Oreste veronesi la strage di piazza fontana nelle pagine de «l'arena» (1969 1972)

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell'Antichità Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali Corso di Laurea Triennale in Storia

La strage di Piazza Fontana nelle pagine de «L'Arena» (1969-1972)

Relatore: Prof. Filippo Focardi

Laurenado: Oreste Veronesi Matricola: 1006582

Anno accademico 2012/2013



INDICE

p. 1

Introduzione

p. 9

Il contesto 1. Il Piano Solo, p. 9 – 2. Generazione in Movimento, p. 13 – 3. Conflitto urbano a Verona, p. 17

p. 27

La pista anarchica 1. Primordi di un'accusa, p. 27 – 2. Il «caso Pinelli», p. 33 – 3. Da Bakunin a Cohn Bendit, p. 39 – 4. Il processo Valpreda: l'alibi e il tassista, p. 42

p. 47

Un'inchiesta non voluta: la pista nera

p. 55

Riflessioni conclusive

p. 59

Documenti

p. 89

Intervista a Enrico Di Cola

p. 101

Ringraziamenti

p. 103

Bibliografia



"Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine. Nulla. Solo un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio" (Marco Aime1)

"Il monopolio della storia [è andato] ai mass media. Ormai gli appartiene. Nelle nostre società contemporanee è esclusivamente per il loro tramite che l'avvenimento ci colpisce, e non può evitarci (...) i mass media hanno fatto della storia un'aggressione, e hanno reso l'avvenimento mostruoso (...) perché la ridondanza intrinseca al sistema tende a produrre il sensazionale, fabbrica continuamente novità, alimenta una fame di avvenimenti" (Pierre Nora2)

1 Cfr., M. Aime, La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione , Milano, Eleuthéra, 2013, pp. 15-16. 2 Cfr., P. Nora, Il ritorno dell'avvenimento in Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia a cura di Jacques Le Goff e Pierre Nora, Torino, Einaudi editore, 1981, pp. 141-145.



INTRODUZIONE

Scrive Marco Revelli che la strage di Piazza Fontana ha segnato «una frattura, nella storia della Repubblica, in quella della sinistra, in quella dei movimenti» 1. Infatti la strage rappresent[a] uno snodo fondamentale nella storia dell'Italia repubblicana, un evento che dà il via a un cambiamento del “clima” politico e che apre la strada alla “notte della repubblica” che con la sua sequela di lutti cancella la ricchezza sociale, culturale e politica di un intero decennio 2

Punto cardine dell'Italia Repubblicana, inserita in un contesto di crisi diversificate3, la strage di Piazza Fontana ha rappresentato però, anche, il punto di non ritorno del giornalismo italiano. Infatti, una parte consistente del giornalismo italiano, con le spalle al muro, si è mostrato debole di fronte alle versioni ufficiali delle indagini, non ponendole sotto critica e insistendo su quelle piste con numerosi articoli e titolazioni particolarmente altisonanti. L'aspra dicotomia che segna la società italiana realizza una delle sue forme più compiute. La strage di Piazza Fontana ha evidenziato in molti casi la subalternità del giornalismo italiano che, abdicando alla sua funzione di quarto potere, si è piegato di fronte alle istituzioni e alle verità costruite, costituendo così un'aggravante della crisi della democrazia in Italia. Vidal-Naquet scrisse che la peggiore storiografia è quella di

1 Cfr., M. Revelli, Le due destre. Le derive politiche del postfordismo , Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 12. 2 Cfr., S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, Bologna, il Mulino, 2012, p. 113. 3 Cfr., S. Tarrow, Aspetti della crisi italiana: note introduttive in La crisi italiana. Formazione del regime repubblicano e società civile a cura di Luigi Graziano e Sidney Tarrow, Torino, Einaudi editore, 1979, vol. I, pp. 3-40.

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Stato, «e gli Stati raramente ammettono i loro comportamenti criminali» 4, ma allo stesso modo, senza paura di errore, si può dire che il giornalismo di Stato è il peggiore dei giornalismi. Giorgio Zicari, Guido Giannettini e Pino Rauti saranno gli emblemi di questo tipo di giornalismo, che fu in parte soggetto ai servizi segreti5. Infatti, con la strage di Piazza Fontana, ovvero l'esplosione di una bomba all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura a Milano, in Piazza Fontana, alle 16.37 del 12 dicembre 1969, si aprì la cosiddetta strategia della tensione. Con tale termine, coniato da una giornalista inglese, si intende riferirsi a quell'insieme di dinamiche e processi spesso contraddittori6 che ebbero come obiettivo, usando le parole di Aldo Moro, «di rimettere l'Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del '68 e del cosiddetto autunno caldo»7. Quegli avvenimenti avevano infatti segnato, per alcuni settori della società italiana, una pericolosa forma di decostruzione della gerarchia sociale. Infiltratosi nelle università e nelle fabbriche il vento di protesta che, passando da Berkeley a Parigi a Milano, stava imperversando in Italia era un pericoloso fattore di destabilizzazione anche geopolitica. 4 Cfr., P. Vidal-Nquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la shoah , Roma, Viella, 2006, p.199. 5 Secondo molti storici, quei servizi che si resero protagonisti del fenomeno stragista vanno considerati “deviati”. La questione della devianza degli apparati di sicurezza italiani è piuttosto complessa e vede contrapporsi feroci dibattiti, infatti coloro che supportano questa visione accusano chi non concorda di “dietrologia”. Chi scrive concorda, in linea di massima, con Giuseppe De Lutiis quando scrive che «l'attività dei servizi in quegli anni è stata impropriamente definita “deviante”; va invece considerata come il frutto più amaro della subalternità delle nostre strutture di sicurezza nell'ambito dell'alleanza militare alla quale l'Italia aderisce, che ha costretto parte dei funzionari a una devastante doppia lealtà». Vedi G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia, Milano, Sperling & Kupfer, p. XVI. 6 Immaginare una strategia onnicomprensiva proveniente da un unico centro sarebbe infatti sbagliato e fuorviate. L'esempio più tragico, che dimostra le diverse sfaccettature di dinamiche non omologabili ad un'unica direttrice, fu sicuramente la strage di Peteano ad opera di Vincenzo Vinciguerra, che in più sedi ebbe modo di affermare come il suo gesto fu spinto dalla necessità di rompere la collaborazione tra Stato e apparati neofascisti essendo, secondo lui, improponibile un tale accordo, che altro non fece che storpiare la base del pensiero fascista puro, a cui lui intese e intende fare riferimento. 7 Citato in F. Ferraresi, La strage di Piazza Fontana in Storia d'Italia. Annali 12. La criminalità , a cura di Luciano Violante, Torino, Giulio Einaudi editore, 1997, p. 622. Per un quadro dell'interpretazione di Aldo Moro dell'Italia Repubblicana Cfr., M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano , Torino, Einaudi, 2011, pp. 507-526.

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La Repubblica italiana, che camminava incerta sul percorso della democrazia, trovò di fronte a sé la prova tangibile di quell'insieme di forze che tanto temevano il "pericolo comunista". Una repubblica che già dalla nascita cresceva incerta, stretta tra la morsa qualunquista di Giannini, il revanscismo fascista del Movimento Sociale Italiano e dei Fasci di Azione Rivoluzionaria e un linguaggio populista, anche democratico, che certo non contribuì alla sana ricostruzione di uno Stato uscito da vent'anni di fascismo 8. Nel portare avanti i propri obiettivi gli attori in gioco ebbero modo di giovarsi della collaborazione attiva di alcuni giornalisti, collegati ai servizi segreti, e della collaborazione passiva di molta parte dell'apparato mass-mediatico italiano, fiducioso nelle indagini in corso e fin troppo spesso portavoce acritico di quanto affermato dalle forze dell'ordine. Una pratica che sembra in parte potersi inserire all'interno del modello di propaganda delineato da Noam Chomsky e Edward Herman per il caso statunitense, secondo cui i media «servono a mobilitare l'appoggio della gente agli interessi particolari che dominano lo stato e l'attività privata». Inoltre gli autori indicano degli strumenti di analisi che, come vedremo, si adatteranno proficuamente al particolare caso della strage di Piazza Fontana, affermando che «il modo migliore per comprendere, a volte con chiarezza cristallina e in profondità, le loro scelte, le loro enfasi e le loro omissioni è quello di analizzarli in questi termini»9.

8 Secondo chi scrive non è possibile parlare del difficile percorso italiano alla democrazia, senza prendere in considerazione quell'insieme di linguaggi populisti che ebbero modo di imporsi nel dibattito pubblico italiano. Nicolao Merker indaga le forme di quello che definisce "prepopulismo" evidenziando come «quelle tracce continueranno a vivere anche dopo, anzi fino ai nostri tempi». Seguendo questa interpretazione (seppur essa parta dall'inizio dell'Ottocento) la narrazione che Filippo Focardi ha da poco ricostruito sulla memoria autoassolutoria della seconda guerra mondiale in Italia non può essere elusa, diventando anzi, insieme al qualunquismo di Giannini, parte costituente di una cultura politica che tutt'oggi, nel solco di un crisi non solo economica, trova appoggio di massa. Cfr., N. Merker, Filosofie del populismo, Roma – Bari, Editori Laterza, 2009, p.4; Cfr., F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale , Roma – Bari, Editori Laterza, 2013; vedi anche S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima repubblica (1946-78) , Roma, Donzelli, 2004. 9 Cfr., N. Chomsky – E. Herman, La fabbrica del consenso, Milano, il Saggiatore, 2006, p. 9.

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Un modello in cui due dei cinque punti delineati sono la provenienza delle fonti e l'anticomunismo come meccanismo di controllo, per cui «l'anticomunismo è un utile strumento di controllo di mobilitazione del popolo contro un nemico» 10. Seguendo questa traccia si può notare che il «Corriere della Sera», che era il maggior quotidiano nazionale, era sempre il primo a pubblicare notizie sulle indagini della strage grazie al giornalista Giorgio Zicari, collaboratore del SID 11, attraverso il quale la pista anarchica fu ostentatamente sorretta e alimentata, contribuendo alla costruzione del “pericolo comunista”. Tuttavia anche chi non ebbe modo di avere tra le propria file giornalisti così profondamente inseriti in alcune zone dell'apparato statale, fu in grado di creare una narrazione, come detto, acritica e creatrice di capri espiatori, contribuendo in tal modo alla costruzione di una memoria labile, sfumata e spesso distorta 12. È questo il caso del quotidiano veronese «L'Arena» che è oggetto di questa ricerca. Infatti, idea di fondo di questo elaborato è la necessità di analizzare la realtà giornalistica locale andando oltre il grande giornalismo nazionale. Se infatti i grandi gruppi proprietari come Rizzoli hanno avuto, e hanno, un ruolo fondamentale nella gestione della comunicazione di massa e nella formazione di idee e interessi, altrettanto (e forse con maggior forza) hanno fatto i quotidiani

10 Ibidem, p. 49. 11 Sarà Giulio Andreotti in un'intervista rilasciata a «Il Mondo» del giugno 1974 a confermare le accuse che si stavano muovendo nei confronti di Zicari e Giannettini come informatori del SID. Vedi L. Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana: una strage senza colpevoli , Milano, Elèuthera, 2005, p.119; Cfr., Zicari e Giannettini ammettono di aver collaborato con il SID , «L'Arena», 20 giugno 1974. 12 Risulta sconcertante leggere i dati che fornisce Cinzia Venturoli che mostrano un perpetuo deterioramento delle conoscenze storiche delle giovani generazioni (mia compresa), in particolare per quanto riguarda l'oggetto di questa ricerca: nel 1999 un'indagine commissionata dall'Istituto milanese per la storia dell'età contemporanea della resistenza e del movimento operaio mostrò come a fronte di una diffusa conoscenza di un dato preliminare (ci sono state delle stragi a Milano, Piazza della Loggia e Bologna) che si attestava tra il 62 e il 97%, sorgevano poi dei problemi sull'individuazione cronologica, facendo crollare il dato al 22-42%. Dopotutto non è nemmeno sorprendente riconsiderando i miei studi precedenti all'università, dove la morte di Aldo Moro viene giustamente ricordata il 9 maggio in nome di tutte le vittime del terrorismo, ma dove questo fenomeno poi non viene nemmeno scalfito dall'istituzione che difficilmente riesce a raggiungere questo argomento nei programmi didattici. Vedi C. Venturoli, Stragi fra memorie e storia. Piazza Fontana, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Dal discorso pubblico all'elaborazione didattica, Viterbo, Sette Città, 2012.

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locali. Nel caso de «L'Arena» emergono chiaramente due direttrici di analisi: da una parte la mancata volontà di porsi come lettore critico di quanto avveniva nella società italiana, ad esempio lasciando che gli articoli fossero redazionali (provenienti cioè da agenzie di stampa, le quali sono «il nodo strategico decisivo» dei servizi segreti13) e quindi evitando di riferirsi a dati di prima mano o ad analisi di determinate firme, su una realtà che non fosse solo provinciale; dall'altro l'incapacità di porsi oltre un proprio spazio culturale. Se infatti emerge una mancata volontà di fare inchiesta in riferimento alle indagini dei magistrati Stiz e Calogero sulla cellula neofascista di Ordine Nuovo, altro aspetto riguarda la costruzione della colpevolezza anarchica, che viene posta sotto i riflettori in quanto storicamente dinamitarda. Il giornale, quindi, «ancora la regione e i lettori a una rappresentazione e a forme di autorispecchiamento superati dallo stesso sviluppo reale»14 e rimanendo esso stesso ancorato al proprio spettro politico, in questo caso attraverso il rigetto tout court della cultura anarchica, che, come si vedrà, sarà analizzata molto superficialmente e posta al centro del dibattito pubblico in riferimento alla strage. «L'Arena» è d'altronde, secondo i dati che Paolo Murialdi riferisce al 1978-79, il secondo giornale del Veneto con una tiratura di 42.900 copie, edito, fin dal 1945, dalla Società Athesis S.p.a che ne è tutt'ora l'editore 15, e che, sempre Murialdi, definisce di “area Dc”16. Ma l'interesse per questo giornale non sta solo in questo, e cioè nella ricostruzione di una crisi che è mantenuta viva anche dal giornalismo di provincia. L'interesse si sviluppa anche per lo specifico contesto veronese e veneto. Come è stato ormai storicamente accertato, protagonista della strage di Piazza Fontana è la cellula ordinovista veneta attiva tra Padova e Venezia,

13 Cfr., A. Giannuli, Come i servizi segreti usano i media, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, p. 43. 14 M. Isnenghi, La stampa quotidiana locale in La stampa italiana nell'età della TV, a cura di Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia, Roma – Bari, Editori Laterza, 2008, p.318. 15 Si può infatti leggere sul sito della società: «La Società Athesis nasce nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale, come editrice di uno dei più antichi quotidiani italiani, L'Arena di Verona». Il gruppo ha inoltre acquisito negli anni i quotidiani Il Giornale di Vicenza e BresciaOggi. Vedi http://www.gruppoathesis.it/ (ultima visualizzazione 4/06/2013) 16 P. Murialdi, Come si legge un giornale, Roma – Bari, Editori Laterza, 1981, p. 26-30.

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ma che passa pure da Verona (città che incrocia protagonisti della strage di Piazza della Loggia e in cui, tutt'oggi, le componenti post-fasciste e integraliste cattoliche sono molto presenti17). Come scrisse Camilla Cederna: Si può considerarla uno dei centri dell'eversione nera. È proprio a Verona infatti che, appena costituitosi a livello nazionale, trova una delle sedi più attive ed organizzate Ordine Nuovo (secondo un rapporto della Questura di Roma “una delle più violente e settarie espressioni del neofascismo) 18

A conferma di quanto detto dalla Cederna, spicca la figura di Elio Massagrande, che salterà agli onori delle cronache inizialmente nel 1971 per un'aggressione a studenti in occupazione alla facoltà di Magistero di Verona, ma poi anche per ben altre imputazioni, tra cui legami con la cellula ordinovista di Freda19. Questa ricerca è quindi indirizzata ad indagare un aspetto non ancora preso in considerazione nella storiografia locale veronese, ovvero contestualizzare il ruolo e la posizione del quotidiano «L'Arena», attraverso l'esame del più emblematico caso dei rapporti tra comunicazione di massa e potere, la strage di Piazza Fontana. Ciò offre inoltre l'opportunità di approfondire una ricerca personale sull'Italia Repubblicana e sulla democrazia. La concettualizzazione moderna dei termini politici ha infatti avuto modo, nella storia politica nazionale, di trovare fertile terreno per una critica e un'osservazione privilegiata sul senso, la retorica e i meccanismi della democrazia, intesa come forma di organizzazione sociale e politica20. Meccanismi che hanno potuto svilupparsi mettendo in crisi la forma 17 Cfr., E. Franzina (a cura di), La città in fondo a destra , Cierre edizioni, numero monografico della rivista Venetica, 19/2009, a. XXIII. 18 Cfr., E. Del Medico, All'estrema destra del padre. Tradizionalismo cattolico e destra radicale. Il paradigma veronese, Ragusa, Edizioni La Fiaccola, 2004, p. 121. 19 Droga e nuova criminalità. Libro bianco della Federazione Veronese del Partito Comunista Italiano, Verona, PCI – Federazione Provinciale di Verona, 1981, p.30. 20 Studi di scienza politica, sociologica, filosofica e storica sul concetto di democrazia e sul fenomeno contemporaneo sono infatti numerosi. Credo che il caso italiano permetta di rappresentare un caso di studio piuttosto fertile per far emergere quello che Luciano Canfora

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partito e facendoci approdare in quella che Bernard Manin ha definito “democrazia del pubblico”, cioè il passaggio da una democrazia incentrata sul ruolo del partito di massa, sull'attivismo e sui programmi politici, ad una che è invece veicolata dai mass-media, che favoriscono la formazione di un leader a cui la popolazione fa riferimento. In questo modo non sono più i programmi politici o l'impegno degli attivisti ad influire nella lotta politica, bensì la capacità comunicativa del leader: «la democrazia del pubblico è il governo dell' esperto di

media»21. La strage di Piazza Fontana apre uno spettro molto ampio di argomenti da approfondire. Questa ricerca si concentrerà solamente su alcuni punti cardine. Il primo capitolo avrà una funzione di contestualizzazione storica del periodo antecedente alla strage, cioè i fermenti politico-sociali del bienni 1968-69 e la crisi politica del centrosinistra con il Piano Solo. A seguire sarà definito, nelle sue linee di fondo, il contesto veronese attraverso l'analisi puntuale di alcuni casi di conflitto urbano, intrecciato con la narrazione che ne fece il giornale veronese. Il capitolo si gioverà di alcuni volantini, nonché di un opuscolo redatto in preparazione al XIV congresso provinciale della federazione veronese del Partito Comunista Italiano, consultati presso l'Istituto Veronese per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Con il secondo capitolo ci si addentrerà, invece, nella indagini della strage di Piazza Fontana e nella narrazione che propose il quotidiano «L'Arena». Saranno quindi analizzati gli articoli immediatamente successivi all'attentato e l'attenzione si concentrerà poi sul caso Pinelli e l''alibi di Pietro Valpreda. L'ultimo capitolo, infine, analizzerà l'omissione de «L'Arena» in merito alla pista nera, concentrandosi dunque sugli unici tre articoli pubblicati dal giornale su questo tema nel 1970-71. Come si può intuire, la ricerca è parziale. Sarebbe stato infatti molto

ha definito «paradosso democratico». Cfr., L. Canfora, Critica della retorica democratica, Roma – Bari, Editori Laterza, 2011. 21 Cfr., B. Manin, Principi del governo rappresentativo , Bologna, il Mulino, 2010, p. 245.

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interessante approfondire la strategia della tensione nel suo complesso, considerando anche le diverse conseguenze che porta con sé e le diverse porte e ferite che ha aperto. Il secondo capitolo, ad esempio, non prenderà in considerazione il caso Calabresi. Allo stesso modo, il terzo capitolo, affronterà in modo molto parziale i rapporti tra istituzioni e neofascismo, nonché il ruolo ideologico svolto da Franco Freda nel variegato mondo della riflessione politica e filosofica avviata da Julius Evola22, che non sarà oggetto di approfondimento. Ciò che questa breve ricerca intende far emergere è il ruolo del giornale veronese e quindi sarà sufficiente porre in evidenza alcuni nodi tematici di particolare rilievo che anche nell'ambito del giornalismo nazionale ebbero notevole risonanza. E, per questo, l'arco cronologico di riferimento è compreso tra il 1969 e il 1972. Ad arricchire la ricerca ho creduto utile aggiungere in appendice diversi materiali: 1. I volantini citati nel primo capitolo relativi al contesto veronese; 2. Alcuni degli articoli più significativi de «L'Arena», citati nel testo; 3. Un'intervista concessami da Enrico Di Cola, ex membro del Circolo 22 Marzo.

22 Per un inquadramento storico e teorico si veda F. Ferraresi, Da Evola a Freda. Le dottrine della Destra Radicale fino al 1977, in F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1984, pp. 13-53; Id., Minacce alla democrazia, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1995, pp. 61-103; Cfr., A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Roma, Donzelli, 2010, pp. 117-135.

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IL CONTESTO

Prima di iniziare a parlare del 12 Dicembre 1969 e delle conseguenze che ha comportato è necessaria un'introduzione che contestualizzi il periodo storico, in modo che sia possibile aver chiare le premesse che portarono alla strage. Infatti di bombe ce ne furono diverse, anche se solo quel giorno avvenne la strage; svariate furono anche le manifestazioni nonché le misure repressive attuate dalle forze dell'ordine. Se sono noti nell'opinione pubblica, anche solo in modo superficiale e vago, i disordini che caratterizzarono il biennio 1968-69 e, in particolare, il cosiddetto autunno caldo, altrettanto non si può dire per gli anni antecedenti, anni di fermentazione di quella che divenne una rivolta generazionale, inserita in dinamiche politiche e sociali di particolare rilevanza. Le proteste che sfociarono nel Sessantotto hanno infatti una base di fermentazione socio-economica che vive in tutti gli anni Cinquanta e che esplode negli anni Sessanta assieme al boom economico e alle nuove aspettative di vita e di consumo. Anche dal punto di vista politico assistiamo a diverse manifestazioni che possono perlomeno far prefigurare quello che successivamente si imporrà alla cronaca nazionale.

1. Il piano Solo Il “lato oscuro”, il “sommerso della Repubblica” 1 che s'impone più 1 In un breve ma intenso saggio del 2003, Francesco Biscione definiva il sommerso della Repubblica come quell'insieme di forze che si sono opposte all'antifascismo, da lui inteso come movimento politico che è stato parte essenziale nella costruzione della democrazia in Italia. Partendo dalle riflessioni di Aldo Moro e Franco De Felice ha provato a far emergere tale sommerso come caratteristica peculiare della storia dell'Italia Repubblicana. Cfr., F. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell'antifascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

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marcatamente nella prima parte del decennio, ha le sue basi nelle reazioni di quei settori industriali, religiosi e politici che più sono preoccupati dall'avvento di un governo di centro-sinistra. Quest'ultimo è infatti in cantiere da diversi anni. Dopo la distensione internazionale successiva alla morte di Stalin nel 1953, all'avvento di Nikita Chruščëv e alle operazioni di destalinizzazione al XX Congresso del PCUS il 25 febbraio 1956, il PSI di Nenni, congiuntamente all'ala sinistra della Democrazia Cristiana, rappresentata da Amintore Fanfani e Aldo Moro, sembrano convergere nel tentativo di trovare un accordo di governo. L'obiettivo è quello di progettare un'alternativa al centrismo, non passando però per la destra. L'ultimo barlume di luce che vedrà quest'ultima è nel 1960, quando il presidente del consiglio Fernando Tambroni, della sinistra cattolica e usato come ponte verso un futuro esecutivo di centro-sinistra, viene prima appoggiato dai voti missini e poi autorizza il congresso del Movimento Sociale Italiano a Genova, città medaglia d'oro alla resistenza. La decisione è seguita da numerose manifestazioni, a cui il governo risponde con un passo falso: la repressione. Ciò segna la fine del governo che con sé anche quella del centrismo. Si apre così la strada all'accordo della Democrazia Cristiana con il Partito Socialista Italiano di Nenni. Nel 1962 si avrà infatti un governo guidato da Fanfani che può contare sull'appoggio esterno dei socialisti, ovvero «un segnale inequivocabile che prelude a un futuro governo di centrosinistra»2. I circa quindici mesi dell'esecutivo Fanfani, sostenuto dai socialisti, possono essere considerati il periodo più proficuo delle riforme, a partire dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica e della creazione della scuola media unificata. Questo va detto perché, a partire da qui, si attiverà quel mondo così ostile e pauroso all'alternativa a sinistra. Un'alternativa accolta invece positivamente dagli Stati Uniti che affermano: The isolation and reduction of Communist strength would come about slowly and would depend greatly upon the depth and duration of Christian 2 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni. 1943-2006 , Roma – Bari, Editori Laterza, 2011, p. 75.

