La teologia femminista islamica. Verso un ijtihad femminile dei testi sacri

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ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITA’ DI BOLOGNA FACOLTA’ DI CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI

Corso di laurea in Civiltà dell’Europa Orientale e del Mediterraneo

LA TEOLOGIA FEMMINISTA ISLAMICA. VERSO UN IJTIHAD FEMMINILE DEI TESTI SACRI

Tesi di laurea in Islamistica

Relatore

Presentata da

Prof. Daniele Guizzo

Giulia Giacomazzi

(I sessione)

Anno Accademico 2006 - 2007


AVVERTENZE................................................................................................................................3 GLOSSARIO....................................................................................................................................4 Introduzione - Femminismo islamico: un fenomeno complesso e innovativo ............................6 1. Femminismo Islamico e Teologia femminista islamica ..........................................................11 1.1. Introduzione ........................................................................................................................11 1.2. La teologia femminista islamica ........................................................................................13 1.3 Correnti della teologia femminista islamica ......................................................................16 2. Uguaglianza vs Complementarietà e le loro conseguenze sulla condizione della donna.....21 2.1. Introduzione ........................................................................................................................21 2.2 Dall’uguaglianza ontologica e morale a quella sociale .....................................................22 2.3 La complementarietà di genere ..........................................................................................24 2.4 Femminismo islamico e femminismo secolare: un rapporto complesso .........................26 2.5 Conseguenze della complementarietà di genere sullo status sociale della donna ..........30 2.5.1 Lavoro ............................................................................................................................30 2.5.2 Partecipazione politica della donna.............................................................................33 3. Esempi di ermeneutica di genere..............................................................................................40 3.1 Introduzione .........................................................................................................................40 3.2 Il Corano e i diritti della donna ..........................................................................................40 3.3 Confutazione dei miti misogini ...........................................................................................45 3.3.1 La creazione...................................................................................................................45 3.3.2 Il peccato originale e la cacciata dall’Eden.................................................................47 3.4 De-costruzione dei versetti che affermano la disuguaglianza uomo-donna ...................49 RIFLESSIONI CONCLUSIVE ....................................................................................................53 BIBLIOGRAFIA............................................................................................................................58

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AVVERTENZE

Per le citazioni e la traduzione del Corano presenti in questo lavoro ho scelto di non utilizzare una sola versione. La versione di riferimento è stato Il Corano di Alessandro Bausani (Bur, 1988). Tuttavia ho utilizzato anche Il Corano di Gabriele Mandel (UTET, 2004) con testo arabo a fronte oppure, talvolta, le traduzioni del Corano in inglese di Abdullah Yusuf Ali1 o di Muhammad Maramduke Pickhall,2 di cui ho reso personalmente la versione in italiano, quando le loro traduzioni mi sono sembrate più vicine al significato dell’originale. La traduzione utilizzata caso per caso è indicata tra parentesi oppure in nota.

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The Holy Qur‘an: Text, Translation and Commentary. The Glorious Qur‘an: Text and Translation.

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GLOSSARIO

Asbàb al-nuzùl: occasioni della rivelazione dei versetti coranici Bay‘a: patto reciproco fra il detentore del potere temporale e la comunità attraverso cui quest’ultima gli conferisce il potere Daraja: grado, gradino, livello Dìn: religione Faddala: v. preferire Fatwà (pl. fatàwa): parere giuridico richiesto ad un giurisperito a ciò addetto (muftì) Fiqh: diritto, giurisprudenza islamica, frutto dell’applicazione dei principi della shari‘a ai casi concreti Fitra: predisposizione naturale Hadd (pl. hudùd): limite, di natura giuridica, posto da Dio Hadìth (pl. ahadìth): tradizione profetica, ossia narrazione contenente un detto o un fatto del Profeta; l’insieme delle tradizioni profetiche (ahadith) costituisce la Sunna Haqq (pl. huqùq) Allah: i diritti di Dio Haràm: proibito in quanto sacro, la cui trasgressione prevede una punizione Hijàb: velo Hisba: dovere religioso collettivo di “invitare al bene e proibire il male” Huda: letteralmente “guida”, “retta via”; indica la funzione del Corano quale guida morale per il credente Ijtihàd: “sforzo” di interpretazione volto a estrarre norme giuridiche dalle fonti del diritto o volto ad innovare i trattati di diritto islamico (fiqh) Imàm: chi assume la funzione di guida spirituale durante la preghiera rituale; titolo del capo della comunità dei credenti, che ne descrive la funzione religiosa (non quella politica) Imàn: fede personale del credente Jahilliyya: era dell’ “ignoranza” indicante l’età pre-islamica Jihàd: “sforzo” di attrazione e conversione all’Islam che si può tradurre sia in azioni di proselitismo (“jihad della parola”) sia in imprese belliche (“jihad della spada” o minore); il termine possiede anche un’accezione spirituale quale sforzo del credente per migliorarsi e combattere le tentazioni (“jihad del cuore” o maggiore).

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Khalìfa: “vicario”, “successore” del Profeta; titolo del capo della umma che si riferisce all’aspetto temporale del suo potere; in questo senso può essere reso come “vice-reggente” Khilàfa: etimologicamente “successione”, “sostituzione” quindi, in questa sede, amministrazione, “vice-reggenza” della terra da parte dell’essere umano Mahr: donativo nuziale che il marito deve alla moglie; elemento essenziale del contratto matrimoniale Muhkamàt: letteralmente “esatti”, “espliciti”; versetti del Corano chiari e certi Mutashabihàt: letteralmente “oscuri”, “ambigui”; versetti del Corano allegorici ed elusivi Nafs (pl. anfus): sé, persona Naskh: letteralmente “cancellazione”, “abrogazione”; principio coranico secondo cui i versetti rivelati in tempi successivi abrogano i precetti contenuti in rivelazioni precedenti Qiwàma: responsabilità, tutela, controllo dell’uomo nei confronti della donna Risàla: messaggio, rivelazione Sharì‘a: legge divina costituita dall’insieme dei precetti rivelati da Dio che regolano l’intera esistenza del musulmano, sia come singolo che come membro della umma Shaykh (pl. shuyùk): letteralmente “vecchio”, “anziano”; titolo che indica una figura giuridica importante e, in contesto tribale, il capo politico della tribù Shùra: risoluzione dei conflitti basata sulla consultazione reciproca Sifa: attributo divino Tafsìr: opera di esegesi e interpretazione del Corano Taqwà: costante consapevolezza della presenza divina nel mondo che conduce al timor di Dio Tawhìd: principio dell’unità e unicità divina ‘Abd: servo ‘Ibadàt: atti del culto che esprimono il rapporto di totale devozione che esiste fra l’uomo e Dio ‘Ilm: scienza religiosa ‘Usùl al-fiqh: fonti del diritto Umma: comunità dei credenti nell’Islam Wahy: ispirazione divina, profezia Walì (pl. awliya’): amico, vicino; aiutante; protettore, tutore Wilàya: autorità, governo, sovranità Zawj: uno di due, ossia l’uno della coppia, quindi il/la compagno/a Zulm: iniquità che deriva dalla trasgressione dei limiti (hudùd)

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INTRODUZIONE Introduzione - Femminismo islamico: un fenomeno complesso e innovativo

Il femminismo islamico è un movimento di carattere globale e di natura eterogenea che comincia a diffondersi a inizio degli anni ‘90. Secondo le parole della studiosa americana Margot Badran può essere definito come un insieme di “discorso e pratica di tipo femminista espressamente articolati all’interno del paradigma islamico.”1 Il femminismo islamico si propone di radicare il discorso di genere all’interno della cornice religiosa dell’Islam ricercando i presupposti per il principio di uguaglianza fra i sessi e per i diritti della donna proprio a partire dai testi fondanti della tradizione islamica. Potrebbe perciò essere letto, secondo la tesi sostenuta da Hibba Abugideiri, come una sorta di “jihad di genere” (gender jihad).2 Questo obiettivo può essere raggiunto solo attraverso un processo di ri-negoziazione dei rapporti di genere, a sua volta impensabile senza la nascita di un Islam liberale, pluralista e emancipatorio. Il femminismo islamico ha in questo senso un potenziale rivoluzionario. Esso infatti apporta istanze innovative, ma lo fa a partire dalla tradizione,3 presentando, quindi, un discorso di tipo femminista sentito come autoctono. Quest’ultimo aspetto non è certamente secondario in quanto i movimenti femministi nelle realtà islamiche sono spesso percepiti come qualcosa di estraneo e finalizzato all’introduzione - più o meno imposta - di idee occidentali. In quest’ottica tanto l’Islam tradizionale,4 quanto quello islamista5 non possono né potranno evitare di rispondere al discorso innovativo e provocatorio portato avanti dal femminismo islamico perché questo li contesta sul loro stesso terreno, usando, cioè, il Corano ed i testi della tradizione. Se, come sostengono le femministe islamiche, i principi di equità di genere e di giustizia sociale sono intrinseci nel Corano stesso e se l’Islam è una religione che nelle sua essenza non dà priorità al genere, allora come si spiega che la prima immagine che viene associata a molte delle società musulmane contemporanee è quella della segregazione della donna per quanto riguarda la 1

La definizione è tratta dall’articolo “Islamic Feminism: What’s in a Name?”, da Afriche e Orienti n. 2 (2002), che riassume il contenuto di una conferenza tenuta da Margot Badran nel gennaio 2002 al Cairo presso l’American Research Center. 2 Per “jihad di genere” si intende una lotta nel nome di Dio finalizzata ad ottenere la parità di genere all’interno delle società contemporanee (Hibba Abugideiri: “The Renewed Woman of American Islam: Shifting Lenses toward ‘Gender Jihad’?”, da The Muslim World, vol. 19, 2001; 2). 3 Per “tradizione” si intende sia il riferimento ai testi fondanti dell’Islam, quali il Corano, la Sunna, i Tafsir (commentari coranici), la sira (biografia del Profeta), sia l’utilizzo di metodi ermeneutici utilizzati nell’interpretazione del Corano anche dai primi esegeti durante il periodo formativo dell’islam (VIII-IX sec. d.C.). 4 Con il termine “islam tradizionale” si intende, in questo contesto, l’islam considerato “ortodosso” frutto dell’elaborazione - sia storica che attuale- degli “ulama” (letteralmente, “dotti”, esperti di ‘ilm). Gli “ulama” nascono come figure specializzate nell’interpretazione del Corano e della shari‘a, svolgendo, quindi, un ruolo normativo fondamentale (Giorgio Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino: Einaudi, 1996; 239 – 243). 5 I termini “islamismo”, “islam radicale” o “fondamentalismo islamico” fanno riferimento a quella corrente politica e religiosa dell’Islam che auspica l’instaurazione dello stato islamico e l’applicazione integrale della shari‘a.

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vita pubblica e di subordinazione nell’ambito privato-familiare? Nonostante sia doveroso ricordare come queste idee, molto diffuse nell’immaginario occidentale, siano state alimentate anche da una concezione orientalista dell’Islam,6 tuttavia la distanza che separa la lettera e lo spirito generale che impronta il Corano – il testo sacro dell’Islam e fonte primaria di diritto - e le condizioni di vita di molte donne dei paesi a maggioranza musulmana è evidente. Ciò è riconducibile al fatto che l’ermeneutica dei testi sacri dell’Islam – e non solo – è sempre stata appannaggio esclusivo degli uomini, i quali hanno letto e interpretato il Corano e la Sunna in termini patriarcali, ossia spesso misogini. La Sunna, letteralmente “consuetudine”, quindi “tradizione”, è la raccolta dei detti e dei fatti del Profeta (ahadith, pl. di hadith), dotati di valore normativo, che ha ricevuto un processo di sistematizzazione terminato circa nell’IX secolo d.C.. Durante questo processo sono stati racchiusi all’interno della Sunna anche ahadith ritenuti spuri, ma rispecchianti la mentalità prevalente nei primi secoli dell’Islam, necessariamente patriarcale. Secondo la maggioranza delle femministe islamiche la shari‘a o legge islamica è stata mal compresa o comunque applicata in modo erroneo. Essa è frutto dello sforzo interpretativo (ijtihad) degli ulama dei primi secoli dell’Islam che l’hanno elaborata a partire dalle fonti del diritto (‘usul al-fiqh). Le esponenti del femminismo islamico attuano, quindi, una re-interpretazione e una rilettura dei testi sacri, che nell’Islam hanno un valore giuridico fondante, mantenendosi sempre all’interno della tradizione islamica. Molte studiose limitano la loro opera ermeneutica al Corano, mentre altre si concentrano anche sulla Sunna e sulla shari‘a, senza tralasciare l’analisi della storia dei primi secoli dell’Islam (VII – IX), che vedono la codificazione delle fonti, tra cui anche quelle del diritto. Le femministe islamiche con la loro opera elaborano una nuova esegesi, alternativa a quella tradizionale, rivendicando in questo modo il loro diritto all’ijtihad, da sempre di fatto prerogativa maschile. Infatti l’ijtihad che mettono in pratica nella ri-lettura dei testi sacri è un ijtihad al femminile, cioè comprensiva della prospettiva di genere, che permette di restituire al Corano, parola universale di Dio, la sua completezza originaria.

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Per “concezione orientalista” si intende la modalità peculiare attraverso cui gli studiosi europei – e anche il gusto comune – hanno rappresentato e rappresentano, ma prima di tutto concepiscono l’Oriente. La rappresentazione dell’Oriente frutto dell’Orientalismo è una “geografia immaginaria”, un costrutto culturale occidentale in cui l’Oriente non è descritto in modo oggettivo ma stereotipato e semplificato in pochi tratti immutabili quali la diversità, l’irrazionalità e il pericolo. Tale rappresentazione è volutamente inverosimile, poiché il suo obiettivo è dare un’immagine dell’Oriente come una realtà estranea, “altra”, ma allo stesso tempo comprensibile per l’Occidente. In questo senso l’Orientalismo svolge una funzione identitaria importante: l’Occidente si concepisce come tale solo in opposizione ad un Oriente lontano ed estraneo. Per questo motivo l’Orientalismo rispecchia maggiormente la cultura in cui si è sviluppato piuttosto che il suo presunto oggetto d’indagine (Edward Said, Orientalismo, Torino: BollatiBoringhieri, 1991).

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A partire dalla sua stessa definizione, il femminismo islamico è un fenomeno complesso e perciò argomento di numerosi dibattiti. È guardato con fiducia quale strumento per l’emancipazione della donna tanto dagli ambienti accademici quanto a livello degli organismi internazionali, ma talvolta è oggetto di critiche sia a proposito della sua effettiva portata libertaria sia per la sua stessa natura “ibrida”. La denominazione di “femminismo islamico” pone, infatti, qualche problema e non solo a livello terminologico. Accostare i termini “femminismo” e “islamico” presuppone di per sé che fra Islam e movimento di emancipazione della donna non vi sia contraddizione. Infatti, utilizzare l’aggettivo “islamico” significa contestualizzare il problema della liberazione della donna all’interno del mondo musulmano e, quindi, parlare di un femminismo che si propone di raggiungere la parità di genere attraverso un ripensamento generale dell’Islam e delle sue fonti. Tuttavia non tutti concordano su questa premessa, come dimostra il fatto che una delle domande ricorrenti nel dibattito sul femminismo islamico è appunto se il femminismo sia compatibile con gli insegnamenti islamici e con i contesti sociali e legali sviluppatisi nelle società musulmane. Le domande a cui il dibattito sul femminismo islamico cerca di rispondere sono anche altre: a che tipo di Islam si fa riferimento con la parola “islamico”, visto che l’Islam si è declinato in modi diversi a seconda delle culture che ha incontrato nel suo processo di formazione? Il femminismo islamico è un’arma contro il fondamentalismo oppure una minaccia per il discorso femminista secolare? Quali sono i limiti del femminismo islamico? Nel tentare di dare risposta a questi interrogativi mi sono soffermata a descrivere, nel capitolo I, il femminismo islamico e la teologia femminista islamica inserendoli nel contesto dei movimenti più generali, al fine di evidenziarne analogie e differenze. La mia analisi in seguito si è focalizzata sulla teologia femminista, corrente del femminismo islamico di cui costituisce il fondamento teorico, e di questa ho descritto brevemente i vari approcci possibili. Al fine di garantire alla donna e all’uomo gli stessi diritti, le teologhe femministe hanno dimostrato che il principio di uguaglianza ontologica e morale fra uomo e donna è un valore fondante per l’Islam e che – al contrario di quanto sostiene l’esegesi coranica classica o quella conservatrice - tale principio deve necessariamente essere rispettato anche nell’ambito sociale e politico. Ad impedire la traslazione del principio di uguaglianza dal piano ontologico e morale a quello sociale vi è la concezione della complementarietà dei generi – ritenuta dall’esegesi tradizionalista intrinseca all’Islam -, di cui ho analizzato, nel capitolo II, le implicazioni sulla condizione femminile per quanto riguarda l’ambito del lavoro e della politica. La teologhe femministe si oppongono alle restrizioni imposte alle donne da questa concezione dei generi e soprattutto da una lettura patriarcale dei testi sacri attraverso svariati 8


strumenti ermeneutici. Nel capitolo III ho scelto di soffermarmi su tre di essi, quali la ricerca dei diritti della donna nel Corano e nella Sunna, la confutazione – dimostrandone l’origine extracoranica - dei miti che danno una caratterizzazione negativa della donna e infine la de-costruzione dei versetti coranici che affermano la disuguaglianza o l’inferiorità di questa rispetto all’uomo. Infine nelle riflessioni conclusive ho cercato di dare una visione d’insieme del fenomeno della teologia femminista islamica, analizzando il modo in cui viene accolto sia dal mondo accademico sia dagli organismi internazionali, mettendone in luce i punti di forza e gli aspetti considerati meno efficaci e tentando di dare qualche risposta – necessariamente parziale e temporanea - agli interrogativi principali del dibattito. Prima di concludere l’introduzione, mi soffermo brevemente sui motivi per cui in questo lavoro compaiono dei riferimenti anche ad esponenti dell’Islam conservatore: gli shuyukh (pl. di shaykh) Muhammad al-Ghazali (m. 1996) e Yusuf al-Qaradawi. Il richiamo a queste figure potrebbe sembrare fuori luogo in una tesi dedicata al femminismo islamico, ma, come spiego anche in seguito, le opere che cito rappresentano una svolta significativa nel percorso dottrinale di questi autori.7 La studiosa Barbara Stowasser sostiene nell’articolo “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, che le ultime pubblicazioni di questi autori, entrambe risalenti agli anni ’90, esprimono un cambiamento importante delle loro posizioni a proposito della questione femminile e fanno presupporre l’inizio di un discorso di genere nuovo anche nell’ambito dell’Islam tradizionale.8 Infatti, secondo la Stowasser, alQaradawi e al-Ghazali potrebbero essere considerati gli “iniziatori” di un nuovo modello di ulama il cui obiettivo è formulare un paradigma di genere più equo e favorevole alla donna. Inoltre, personalmente non ritengo un fatto negativo che voci a sostegno della causa femminile provengano anche dalle aree più conservatrici dell’Islam. Potrebbe essere un segnale di quanto profondamente venga sentito il tema della lotta per l’emancipazione della donna nelle società islamiche odierne, visto che è diventato un argomento che l’Islam conservatore non può non affrontare. Infine non è secondario sottolineare che il parere di questi eruditi ha una notevole capacità di influenzare l’opinione pubblica non solo perché possiedono entrambi la duplice legittimità dell’islam ufficiale (in quanto ulama formatisi all’università di al-Azhar) e di quello islamista (poiché un tempo membri dei Fratelli Musulmani), ma anche per la grande notorietà di cui godono nei media arabi.

