano il pazzo. Avvicinatosi allo spaventapasseri, gli cavò l’unico bottone che ancora gli restava penzolante dopo l’aggressione, piantandogli in petto un rinsecchito tubero ammuffito; donando una piuma di pavone al lottatore, intimò loro di portarsi a riposare lungo il ruscello; così si racconta proseguì la loro esistenza.


Alberto Condotta, Stein, olio su tela, 73 x 89 cm


NEL LIMBO IN BALIA DELL’OBLIO

E

ravamo appena scesi dal pullman quando lucy bestemmiando decise di andare a quell’osteriola anche solo per un drink soltanto, per poi tornare a casa e recuperare il tempo perduto in quei mesi lontani facendo tutto il sesso che avevamo per tutto quel tempo solo sognato. Entrammo nel bugigattolo ancora infreddoliti e ordinammo qualcosa, non ci vedevamo da secoli e sebbene l’atmosfera non fosse delle più accoglienti la conversazione protraendosi a lungo ci tenne nel localino fino alla chiusura. Era l’una o giù di lì e fuori il vento gelido non si era certo ingentilito ma ormai l’alcol ci aveva immunizzato, facendoci dimenticare di sentirci sfiorati dall’aria sferzante, trasformando l’alito notturno in una brezza sopportabile, quasi carezzevole.

sconosciuto e la delicata pioggia che aveva appena iniziato a colarci addosso pareva quasi sospesa a mezz’aria ad aspettarci tanto che l’impressione che suscitava era che stessimo noi andando, pur restando immobili, contro la pioggia in una specie di fascio ascendente come levigate statue avvinghiate in una levitante fontana marmorea risucchiata dalle nubi quasi il tempo riavvolgendosi intorno a noi condensasse l’umidità palpabile dell’aria e facendola rimbalzare sui nostri corpi la respingesse verso l’alto in finissime colonne erette per sostenere e gonfiare la conformazione confusa del mare di nuvole che pareva permeare e assorbire i confini delle cose e con leggiadra prepotenza lacrimando, rovesciandosi in rivoli volteggianti incastonava l’indefinito in luccicanti gemme accecanti nei nostri occhi acquosi e lucidi.

Il freddo ci digrignava i denti e ci accapponava la pelle ma eravamo troppo presi dai nostri ricordi e discorsi e baci per accorgerci che la nebbia stava sconvolgendo le cose offuscandole, inglobandole in un indefinito marasma di echi di luci di fari e lampioni lontani e soffusi. Guardando verso l’alto non riuscendo a distinguere i contorni delle cose era come se fossimo in un limbo

Isolati dal resto del mondo, in una brillante bolla di spazio, invisibile per la spessa e densa nebbia, sembrava che il tempo frinisse come un esercito in groppa a grilli lanciati al trotto, le gocce ghiacciate a contatto con la pelle scandivano il ritmo del momento ma ci giungevano senza lividezza, ovattate anch’esse dalla vaporosa coltre adagiata su ogni cosa, scossa e cesellata da zigzaganti arzigogolati fiumi di fumo.


E ora che anche il numero due di Follelfo è finito, che fare per evitare scompensi psico-fisici e crisi isterico-depressive talmente isteriche da fare invidia a Linda Blair e talmente depressive da far sembrare Virginia Woolf un’adorabile mattacchiona ?

1. Attendi un numero variabile di mesi in attesa dell’imprescindibile #3 2. Accendi un pc (oppure un mac, se vuoi far colpo su chi siede fronte a te), apri Modzilla e digita:

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Contatti e proposte di collaborazione: rivistafollelfo@hotmail.it Il capibara è il roditore più grande del mondo. Il capibara vive nella gran parte delle paludi dell’America meridionale e ama rotolarsi nel fango. L’intelligence internazionale è ormai certa che il capibara sia una specie bellicosa, seriamente intenzionata alla conquista del mondo.

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