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Democratic-Socialist collaboration and the degree to which social and economic reforms were in fact achieved3.

Per gli statunitensi, un governo di centrosinistra rappresenta l'opportunità di limitare la crescente forza del Partito Comunista Italiano, legato al blocco sovietico. Come recita anche un documento successivo, gli statunitensi affermano: Noi dobbiamo difendere un'Italia democratica dove né i comunisti né i neofascisti possano partecipare al governo […] Possiamo accettare sia la continuazione del centrosinistra sia il ritorno deciso a un governo di centro, alla vecchia formula degli anni Quaranta e Cinquanta4

Il governo degli Stati Uniti non ha intenzione di indicare una via di azione all'Italia, timoroso di poter essere accusato di intromettersi negli affari interni della nazione e in parte preoccupato che un governo di centro-sinistra potesse modificare le relazioni di politica estera. Tuttavia nei primi mesi del 1962 l'analisi statunitense si rese conto che «non c'era alcuna alternativa stabile a un governo di centro-sinistra e che perciò, se la DC non fosse riuscita nel tentativo di crearlo, si sarebbe aperta una lunga crisi di difficile soluzione»5. Viceversa, per alcuni attori della società italiana l'apertura della DC al partito socialista significa invece un pericolo da limitare attivando ogni mezzo possibile. Il dato statistico che più rende evidente questa preoccupazione è lo straordinario risultato raggiunto dal Partito Liberale Italiano alle elezioni del 1963 quando, raddoppiando i propri voti, viene premiato con un 7%, che si spiega, appunto, con «la paura innescata dall'ingresso dei socialisti nella maggioranza e dalla 3 National Intelligence Estimate, Implications of the center-left experiment in Italy, 3 January 1963; Il documento è disponibile online all'indirizzo http://www.foia.cia.gov/sites/default/files/document_conversions/89801/DOC_0000013680.pdf (ultima visualizzazione 27/05/2013). 4 Cfr., U. Gentiloni Silveri, Gli anni settanta nel giudizio degli stati uniti: "un ponte verso l'ignoto", "Studi Storici", XLII (2001), p. 994. 5 Cfr., L. Nuti, Gli Stati Uniti e l'apertura a Sinistra. Importanza e limiti della presenza italiana in Italia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1999, p 450.

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prospettiva di una partecipazione diretta del Psi ai futuri governi» 6. È facile intuire che la convivenza e la sostenibilità dell'esecutivo, in un ambiente cosi turbolento e fragile, sia difficile da mantenere. Così «nel giugno 1964 il primo governo Moro va in crisi dopo il “colpo di mano” con il quale il ministro Gui aumentava i finanziamenti alle scuole private»7, concretizzando una generale opposizione di destra al pericolo comunista. Questa crisi sembrò poter spostare il governo a destra. Tuttavia una soluzione di questo tipo, cioè il tentativo di creare una coalizione di centro destra, avrebbe potuto avviare una mobilitazione di piazza simile a quella del giugno 1960 a Genova. Per evitare questa possibilità intervenne colui che si può considerare il vero protagonista del Piano Solo, Antonio Segni. Sono infatti le preoccupazioni di Segni, diventato presidente della Repubblica il 6 maggio 1962, a dare il via al piano. Questi dà indicazioni a Giovanni De Lorenzo, capo del Servizio Informazioni Forze Armate fino al 1962 (periodo in cui iniziò una schedatura di massa di senatori, parlamentari, sindacalisti, industriali, dirigenti di partito, sacerdoti) e successivamente comandante dell'Arma dei Carabinieri (anche se continuò a dirigere il SIFAR «per interposta persona» 8), per preparare un progetto difensivo d'emergenza, ovvero un piano che avrebbe permesso ai carabinieri di assumere il controllo dell'ordine pubblico: con l'occupazione delle prefetture, della Rai, di istituti civili e militari, di sedi di partiti e con l'arresto e il trasferimento in Sardegna di un certo numero di oppositori9.

Il Piano Solo non fu mai messo in pratica, tuttavia provocò un'inquietudine diffusa, esemplificata da quel “tintinnio di sciabole” annotato con preoccupazione da Nenni nei suoi diari. Il senso di minaccia pendente sul governo inibì un'efficace azione riformista. Per questo le più importanti riforme furono fatte durante la fase 6 7 8 9

S. Colarizi, Storia politica della repubblica, cit., p.84. G. Crainz, Il paese mancato, Roma, Donzelli editore, 2005, p. 77. G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia, cit., p.65. G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 99.

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di appoggio esterno del PSI, lasciando invece il centro-sinistra organico privo di agibilità politica, concretizzando la volontà conservatrice di alcuni attori della scena italiana.

2. Generazione in movimento Guardando alle Istituzioni democratiche, il dato che maggiormente marcò gli anni Sessanta fu quello che rimase alle cronache come il “caso SIFAR”. Ciò che invece rende storicamente peculiare questo “decennio breve” 10, è l'insorgere globale di una generazione. Una generazione che si trova ad essere la protagonista di un'insieme di conflitti, come scrive Diego Giachetti, “un Sessantotto e tre conflitti”, prendendo il Sessantotto come il cronotopo del periodo: conflitti di classe, di generazione e infine di genere. Le proteste degli studenti, che iniziano già a metà decennio, culmineranno poi nel famoso biennio in cui ci sarà una fortunata palingenesi delle rivolte. Credo che sia possibile e quasi doveroso dover ricordare, come sanzione emblematica di questo sgorgare ribellistico, la morte dello studente Paolo Rossi, durante l'occupazione della facoltà di architettura a Roma nel 1966, a causa di un'aggressione neofascista. Rossi viene così a identificare un'anticipazione profetica di quello che verrà sancito negli anni a venire. Ma gli anni Sessanta

10 Forzando un po' l'interpretazione e quindi nei limiti che tali categorizzazioni pongono, credo si possa parlare di "lunghi anni settanta" traslando quindi il famoso "Lungo Ottocento" di Hobsbawm. Infatti, è possibile inquadrare peculiarmente gli anni Sessanta escludendo il 1969 e, in particolare, il dicembre 1969, con cui iniziò quel fenomeno che si è andato affermando con la definizione di stragismo. La radicalizzazione del conflitto sociale, che vide un'escalation della violenza a partire dalla “perdita dell'innocenza” della strage di Piazza Fontana, segna una linea di separazione tra i due periodi, rendendo così peculiare ognuno. In questo senso, dunque, i Sessanta si caratterizzano come "decennio breve", terminando anticipatamente la propria carica innovatrice. Tuttavia è sempre limitante categorizzare in questo modo, infatti sarebbe fin troppo superficiale ridurre gli anni Settanta a mera lotta armata e stragi, lasciandoli quindi esclusi dalle conseguenze del "'68" che, viceversa, potrebbe essere a sua volta interpretato come "lungo" se consideriamo, ad esempio, le avanguardie artistiche come il teatro politico di Dario Fo, o il cinema che in quegli anni, ad esempio con Elio Petri o Mario Monicelli, avrà modo di sviluppare pregevolmente la propria creatività. In riferimento a questo si veda A. Giannuli, Bombe a inchiostro, Milano, RCS Libri, 2008, p.439 ss.

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saranno caratterizzati non tanto dalla conflittualità dei gruppi della sinistra extraparlamentare che si vanno poi a scontrare con le resistenze dei neofascisti, quanto piuttosto dal carattere generazionale delle rivolte. Perciò un dato essenziale di quegli anni è la convergenza nelle medesime lotte di studenti e operai. Guardando al quadro sociale del Sessantotto, infatti, emerge la centralità del fattore generazionale, di una generazione che – come osserva lo storico Guido Crainz – «si era trovata a vivere fra la dissoluzione di un'Italia arcaica e il discutibile profilarsi di un'Italia moderna»11. A muovere la protesta era proprio l'avvento di un'istruzione di massa, laddove l'Istituzione non era in grado di reggere l'urto. I dati sono molto significativi. Scrive Giachetti, in merito alla popolazione universitaria, che rispetto al 1960 aumentava «nel 1966 del 72%, nel 1967 del 93% , nel 1968 del 117%»12. Si tratta di un aumento significativo che porta con se gravose complicazioni. La prima, e più importante, riguarda la provenienza sociale degli studenti. Se prima la popolazione studentesca era principalmente formata da giovani di una classe sociale medio-alta, è ora impossibile evitare che a fare ingresso nelle università siano figli di una classe medio-bassa, se non di veri e propri operai. Le università infatti saranno l'epicentro, quasi il luogo simbolico del Sessantotto, in cui la rivolta dei giovani avrà luogo. Non più disposti ad accettare un sapere calato dall'alto, quasi estraneo a quello che sta accadendo nella società italiana, gli studenti si attiveranno con contro-corsi e critiche radicali alla metodologia imposta. Guido Viale denunciava nel febbraio 1968 l'autoritarismo, le logiche di mercato, la cultura verticistica e la repressione poliziesca concludendo il suo articolo con parole molto dure nei confronti dei rapporti tra società e istruzione: gli studenti hanno capito che professori e poliziotti sono persone cui lo stato e la società hanno delegato un compito unico: reprimere le agitazioni, opprimere gli studenti, spezzare le loro istanze politiche, con la violenza e le 11 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 240. 12 D. Giachetti, Oltre il sessantotto. Primo, durante e dopo il movimento , Pisa, BFS, 1997, p. 41.

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denunce alla magistratura in caso di agitazione, come con la didattica autoritaria in caso di situazione “normale”13.

Infatti mentre a Milano, Roma, Torino e in molte altre città imperversavano le proteste, le occupazioni, le manifestazioni etc. la risposta delle Istituzioni sembrava sempre la medesima: le proteste venivano gestite come problema di ordine pubblico14. Così il primo luglio 1966 il ministro dell'Interno Emilio Taviani, invia una circolare ai prefetti delle città universitarie in cui modifica un elemento essenziale dei rapporti tra protesta, scuola e polizia. Se fino ad allora le forze dell'ordine per entrare nell'università dovevano attendere la richiesta del rettore, da quel momento in poi avranno il diritto di intervenire immediatamente: «in questo modo modeste agitazioni diventavano rapidamente mobilitazioni ampie»15. Anche sul versante opposto, quello delle fabbriche la tensione andrà in crescendo. Innanzitutto anche qui emerge chiaramente un dato quantitativo generazionale: Gli operai della Fiat, ad esempio, giunti sino alle 102 000 unità del 1963 e diminuiti di alcune migliaia nel biennio successivo, aumentano di nuovo con vigore fino ai 139 000 dell'«autunno caldo»: con l'ingresso di 12 000 giovani nel 1968, di 14 000 nel 196916.

Nel mondo dei lavoratori si aggiunge poi il problema di una rappresentatività sindacale incapace di adeguarsi allo “spirito dei tempi”. Infatti, come scrive Silvio Lanaro: Gioca il suo ruolo, e non infimo, anche l'insofferenza di chi scopre con 13 G. Viale, Il68. Tra rivoluzione e restaurazione , Rimini, NdA Press, 2008, p. 294 (Il saggio fu originariamente pubblicato in «Quaderni Piacentini», n. 33, febbraio 1968). 14 Cfr., D. Della Porta – R. Herbert, Polizia e protesta, Bologna, Il Mulino, 2003. 15 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p.219. 16 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 322.

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sorpresa di dover combattere su due fronti: non solo con gli imprenditori […] ma anche con le stesse associazioni sindacali, che non si pongono tempestivamente al passo con i tempi e continuano a fungere da «cinghie di trasmissione» della volontà dei partiti17

E, come scrive anche Nicola Tranfaglia, i partiti e i sindacati, non seppero egualmente partire da quella crisi per modificare in maniera innovativa i propri meccanismi di aggregazione, di funzionamento, di rapporto con la società, di selezione della propria classe dirigente18

Questi saranno alcuni degli elementi che faranno scoppiare violenti scontri tra polizia e manifestanti durante le manifestazioni e gli scioperi. Categoria colpita da una forte crisi e, appunto, difficilmente compresa dal mondo istituzionale, l'area dei lavoratori salariati riverserà la propria rabbia sulle strade, luogo in cui la polizia avrà modo di mostrare la scarsa capacità di gestione dell'ordine pubblico. Caso emblematico la vicenda di Battipaglia, nelle cui strade, nell'aprile del 1969, avranno luogo vere e proprie rivolte a suon di pallottole, con la morte di due persone e con centinaia di feriti. La società sta cambiando in fretta e i primi ad accorgersene sono studenti e operai che, non trovando Istituzioni in grado di capire la portata degli eventi, si trovano a dover combattere una lotta solitaria se non proprio osteggiata, come vedremo più avanti con la strategia della tensione. È in questo insieme di processi innovativi che nasce l'impulso di dar vita a una nuova cultura, non rinchiusa negli schemi preconfezionati di quella distribuzione del sapere sentita così lontana dai giovani, che la considerano autoritaria e verticistica 19. È dunque questo il contesto

17 S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 2010, p. 298. 18 N. Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile nella crisi repubblicana , "Studi Storici", XLII (2001), pp. 827-835. 19 G.Viale, Il68, cit., pp.32 ss.

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in cui si sviluppa, già dai primi Sessanta e poi declinata in ogni contesto nazionale20, la cosiddetta Nuova Sinistra, un fenomeno che non interessa solo l'Italia. A dimostrare l'internazionalizzazione di questo ribollire culturale è la famosa rivista New Left Review, nata in Inghilterra nel 1960. New Left, appunto, ovvero la necessità di rifondare la sinistra, in una opposizione che non sia né accettazione dell'ideologia liberale e liberista, né della politica partitica, in particolare

di

quella

comunista,

spesso

vicina

all'Urss,

e

di

quella

socialdemocratica. La Nuova Sinistra è il tentativo di capire il divenire che sta mutando radicalmente il presente. In Italia saranno numerose le riviste in cui decine e decine di giovani universitari e non si accingeranno a cercare di sviluppare analisi critiche del reale prendendo a piene mani dalla teoria marxista e, spesso, cercando di rileggerla. Molti di quelli che sono oggi noti professori universitari, storici, filosofi etc., furono all'epoca gli autori di articoli di numerose delle riviste di questa nuova cultura. In questo contesto fu di particolare importanza l'operaismo, (e, nel variegato mondo della sinistra extraparlamentare italiana, molti di coloro che seguirono quella corrente, sono oggi i protagonisti delle protesta e dell'opposizione di movimento) cioè quella corrente di pensiero marxista e non autoritaria sviluppata da Antonio (Tony) Negri (che sarà alla fine degli anni Settanta implicato nel cosiddetto processo “7 aprile”), Renato Panzieri e Mario Tronti. Questi, insieme ad altri studiosi, fondarono nel 1963 la rivista Quaderni Rossi in cui iniziarono a sviluppare le loro teorie 21.

3. Conflitto urbano a Verona Verona come paradigma del “modello Veneto”, è caratterizzata da una società a concentrazione cattolica, con un'economia di piccole e medie imprese 22 e una 20 M. Tolomelli, Il sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008, pp. 28 ss. 21 M. Tronti, Noi operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009. 22 "[...]non possiamo non notare come su 1.133 imprese operanti nel settore industriale, solo 14 impieghino fra i 251 e i 500 addetti; e, ancora, che solo una azienda (le Off. Grafiche

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politica conservatrice, in difesa dell'ordine tradizionale 23. Una regione, il Veneto, in cui «la rilevanza del fenomeno [il conflitto urbano] è poca cosa rispetto alle grandi aree metropolitane»24 e dove, come specifica Emilio Franzina, seppur l'attenzione delle proteste non ignori l'importanza della fabbrica, il

loro

impegno

[delle

sinistre],

nell'ansia

di

operare

saldature

nazionalpopolari con i ceti emarginati dell'agricoltura e nella rincorsa intermittente dei lavoratori “cattolici”, finisce per disperdersi sotto l'urto decisivo delle controparti che prescelgono invece, quale terreno d'attacco, proprio quello dischiuso dai nuovi processi d'industrializzazione ormai in corso25

Tuttavia l'organizzazione di un conflitto urbano non è assente. Le collaborazioni tra studenti e operai, che nel quadro nazionale sono tanto frequenti, trovano anche a Verona spazio di azione politica, mettendo in evidenza i diversi tentativi di far convergere le due istanze. Ciononostante le due aree di azione hanno portato avanti rivendicazioni e lotte in autonomia. Per quanto concerne gli studenti risulta importante l'autunno caldo veronese nel novembre 1969, che li ha visti protagonisti, anche sulle cronache locali, di diverse occupazioni. Sul fronte operaio risulta interessante il caso della Riello, un'azienda di Legnago, comune della bassa veronese. Un caso seguito con numerosi articoli da «L'Arena», nella sezione dedicata alla “Cronaca di Legnago”. Vale la pena soffermarsi su questi mondadori) per numero di addetti, per composizione organica del capitale, per tecniche produttive, possa essere considerata di dimensioni realmente nazionali. Le restanti imprese sono inferiori ai 250 addetti e ben 664 di esse impiegano un numero di addetti inferiore a 25". Partito Comunista Italiano Federazione di Verona, I comunisti veronesi alla testa delle lotte. Documento del comitato federale in preparazione del XIV congresso provinciale in Istituto Veronese per la Storia della Resistenza e dell'Età contemporanea, Fondo “Partito comunista italiano – Pci” (da qui in avanti “IVrR, Fondo Pci”), “Congressi”, B. 15, fasc. 116, p.8. 23 P. Messina, Oltre il modello veneto. Crisi e trasformazione di un modo di regolazione dello sviluppo locale , "Venetica", terza serie 16, XXI (2007), pp. 113-172. 24 G. Moretti – E. R. Trevisol – G. Vesco, Lotte nel territorio e aree periferiche: il caso Veneto , HERODOTE/Italia, n. 2/3 (1980), p.66. 25 E. Franzina, Il "nuovo Veneto" e le sinistre dalla liberazione agli anni 70 (1945-1973 ) in Il movimento sindacale a Verona, a cura di Maurizio Zangarini, Verona, Cierre Edizioni, 1997, pp. 162-163.

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aspetti del conflitto su cui si appuntò l'attenzione del quotidiano veronese.

Operai e studenti uniti nella lotta Lo slogan Operai-studenti uniti nella lotta avrà ampia diffusione e, non a caso, troverà terreno fertile anche a Verona. Infatti in previsione di uno sciopero generale cittadino il 7 Novembre 1969, ci sarà un esplicito invito tramite una «lettera aperta di operai veronesi agli studenti» 26 a partecipare allo sciopero. La lettera si apre emblematicamente con un «amici studenti», invitandoli a prendere visione delle linee di fondo che uniscono le due categorie: casa, carovita, tasse, salute ma anche la questione della scuola. Scrivono infatti : «Noi siamo coscienti che la riforma della scuola è un tema che interessa non solo voi studenti, ma tutti i lavoratori». Gli studenti non si fanno attendere e, dopo la manifestazione, arriverà la risposta pubblica della Federazione Giovani Comunisti Italiani, che metterà in evidenza l'importanza dell'evento affermando che «lo sciopero unitario è risultata la forma più forte e più efficace per saldare i movimenti operaio e studentesco e dare incisività alle richieste e alla iniziativa degli studenti»27. «L'Arena» in merito scriverà un articolo di cronaca redazionale, piuttosto neutro dal punto di vista politico, ma che, come vedremo anche negli anni successivi, marcherà il problema dell'ordine pubblico e del disagio della popolazione. Lo stesso giorno dello sciopero si legge infatti sulle pagine del quotidiano veronese: Lo sciopero, che viene ad infliggere un nuovo duro colpo alle attività produttive già provate dalle vertenze in atto per il rinnovo dei contratti di lavoro, interesserà l'industria, il commercio e parte del settore del pubblico

26 Firmata da «Gruppi operai delle Officine Adige – Abital – Tiberghien – Galtarossa – Zona del marmo – Apprendisti del marsmo di St. Ambrogio – Apprendisti del legno di Castagnaro» in IVrR Fondo Pci, “Serie volantini”, unità 2 «Propaganda volantini 1970». 27 Ibidem. Stampata l'11 Novembre 1969 e firmata appunto «FGCI – Commissione studenti e operai».

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impiego28

Quindi, due giorni dopo, pur sottolineando la riuscita pacifica della manifestazione, indicando come: La chiusura dei negozi, specialmente degli alimentaristi, e degli esercizi pubblici e soprattutto la sospensione dei trasporti pubblici durante molte ore della giornata hanno tuttavia causato non lieve disagio nella popolazione.29

Una cronaca che sembra avere comunanze nazionali. Come scrive Guido Crainz, «nei principali quotidiani [...] da “La Stampa” al “Corriere della Sera”, le questioni tendono a trasformarsi in problema di ordine pubblico» 30. È evidente, infatti, la sottolineatura polemica e scontrosa nel voler mettere in risalto i problemi economici causati da uno sciopero, piuttosto che il disagio del cittadini in riferimento ai trasporti pubblici. Senza d'altra parte, ad esempio, mostrare le relative difficoltà di ampi settori della società nazionale rispetto alle politiche governative. Il quadro nazionale si manifesta quindi anche a Verona. Gli esempi, oltre a quello citato, sono diversi. Già il 4 Novembre 1969, un volantino che denunciava le politiche “padronali” era emblematicamente firmato «Collettivo OperaiStudenti San Michele Extra», quartiere della settima circoscrizione, zona est di Verona. Ancora, un volantino del 29 Ottobre 1969, firmato dalla Commissione studenti della FGCI, rivendicava l'unità della lotta operaia con quella del movimento studentesco perché soprattutto in questo momento, in cui le lotte operaie sono cosi forti e generalizzate, è necessario ALLARGARE IL FRONTE DI LOTTA CONTRO

28 Oggi sciopero generale in città e provincia , «L'Arena», 7 novembre 1969. 29 Senza gravi incidente lo sciopero provinciale , «L'Arena», 9 novembre 1969. 30 G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 264.

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LE FORZE CONSERVATRICI E IL BLOCCO DI POTERE DOMINANTE31.

Occupazioni La sera del 5 Novembre 1969 la facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Verona, sede staccata dell'Università degli studi di Padova, è occupata da un gruppo di studenti le cui rivendicazioni vengono riportate dal giornale locale il giorno successivo: Didattica: sessione continua, con pubblicazione all'inizio dell'anno delle date mensili di appello per ciascuna materia; differenziazione dei corsi di studio; abolizione degli “sbarramenti” (cioè possibilità di sostenere gli esami senza un prestabilito ordine diciamo cosi cronologico, come accade adesso, ad esempio, per l'esame di statistica che deve essere sostenuto solo dopo quello di matematica; abolizione dei voti negativi sui libretti; apertura serale della biblioteca. Assistenza: istituzione di una mensa gestita direttamente dall'Opera universitaria; “via” quanto prima ai lavori per la realizzazione della “casa dello studente”; ripresa delle rivendicazioni per ottenere l'intera area della caserma “Passalacqua”; estensione effettiva anche a Verona dell'assistenza mutualistica affidata all'Opera universitaria. Impianti sportivi: realizzazione di impianti sportivi, totalmente mancanti 32.

Come si può leggere, le richieste avanzate dagli studenti non sono particolarmente eversive e rivoluzionarie, e infatti, come ci fa sapere il giornale, erano state precedentemente approvate dal consiglio di facoltà. Tuttavia non erano state poi messe in pratica, portando dunque all'occupazione. L'«atto di forza», come lo definisce il quotidiano, riesce però a smuovere le acque. In pochi giorni si

31 "La lotta nelle scuole" in IVrR Fondo Pci, “Serie volantini”, unità 2 «Propaganda volantini 1970». 32 "Occupata" da ieri l'università , «L'Arena», 6 novembre 1969.

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assisterà infatti alla «disoccupazione». Finita l'occupazione dell'università, sarà occupato l'istituto tecnico Ferraris, per ragioni indicate nel comunicato citato dal giornale veronese: «1) dequalificazione del diploma; 2) stasi del sistema scolastico; 3) mancanza di insegnanti di ruolo: 4) aggiornamento dei programmi e dei libri di testo» 33. Occupato per tre giorni, l'istituto sarà presto «disoccupato» per «dar modo ai professori di tenere il loro consiglio e di rispondere cosi alle proposte»34. La narrazione del giornale veronese risulta in questo contesto propositiva. Gli articoli difficilmente si pongono su un piano ostile nei confronti degli studenti, accogliendone piuttosto le istanze di rinnovamento e marcando la differenza veronese rispetto al più ampio quadro nazionale. Infatti in merito all'occupazione dell'istituto Ferraris si può leggere: Con l'occupazione, gli studenti del “Ferraris” hanno voluto solo metterli in rilievo [i problemi della scuola], creando nel contempo l'occasione per un incontro “straordinario”, indispensabile per una chiarificazione all'inizio dell'anno scolastico35.