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Le opere di cui parlo sono: Muhammad al-Ghazali, Women’s Issues (1990) e Yusuf al-Qaradawi, Contemporary Legal Opinions, edita in due volumi (inizio degli anni ’90 e più volte ristampata durante il decennio). 8 Barabara Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet: The Re-writing of Woman’s Political Rights in Islam”, da The Muslim World vol. 19, 2001; 101-102 e ss).

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D’altro canto bisogna ammettere che talvolta questi studiosi non sono mossi da convinzioni femministe profonde, ma innalzano la bandiera dei diritti della donna per scopi utilitaristici, come fa ad esempio al-Qaradawi a proposito del diritto di voto, auspicando cioè la partecipazione delle donne alla competizione elettorale anche al fine di scongiurare il successo dei partiti laici. Nonostante l’integrità ideologica del femminismo possa risultare in questo modo un po’ incrinata, questo, a mio parere, è un compromesso che in molti paesi islamici odierni si è costretti ad accettare in nome del riconoscimento dei diritti della donna. Infine ho scelto di non escludere dalla trattazione questa via “non femminista” ai diritti della donna anche perché alcune delle argomentazioni usate, per esempio da al-Qaradawi, sono molto efficaci, come dimostra il fatto che sono state utilizzate, se pur in modo autonomo, anche dalle teologhe femministe.

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CAPITOLO PRIMO

1. Femminismo Islamico e Teologia femminista islamica

1.1. Introduzione

Il femminismo è un movimento sociale prima che teorico finalizzato al miglioramento delle condizioni della donna in ogni sfera della vita. Il termine è stato coniato in Francia nel 1880 da Hubertine Auclert nella sua rivista “La Citoyenne”, ma in Occidente ha raggiunto l’apice come movimento d’emancipazione negli anni ’60. L’intento fondamentale era quello di scardinare la divisone tradizionale dei ruoli presente in ogni settore della società rivendicandone una distribuzione più egalitaria tra i sessi. All’interno del femminismo occidentale di stampo secolare si distinguono due correnti: il femminismo dell’uguaglianza che si propone di rimuovere ogni ostacolo al raggiungimento della parità uomo-donna, e il femminismo della differenza, nato a fine anni ’70, che concependo il pensiero femminile come differenza, riconosce e valorizza la differenza sessuale piuttosto che cercare di annullarla. Da questo breve accenno potrebbe trasparire l’idea che il femminismo sia un fenomeno occidentale. In realtà non è affatto così. La stessa denominazione “occidentale” a ben vedere non è nulla di più di una definizione di comodo visto che il femminismo dei paesi del cosiddetto “Occidente” non costituisce un blocco monolitico: il femminismo italiano e quello americano, ad esempio, sono e sono stati differenti. Il femminismo, come qualsiasi altro fenomeno di dimensione globale, si declina in modi diversi a seconda dei luoghi dove nasce, dando vita ad una pletora di femminismi particolari. Laddove il femminismo è presentato come un fenomeno occidentale, spesso viene fatto con l’intento di delegittimarlo e diminuire la sua portata potenzialmente destabilizzante. Questa è la strategia scelta dai movimenti islamisti o dagli ulama tradizionali che accusano il femminismo islamico, ma soprattutto quello secolare, di essere un’importazione dell’occidente imperialista.1

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L’idea della connessione fra femminismo e imperialismo non è nuova poiché già durante la Conferenza Islamica del Cairo del 1952 era stata presentata una pubblicazione (edita però solo nel 1978) intitolata The Feminist Movements and their Connection with Imperialism, che proponeva la tesi del complotto imperialista per distruggere la società musulmana minando le sua fondamenta, cioè la donna e la famiglia (Valerie J. Hoffman-Ladd, “Polemics on the Modesty and Segregation of Women in Contemporary Egypt”, da International Journal of Middle East Studies, vol. 19 n. 1, 1987).

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Il femminismo islamico è un movimento di carattere globale secondo due accezioni distinte. In primo luogo, è presente in svariati paesi, da paesi islamici a paesi dove l’Islam è una minoranza, e dove assume necessariamente caratteristiche differenti. In secondo luogo, il femminismo islamico è un fenomeno anche mediatico di cui il web è cassa di risonanza. Internet è letteralmente invaso di articoli e saggi concernenti la materia in questione che variano notevolmente sia come posizione ideologica sia come livello di approfondimento culturale. Il femminismo islamico è parte tanto del femminismo in generale, o meglio del movimento globale per i diritti delle donne, quanto del modernismo islamico, cioè quel movimento transnazionale di riforma religiosa, iniziato a fine ‘800, che ha come obiettivi principali la marginalizzazione delle forme di Islam più radicali e la modernizzazione della società, utilizzando a tal fine un discorso di tipo religioso e categorie proprie dell’Islam. Il termine “femminismo islamico” è stato coniato ad inizio anni ’90 quando comincia a comparire negli scritti dalle femministe iraniane espatriate, come la studiosa Ziba Mir-Hosseini, e negli articoli della rivista culturale e letteraria “Zanan” (cioè “donne”), fondata nel 1992 da Shahla Sherkat. “Zanan” è una delle voci di dissenso più ascoltate all’interno della Repubblica Islamica dell’Iran e attraverso di essa le femministe chiedono una riforma dello status delle donne, attuabile tramite un’interpretazione femminile della legge islamica. Queste autrici utilizzano il termine “femminismo islamico” per riferirsi al nuovo paradigma femminista emergente in Iran e in altri paesi islamici, che afferma, senza alcuna contraddizione, la sua identità ad un tempo islamica e femminista. Il femminismo islamico iraniano in particolare – ma anche il movimento più vasto - è caratterizzato dalla tendenza a superare il binomio secolare\religioso, auspicando un dialogo fra le due anime. D’altro canto anche il femminismo musulmano secolare lascia sempre uno spazio aperto alla religione, ad esempio utilizzando talvolta per le sue rivendicazioni argomenti di carattere religioso.2 Tuttavia si deve ricordare che il femminismo islamico, pur cercando una conciliazione fra l’aspetto più prettamente religioso e quello laico del discorso femminista, si pone in una prospettiva più ampia rispetto a quella del pensiero femminista secolare. Esso, infatti, ha come obiettivo il miglioramento della società in toto, non solo quello della condizione femminile. Quest’ultima è vista come un presupposto essenziale per ottenere una società più equa. A questo punto è necessario aprire una piccola parentesi terminologica. Ci sono studiose come Margot Badran che distinguono fra femminismo “islamico” e femminismo “musulmano”. 2

Come spiego nel paragrafo successivo, qui intendo per “femminismo musulmano secolare” il movimento e la corrente di pensiero di persone appartenenti alla religione islamica, ma che optano per un discorso femminista di tendenza maggiormente laica. Tuttavia la religione non è del tutto accantonata, ma spesso compare tra le argomentazioni usate a sostegno delle proprie posizioni, anche se non assume un’importanza primaria.

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Mentre il femminismo islamico si può definire “un discorso sulla condizione femminile e sulla questione di genere inserito nel tessuto religioso islamico”, con il termine femminismo “musulmano” si indica invece il discorso femminista, articolato da uomini e donne musulmani, che utilizzano a sostegno della propria tesi vari argomenti, fra cui anche quello islamico/religioso.3 All’interno del mondo islamico però vi è anche una terza forma di femminismo cioè quello secolare. Questo femminismo, di chiara matrice occidentale, si pone agli antipodi rispetto al femminismo islamico in quanto radica il discorso femminista all’esterno dell’ambito religioso, incentrando l’emancipazione della donna sul concetto di diritti umani universali. Non vi è alcun tentativo di armonizzare le due posizioni (di per sé non inconciliabili come dimostrano varie studiose che rintracciano nel Corano molti di quegli stessi diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), in quanto la religione è ritenuta un’esperienza privata del singolo credente priva di valore emancipatorio. Un’altra distinzione da fare è quella fra femminismo islamico quale progetto esplicito, finalizzato alla rilettura delle fonti islamiche per creare una struttura sociale più egalitaria, e il femminismo islamico quale fattore identitario. In questa seconda accezione si riscontrano due posizioni diverse: molte studiose, come le autrici di “Zanan” o le componenti del gruppo malese “Sister in Islam”, non esitano a riconoscersi in questa definizione, poiché non trovano alcuna contraddizione tra i concetti di “femminismo” e di “Islam”; altre, invece utilizzano discorsi propri del femminismo islamico, ma non accettano di essere etichettate come tali perché ritengono riduttivo che la loro opera venga inserita in categorie fisse. Tuttavia ciò non ci impedisce di considerale tali in quanto “il rifiuto del termine ‘femminismo’ non significa affatto assenza di una coscienza femminista”.4

1.2. La teologia femminista islamica

Una corrente specifica appartenente a quel fenomeno variegato costituito dal femminismo islamico è la teologia femminista islamica, su cui intendo concentrare la mia attenzione. Il movimento della teologia femminista islamica rivendica il diritto alla parità di genere fondandolo su argomentazioni teologiche, prima fra tutte lo sforzo di re-interpretazione del Corano attraverso

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Marogt Badran, intervista sul femminismo islamico rilasciata nel maggio 2005 presso l’ISIM (Institute for the Study of Islam in the Modern World) di Leiden, in: www.wluml.org. 4 Azza M. Karam, “Women, Islamism and State. Dynamics of Power and Contemporary Feminism in Egypt”, da Muslim Women and the Politics of Participation: Implementing the Beijing Platform, (1998) Syracuse: Syracuse University Press; 19.

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il Corano stesso (tafsir al-Qur‘an bi-l Qur‘an). Di seguito delineerò brevemente alcuni tratti di questa corrente. La teologia femminista è un movimento di carattere intra- e sovra-religioso nato dalla convinzione che femminismo e teologia non siano in contraddizione. Lo si può definire come un discorso e una riflessione su Dio che parte da presupposti nuovi, cioè dalla colpevolezza e dall’esperienza peculiare di essere donne in un mondo costruito al maschile. Ciò comporta l’introduzione di tematiche nuove, assenti nella teologia precedente elaborata dagli uomini. Le teologhe femministe rivendicano il loro diritto di parlare di Dio “in termini femminili”. La teologia femminista nasce a fine ‘800 negli Stati Uniti con la pubblicazione di La Bibbia della donna di Elisabeth Cady Stanton (1895), ma assurge a movimento globale solo negli anni ’60 del secolo scorso. Al giorno d’oggi, si presenta come un movimento eterogeneo, presente in ogni paese e religione, costituito da una pluralità di teologie diverse, ma con un intento comune: dimostrare che la produzione teologica precedente pretende di esprimere un messaggio universale, mentre in realtà è portatrice di un punto di vista androcentrico, in quanto elaborata all’interno di società patriarcali di cui legittima gli interessi. Al contrario secondo le teologhe femministe, il contenuto autentico del messaggio divino non è declinato secondo specificazioni di genere, ma ugualitario. Ciò che ha fuorviato da una tale interpretazione è il fatto che il messaggio divino si manifesta attraverso un linguaggio e un contesto determinati, che sono inevitabilmente patriarcali. Per portare alla luce la vera natura egualitaria del messaggio divino le teologhe femministe usano diversi metodi ermeneutici, come l’analisi storica dei testi religiosi che hanno contribuito alla discriminazione della donna e le messa in luce di passi che ne affermano l’umanità e l’uguaglianza, ad esempio riscoprendo il ruolo che hanno i personaggi femminili nelle Scritture. La teologia femminista islamica inizia a fine anni ’60 e trova il suo presupposto teoricometodologico nell’opera di Fazlur Rahman Islamic Methodology in History (1965), considerata il punto d’avvio della teologia islamica moderna. Rahman è infatti uno dei primi studiosi a distinguere all’interno del testo coranico tra versetti contenenti il messaggio divino eterno, di valore universale, e versetti legati invece al contesto dell’epoca della rivelazione e perciò particolari, ai quali deve essere applicato un metodo interpretativo storico-critico. La maggior parte delle teologhe femministe preferisce concentrare la propria analisi esclusivamente sul Corano, in quanto all’interno dell’Islam detiene la massima sacralità e quindi l’autorità giuridica più alta. Fra queste possiamo ricordare Amina Wadud e Riffat Hassan. Altre invece, come Aziza al-Hibri, prendono in esame le diverse formulazioni della legge islamica (shari‘a). Ovviamente la rilettura della shari‘a non può prescindere da una nuova interpretazione

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del Corano; quest’ultima, infatti, è un passo fondamentale per una riconsiderazione generale del fiqh (diritto islamico) e la nascita di una nuova giurisprudenza.5 Infine, alcune studiose, come la marocchina Fatima Mernissi, propongono un riesame della Sunna con l’intento di scoprire gli ahadith deboli (da‘if), quindi privi di valore normativo, ma che durante il processo di codificazione sono stati inglobati nelle raccolte autorevoli di tradizioni profetiche. Il motivo di questa scelta sta nel fatto che la Sunna, tradizionalmente opera umana e non divina, è profondamente radicata a livello legislativo poiché integra le disposizioni mancanti del Corano e costituisce la seconda fonte della shari‘a. Essa è il vero ostacolo ad una lettura liberale dell’Islam nei confronti della donna. Infatti la Sunna comprende anche tradizioni che riflettono culture e usanze arabe pre-islamiche oppure persiane e bizantine. Secondo queste studiose la portata di tali elementi ha avuto un effetto negativo sulle condizioni della donna. A questo fatto va aggiunta la prassi ermeneutica, diffusasi durante il califfato ‘Abbaside (750 – 1258), di interpretare il Corano attraverso la Sunna. La Sunna veniva utilizzata come strumento ermeneutico principale sia perché, date le sue vaste dimensioni, può integrare le lacune del Corano, sia perché permette di determinare le “cause della rivelazione” (asbab an-nuzul), fondamentali per la contestualizzazione dei vari versetti e per l’applicazione della teoria del naskh (l’abrogazione di alcuni versetti tramite versetti di significato opposto rivelati in seguito).6 Tuttavia questa prassi attribuisce maggiore importanza alla Sunna rispetto al Corano stesso e giunge persino ad accordare lo status di wahy (rivelazione) a quella che è in realtà un’opera umana. Analogamente R. Hassan ritiene che “la lettura del Corano attraverso le lenti delle tradizioni profetiche sia la causa principale dell’interpretazione errata di molti passaggi usati per negare alla donna uguaglianza e giustizia”.7 I metodi ermeneutici usati dalla teologia femminista islamica si rifanno sia alla tradizione classica, da cui vengono presi in prestito gli strumenti dell’ijtihad (“sforzo d’interpretazione” personale per trarre nuovi precetti normativi dalla parola di Dio), del tafsir (commentario coranico) e di materiali estratti dalla sirat an-nabi (biografia del Profeta), sia alla teologia moderna che impiega, fra l’altro, l’apporto di scienze quali la linguistica, la critica letteraria, l’antropologia, la sociologia ecc..8

5

Marogt Badran, intervista sul femminismo islamico presso l’ISIM di Leiden. Asma Barlas, ‘Believing Women’ in Islam. Unreading Patriarchal Interpretations of the Qur’an, Austin: University of Texas Press (2002); 64 - 68. Il principio del naskh fa riferimento al versetto 106 della II sura: “Non abrogheremo, né ti faremo dimenticare alcun versetto senza dartene uno migliore o uguale” (Bausani). 7 Riffat Hassan, Religious Conservatism: Feminist Theology as a Means of combating Injustice toward Women in Muslim Communities/Culture, in: www.pakistanvoice.org/religious%20Conservatism.htm. 8 M. Badran, “Islamic Feminism: What’s in a Name?”. 6

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Utilizzando entrambi questi tipi di strumenti metodologici la teologia femminista islamica ha elaborato un’ermeneutica nuova e sensibile al genere. Le tecniche specifiche di quest’ermeneutica femminista possono essere così riassunte: - la rivisitazione dei versetti che contengono storie e leggende discriminanti per la donna, diffuse in ambiente semitico (israiliyyat), ma che attraverso le tradizioni profetiche sono entrate a far parte della Sunna; - la citazione dei versetti che affermano l’uguaglianza fra uomo e donna, ad esempio quelli che sostengono la mutua responsabilità degli uni verso gli altri; - la de-costruzione dei versetti che dichiarano la disuguaglianza e l’inferiorità della donna tramite procedimenti di vario genere che possono essere, ad esempio, dimostrare la loro portata contingente, oppure il loro valore non necessariamente imperativo; - la distinzione fra i principi universali del Corano e quelli contingenti e particolari. Questa tecnica era già usata degli esegeti classici, ma le teologhe femministe ne ribaltano il contenuto trasformando i principi ritenutiti da questi ultimi universali (spesso di carattere legale) in contingenti e viceversa.9

1.3 Correnti della teologia femminista islamica

Per quanto riguarda la teologia femminista islamica, in essa si possono individuare cinque approcci diversi: l’approccio apologetico, l’approccio riformista, l’approccio transformazionista, quello razionalista e infine una posizione di rifiuto di qualsiasi testo religioso se discriminante nei confronti della donna.10 Queste categorie sono un espediente esemplificativo e quindi non devono essere assunte in modo rigido. Molti autori utilizzano nella loro opera più approcci allo stesso tempo, mentre altri passano nel loro percorso personale da un approccio all’altro.

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Ibidem. Ghazala Anwar in “Muslim Feminist Discourse”, da Focus (1991). Un’altra classificazione possibile è quella proposta da C. Osiek riguardo alla teologia femminista cristiana, ma che A. S. Roald applica alla teologia islamica. Anche questa classificazione prevede cinque approcci: lealista, revisionista, sublimazionista, liberazionista e coloro che sostengono una posizione di rifiuto. Le prime tre auspicano una riforma delle interpretazioni patriarcali del testo sacro, mentre le ultime due propongono una de-costruzione di tali interpretazioni e una ri-costruzione del messaggio divino su basi nuove (Anne Sofie Roald, “Feminist Reinterpretation of Islamic Sources: Muslim Feminist Theology in the Light of the Christian Tradition of Feminist Thought”, in Women and Islamization: Contemporary Dimensions of Discourse on Gender Relations, Oxford, 1998). 10

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1) Approccio apologetico Il presupposto logico alla base di questa corrente è quello di ritenere che il problema non sia la religione in sé e nemmeno la sua interpretazione, ma che al contrario questa possa costituire la risposta. Il Corano, infatti, quale parola di Dio, conferisce a entrambi i sessi tutti i diritti di cui hanno bisogno per la loro realizzazione come esseri umani. I diritti non sono i medesimi in quanto l’uomo e la donna sono irriducibilmente diversi, secondo l’ordine naturale stabilito da Dio. Anche se rilevata, questa differenza non legittima però le ingiustizie di cui la donna è vittima nelle società contemporanee sia per quanto concerne il riconoscimento giuridico sia per l’applicazione pratica di tali diritti. Questa distanza tra i testi e la pratica culturale è dovuta sia al fatto che le donne spesso non sono consapevoli dei loro diritti sanciti dal Corano - da qui l’accento sull’importanza dell’alfabetizzazione religiosa della donna - sia al fatto che gli uomini nel corso della storia le hanno private dei questi diritti attraverso strutture di potere sessiste. Le teologhe apologetiche usano anche altre argomentazioni a sostegno della loro tesi. Una, ad esempio, è il fatto che il Corano non attribuisce a Eva (Hawa’) la responsabilità del peccato originale, rendendo la donna origine del male come accade, invece, nella tradizione biblica giudaico-cristiana. Un’altra argomentazione utilizzata è sottolineare come la concezione di Dio nell’Islam sia priva di una distinzione di genere. A prova di questo argomento, Jolanda Guardi sottolinea come l’idea del divino che si manifesta attraverso il Corano – che, in quanto ‘Libro’ (kitab), concettualmente è di genere neutro - invece di incarnarsi in un uomo, non fornisce alcun giudizio di genere. L’Islam permette così di pensare al divino in modo “a-patriarcale”.11 Un ultimo argomento, usato spesso dalle correnti apologiste, è quello di vedere nell’avvento dell’Islam un significativo miglioramento delle condizioni di vita della donna rispetto al periodo precedente, detto età della jahiliyya ossia “ignoranza”. Tuttavia tale tesi non è supportata da prove storiche certe in quanto l’Islam classico (IX – XIII sec d.C., fine del califfato ‘Abbaside) ci ha fornito un’immagine della società pre-islamica funzionale ai propri interessi. Ha compiuto un’opera di re-mitologizzazione del passato analoga a quella eseguita in tempi recenti sia dagli islamisti che dalle femministe.12 Entrambi leggono il passato in modo selettivo alla luce delle loro convinzioni e a sostegno delle proprie posizioni.