L'occupazione viene cosi definita un atto “indispensabile” e, come viene scritto poche righe sopra, descrivendo nel dettaglio le ragioni dell'occupazione, il sistema scolastico viene definito in «stasi» a causa di «una scuola di tipo tecnico, che dovrebbe procedere di pari passo con l'industria, [che] in realtà rimane sempre indietro».

È chiaro dunque che, a differenza di quanto emerso nella breve

ricostruzione

degli

scioperi

cittadini,

l'elemento

istruzione

è

sentito

profondamente dal giornale, in quanto la classe dirigente cittadina sente

33 Aperta dopo nove giorni l'università Occupato l'istituto tecnico «Ferraris» , «L'Arena», 15 Novembre 1969. 34 Riaperto il "Ferraris" da oggi lezioni normali , «L'Arena», 18 Novembre 1969. 35 Aperta dopo nove giorni l'università Occupato l'istituto tecnico «Ferraris» , «L'Arena», 15 Novembre 1969.

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evidentemente il peso della “stasi della scuola” ma, d'altra parte, non sente le difficoltà di una parte della cittadinanza, gli operai.

«Il problema Riello» Sul fronte del movimento operaio, nella Verona contestataria a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, risulta di particolare rilevanza la serie di scioperi e di articoli dedicati dal giornale locale sulla «questione Riello». Riguarda la decisione dell'azienda sulla diminuzione delle ore o il licenziamento di qualche centinaio di operai, giustificata dalla diminuzione della produzione a causa della crisi economica. Il problema si apre nella prima settimana del dicembre 1970 quando viene convocato un consiglio comunale il 5 dicembre, il cui ordine del giorno è dedicato interamente alla questione. Tra i diversi interventi viene infine approvato l'ordine del giorno del senatore democristiano Dino Limoni, con cui le istituzioni si impegnano a prendere contatto con la ditta Riello, con l'unione industriali, con le organizzazioni sindacali, perché siano comunque evitati sia i licenziamenti che la riduzione di orario di lavoro36

Nonostante questo la reazione del PCI sezione Legnago e degli operai non tarda. Nei giorni successivi infatti gli operai scioperarono diminuendo la produzione e ricevendo l'appoggio di un comune limitrofo, mentre nello stesso giorno in cui «L'Arena» riferendosi a questo episodio lo definiva «selvaggio» 37, il partito comunista fece circolare un volantino in cui si denunciava «la logica dei padroni», ovvero «quando va bene i profitti a loro, quando va male i sacrifici agli operai»38.

Nel frattempo però le trattative andavano avanti, passando dalla

36 Il consiglio comunale ha discusso la situazione in seno alla Riello , «L'Arena», 8 Dicembre 1970. 37 Nuove iniziative per il problema Riello , «L'Arena», 10 Dicembre 1969. 38 Questa la gratifica di Riello in IVrR Fondo Pci, “Serie volantini”, unità 2 «Propaganda volantini 1970».

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prefettura a Roma e in un nuovo consiglio comunale, e sfociando in un dibattito pubblico indetto dai sindacati ma rifiutato dai sindaci di sei comuni perché, secondo loro, l'assemblea pubblica non era «idonea a trattare e risolvere un cosi delicato problema»39. Dopo numerosi incontri e diversi scioperi, la questione verrà risolta a fine gennaio attraverso una convenzione sottoscritta dalle diverse parti in gioco. Secondo «L'Arena»: i 145 operai che saranno sospesi a partire dal primo febbraio per un periodo massimo di nove mesi saranno tutti riassunti. Gli operai godranno dei benefici della cassa integrazione ed in più beneficeranno di una carta indennità della «Cassa Assistenza Aziendale» grazie ad un contributo di 25 milioni concesso dalla ditta40

L'atteggiamento de L'Arena rispetto al «problema Riello» si riduce in questo caso ad una serie di articoli dal linguaggio asettico: commenti ridotti al minimo, medesimo spazio riservato ai commenti dei diversi rappresentanti di partito. Gli unici momenti in cui il giornale si espone sono in riferimento all'agitazione degli operai, ovvero allo sciopero messo in atto già dalla prima settimana di dicembre ed etichettato dal quotidiano come «selvaggio» e che man mano verrà sottolineato fornendo maggiore spazio all'interno dell'articolo. Ad esempio in un articolo dell'8 Gennaio 1971 in cui all'inizio si menzionano immediatamente gli «slogans irriguardosi» denunciati da alcuni cittadini durante uno sciopero improvviso degli operai Riello, mente la parte finale è completamente dedicata alla preoccupazione espressa da diverse famiglie di lavoratori «anche perché circolano voci che se si aggraverà ulteriormente [lo sciopero], non è esclusa una chiusura dello stabilimento a tempo indeterminato»41. Nonostante il fatto che venga segnalata la «forma pacifica» della manifestazione, risultano decisamente squilibrati i rapporti di spazio all'interno dell'articolo che va così ad incidere negativamente 39 Riello – I sindaci di sei Comuni respingono l'invito dei sindacati , «L'Arena», 7 Gennaio 1971. 40 Accordo raggiunto alla Riello nessun operaio sarà licenziato , «L'Arena», 28 Gennaio 1971. 41 Improvviso sciopero alla Riello, «L'Arena», 8 Gennaio 1971.

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sull'immagine dell'operaio. Un articolo successivo del 17 Gennaio dà invece notizia del fallimento delle trattative per risolvere la vertenza in atto, lasciando ampio spazio al comunicato dell'azienda e concludendo affermando che A questo punto visto come le cose stanno mettendosi si impone il dovere della ditta, dei sindacati, delle autorità comunali, provinciali e nazionali e degli stessi dipendenti di riprendere al più presto le trattative per ridare ai legnaghesi la tranquillità del lavoro e la fiducia dell'avvenire42.

Questa chiusura lascia spiazzati, perché viene chiesta una soluzione congiunta per fare in modo che i cittadini legnaghesi possano tornare ad avere la tranquillità del lavoro, ma marcando una differenza tra cittadini legnaghesi e dipendenti, che sono invece parte in causa e sono tra coloro che devono trovare soluzione per portare tranquillità ai cittadini. La narrazione sin qui esposta mostra chiaramente la posizione politica del giornale, legata se vogliamo al quadro di riferimento ideologico dell'enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII, del Partito Popolare di Sturzo e poi della Democrazia Cristiana, ovvero di una condanna della lotta di classe e delle logiche prettamente di mercato, per trovare invece accordi di cooperazione tra i corpi in gioco in modo da favorire, senza conflitti, una più equilibrata pace sociale.

42 Completamente fallite le trattative per risolvere la vertenza alla Riello , «L'Arena», 17 Gennaio 1971.

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LA PISTA ANARCHICA

Per la prima volta, nei media italiani, la «fabbrica di un mostro» - già condannato prima che i giudici s'esprimano sulla sua colpa - fa la sua comparsa nella lotta politica. (Giorgio Boatti1)

1. Primordi di un'accusa

Su Pietro Valpreda, ballerino anarchico, si accaniranno giustizia, media e opinione pubblica in una condanna civile univoca e corale. In un contesto in cui l'imputato è messo al bando con indizi e prove costruite fittiziamente, a partire dalla confessione del tassista Rolandi e dal "cedimento" dell'anarchico Pinelli, suicidatosi, secondo le forze dell'ordine, perché ormai scoperto dallo Stato che egli voleva combattere. L'immagine che appare su tutti i giornali il 17 Dicembre 1969, Valpreda con pugno teso al cielo, serve a identificarlo nell'immediato di una percezione visivo-emotiva, e a inquadrare la faccia del "colpevole", come lo definirà Bruno Vespa in prima serata TV già il 16 Dicembre. I giornali non lesineranno parole nell'indicare in Valpreda l'autore della strage, il "mostro" che, per qualche motivo ancora non chiaro, ha messo in pratica un gesto così tragico2. Con lui verrà criminalizzata un'intera area politica, la sinistra in generale, gli anarchici e la sinistra extraparlamentare in particolare. Il 13 dicembre in un editoriale senza firma, senza aspettare risultanze fattuali probatorie, «L'Arena» indicherà nei «partiti dell'estrema sinistra» e nelle «centrali sindacali, da cui sono germogliati gruppi e movimenti dichiaratamente anarchici e

1 G.Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza perduta , Torino, Giulio Einaudi editore, 2009, p. 117 2 Ibidem, pp. 116-117.

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sovversivi» i responsabili della strage. In questo editoriale emerge l'anima più conservatrice del quotidiano che si scaglia contro i «gruppi di facinorosi» che ostruiscono il traffico, distruggono le proprietà private, usano la violenza contro altri cittadini3. A posteriori, si potrebbe pensare, che sia facile accusare la stampa senza considerare il clima dell'epoca. Lo afferma anche uno storico autorevole, che scrive, criticando alcune posizioni di Adriano Sofri4: Pietro Valpreda, il «mostro» di Piazza Fontana, come fu definito da tanta parte della stampa, ovvero l'altro anarchico innocente arrestato e tenuto tre anni in carcere dopo la morte di Pinelli, aveva esaltato l'uso delle bombe e si era spinto ad annunciare prossimi attentati in un numero unico di un giornalino[...] Pur di fronte a queste parole, che con onestà intellettuale Sofri ricorda, non scatta tuttavia lo sforzo di comprendere quanta diffidenza, quanta ostilità potessero suscitare in chi aveva il compito istituzionale di proteggere il paese5

Angelo Ventrone, da cui provengono queste parole, sembra tuttavia dimenticare diversi aspetti di quei tragici anni, nel voler ricordare e indagare la violenza della sinistra. Ad esempio, come ha sottolineato quasi trent'anni fa Franco Ferrarsi, non è stata ancora messa in risalto l'importanza del convegno organizzato dall'Istituto Luigi Pollio (istituto creato dallo Stato Maggiore della Difesa) nel 1965, in cui fu ipotizzata la strategia della «guerra totale»6. Il convegno fu aperto ad un numero ristretto di magistrati, politici, uomini delle forze armate e uomini del mondo economico. Ma a loro si aggiunsero alcuni esponenti del mondo dell'estrema 3 Basta con la violenza, «L'Arena», 13 dicembre 1969. 4 Ciò che Angelo Ventrone pone sotto critica è il fatto che, secondo lui, Sofri in un suo recente lavoro ritenga legittime solo le ragioni di Pinelli e non quelle della parte opposta. Cfr., A. Sofri, La notte che Pinelli, Palermo, Sellerio editore, 2009. 5 Cfr., A. Ventrone, Vogliamo tutto, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012, pp. XII-XIII. 6 F. Ferraresi, La destra eversiva in Terrorismi in Italia, a cura di Donatella Della Porta, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 235-236.

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destra, in particolare Pino Rauti e Guido Giannettini, insieme ad alcuni studenti universitari, tra cui Stefano delle Chiaie, futuro leader di Avanguardia Nazionale, e Mario Merlino, futuro membro del circolo anarchico 22 Marzo a cui si affiliò dopo l'esperienza neofascista. Come specifica Saverio Ferrari, «furono dunque i vertici militari italiani a trasmettere la cultura della “guerra rivoluzionaria” ai gruppi neofascisti»7. L'incontro fu organizzato per trovare delle risposte adeguate alle nuove forme di conflittualità che si stavano diffondendo nel pieno della guerra fredda. La preoccupazione di fondo era ovviamente indirizzata all'avanzare del “pericolo comunista” a cui bisognava rispondere attraverso la dottrina della “guerra rivoluzionaria”, ovvero la ristrutturazione del conflitto, non più vissuto seguendo le regole della guerra classica, non più “guerra ortodossa”, ma piuttosto tramite l'uso di strategie non convenzionali, tra cui quelle della strage 8. Oggi Aldo Giannuli sembra ridare importanza a questo incontro collegandolo al cosiddetto Noto Servizio, cioè un'organizzazione esterna alle forze armate, ma ad esse direttamente collegata, i cui vertici erano uomini degli ambienti imprenditoriali, i servizi segreti e i carabinieri9. Affianco al convegno tenutosi presso l'istituto Pollio si potrebbe inserire un documento dei servizi segreti del 1963 in cui si legge chiaramente: «Bisogna creare gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possono usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, della intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo»10. Ma, detto questo, Ventrone sembra anche dimenticare gli scritti del neofascista Franco Freda che, come vedremo più avanti, sarà uno dei protagonisti della strage. 7 S. Ferrari, I denti del drago. Storia dell'Internazionale nera tra mito e realtà , Pisa, BFS, 2013, p. 50. 8 F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1995, pp. 136-144. 9 A. Giannuli, Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro , Milano, Tropea editore, 2011, pp. 119-125. 10 Il documento è una relazione che il colonnello Renzo Rocca inviò al generale Giovanni Allavena il 12 settembre 1963. Il documento, reso noto durante il processo per la strage di Piazza della Loggia, è disponibile nel sito dell'Istituto Storico Grossettano della Resistenza e dell'Età contemporanea al seguente url http://www.grossetocontemporanea.it/settembre-1963-cosii-servizi-pianificavano-la-strategia-della-tensione/ (ultima visualizzazione 29/04/2013 )

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In uno dei suoi testi Franco Freda attaccò, tra l'altro, direttamente le indagini del commissario Juliano in merito agli attentati avvenuti a Padova in quegli anni 11, di matrice neofascista. Si aggiunge poi una sopravvalutazione del ruolo di quei gruppi anarchici che, oltre ad essere perennemente seguiti da agenti infiltrati 12, non avevano alle spalle né azioni recenti comparabili a questa, né l'apparato organizzativo necessario per un attentato congiunto di tale portata. Infine, si potrebbero citare le parole di Valpreda in merito all'attribuzione di quegli scritti. Durante il processo a Catanzaro il 28 Marzo 1974, l'anarchico affermerà: L'articolo «Ravachol non è morto» non è stato scritto da me in quanto non è assolutamente scritto secondo il mio modo di scrivere, capitarono tra le mie mani due-tre copie e ne portai una a Roma. Ripeto che l'articolo non è stato fatto da me e quindi se mi si chiede qualcosa in merito al contenuto potrei rispondere soltanto in senso critico13.

Si potrebbero aggiungere altri elementi che quantomeno mettono in dubbio le affermazioni di Ventrone, non ultima una velina del SID del 16 dicembre 1969 14, ma non è questo il luogo in cui fare una critica serrata di quanto scritto. Ciò che

11 A. Beccaria – S. Mammano, Attentato imminente, Viterbo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2009, pp. 130 ss. 12 Nel caso del circolo 22 Marzo di Roma, quello a cui apparteneva Pietro Valpreda, l'agente infiltrato era Salvatore Ippolito che riferì un commento di Merlino che affermava quanto segue in merito alle capacità degli anarchici nell'organizzare e mettere in pratica attentati: "Questa non è un'azione esemplare, sono dei principianti, e per colpa loro ci andiamo in mezzo noi professionisti". Cfr., G. Boatti, Piazza fontana, cit., p. 126. Per le “strategie di infiltrazione” si veda G. Pacini, Il cuore occulto del potere. Storia dell'Ufficio Affari riservati del Viminale (1919-1984), Roma, Nutrimenti, 2010, pp. 125 ss., in particolare per il controllo del Circolo 22 Marzo pp. 182-183. Per una visione più ampia del controllo degli anarchici nell'Italia del Novecento si veda G. Sacchetti, Sovversivi agli atti. Gli anarchici nelle carte del ministero dell'interno, Catania, Edizioni La Fiaccola, 2002. 13 Il verbale dell'interrogatorio mi è stato messo a disposizione da Enrico Di Cola, che qui ringrazio, a nome dell'associazione "Pietro Valpreda – Gli anarchici per la verità sulle stragi". 14 La velina a cui si fa riferimento indica in Mario Merlino l'esecutore materiale della strage su indicazione di Stefano Delle Chiaie che, a sua volta, avrebbe fatto riferimento a Guérin – Serac, direttore dell'agenzia di stampa Aginter Press a Lisbona e indicato come anarchico. L'Aginet Press, tuttavia, fu una finta agenzia di stampa dietro cui si nascose una pericolosa organizzazione neofascista. Vedi F. Ferraresi, Minacce alla democrazia, cit., pp. 216-217 e S. Ferrari, I denti del drago, cit., pp. 77-103.

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importa sottolineare è la complessità del quadro di riferimento. Nel frastagliato contesto della violenza politica di fine anni Sessanta, il quotidiano veronese, e con esso molti altri15, primo fra tutti il «Corriere della sera», non avrà dubbi nell'indicare l'area di riferimento della strage nella pista anarchica, nonostante i diversi punti critici che verranno giustamente messi in evidenza sia dalla componente extraparlamentare, sia dai “giornalisti democratici” 16 che rifiuteranno la tesi proposta dalle questure, contrapponendo invece la tesi di un golpe incombente. Infatti nei mesi precedenti alla strage circolerà nei movimenti extra – istituzionali il timore di un possibile golpe che la strage avrebbe contribuito ad alimentare17 . Anche a Verona alcuni attori politici hanno messo in evidenza, il giorno stesso della strage, la matrice neofascista dell'attentato. Un ciclostilato del 12 dicembre 1969 denunciava la volontà di «creare un clima di paura e di intimidazione violenta nell'opinione pubblica, per giustificare, o peggio preparare, eventuali avventure governative di destra»18. Allo stesso modo, pochi giorni più tardi, degli studenti del liceo Maffei con una lettera indirizzata agli «studenti democratici e progressisti» sottolineavano il tentativo, del cosiddetto “sommerso della Repubblica”, «di imporre svolte autoritarie e repressive»19. La lettura proposta dall'area di sinistra, istituzionale e non, era sostanzialmente corretta nel delineare la cosiddetta strategia della tensione. Tuttavia il giornale veronese, nell'editoriale già citato, metterà sotto attacco queste posizioni, avviando una vera e propria 15 L'atteggiamento dei giornali in riferimento alla strage di Piazza Fontana è stato più volte messo in evidenza, nonostante non vi sia una ricerca organica che confronti sistematicamente le diverse posizioni, analizzandole nelle diverse sfaccettature. Cfr. G. Boatti, Piazza Fontana, cit.; A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit. 16 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit.; M. Nozza, Il pistarolo. Da Piazza Fontana, trent'anni di storia raccontati da un grande cronista , Milano, il Saggiatore, 2011; P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra 1943-1972, Roma – Bari, Editori Laterza, 1973, pp. 525-553. 17 Si veda l'intervista ad Enrico Di Cola, in appendice. 18 Basta con la criminale violenza fascista, IvrR, Fondo Pci, “serie volantini”, unità 2 «propaganda volantini 1970». 19 La lettera, senza titolo, fu diffusa il 17 dicembre 1969 e firmata da: Stefano Dindo, Paolo De Paoli, Giuliano Castellini, Vittorio Basevi, Alberto Magagnato, Marta Picotti, Lorenzo Picotti, Sandro Ricci, Gerardo Gerard. IvrR, Fondo Pci, “serie volantini”, unità 2 «propaganda volantini 1970».

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inversione dei fatti. Il quotidiano mise sotto accusa tali posizioni denunciandone la volontà di «additare un colpevole, prima ancora che affiori il minimo indizio sugli autori dell'attentato». Ma questa critica venne posta indicando a propria volta un colpevole senza avere indizi. Come già accennato, «L'Arena» nel medesimo editoriale indicò i «maggiori responsabili» dell'imbarbarimento della lotta politica italiana – e quindi del terreno fertile da cui erano nati gli attentati – nei «partiti dell'estrema sinistra» e nelle «centrali sindacali, da cui sono germogliati gruppi e movimenti dichiaratamente anarchici e sovversivi». L'articolo proseguiva poi incriminando maggiormente i movimenti sindacali. Secondo il giornale, anche laddove si scoprissero gli esecutori della strage, i pericoli per il Paese sarebbero stati comunque imminenti «se il governo, il parlamento, i partiti, le organizzazioni sindacali non si impegneranno a riportare il Paese sulla strada della legalità». In particolare a causa dei «gruppi di facinorosi»20. Il discorso continuava poi nelle «cronache veronesi» in cui compariva un articolo di sintesi che riportava l'indignazione dei partiti cittadini. L'articolo apriva premunendosi di avvertire il pubblico che, a causa di uno Stato incapace di imporsi sui moti di protesta, non si riusciva a prevenire il «crimine anarchico-politico» 21. Non sembra una terminologia usata casualmente e, soprattutto, viene ribadita la lettura che il giornale propone degli eventi e quindi della narrazione che impose nel dibattito pubblico. La tesi è chiara e sarà ribadita più volte: la strage è solo la goccia finale di una violenza politica portata avanti con attentati e scioperi da parte delle centrali sindacali e delle sinistre. Gli attentati quindi «non sono certo giunti inaspettati», ci fa sapere il giornale che, citando un intervento del ministro dell'interno Franco Restivo di pochi giorni precedente, ricordava come durante l'anno si fossero verificati cinquantuno attentati «di cui 28 “sicuramente attribuiti alla sinistra” e 23 “provenienti da destra”» 22. Si noti la diversa impostazione, che è la medesima che riscontriamo nelle indagini portate avanti dalla procura di

20 Basta con la violenza, «L'Arena», 13 dicembre 1969. 21 Indignazione della città per l'eccidio di Milano , «L'Arena», 13 dicembre 1969. 22 Soluzione improrogabile, «L'Arena», 14 dicembre 1969.

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Milano e di Roma. Da una parte c'è la volontà di specificare la presenza di “opposti estremisti”23, di due schieramenti mai analizzati nelle proprie linee di fondo ma che vengono in continuazione messi in gioco sminuendone le diversità e le problematicità, dall'altra però la sottolineatura polemica nell'indicare “sicuramente di sinistra” ventotto attentati e “provenienti da destra” gli altri, lasciando nel dubbio il lettore che sicuramente si interrogherà sulla reale “provenienza” di questi ultimi. Le posizioni del giornale, come detto, rispecchiano quelle delle procure che stanno indagando la matrice degli attentati. Le piste su cui si indaga, dicono, sono molteplici ma «in realtà i sospetti vennero ostentatamente indirizzati verso la sinistra»24. A confermarlo è anche un documento del 12 dicembre, firmato dal prefetto Libero Mazza e inviato al presidente del consiglio, secondo cui «ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi»25.

2. Il «caso Pinelli» La vicenda Saranno le ostinate indagini rivolte alla sinistra che porteranno, nei giorni

23 Il concetto di "opposti estremismi" venne messo in risalto da un intervento del ministro Restivo che affermò:«Certamente sussiste una formula di violenza di marca fascista. Una violenza fine a se stessa, che esprime disprezzo verso la società e le istituzioni democratiche e nella quale l'aggressione vuole essere un modo di affermare una concezione politica legata alla forza brutale. Ma esiste una violenza egualmente brutale [...] che si dichiara ispirata a variazioni molteplici del marxismo-leninismo.[...] In questo senso possiamo e dobbiamo parlare di una minaccia degli estremismi all'ordine civile del paese». Cfr., L'«opposto estremismo» documentato da Restivo, «L'Arena», 26 febbraio 1971. Per una visione critica di tale interpretazione si veda il contributo di Guido Panvini in M. Lazar – M. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano , Milano, RCS Libri, 2010, pp. 56-57; si veda anche G. Panvini, Ordine nero guerriglia rossa, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2009, pp. 192 ss. 24 F. Feraresi, Minacce alla democrazia, cit., p. 175. 25 Il documento è disponibile al seguente url http://stragedistato.files.wordpress.com/2013/05/12dicembre-1969-ore-22-prefetto-di-milano-mazza-a-presidente-del-consiglio-su-indagini-versoambienti-anarchici.pdf (ultima visualizzazione 2/05/2013 ).

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immediatamente successivi alla strage, alla diciassettesima vittima 26. Giuseppe Pinelli era un ferroviere anarchico che viveva a Milano con la moglie Licia Rognini e le due figlie. Era tra gli organizzatori del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa e nel giorno dell'attentato verrà invitato dal commissario Luigi Calabresi in questura per delle domande. Lo spirito del Pinelli era tra i più pacifici, tanto da non dover esser preso di peso ma, appunto, invitato in questura, luogo in cui arrivò con il suo ciclomotore al seguito delle volanti della polizia. Il caso Pinelli è tra i più emblematici di come le indagini furono portate avanti e di come gli agenti delle forze dell'ordine fossero disposti a mentire e creare prove fittizie. L'anarchico verrà trattenuto in questura fino alla mezzanotte del 15 dicembre 1969, dopo di che precipiterà fuori dalla finestra del quarto piano della questura di Milano. Prima della tragica morte, Pinelli fu sottoposto a un fermo abusivo perché mantenuto oltre i limiti previsti dalla legge (ovvero quarantotto ore) e senza gravi indizi a suo carico; inoltre fu sottoposto a un interrogatorio portato avanti con forme «penalisticamente rilevanti» 27. Detto ciò, quello che poi risultò ancora più grave, in particolare nei confronti della famiglia dell'anarchico, furono le contraddizioni e le false imputazioni di cui fu accusato. Il dibattito successivo alla morte si impernierà infatti tra le posizioni, spesso contraddittorie, della questura che parlerà di suicidio e, viceversa, le posizioni della sinistra extraparlamentare e di alcuni coraggiosi giornalisti, che parleranno di omicidio. Il socialista Riccardo Lombardi scriverà, in prefazione a un libro di Marco Sassano significativamente intitolato «Pinelli: un suicidio di Stato», che Pinelli è stato ucciso da una menzogna le cui conseguenze non potevano essere escluse dal calcolo di coloro che sapevano che quella menzogna valeva in quanto fosse creduta, ma che se creduta, avrebbe potuto spingere veramente 26 Le vittime totali della strage, escludendo il Pinelli, furono 17. Tuttavia Vittorio Mocchi, l'ultima vittima, morirà diversi anni dopo a causa di una polmonite a cui non riuscì a sopravvivere a causa delle gravi ferite riportate nella strage. Cfr., Civile benemerenza a vittima della strage , «Corriere della sera», 14 giugno 2012. 27 A. Sofri (a cura di), Il malore attivo dell'anarchico Pinelli , Palermo, Sellerio editore, 1996, p. 24.

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un uomo alla morte. Se dunque è vero che Pinelli si è ucciso, sarebbe anche vero che il motivo del suicidio dichiarato dalla questura […] proverebbe nello stesso tempo la responsabilità di chi al suicidio freddamente spinse con un calcolo la cui ambizione fu poi ridimensionata quando i suoi autori dovettero rinnegare la loro prima e «perfetta» versione28.

Le prime dichiarazioni della questura additeranno Pinelli come un sospetto con a carico pesanti imputazioni. Secondo gli agenti Giuseppe Pinelli si sarebbe gettato dalla finestra quando si vide messo all'angolo dallo Stato che voleva combattere ma che ora, a suo malincuore, lo aveva scoperto. Tuttavia le accuse erano palesemente false. Pinelli era stato accusato di essere tra gli attentatori di Piazza Fontana e per farlo testimoniare gli agenti decisero di costruire una falsa testimonianza di Pietro Valpreda che indicava nel ferroviere uno dei complici. In realtà, era tutto costruito artificiosamente. Ma non bastò la morte dell'anarchico a mettere a tacere questa costruzione dei fatti. Una delle accuse che tenne banco in merito alle affermazioni definite contraddittorie di Pinelli riguarda il suo alibi. Pinelli affermò di essere rimasto al bar a giocare a carte il pomeriggio del 12 dicembre. A suo supporto vi furono due testimoni che ne confermarono la versione. Tuttavia quest'ultimi furono considerati «debitamente “sensibilizzati” da parte interessata», mentre fu dato credito alla testimonianza del gestore del locale che affermava che il Pinelli non si fosse fermato molto 29. Marco Nozza dichiarò anche di aver trovato sei testimoni che confermavano l'alibi del Pinelli, ma a questi non fu dato voce30. Negli anni verrà definitivamente accertata l'innocenza dell'anarchico, tuttavia 28 M. Sassano, Pinelli: un suicidio di stato, Marsilio, Padova, 1971, p. 4. 29 Questo è quanto ricostruisce il questore Marcello Guida in una raccomandata del 17 gennaio 1970 indirizzata al Ministero dell'Interno, alla direzione generale di P.S. e alla divisione affari riservati. Il documento è disponibile online all'indirizzo http://stragedistato.files.wordpress.com/2013/04/17-gennaio-1970-questura-milano-su-sospettianarchico-pino-pinelli-questore-guida.pdf (ultima visualizzazione 23/04/2013). Ma la medesima versione è apparsa su «L'Arena» il 17 dicembre 1969, a testimonianza di come questa tesi si sia protratta per giorni e poi per mesi. Cfr., Giuseppe Pinelli decise di togliersi la vita dopo aver sentito che Valpreda aveva parlato , «L'Arena», 17 dicembre 1969. 30 M. Nozza, Il pistarolo, cit., p.37.

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non sarà fatta altrettanta chiarezza in merito alla dinamica della sua morte. I punti scuri di questa vicenda sono diversi ma in sede giudiziaria non si è riusciti ad arrivare a una sentenza che potesse anche solo parzialmente fare giustizia. Infatti il giudice Gherardo D'Ambrosio chiuderà le indagini ipotizzando un “malore attivo”, lasciando così spazio a numerose discussioni 31, che nemmeno in sede storica si è riusciti ancora a chiarire. Una delle prime zone d'ombra, che emergerà subito dopo la morte del Pinelli, riguarda l'orario del suo volo dal quarto piano della questura di Milano. Secondo il giornalista che per primo soccorse il moribondo, la caduta è di qualche minuto successiva alla mezzanotte, però la chiamata all'ambulanza è registrata a mezzanotte e cinquantotto secondi. Altro punto non chiaro riguarda la dinamica interna all'ufficio della questura, cioè quale siano stati i movimenti che hanno portato alla caduta dell'anarchico. A rendere questo punto particolarmente non chiaro sono le diverse dichiarazioni degli agenti presenti nella stanza. Sicuramente la testimonianza più contraddittoria è quella del maresciallo Panessa, che sosteneva di aver afferrato Pinelli per una scarpa, che gli sarebbe poi rimasta in mano. Tuttavia i testi affermarono che al moribondo quest'ultima non mancasse. Ma non da meno sono le contraddizioni in merito all'argomento più spinoso di tutta la vicenda: chi c'era nella stanza? Questo fu il leitmotiv della campagna accusatoria di «Lotta Continua» secondo cui nella stanza era presente anche Luigi Calabresi, attaccato pubblicamente e messo alla gogna come responsabile della morte dell'anarchico. Tutt'oggi non è ancora chiaro chi fu presente realmente, anche se è emerso negli ultimi anni che in quel piano della questura vi furono

31 John Foot ricostruisce l'acceso dibattito sul caso Pinelli e le diverse diatribe sulle lapidi nel comune di Milano, evidenziando la difficile costruzione di una memoria condivisa che fino ad oggi non ha saputo formarsi, anche perché, come evidenziato da Marc Lazar, sembra latente nella storia dell'Italia Repubblicana una tensione allo scontro dicotomizzato che si trasforma spesso in una guerra civile (che tuttavia Lazar interpreta in modo estensivo e, in riferimento agli di piombo, afferma che non si è mai giunti a questa livello, nonostante l'insistenza comune a parlare di «guerra civile a bassa intensità»). Cfr., J. Foot, Fratture d'Italia, Milano, RCS Libri, 2009, pp. 404-422; M. Lazar, L'Italia sul filo del rasoio, Milano, RCS Libri, 2009. In riferimento all'interpretazione di Lazar, si veda anche M. Lazar – M. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo, cit., pp. 157-173.

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anche persone dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, lasciando quindi

presumere

che

qualcuno

di

loro

potesse

essere

nella

stanza

dell'interrogatorio32. La campagna mediatica di Lotta Continua era portata avanti «con il chiaro intento di farsi querelare»33. L'intento riuscì e il 15 aprile 1970 il commissario Luigi Calabresi querelò Pio Baldelli, direttore del periodico «Lotta Continua». Ciò servì per portare in sede processuale il caso Pinelli. Infatti la vedova dell'anarchico, dopo aver dovuto assistere all'assoluzione del questore Marcello Guida, da lei querelato per diffamazione, ha potuto sperare in questo processo per far emergere qualche dato di verità sulla morte del marito. Licia Rognini si troverà tuttavia sconsolata ad affermare: «io ci credevo che si potesse tirar fuori la verità (...)» ma gli agenti «non sono stati credibili. Ripetevano una versione che dava l'idea di essere stata preparata e poi cambiata più volte»34.

La ricostruzione giornalistica «L'Arena» fin dal primo giorno non tentò di esaminare criticamente rispetto alle posizioni della questura, nonostante alcuni dubbi fossero stati mossi da giornalisti anche di fama, in particolare Camilla Cederna, scrittrice de “L'Espresso”, che dalla cronaca rosa passò a occuparsi della strage 35. Così un articolo del 16 dicembre che titola «anarchico si uccide gettandosi dalla finestra durante un interrogatorio in

questura a Milano», si limita a riferire la cronaca degli eventi (evidentemente considerati certi) e a citare le parole del questore Guida. L'anarchico «ha aperto una finestra e si è lanciato». Pinelli, come sottolineato da Guida, «era fortemente 32 Un libro di recente pubblicazione cerca di mettere ordine affidandosi ai dati processuali e mettendo in evidenza la presenza e le dichiarazioni di questo personale dei servizi segreti. Vedi G. Fuga – E. Maltini, e 'a finestra c'è la morti, Milano, Zero in Condotta, 2013. 33 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit., p. 114. 34 L. Pinelli – P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia , Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 2010, p. 81. 35 La Cederna si occupò in particolare del caso Pinelli, argomento del suo primo libro politico ma anche di numerosi articoli. Vedi C. Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage , Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1971.

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indiziato»36. Tuttavia bisogna anche render merito al giornale di aver lasciato ampio spazio alle parole della vedova Pinelli e alle testimonianze di alcuni suoi colleghi di lavoro da cui emerge che «era considerato un idealista e un rivoluzionario romantico». «Per questo – continua il giornale – nessuno è propenso a credere che egli abbia avuto responsabilità diretta nell'attentato di lunedì». «L'Arena» inoltre mette ai piedi dell'articolo il comunicato degli anarchici milanesi che attaccavano la questura e la repressione autoritaria pur premunendosi di avvertire nel sottotitolo che il comunicato era «assurdo»37. Allo stesso modo bisogna sottolineare un articolo del 27 gennaio 1970, in cui «L'Arena» rende nota, con un titolone in seconda pagina, la pubblicazione, da parte dell'avvocato della vedova Pinelli, di una lettera che l'anarchico aveva inviato a un compagno in carcere indagato per gli attentati dell'aprile 1969 alla fiera di Milano. Nella suddetta, il ferroviere Pinelli scriveva che «l'anarchismo non è violenza» (come recita il sottotitolo dell'articolo), lasciando quindi trapelare dei dubbi sulla versione della questura38. Nonostante ciò il giornale veronese non smentirà le sue posizioni, mostrandosi testardamente fedele alla versione della questura. Già il 17 dicembre affermerà con sicurezza che l'alibi di Pinelli «non ha retto» 39, in riferimento alla sua effettiva presenza al bar durante la giornata del 12 dicembre, aggiungendo che quest'ultimo si è suicidato, ipotizzando anche un incontro tra Pinelli e Valpreda per la consegna della borsa con l'esplosivo, che sarebbe stato anche il motivo del suicidio dello stesso, una volta scoperto. Di suicidio si parlerà a lungo. Un altro articolo del 30 ottobre 1970, per mostrare la longevità di certi assunti, titola «Videro il Pinelli buttarsi nel vuoto », riportando le testimonianze di alcuni agenti durante il processo Calabresi – Lotta Continua. L'atteggiamento del giornale veronese sembra cambiare a partire dal 1971. Il

36 Anarchico si uccide gettandosi dalla finestra durante un interrogatorio in questura a Milano , «L'Arena», 16 dicembre 1969. 37 Giuseppe Pinelli decise di togliersi la vita dopo aver sentito che Valpreda aveva parlato , «L'Arena», 17 dicembre 1969. 38 Divulgata dalla difesa una lettera del Pinelli , «L'Arena», 27 gennaio 1970. 39 Un anarchico incriminato per la strage , «L'Arena», 17 dicembre 1969.

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suicidio, il salto felino dell'anarchico, si trasformano in un più asettico “precipitare”. Il 6 maggio 1971, infatti, un articolo sulla deposizione di Licia Rognini, vedova dell'anarchico, in merito a degli attentati svoltosi tra il 1968 e il 1969, riporta la morte dell'anarchico non più come suicidio, bensì si limita a riferire che il ferroviere è deceduto «per essere precipitato da una finestra del Palazzo della questura di Milano»40. Le stesse parole saranno usate in un articolo del 27 agosto e ancora il 7 aprile 1972 si parlerà di «caduta»41. La virata verso posizioni più neutre, attente al procedere incerto delle indagini, non risulta un elemento peculiare. Le inchieste giornalistiche stavano infatti macinando, giorno dopo giorno, alte vendite 42 e a ciò si aggiunse il procedere delle indagini del giudice D'Ambrosio che lasciavano trapelare una verità diversa da quella fino a quel momento proposta dalla questura di Milano. Infatti, come notava Paolo Murialdi già nel 1973, «tra il 1971 e la fine del 1972, l'atteggiamento di quasi tutti i giornali sulle bombe del 1969 e sul caso Pinelli e Valpreda è ben diverso da quello assunto subito dopo quei tragici avvenimenti»43.

3. Da Bakunin a Cohn Bendit Prima di analizzare attentamente le pagine che riguardano le indagini sull'anarchico Pietro Valpreda, risultano di grande interesse al fine di capire le posizioni del giornale veronese, e quindi delle modalità con cui decise di comunicare i fatti all'opinione pubblica, due elzeviri in terza pagina pubblicati il 19 e il 20 dicembre 1969, e rispettivamente firmati Giuseppe Brugnoli e Mario La Rosa. 40 La vedova Pinelli sul banco dei testimoni , «L'Arena», 6 maggio 1971. 41 Cfr., "Avvisi di reato" per il caso Pinelli a due agenti di P.S , «L'Arena», 27 agosto 1970; Simulata la caduta di Pino Pinelli sembra esclusa l'ipotesi del malore , «L'Arena», 7 aprile 1972. 42 Per fare un esempio, il volume della Cederna citato ebbe modo di essere stampato in cinque edizioni tra l'ottobre e il novembre 1971. Anche il libro "La strage di Stato" fu un vero e proprio caso editoriale., raggiungendo nel 1977 la tiratura di 500.00 copie. 43 P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, cit., p. 552.

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Il secondo articolo è quello, dal punto di vista contenutistico, meno interessante tra i due perché non propose un'analisi ma si limitò a esporre in ordine cronologico degli eventi. Tuttavia è utile alla nostra ricerca perché, pur non proponendo formalmente posizioni politiche, esprime la volontà del giornale veronese di stigmatizzare agli occhi del pubblico la storia di una cultura, quella anarchica, che viene posta sotto accusa. Il testo di La Rosa è una semplice ricostruzione cronologica degli attentati (principalmente anarchici) che hanno sporcato o meno di sangue la storia d'Italia dalla fine dell'Ottocento agli anni Quaranta del Novecento. Emblematico risulta il titolo, avvicinato ad una determinata immagine: «Contro l'ordine a tutti i costi», anticipato da un occhiello significativo: «L'idea degli anarchici: libertà integrale. Il metodo: assassinio e terrorismo». Il tutto seguito da un'immagine che ritrae alcuni anarchici con un cartello che richiama allo sciopero della fame che stavano svolgendo 44. Come ci ricorda, e si premura di metterci in guardia, Paolo Murialdi: Impaginazione, titoli e fotografie sono inoltre i principali strumenti per informare rapidamente ma anche per influenzare il lettore, il quale scorre il giornale prima di leggere ciò che lo interessa. Con questi strumenti, il giornale compie due operazioni: trasmette al lettore quella carica emotiva di cui tutti i quotidiani, in misura diversa, sono permeati e che è la prima cosa che una lettura critica deve rimuovere quando questa carica è marcata; manifesta le sue grandi scelte, dando in modo vistoso le notizie e i commenti che considera più importanti. In breve, informa, impressiona e orienta il lettore45.

Murialdi non potrebbe essere più chiaro. Leggendo queste poche righe e comparandole con l'articolo fin qui esposto, risulta palese l'intento del quotidiano veronese che punta a inserire in un quadro culturale preordinato la dottrina 44 L'immagine è un famoso scatto che ritrae alcuni anarchici durante uno sciopero della fame che si protrasse dal 25 settembre al 2 ottobre 1969. 45 P. Murialdi, Come si legge un giornale, Roma – Bari, Editori Laterza, 1981, p. 16.

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dell'anarchismo, facendo arrivare al lettore questi assiomi (anarchismo → sovversione dell'ordine costituito → attentati) attraverso un'impaginazione che non potrebbe far trapelare altro che un rigetto per una cultura della violenza. Sulla stessa linea di questo articolo, ma con un contenuto meno asettico e ideologicamente impostato, risulta il testo di Giuseppe Brugnoli, dal titolo

Continuità dell'anarchia. Brugnoli tira un lungo file rouge che collega Valpreda e i suoi amici, «figli non degeneri» dei vecchi anarchici, all'anarchismo ottocentesco, a Malatesta, Merlino, Cafiero, Bakunin etc. Decontestualizzando concetti, idee e fatti e cercando di riportare a quadro generale avvenimenti singoli, l'autore punta a dimostrare che la violenza è una strategia insita nel pensiero e nell'agire anarchico. Così gli è facile citare Cafiero quando afferma che «non è l'aver sparso sangue dei carabinieri che ci fa onta». Gli anarchici vengono raffigurati antropologicamente violenti, dei “bombaroli” che per un utopistico ideale uccidono senza remore. Non è questo il luogo per porre l'articolo sotto critica usando la storia del pensiero politico46, ci interessa piuttosto evidenziare il forte messaggio che il giornale voleva mettere in risalto: l'anarchismo è storicamente violento e gli anarchici sono storicamente degli attentatori, quindi è ovvio che la strage sia di matrice anarchica. Il file rouge tirato da Brugnoli ci porta infatti fino al congresso anarchico di Carrara del 1968 in cui fu presente anche un leader del '68 francese, Daniel Cohn Bendit. L'autore si chiede retoricamente se Valpreda sia un «semplice alunno o interprete pronto ad assumere ruoli di protagonista» delle parole pronunciare da Cohn Bendit al congresso, secondo cui ««il problema consiste nello scoprire e mettere in opera i metodi più radicali in vista della rivoluzione», non lasciando spazio al dubbio sulla colpevolezza del ballerino 46 Se è vero che gli anarchici nell'Ottocento fecero ampio uso della "propaganda col fatto" è altrettanto vero che il movimento anarchico non può essere ridotto ad uno stereotipo invariabile, se non altro considerando che le dicotomie all'interno dello stesso sono piuttosto profonde, passando dall'anarchismo individualista di discendenza stirneriana a quello comunitarista che vede in Proudhon il proprio padre. Senza aggiungere l'anarchismo cristiano che si sviluppò dal pensiero di Lev Tolstoj. Per una ricostruzione organica del pensiero anarchico Cfr., G. Berti, Il pensiero anarchico dal settecento al novecento , Taranto, Pietro Laicata Editore, 1998 e G. Woodcock, L'Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari , Milano, Giangicomo Feltrinelli editore, 1973.

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anarchico.

4. Il processo Valpreda: l'alibi e il tassista

Pietro Valpreda, come abbiamo detto, verrà messo alla gogna pubblica come principale indagato per la strage di Piazza Fontana. Il suo nome comparirà in continuazione nei titoli di giornale, conducendo così a rapidi collegamenti tra la strage e l'unico autore incriminato con “forti imputazioni”. Abbiamo sottolineato come le indagini sulla strage fossero indirizzate principalmente verso la pista anarchica. A darcene ulteriore dimostrazione sono gli articoli di giornale, in particolare a partire dal 17 dicembre quando Pietro Valpreda comparirà sulla prima pagina di tutti i quotidiani d'Italia. Il giornale veronese infatti quasi non dà conto di altre piste emerse dalle indagini 47 riferendo unicamente dell'incriminazione di Pietro Valpreda e dei circoli anarchici di Roma e Milano. La narrazione de «L'Arena» in quella settimana si può suddividere in due fasi. Una prima ricostruzione riporta le indagini della questura e la testimonianza di Rolandi (di cui parleremo) parlando tuttavia di incriminazione, cioè non spingendosi, come fece Bruno Vespa, a parlare di colpevolezza 48. I toni cambiano drasticamente il 19 dicembre 1969 quando il sostituto procuratore Vittorio Occorsio firma l'ordine di cattura nei confronti del ballerino anarchico. Da qui in poi Pietro Valpreda non è più l'incriminato per la strage, in questo contesto diventa il «dinamitardo assassino» a cui «non vi sarà ergastolo più meritato per un criminale che ha mietuto tante vittime innocenti» 49. Continuando su questa scia, il 21 dicembre si è già certi della sua colpevolezza e si aspettano solo gli «elementi

47 Solo un articolo in tutto il 1970 (pubblicato il 20 febbraio 1970) tratterà delle indagini del giudice Stiz, che saranno poi oggetto di altri due articoli nel 1971. Secondo chi scrive si tratta di "un'indagine non voluta" da parte del quotidiano veronese, ma si avrà modo di parlarne in modo più esauriente. 48 Cfr., Un anarchico incriminato per la strage , «L'Arena»,17 dicembre 1969; Gli attentati organizzati a Roma, «L'Arena», 18 dicembre 1969. 49 Ordine di cattura per Valpreda: concorso continuato in strage , «L'Arena», 19 dicembre 1969.

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per trovare l'uomo che ha fornito a Valpreda e ai cinque studenti arrestati perché ritenuti responsabili degli attentati, il tritolo per compierli e la località dove l'esplosivo è stato tenuto»50. Come con Pinelli, l'alibi di Pietro Valpreda sarà subito messo in dubbio. Secondo la zia Rachele Torri, l'imputato sarebbe rimasto a casa con la febbre per tutta la giornata del 12 Dicembre; a confermarlo anche una vicina di casa a cui la zia avrebbe chiesto dei medicinali per il nipote malato. Ma, secondo il giornale, fiducioso delle indagini in corso, l'alibi «non ha retto» 51. Addirittura Rachele Torri fu accusata di falsa testimonianza. A reggere questa accusa, ebbe un'importanza fondamentale la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi. Rolandi è un tassista che sostiene di aver trasportato l'attentatore della Banca Nazionale dell'Agricoltura il 12 Dicembre. Incerto se confidare le proprie rivelazioni, lo farà in stato di agitazione a un cliente, Liliano Paolucci il quale, prima, gli consiglia di andare dalle forze dell'orine e, successivamente, le avvisa lui stesso. Il teste dice di aver fatto salire un cliente intorno alle 16 di quel fatidico giorno, con voce baritonale, cappotto marrone, giacca, cravatta, un po' di stempiatura e, soprattutto, una valigetta nera. Il passeggero sarebbe salito in piazza Beccaria, proseguendo poi per via Tecla dove sarebbe sceso per andare in banca e uscirne senza borsa. La borsa infatti sarà uno degli elementi chiave durante l'accusa a Franco Freda e Giovanni Ventura, ma lo è anche per Valpreda perché la borsa costituisce l'elemento per inchiodare l'incriminato. Sin qui, sembra, tutto fila liscio: Rolandi si è tolto un peso dalla coscienza e le indagini sono sulla buona strada. Non tutto è così facile, però. Sono infatti diversi gli elementi che fin da subito mettono in crisi la testimonianza del tassista. Innanzitutto ciò che non convince è la descrizione. Valpreda non si è mai vestito elegante, non ha

50 Si cercano i mandanti del Valpreda e dei cinque anarchici arrestati , «L'Arena», 21 dicembre 1969. 51 Un anarchico incriminato per la strage , «L'Arena», 17 dicembre 1969.