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Jolanda Guardi, “Islam e discorso di genere”, da Testimonianze n. 417 (2001), 2. Andrew Rippin, Muslim. Their Religious Beliefs and Practices – Feminism’s Islam, London: Routledge (2005), 296 – 297.

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2) Approccio riformista Per queste teologhe la distanza tra il contenuto egualitario del messaggio coranico e la realtà della condizione femminile è dovuta ad un’errata interpretazione o ad una mancata comprensione della parola di Dio. Le teologhe femministe rivendicano, quindi, il diritto di reinterpretare il Corano polemizzando con le interpretazioni tradizionali di carattere patriarcale, ma non mettono ovviamente in questione lo status del Corano quale parola di Dio. Il metodo scelto da questo approccio comprende sia il tentativo di storicizzazione e contestualizzazione dei versetti coranici, che l’analisi filologica.

3) Approccio trasformazionista La corrente trasformazionista è la più interessante perché possiede il maggior potenziale innovativo. Queste teologhe attuano una trasformazione della tradizione dal suo interno. Esse utilizzano, infatti, i metodi ermeneutici propri dell’esegesi classica, e se ne appropriano in modo da creare un nuovo spazio interpretativo giungendo a conclusioni opposte rispetto a quelle tradizionali. Un metodo usato è la distinzione classica, presente nel Corano stesso, fra versetti chiari e certi (in arabo muhkamat) e quelli allegorici o elusivi (mutashabihat). Infatti il Corano narra: “Egli è Colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi [muhkamatun], che sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici [mutashabihatun]. Ma quelli che hanno il cuore traviato seguono ciò che vi è di allegorico, bramosi di portar scisma […] mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio” (III:7, Bausani). Siccome nel testo non è specificato quale siano gli uni e quali gli altri, gli esegeti classici hanno identificato i versetti “chiari” con quelli di contenuto legale, e quelli “allegorici” con quelli di natura più spirituale ed etica. Questo assunto viene ora capovolto. I versetti etici, contenenti i principi fondamentali, vengono definiti come muhkamat (chiari) e perciò interpretati in modo universale, mentre quelli di portata legale e spesso misogini sono ritenuti mutashabihat (allegorici) e perciò interpretati in base al contesto storico, limitandoli cioè alla contingenze specifiche. In base al dettato coranico questa interpretazione ha la stessa legittimità di quella classica, ma assume una portata innovativa straordinaria in quanto apre la strada ad una ricostruzione delle basi su cui si fonda l’intero diritto islamico, mantenendosi al contempo all’interno della tradizione. Un altro metodo utilizzato è la distinzione classica fra sure meccane e sure medinesi. Le rivelazioni ricevute da Muhammad alla Mecca (dal 610 al 622) sono di carattere profetico e contengono un messaggio egalitario. Invece quelle ricevute a Medina (dal 622 al 632) si differenziano sia per stile che per contenuto: hanno un andamento prosastico e contengono precetti 18


normativi per regolare la vita della umma, la prima comunità di credenti. Tuttavia la shari‘a venne derivata dai precetti rivelati durante il periodo medinese, poiché gli esegeti classici ritennero che, a livello normativo, le sure medinesi abrogassero quelle meccane, rivelate in un momento precedente. Il teologo sudanese Mahmud Muhammad Taha, riprende tale distinzione ritenendo, però, che nelle sure meccane sia contenuto il messaggio universale ed eterno del Corano, mentre le sure mediniesi sarebbero una manifestazione nella storia del messaggio divino. Egli ha propugnato, quindi, la cosiddetta “seconda missione dell’Islam”, fondata su una riformulazione della legge islamica sulla base non dei precetti dei versetti medinesi, ma seguendo i principi etici dell’ “Islam meccano”.13 Questo strumento ermeneutico seppur elaborato da uno studioso estraneo al movimento del femminismo islamico è stato ripreso e sviluppato dalle teologhe femministe proprio in virtù del suo potenziale emancipatorio.

4) Approccio razionalista La corrente razionalista presenta due posizioni diverse che sono ben rappresentate da due studiosi quali Riffat Hassan e Fazlur Rahman. Secondo l’interpretazione della Hassan, siccome alcuni degli attributi di Dio (sifat) sono giustizia e compassione, un trattamento iniquo verso le donne non può derivare da Dio e perciò la sua parola (il Corano) può essere interpretata solo conformemente a tali caratteristiche. Tuttavia la studiosa compie una scelta soggettiva deducendo la giustizia di Dio solo da alcuni versetti, che decide arbitrariamente di enfatizzare, mentre altri di contenuto diverso vengono ignorati. Fazlur Rahman, pur non essendo un esponente del femminismo islamico, ha elaborato un espediente ermeneutico ripreso dalle teologhe femministe per le sue notevoli potenzialità innovative soprattutto per quanto concerne il contesto giuridico-legislativo. Infatti egli sottolinea la necessità di una cornice teoretica in cui inserire la legge islamica. La shari‘a dovrebbe fondarsi sui principi generali dell’etica islamica, ma l’approccio al Corano dell’esegesi classica è di tipo frammentario e non rende possibile trarre da esso dei principi etici generali. Si auspica, quindi, la creazione di una teologia, composta dai principi universali dell’Islam, ottenibile tramite un metodo esegetico storico-critico che concepisce il testo coranico in modo unitario, facendo cioè attenzione tanto ai richiami intertestuali fra i versetti quanto alla coerenza interna del testo.

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Per questa lettura dell’Islam, ritenuta eretica, Mahmud Mohammed Taha venne accusato di apostasia dagli ulama e giustiziato nel 1985, all’inizio del processo di islamizzazione del Sudan (Gilles Kepel, Jihad - Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma: Carocci, 2001, 215 e 219).

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5) Approccio del rifiuto Questa posizione si colloca al limite tra il femminismo religioso e quello laico. Se si utilizza la distinzione della Badran, la si può ritenere parte del “femminismo musulmano”. Le esponenti di questa corrente, per certi versi antitetica alla teologia femminista, rifiutano di riconoscere al Corano qualsiasi autorità di discriminare nei confronti della donna e promuovono la revisione o la non-considerazione dei versetti di contenuto misogino o sessista. Una nota rappresentante di questa posizione è Tasleema Nasreen.

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CAPITOLO SECONDO

2. Uguaglianza vs Complementarietà e le loro conseguenze sulla condizione della donna

2.1. Introduzione

Se dovessimo delineare un’ipotetica agenda operativa del femminismo islamico, la priorità andrebbe sicuramente al miglioramento delle condizioni di vita delle donne nei paesi islamici. Il raggiungimento di questo obiettivo prevede un impegno parallelo su due diversi piani: il piano normativo, cioè attraverso il riconoscimento giuridico a donne e uomini di uguali diritti; e il piano pragmatico, ossia tramite l’implementazione dell’uguaglianza giuridica nella pratica quotidiana. Il razionale logico alla base del riconoscimento di diritti civili e politici alla donna, nella stessa misura che all’uomo, è il concetto di pari dignità umana. Il fatto che uomo e donna condividano la medesima natura umana (fitra) – come espresso esplicitamente nel Corano - è ammesso oggi anche dalle correnti islamiche più conservatrici, ma ciò non è sufficiente a far sì che questa uguaglianza a livello ontologico e morale si trasformi in equità di trattamento dal punto di vista sociale e politico. Infatti, nonostante l’uomo e la donna abbiano la medesima dignità umana, le differenze anatomiche comportano una differenziazione funzionale dei generi. In altre parole i ruoli che la società attribuisce al genere maschile e a quello femminile sono di tipo diverso e derivano direttamente dalla differenza biologica. Generalmente all’uomo è associata la funzione pubblica\politica, alla donna invece quella privata\famigliare.1 Nell’Islam i ruoli sociali femminili e maschili non sono concepiti come contrapposti gli uni agli altri, ma come complementari. Ed è proprio questa complementarietà fra i generi che ostacola il raggiungimento dell’equità fra uomo e donna nell’ambito del lavoro e in quello politico. A partire dai testi sacri, le teologhe femministe hanno dimostrato che il Corano sancisce la medesima dignità umana fra uomo e donna, e da questa fanno derivare il diritto all’uguaglianza nella sfera sociale. E anche laddove il Corano preveda una differenziazione dei ruoli fra i due

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Una definizione possibile del concetto di “genere” è l’insieme dei significati sociali che vengono attribuiti a un determinato sesso e che sono interiorizzati dal singolo tramite il processo di socializzazione (A. Barlas, ‘Believing Women’ in Islam, 130).

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generi, non prescrive per ciascuno di essi necessariamente un solo ruolo o una categoria determinata di ruoli.2

2.2 Dall’uguaglianza ontologica e morale a quella sociale

La dignità umana della donna viene dedotta, secondo l’analisi svolta da Asma Barlas, tanto dall’uguaglianza ontologica quanto dall’uguaglianza etica e morale dell’essere umano, entrambe espresse nel Corano.3 Il concetto di uguaglianza ontologica deriva dal fatto che uomo e donna possiedono una natura simile in quanto sono stati creati da una singola entità, o meglio da un unico Sé (nafs). Il tema della creazione da un singolo Essere e, quindi, della condivisione della medesima natura si incontra in moltissime sure. Alcuni dei versetti più noti in materia sono: “Temete Iddio, che vi creò da una singola persona [nafs] ed ha creato, della stessa natura, la sua compagna [zawj]” (IV:1)4 oppure “e uno dei Suoi segni è l’aver creato per voi e da voi [min ‘anfusi-kum] delle spose” (XXX:21; Mandel). La specificità sessuale ovviamente non è cancellata dall’affermazione dell’uguaglianza ontologica fra uomo e donna; da questa però non viene fatta derivare una differenziazione sessuale dei ruoli sociali. Anzi l’autrice sostiene che i versetti che rivendicano tale uguaglianza possano essere usati, dal punto di vista ermeneutico, come cornice epistemologica entro cui leggere tutti i precetti relativi alle relazioni di genere contenuti nel Corano. L’uguaglianza etica e morale fra uomo e donna è dedotta invece da molteplici elementi. In primo luogo il Corano attribuisce all’uomo e alla donna i medesimi obblighi religiosi (le ‘ibadat, cioè gli atti cultuali attraverso cui si esprime la devozione dell’uomo nei confronti di Dio) e gli stessi standard di comportamento morali (rispettare i limiti [hudud] imposti da Dio). In secondo luogo l’uomo e la donna sono definiti nel Corano “amici e fratelli” [awliya’] gli uni degli altri. (IX:71, Bausani). Questa caratteristica occupa il posto iniziale nella lista dei requisiti che deve possedere un buon musulmano per poter definirsi tale. Infatti il Corano afferma: “i credenti e le credenti sono awliya’ gli uni degli altri: ordinano il conveniente e proibiscono il biasimevole, compiono la preghiera, versano la zakat e obbediscono a Dio e al suo Messaggero” (IX:71; Bausani). Il termine awliya’, plurale dei wali, in questo contesto viene tradotto come “amici”, ma

2

A. Wadud, Qur’an and Woman, 8. A. Barlas: ‘Believing Women’ in Islam, 129 e ss. 4 In questo caso ho utilizzato la traduzione del Corano in inglese di Abdullah Yusuf Ali, da cui ho tratto personalmente la versione italiana. 3

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tendendo conto del significato della radice [W-L-Y], si può accostargli anche l’accezione di “protezione” e “guida”. Quindi il tipo di rapporto fra uomo e donna, auspicato dal Corano, sarebbe improntato al rispetto e all’aiuto reciproco, entrambi non realizzabili partendo dal presupposto che l’uomo sia superiore alla donna nella sfera morale. Perciò, come traspare da questo versetto, il valore centrale per quanto riguarda l’ambito etico-morale è la reciprocità, piuttosto che la gerarchia fra i sessi. Anzi, qualora si volesse individuare una gerarchia negli insegnamenti coranici, questa sarebbe senz’altro di carattere morale, non sessuale. Infatti, l’unica differenza all’interno della razza umana rilevante dal punto di vista divino, è quella riguardate il valore fondamentale della “taqwa” (pietà): “Il più nobile di voi presso Dio è il più timorato” (XLIX:13; Mandel). L’unica distinzione importante è, quindi, quella fra credenti e non credenti, non tra uomo e donna. Con il termine taqwa, reso spesso in italiano come “timore di Dio”, si intende la “consapevolezza” di Dio, che conduce necessariamente ad un comportamento morale retto. Per questo motivo viene reso talvolta anche con i sostantivi “pietà” o “comportamento pio”.5 Tuttavia bisogna ricordare che, nemmeno in questo campo, vi è alcun privilegio nei confronti dell’uomo in quanto entrambi i sessi hanno le medesime potenzialità di raggiungere la taqwa. Inoltre solo in base a quest’ultima, renderanno conto delle loro azioni nell’Aldilà: “E chiunque, maschio o femmina, opererà il bene, e sarà credente, entrerà nel Paradiso” (IV:124; Bausani, il corsivo è mio). Un ultimo elemento che testimonia l’uguaglianza morale dei due sessi è il fatto che nel Corano non solo gli uomini (Abramo, Mosè, Gesù, Muhammad), ma anche alcune donne ricevono il wahy (cioè l’ispirazione divina). La storia della madre di Mosè (umm Musa) narra infatti: “E rivelammo alla Madre di Mosè: ‘Allattalo: ma se tu temi per lui, gettalo nel fiume, e non temere, e non rattristarti, poiché noi te lo renderemo e faremo di lui il Nostro Inviato.” (XXVIII:7; Bausani, il corsivo è mio). 6 Una volta dimostrata l’uguaglianza dell’uomo e della donna a livello ontologico ed eticomorale, le teologhe femministe si sono trovate a dovere controbattere l’esegesi tradizionale secondo cui il Corano sancirebbe l’uguaglianza nella sfera morale, ma al contempo consentirebbe un trattamento distinto nella sfera sociale. A questo scopo A. Barlas fa ricorso sia alla natura della religione islamica, sia al principio del tawhid (unità e unicità divina). Nella struttura della religione islamica (din) la sfera morale-religosa, riguardante le ‘ibadat, e quella socio-comunitaria, che rimanda invece alla umma (comunità islamica), sono 5

A. Wadud, Qur’an and Woman, 36 – 37. A. Wadud, pur ritenendole entrambe forme di comunicazione divina agli uomini, specifica che il wahy si differenzia dalla risala (letteralmente “messaggio”). Con il termine wahy indica sia l’“ispirazione divina” sia la “profezia”; mentre risala, più propriamente “rivelazione”, implicherebbe non solo ricevere una profezia (wahy), ma anche avere la consapevolezza di dover diffonderne il messaggio e di considerarla un paradigma di comportamento (Ibidem). 6

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intrinsecamente legate. Infatti, dovere peculiare di ogni buon musulmano è adempiere tanto ai diritti di Dio (huquq Allah) connessi alla dimensione morale – ma non da considerarsi in senso esclusivamente spirituale - quanto ai diritti degli uomini (huquq al-‘ibad), legati maggiormente alla umma e quindi all’aspetto sociale. Questa particolare concezione della religione, che unisce in un tutt’uno la dimensione morale e quella sociale dell’esistenza, è vista da A. Barlas anche come conforme al principio dell’unità divina o tawhid. Infatti, secondo questa prospettiva, separare la sfera morale da quella sociale, e quindi riconoscere alla donna la stessa dignità umana dell’uomo, ma trattarla iniquamente per quanto riguarda il campo sociale e legale, sarebbe contrario al messaggio coranico e quindi anti-islamico. Infatti “come potrebbe essere logico affermare che le donne e gli uomini sono uguali dal punto di vista di Dio, ma diversi dal punto di vista degli uomini?”.7

2.3 La complementarietà di genere

L’interpretazione del Corano appena presentata afferma l’uguaglianza fra uomo e donna in ambito sociale e politico. Essa è frutto di una lettura femminista in contrasto con le interpretazioni elaborate sia dall’esegesi tradizionale sia da molti studiosi contemporanei, di tendenza più o meno conservatrice. Queste ultime concezioni di tipo tradizionale sono incentrate sul concetto di complementarietà dei generi. Il presupposto logico alla base è l’esistenza di un “ordine naturale” di origine divina che sancisce differenze fisiche ed emotive inconciliabili tra i due sessi, le quali comportano necessariamente dei ruoli sociali distinti. Questi ruoli, dedotti direttamente dalle differenze biologiche, sono concepiti come naturali e come il principale mezzo per la realizzazione personale di bisogni e aspirazioni dei due sessi. Inoltre, il concetto di complementarietà implica una visione dei sessi che si completano reciprocamente e trovano l’uno nell’altro la propria realizzazione. Secondo gli studiosi che sostengono tale concezione dei generi, come ad esempio l’esegeta egiziana ‘A’isha ‘Abd al-Rahman, in questo modo nella sfera sociale verrebbe a crearsi un “equilibrio” naturale compatibile con le differenze sessuali.8 Tale concezione si distanzia sia dalla visione occidentale dei due sessi, che varia da una posizione di totale uguaglianza a una di contrapposizione, sia da quella sostenuta dall’Islam fondamentalista che ritiene la donna inferiore. Mi soffermerò inizialmente su quest’ultima.

7 8

A. Barlas, ‘Believing Women’ in Islam (2002), 140 - 142 e 148. V. J. Hoffman-Ladd,“Polemics on the Modesty and Segregation of Women in Contemporary Egypt”, 35 - 36.

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L’idea dell’inferiorità della donna deriva essenzialmente da una lettura di tipo patriarcale di alcune sure e in particolare della sura II:228, tradizionalmente usata per sostenere la preferenza divina nei confronti dell’uomo, in quanto avrebbe ricevuto un “gradino” in più rispetto alla donna.9 Al contrario, secondo lo shaykh Muhammad al-Ghazali, il concetto d’inferiorità femminile non è contenuto nel Corano, ma proviene dalla Sunna, nella quale è sancita inequivocabilmente sia per quanto riguarda l’intelletto che per la capacità di adempiere agli obblighi religiosi.10 Invece ciò che il Corano attesta è semplicemente la differenza biologica della donna rispetto all’uomo, ma non la sua inferiorità. Le donne, quindi, citando la studiosa Azza M. Karam, “non sono inferiori rispetto agli uomini, ma ugualmente importanti anche se in modo diverso”.11 L’idea di complementarietà si distanzia anche dalla concezione dei rapporti di genere tipica del femminismo occidentale. Si differenzia sia dalla visione competitiva dei due sessi, propria delle tendenze più radicali, sia dalle posizioni che reclamano l’uguaglianza assoluta fra sessi. Parlare di “uguaglianza” nelle relazioni di genere significa accogliere un punto di vista occidentale, che non ha senso dalla prospettiva islamica tradizionale. La maggior parte degli studiosi e delle studiose presi in considerazione in questo studio preferiscono piuttosto parlare di “equità”, oppure, se utilizzano il termine “uguaglianza” intendono con esso l’idea di possedere la stessa potenzialità umana e non i medesimi diritti e doveri come secondo la comune accezione laica occidentale.12 In altre parole non si considera importante l’uguaglianza “quantitativa”, ma l’“equità” che consiste nel trattare uomo e donna in modo equo in base alle loro differenze, e non a prescindere da queste. La differenza in sé diventa perciò un elemento cruciale, non più un ostacolo da annullare.13 Fra coloro che invece si oppongono strenuamente all’idea di complementarietà di genere, e alla conseguente attribuzione della sfera pubblica all’uomo e di quella privata alla donna, vi sono le femministe di tendenza laica. Secondo questa corrente del femminismo, rivolta indubbiamente 9

“Esse agiscono con i mariti, come i mariti agiscono con loro, con gentilezza; tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto” (II:228, Bausani). 10 Lo shaykh Muhammad al-Ghazali (1917 - 1996) è stata una figura molto influente nel mondo religioso islamico. Ha studiato all’università di al-Azhar del Cairo, ma non apparteneva alla cerchia degli ulama ai vertici dell’istituzione. Inoltre durante gli anni giovanili era anche legato al movimento dei Fratelli Musulmani. In questo periodo condivideva con le realtà appena citate una visione tradizionale dei rapporti di genere, ma la sua posizione in materia subì una marcata svolta con l’opera Women’s Issues (1990), con la quale pone le basi per la creazione di un nuovo paradigma di genere (B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 100 - 101 e 117). 11 A. M. Karam, “Women, Islamisms and State”, 24. 12 Nonostante nel linguaggio comune i concetti di uguaglianza ed equità vengano spesso sovrapposti, possiedono significati distinti. Per “uguaglianza” si intende l’ideale etico e politico grazie al quale tutti i membri di una collettività sono trattati allo stesso modo. Per “equità” si intende, invece, il riconoscimento al singolo individuo di ciò che gli spetta in base a un ideale di giustizia non interpretato in modo rigido e letterale (G. Devoto, G.C. Oli, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, 1987). 13 Asma Barlas in ‘Believing Women’ in Islam cita, a questo proposito, il famoso detto aristotelico secondo il quale “la giustizia consiste non solo nel trattare casi uguali in modo uguale, ma anche nel trattare casi diversi in modo diverso”, 132.

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più all’uguaglianza fra i sessi che all’equità, tale concezione sarebbe frutto di una costruzione culturale di tipo patriarcale, finalizzata al mantenimento del potere maschile, e basata su una visione della donna al medesimo tempo fragile e pericolosa e per questo da contenere all’interno dell’ambito privato.

2.4 Femminismo islamico e femminismo secolare: un rapporto complesso La diversa concezione dei generi (complementarietà vs uguaglianza) è sicuramente la questione principale in cui si differenziano femminismo islamico e femminismo secolare, poiché da questa derivano le conseguenze più significative per quanto riguarda lo status sociale della donna. Tuttavi a sono riscontrabili posizioni distinte anche su altre problematiche. Queste differenze possono essere la causa del sentimento di ostilità con cui talvolta è guardato il femminismo secolare di matrice occidentale nei paesi musulmani. Le richieste del movimento femminista occidentale sono considerate troppo estremiste da alcune delle “colleghe” musulmane. Bisogna precisare che, in questo frangente, si tende a confondere le tesi di una parte del femminismo occidentale, cioè quella più radicale (tipica degli anni iniziali del movimento), con quelle del movimento femminista generale. Il femminismo occidentale si batteva, e si batte, per una totale uguaglianza fra i sessi in ogni ambito della vita. Questo ideale si traduce nell’opposizione a qualsiasi ruolo sociale determinato dal sesso, nella richiesta di un sistema educativo che non faccia differenze tra maschi e femmine, nella rivendicazione della libertà sessuale della donna fino ad arrivare all’abolizione della famiglia come istituzione (perché sentita intrinsecamente patriarcale) a favore delle “comuni”, vale a dire collettività di persone all’interno delle quali il benessere del gruppo e la responsabilità di allevare i figli venivano condivisi. Fatta eccezione per quest’ultimo punto, in cui traspare chiaramente l’utopia femminista, tipica delle origini del movimento, la maggioranza delle rivendicazioni sono condivise, nella sostanza, anche da gran parte del femminismo islamico. Tuttavia ciò che viene criticato al femminismo occidentale non sono tanto gli obiettivi che si proponeva e si propone di raggiungere, ma i risultati ottenuti. Viene cioè messa in discussione non solo la possibilità di esportare con successo il modello “femminista occidentale” in contesti diversi, ma anche l’effettiva portata libertaria del movimento in Occidente. Il femminismo occidentale è infatti considerato responsabile dell’affermazione di valori e modi di vivere che a lungo andare si sono rivelati dannosi per la donna, anche se all’origine possedevano una valenza emancipatoria. Mi soffermo brevemente su questo punto.

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Del femminismo occidentale vengono criticate principalmente la libertà sessuale e l’esposizione pubblica del corpo della donna, ritenute entrambe eccessive. Il Corano, al contrario, nei versetti riguardanti la modestia (XXIV:31 e XXXIII:32) - nonostante vengano spesso letti in senso misogino e talvolta sessuofobico - considera il corpo femminile non come un qualcosa di desessualizzato, ma, al contrario, di potenzialmente erotico, però solo fino a quando è limitato all’ambito privato. In Occidente, invece, a questo proposito si è andata sempre più facendo spazio la semplicistica correlazione fra corpo scoperto e libertà della donna. Perciò, secondo le femministe musulmane, adottare un modello di emancipazione occidentale di questo tipo significherebbe soltanto scambiare uno sfruttamento con un altro. Inoltre la donna occidentale è vista come soggetta anche ad un altro genere di “schiavitù”, quello nei confronti di un’ideale estetico (legato alla moda e a un determinato concetto di perfezione fisica) che non solo non è alla portata della maggioranza delle donne musulmane, ma per le quali non ha nemmeno significato. In realtà l’errata equivalenza fra modernità\emancipazione ed imitazione della donna occidentale si è diffusa anche nel mondo arabo-islamico, come notava già nel 1981 Su’ad Hilmi l’editrice di “Hawwa”, una rivista delle donne del Medio Oriente e del mondo islamico. Molte donne ritengono che per essere moderne sia sufficiente imitare lo stile di vita occidentale, di cui evidenziano principalmente gli aspetti esteriori perchè immediatamente percepibili dai media, quali la moda, l’ossessione per l’immagine, il design, l’arredamento ecc.. Invece secondo Su’ad Hilmi, la modernità e l’emancipazione hanno poco a che vedere con l’apparenza (mazhar): sono una questione di comportamento e dei valori che ne sono alla base. Perciò una donna che prende a modello di emancipazione un ideale femminile di questo tipo (certamente di derivazione occidentale, anche se mal interpretato), non esibisce niente che assomiglia alla mentalità femminista, e non può essere considerata molto più libera della donna dell’harem.14 Inoltre il femminismo occidentale è concepito dalla controparte islamica come antimaschile. Questo fatto è dovuto all’effettiva presenza di una sorta di concezione oppositiva dei due sessi. L’uomo e la donna sarebbero portatori di esigenze talmente inconciliabili da non poter coesistere negli stessi ambiti, quindi la donna per ottenere una posizione nell’ambiente politico deve usurpare quella dell’uomo. Al contrario, il femminismo islamico si oppone a tutto ciò proprio in virtù della concezione complementare dei sessi. Un’ultima critica proveniente dalle correnti del femminismo islamico più legate alla tradizione, sostiene che l’enfasi sul concetto di uguaglianza fra uomo e donna avrebbe portato

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V. J. Hoffman-Ladd in “Polemics on the Modesty and Segregation of Women in Contemporary Egypt” a p. 38 - 40 cita Su’ad Hilmi da Hawwa dell’agosto 1981.

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nella società occidentale a un aumento degli oneri femminili, come ad esempio la necessità di andare a lavorare per mantenersi, oppure all’assunzione di obblighi militari.15 D’altro canto la stessa esistenza del femminismo “islamico” testimonia in parte l’inefficacia del femminismo di matrice occidentale nel mondo arabo-islamico. Uno dei motivi principali di quest’inefficacia è il fatto che esportare un modello di emancipazione significa anche esportare una determinata concezione di oppressione. Questo perché la scelta degli strumenti di liberazione dipende dal tipo di potere oppressivo che si cerca di combattere. L’Occidente ha così omologato le varie realtà di oppressione presenti nel mondo (necessariamente diverse da quella occidentale) alla propria concezione, e in base a quest’ultima i vari femminismi di ispirazione occidentale hanno poi elaborato gli strumenti per combatterla. Ovviamente tali strumenti non possono essere efficaci in contesti diversi da quello occidentale, visto che sono stati costruiti su presupposti sbagliati. Inoltre vi è anche un problema di credibilità: come può provenire dall’Occidente un modello per la liberazione della donna musulmana, quando il primo significato che si collega alla parola “liberazione” nel mondo arabo-islamico è quello associato alla liberazione dalla dipendenza nei confronti dell’imperialismo occidentale? È quindi evidente la necessità di un’alternativa locale al discorso femminista occidentale. Essa deve essere declinata in termini comprensibili per ciascun contesto culturale e politico. Il femminismo islamico è nato anche per rispondere a questa esigenza: non solo fonda l’emancipazione della donna nei testi sacri dell’Islam, ma propone anche dei modelli di femminilità prettamente islamici. La femminista iraniana Haleh Afshar, ad esempio, rintraccia questi modelli all’interno della storia islamica affinché risultino vicini alla sensibilità delle donne musulmane e non siano percepiti come qualcosa di estraneo. Le figure femminili scelte come paradigma di comportamento sono: Khadija, ‘Aisha e Fatima.16 Khadija, prima moglie del Profeta e famosa donna d’affari nell’Arabia pre-islamica è un modello di indipendenza economica. ‘A’isha, moglie prediletta del Profeta, e Fatima, figlia di Muhammad e Khadija, e moglie di ‘Ali, rappresentano, invece, due ideali di femminilità per certi versi antitetici. Vengono utilizzati entrambi come modelli di riferimento dalle femministe islamiche, ma con intenti diversi.

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Questa tesi è sostenuta dalla studiosa Maryam Jameelah, ebrea americana convertitasi all’Islam a inizio degli anni ’60. Diviene presto seguace di Mawdudi, e una degli ideologi più importanti della ja‘mat islamiyya, il partito islamista pachistano. Nel suo articolo The Feminist Movement and the Muslim Woman espone anche una critica serrata del femminismo in generale, considerato come un fenomeno completamente innaturale e causa di decadenza morale e di regresso per la società, in quanto “degrada gli esseri umani a un livello inferiore degli animali”. 16 Haleh Afshar, “Islam and Feminism: An Analysis of Political Strategies”, contenuto all’interno di Feminism and Islam. Legal and Literary Perspectives a cura di Mai Yamani, New York: New York University Press (1996).

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‘A’isha è una figura molto importante nella vita del Profeta. Secondo la tradizione, Muhammad ebbe una rivelazione mentre si trovava con lei e morì fra le sue braccia. Inoltre avrebbe investito ‘A’isha del compito di tramandare la religione. Infatti, secondo un hadith il Profeta avrebbe detto: “Da ‘A’isha dovremmo imparare metà della nostra religione”.17 Per questo motivo e per il fatto che durante la battaglia del giorno del Cammello (656 d.C.), ‘A’isha guidò i propri sostenitori contro la fazione di ‘Ali, per vendicare la morte del terzo califfo ben guidato ‘Uthman (m. 656 d.C.), la si può guardare come un modello di donna attiva, pubblica e indipendente.18 Proprio a causa del forte connotato politico che caratterizza la figura di ‘A’isha, essa è il precedente fondamentale cui le femministe si richiamano quando intendono affermare il diritto delle donne alla leadership politica. Secondo Giorgio Vercellin, il modello di ‘A’isha ebbe vita breve nella storia islamica, in quanto in seguito alla vittoria del suo rivale ‘Ali (quarto e ultimo califfo ben guidato morto nel 661 d.C.), venne soppiantata dalla figura di Fatima, simbolo della donna sposa e madre. La tradizione islamica ha tramandato poche notizie di Fatima, al contrario di ‘A’isha che, essendo fonte autoritativa di molte tradizioni profetiche, si ritiene abbia, in un certo senso, contribuito in prima persona alla creazione della tradizione islamica stessa. Inoltre Fatima è sempre associata a figure maschili come il marito ‘Ali o i figli Hasan e Husayn.19 Quindi essa rappresenta un modello di moralità, forza interiore e devozione, più adatto alle esigenze di una società patriarcale rispetto alla figura di ‘A’isha, e per questo privilegiato sia dall’Islam tradizionale sia dalle correnti islamiste. Al contrario la scrittrice algerina Assia Djebar offre un ritratto di Fatima che si discosta in modo significativo dal modello di donna devota e paziente che di solito incarna. Ciò è un’ulteriore prova che queste figure di carattere semi-mitico, risalenti alla cosiddetta età d’oro dell’Islam (622 – 661 d.C.) vengano interpretate in modo diverso e perfino ri-plasmate a seconda delle tesi che servono a supportare. Secondo A. Djebar, Fatima, essendo l’ultima figlia del Profeta ancora in vita, alla sua morte subì gravi ingiustizie cui però reagì con fermezza, tanto da essere ritenuta dalla studiosa la prima protagonista della questione femminile nella storia islamica. Abu Bakr (m. 637), il primo califfo, escluse Fatima e la sua famiglia dalla quota dei beni del Profeta che le spettava in eredità. La risposta di Fatima fu coraggiosa. Ella avrebbe accusato ‘Umar e gli altri Compagni del

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Amina Wadud, ‘Aisha’s legacy, in: http://newint.org/features/2002/05/01/aishahs-legacy. Al precedente di ‘Aisha, che conduceva da sola il suo cammello, si sono richiamate, infatti, le donne saudite che nel novembre 1990 hanno rivendicato il loro diritto a guidare la macchina, formando un corteo di automobili che si spinse fino al centro di Rihad. Questo primo tentativo, da parte delle donne, di riformare la legge del regno saudita in nome dell’Islam non ha avuto i risultati sperati, perché le manifestanti vennero perseguitate e persero il lavoro, ma contribuì comunque a creare nelle donne una coscienza politica nel lungo periodo (G. Kepel, Jihad - Ascesa e declino, 251 – 252). 19 G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 179 – 180. 18

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Profeta di non avere consultato nelle decisioni sul futuro della umma le donne parenti di Muhammad e di non aver rispettato i loro diritti.20 Inoltre Fatima ricopre una funzione importante anche nell’ambito cultuale. Infatti a livello popolare, la figura di Fatima è oggetto di fervente devozione sia nel mondo sciita che in quello sunnita.21

2.5 Conseguenze della complementarietà di genere sullo status sociale della donna

Come ho sottolineato più volte nel corso del capitolo, le conseguenze sociali della concezione complementare dei generi sono molto significative, in particolare per la donna. In virtù delle loro differenze biologiche ed emotive i due generi sono naturalmente portati ad occupare determinati ruoli nei quali trovano piena realizzazione alla loro indole. La donna è così esclusa dalla sfera pubblica, appannaggio maschile, e trova la sua naturale collocazione all’interno della famiglia, come moglie e madre. È facile comprendere come il fatto di ritenere la donna parte dell’ambito famigliare e la conseguente segregazione di cui molte donne sono vittima nelle società musulmane, renda assai problematico garantire loro diritti politici effettivi e tanto meno la possibilità di ricoprire delle cariche di potere. Le femministe affrontano queste sfide con vari espedienti. A questo proposito intendo trattare brevemente le questioni del lavoro femminile extradomestico e della leadership politica, analizzando nello specifico sia la posizione tradizionale, generalmente contraria, sia le argomentazioni delle teologhe femministe.

2.5.1 Lavoro Gli esponenti dell’Islam tradizionale e gli islamisti si oppongono al diritto della donna a lavorare fuori casa, poiché sostengono che causerebbe l’abbandono della sua naturale funzione di madre.22 Questo perché lavorare fuori dal suo “habitat naturale”, porterebbe la donna a perdere la propria femminilità e quindi ad essere meno propensa a diventare madre. Le conseguenze di

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Assia Djebar, Lontano da Medina. Le donne al tempo del Profeta, Firenze: Giunti (1993), 73 - 76. Una nota manifestazione della religiosità popolare legata al culto di Fatima è la “mano di Fatima”, amuleto apotropaico diffuso in tutto il mondo musulmano. Ad essa sono attribuiti significati diversi: può simboleggiare tanto i cinque pilastri dell’Islam, quanto la “sacra famiglia” sciita: Muhammad, Fatima, Ali, e i figli Hasan e Hussayn. 22 Non deve stupire che due gruppi politicamente antagonisti come gli ulama, legati al mondo dell’Islam ortodosso delle istituzioni, e gli islamisti condividano la medesima posizione in materia di relazioni di genere. Infatti questi ultimi hanno fatto propria la concezione tradizionale del ruolo della donna, rendendola l’elemento centrale nella lotta per l’imposizione dello stile di vita islamico (B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 101 e 107). 21

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questa visione del mondo sono più significative di quanto possa sembrare. Infatti questa presunta perdita della femminilità tenderebbe ad annullare le differenze tra i due sessi, andando in questo modo a minacciare la divisione sessuale del lavoro, e soprattutto a minare le basi del principio dell’autorità maschile (qiwama). Infatti, secondo una lettura del discusso versetto IV:3423 fatta da Muhammad al-Bahi, autore egiziano legato ai Fratelli Musulmani, gli uomini avrebbero “l’autorità”, o meglio “il diritto di ‘provvedere’”, nei confronti delle donne, anche in virtù del fatto che questi spendono il denaro per mantenerle. Qualora la donna avesse degli introiti personali, questa condizione verrebbe meno e quindi il marito avrebbe perso in parte il motivo della sua autorità. Fra le confutazioni più efficaci della posizione conservatrice riguardo al lavoro femminile vi è quella di Nawal al-Sa‘dawi, femminista e socialista egiziana. Per la Sa‘dawi la difesa della femminilità, con cui è giustificata l’opposizione tradizionalista al lavoro extra-domestico della donna, altro non è che la copertura per uno sfruttamento di classe. Infatti N. al-Sa‘dawi sottolinea che “la maggioranza delle donne in Egitto (oltre l’80 %) sono contadine e non hanno mai indossato il velo (hijab). Lasciano le loro case ogni mattina per andare a lavorare nei campi […]. Perché non hanno domandato che anche le contadine vengano protette nelle loro case e non vadano a lavorare nei campi? […] O ritengono che la femminilità e l’onore siano qualità di cui gode solo una minoranza di donne egiziane?”.24 Viene infatti da domandarsi cosa sia questa “femminilità” che si perde lavorando fuori casa. L’Islam tradizionalista sostiene, a questo proposito, che il tratto più distintivo della femminilità sia la timidezza (haya’). Ma allora non c’è alcuna ragione per ritenere che la posseggano solo le donne che possono permettersi di non andare a lavorare. Analogamente, Fatima Mernissi sostiene che alla base dell’opposizione al lavoro femminile, non vi è l’intento morale di proteggere la femminilità delle donne, ma una questione prettamente economica. Negli ultimi tre decenni molti paesi appartenenti al mondo arabo-islamico hanno

attraversato

congiunture

economiche

negative

con

conseguenti

problemi

di

disoccupazione.25 A ciò si va ad aggiungere il fatto che le politiche d’educazione di massa hanno portato alla presenza di numerosi giovani – e fra questi molte donne - acculturati, ma che non sono

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La lettera della sura IV:34 secondo la versione di A. Yusuf ‘Ali, resa in italiano dalla sottoscritta, dice: “Gli uomini sono protettori [qawwamuna] delle donne, perché Dio ha dato ad alcuni più di altri, e perché essi spendono dei loro beni per mantenerle”. A causa della notevole ambiguità e dell’intenso dibattito sviluppatosi attorno a questi versetti li tratterò più ampiamente in seguito. 24 Nawal al-Sa‘dawi, citata da Valerie J. Hoffman-Ladd in “Polemics on the Modesty and Segregation of Women in Contemporary Egypt” (1987), e tradotta in italiano dalla sottoscritta. 25 I paesi cui mi riferisco sono densamente popolati: l’Egitto, l’Algeria e il Marocco (F. Mernissi citata da Janet Afary in “The War against Feminism in the Name of the Almighty: Making Sense of Gender and Muslim Fundamentalism”, da Women living under Muslim Law: dossier 21, 1998; 6).