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quarant'anni e il suo cappotto è nero. Si aggiunge poi un particolare quanto meno stravagante: il tragitto che Rolandi dice di aver percorso con il presunto attentatore è brevissimo. Dal parcheggio dei taxi in Piazza Beccaria alla banca, ci sono 135 metri e il passeggero, scendendo in via Tecla ne avrebbe percorsi 117 per andare e altri 117 per salire sul taxi. A giustificazione di questa constatazione venne detto che Valpreda, essendo affetto dal morbo di Burger, dovette prendere il taxi. Ma, in questo caso, perché dovrebbe trasportare esplosivo una persona limitata nella deambulazione? Come si vede le incertezze sono diverse. Nonostante ciò il 17 dicembre Pietro Valpreda venne riconosciuto ufficialmente da Cornelio Rolandi. Ma Valpreda è stato riconosciuto attraverso una procedura ordinaria o, viceversa, è stata mostrata a Rolandi una foto dell'incriminato prima del riconoscimento ufficiale? La domanda a Rolandi viene posta ma lui nega di aver visto una foto di Valpreda prima del riconoscimento. «L'Arena», che pur riporta i dubbi di altri giornalisti, non si sofferma sul problema, non credendolo evidentemente degno di nota 52. La questione messa sul tavolo è però di importanza cruciale per l'esito e la continuazione delle indagini. Se Valpreda è stato riconosciuto correttamente il teste è una prova importantissima che, effettivamente, potrebbe permettere di far giustizia in tempi brevi, tuttavia così non sarà. Infatti al Pubblico Ministero il tassista risponderà in modo esplicito: «Mi è stata mostrata dai carabinieri di Milano una fotografia che mi si è detto doveva essere la persona che dovevo riconoscere».53 Nonostante tutte le obiezioni che verranno man mano evidenziate, il giornale veronese persisterà nell'avvalorare la deposizione del Rolandi e sarà anche ben consapevole dell'importanza di tale testimonianza. In un servizio speciale firmato da Giorgio Capuano, del 5 marzo 1972, scriverà: «Quello che si è chiaramente capito, fino ad oggi, è che la testimonianza del tassista brucia quasi come una condanna (…) Senza la testimonianza Rolandi, Valpreda è solo un

52 "L'ho riconosciuto subito" afferma Rolandi , «L'Arena», 18 dicembre 1969. 53 G. Boatti, Piazza Fontana, cit., p. 140.

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indiziato»54. Il tragitto percorso dal quotidiano veronese è in parte contraddittorio. Se da un lato sembra voler riportare tutte le versioni, ad esempio con un titolo piuttosto vistoso in seconda pagina che riferisce le parole di Valpreda sul presunto sosia, che recita: «Valpreda: "è stato un sosia”»"55, dall'altro usa delle titolazioni accusatorie nonostante i dati non autorizzino certi toni. È il caso, in particolare, di un articolo dell'11 febbraio 1970 che titola significativamente: « gli ultimi risolutivi colpi

all'alibi di Valpreda». Nonostante un titolo così importante, l'articolo non può tuttavia fornire informazioni in merito a causa di un riserbo mantenuto sull'inchiesta, limitandosi dunque a riferire le parole del sostituto procuratore Vittorio Occorsio, secondo cui l'inchiesta «continua con sviluppi molto interessanti»56. Un modo di far giornalismo che troverà successivi riscontri. In un articolo pubblicato in giugno viene riferita l'effettiva esistenza di un informatore (che fino a quel momento era stata negata) che operò all'interno del Circolo 22 Marzo. Pur in mancanza di ulteriori informazioni sulle prove che incriminano Valpreda, «L'Arena» continuerà sulla stessa strada con un titolo che in gergo si definisce “caldo”, e che cioè è «basato sull'effetto, drammatico o brillante» 57, che mira a mettere alla gogna il singolo Valpreda 58. Infatti, nonostante nei sottotitoli o negli occhielli si specifichi che le indagini sono rivolte agli anarchici del Circolo 22 Marzo in generale, i titoli punteranno continuamente il dito su Pietro Valpreda, che divenne così l'emblema della violenza, il mostro della strage. Insistendo su questo aspetto, saranno numerosi gli articoli che riferiranno dei comportanti dell'ex ballerino, all'infuori dell'inchiesta sulla strage, creando l'immagine bestiale del colpevole59. Il 30 dicembre 1972, dopo diversi mesi dall'incriminazione per strage anche di 54 G. Capuano, Il "J'accuse" di Rolandi rende insonne la difesa , «L'Arena», 5 marzo 1972. 55 Valpreda: "è stato un sosia", «L'Arena», 30 gennaio 1970. 56 Gli ultimi risolutivi colpi all'alibi di Valpreda , «L'Arena», 11 febbraio 1970. 57 P. Murialdi, Come si legge un giornale, cit., p.17. 58 Si aggrava la posizione di Valpreda, «L'Arena», 5 giugno 1970. 59 Cfr., Pietro Valpreda in assise a Roma per vilipendio alla Magistratura , «L'Arena», 29 ottobre 1970; Valpreda condannato per rissa, «L'Arena», 8 dicembre 1970.

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Rauti, Freda e Ventura, un'intera pagina sarà occupata dal seguente titolo: «Valpreda – Colpevole o innocente? » mostrando così, anche in questo caso, un passo indietro rispetto alle proprie posizioni di partenza. All'interno di questa pagina un significativo articolo di Giuseppe Dalla Torre, sancirà definitivamente la virata del quotidiano veronese: Evidentemente la notizia della disposta scarcerazione di Valpreda e compagni, presunti responsabili dei sanguinosi attentati del 12 dicembre 1969, non può essere che accolta con favore da quanti hanno a cuore che la giustizia sia sostanzialmente, e non solo formalmente, giusta60.

60 G. Dalla Torre, I limiti del carcere preventivo, «L'Arena», 30 dicembre 1972.

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UN'INCHIESTA NON VOLUTA: LA PISTA NERA

Il 23 marzo 1972,

Franco Freda, Pino Rauti e Giovanni Ventura saranno

incriminati per la strage di Piazza Fontana. Un avvocato padovano, il leader di Ordine Nuovo e un libraio trevigiano inizieranno ad occupare le prime pagine dei giornali per molto tempo. Tuttavia se solo a partire dal 23 marzo i loro diventeranno nomi noti, le indagini erano iniziate molto prima, lo stesso giorno in cui morì l'anarchico Giuseppe Pinelli, lo stesso giorno in cui il tassista Cornelio Rolandi andò dai carabinieri, lo stesso giorno in cui Valpreda venne arrestato. Il 15 dicembre 1969, infatti, Guido Lorenzon, un insegnante democristiano di Maserada sul Piave, decise di chiamare un avvocato per rilasciare delle dichiarazioni sconcertanti, che negli anni si mostreranno tragicamente nella loro veridicità: «nessun punto della "confessione" di Guido Lorenzon (...) risulterà men che veritiero»1. Lorenzon era un amico di vecchia data di Giovanni Ventura, con cui aveva trascorso degli anni al collegio "Pio X" di Treviso; un amico di cui Giovanni Ventura sembrava fidarsi se a quest'ultimo raccontava le esperienze della sua militanza politica. Guido Lorenzon tuttavia non resistette alla tentazione di raccontare a qualcun altro quanto aveva udito e che, riflettendo, collegò insieme dopo gli attentati di Milano e Roma del 12 dicembre. Quello che Lorenzon collegò erano i discorsi di Ventura circa l'uso della violenza, il viaggio dello stesso a Roma il giorno dell'attentato e, inoltre, alcune conoscenze che l'editore manifestava di avere in merito a quanto accaduto. Così, su consiglio dell'avvocato, mise per iscritto tutto quello che si ricordava e, il 18 dicembre, consegnò questi appunti al legale il quale, a sua volta, ne diede copia al magistrato della Procura di Treviso. 1 G. Boatti, Piazza fontana, cit., p. 151.

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I frammenti di Lorenzon vengono riassunti durante l'istruttoria sulla pista nera: 1)

nel maggio 1969 il Ventura lo aveva informato che si sarebbe recato a

Milano per collocare un ordigno esplosivo in un edificio pubblico (prefettura, procura o altro) e, al ritorno da Milano, gli aveva detto ancora che voleva tornare indietro per recuperare l'ordigno inesploso (in epoca successiva il Ventura aveva introdotto alcune varianti nel suo racconto quanto al mese, che era stato quello di aprile e non di maggio, ed al luogo che era stato Torino e non Milano); 2)

relativamente agli attentati ai treni dell'agosto 1969 il Ventura gli

aveva fornito notizie dettagliate: sul costo degli ordigni impiegati (lire centomila per ciascuno), sugli accurati alibi per gli attentatori, sul posto di collocazione delle bombe e sul fatto di esserne stato uno dei tre finanziatori; 3)

circa la strage del 12 dicembre 1969 il Ventura, tra l'altro, oltre a

compiere viaggi sospetti a Roma e a Milano in quei giorni aveva in sua presenza commentato quei tragici avvenimenti lamentando il fatto che nessuno, né da destra né da sinistra, si fosse mosso e che quindi "occorreva fare qualcos'altro"; inoltre aveva detto di non rendersi conto del perché l'ordigno deposto alla Banca Commerciale non fosse esploso; si era, anche, mostrato edotto sin nei più minuti particolari dei problemi che il sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro di Roma offriva per la sistemazione di ordigni esplosivi; e gli aveva, infine, confidato di essere stato a conoscenza dei piani operativi per gli attentati prima del loro verificarsi, in quanto essi si inquadravano in una progressione terroristica prestabilita al fine di traumatizzare sempre di più la pubblica opinione; 4)

Il Ventura gli aveva ancora parlato degli attentati in progetto per la

visita del Presidente americano Nixon in Italia e, in particolare, di un ordigno non ancora confezionato che egli avrebbe dovuto portare con sé per «ricevere il Presidente» nonché del fallimento di tutto, data l'accuratissima vigilanza predisposta dalla Polizia; 5)

verso la fine del successivo novembre 1969 lo stesso Ventura aveva

fatto, inoltre, visitare un appartamento in via Manin di Treviso e gli aveva

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motrato un temporizzatore alimentato da una batteria già predisposto per un impiego a scopo dinamitardo; 6)

Verso la fine del successivo novembre 1969 lo stesso Ventura aveva

espresso il desiderio di accompagnare l'amico Lorenzon in un viaggio in Grecia per mettersi in contatto con l'ambiente dei "colonnelli" e ricevere da questi aiuti al fine di creare in Italia una situazione loro "gradita". 7)

Circa il libretto rosso (si tratta dell'opuscolo "la giustizia è come il

timone...", nda) il Lorenzon ha chiarito di conoscere il contenuto già da tempo, in quanto il Ventura, prima di consegnarglielo nella veste tipografica definitiva, glielo aveva fatto leggere su un testo dattiloscritto; ha aggiunto di aver avuto anche occasione di leggere alcuni "rapporti informativi" segreti, nei quali si accennava a contratti fra Dc e Pci per un accordo di governo, si preannunciava la scissione del partito socialista e la vittoria dell'on. Piccoli al congresso nazionale della Dc: in uno di tali rapporti si faceva riferimento all'industriale Monti quale finanziatore di "gruppi di agitatori"; 8)

dai vari discorsi fattigli dal Ventura aveva appreso che questi faceva

parte di un'organizzazione terroristica a struttura piramidale; il Ventura medesimo gli aveva in proposito precisato di esserne uno dei tre finanziatori e che essa non era la sola operante.2

Leggendo è facile capire che la testimonianza di Lorenzon non poteva essere lasciata da parte, ma doveva piuttosto spingere a indagare con risolutezza su Ventura e sui suoi collegamenti con l'organizzazione di cui affermava di essere finanziatore. Il primo passo mosso dal magistrato in questo senso, fu lo studio del libretto rosso fornito da Lorenzon. Nonostante sembri un chiaro riferimento maoista, il giudice capì che si trattava di tutt'altro e, su questa pista, iniziò ad indagare. Le indagini porteranno man mano ad aprire quel vaso di pandora del neofascismo italiano, di Ordine Nuovo nella sua cellula veneta. Emergeranno in questo senso prove, depistaggi e dichiarazioni contraddittorie. Infatti, come ha osservato Aldo Giannuli, «esiste un giudicato penale che accerta l'opera di 2 G. Boatti, Piazza Fontana, cit., pp. 153-155.

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depistaggio di appartenenti a tutti i corpi di sicurezza dello Stato»3. Ordine Nuovo fin dagli albori era entrato in contatto con lo Stato Maggiore della Difesa4 e, durante le indagini sulla strage, poté giovarsi del supporto dei servizi. A svelare pubblicamente questa collaborazione, e cercando di romperla, intervenne Vincenzo Vinciguerra, le cui dichiarazioni non sono mai state smentite. Vinciguerra è l'autore della strage di Peteano, prima coperto dai servizi e poi reo confesso, che si rifiuta tutt'oggi di accettare sconti di pena per non entrare in collaborazione con lo Stato che vuole combattere 5. È stata già citata, inoltre, nel secondo capitolo, la velina del SID del 16 dicembre 1969 che indicava in Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino e l'Aginter Press i mandanti e gli esecutori della strage. I depistaggi messi in pratica furono in effetti numerosi. Ad esempio, quando fu rinvenuto l'esplosivo alla Banca commerciale di Milano, ancora inesploso, si decise di farlo brillare, mandando così in fumo una prova di particolare spessore. Si può citare poi la reticenza del SID a confermare la propria collaborazione con Guido Giannettini o Giorgio Zicari 6 ma ben più singolare appare il caso del riconoscimento di Valpreda da parte del tassista Rolandi, di cui si è già parlato, o, ancora, il fatto che la polizia nascose alla magistratura il negoziante padovano che vendette le borse uguali a quelle usate per la strage e il fatto che l'analisi di un frammento rimasto dall'esplosione aveva confermato le sue dichiarazioni7. Tuttavia ciò che qui interessa far emergere è la scarsa volontà del quotidiano veronese, la cui sede dista poche decine di chilometri dal centro di queste indagini, di porre in rilievo quello che sta emergendo sulla strage. Seguendo la traccia di

3 A. Giannuli, Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro , cit., p. 136. 4 S. Ferrari, Da Salò ad Arcore. La mappa della destra eversiva, Milano, Nuova Iniziativa Editoriale, 2006, pp. 29 ss. 5 Vinciguerra pubblica suoi articoli dal carcere di Opera tramite il sito http://www.archivioguerrapolitica.org/ (ultima visualizzazione 30/05/2013). Si veda anche A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit., pp. 211 ss. 6 G. Bottai, Piazza Fontana, cit., pp. 265 ss. 7 A. Giannuli, Bombe a inchiostro, cit., pp. 245-246.

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Chomsky ed Herman, richiamata nell'introduzione, secondo cui è possibile analizzare i mass media a partire dalle loro omissioni, si può qui mettere in rilievo il ruolo svolto da «L'Arena» che appare contraddittorio rispetto alla retorica ricerca di giustizia che il giornale invocò il 16 dicembre, con editoriale dal titolo «"L'Italia tutta invoca giustizia"»8. Vennero infatti pubblicati solamente tre articoli sulle indagini di cui sopra. Il primo articolo in merito fu pubblicato il 20 febbraio 1970. « Attentati: si

cerca di chiarire la posizione di due trevigiani» così titola «L'Arena» che citerà, sulla «strana vicenda», la lettera dell'avvocato di Guido Lorenzon, nonché deputato Dc, in risposta all'on. Ugo d'Andrea del Partito Liberale Italiano che «aveva presentato una interrogazione al ministro della giustizia “circa pretese interferenze di un deputato di Treviso sull'operato dei magistrati che stanno conducendo l'indagine sulle stragi di Milano e di Roma”» 9. L'articolo, il primo a riferire delle indagini portate avanti a Treviso, tuttavia si concentra principalmente sulle dichiarazioni di Giovanni Ventura, che etichetta Guido Lorenzon come debole a livello psichico, usando questo escamotage come prova della propria innocenza. Come riportato dal quotidiano, infatti, secondo Ventura: in Guido Lorenzon la notizia della strage di Milano provocò in quei giorni “un corto circuito mentale e psichico, al punto da trasferire le vicende che vedeva svolgersi nel paese in un ambito di diretto dominio ed investirne persone nel caso il sottoscritto, che in realtà con quelle vicende, nulla hanno a che fare”10.

Inoltre, dopo le affermazioni di Ventura trovano spazio, anche senza un collegamento logico all'interno dell'articolo, le parole di un teste che smentisce l'alibi di Pietro Valpreda. L'articolo – l'unico dell'anno – è paradigmatico dello spirito critico del giornale che, affidandosi alle agenzie di stampa, rifiuta di 8 "L'Italia tutta invoca giustizia" , «L'Arena», 16 dicembre 1969. 9 Attentati: si cerca di chiarire la posizione di due trevigiani , «L'Arena», 20 febbraio 1970. 10 Ibidem.

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intraprendere alcuna forma di giornalismo d'inchiesta che si stava invece affermando nella stampa italiana, rimanendo così espressione di un giornalismo di provincia, passivo spettatore della società italiana. Ma ciò mostra anche la volontà ideologica di porre perennemente in risalto la figura di Valpreda dato che un articolo, che avrebbe potuto svelare strade diverse, insiste invece nel voler decostruire l'alibi dell'ex ballerino anarchico allora sotto assedio mediatico. Certo, era più che lecito mostrare le discrepanze dell'alibi di Valpreda ma non altrettanto lecito è stato omettere, per scarsa volontà critica e, forse, per impostazione ideologica, il seguito delle importanti indagini che erano partite da Guido Lorenzon, in particolare lasciando ampio spazio alla difesa di Giovanni Ventura. Il secondo articolo, comparso il 14 aprile 1971 in un clima accusatorio e giornalistico

in

mutazione,

riferirà

di

Ventura

e

Freda

riportando

cronachisticamente i fatti, e cioè l'accusa di associazione eversiva in collegamento al famoso “libretto rosso”, ma a questo non seguirà un collegamento ovvio con la strage di Piazza Fontana che, viceversa, il primo articolo aveva fatto. Sull'articolo si legge che gli arresti «sono da mettere in relazione alla pubblicazione di un “libretto rosso”» in cui «viene elaborata una “ricostruzione” della dinamica degli attentati dinamitardi compiuti a Padova tra l'aprile del 1968 e il maggio del 1969», gli stessi attentati per cui erano stati accusati degli anarchici, e che, dopo la strage, ebbero modo di surrogare la tesi della pista anarchica11. Il successivo articolo intitolato «Castelfranco: quattro mandati di cattura »12, pubblicato nel dicembre successivo, avrà la stessa impostazione, non indicando nessun collegamento con la strage di Piazza Fontana e quindi con l'ipotesi, avanzata fin dai primi giorni successivi alla strage, di un attentato di matrice neofascista. Il giornale veronese scrive:

11 Nell'articolo sul "suicidio" di Giuseppe Pinelli del 16 dicembre 1969, «L'Arena» riporta il fatto che il dott. Guida precisò che «il Pinelli era pure sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano». Cfr., Anarchico si uccide gettandosi da una finestra durante un interrogatorio in questura a Milano, «L'Arena», 16 dicembre 1969. 12 Castelfranco: quattro mandati di cattura, «L'Arena», 24 dicembre 1971.

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Secondo

la motivazione del provvedimento Franco Freda e Giovanni

Ventura sono imputati di associazione sovversiva per avere organizzato e diretto un gruppo che aveva le finalità proprie del disciolto partito fascista, mirante cioè a sovvertire l'ordinamento sociale ed economico dello Stato, e di aver detenuto ed occultato armi, munizioni ed esplosivo e, infine, di avere cooperato alla preparazione e diffusione di libri stampati e scritti nei quali

c'è,

tra

l'altro,

propaganda

ed istigazione alla sovversione e al

razzismo13.

Le accuse mosse contro gli imputati sono certamente gravi, ma diverso peso comunicativo avrebbero avuto se collegate, come stava emergendo, con la strage di Piazza Fontana. Un'ipotesi ben suffragata dagli elementi emersi essendo stati Freda e Ventura incriminati per gli attentati avvenuti a Padova tra il 1968 e il 1969 e che vennero collegati, ad esempio, da Vincenzo Nardella nel volume Noi

accusiamo! edito da Jaca Book nel 1971. Oltretutto già l'inchiesta di controinformazione La strage di Stato, pur concentrandosi sulla figura di Stefano Delle Chiaie, fornì «immediatamente una serie di indicatori su cui orientare l'inchiesta»14. Questi dati saranno collegati solo il 23 marzo 15 con l'incriminazione ufficiale di Franco Freda, Giovanni Ventura e Pino Rauti per la strage di Piazza Fontana, soltanto dopo due anni, nonostante il primo articolo pubblicato in merito avrebbe potuto aprire la strada per una inchiesta che seguisse, almeno in parte, le indagini del giudice Stiz. «L'Arena», oltre alla retorica indignazione per la strage, decide di affidarsi ad articoli di cronaca redazionale ed ad attacchi accusatori contro la pista anarchica e, in particolare, contro Pietro Valpreda. Dopo tutto questo, il 23 marzo un inviato del giornale (lo stesso che aveva

13 Ibidem. 14 Cfr., G. De Paolo – A. Giannuli, La strage di Stato. Vent'anni dopo, Roma, Edizioni Associate, 1989, p. 21. Il volume riporta integralmente il testo de La Strage di Stato a cui viene anticipata una introduzione di De Paolo e Giannuli che, oltre a specificare le peculiarità e il successo della controinchiesta, ne evidenzia i limiti e gli errori. 15 Ventura, Rauti e Freda accusati della strage di Piazza Fontana , «L'Arena», 23 marzo 1972.

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redatto l'articolo «continuità dell'anarchia» di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo) potrà affermare che «a Treviso se l'aspettavano»16, dopo le incriminazioni per gli attentati sui treni e le affermazioni di Guido Lorenzon. Lorenzon infatti, ci fa sapere l'inviato, «diventa perciò la chiave di volta di quest'ultimo provvedimento del giudice Stiz»17. Ma il professore democristiano era già chiave di volta il 15 dicembre 1969 e avrebbe potuto esserlo precedentemente se il giornalismo, anche e sopratutto quello di provincia più vicino alle zone di riferimento, avesse avuto il coraggio di adempire al proprio ruolo, se non di “quarto potere”, almeno di informazione, di ricerca della verità sulla strage ,ruolo da molti rivendicato, ma solo a parole.

16 G. Brugnoli, un «escalation» della violenza a monte degli avvisi di reato , «L'Arena», 23 marzo 1972. 17 Ibidem.

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RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Abbiamo analizzato fin qui una narrazione che, tra il 1969 e il 1972, si è sviluppata sulle colonne de «L'Arena» seguendo non tanto le effettive indagini e i possibili spazi di comunicazione alternativa al quadro proposto dalle questure, ma che, viceversa, si è adeguata a quanto diffuso dalle agenzie di stampa. Una ricostruzione che ha potuto essere inflazionata anche dal contributo politico culturale del giornale che ne diffondeva l'eco attraverso la riproposizione dell'anarchico dinamitardo, tale per indole e cultura. Arrivati a questo punto, risulta allora interessante illuminare uno scorcio della successiva cronaca, ovvero capire come si è comportato il quotidiano veronese quando ormai la pista nera era diventata notizia nazionale. Nel corso dell'elaborato è stata infatti documentata una svolta de «L'Arena» tra il 1971 e la fine del 1972, che vede il giornale allinearsi al più generale contesto nazionale. Per verificare in ultima istanza l'esito di questa virata è quindi necessario allungare lo sguardo oltre il 1972, approdando al biennio 1973-74 anni in cui il processo Valpreda non è terminato e viene, anzi, affiancato da quello nei confronti di Rauti, Ventura e Freda. Dopo che il 23 marzo 1972 verrà pubblicata in prima pagina la notizia dell'imputazione per la strage a Ventura, Freda e Rauti, nei confronti degli indagati della pista nera ci sarà da parte del giornale un procedere attento a non porre accuse prima che queste possano essere documentate. Questo atteggiamento è riscontrabile sia nei numerosi articoli che seguiranno la vicenda dell'imputazione di Rauti, che verrà successivamente scarcerato, sia per le accuse che man mano emergeranno nei confronti di Franco Freda e Giovanni Ventura. In merito alle indagini sulla pista nera non sarà infatti possibile riscontrare articoli come quelli analizzati per Valpreda e Pinelli, non sarà fatta nessuna ricostruzione della cultura politica dei neofascisti, come non sarà possibile leggere 55


titolazioni cariche di patos giustizialista nei confronti degli indagati. Emerge piuttosto un procedere attento al proseguire delle indagini, come giustamente dovrebbe essere. Ciò che rappresenta meglio questa situazione sono proprio i titoli degli articoli. Se con Valpreda abbiamo potuto leggere titoli “caldi” qui, all'opposto, le titolazioni appaiono “fredde”, riferendo dei dibattimenti in corso, piuttosto che porsi come accusatori. Gli articoli di marzo 1972 titolano ad esempio: «Rauti: “indizzi insufficienti”»1, «Alla Corte di cassazione il caso Rauti –

Ventura – Freda»2, «L'istruttoria Rauti al giudice D'Ambrosio»3. Ancora, andando avanti con i mesi e arrivando al 1973 si legge: « Indagini di parte negherebbero

ogni responsabilità di Ventura»4, «Nuove accuse contestate a Freda interrogato in carcere dal giudice»5, «Ventura resta in prigione. Forse altri due indiziati»6. Emerge chiaramente dalla semplice lettura di alcuni titoli la marcata differenza tra quella che è stata la comunicazione proposta per la pista anarchica e quella che è stata invece la pista nera. A questo punto bisogna controllare, anche solamente attraverso un veloce inquadramento, come è continuata la narrazione in merito a Valpreda e gli anarchici dopo il 1972. Gli articoli mostrano chiaramente uno spostamento dell'asse mediatico. Saranno pochissimi nel 1973 e non molti di più l'anno successivo, anno in cui si apre il processo a Catanzaro, i testi che si riferiranno all'ex ballerino. Anche in questo caso, inoltre, i titoli rendono in modo lapalissiano la diversa posizione assunta dal quotidiano veronese. È in particolare il contenuto di un articolo del 17 marzo 1974 a evidenziare la svolta che, a questo punto è scontato dirlo, è definitiva rispetto a quanto scritto subito dopo la strage. Un'intera terza pagina sarà dedicata a Valpreda alla vigilia dell'inizio del processo, con un articolo centrale che si premura di avvertire i lettori, con il sottotitolo, che «altri magistrati

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Rauti: "indizzi insufficienti". Feltrinelli: nuova perizia , «L'Arena», 25 marzo 1972. Alla Corte di cassazione il caso Rauti – Ventura – Freda , «L'Arena», 26 marzo 1972. L'istruttoria Rauti al giudice D'Ambrosio , «L'Arena», 29 marzo 1972. Indagini di parte negherebbero ogni responsabilità di Ventura , «L'Arena», 16 gennaio 1973. Nuove accuse a Freda interrogato in carcere dal giudice , «L'Arena», 10 amggio 1973. Ventura resta in prigione. Forse altri due indiziati , «L'Arena», 5 settembre 1973.

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nel corso di laboriose indagini ritengono d'aver individuato i veri colpevoli: una ricerca scrupolosa della verità non può ignorare questa circostanza» 7. Nell'articolo in questione è proposta al lettore una “cronistoria dell'inchiesta” in cui la vicenda Pinelli è riportata secondo i dati che, fin dai giorni successivi alla morte, erano disponibili ma a cui, inizialmente, il giornale non fece cenno: un fermo abusivo e un alibi che reggeva. Parimenti la confessione di Rolandi viene ricordata per gli «interminabili dubbi» che farà sorgere e che «eppure (…) sarà il cardine dell'accusa». Anche l'alibi di Valpreda «sembrava inattaccabile», continua l'articolo, «ma tutte e quattro le congiunte del ballerino furono accusate di falsa testimonianza». Ormai la svolta è assodata, ma si è dovuto aspettare anni perché un'accurata e spassionata ricerca della verità avesse luogo. La strage di Piazza Fontana ha scavato un trauma profondo nella storia dell'Italia Repubblicana, lasciando una macchia indelebile che, seppur fin troppo spesso dimenticata, a più di quarant'anni dall'attentato è in grado di smuovere facilmente gli animi. Infatti, l'uscita del libro di Paolo Cucchiarelli "Il segreto di Piazza Fontana" 8, nel 2009, ha sollevato molte polemiche. La tesi del libro è che il 12 dicembre furono due le bombe, una depositata da Valpreda che avrebbe dovuto esplodere a banca chiusa come attentato dimostrativo e una depositata da un fascista che, scoppiando, avrebbe attivato anche la prima bomba, raddoppiandone l'impatto. Le polemiche hanno poi avuto modo di crescere con il film di Marco Tullio Giordana, "Romanzo di una strage", che ha preso ispirazione dal libro. Studiosi, protagonisti, militanti e persone qualunque hanno avuto modo di contrapporre fatti e opinioni, in merito al tentativo di portare nuova luce su quegli eventi. Non si vuole entrare nel merito del problema anche se, è necessario dirlo, la tesi di Cucchiarelli appare debole in particolare perché si affida alle rivelazioni di un esponente della destra

7 Dalla strage di Piazza Fontana alla Corte d'assise di Catanzaro, «L'Arena», 17 marzo 1974. 8 Cfr., P. Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, Milano, Ponte alle Grazie, 2009.

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dell'epoca, che rimane però anonimo9. La memoria della storia d'Italia appare anche qui traumatica, colma di ferite profonde che non si riesce a rimarginare. C'è chi denuncia l'assenza di un “quadro interpretativo d'insieme”10 sugli anni di piombo ma, forse, mancano anche le fonti necessarie a fornire un'interpretazione complessiva di quei difficili anni oltre che la mancata volontà degli attori in gioco di raggiungere una memoria condivisa. D'altronde ciò che gli anni di piombo e, in particolare, la strategia della tensione esprimono sono sentimenti, idee, fatti e memorie troppo distanti per essere pacificate sia dal tempo che dalle proprie posizioni politiche. Ma anche la presenza di archivi inaccessibili, per lo stato di mantenimento, e quindi della perpetua sottovalutazione dell'importanza, non solo meramente storica, del consolidamento di una cultura che non possa essere oggetto di strumentalizzazioni politiche, rende gli anni Sessanta e Settanta scivolosi piani di discussione pubblica.

9 Si veda l'articolo che Aldo Giannuli ha scritto in merito al libro http://www.aldogiannuli.it/2009/06/approfondimento-bibliografico-%E2%80%9Cil-segreto-di-piazzafontana-di-paolo-cucchiarelli/ . Per altre osservazioni in merito si veda in particolare il libro di Adriano Sofri "43 anni", disponibile al link http://www.osservatoriodemocratico.org/public/SOFRI.pdf. Importanti contributi sono disponibili anche al sito http://stragedistato.wordpress.com/ curato da ex membri del Circolo 22 Marzo (ultima visualizzazione 7/06/2013). 10 A. Campi, Il terrorismo, la violenza politica e le trappole della memoria , «Il Messaggero», 9 maggio 2013.

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BASTA CON LA VIOLENZA [L'Arena, 13 dicembre 1969] Dopo le intimidazioni, le sopraffazioni, le violenze, la parabola del terrore ha raggiunto il suo apogeo: il tritolo e la strage. Ed ora? Ora, di fronte al caos in cui sta per precipitare la vita italiana, di fronte allo sdegno e all'esecrazione di tutta la nazione, partiti e uomini politici, governo e sindacati si affrettano a costruirsi un alibi, invocando l'immediata individuazione e la severa punizione dei colpevoli. Ma assai più appropriato sarebbe parlare degli «esecutori» della strage, perché »colpevoli» tutto lo sono, tutti lo siamo: in maniera diretta o indiretta, maggiore o minore, per aver provocato o alimentato, consentito o sopportato, la nascita e lo sviluppo di un clima di illegalità e di eversione, in cui l'anarchia sarebbe inevitabilmente sfociata nella sua più tradizionale manifestazione: il tritolo e la dinamite. Attentati bestiali come quelli di ieri non si verificano improvvisamente e inaspettatamente in un paese ordinato e civile, in un clima di legalità e di democrazia. Maturano e si attuano solo in quei paesi dove i contrasti sociali e sindacali si trasformano in lotta di classe, dove al rispetto della legge e dei diritti dei singoli cittadini si sostituisce il sopruso e la violenza organizzata, dove la lotta politica per il governo della nazione diventa un'attività preordinata per la distruzione della nazione stessa e dove i partiti e gli uomini responsabili della cosa pubblica non hanno il potere, la capacità o la volontà di far rispettare le leggi su cui si regge lo Stato. I maggiori responsabili di questa situazione, i partiti dell'estrema sinistra e le centrali sindacali, da cui sono germogliati gruppi e movimenti dichiaratamente anarchici e sovversivi, tentano oggi di rovesciare la situazione affermando, come fa il PCI, che gli attentati sono «diretti a creare un clima di allarme e di confusione e favoriscono manovre reazionarie interne ed esterne»; o asserendo, come fanno le segreterie delle tre confederazioni sindacali, che i «i fatti si inquadrano in un disegno terroristico e reazionario». In parole povere, gli attentati, la strage, sarebbero stati organizzati dalle «forze reazionarie» 71


per giustificare una politica di repressione! Questo tentativo di additare un colpevole, prima ancora che affiori il minimo indizio sugli autori dell'attentato, dimostra in maniera evidente che le coscienze non sono completamente tranquille. Che di atti terroristici siano il frutto di una «spirale di violenza e di terrore», della «predicazione della violenza come metodo e come fine dei rapporti sociali», non lo dicono solo gli esponenti di partiti, come il PSU e la DC, che nel giudizio dell'estrema sinistra possono essere anche definiti «reazionari». L'on. Nenni, che certamente nessuno potrà mai definire un «reazionario» ha ieri dichiarato che gli attentati terroristici sono «la conferma di uno stato morboso di degenerazione morale e politiche che, se non fermata a tempo, apre paurose prospettive». É evidente che il primo dovere del governo è, oggi, quello di individuare gli autori della strage di Milano e degli altri attentati dinamitardi. Questo chiede innanzi tutto la coscienza della nazione, che è rimasta sconvolta dall'eccidio e che ha visto realizzarsi in modo così mostruoso i timori e le paure accumulatisi dopo tanti episodi di violenza. La scoperta degli attentatori permetterà anche di individuare i gruppi, gli ambienti, i partiti, che costituiscono in questo momento il pericolo più diretto e immediato alla sopravvivenza della nostra nazione, come società civile democraticamente organizzata. Né ci sembra di anticipare o sovrapporci all'opera della giustizia, augurandoci che l'individuazione di quei centri di sovversione e di terrorismo siano duramente colpiti, in base alle leggi dello Stato, e messi al bando della vita politica italiana. Ma l'individuazione e la punizione dei criminali non sarà sufficiente a eliminare i pericoli che incombono sul nostro paese, se il governo, il parlamento, i partiti, le organizzazioni sindacali non si impegneranno a riportare la via italiana sulla strada della legalità e delle convivenza sociale. Sarà perfettamente inutile scoprire e condannare gli assassini di ieri, se domani sarà ancora consentito a gruppi di facinorosi di ostruire il traffico, di distruggere le proprietà private, di intimorire o usare la violenza contro altri cittadini in nome del «diritto di sciopero»; o permettere che altri facinorosi impediscano ad altri cittadini di recarsi a teatro o di festeggiare il capodanno, invocando principi che tralignano perfino la tradizionale demagogia per ricollegarsi ad aberranti 72


«rivoluzioni culturali» di origine asiatica. Non è necessario per questo ricorrere a leggi speciali o poteri eccezionali. Le leggi esistenti sono più che sufficienti. È necessario solo che il governo abbia la capacità e la volontà di far rispettare quelle leggi da tutti: individui, gruppi, associazioni; e che trovi nel parlamento, nei pariti, negli organi dello stato, l'appoggio politico necessario a bloccare con fermezza ogni tentativo di sovversione. Sull'appoggio della pubblica opinione nessun governo può avere dubbi di sorta. É da tempo che il popolo italiano chiede un governo capace di ricondurre la nazione nella legalità democratica. ANARCHICO SI UCCIDE GETTANDOSI DALLA FINESTRA DURANTE UN INTERROGATORIO IN QUESTURA A MILANO [«L'Arena», 16 dicembre 1969] Milano, martedì mattina. Poco dopo la mezzanotte uno dei fermati per le indagini sull'attentato di Milano, si è gettato dalla questura e è deceduto verso le ore 2 di stamane all'ospedale Fatebenefratelli in conseguenza delle gravissime ferite riportate nel tragico salto. Si tratta del ferroviere Giuseppe Pinelli, di 41 anni, che la questura definisce «anarchico individualista». Il suo fermo era avvenuto nella notte fra venerdì e sabato, poche ore dopo gli attentati. L'uomo ha approfittato di un attimo di disattenzione degli agenti, ha aperto una finestra e si è lanciato, in piedi, nel vuoto. Egli è caduto su una piccola siepe che delimita una delle aiuole del cortile della questura stessa e ciò ha attutito il colpo. Immediatamente soccorso, appariva privo di sensi, ma ancora in vita. Successivamente è stato trasportato all'ospedale Fatebenefratelli, che dista poche centinaia di metri dalla questura, dove i medici lo hanno immediatamente sottoposto ad un delicato intervento chirurgico nella speranza di salvargli la vita, ma il tentativo non è riuscito. «Il Pinelli era fortemente indiziato – ha detto il questore di Milano, dott. Guida – ; aveva presentato un alibi per venerdì pomeriggio ma questo alibi era caduto completamente. Nell'ultimo interrogatorio il funzionario dott. Calabrese (sic!) gli aveva rivolto contestazioni piuttosto precise 73


e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabrese aveva allora momentaneamente sospeso l'interrogatorio per andare a riferire al capo dell'ufficio politico dottor Allegra. «Col Pinelli erano rimasti nella stanza tre sottufficiali di polizia e un ufficiale dei carabinieri che assistevano all'interrogatorio. Improvvisamente – ha proseguito il dott. Guida – il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto». Dopo aver precisato che il Pinelli era pure sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano e sui treni in varie località d'Italia in agosto, il dott. Guida ha detto: «Era tutta una catena di sospetti: il principale era per venerdì e poi si andava indietro. È stato un gesto, quello del Pinelli questa sera – ha detto ancora il questore – che certo a noi non fa piacere». Il Pinelli, che abitava in via Preneste, era sposato con due figlie di nove e di otto anni. Egli era capo-manovratore allo scalo Garibaldi. Il questore ha detto che era responsabile del circolo anarchico «Ponte della Ghisolfa». ORDINE DI CATTURA PER VALPREDA: CONCORSO CONTINUATO IN STRAGE [«L'Arena», 19 dicembre 1969] Il sostituto procuratore della Repubblica, dott. Vittorio Occorsio, ha firmato stamattina l'ordine di cattura nei confronti dell'anarchico trentaseienne Pietro Valpreda per il reato di concorso in strage con l'aggravante della continuazione. Il che, in parole povere, significa due cose; che l'istruttoria si è aperta a Roma a carico del dinamitardo assassino, e che l'accusa è così sicura di avere colto nel segno arrestandolo, che gli contesta non solo l'attentato a Milano alla sede della Banca nazionale dell'agricoltura, ma anche in concorso e la preparazione degli altri due attentati al «Vittoriano» e alla banca nazionale del lavoro di Roma. L'aggravante della continuazione, prevista dall'art. 81 del codice penale e che va ad aggiungersi agli articoli 422 (strage) e 110 (concorso), sta a significare che il magistrato intende indagare anche gli altri attentati effettuati a Roma dinanzi al palazzo di Giustizia di Roma e dinanzi alle sedi del Senato della Repubblica e della 74


Pubblica istruzione per controllare se anch'essi recano la firma del Valpreda. É probabile che qualche altro anarchico della «22 Marzo» andrà a fare compagnia al Valpreda nel carcere di Regina Coeli e alcuni per rispondere degli stessi reati addebitati all'ex-ballerino. Quest'ultimo non ha battuto ciglio quando alle 15.30 di oggi il capitano Antonio Varisco gli ha letto a Regina Coeli l'ordine di cattura con le pesanti imputazioni in esso contenute. In piedi, pallido in volto, Pietro Valpreda ha seguito la breve lettura del documento che dà il via all'istruttoria sommaria a suo carico. Il primo gradino verso il processo. Se la corte proverà che il dott. Occorsio ha colpito nel segno non vi sarà ergastolo più meritato per un criminale che ha mietuto tante vittime innocenti. Con l'emissione dell'ordine di cattura la magistratura romana, come avevamo previsto ieri, ha superato lo scoglio della competenza e cioè se la istruttoria fosse di competenza della procura romana oppure di quella milanese. È toccato a Roma indagare su questi dinamitardi che hanno sconvolto l'Italia con le loro gesta criminali. E possiamo essere certi che la magistratura andrà fino in fondo. Dopo l'inizio della istruttoria a carico di Valpreda si è appreso che l'ex ballerino anarchico, alla già lunga serie di conti con la giustizia (scontati o da scontare) aveva in corso una istruttoria per vilipendio alla magistratura. Tale indagine, affidata al sostituto procuratore della Repubblica, dott. Dore, era stata aperta dopo il famoso sciopero della fame, iniziato il 25 settembre scorso dinanzi al palazzo di Giustizia dal Valpreda insieme ad altri otto «compagni» e precisamente: Paolo Demedio di 18 anni, studente; Fernando Visona, di 18 anni, studente; Maurizio Di Mario, di 18 anni, studente; Rossella Palaggi, di 19 anni, studentessa; Leonardo Clamp (sic) di 29 anni, residente a Novara; Giorgio Spanò, di 30 anni, studente; Franco Montanari, di 17 anni, apprendista commesso; Giovanni Ferraro, di 31 anni, meccanico. Naturalmente tutti costoro sono stati interrogati subito dalla polizia romana dopo gli attentati e alcuni figurano fra i 14 fermati in attesa che il magistrato decida sulla loro sorte. I due giovani anarchici Emilio Borghese e Roberto Mander si trovano ora rinchiusi nell'istituto di rieducazione di «Aristide Gabelli» essendo entrambi minorenni. Si comportano disciplinatamente. Sembra meno a disagio nel carcere di Rebibbia la 75


giovane tedesca Elga Borth, soprannominata «Maria Dutschke», conosciuta come «Mucky». Qualche altro nome dei fermati è trapelato oggi a Roma. Eccone alcuni: Antonio Serventi, Emilio Bagnoli, Angelo Fascetti. A Regina Coeli si trovano, a disposizione del magistrato, Angelo Casile, Giovanni Arcò e Mario Merlino, di 25 anni, uno dei fondatori del movimento «22 Marzo». Merlino uscì dal MSI e fondò un gruppo neo – fascista cui dette il nome di «Avanguardia nazionale». Nel 1968 lasciò questo movimento e viaggiò a lungo all'estero prendendo perfino parte ai moti studenteschi di Parigi. Al ritorno in Italia ruppe i ponti con i partiti di destra e si schierò con gli anarchici romani partecipando alla costituzione del circolo «22 Marzo» che, nella sua breve vita, non ha avuto mai più di una ventina di iscritti. Oltre al Merlino un'altra persona che frequentava il gruppo «22 Marzo», Antonio Serventi, fermato dai funzionari dell'ufficio politico proveniva da «Avanguardia nazionale», l'organizzazione neo – fascista di cui era promotore Stefano Delle Chiaie. Il Serventi è noto tra gli estremisti di destra e di sinistra. Ha una quarantina d'anni e fino a tre anni fa aveva militato nel MSI e poi nei gruppi dissidenti neofascisti coi quali continuava ad avere rapporti. Una volta, nel corso di una zuffa, si lanciò contro un gruppo di comunisti gridando: «Passatemi i nastri!». Intendeva, nell'esaltazione, quelli delle mitragliatrici. Viene indicato dai giovnai che frequentavano piazza Spagna, piazza Navona e piazza Santa Matia in Trastevere come uno stravagante bevitore che andava in giro fino a qualche tempo fa con un cobra avvolto intorno al corpo. Fu implicato anche in una denuncia per sevizie. Uno dei giovani trattenuti nell'ufficio politico della questura, Emilio Bagnoli, è uno studente della facoltà d'ingegneria di Roma. È l'unico figlio della vedova di un'ingegnere del genio civile. La madre appartiene ad una famiglia patrizia ed abita in via Gozzi, 77. La donna ga detto che non le risulta che il figlio frequentasse gli anarchici di via Baccina e di via Governo Vecchio. «Quando gli agenti sono venuti a casa – ha detto – hanno trovato nella stanza di Emilio una storia dell'America, un Vangelo e “Topolino”». A Milano, in merito all'autopsia del Pinelli, il sostituto procuratore della Repubblica, dott. Caizzi, ha detto stamane che la decisione di affidare ad un collegio di periti la necroscopia è stata presa per 76


non lasciare adito a dubbi e a sospetti di qualsiasi natura. Indagini sono in corso nel Napoletano per rintracciare e interrogare il diciassettenne Aniello D'Errico, che sarebbe amico di Pietro Valpreda. Si tratta dello stesso giovane che – secondo quanto detto ieri in una conferenza stampa degli anarchici del circolo «Ponte della Ghisolfa» di Milano – frequentava come «simpatizzante» la sede del circolo ed avrebbe fatto «confidenze» alla polizia in merito agli attentati di Milano e Roma. CONTINUITÀ DELL'ANARCHIA [Giuseppe Brugnoli, «L'Arena», 19 dicembre 1969] Sembrava che fossero soltanto un cimelio storico, anacronistico e quasi commovente, i superstiti vecchi anarchici. Con le loro cravatte alla Lavalliere e i cappellacci a cencio non riuscivano più a far paura neppure ai bambini. Invece, sono stati proprio gli anarchici, a fare quel gran sconquasso di Milano, che la gente è ancora attonita e spaventata, e quasi soltanto adesso lo stupore cede il passo all'indignazione. Ma qualcuno si affretta subito a precisare che della strage di Milano non hanno colpa i vecchi anarchici, quelli buoni, ma i giovani, cattivi e contestatori, mala erba cresciuta tra le fila sempre più rade del buon anarchismo, che rifugge dalla violenza e tutt'al più si accontenta di esercitarla verbalmente, attraverso colorite invettive, proposte catastrofiche e previsioni apocalittiche quali cercano più un'emozione estetica che una verifica concreta. Sarà, ma la storia non lo dice. Anche se è facile rimanere sentimentalmente attaccati al vecchio cliché dell'anarchico verboso e inoffensivo, utopista e innocuo; quasi una macchietta, ma non è proprio vero che sia così, e in fondo il Valpreda e i suoi compagni sono figli non degeneri di quei vecchi anarchici che le lenti sfocate del tempo ci fanno vedere in un'aura equivoca, quasi cavalieresca. Ma è proprio Errico Malatesta, uno dei patriarchi più venerati dell'anarchismo italiano, che lo afferma a chiare lettere in una corrispondenza del 1883 a Francesco Saverio Merlino, un altro dei «patres conscripti» del movimento anarchico: «Noi ci vantiamo di essere, oggi, gli uomini della violenza. E da parte nostra ci serviremo della violenza senza sentirci 77


nullamente legati dalla forma e dai pregiudizi della cavalleria. Ché noi facciamo del codice della cavalleria lo stesso che dello statuto, del codice civile e del penale, del galateo e della morale ufficiali, di tutta insomma quella congerie di leggi, usi e convenienze che hanno fatto gli uomini solo schiavi, ma schiavi volontari». Parole, si dirà; che tuttavia trovano ogni volta puntuale, circostanziata verifica nei fatti, i quali sono assassinii, stragi, moti rivoluzionari e tentativi di rivolta sanguinosa. Tutti giustificati a priori dall'assunto fondamentale dell'anarchismo. Disgrazia a le nazioni in cui lo Stato s'immischia di regolare la vita popolare e il libero pensiero degli individui, fosse anche in nome della morale più pura!» scrive il Bakunin, il russo fondatore del movimento anarchico in Italia, subito dopo la sua venuta nel nostro Paese, e poiché l'assoluta libertà degli individui è la condizione fondamentale per la realizzazione dell'umanità, ecco che lo scopo unico degli anarchici non può essere che quello di abbattere, con ogni mezzo, qualsiasi forma di autorità: statale, religiosa, politica. É una visione messianica, una volontà missionaria: dalla violenza, la libertà, con una stortura ideologica e morale che poi sarà mutata puntualmente e quasi pedissequamente dal comunismo bolscevico: non importa il sacrificio attuale degli individui e dei popoli, purché la rivoluzione trionfi. Una sorta di redenzione laica e terrena, di uno stoicismo esasperato e inumano, perché al vinto, al sacrificato di oggi non lascia neppure la pallida speranza di una vita e di una ricompensa futura. Cosicché gli anarchici, dai primi agli ultimi, dai precursori volenterosi agli stanchi epigoni, possono portare avanti, con una distorta ma raziocinante dicotomia logica, il loro insito dagherrotipo di uomini giusti e saggi che uccidono con sereno distacco, con superiore indifferenza, che sterminano con freddezza in vista di un bene supremo; la libertà assoluta, l'anarchia mitica per i superstiti. Perciò, contrari per principio alla morale «borghese», possono tranquillamente essere padri solleciti e rigidi, mariti affettuosi e fedeli, anche se le loro brevi permanenze in famiglia sono intervallate da lunghe pause, necessarie a preparare ed eseguire attentati ed a subirne le conseguenze nelle carceri dell'«establishment». «Non è l'aver sparso sangue dei carabinieri che ci fa onta – afferma Carlo Cafiero, componente con Errico Malatesta della “banda 78


del Matese”, davanti alla Corte d'assise di Benevento – ma l'accusa di averlo fatto per “lascivia di sangue”. Se noi avessimo ucciso un'intera legione di carabinieri in combattimento, noi non ce ne sentiremmo offesi: ma quando ci si dice che abbiamo uccido per una mosca per lascivia di sangue, la nostra coscienza si ribella a questa accusa». Sull'altare della dea Anarchia, le vittime umane vengono sacrificate senza rimorso; il sacrificio non soltanto è giustificato, è sacrosanto. C'è indubbiamente un ritualismo, in tutto questo, una intenzione propiziatoria. Ed è lo stesso ritualismo che ritroviamo, a tanti anni di distanza (il processo alla «Banda del Matese» è del 1878) nel gesto dell'attentatore della Banca dell'agricoltura di Milano. Una strage che voleva essere ammonitrice, anche la sua, un «bagno di sangue» in cui la «società del benessere» avrebbe dovuto riscoprire, inorridita e attonita, la precarietà della sua esistenza della sua sopravvivenza. È lo stesso identico ritualismo che ha presieduto ad un'altra strage, condotta con la stessa freddezza, con la stessa assenza di un qualsiasi fremito di umanità, con la stessa assenza di un qualsiasi fremito di umanità, anche se forse con maggior crudeltà. La strage di Bel Air, in cui trovarono orribile morte l'attrice Sharon Tate e i suoi amici. Un eccidio, quello di California, a cui l'efferatezza e il sadismo aggiungono repulsione, ma forse meno «perfetto», meno «puro» dal punto di vista dell'anarchismo classico, perché preordinato, indirizzato ad un certo gruppo selezionato di persone, ad un clan caratterizzato della società. L'eccidio di Milano, in cui la scelta delle vittime è lasciata al caso, al gioco della sorte, risponde meglio ai canoni classici dell'attentato anarchico, che deve essere «apatico», senza passionalità. Anche a Bel Air, come a Milano, un uomo che si è lasciato emarginare dalla società, dopo essersi macchiato di delitti comuni e squallidi, e che di questa esclusione ha tratto motivo di autoesaltazione, di vendetta mascherata da ideali «superiori». La stessa etichetta anarchica o anarcoide, forse la stessa matrice ideale o ideologica.