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in grado di trovare un’occupazione. In questo contesto la politica dell’Islam tradizionale (e di quello islamista) di tenere le donne fuori dal mercato del lavoro, dimezzando così i tassi disoccupazione, risulta molto utile. Una posizione moderata in materia è stata ultimamente sostenuta dallo shaykh Yusuf alQaradawi.26 Nel panorama dell’Islam contemporaneo al-Qaradawi è ritenuto un conservatore a causa delle sue posizioni spesso tradizionaliste su argomenti come il ruolo della donna o la questione di genere. Tuttavia con la raccolta di fatawa (pl. di fatwa) intitolata Contemporary Legal Opinions, pubblicata a inizio degli anni ’90, l’atteggiamento di al-Qaradawi riguardo al ruolo femminile si è notevolmente modificato, tanto da renderlo, secondo la studiosa Barbara Stowasser, uno dei rappresentanti di un nuovo tipo di ulama.27 Questi nuovi ulama, di cui fa parte anche alGhazali, sostengono la necessità di un paradigma di genere più equo e favorevole alla donna, e proprio grazie alla loro fama e alla connessione tanto con i quadri “ufficiali” dell’Islam (provenienti da al-Azhar), quanto con gli ambienti islamisti, possiedono l’influenza sufficiente per diffondere con successo queste idee fra l’opinione pubblica. Richiamandosi al Corano e alla shari‘a, al-Qaradawi afferma che l’Islam permette alla donna di lavorare fuori casa poiché nessun testo contiene un divieto esplicito. Il Corano si limita, infatti, a imporre al marito l’obbligo di mantenere la moglie, mettendola in condizione di non dover lavorare per mantenersi, ma non vieta a questa di farlo qualora lo desiderasse. Inoltre la storia dell’Islam classico riporta molti esempi di donne lavoratrici, non solo in ambito rurale, ma anche urbano. Molte erano le donne imprenditrici e commercianti, altre erano insegnanti o segretarie per altre donne, oppure impiegate in attività artigianali.28 Tuttavia, al-Qaradawi sottolinea che alla donna è lecito lavorare a determinate condizioni ed entro precisi limiti. Innanzitutto solo se lei o la famiglia ne hanno bisogno per vivere, come è esemplificato nel Corano nell’episodio delle donne di Madyan. “E quando [Mosè] scese alle fonti di Madyan vi trovò una folla di genti che colà abbeverava le greggi, e trovò, oltre a loro, due donne che invece se ne tenevano lontane le loro. Chiese: ‘Che vi accade?’ Risposero: ‘Non abbeveriamo le nostre greggi finché i pastori non avran portato via le loro, perché nostro padre è 26

Yusuf al-Qaradawi (1926) è un esperto giurisperito formatosi all’università di al-Azhar e appartenente, durante gli anni giovanili, all’ala attivista dei Fratelli Musulmani. Dopo essere finito in carcere varie volte sotto Nasser, si concentrò sulla carriera universitaria, segnata da significativi successi come, ad esempio, la fondazione della facoltà di studi sharaitici presso l’Università del Qatar. Al-Qaradawi, grazie alla sua popolarità, partecipa spesso ad una trasmissione sul canale satellitare di Al-Jazeera in cui offre pareri giuridici (fatawa) e ha contribuito alla creazione del sito “Islam-online” che contiene una database di fatawa (B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 109 - 110). 27 B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 100 – 102, 108 – 109 e 117. 28 Per l’argomentazione di al-Qaradawi sul lavoro femminile extra-domestico faccio riferimento all’opera The Status of Women in Islam –The Woman as a Member of the Society, in: www.witnesspioneer.org/vil/Books/Q_WI/default.htm.

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un vecchio carico d’anni’” (XXVIII:23, Bausani; il corsivo è mio). Le due donne sono costrette a portare le pecore a bere, quindi a lavorare, perché il padre non può più farlo. In secondo luogo, il lavoro non deve impedire loro di adempiere ai propri doveri di madri e mogli, né di trascurare la gestione della casa. Inoltre nel contesto lavorativo devono tenere un comportamento consono alla donna musulmana, sia nell’abbigliamento che nell’atteggiamento, secondo le prescrizioni contenute nei versetti coranici dedicati alla modestia.29 Infine, alcune professioni non sono adatte alle donne perché considerate proibite (haram), come ad esempio fare la domestica a casa di un uomo celibe, fare la segretaria personale di un manager, oppure la ballerina o servire alcolici. Secondo al-Qaradawi, qualora queste condizioni non si verificassero e la donna svolgesse quindi lavori propri dell’uomo, non solo ne soffrirebbe la vita famigliare, ma anche l’efficienza del lavoro (perché le donne si assenterebbero dal posto di lavoro durante la gravidanza) e infine la moralità dell’intera società.30

2.5.2 Partecipazione politica della donna

Per partecipazione della donna alla vita politica si intende sia il diritto di voto attivo, sia quello di ricoprire cariche pubbliche e quindi detenere un’autorità politica. Per quanto riguarda l’aspetto dell’autorità politica è importante sottolineare che la leadership islamica teoricamente non è definita in termini di genere. Tuttavia nella pratica, le disposizioni sull’argomento contenute nel Corano, sono state declinate secondo i modelli di potere tipici dell’Islam classico. All’uomo viene quindi attribuito il diritto di governare la umma, mentre alla donna il diritto residuo di guidare altre donne o comunque le è riconosciuta una certa autorità solo in questioni considerate tipicamente femminili. Perciò il concetto di leadership islamica, originariamente neutro, viene assunto come un costrutto essenzialmente maschile a cui viene aggiunta la qualificazione “femminile” se si intende circoscriverne l’ambito a questioni specifiche.31 Sia l’Islam tradizionale che i movimenti islamisti si oppongono alla presenza della donna nella vita pubblica, principalmente perché, come sosteneva il sopra citato al-Ghazali in una 29

I versetti in questione sono spesso citati e oggetto di numerose interpretazioni: “E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d’un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli…” (XXIV:31, Bausani). 30 “È dannoso per la moralità. È dannoso per la moralità della donna se perde la sua modestia […] È dannoso per la vita della società perché andando contro natura e spostando le cose dal luogo dove trovavano naturalmente la propria collocazione si deteriora la vita stessa e si provoca disequilibrio, disordine e caos” (Y. al-Qaradawi, The Status of Women in Islam, traduzione dall’inglese della sottoscritta). 31 H. Abugideiri “The Renewed Women of American Islam”, 1- 2.

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dichiarazione del 1953, la politica non è concepita come la sfera naturale della donna.32 Infatti i quadri dell’islam tradizionale e le correnti islamiste - nonostante politicamente antagonisti - hanno tendenzialmente le medesime posizioni in materia poiché l’islamismo radicale ha fatto propria la concezione tradizionalista del ruolo della donna come moglie e madre. Tuttavia le loro posizioni si differenziano per quanto riguarda la questione del diritto di voto attivo. Mentre gli ulama tradizionali si oppongono a tale diritto – d’altra parte ormai garantito formalmente dalla maggior parte dei paesi islamici – gli islamisti, invece, dagli anni ’80 e ’90 hanno riconosciuto l’importanza del voto femminile per la causa religiosa islamista. Le argomentazioni tradizionaliste contrarie alla partecipazione della donna nella sfera politica sono contenute nella raccolta delle fatawa emesse dal Consiglio dell’Università di alAzhar nel 1952. Sebbene piuttosto datate queste opinioni legali (fatawa) sono ancora rappresentative delle posizioni odierne dell’Islam tradizionale. La prima argomentazione per negare il diritto della donna di ricoprire cariche politiche (diritto di voto passivo) consiste nel fatto che la shari‘a prevede due tipi di wilaya (qui “funzione”, nel senso di ambito dove si esercita la propria autorità) diversi per uomo e donna. All’uomo attribuisce una wilaya pubblica, mentre alla donna una wilaya di tipo privato che le conferisce, ad esempio, il potere di possedere ed amministrare in modo indipendente la propria ricchezza, ma non quello di ricoprire un incarico pubblico. In secondo luogo gli ulama tradizionalisti operano una lettura selettiva della tradizione e della storia dei primi secoli dell’Islam evidenziando le tradizioni profetiche misogine oppure ignorando o capovolgendo gli esempi di partecipazione femminile alla vita politica tramandati dalle fonti.33 A questo proposito persino il versetto coranico che descrive la bay‘at an-nisa’ (patto delle donne) viene usato contro di loro.34 Del giuramento, infatti, viene evidenziata la differenza rispetto a quello degli uomini e quindi il minor valore. Un ultimo argomento che testimonierebbe l’inadeguatezza della donna alla vita politica sarebbe la sua peculiarità fisica ed emotiva, quest’ultima particolarmente volubile, come sostengono anche alcune sure del Corano (XXXIII:28-29). 32

Muhammad al-Ghazali, citato da Jane I. Smith in “Woman in Islam: Equity, Equality, and the Search for Natural Order” da Journal of American Academy of Religion, vol. 47, n. 4 (1979), 525, sosteneva: “dovremmo allarmarci nel vedere le donne impossessarsi delle redini del governo – ciò sarebbe innaturale” (tradotto dalla sottoscritta). 33 Un hadith spesso citato, trasmesso da Abu Bakr, narra che il Profeta avrebbe detto: “il popolo che affida il proprio governo ad una donna non prospererà”. (B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 105). 34 Con il termine bay‘a si intende un patto fra soggetti sociali e detentore del potere temporale con cui i primi esprimono tanto l’approvazione quanto la lealtà alla massima autorità in carica (imam o khalifa). (G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 9). Il versetto in questione è il LX:12: “O Profeta! Quando vengono a te le credenti che si impegnino con giuramento a non associare a Dio cosa alcuna, a non rubare, a non commettere adulterio, a non uccidere i loro figli, a non diffondere calunnie inventate falsamente fra le loro mani e i loro piedi, e a non disobbedirti in quel che è conveniente, accetta il loro giuramento.”. Secondo la tradizione, questo giuramento di fedeltà sarebbe stato fatto dalle donne di Medina al Profeta nel 621 d.C.. Esso viene usato generalmente dalle teologhe femministe, fra le quali anche A. Barlas, come argomento a sostegno della partecipazione politica delle donne.

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L’unica argomentazione contro l’attribuzione del diritto di voto attivo alle donne è il fatto che la proibizione sharaitica di un atto comporta anche il divieto degli atti che la rendono possibile. Quindi, siccome conferire il diritto di voto attivo alle donne, aprirebbe la strada alla rivendicazione anche del diritto di concorrere alle cariche pubbliche, la legge islamica proibisce, o dovrebbe proibire, alle donne di votare. Invece una delle argomentazioni più efficaci di coloro che sostengono la partecipazione politica della donna è quella di richiamarsi al concetto di khilafa (vice-reggenza), centrale nell’Islam.35 Il termine khalifa, letteralmente “vicario”, rimanda al concetto di vice-reggenza umana nel governo della terra, in nome e per volontà di Dio. La prima precisazione da fare è che la khilafa è concessa agli esseri umani da Dio ed è, quindi, un potere derivato e di natura finita, in quanto è funzione della sovranità assoluta di Dio, mentre l’uomo ha solo il compito di realizzare la legge divina sulla terra.36 Una seconda precisazione fondamentale è che il concetto di khilafa nel Corano non ha specificazione di genere: la vice-reggenza - esclusivamente di tipo temporale - è attribuita all’umanità intera, non agli uomini. Siccome è stato dimostrato più volte in questo lavoro che l’Islam riconosce alla donna la medesima dignità umana dell’uomo, non c’è alcun motivo, dal punto di vista del Corano, per vietare alle donne l’attività politica. L’attribuzione della khilafa alle donne ha anche un’altra conseguenza. Essa è concessa all’essere umano attraverso un patto (amana) con Dio: “Noi invero abbiamo voluto offrire il patto ai cieli, alla terra e alle montagne; rifiutarono di portarlo e ne ebbero paura; l’uomo invece lo caricò su di sè.” (XXXIII:72; Mandel).37 Poiché il concetto di patto implica necessariamente il rispetto di alcuni diritti e doveri, il fatto che uomo e donna abbiano il medesimo diritto alla vicereggenza, comporta anche che debbano possedere gli stessi diritti. Un’altra posizione a favore dell’attività politica femminile è quella sostenuta, nelle sue ultime pubblicazioni, da Yusuf al-Qaradawi, che, ricorrendo a metodi ermeneutici come, ad esempio, la storicizzazione di fatawa e tradizioni profetiche, prima confuta le tesi contrarie e poi espone le basi su cui fondare il diritto della donna alla leadership politica. La pars destruens della sua opera consiste nella rilettura, restringendone l’ambito di applicazione, dei versetti usati di 35

A. Barlas in ‘Believing Women’ in Islam, 106 - 108. Il Corano infatti nella Sura XXXVIII:26 narra: “O Davide, certo noi ti abbiamo costituito vicario [khalifa] sulla terra; giudica con giustizia, e non seguire la passione sicchè essa ti allontani dalla Via di Dio.” (Mandel). In realtà il primo cui Dio conferisce la khilafa è Adamo, che si ritiene simboleggi l’intera umanità: “E quando il tuo Signore disse agli Angeli: ‘Ecco, io porrò sulla terra un Mio vicario [khalifan]’ […] Ed insegnò ad Adamo il nome di tutte le cose.” (II:30-31, Bausani). 37 Secondo la tradizione islamica, il patto di cui si parla nel versetto XXXIII:72 è il Patto (mithaq) concesso da Allah all’uomo con il quale l’uomo accetta di diventare credente (mu’min) e si impegna ad adorare l’unico Dio. Con questo patto, di carattere unilaterale, l’uomo riconosce la propria condizione di servo [‘abd] di Dio. Inoltre il patto stesso sancisce l’inizio del rapporto tra Dio e l’uomo, costituendo un prerequisito fondamentale per l’attribuzione della vicereggenza (khilafa) sulla terra (G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 8). 36

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solito per limitare l’indipendenza delle donne38 e nella confutazione dell’assunto secondo cui le donne non possono ricoprire cariche politiche perché altrimenti eserciterebbero wilaya nei confronti degli uomini. A questo proposito Al-Qaradawi sostiene, invece, che le donne in parlamento, non governerebbero sugli uomini, ma si occuperebbero dell’interesse della nazione, dovere di ogni buon musulmano (la cosiddetta hisba, cioè il dovere collettivo, sia religioso che sociale, di “consigliare il bene e proibire il male”). Inoltre il parlamento non detiene, secondo la visione islamica tradizionale, il potere legislativo, che appartiene solo a Dio, ma quello di mettere in pratica la legge divina e di colmarne eventualmente le lacune.39 Per quanto riguarda la pars construens, invece, le argomentazioni proposte da Al-Qaradawi sono di vario tipo: - rintracciare esempi di donne importanti nella storia dell’Islam (ad esempio, la prima persona a convertirsi fu una donna, Khadija); - ribadire la necessità che le donne partecipino alla battaglia elettorale a sostengo dei partiti religiosi (anche per sottrarre un possibile serbatoio di voti al femminismo secolare); - infine utilizzare come modelli di riferimento alcune storie coraniche, come quella della Regina di Saba (Sura XXVII), a riprova del diritto della donna a ricoprire cariche politiche anche di notevole rilievo. Sull’episodio in questione si concentra anche Amina Wadud.40 Secondo la studiosa, la figura di Bilqis, la Regina di Saba, costituisce un esempio di donna regnante potente e abile e dimostra come il Corano non ritenga affatto la sfera del potere esclusivo appannaggio maschile. Il potere della sovrana è simboleggiato dal fatto che possiede un magnifico trono come afferma Salomone: “e ho trovato che laggiù regna una donna, ricca d’ogni cosa, che possiede un trono stupendo” (XXVII:23); mentre l’abilità politica, e soprattutto la saggezza, sono dimostrate dall’intero episodio dell’incontro con Salomone, venuto per convertire il suo popolo all’Islam. Come da protocollo la regina chiede ai suoi consiglieri un suggerimento sulla decisione da prendere: “‘O mia Corte! Ditemi il vostro parere in tale questione, ché nessuna questione deciderò senza che voi ne siate testimoni!’. Risposero: ‘Noi siamo gente forte e grande prodezza abbiamo, ma il comando spetta a te: pensa dunque tu a decidere!” (XXVII:32-33; Bausani, il corsivo è mio). Senza alcun dubbio, la risposta dei consiglieri stabilisce chi detiene l’autorità politica e il potere decisionale: una donna. Perciò donna e potere politico per il Corano non sono fra loro 38

Alcuni esempi: la tutela\controllo [qiwama] maschile nei confronti della donna, sancita dal versetto IV:34, viene limitata al marito e al contesto famigliare; oppure la prescrizione “rimanete quiete nelle vostre case” (XXXIII:33) si ritiene si riferisca solo alle mogli del Profeta e non a tutte le credenti (B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 106 e 111). 39 Ibidem, 112 - 113. 40 A. Wadud, Qur’an and Woman 40 – 42.

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inconciliabili. L’abilità politica e l’indipendenza nel prendere decisioni sono dimostrate da come Bilqis gestisce l’intera faccenda: prima di tutto decide di inviare un dono a Salomone (“Ma io invierò loro un dono e starò a vedere cosa mi riporteranno i miei messi”, XXVII:35; Bausani), e in seguito, quando le circostanze lo richiedono, si reca da lui personalmente. Questo atteggiamento di autonomia è mantenuto anche per le decisioni in materia di fede. Bilqis decide in modo indipendente di sottomettersi all’Islam, dopo aver assistito a due fatti umanamente inspiegabili, cioè la presenza del proprio trono presso Salomone e l’esistenza di un “palazzo pavimentato di cristallo”.41 Sia le decisioni politiche che quelle religiose risultano vincenti e dimostrano ancora una volta la saggezza della regina. A mio parere, dall’analisi svolta dalla Wadud si può dedurre che, qualora si dovesse rintracciare nell’Islam una specificità della leadership femminile, sarebbe questa saggezza che conduce a optare per politiche pacifiche, per il compromesso piuttosto che per lo scontro. Un ultimo argomento a sostegno della partecipazione politica femminile è il principio della shura, cioè “consultazione”. Secondo il Corano sono musulmani pii coloro che “delle loro faccende decidono consultandosi fra loro” (XLII:38; Bausani, il corsivo è mio). Tale principio fondamentale non è espresso in termini di genere e perciò non c’è motivo di ritenere che le donne debbano essere escluse dalla “consultazione” e quindi dal processo decisionale.42 Al giorno d’oggi le battaglie delle teologhe femministe in campo teorico per affermare il diritto delle donne a detenere l’autorità politica hanno permesso alle donne musulmane di spostare le proprie rivendicazioni nel campo pratico. Alcune delle cariche che le donne di paesi come Egitto, Marocco, Siria, richiedono di ricoprire sono quelle di qadi (giudice), muftì,43 e imam.44 Secondo M. Badran, nelle fonti islamiche non ci sarebbe alcun impedimento che vieta alle donne di diventare muftì o qadi.45 Anzi, nella storia islamica classica (dal VIII al XIII sec. d.C.) ci sono state donne che hanno ricoperto queste funzioni, prima fra tutte ‘A’isha. Tali rivendicazioni hanno avuto dei risultati concreti, come la nomina di tre donne alla carica di giudice in Egitto nel gennaio 2005 e la presenza di due “donne-muftì” in Turchia e tre in India. Un altro risultato importante è 41

I due passi coranici di riferimento sono: “Quando la regina giunse, le fu detto: ‘È così il tuo trono?’ Rispose: ‘Sembra che lo sia!’ ‘Ma la vera scienza, dibatté Salomone, è stata data a noi prima che a lei, e ci siam dati a Dio’ ” (XXVII:42, Bausani). E poi: “E le fu detto ancora: ‘Entra nel palazzo!’ E quando essa lo vide, lo credette una grande distesa d’acqua, e si scoprì le gambe. Ma Salomone le disse: ‘È un palazzo pavimentato di cristalli!’” (XXVII:44, Bausani). 42 B. Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet”, 112. 43 Il muftì è un giurisperito che su richiesta esprime un parere giuridico (fatwa). La fatwa è legata alla circostanza in questione e, pur avendo valore legale, non è vincolante (G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 305 - 306). 44 Con il termine “imam”, in questa accezione, si intende qualsiasi persona che assume la guida spirituale durante la preghiera rituale (salat), oppure che ha la funzione di condurre la preghiera del venerdì. Col tempo l’imam diviene una sorta di funzionario della moschea pagato ad hoc dallo stato o dalle fondazioni pie (G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 234 e 238). 45 M. Badran, intervista sul femminismo islamico, presso l’ISIM di Leiden (2005).

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l’istituzione a New York nel novembre 2006 da parte del gruppo femminista WISE (Women’s Islamic Initiative in Spirituality and Equality) di un organo in grado di emettere fatawa. È previsto che quest’organo entri in funzione entro un anno dall’istituzione.46 A favore delle donne che vogliono diventare imam si schiera non solo A. Barlas, ma anche l’islamista sudanese Al-Turabi, il quale ritiene che la donna abbia il diritto di ricoprire la carica di imam e persino di guidare la preghiera del venerdì.47 Secondo la prima il termine “imam” significa “guida” per l’ambito della religione, ma anche modello\esempio ed è etimologicamente legato alle parole umma e umm, con cui condivide la stessa radice [A-M-M]. Nel Corano la funzione di imam è neutra dal punto di vista del genere, poiché è assegnata ad Abramo in virtù della missione profetica conferitogli, non in virtù del suo essere maschio. Infatti Dio, rivolgendosi ad Abramo disse: “‘Sì, farò di te una guida per le genti.’ [ja‘ilu-ka lil-nas imaman] ‘E per la mia discendenza?’ Egli disse: ‘la mia promessa non riguarda i prevaricatori.’” (II:124; G. Mandel, il corsivo è mio). L’unico limite espresso dal Corano per quanto riguarda la funzione di imam è ancora una volta di tipo etico: solo chi è retto moralmente può “guidare le genti”. D’altro canto anche la tradizione islamica riporta esempi di donne-imam. Un hadith contenuto nella Sunna di Abu Da’wd (m. 888) narra che il Profeta permise a Umm Waraqa bint Abdallah, una donna ansar (denominazione degli abitanti di Medina convertitisi all’Islam) con grande conoscenza del Corano, di condurre la preghiera davanti alle persone della sua famiglia, composta sia da uomini che da donne. Secondo la tradizione anche ‘A’isha era solita guidare la preghiera rituale, ma solo davanti ad altre donne.48 Un risultato molto incoraggiante a questo proposito è il fatto che nel maggio 2006 si sono laureate in scienze islamiche all’Università di Rabat le prime 50 donne-imam del mondo araboislamico moderno. Queste donne, dette “mourchidates” (parola francese per indicare le imamdonna), saranno assegnate ciascuna ad una moschea con il compito di predicare e guidare spiritualmente i fedeli, anche se per ora non possono condurre la preghiera del venerdì. Saranno dipendenti dello stato marocchino, che ha finanziato l’intero progetto. Creare corsi di stato per imam fa parte, infatti, della strategia del governo marocchino per promuovere un Islam moderato 46

Per quanto riguarda i risultati in materia di partecipazione politica femminile faccio riferimento ai seguenti articoli di “Peace Reporter”: Alessandro Ursic, Le sagge dell’Islam (novembre 2006), Christian Elia, Una donna per imam (luglio 2006) e Quelle che studiano da imam (maggio 2006). 47 Hassan al-Turabi è la figura più influente all’interno del movimento islamista sudanese, rappresentato prima dal Fronte della Carta Islamica e in seguito dal Fronte Nazionale Islamico. Proveniente da una famiglia di dignitari religiosi, Al-Turabi unisce la legittimità derivante della tradizione a quella della modernità in quanto ha completato gli studi a Parigi e a Londra. È considerato l’eminenza grigia alla base del regime islamista instaurato in Sudan nel 1989 tramite il colpo di stato del generale Bachir. Per quanto riguarda la questione di genere, nell’opuscolo La posizione della donna nell’Islam incoraggiava la partecipazione politica femminile (G. Kepel, Jihad - Ascesa e declino, 212 – 216). 48 Farhat Naz Rahman, An Islamic Perspective on Women in the Political System, in: www.irfi.org/articles.

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da opporre all’avanzata dell’islamismo radicale. La stessa Amina Wadud può essere considerata una sorta di apri-pista, in quanto nel marzo 2005, su invito del gruppo musulmano statunitense “Wake-Up”, ha guidato la preghiera del venerdì nell’Upper West Side di Manhattan.49

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Valentine M. Moghadam, What is Islamic Feminism? Promoting Cultural Change for Gender Equality, articolo introduttivo a una serie di conferenze organizzate dall’UNESCO sul femminismo islamico tenutesi a Parigi nel 2006, in: http://portal.unesco.org.

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CAPITOLO TERZO

3. Esempi di ermeneutica di genere

3.1 Introduzione

Nei capitoli precedenti mi sono soffermata sulla questione della complementarietà dei generi e su come questa concezione influisca sulla condizione sociale della donna nei paesi musulmani. In seguito ho analizzato come le teologhe femministe hanno affrontato gli ostacoli a un trattamento equo della donna nel campo del lavoro e nella sfera politica. In questo capitolo intendo concentrarmi sugli strumenti utilizzati dalle femministe nella loro opera di ijtihad (“sforzo d’interpretazione”), finalizzata alla creazione di un Islam progressista e libertario, su cui possa ri-fondarsi un diritto islamico (fiqh) consapevole della prospettiva di genere. Seguendo la suddivisione usata da M. Badran, raggruppo i vari metodi ermeneutici in 3 categorie: - ricerca dei diritti all’interno del Corano; - confutazione di miti misogini; - de-costruzione dei versetti che affermano la disuguaglianza dei sessi e l’inferiorità della donna.

3.2 Il Corano e i diritti della donna

Gli studiosi che prediligono questo primo strumento ermeneutico sono allineati con la corrente apologetica della teologia femminista, in quanto condividono il medesimo presupposto logico: non è necessaria una nuova interpretazione del Corano e della Sunna, perché essi forniscono già alla donna i diritti di cui ha bisogno per la realizzazione della propria umanità. Ciò che si deve fare è solo individuare tali diritti, metterli in evidenza e far sì che le donne li apprendano e li mettano in pratica. Una precisazione necessaria: alcuni autori cui faccio riferimento, come R. Hassan, circoscrivono la ricerca dei diritti al Corano, mentre altri prendono in considerazione anche la

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Sunna e la storia dei primi secoli dell’Islam, caso questo di Yusuf al-Qaradawi. Inizierò dall’analisi limitata al Corano.1 Innanzi tutto nel Corano sono sanciti quelli che oggi sono ritenuti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) dei diritti umani fondamentali.2 Questi diritti sono condivisi dall’uomo e dalla donna in virtù del fatto che partecipano della stessa umanità, a sua volta derivante dall’essere stati creati “della stessa natura e dal medesimo Sé [nafs]”.3 Riffat Hassan rintraccia nel testo sacro, fra gli altri, il diritto alla vita, comprendente anche il diritto a condurre una vita dignitosa, il diritto alla giustizia, il diritto alla libertà e il diritto alla conoscenza. La sacralità della vita umana è dimostrata dal versetto VI:151: "Non uccidete il vostro prossimo che Dio ha reso sacro [harrama], se non per una giusta causa. Questo Egli vi ha prescritto, nella speranza che voi ragioniate.” (Bausani; il corsivo è mio), e dal fatto che il valore di ciascuna vita è comparabile a quello dell’intera comunità: “Chiunque ucciderà una persona senza che questa abbia ucciso un’altra o portato la corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l’umanità intera.” (V:32, Bausani). Per diritto a una vita “dignitosa” si intende vivere in un ambiente in cui siano garantiti un luogo di residenza sicuro, la libertà di movimento e la possibilità di proteggere i propri possedimenti e interessi. Il diritto alla giustizia comprende anche il dovere di comportarsi secondo giustizia. Un comportamento equo, d’altro canto, non riguarda soltanto le azioni concrete (‘amal), ma anche l’ambito della fede (iman). In quanto condizione necessaria per la pace, la giustizia è un valore fondamentale nell’Islam. La pace, infatti, è l’unico contesto in cui possono svilupparsi appieno le potenzialità umane. Il diritto alla giustizia è confermato dal versetto IV:135: “Credenti, siate fermi nella giustizia, e testimoniate in Dio, fosse anche contro voi stessi, contro padre, madre e parenti prossimi. Si tratti di un ricco o di un povero, Dio ha la precedenza su di loro.” (Mandel; il corsivo è mio). Invece il dovere di comportarsi secondo giustizia è sancito dal versetto V:8: “Credenti, siate testimoni solidi davanti a Dio, e siate equi. L’odio per un popolo non vi inciti ad essere ingiusti; praticate l’equità: ciò è la cosa più vicina alla devozione.” (Mandel; il corsivo è mio). Un altro diritto umano fondamentale espresso nel Corano è il diritto alla libertà. L’Islam, data la sua natura di “monoteismo assoluto” particolarmente radicale, libera l’uomo da ogni altro

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Per l’analisi dei diritti contenuti nel Corano svolta da Riffat Hassan ho fatto riferimento all’articolo “Religious Human Rights in the Qur‘an”, inserito all’interno dell’opera in due volumi Religious Human Rights in Global Perspective: Religious Perspectives, Matinus Nijhoff Publisher (1996). 2 Per diritti umani si intendono tutti quei diritti che l’ordinamento internazionale, sotto la spinta delle Nazioni Unite, si sforza di riconoscere a tutti i popoli e a tutte le persone (Augusto Barbera e Carlo Fusaro, Corso di diritto pubblico, Bologna: Il Mulino, 2001; 117). 3 R. Hassan, “Religious Human Rights in the Qur’an”, 361.

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vincolo eccetto che da quello nei confronti della volontà divina.4 La più grande garanzia alla libertà personale è il decreto coranico che nessuno eccetto Dio può limitare la libertà umana, fatto discendere a sua volta da due versetti che riassumono la visione islamica del destino umano: “Verso il Signore è ogni limite” (LIII:42, Bausani) e “all’infuori di Dio non avrete soccorritore o patrono” (XLII:31, Bausani). Da questi versetti deriva, infatti, che nessun uomo, sia pure il Profeta, può imporre l’obbedienza assoluta ad un altro uomo. Un ultimo diritto umano su cui intendo soffermarmi è quello alla conoscenza, intesa nel Corano principalmente in senso religioso (‘ilm). Il testo sacro sottolinea spesso l’importanza di acquisire la conoscenza e questo perché essa rappresenta l’elemento basilare di accesso alla sfera del religioso. Significativamente la Sura del Grumo di Sangue, ritenuta la prima rivelata a Muhammad, è incentrata su questo valore: “Grida, in nome del tuo Signore, che ha creato, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue! Grida che il tuo Signore è Generosissimo, Colui che ha insegnato l’uso del calamo, ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva” (XCVI:1-5, Bausani; il corsivo è mio). D’altro canto anche nella Sunna ricorre spesso il tema della ricerca della conoscenza (talab al-‘ilm), come testimonia, ad esempio, un hadith molto popolare che dice: “Cercate la scienza [‘ilm] fino in Cina”. Inoltre la conoscenza è ritenuta il prerequisito per la creazione di un mondo giusto e quindi pacifico. Per questo motivo cercare la conoscenza ha la precedenza anche rispetto alla guerra, come indica la sura IX:122: "Non occorre che i credenti escano in campo in massa. Da ogni tribù venga un gruppo a istruirsi nella religione [fi al-din], per poter al ritorno informare la sua gente.” (Mandel). Sebbene in tutti i riferimenti sopraindicati la ‘conoscenza’ sia intesa in accezione religiosa, alcuni studiosi ritengono di poter far discendere da essa anche il diritto alla conoscenza in generale, cioè un sapere più vasto che va oltre l’ambito teologico-religioso. Un elemento a sostegno di tale posizione potrebbe essere l’evoluzione dell’uso del termine “‘ilm” nell’arabo moderno. Se tradizionalmente indicava la scienza per eccellenza e cioè la conoscenza di Dio, nell’arabo moderno è venuto a significare “scienza” nell’accezione tecnica e laicizzata del termine, tanto che, ad esempio, l’università è chiamata talvolta dar al-‘ulum, cioè “dimora delle scienze”.5

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Infatti, secondo A. Bausani, il carattere assoluto del monoteismo islamico, deriva dal fatto che “l’onnipotenza divina è intesa nell’Islam in senso, se possibile, ancora più totalitario e ampio che nelle altre religioni monoteistiche. La potenza divina ha per oggetto la totalità degli esseri possibili.” (Alessandro Bausani, L’Islam. Una religione, un’etica, una prassi politica, Milano: Garzanti, 1980; 19 – 20). 5 G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 230 – 231.

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Il Corano garantisce alla donna anche i diritti civili, in quanto le è riconosciuta la personalità individuale, al pari dell’uomo.6 Fra i diritti civili mi concentro in particolare su quelli derivanti dal diritto alla libertà personale. Al-Qaradawi, ad esempio, sottolinea che la Sunna garantisce alla donna sia il diritto di parlare in pubblico sia quello di esprimere la propria opinione in materie importanti per la comunità. Infatti le donne al tempo del Profeta erano solite porre interrogativi direttamente a lui. È spesso riportato l’episodio in cui ‘Umar e una donna discutono in moschea a proposito dall’ammontare del mahr (dote nuziale). Alla fine il califfo, convinto dalle argomentazioni della donna, si narra abbia detto: “Una donna ha discusso con ‘Umar e ha vinto al dibattito”. Questo hadith testimonia sia la libertà d’espressione e di parola di cui godeva la donna ai tempi del Profeta, sia il suo diritto di frequentare i luoghi di culto.7 D’altro canto, il Corano stesso sancisce la libertà religiosa e la libertà di culto. La libertà in ambito religioso è testimoniata dal noto versetto: “Non vi sia costrizione nella fede: la retta via ben si distingue dall’errore” (II:256; Bausani). Il diritto alla libertà religiosa, cioè alla libera scelta in materia di fede, non è limitata ai musulmani e alla “gente del Libro” (ahl al-kitab),8 ma anche ai non credenti. La sura II:62 afferma infatti: “Ma quelli che credono, siano essi ebrei, cristiani, o sabei […], avranno la loro mercede presso il Signore, e nulla avran da temere, né li coglierà tristezza”. (Bausani; il corsivo è mio). Anche ai non credenti è riconosciuto il diritto alla libertà religiosa e di culto, a patto che non siano aggressivi nei confronti dei musulmani: “Non ingiuriare gli idoli che essi adorano accanto a Dio, che essi a loro volta non abbiano a ingiuriare Dio ostilmente nella loro ignoranza. Così Noi abbiamo fatto sembrare belle le azioni di ogni comunità, poi tutti torneranno al Signore.” (VI:108; Bausani). Infine, anche ai musulmani è garantita la libertà religiosa in quanto sono liberi di rinunciare all’Islam dopo essersi convertiti: il Corano, infatti, non prescrive alcuna punizione umana per l’apostasia. Il giudizio spetta solo a Dio.

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Per diritti civili, o meglio libertà civili, si intende quelle libertà, rivendicate per la prima volta nella prima metà dell’800, fondate sulla richiesta di una sfera privata riservata al singolo individuo da cui l’ingerenza statale fosse esclusa. Per questo motivo i diritti civili, detti di prima generazione, sono chiamati anche “libertà dallo stato o libertà negative” (A. Barbera e C. Fusaro Corso di diritto pubblico, 115 – 116). 7 Y. al-Qaradawi, The Status of Women in Islam – The Woman as a Feminine Being. 8 Ahl al-kitab, significa letteralmente “gente del libro”, denominazione con cui venivano indicati gli esponenti delle comunità religiose considerate detentrici di parte della Rivelazione, cioè gli ebrei e i cristiani. Nel dar-al-Islam la “gente del libro” godeva di uno statuto giuridico particolare, cioè quello di dhimmi. In cambio del pagamento di un’imposta speciale (jizya), essi potevano praticare la propria religione ed esercitare alcuni diritti. Lo status di dhimmi venne in seguito esteso anche a zoroastriani (detti “magi” nel Corano), sabei (probabilmente identificabili con la setta gnostica dei mandei), buddisti ed induisti (G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, 30 - 33).