Dopo tanti anni in cui i nostri anarchici

sembravano ridotti al rango di inoffensive comparse nel gran teatro del mondo, che la loro virulenza terroristica pareva vaccinata dalla società affluente e attenuata dagli anticorpi dell'organismo civile, sconcerta questa improvvisa, 79


esplodente eruzione. «Siamo stufi di morire per rivoluzioni che danno il potere a chi poi ci stermina», ha detto all'ultimo congresso anarchico di Carrara, nell'agosto dello scorso anno, Alberto Failla, il leader della Federazione anarchica italiana. Era una confessione di impotenza, un atto formale di rinuncia a portare avanti la lotta. Ma al congresso di Carrara era comparso anche Cohn Bendit, lo studente che fu a capo del «maggio radioso» francese. Espulso dall'assemblea, organizzò un «controgongresso» sulla spiaggia di Marina di Carrara. «Il problema – disse – consiste nello scoprire e mettere in opera i metodi più radicali in vista della rivoluzione». Tra i seguaci di «Dany le rouge» c'era anche Pietro Valpreda. Semplice alunno o interprete pronto ad assumere ruoli di protagonista? Ma il «maggio francese» ha ispirato anche l'ultimo libro del profeta del nuovo anarchismo utopistico, della contestazione giovanile: Herbert Marcuse. Che nel «Saggio sulla liberazione» afferma come «la distinzione tradizionale tra violenza legittima e illegittima diventa discutibile». «V'è una forte componente di spontaneità, addirittura anarchismo, in questa ribellione, espressione della nuova sensibilità. L'iniziativa si sposta ai piccoli gruppi, ampiamente dispersi e con un alto grado di autonomia, di flessibilità, di mobilità». Il gruppo della «valle della morte» che uccise Sharon Tate e i suoi amici può certo identificarsi in uno di questi gruppetti anarchici e autonomi propugnati da Marcuse: anche il gruppo di «anarchici individualisti» che frequentava il Valpreda. Da Milano a Los Angeles, due eccidi così lontani e apparentemente così diversi forse trovano una unica motivazione, un solo stimolo: anche il seme della violenza, quando cade su un terreno acconcio, rispunta con frutti abbondanti. SI CERCANO I MANDANTI DEL VALPREDA E DEI GIOVANI ANARCHICI ARRESTATI [«L'arena», 21 dicembre 1969] Poche «tessere» mancano ancora per comporre il mosaico della preparazione e della esecuzione degli attentati compiuti a Milano e a Roma nel pomeriggio del 12 80


dicembre. Anche oggi l'ufficio politico della questura romana ha lavorato intensamente: il dott. Provenza e i suoi collaboratori hanno cercato di raccogliere elementi per trovare l'uomo che ha fornito al Valpreda e ai cinque studenti arrestati perché ritenuti responsabili degli attentati, il tritolo per compierli e la località dove l'esplosivo è stato tenuto e dove, presumibilmente,

sono state

confezionate le bombe. É significativa, a tale proposito, una frase pronunciata dal capo dell'ufficio politico: «Cerchiamo mandanti al più alto livello» e non è stato escluso che della faccenda possa occuparsi anche l'Interpol. Inoltre è di una certa importanza il fatto che la questura milanese ha nuovamente fermato oggi e trattenuto per essere messo a disposizione della «politica» l'anarchico Leonardo Claps, il giovane che, fermato nei giorni scorsi per gli attentati era stato trasferito a San Vittore e che veniva scarcerato ieri sera. Intanto il sostituo procuratore della Repubblica di Roma, dott. Occorsio, ha spiccato oggi ordine di cattura contro la giovane tedesca Anneliese Borth, di 17 anni, residente ad Amburgo, fermata durante le indagini sugli attentati dinamitardi. Alla ragazza sono state contestate la violazione delle norme di P.S. sul soggiorno degli stranieri in Italia e la falsa attestazione sulla propria identità personale. La Borth è ora trattenuta nel carcere di Rebibbia. In ambienti vicini alla Procura si danno già per iniziate indagini molto più approfondite su questa giovane venuta clandestinamente nel nostro Paese e che dovrebbe aver tenuto i collegamenti tra gli anarchici italiani del gruppo «22 Marzo» e i compagni di oltre confine. Successivamente il dott. Occorsio si è recato a Regina Coeli per rivolgere altre domande agli studenti colpiti ieri sera da mandato di cattura: Mario Merlino, Emilio Bagnoli, Emilio Borghese, Roberto Gargamelli e Roberto Mander. Intanto i difensori di Valpreda hanno ottenuto dal magistrato inquirente copia dell'ordine di cattura, contestato all'imputato due giorni fa. Soltanto oggi quindi si è appreso che Valpreda è stato incriminato. 1) Per aver provocato lo scoppio di una carica esplosiva – realizzandone personalmente la esecuzione materiale – alle ore 16.30 del 12 dicembre 1969 all'interno della Banca nazionale dell'Agricoltura di Milano – Piazza Fontana – provocando la morte di 14 persone e il ferimento di altre 80; 81


2) per aver curato lo scoppio di altra carica esplosiva – lasciando ad altri l'esecuzione materiale – alle ore 16.55 del 12 dicembre 1969 all'interno della Banca nazionale del Lavoro in via San Basilio a Roma, provocando il ferimento di 17 persone; 3) per aver collocato altra carica esplosiva rinvenuta alle 16.30 del 12 dicembre 1969 all'interno della Banca Commerciale Italiana in Milano, piazza della Scala. E ancora dei reati di cui agli articoli 110 e 81 del codice penale e agli articoli 2 e 4 della legge 2 ottobre 1967, n. 855, per avere in concorso con altri fatto esplodere due ordigni all'Altare della Patria, in Roma, allo scopo di incutere pubblico timore e di attentare alla sicurezza pubblica.» Infine l'autorità giudiziaria di Roma ha fatto conoscere oggi ufficialmente la sua decisione di considerarsi competente per territorio in merito al procedimento per gli attentati dinamitardi di Roma e di Milano. GLI ULTIMI RISOLUTIVI COLPI ALL'ALIBI DI VALPREDA [«L'Arena», 11 febbraio 1970] L'inchiesta a carico dell'ex ballerino Pietro Valpreda, ritenuto il principale responsabile degli attentati terroristici di Milano e di Roma il 12 dicembre dello scorso anno, «continua con sviluppi molto interessanti» lo si è appreso stamane al palazzo di giustizia dalla bocca del sostituto procuratore dott. Occorsio. Sull'esito degli accertamenti viene, però, mantenuto il più stretto riserbo, poiché – si dice – le indagini sono in una fase molto delicata. Si controlla, infatti, l'alibi di Pietro Valpreda in tutti i suoi risvolti per stabilire se l'ex ballerino ha detto la verità». Stamane, prima di recarsi nel nuovo ufficio di piazzale Clodio a conferire con il giudice istruttore Ernesto Cudillo, il sostituto procuratore della Repubblica dott. Occorsio, si è incontrato con il procuratore capo Augusto De Andreis per informarlo dei nuovi sviluppi che l'indagine sta assumendo. In piazzale Clodio, il dott. Occorsio si è recato insieme con il capo dell'ufficio politico della questura di 82


Roma dott. Bonaventura Provenza, il quale era accompagnato da un funzionario. Il dott. Provenza, secondo quanto si è saputo, ha fatto al magistrato un primo rapporto verbale sulle indagini che sono in corso per stabilire se Pietro Valpreda il 13 dicembre dello scorso anno si trovava a Milano, come afferma, in casa della nonna. Gli inquirenti, com'è noto, ritengono che l'ex ballerino si sia allontanato dalla città lombarda subito dopo le tragiche esplosioni. In tal modo cadrebbe l'alibi al quale Valpreda attribuisce la fondamentale importanza di dimostrare la sua estraneità ai fatti che gli vengono contestati. Prima di ricevere il dott. Occorsio ed i due funzionari, il dott. Cudillo aveva interrogato alcune persone. La deposizione di queste ultime apparirebbe di notevole importanza per l'inchiesta e sembra destinata a riservare nuove ed interessanti sorprese. Sui recenti sviluppi, però, viene mantenuto il più stretto riserbo. I LIMITI DEL CARCERE PREVENTIVO [Giuseppe Della Torre, «L'Arena», 30 dicembre 1972] Confermando le indiscrezioni apparse ieri su qualche organo d'informazione, questa mattina la sezione istruttoria della Corte d'appello di Catanzaro, conformemente al parere favorevole espresso dal procuratore generale della Corse stessa, ha accolto la istanza in tal senso presentata giorni dal collegio di difesa ed ha concesso la libertà provvisoria per Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, Emilio Borghese e Mario Merlino. Il provvedimento – auspicato ormai da larghissimi strati dell'opinione pubblica, ma fino ad oggi inattuabile prevedendo l'art. 225 del codice di procedura penale la scarcerazione automatica solo dopo quattro anni di custodia preventiva – è stato reso possibile grazie all'entrata in vigore della legge stralcio della riforma del codice di procedura penale nella parte che attribuisce al giudice la facoltà di concedere la libertà provvisoria anche agli imputati di reati per i quali, il mandato di cattura è obbligatorio, provvedimento legislativo di grande rilievo approvato dallo scorso mese dal consiglio dei ministri. Evidentemente la notizia della disposta scarcerazione di Valpreda e compagni, 83


presunti responsabili dei sanguinosi attentati del 12 dicembre 1969, non può che essere accolta con favore da quanti hanno a cuore che la giustizia sia sostanzialmente, e non solo formalmente, giusta. Si tratta, infatti, di un provvedimento ispirato a giustizia, se si pensa che a tre anni dai tragici fatti di Milano il «processo Valpreda» non è ancora iniziato, e se si pensa che anorma dell'art. 27 della Costituzione «l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Ora non è ammissibile che in casi come questo à in cui cioè non vi sono già state condanne in primo o secondo grado, non vi sono ricorsi pendenti per motivi speciosi e gli stessi indizi nei confronti degli imputati sono molto labili – il cittadino imputato di un reato, che per la legge deve considerarsi innocente fino alla condanna definitiva, veda protrarsi oltremodo i termini della carcerazione preventiva per colpa del pessimo andamento della nostra macchina giudiziaria. Astraendo dal caso Valpreda, potremmo dire al riguardo che se, senza alcun dubbio, un ingiustificato prolungarsi della carcerazione preventiva non è giusto nei confronti di chi si è effettivamente reso colpevole del reato contestatogli, tanto più è ingiusto nei confronti dell'innocente detenuto per tre o quattro anni in attesa del processo. Chi mai potrà ripagare a costui il danno morale, sociale ed economico subito? Detto questo, bisogna però aggiungere che la nuova

disposizione della legge sulla libertà provvisoria -detta orma «legge

Valpreda» dal nome del suo più noto beneficiario, ma della quale hanno già beneficiato decine di imputati in attesa di processo – altro non è che un palliativo ai mali cronici di cui soffre la nostra macchina giudiziaria, ma nient'altro che un palliativo. DI qui la necessità, anzi l'urgenza di riprendere il discorso sulla riforma globale del nostro processo penale, per renderlo più adeguato alle esigenze di una società civile e democratica com'è quella italiana attuale, e soprattutto per renderlo più snello e più veloce. Per quanto riguarda Valpreda e compagni, è auspicabile che il processo prenda l'avvio e sia condotto sino in fondo, senza ulteriori interruzioni, il più celermente possibile. Troppo tempo, infatti, è ormai passato da quel pomeriggio di dicembre del 1969, e da troppo tempo le vittime degli attentati e la stessa opinione pubblica attendono una risposta. 84


ATTENTATI: SI CERCA DI CHIARIRE LA POSIZIONE DI DUE TREVIGIANI [«L'Arena», 20 febbraio 1970] L'on. De Poli (DC) ha scritto una lettera al senatore Ugo D'Andrea (PLI) il quale aveva presentato una interrogazione al ministro della giustizia «circa pretese interferenze di un deputato di Treviso sull'operato dei magistrati che stanno conducendo l'indagine sulle stragi di Milano e di Roma». «Credendo di ravvisarmi nell'indicazione – scrive l'on De Paoli – ritengo da parte mia atto di cortesia nei suoi confronti informarla direttamente che sono il legale che assiste il prof. Guido Lorenzon si Maserada di Treviso, come risulta dettato a verbale negli atti giudiziari in corso. Ritengo ancora di inviare, per opportuna conoscenza, copia di questa mia lettera al ministra di grazia e giustizia. Sperando di avere l'occasione di conoscerla anche personalmente- conclude la lettera De Poli – le porto i più cordiali saluti». Il prof. Guido Lorenzon, che ha 30 anni, insegna all'istituto magistrale «Madonna del Grappa» di Treviso ed è segretario della sezione DC di Maserada sul Piave, ha accusato l'amico Giovanni Ventura, editore anch'egli di Treviso, si essere coinvolto, come finanziatore, in alcuni attentati dinamitardi compiuti lo scorso anno. Ma il Ventura, dal canto suo, sostiene che in Guido Lorenzon la notizia della strage di Milano provocò in quei giorni «un corto circuito mentale e psichico, al punto da trasferire le vicende che vedeva svolgersi nel paese in un ambito di diretto dominio ed investirne persone nel caso il sottoscritto, che in realtà con quelle vicende, nulla hanno a che fare». Parlando del prof. Lorenzon, Ventura ha detto che egli «è individuo propenso a considerare alternativamente uno stesso fenomeno nella misura e nei termini più disparati; questo perché egli ha una realtà psichica molto poco equilibrata (ha già avuto negli ultimi tempi almeno un paio di esaurimenti nervosi)». «Una tesi su Celine – ha detto Ventura – per elaborare la quale lavorammo insieme assiduamente, diventò per lui, ad un certo momento, una sorta di mania, un fenomeno quasi ossessivo, al punto che si propose di scrivere un romanzo a sfondo politicoterroristico-rivoluzionario il cui tessuto narrativo avrebbe dovuto rappresentare, 85


appunto, circostanze di questo genere. DI questo romanzo mi parlò più volte, chiedendomi indicazioni su una più precisa materia di documentazione, relativa a fenomeni di organizzazione rivoluzionaria, tecnica della guerra sovversiva e, in genere, della lotta politica violenta». Quanto, il 12 dicembre, avvennero gli attentati di Milano e Roma, Lorenzon – scosso dalla notizia della strage – si recò da un magistrato di Treviso ed esplose i suoi sospetti su Ventura, in relazione appunto, agli attentati. La intera faccenda fu rimessa al giudice istruttore Cudillo il quale, a sua volta, ricevette le deposizioni dei due protagonisti della vicenda. In un secondo momento Lorenzon smentì più volte, anche per iscritto, le proprie accuse, il ventura presentò un esposto alla magistratura, ma poco tempo fa il Lorenzon ha nuovamente ribadito i propri sospetti al magistrato romano che si occupa delle indagini. Il Ventura, la scorsa settimana, è stato così convocato dal giudice Cudillo a Roma, per fornire al magistrato ulteriori spiegazioni, «spiegazioni – ha detto – che non sono stato ovviamente in grado di dargli». «Ora – ha detto il Ventura – mi trovo in una situazione di pazzesco danneggiamento nei miei confronti e non riesco a sapere assolutamente nulla circa la mia posizione in relazione alle accuse calunniose del Lorenzon». Frattanto Giuseppina Vigato Orpi, l'infermiera citata da Pietro Valpreda nel corso dei suoi interrogatori e che, interrogata dal giudice Cudillo, non ha confermato la presenza del ballerino anarchico in casa dei nonni la mattina del 14 dicembre scorso, ha ripetuto stamane a Milano di non ricordare assolutamente la circostanza. «Come ho già riferito al magistrato – ha detto la donna – non posso assolutamente ricordare se quella domenica mattina mi sono recata a casa dei signori Lovati, in viale Molise 47, per fare delle iniezioni: a quel tempo effettivamente praticavo delle iniezioni al signor Paolo Lovati, ma non tutti i giorni, anzi a periodi alternati piuttosto lunghi. Non ricordo neppure di avere mai visto in casa dei Lovati o altrove una faccia che assomigliasse a quella del Valpreda. Tra l'altro ho saputo soltanto dai giornali che Valpreda era nipote dei Lovati, gente che io conosco da tanto tempo».

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TRE ARRESTI NEL VENETO PE RUN «LIBRETTO ROSSO» [«L'Arena», 14 aprile 1971] Tre persone, l'editore Giovanni Ventura di 27 anni di Castelfranco Veneto (Treviso), il procuratore legale dott. Franco Freda di 34 anni di Padova e lo studente Aldo Trinco di 38 anni, anch'egli di Padova, sono stati arrestati in esecuzione di un mandato di cattura dal giudice istruttore di Treviso, dott. Giancarlo Stiz, per «Associazione sovversiva». Il provvedimento è stato eseguito dai carabinieri di Treviso al comando del maresciallo Murari. Primi ad essere arrestati sono stati il Freda ed il Trinco; l'editore Ventura, appena appresa la notizia dell'arresto dei due che sono suoi amici, si è costituito ai carabinieri di Treviso. I tre arresti sono da mettere in relazione alla pubblicazione di un «libretto rosso» pubblicato mesi fa da un non meglio identificato «Fronte popolare rivoluzionario», intitolato «La giustizia è come il timone; dove la si gira va» che conteneva pesanti considerazioni su due magistrati padovani (il giudice istruttore Francesco Ruberto ed il capo della procura della Repubblica di Padova, Aldo Fais). Nell'opuscolo viene elaborata una «ricostruzione» della dinamica degli attentati dinamitardi compiuti a Padova tra l'aprile del 1968 e il maggio del 1969, che coinvolsero penalmente l'ex-capo della «Mobile» dott. Pasquale Juliano ed altre persone. Nel libretto rosso sono contenute offensive e lesive dell'allora prefetto dott. Allitto Bonanno (attuale questore di Milano), dell'attuale questore di Padova, Federico Manganella e dello stesso capo della «Mobile» Juliano. Alcune migliaia di questi opuscoli vennero sequestrati alla direzione delle posta padovane ed il procuratore Aldo Fais aprì un'inchiesta, ripresa dalla procura generale di Venezia ed i cui atti vennero inviati alla Corte di Cassazione. Seguì una serie di accuse contro l'avv. Freda ritenuto, con altre persone, responsabile di calunnia e vilipendio dell'ordine giudiziario ed il relativo provvedimento è ora davanti alla Corte d'assise di Trieste «per legittima suspicione». Interrogati, a suo tempo, sia il Freda sia il Ventura negarono ogni responsabilità. La decisione della magistratura di arrestare i tre sotto l'accusa di «Associazione sovversiva» costituirebbe, tuttavia, 87


il risultati dell'inchiesta sul «libretto rosso». CASTELFRANCO: QUATTRO MANDATI DI CATTURA [«L'Arena», 24 dicembre 1971] Il giudice istruttore di Treviso dott. Stiz, ha emesso quattro mandati di cattura, a conferma degli arresti ordinati dal giudice di Padova dott. Cera ed ha disposto la scarcerazione di altre due persone ritenute estranee al ritrovamento delle armi a Castelfranco. I mandati di cattura sono stati emessi contro Franco Freda, Giovanni e Angelo Ventura e Ruggero Pan. Le scarcerazioni – che sono state già eseguite stamane – riguardano Giancarlo Marchesin e Franco Comacchio. Secondo la motivazione del provvedimento Franco Freda e Giovanni Ventura sono imputati di associazione sovversiva per avere organizzato e diretto un gruppo che aveva le finalità proprie del disciolto partito fascista, mirante cioè a sovvertire l'ordinamento sociale ed economico dello Stato, e di aver detenuto ed occultato armi, munizioni ed esplosivo e, infine, di avere cooperato alla preparazione e diffusione di libri stampati e scritti nei quali c'è, tra l'altro, propaganda ed istigazione alla sovversione e al razzismo. Per quanto riguarda Angelo Ventura e Ruggero Pan il magistrato ha considerato che occorrono altri accertamenti sulla loro posizione e che «la cautela processuale impone almeno temporaneamente la custodia preventiva». Giancarlo Marchesin e Franco Comacchio sono stati accusati, a piede libero, di detenzione di armi, accusa che li accomuna al Freda, ai fratelli Ventura, al Pan e a Ida Zanon, moglie del Comacchio, sempre rimasta a piede libero. Poiché queste accuse – secondo la nuova procedura – non prevedono mandato di cattura obbligatorio, Marchesin e Comacchio sono stati scarcerati.