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Fra i diritti sociali, garantiti alla donna dal Corano e dalla Sunna, troviamo, oltre al già analizzato diritto al lavoro, il diritto all’educazione e all’istruzione - derivanti dal diritto/dovere fondamentale di perseguire la conoscenza – e il diritto/dovere di adempiere agli impegni militari.9 Le prove a sostegno del diritto della donna all’istruzione provengono sia dalla Sunna sia da argomentazioni di tipo logico. Un hadith racconta che il Profeta abbia detto: “Cercare la conoscenza è il compito di ogni musulmano, uomo o donna che sia”; inoltre si narra che molte donne, fra le mogli dei Compagni del Profeta, assistessero personalmente agli insegnamenti impartiti da Muhammad e gli ponessero direttamente delle domande. D’altro canto, un’istruzione appropriata è un requisito imprescindibile sia per svolgere il dovere della hisba (il dovere di “consigliare il bene e proibire il male”), sia per essere una buona madre, poiché, anche nella famiglia tradizionale islamica, sono le madri ad occuparsi dell’educazione dei figli durante l’infanzia. Per quanto riguarda gli obblighi militari, alle donne non è richiesto di andare in guerra, ma non è loro vietato. La Sunna, infatti, riporta esempi di donne sul campo di battaglia durante le spedizioni del primo periodo dell’Islam: si occupavano di fornire il primo soccorso ai feriti, di portare l’acqua o di cucinare. In genere non era richiesto loro di combattere, tranne in caso di estrema necessità. Oltre ad ‘Aisha, la tradizione islamica riporta altre figure di donne guerriere, come ‘Umm ‘Imarah, che nella battaglia del monte Uhud (625) - da cui i musulmani uscirono sconfitti - combatté talmente bene da essere pubblicamente elogiata dal Profeta.10 Per quanto riguarda i diritti economici, l’Islam pretende di porsi in un atteggiamento di innovazione rispetto alla condizione cui la donna era sottoposta durante la jahiliyya. Le riconosce, infatti, il diritto di possedere proprietà e di gestirle, diritto che mantiene anche all’interno del matrimonio poiché il mahr è proprietà esclusiva della moglie, così come gli eventuali introiti che guadagnasse. Inoltre l’Islam garantisce alla donna il diritto di partecipare ai contratti quale parte contraente e quello di ereditare, come espresso dal Corano: “ma anche alle donne spetta una parte di ciò che hanno lasciato genitori e parenti” (IV:7; Bausani). Come accennavo in precedenza, la posizione di chi rintraccia i diritti della donna nel Corano e nella storia dei primi secoli dell’Islam – tramandata soprattutto attraverso le trazioni profetiche - è di tipo apologetico e non possiede valore storico-critico. Le fonti che ci narrano le vicende della umma al tempo del Profeta – in primo luogo la Sunna – sono state codificate all’incirca nel IX sec. d.C., più o meno a due secoli di distanza dai fatti che raccontano. Quindi 9

I diritti sociali, detti anche di terza generazione, sono quei diritti rivendicati nella prima metà del ‘900 al fine di riequilibrare le disparità sociali, come, ad esempio, il diritto alla salute, all’istruzione, alla previdenza sociale. Per la realizzazione di tali diritti è in genere necessario un intervento statale e per questo motivo i diritti sociali sono anche definiti “libertà mediante lo stato” (A. Barbera e C. Fusaro Corso di diritto pubblico, 116). 10 Y. al-Qaradawi, The Status of Women in Islam – The Woman as a Member of Society.

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questi resoconti più che alla verità storica sono necessariamente improntati all’esaltazione dell’Islam e delle sue virtù e anche la precedente età della jahiliyya – le cui fonti storiche scarseggiano – viene presentata in modo negativo, proprio allo scopo di evidenziare ulteriormente il valore innovativo e rivoluzionario dell’Islam. Quindi, se possiamo affermare che alle donne musulmane nel VII sec. d.C. venivano garantiti formalmente alcuni diritti negati invece alle contemporanee che vivevano nell’Occidente cristiano, tuttavia non siamo nella condizione di poter affermare altrettanto per le donne del tempo della jahiliyya.

3.3 Confutazione dei miti misogini

Nonostante il Corano affermi esplicitamente l’uguaglianza ontologica e morale dell’uomo e della donna, essi non sono concepiti come tali dalla shari‘a sia a causa dell’interpretazione patriarcale di certe sure sia a causa di alcuni miti e credenze riguardanti la donna, profondamente radicati nell’immaginario comune e appartenenti alla più vasta tradizione semitica. Questi miti sono stati introdotti nel corpus ufficiale della Sunna sottoforma di tradizioni profetiche e sebbene siano poco numerose, spesso deboli e in contraddizione con il dettato coranico, siccome sono citate nella raccolte di tradizioni più autorevoli (dette “Digesti Autentici” o in arabo Sahih), cioè quelle di al-Bukhari (m. 870) e di Muslim (m. 875), hanno assunto notevole importanza. La studiosa Riffat Hassan vede in questi miti, che riguardano la creazione della coppia ancestrale e la sua cacciata dall’Eden, la ragion d’essere di quegli assunti teologici comuni alle tre fedi monoteiste che giustificano la disuguaglianza fra uomo e donna.11 Infatti, una conseguenza della concezione di creazione tramandata in questi miti è la visione della donna come un essere non solo derivato - sia perché creato per secondo in senso cronologico, sia perché “estratto” da Adamo - ma anche strumentale alla soddisfazione delle esigenze dell’uomo. La donna, quindi, sarebbe stata creata “da” l’uomo e “per” l’uomo, e perciò, in ultima analisi, sarebbe meno umana di lui.12

3.3.1 La creazione

La scelta di soffermarmi nuovamente sul tema della creazione è dettata dalle sue potenzialità nel supportare una lettura dei rapporti di genere favorevole alla donna: se Dio ha

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R. Hassan, Religious Conservatism. A. Wadud, Qur’an and Woman, 7.

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creato l’uomo e la donna uguali, non è ammissibile che siano trattati in modo iniquo in un momento successivo alla creazione stessa. Infatti, in questa prospettiva, la disparità di trattamento esistente tra uomo e donna in molte società musulmane è vista come un sovvertimento del piano originario voluto da Dio per l’umanità.13 Esistono diversi modi di affrontare l’analisi dei versetti relativi alla creazione. Ad esempio A. Wadud - la cui analisi adopero come riferimento principale - adotta un approccio di tipo linguistico ed etimologico.14 La creazione della prima coppia umana, come ho già detto, non è descritta nel Corano in termini di genere, ma in termini egualitari. Ad Adamo non è assegnata alcuna priorità, anzi il suo nome non compare mai in relazione alla creazione e quando si presenta in altri contesti – ad esempio a proposito della “cacciata dall’Eden” – è sempre usato in senso universale, quale simbolo dell’intera umanità.15 Per quanto riguarda Eva/Hawa’, invece, il suo nome non è mai citato nel Corano. La creazione umana avviene in tre fasi: l’inizio della creazione, il suo perfezionamento e infine l’atto di soffiare in essa lo spirito divino (ruh), azione che trasforma la materia inerte (argilla) in un essere umano. Seguendo l’analisi di A. Wadud, mi concentro sulla prima fase, esaminando nuovamente il versetto IV:1: “Temete Iddio, il quale vi creò da [min] una persona [nafs] sola. Ne [min-ha] creò la sua compagna [zawj] e dai due ha fatto sorgere molti uomini e molte donne.” (Bausani). Il fatto che la prima coppia umana abbia avuto una comune origine e che quindi possegga la medesima essenza è una nozione condivisa su cui mi sono già soffermata nel capitolo precedente. I due termini dalla cui traduzione dipende la concezione ontologica della donna sono: min e zawj. Min grammaticalmente è una preposizione che può significare sia “da” sia “della stessa natura di”. Rendere min con la preposizione “da”- come vuole l’esegesi coranica classica significa stabilire che la seconda parte della creazione (arbitrariamente ritenuta l’elemento femminile della coppia), venga creata per “estrazione” dalla prima (ovviamente l’uomo) e quindi sia derivata ed inferiore. Al contrario, optando per la seconda traduzione, si sottolinea ancora una volta la consustanzialità della coppia originaria. Secondo questa lettura, il versetto si leggerebbe: “Temete Iddio, il quale vi creò da una persona sola e della stessa natura di questa creò la sua compagna.”.

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R. Hassan, Religious Conservatism. A. Wadud, Qur’an and Woman, 16 – 22. 15 “Adamo” è un nome di origine ebraica che ha la stessa radice del termine “suolo”. Nel Corano è usato quasi sempre con la funzione di nome collettivo indicante l’essere umano, non l’uomo maschio. Inoltre possiede un’accezione particolare: si riferisce all’essere umano nel suo ruolo di vice-reggente di Dio sulla terra. Infatti, nella già citata sura II versetti 30-31, il Corano narra: “Ecco, io porrò sulla terra un Mio vicario [khalifan]’. […] Ed insegnò ad Adamo il nome di tutte le cose.” (Bausani, il corsivo è mio) (R. Hassan, Religious Conservatism). 14

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Il termine zawj indica l’elemento della coppia ancestrale creato per secondo. Tuttavia, anche se nella traduzione che ho riportato è stato reso come “compagna”, dal punto di vista grammaticale è di genere maschile, mentre concettualmente è neutro. Siccome non è specificato se zawj si riferisca all’elemento maschile o a quello femminile della coppia, ne consegue che Dio all’origine creò un’umanità indifferenziata, senza alcuna specificazione di genere.16 Tuttavia l’idea che Eva sia stata creata dalla costola di Adamo è diffusa nell’Islam, anche se di derivazione extra-coranica. Le raccolte autentiche della Sunna contengono infatti sei tradizioni profetiche sull’argomento e quello più significativo recita così: “E vi consiglio di prendervi cura delle donne, perché sono state create da una costola e la parte più curva della costola è quella superiore; se provate a raddrizzarla, si rompe e se la lasciate così rimarrà curva, quindi vi ordino di prendervi cura della donna”. Un altro elemento da prendere in considerazione nella trattazione coranica della creazione è l’accento posto sul dualismo. La coppia è l’elemento cardine della creazione, e non solo di quella umana, come ricorda il versetto LI:49: “E di tutte le cose creammo una coppia, affinché voi rifletteste” (Bausani). Alcune importanti conseguenze del fatto che il frutto della creazione originaria sia una coppia sono, in primo luogo, che nessun elemento della diade ha la precedenza sull’altro, ma al contrario hanno entrambi la medesima importanza; in secondo luogo i due elementi, proprio in quanto creati come coppia sono stati concepiti per essere congruenti l’un l’altra e per completarsi a vicenda.17 Il secondo elemento da confutare nel mito della creazione della donna è l’idea che Eva\Hawa’ sarebbe stata creata in funzione dell’uomo. Nel Corano non è contenuto alcun versetto che sostenga una tale visione. Le sole finalità espresse della creazione umana (non distinta per genere) sono la verità e la giustizia: “Ma Noi abbiamo creato i cieli e la terra, e quel che v’è nel mezzo, solo con verità d’intento” (XV:85; Bausani, il corsivo è mio).18

3.3.2 Il peccato originale e la cacciata dall’Eden

Analogamente a quanto è accaduto per le storie relative alla creazione, l’Islam avrebbe assorbito molte idee relative alle vicende del Giardino dell’Eden dalla tradizione ebraico-cristiana.

16

R. Hassan, Religious Conservatism. A. Wadud, Qur’an and Woman, 20 – 21. 18 R. Hassan, Religious Conservatism. 17

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Tuttavia, se ci si attiene al dettato coranico, gli avvenimenti di cui la coppia primordiale è protagonista e le conseguenze per la concezione della donna sono diverse.19 Innanzitutto Eva non è ritenuta responsabile del peccato originale e della successiva cacciata dell’umanità dal Paradiso terrestre, elemento che, al contrario, ha stigmatizzato la figura della donna nella tradizione ebraico-cristiana. Infatti, secondo quest’ultima, la donna rappresenta l’origine del male e incarna l’alterità rispetto all’uomo, elemento primario della creazione. In secondo luogo, a parere di R. Hassan, lo stesso concetto di “caduta” dell’umanità in seguito al peccato originale, sarebbe assente nel Corano.20 Il primo indizio che scagiona Eva dalla responsabilità del peccato originale è il fatto che nei passi ad esso relativi viene utilizzata sempre la forma duale. Entrambi ricevono l’ammonimento divino di non toccare l’albero proibito: “E dicemmo: ‘O Adamo, abita tu e la tua compagna, questo giardino […] ma non avvicinate quest’albero, che non abbiate a diventare degli iniqui [zalimin]” (II:35; Bausani, il corsivo è mio). Entrambi sono tentati da Satana (Iblis): “Ma Satana sussurrò ad essi nel cuore […] e disse: ‘il vostro Signore v’ha proibito di accostarvi a quest’albero solo perché non abbiate a diventare angeli e vivere in eterno’” (VII:21; Bausani). Infine sono entrambi a trasgredire all’ordine imposto commettendo zulm.21 In secondo luogo la fonte della tentazione è Satana non Eva. Il diavolo vuole dimostrare a Dio che l’uomo è un essere debole e ingrato, quindi indegno di essere innalzato sopra le altre creature. Però, nel momento della tentazione, Satana si rivolge direttamente ad Adamo (“E Satana gli bisbigliò nel cuore: ‘O Adamo, permetti che io ti guidi all’albero dell’Eternità”, XX:120; Bausani), il quale alla fine cede e viola il comando divino. Sebbene entrambi commettano zulm (“E mangiarono ambedue di quell’albero”, XX:121; Bausani), è Adamo ad essere esplicitamente incolpato della trasgressione: “E stringemmo già da prima un patto con Adamo, ma ei lo dimenticò e non scorgemmo in lui fermezza d’intenti.”, o ancora: “Così Adamo si ribellò al suo Signore e cadde in erranza.” (XX:115 e 121; Bausani). Infine Hawa’ non può essere incolpata della cacciata dall’Eden, perché nel Corano non vi è l’idea della “caduta dell’umanità”, connessa solitamente ai concetti di punizione e di dannazione. Innanzitutto, secondo l’Islam, la terra non è un luogo di dannazione dove l’umanità condurrà un’esistenza segnata dal dolore. Anzi è quest’ultima, non il Paradiso, il luogo preposto all’essere

19

Tracce di una concezione negativa della donna, derivante dal substrato semitico comune ai tre monoteismi, si possono rintracciare in tradizioni profetiche molto popolari come la seguente: “Dietro di me, non ho lasciato afflizione più dolorosa per gli uomini che le donne” (Al-Bukhari). 20 R. Hassan, Religious Conservatism. 21 Il termine zulm (iniquità) non rimanda al concetto di peccato. Etimologicamente è connesso con l’idea di “mettere qualcosa al posto sbagliato” e nella sfera morale significa commettere un’ingiustizia trasgredendo i propri limiti e andando così a ledere i diritti di un altro (Ibidem).

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umano, in quanto è destinato ad esercitarvi la vice-reggenza.22 Inoltre Adamo ed Eva non sono puniti attraverso la cacciata dall’Eden, perché si accorgono immediatamente di aver oltrepassato i limiti divini [hudud], si pentono di ciò che hanno fatto e chiedono perdono a Dio che li assolve. Infatti essi dissero: “O Signore Nostro! Abbiamo fatto torto a noi stessi: se tu non ci perdoni e non hai pietà di noi andremo in perdizione!” (VII:23; Bausani). Quindi, a differenza della tradizione ebraico-cristiana dove il peccato originale sancisce una rottura tra Dio e l’essere umano, nell’Islam uomo e Dio non sono alienati e gli uomini non portano su di sé il marchio della colpa commessa dalla coppia ancestrale. Anzi R. Hassan dà un’ulteriore chiave di lettura dell’episodio. Il peccato originale non è visto come un atto di trasgressione, ma come la prima scelta morale consapevole dell’essere umano. Attraverso questo atto avviene il passaggio dell’umanità dallo stadio istintuale alla piena coscienza delle proprie azioni (anche se sbagliate). Quindi, secondo la Hassan, “il primo atto di disobbedienza a Dio” sarebbe “anche il primo atto di libera scelta”. Contravvenendo al divieto divino Adamo ed Eva si macchiano di zulm, ma allo stesso tempo affermano il loro libero arbitrio, senza il quale la rettitudine o la malvagità non avrebbero significato. 23

3.4 De-costruzione dei versetti che affermano la disuguaglianza uomo-donna

La maggioranza delle tesi che affermano la disuguaglianza e l’intrinseca superiorità dell’uomo rispetto alla donna hanno il loro fondamento in letture patriarcali di determinati versetti coranici. Io mi soffermerò sui versetti II:228 e IV:34, dimostrando non solo che le letture conservatrici costituiscano solo una delle letture possibili, ma che sono infondate e incongruenti con altri precetti coranici. Il versetto 228 della sura della Vacca dice: “E alle donne siano riconosciuti diritti simili ai doveri loro imposti, secondo ciò che è considerato equo; ma gli uomini hanno un grado [daraja] in più rispetto a loro”.24 La parola chiave che convoglia già di per sé l’idea di una diversa condizione tra uomo e donna è daraja, cioè “gradino”, “grado”, “livello”. Questa parola è usata altre volte nel Corano in

22

A. Wadud, Qur’an and Woman, 23. R. Hassan, Religious Conservatism. 24 La versione di questo versetto che ho scelto è quella di M. M. Pickhall, di cui ho reso personalmente la traduzione italiana (il corsivo è mio). L’ambiguità, e la conseguente discussione teorica di cui il versetto è oggetto, è dimostrata anche dalle differenze, talvolta sostanziali, che esistono tra una traduzione e l’altra. Bausani, ad esempio, rende il versetto come segue: “Esse agiscono con i mariti, come i mariti agiscono con loro, con gentilezza; tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto, e Dio è potente e saggio”. 23

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contesti diversi. Tuttavia una panoramica delle accezioni con cui il termine è usato può essere utile per leggere nel versetto significati o sfumature differenti. Un “grado” sugli altri può essere ottenuto attraverso delle buone azioni (XX:75) oppure può essere attribuito da Dio. Anche se nel primo caso il Corano non indica esplicitamente quali azioni si debbano compiere, privilegia gli atti svolti con taqwa (timor di Dio). Invece la daraja concessa da Dio, viene assegnata in base alla conoscenza (“Iddio innalzerà coloro di voi che credono e cui fu data la conoscenza, d’alti gradi [darajat] in cielo”; LVIII:11, Bausani; il corsivo è mio). Nel versetto II:228 la daraja considerata è invece quella che intercorre fra uomo e donna, ma non è specificato in virtù di che cosa venga assegnata. Il tipo di daraja che distingue l’uomo dalla donna è connessa all’ambito di azione attribuito al versetto, il quale a sua volta dipende da come viene contestualizzato all’interno del testo coranico. Faccio alcuni esempi per chiarire meglio il concetto. L’esegesi tradizionale ha letto il versetto senza attuare alcuna contestualizzazione. A “daraja” viene attribuito un significato assoluto: gli uomini avrebbero un “grado” in più rispetto alle donne (perché sono ontologicamente superiori ad esse). Questa lettura, chiaramente conservatrice, oltre ad essere in contraddizione con il principio dell’uguaglianza fra uomo e donna, considera solo una parte del versetto, isolandolo dal resto. Infatti lo stesso versetto 228 e quelli immediatamente precedenti contengono precetti sul comportamento da tenere in caso di divorzio e, comunque, indicano un sostanziale equilibrio fra diritti e doveri dell’uomo e della donna all’interno della relazione coniugale. Quindi, le teologhe femministe circoscrivono il valore del versetto al rapporto fra i coniugi al momento del divorzio. Per R. Hassan, la daraja in più conferita al marito rispetto che alla moglie è dovuta al fatto che, in caso di divorzio, questi non deve attendere i 3 mesi dell’‘idda (periodo di attesa rituale) prima di risposarsi.25 Invece per A. Wadud, il vantaggio del marito sarebbe poter scindere il legame matrimoniale senza dover ricorrere al giudice o all’arbitrato, come invece è obbligata la moglie.26 L’altro versetto spesso citato a sostegno della superiorità maschile o maritale è il 34 della sura delle Donne: “Gli uomini sono qawwamuna delle donne, perché Allah ha preferito [faddala] alcuni [ba‘dahun] di loro sugli altri [ba‘adin], e per quello delle loro proprietà che spendono per mantenerle” (IV:34).27 La lettura di questo versetto dipende da come si interpretano le parole-chiave: “qawwamuna” e “faddala” (preferire). Il termine qawwamuna è stato tradotto in molti modi. Gli studiosi di tendenza conservatrice, quali Mawdudi e Al-Qaradawi, lo rendono rispettivamente 25

R. Hassan, Religious Conservatism. A. Wadud, Qur’an and Woman, 68. 27 Traduzione di Pickhall, di cui ho reso la versione italiana cercando di rimanere il più possibile fedele alla lettera del testo. 26

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come “legislatori” e “responsabili degli affari” delle donne oppure come “custodi”, “protettori” o “coloro che si occupano di mantenere” le donne; Bausani, invece, dà al termine il significato di “preposti” rispetto alle donne. Tutti questi significati implicano un rapporto di potere nel quale la donna ricopre il ruolo della sottoposta. Al contrario R. Hassan, tenendo in considerazione il senso etimologico del termine, sostiene che significhi “coloro che provvedono ai mezzi di sostentamento”; mentre per A. al-Hibri esso si riferirebbe alle nozioni di “cura” e “guida morale”.28 Il verbo faddala, nonostante le svariate traduzioni di cui il versetto è stato oggetto, significa letteralmente “preferire” e rimanda al fatto che Dio ha preferito alcune delle sue creature – l’essere umano – rispetto ad altre. La preferenza divina (fadl) non può essere ottenuta attraverso le azioni, ma è concessa solamente da Dio e, in questa sede, costituisce una delle due condizioni che devono essere

verificate

contemporaneamente

affinché

l’uomo

possa

dirsi

qawwam

(protettore\mantenitore) della donna. La seconda è che l’uomo spenda parte delle sue ricchezze per mantenerla. Inoltre nel versetto non viene specificato né il motivo per cui viene accordata questa preferenza, né in che cosa essa si manifesti. Quindi gli studiosi di tendenza conservatrice, come Al-Qaradawi, ritengono che la preferenza divina si traduca nel fatto che l’uomo sia dotato di più forza e capacità intellettiva della donna e che perciò ne sia di diritto “custode” e “responsabile degli affari”. Secondo A. al-Hibri, tale interpretazione è infondata perché non si fa alcun cenno alla superiorità fisica e intellettuale maschile né nel versetto in questione né nel resto del Corano.29 Invece, secondo la Wadud e la Hassan, tale preferenza potrebbe riguardare l’ambito materiale. Contestualizzando il versetto nell’Arabia del VII sec. d.C., la Hassan ritiene che all’uomo sia stato conferito un vantaggio in materia di risorse finanziarie; mentre, secondo A. Wadud, l’unica preferenza accordata al genere maschile nel Corano riguarda l’eredità (IV:7). Tuttavia, siccome l’Islam è improntato alla reciprocità di privilegi e responsabilità, questa “disparità” trova la sua controparte nel dovere maschile di mantenere la donna (qiwama). Infine, A. al-Hibri non si occupa di determinare in che cosa si concretizzi la preferenza divina, ma sottolinea il fatto che questa non è mai assoluta o incondizionata. Il versetto, infatti, afferma che Dio ha preferito alcuni [ba‘d] su altri, ma non ne specifica il sesso. Da ciò deriva che alcuni uomini possono eccellere su alcune donne, ma non esclude che alcune donne possano

28

A. Wadud, Qur’an and Woman, 70 – 71. Aziza al-Hibri, “A Study of Islamic Herstory: or how we did ever get into this Mess?” da Women’s Studies International Forum, vol. 5 (1982), 218.

29

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eccellere su alcuni uomini. Dalla lettura della Hibri, perfettamente conforme al testo coranico, consegue che “gli uomini come categoria non sono ‘qawwamuna’ della donne come categoria”.30 Un altro strumento ermeneutico usato dalle teologhe femministe è quello di restringere l’ambito di applicazione dei precetti contenuti nel versetto. Se gli esegeti più conservatori tendono ad applicare il versetto all’intera società e quindi a considerare ogni uomo ‘protettore’ e ‘responsabile’ di ogni donna, le teologhe femministe, invece, lo ritengono valido solo nel contesto della famiglia e del vincolo coniugale. La Hassan circoscrive ulteriormente il versetto, in quanto ritiene che l’intento fondamentale di quest’ultimo sia garantire alla donna il diritto di essere mantenuta mentre svolge la funzione, necessaria alla sopravvivenza della specie, di partorire e crescere i figli.31 Anche A. Wadud sostiene che il versetto si riferisca solamente all’ambito famigliare. Come accennavo prima, secondo la studiosa statunitense, all’interno della famiglia vi sarebbe una relazione funzionale fra moglie e marito, conforme al principio d’equilibrio. Perciò a contrappeso del compito della donna\moglie di partorire e accudire i figli, all’uomo\marito viene attribuita la qiwama, cioè il dovere di proteggere fisicamente la moglie e di sostenerla dal punto di vista economico, ma anche morale e spirituale.32

30

Ibidem R. Hassan, Religious Conservatism. 32 A. Wadud, Qur’an and Woman, 72 – 74. 31

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RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Già nel 1995 la Conferenza mondiale sulla donna di Pechino riconosce il valore del femminismo islamico quale mezzo per rivendicare i diritti della donna e rendere più eque le relazioni di genere a partire dall’interno del contesto islamico. Durante la conferenza, tenuta sotto l’egida delle Nazioni Unite e cui hanno preso parte tutti gli stati musulmani tranne l’Arabia Saudita, l’Islam viene riconosciuto quale forza unificante in grado di garantire alla donna i diritti umani e di tutelarne la dignità personale. Più recentemente durante il primo Congresso Internazionale sul Femminismo Islamico, tenutosi a Barcellona nell’ottobre 2005, viene ribadito il valore del movimento nel fornire una lettura islamica della questione di genere, ma al tempo stesso compatibile con i principi democratici e i diritti umani.1 Questa lettura andrebbe svolta attraverso un recupero sia degli elementi di liberazione presenti nell’Islam tradizionale, sia della parte più spirituale del messaggio coranico, incentrata sui valori di giustizia ed equilibrio. Durante il congresso di Barcellona vengono indicate anche altre potenzialità del femminismo islamico. Analogamente a quanto sostenuto da M. Badran, si sottolinea come il femminismo islamico, fornendo un modo islamico di concepire l’uguaglianza di genere, possa facilitare l’integrazione nei paesi occidentali delle comunità musulmane immigrate.2 Infatti gli aspetti della “cultura musulmana” che più la allontanano da quella occidentale (in primo luogo la diversa concezione dei rapporti di genere) vengono mitigati attraverso un discorso comprensibile alla comunità stessa e non sentito come estraneo. Un altro merito riconosciuto al femminismo islamico è quello di contribuire al superamento dell’equazione tra Islam e fondamentalismo, sempre più frequente in seguito al diffondersi del terrorismo di matrice islamica. L’esistenza stessa del femminismo islamico dimostra come l’Islam sia una realtà plurale, capace di declinarsi in vari modi a seconda degli ideali che sostiene. Infatti, secondo le parole della studiosa M. Badran “la lettura della religione articolata dal femminismo islamico rappresenta una celebrazione della grande ricchezza dell’Islam”.3 Alcune studiose si spingono oltre sostenendo che il femminismo islamico – come il movimento generale – costituisca uno strumento di lotta al fondamentalismo, o usando le parole di 1

Il Congresso Internazionale sul Femminismo Islamico di Barcellona è stato organizzato dalla Giunta Islamica Catalana con il supporto dell’UNESCO e ha ribadito le potenzialità del femminismo islamico nel creare un Islam liberale, pluralista, egualitario ed emancipatorio (V.M. Moghadam, What is Islamic Feminism?). 2 M. Badran, “Islamic Feminism: What’s in a Name?”. 3 M. Badran, intervista sul femminismo islamico presso l’ISIM di Leiden.

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J. Afary che “il femminismo islamico sia la risposta al fondamentalismo”.4 La natura antifemminista del fondamentalismo islamico è facilmente comprensibile, in quanto il femminismo propone una struttura dei rapporti di genere opposta a quella del fondamentalismo. Se da un lato è innegabile che i movimenti femministi sia laici che religiosi si siano schierati in prima linea nella battaglia contro l’islamizzazione della società che ha caratterizzato il Medio Oriente dalla fine degli anni ’70, d’altra parte, il femminismo islamico è più insidioso di quello secolare perché utilizza lo stesso linguaggio religioso del fondamentalismo. Secondo la studiosa A. M. Karam, il femminismo islamico ha un ruolo chiave nella lotta al fondamentalismo poiché mina il sistema su cui si fonda il potere dei movimenti islamisti. Nonostante gli islamisti e lo stato siano politicamente antagonisti, lo stato tende a fare propri gli elementi politicamente più “attraenti” del discorso islamista – come l’adozione della shari‘a fra le fonti del diritto - allo scopo di incrementare la propria legittimità. Però questo tentativo di manipolazione del discorso islamista, non ha raggiunto il suo scopo, ma ha creato al contrario una vera e propria crisi di legittimità. Questo accade perché lo stato, nonostante faccia propri alcuni elementi dell’islamismo, lo accusa contemporaneamente di terrorismo, perdendo credibilità e rafforzando in questo modo il fondamentalismo stesso. In questo contesto il femminismo islamico, attraverso l’elaborazione di un discorso di genere alternativo a quello islamista, può spezzare il circolo vizioso di rafforzamento reciproco fra stato e movimenti islamisti.5 Anche per J. Afary il femminismo islamico svolge un ruolo primario nella lotta al fondamentalismo. Ma per essere uno strumento ancora più efficace dovrebbe incidere concretamente su quegli elementi che ne hanno favorito la diffusione. Infatti, il fondamentalismo si presenta come la soluzione ai problemi che affliggono il mondo islamico. Quindi il femminismo islamico dovrebbe contribuire a porre rimedio ai punti deboli delle società musulmane contemporanee – comuni alla maggioranza dei paesi in via di sviluppo - quali una modernizzazione tecnologica e dello stile di vita, ma non accompagnata da una società civile forte e indipendente, uno sviluppo economico rapido che però non porta benessere ai lavoratori e l’integrazione delle donne nell’economia capitalista senza liberarle dal peso delle loro responsabilità tradizionali. Un altro genere di riconoscimento - importante dal punto di vista umano e spirituale - da attribuire alla teologia femminista è quello di costituire l’inizio di un cammino di riappacificazione delle donne musulmane con la propria tradizione religiosa. Infatti le donne musulmane attraverso

4 5

J. Afary, “The War against Feminism in the Name of the Almighty”, 14. A. M. Karam, “Women, Islamism and State”, 25 - 28.

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l’ermeneutica sensibile al genere, proposta dalla teologia femminista, si sono potute riappropriare dei loro testi sacri.6 Ma il valore più significativo del femminismo islamico e della teologia femminista è quello di costituire un modello indigeno di emancipazione della donna, alternativo al femminismo secolare di matrice occidentale. Inoltre per molte studiose, come R. Hassan, l’emancipazione della donna nel mondo islamico non può non avvenire che dall’interno del discorso religioso, proprio a causa delle caratteristiche stesse dell’Islam e del Corano.7 Infatti l’Islam non è solo una fede, come nella concezione occidentale di religione, ma è una “cultura vissuta” in cui ciascun elemento della società trova il suo senso.8 Se a ciò si aggiunge la natura del Corano quale parola rivelata di Dio quindi infallibile per il credente – e il fatto che la shari‘a è fra le fonti di diritto principali della maggioranza dei paesi musulmani, si comprende come qualsiasi cambiamento in questi paesi, oltre ad essere graduale, deve avvenire necessariamente all’interno della cornice della rivelazione dell’Islam. La studiosa iraniana Haideh Moghissi, invece, è estremamente critica riguardo a questa posizione.9 Ritiene errato e controproducente al fine dell’emancipazione femminile presentare l’Islam come la sola cornice possibile nel mondo musulmano all’interno della quale condurre la lotta femminista. Questo è il risultato che si ottiene, secondo la studiosa, ponendo un’enfasi eccessiva sul femminismo islamico poiché esso tende a presentare il discorso religioso come il solo autoctono e fondato dal punto di vista culturale. A ciò va aggiunto il fatto che alcune correnti laiche del femminismo accettano di utilizzare l’Islam quale espediente politico per raggiungere i loro obiettivi e quindi adottano un linguaggio di tipo religioso per rendere le loro rivendicazioni più accettabili. La Moghissi critica tale atteggiamento soprattutto perché può essere letto come una sorta di resa al fondamentalismo, in quanto l’Islam sembra qui diventare una categoria analitica imprescindibile anche per il femminismo secolare. Secondo l’autrice, infatti, “prima è necessario confermare l’Islam e poi si può parlare di oppressione della donna”.10 Inoltre questo stato di cose convoglia l’idea che l’Islam sia tutto ciò che il Medio Oriente può offrire, annullando il pluralismo e l’eterogeneità culturale della regione. Al contrario l’identità islamica è solo una delle identità

6

Caterina Bori, “‘E di tutte le cose creammo una coppia’. Teologia femminista islamica contemporanea” da Annali di studi religiosi, 2004; 125. 7 R. Hassan, Challenging the Stereotypes of Fundamentalism, citato da C. Bori in “‘E di tutte le cose creammo una coppia’”, 126. 8 A. M. Karam, “Women, Islamism and State”, 25. 9 Haideh Moghissi, Feminism and Islamic Fundamentalism. The Limits of a Post-modern Analysis, London: Zed Book (1999), 127 - 148. 10 H. Moghissi, Feminism and Islamic Fundamentalism, 135. Letteralmente: “dobbiamo [prima] confermare l’Islam, compreso il suo trattamento delle donne, e poi possiamo osare parlare di oppressione femminile nelle società islamiche.” (traduzione in italiano della sottoscritta).

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disponibili per le donne che vivono nei paesi a maggioranza musulmana, ma presentarla come l’unica possibile ha la conseguenza di ridurre al silenzio le voci secolari presenti in quei paesi. La studiosa iraniana si spinge fino a un punto di non ritorno nella critica al femminismo islamico. Nega il fondamento stesso del movimento, sostenendo - in ultima analisi - l’inefficacia della re-interpretazione dei testi sacri, come strumento per ottenere una lettura della religione favorevole alla donna. Infatti, secondo la Moghissi, per quanto possano variare le interpretazioni del Corano, esse non sono sufficienti a riconciliare il principio dell’uguaglianza di genere con i precetti contenuti nel testo sacro. Questo perché le interpretazioni dei principi morali non differiscono nella sostanza da luogo a luogo o da lettura a lettura. Nonostante ciò H. Moghissi risponde in modo affermativo alla domanda, posta nell’introduzione, sulla compatibilità fra Islam e femminismo; ma alla condizione, però, che l’Islam non venga concepito come cornice di riferimento per la liberazione della donna, ma come fede personale. In altre parole deve mantenersi netta la distinzione fra Islam quale sistema politico e religione di stato e Islam quale sistema morale e spirituale.11 Personalmente, in parte condivido le perplessità della Moghissi in merito alla capacità del testo coranico di flettersi fino a sostenere letture più libertarie e soprattutto sulla possibilità di ancorare in esso le fondamenta di un’emancipazione definitiva della donna. Infatti, gli esegeti nel corso del tempo hanno potuto legittimamente affermare sia che l’Islam è discriminatorio nei confronti della donna sia che ne tutela i diritti, a seconda di come hanno interpretato il testo sacro. Gli ultimi si sono concentrati sul principio di uguaglianza ontologica e morale, mentre i primi sul fatto che il Corano prescrive in certi ambiti, come ad esempio in quello della famiglia, diritti e doveri diversi fra i coniugi.12 Tuttavia non ritengo che le interpretazioni dei precetti morali del Corano non cambino da luogo a luogo o da un periodo storico all’altro, perché, se così fosse, sarebbe in contraddizione con l’intento profondo del testo sacro quale guida morale universale. È il Corano stesso a definirsi come guida (hudan) per l’umanità: “E il mese del Ramadan, il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini” (II:185; Bausani, il corsivo è mio); ma questo suo carattere universale deve essere conciliato con la specificità storico-culturale, derivante dal fatto di essere stato rivelato nell’Arabia del VII secolo.13 Per salvaguardare la 11

Sulla posizione particolarmente critica di H. Moghissi a proposito dell’uso dell’argomento religioso nella lotta per l’emancipazione femminile o sull’accento sulla necessità della separazione fra l’ambito religioso e quello temporale può avere influito l’origine iraniana della studiosa. Nella Repubblica Islamica dell’Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, è al potere l’Islam fondamentalista: in tale contesto il richiamo alla religione è diventato una condizione imprescindibile per poter esprimere qualsiasi tipo di dissenso, tanto più se riguardante la questione di genere. 12 A. Barlas, ‘Believing Women’ in Islam, 199 - 200. 13 La funzione di guida morale del Corano è espressa in numerosi passi, come ad esempio: “Ecco i Segni del Libro Sapiente guida e misericordia per gli operanti il bene” (XXXI:2-3, Bausani).

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funzione di hudan del Corano, A. Wadud si rifà al metodo ermeneutico di Fazlur Rahman, rielaborandolo in modo personale. Il compito dell’esegeta è comprendere le implicazioni che i passaggi coranici legati alle circostanze della rivelazione, hanno in quel determinato contesto culturale e trasporre, poi, il loro significato nella realtà attuale.14 Per la Wadud, infatti, è possibile estrarre dai versetti particolari i principi universali ad essi sottesi, e applicare tali principi a contesti culturali anche molto distanti da quello originario. Attraverso questo metodo ermeneutico viene rispettato il cosiddetto “spirito del Corano”, ossia il suo intento originario slegato dalla contingenze. Ciò implica, però, la negazione di ogni lettura assoluta e definitiva del testo sacro e anzi ne presuppone un’interpretazione permanente e continua da parte di ogni nuova generazione di musulmani affinché la modernità dell’insegnamento coranico possa mantenersi nel tempo a venire.15 Indipendentemente dalle conclusioni che emergeranno un giorno dal dibattito sul femminismo islamico e sulla teologia femminista islamica esso testimonia già di per sé una vitalità e un dinamismo intellettuale ritenuti a torto assopiti nel mondo musulmano.

14

Il metodo ermeneutico elaborato da Fazlur Rahman prevede una sorta di “doppio movimento”: dalla situazione presente al tempo del Corano e di ritorno al presente (F. Rahman, Islam and Modernity: Transformation of an Intellectual Tradition, citato da A. Wadud in Qur’an and Woman, 13). 15 C. Bori, “‘E di tutte le cose creammo una coppia’”, 127.

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BIBLIOGRAFIA

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