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INTERVISTA A ENRICO DI COLA

Con la strage di Piazza Fontana la pista anarchica, già battuta in riferimento agli attentati della fiera di Milano in aprile e dei treni in agosto, fu rilanciata. Nonostante le affermazioni delle forze dell'ordine secondo cui le indagini erano dirette in tutte le direzioni, la sinistra risultava l'area più colpita. In questo contesto il Circolo 22 Marzo fu messo da subito sotto accusa. Quale fu la vostra reazione appena saputo della strage, con l'avvio delle indagini? Come è noto - e ben documentato - fin da subito le indagini furono dirette contro la sinistra ed in particolar modo gli anarchici, nonostante le frasi di pragmatica delle questure, soprattutto quella di Roma e Milano ovviamente, di aver indirizzato le indagini “in tutte le direzioni”. Basta leggere gli elenchi dei fermati e delle perquisizioni per rendersene conto. Oggi sappiamo, grazie ai documenti desecretati, che i nostri sospetti erano giusti e che l'unica pista seguita fu quella anarchica. Per quanto ci riguarda come anarchici e come circolo, già da diversi mesi eravamo perseguitati dalla polizia politica (fermi, controlli, minacce, pedinamenti, telefoni sotto controllo, carcere), tanto che il 19 novembre venimmo addirittura fermati “preventivamente” - in una decina di compagni – e tenuti in Questura per molte ore, al fine di impedirci di partecipare alla manifestazione nazionale per la casa indetta per quel giorno. Per uno dei tanti casi del destino, proprio la sera del 12 dicembre, dopo aver partecipato alla famosa conferenza sulle religioni nel circolo 22 marzo, io, Emilio Bagnoli e Amerigo Mattozzi ci eravamo recati nella sede della Lega per i Diritti Umani che si trovava vicino a Piazza Venezia per denunciare la polizia per questi continui abusi. Giunti lì, ci dissero che vi erano stati degli attentati, che la 89


situazione era grave, e che quindi era meglio aspettare che la situazione si calmasse per fare la nostra denuncia. Appresa la notizia tornammo immediatamente al circolo per vedere se c’era ancora qualche compagno ed informarli dei fatti. Scambiammo solo poche parole con alcuni compagni nella sede e decidemmo che era meglio andare tutti a casa per seguire le notizie e capire cosa era avvenuto. Sapevamo che erano scoppiate delle bombe a Milano, ma nulla più. Si parlava di feriti e forse qualche morto, ma tutto in modo approssimativo, tanto è vero che se avessimo saputo delle bombe all’altare della patria sicuramente ci saremmo recati lì per vedere cosa era successo prima di tornare al circolo. Restammo attoniti di fronte la notizia della strage – come credo lo fu tutta l’Italia. Il nostro primo pensiero fu che le notizie che circolavano da mesi negli ambienti di sinistra - che ci sarebbero state nuove bombe e forse mortali per provocare un tentativo di colpo di stato - si fossero alla fine concretizzate. Più che le bombe, di cui in quel momento ignoravamo l’esito mortale e l’orribile carneficina che avevano causato a Milano, avevamo timore di un imminente colpo di Stato. All’epoca non esistevano i cellulari, la Rai aveva uno o due reti televisive che, oltre a finire presto, davano le notizie col contagocce. Molti di noi erano giovani studenti che dovevano rispettare certi orari per rientrare a casa o avevano genitori che non gli permettevano di fare uso del telefono (costava). Non era quindi facile per nessuno riempire il vuoto informativo esistente per poter capire cosa diavolo stesse succedendo. Tornato a casa vidi il telegiornale e – non mi vergogno a dirlo – ebbi davvero paura. Dati i precedenti persecutori di cui ti ho parlato, almeno io, davo per scontato che la polizia avrebbe rotto le scatole a qualcuno di noi anche questa volta. Lo stato d’animo iniziale, comunque, era che dopo l’ennesimo controllo e interrogatorio ci avrebbero rilasciato (...sempre che non ci fosse stato il colpo di stato, ovviamente). Io non ebbi molto tempo per farmi tante altre domande perché a poche ore di distanza dagli attentati (intorno alle 22:30-23) fui svegliato 90


dai carabinieri, che entrarono in casa coi mitra puntati, la perquisirono e mi portarono con loro in caserma. Anche se ci sono tre verbali da me firmati, il che potrebbe far pensare a tre differenti occasioni,

devo dire che fui sottoposto ad un unico, interminabile,

interrogatorio. Fui portato in un ufficio al terzo piano dove c’era la squadra omicidi. Il “primo” verbale, riflette una parte di interrogatorio abbastanza tranquillo, poi successe qualcosa che ancora oggi mi sfugge ma che è estremamente interessante: il giorno 13 dicembre infatti, gli investigatori iniziarono a concentrare la loro attenzione su Valpreda (fate attenzione a questo particolare, perché le questure di Roma e Milano hanno sempre sostenuto ufficialmente che il nome Valpreda fu fatto solo il giorno 14 dicembre) cercando di costringermi a dire che lo avevo visto partire per Milano con una scatola da scarpe piena di esplosivo o di firmare, addirittura, un verbale in bianco che poi loro avrebbero riempito. Dopo una notte ed un giorno tenuto senza dormire, senza mangiare o bere, trattato a suon di sberle e di ogni genere di delizia tipica di questi signori, per farmi firmare quello che volevano, venni improvvisamente, e senza spiegazione alcuna, rilasciato non prima comunque di essere stato minacciato di morte. Quel tipo di domande e quel trattamento “speciale” durante gli interrogatori mi fecero capire che gli inquirenti erano disperati di trovare un colpevole ad ogni costo e che in qualche modo eravamo nel loro mirino (Valpreda quale trasportatore dell’esplosivo a Milano se non altro). Ricapitolando: fui portato in caserma dai carabinieri alle ore 23:00 del 12 dicembre e rilasciato la sera del 13. Il 14 parlai del mio “strano” interrogatorio con alcuni compagni che erano venuti a salutarmi dopo il rilascio e venni a sapere che diversi altri compagni – sia del nostro gruppo che del circolo Bakunin – erano stati prelevati e non ancora rilasciati. Insomma potemmo parlarci in pochi perché per ognuno di noi che rilasciavano ne “spariva” qualche altro e quindi era impossibile incontrarci tutti assieme per valutare quello che stava accadendo! Il mio timore era – fino a quel momento - che per placare la sete di sangue della 91


stampa, volessero buttare in galera qualcuno di noi per poi rilasciarlo – magari di nascosto e in silenzio – dopo qualche mese. Vedevo ancora le cose in questa ottica sia perché questo era lo schema che conoscevamo in quanto era quello che avevano usato a Milano per arrestare i nostri compagni per accusarli delle bombe fasciste, cioè degli attentati sui treni dell’8 agosto e quelle del 25 aprile, sia perché io e gli altri compagni (pochi per la verità) fermati dai carabinieri eravamo tutti stati rilasciati. Sapevamo con certezza che quegli attentati non potevano essere stati opera di anarchici ed eravamo – abbastanza ingenuamente devo dire – certi che alla peggio in un eventuale processo tutte quelle infami accuse sarebbero crollate (per i compagni di Milano ingiustamente accusati per le bombe fasciste ciò avverrà solo dopo tre anni, nel 1971). Il 16 dicembre sera fui gettato nell’incubo e nella disperazione leggendo dell’arresto di Valpreda e della morte di Pino Pinelli. Capii che la situazione era molto peggio di quella che pensavo e quella stessa sera iniziò la mia lunga latitanza. Quel giorno la polizia mi cercò anche se il mandato di cattura fu emesso soltanto il 6 gennaio. Ad essere precisi la polizia mi aveva cercato anche il 13 dicembre perché evidentemente i carabinieri non gli avevano comunicato del mio fermo. Durante il processo di Catanzaro nel 1974 ci fu un gioco di rimpalli tra polizia e carabinieri sul perché del mio fermo il 12 dicembre, anche perché in quel momento – e lo dice il commissario della squadra politica romana, Falvella – non vi erano ancora elementi contro di me. Probabilmente ci fu un difetto di comunicazione tra i due corpi dello Stato: ero stato fermato quando ancora “ufficialmente” non vi erano motivi per farlo. In altre parole i carabinieri furono troppo solerti nel fermarmi e furono quindi costretti a rilasciarmi, mentre la polizia stava aspettando di avere le prime delle “chiamate a correo” che dessero una giustificazione plausibile per procedere al mio fermo. Probabilmente gli serviva il secondo attentatore per l’altare della patria. Di tempo per parlare con gli altri compagni di quello che era avvenuto, di quella infame strage, per quello che mi riguarda non ce ne è stato davvero molto. 92


Caso emblematico di come furono portate avanti le indagini fu la morte di Pinelli. Da una parte si parlò di suicidio, dall'altra ci fu la ferma volontà di parlare di omicidio. Quando hai saputo della morte di Pinelli, a cos'hai pensato? Successo a Pinelli, sarebbe potuto succedere a chiunque altro? Il 16 dicembre mi resi latitante per non finire in gattabuia come Valpreda e tanto meno uscire da una finestra di questura come Pinelli. Come ti accennavo precedentemente, durante il mio lunghissimo interrogatorio fui minacciato di morte e quando lessi della fine di Pinelli mi convinsi che quelle che mi erano state rivolte non fossero più solo delle semplici minacce, ma che in effetti la polizia era anche in grado di metterle in atto (va tenuto presente che ero molto giovane, avevo da poco compiuto i 18 anni). Di persone entrate vive in una caserma o in una questura, in un carcere o un manicomio e uscite poi morte ammazzate ne sono piene le pagine di cronaca dei giornali. Non era solo un timore ipotetico che potessero avvenire certi fatti, ma era ed è una realtà conclamata. Però ti rispondo che no, non credo affatto che quello che è successo a Pinelli poteva accadere ad altri. Se andiamo a leggere la stampa anarchica dell’epoca, ci accorgiamo che nell’immediato non vi fu affatto un giudizio così preciso nel sostenere che si trattava di omicidio. Questa accusa così netta venne solo dopo qualche giorno, quando si seppero di tutte le contraddizioni nei racconti fatti ai giornalisti dai dirigenti della questura, quando arrivarono le prime indiscrezioni. In quei primi frenetici giorni vi fu una sorta di spaccatura nel movimento anarchico. Tutto ciò che dico, deve comunque sempre essere inserito nel clima dell’epoca, nel costume, e non ultimo vanno anche tenute in debito conto le tecnologie allora esistenti. Il fatto che molti compagni di “primo piano” del movimento anarchico furono coinvolti nelle perquisizioni e nei fermi non permise un dialogo tra le diverse parti. A questo va aggiunto che le telefonate interurbane erano costose (oltre che controllate) e quindi parlare liberamente tra compagni, informarsi non era cosa agevole. Si usava accennare a qualcosa e darsi un appuntamento per parlare di 93


persona. Stiamo poi parlando di una strage di tale entità, come non ne erano avvenute da molti decenni e del fatto che non solo Pinelli fosse volato dalla finestra della questura ma anche che un altro anarchico, Valpreda, veniva accusato nella stessa giornata di quella strage di innocenti. Io credo che il sentimento dominante e incontrollato, purtroppo, fu di panico. Probabilmente anche il ricordo di cosa avesse significato nel 1921 per gli anarchici l’attentato al Diana (quello purtroppo compiuto per errore da alcuni compagni) e di come la repressione avesse fatto quasi sparire le organizzazioni anarchiche dell’epoca, era ancora vivo nella mente dei vecchi militanti e quindi ci fu il becero tentativo (di difesa preventiva, lo chiamerei) di prendere le distanze da tutti i compagni coinvolti nell’inchiesta, in attesa che si chiarisse il quadro d’insieme. Sapevamo che Pinelli non poteva essere coinvolto in una porcata come quella, che non aveva nessun motivo per suicidarsi, che aveva un alibi e quindi…perché mai un innocente si dovrebbe suicidare? E poi avevamo la testimonianza del nostro compagno Lello Valitutti - in stato di fermo in questura al momento della morte di Pinelli - che ci raccontava ben altra verità. Questa convinzione, dell’omicidio, si andò rafforzando nel tempo per tutte le incongruenze delle testimonianze degli agenti presenti in Questura e la mancanza di vere indagini. Per questo io, allora come oggi, sono convinto che Pinelli è stato assassinato. E ritengo un insulto alla verità e alla intelligenza la vergognosa sentenza di D’Ambrosio sul “malore attivo”: modalità di un malore mai verificatosi prima del volo di Pinelli e mai ripetutasi dopo. Quello che successe a Pinelli, a mio parere, non poteva avvenire con nessun altro, semplicemente perché sono convinto che era Pinelli il “mostro” prescelto per le bombe di Milano. Era da molti mesi che la questura cercava di incastrarlo per gli attentati (quelli fascisti, dell’8 agosto ai treni) così come cercavano di incastrare Valpreda. Non dimentichiamo che il fermo di Valpreda, su richiesta della Questura romana, era per il famoso (e non esistente) “deposito di esplosivi” a Roma e non per le bombe di Milano. Solo con la morte di Pinelli tutto si concentra su di lui. 94


Uno dei topos che furono portati avanti dalla stampa, e che il quotidiano di cui mi sto occupando, «L'Arena», perorò fin dal 13 dicembre, fu che la strage era solo l'ultimo episodio di una violenza che imperversa a partire dalle centrali sindacali e dai partiti di estrema sinistra. Anche gli studi sul terrorismo di sinistra hanno spesso collegato i successivi episodi del cosiddetto "partito armato" ricollegandolo all'imperversare di un linguaggio anti-democratico, di matrice anti-statale. Come anarchici la vostra era sicuramente una posizione anti-statalista, ma vi riconoscevate nell'immagine violenta che vi veniva etichettata? L’immagine che veniva (e viene tuttora) data degli anarchici è completamente farsesca e quindi ben lungi da quello che siamo. E’ un’immagine stereotipata degli anarchici dell’Ottocento e che non tiene conto dei cambiamenti avvenuti nella società e tanto meno delle mille articolazioni esistenti in quello che si chiama Movimento anarchico (dal pacifismo più assoluto all’accettazione della violenza come estrema necessità, di difesa, contro l’oppressione dello Stato). Bisognerebbe poi intendersi sul concetto di violenza. Oggi si parla di “violenza” perfino quando si contesta qualche oratore di un partito politico o si occupano delle case! Certo che no, non era assolutamente possibile - neanche lontanamente - riconoscersi nell’immagine che si voleva dare di noi. Sia ben chiaro che io personalmente non mi ritengo un pacifista e non sono contrario all’uso della violenza qualora essa si rendesse necessaria. Però cerchiamo di capirci bene: noi stiamo parlando del 1969, stiamo parlando del vento di rivolta del ’68 che ancora girava nell’aria e che coinvolgeva TUTTA la sinistra extraparlamentare. E quindi si, se la polizia caricava per me non ci sarebbe stato nulla di strano a rispondere anche con le molotov (noi non lo abbiamo fatto, ma ciò non toglie che avremmo anche potuto farlo). Ma da questo a mettere delle bombe in mezzo a persone innocenti ce ne corre e tanto! Comunque il nostro circolo era appena nato e non aveva ancora una sua configurazione precisa (chi si richiamava alla FAGI, chi ai GIA chi al sindacalismo rivoluzionario e chi all’individualismo anarchico) perché non ci fu dato il tempo per poterlo fare visto che fummo colpiti mentre ancora dovevamo 95


terminare i lavori per rendere abitabile il locale (mancavano la luce, le sedie, ecc.). Gli studiosi del “terrorismo di sinistra”, sempre che tale terminologia abbia un senso per quello che riguarda l’Italia di quegli anni, sono impegnati essenzialmente in una inutile battaglia: quella di riscrivere la storia di quegli anni per accattivarsi i nuovi padroni al potere. Si aggrappano al linguaggio (il famoso dito) invece che ai fatti (la luna): vogliono cancellare le stragi (da Portella della Ginestra in poi), le mattanze di operai alle manifestazioni (centinaia di morti), le bombe fasciste, i tentativi di colpo di stato (da la “Legge Truffa” al generale De Lorenzo tanto per iniziare) , alle Gladio, alla lotta di liberazione nazionale di tanti paesi ancora colonie del nord del mondo, alla repressione poliziesca e di magistrati che in maggior parte avevano iniziato il loro lavoro sotto il fascismo, alla servitù agli USA e alla NATO e così via. Questo e solo questo ha creato le condizioni della nascita del cosiddetto “partito armato”. Basterebbe scavare nella storia italiana del dopoguerra per trovare le cause che lo hanno generato e nutrito.

Continuando dalla domanda precedente, in un articolo in terza pagina del 19 dicembre, «L’Arena» fece un collegamento diretto tra gli attentati e la cultura anarchica ottocentesca, citando Cafiero e Malatesta, e gli attentati contemporanei, portando a supporto la presenza di Cohn Bendit al congresso di Carrara del 1968. L’occhiello dell’articolo recitava significativamente «Da Bakunin a Bendit». Il quotidiano veronese inoltre rimarcava spesso la natura “individualista” di voi anarchici. Quali erano le vostre posizioni in merito all’anarchismo e all’uso della violenza? E, in particolare, ci fu da parte vostra una risposta ad articoli come quello citato, che collegavano una sorta di “cultura del terrorismo” tirando un file rounge dall’Ottocento in poi? Non ci fu, ne poteva esserci, nessun tipo di risposta a quei beceri e forcaioli articoli (ma ce ne sono stati anche di peggio!) sia perché era praticamente impossibile all’epoca conoscere quanto veniva pubblicato in altre città, ma anche e soprattutto perché quando l’articolo a cui fai riferimento e tutti gli altri contro di 96


noi vennero pubblicati, noi eravamo già in galera (io latitante) ed in uno stato di isolamento totale durato 40 giorni. Va sottolineato per i più giovani – ma anche per tanti smemorati di sinistra e di destra – che durante quei 40 giorni non fu ai compagni possibile neanche incontrare un avvocato! È quindi evidente che una volta tolto l’isolamento la prima e unica preoccupazione fu essenzialmente quella di leggere gli atti e poter finalmente rispondere a quella mole di ignobili e prefabbricate accuse. Forse sarebbe interessante discutere di quanto peso abbiano avuto i media nella costruzione del “mostro Valpreda” e della sua “banda di giovani idioti”, ma questo ci farebbe deviare troppo dalla tua domanda e richiederebbe lo spazio di qualche libro e non queste poche righe. Però non posso tralasciare il fatto che l’articolo da te citato rientra proprio in questo ambito di giornalismo-spazzatura o giornalismo-criminale come sarebbe più corretto dire. In quel pezzo il giornalista Giuseppe Brugnoli riesce a dimostrare una cosa soltanto: la sua malafede, la sua profonda ignoranza, il suo servilismo verso l’autorità costituita e non da ultimo la sua scarsa professionalità. Ricordiamo che siamo a pochi giorni dalla strage di piazza Fontana ed egli ha già la sua granitica convinzione delle colpevolezza di un uomo, e quindi delle sue idee, e questo soltanto sulla base di... qualche velina di polizia! Lo stravolgimento che questo signore opera sull’ideale anarchico e sugli anarchici richiederebbe la scrittura di un trattato solo per contestare le carognesche falsità da lui scritte. Egli estrapola a caso frasi di Malatesta o di Cafiero – sradicandole dal momento e contesto storico in cui furono pronunciate – per arbitrariamente piegarle alla spiegazione dei fatti dell’oggi! Questo signore parla della violenza anarchica nell’Ottocento dimenticando completamente le guerre ed i massacri compiuti dei regnanti dell’epoca (i vari monarchi o imperatori); della quasi totale mancanza di diritti per le classi inferiori allora esistente (in Russia vi erano ancora forme di schiavitù!). Rimuove totalmente il fatto che la fiducia nell'atto insurrezionale come strumento di rinnovamento sociale, la speranza che bastasse solo un pugno di 97


coraggiosi per dare un nuovo corso alle cose, fu tipica di tutto l'Ottocento genericamente progressista ed in particolare "risorgimentale". Gli anarchici non ebbero certo l'esclusiva di queste congiure. Prima di essi vi si erano dedicati i carbonari, i mazziniani, gente che va da Ciro Menotti a Garibaldi, cui la storiografia ufficiale si sente in dovere di tributare ben altro rispetto che a Cafiero, a Bakunin o a Malatesta. E’ proprio vero che la storia la scrive sempre il vincitore! Quel giornalista non ha neanche la più pallida idea dell’evoluzione del pensiero di Malatesta, della sua battaglia contro certi tipi di individualismo e per la creazione di una organizzazione anarchica. Non sa, ma pretende. Ignora, ma sentenzia e condanna. Quanta beceraggine e che tristezza! Sull’individualismo Malatesta scriveva a Luigi Fabbri (11 luglio 1913) scherzosamente: «Per ciò che riguarda l’individualismo è una bestia che preferisco nominare il meno possibile, perché si danno a quella parola tanti significati diversi, che ogni volta che si pronuncia bisognerebbe aggiungere un capitolo di spiegazioni. In un certo senso siamo tutti individualisti, anzi direi che siamo noi i veri individualisti, ed in un altro senso l’individualismo è il borghesismo spinto all’eccesso - e tra i due estremi si trovano tutte le gradazioni e tutti i miscugli possibili» La violenza di per sé, per gli anarchici, è nemica della libertà. Essa è una triste necessità dell'anarchismo, ma solo nella fase negativa della distruzione delle forme oppressive. Non posso parlare a nome degli altri compagni su questo punto perché non è mai stato discusso tra di noi di queste cose. Posso dirti però il mio punto di vista di allora (e credo che anche altri compagni del gruppo lo potessero condividere): Io mi rifacevo al pensiero di Malatesta, all’idea che nessuno ha diritto d’imporre con la forza, con la violenza, o la minaccia della violenza, agli altri, - e con nessun pretesto, neppur quello di fare il loro bene -, le proprie idee, il proprio modo di vivere e organizzarsi, o le leggi, ecc. Logica conseguenza di tale assunto – almeno per me - è il pieno diritto dei popoli e degli individui di ribellarsi ai governi ed ai padroni. Ribellione che in sostanza non è altro che il «diritto di legittima difesa» contro le imposizioni 98


coercitive dei secondi, i quali esercitano sui primi la loro oppressione e sfruttamento per mezzo della violenza e con la minaccia della violenza o, che poi è la stessa cosa, col ricatto della fame. Di qui la necessità della violenza rivoluzionaria contro la violenza conservatrice dell’attuale organizzazione politica ed economica della società. Questa mia posizione nulla ha a che spartire con qualsivoglia forma di “cultura del terrorismo”. L’unico filo rosso che potesse esserci tra noi e gli anarchici dell’Ottocento era quindi solamente “ideale”, nel senso che non rinnegavamo quegli atti, compiuti con grande generosità e sacrificio individuale, ben tenendo presente che vi erano distanze culturali e nella società stessa differenze abissali tra quell’epoca e la nostra, come ho già cercato di spiegare.

Ti vorrei fare un'ultima domanda a cui, forse, hai già in parte risposto. Parlando di terrorismo, uno storico autorevole quale Angelo Ventura ha scritto, parlando delle diverse formazioni del "partito armato" negli anni Settanta, che "non era in corso un pacifico dibattito politico culturale, ma una spietata guerra unilaterale, dichiarata dal terrorismo contro lo Stato e la società civile". Secondo te, si trattava davvero di una "guerra unilaterale" o c'era, forse, qualcosa di più? Io cerco di parlare solamente delle cose che conosco per esperienza diretta o che ho studiato a fondo e, in generale, non amo i tuttologhi. Nei primi anni ’70 ero già latitante (e poi, dal 1972, ero rifugiato in Svezia). Quindi posso dire ben poco su cose che, quando lasciai l’Italia, erano ancora in stato embrionale. Tenendo a mente questo, e il fatto che ancora non ho avuto l’opportunità di leggere il libro di Ventura, spero mi si perdonino alcune eventuali inesattezze. Come ho accennato precedentemente l’unica guerra unilaterale che ho potuto vedere, e che ho subito sul mio corpo, è stata quella portata avanti dello Stato stragista. Forse è il caso di sottolineare come in tutte le stragi avvenute in Italia si siano poi potute trovare le tracce dei depistaggi e delle coperture date agli 99


attentatori da parte dei massimi vertici della polizia e dei vari servizi segreti oltre che dai nostri governanti. Parlare quindi di “servizi” deviati o di “doppio Stato” è totalmente risibile oltre che mistificatorio. Come mistificatorio è l’assimilare lo Stato alla “società civile” come fossero la stessa cosa. Troppo facilmente ci si dimentica che era la società stessa in quegli anni che manifestava e urlava per chiedere giustizia e diritti per tutti, contro uno Stato immobile, arrogante, repressivo, arretrato e clericale. Lo statuto dei lavoratori (pur con tutti i suoi limiti) non venne forse approvato nel ’69? E la battaglia per il divorzio prima o per l’aborto dopo, non mi sembra abbiano subito battute di arresto a causa ”del terrorismo contro lo stato!!” all’epoca in atto. Ma stiamo scherzando? Vi era, vi è sempre stata, una guerra unilaterale contro le classi più deboli, contro gli operai, da parte dei poteri forti. Dopo la strage di Stato alcune componenti della sinistra ritennero che fosse giunto il momento di organizzarsi e rispondere a questa violenza. Di non lasciare allo Stato ed ai fascisti il monopolio della violenza. Non vi fu una stagione del terrorismo ma quella della lotta armata, che è cosa ben differente. Si può non essere d’accordo ma non si può ignorare la sua genesi, la sua consistenza numerica (anche come cultura di massa) e la sua lunga durata. Per essere credibile Ventura ci dovrebbe spiegare con chi sarebbe stato possibile affrontare un “pacifico dibattito politico culturale”: con lo Stato stragista? O forse con i terroristi fascisti? Oppure con un PCI che capitolava ogni giorno di più verso il potere ed i capitalisti e che sulle stragi si accontentava di fermarsi ai livelli bassi per non toccare i poteri forti – colpevoli di quelle stragi – nella speranza un giorno di arrivare nella cabina di comando. Ventura, come tanti i sui colleghi tende a nascondere e modificare la verità storica invece di portarla alla luce del sole per come realmente era e quindi poterla analizzare privi di occhiali ideologici.

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RINGRAZIAMENTI

Fare ricerca credo sia mostrare il proprio debito nei confronti di chi ci ha preceduto. Sono infatti convinto che una ricerca sia un lavoro collettivo. C'è innanzitutto un lavoro collettivo e, successivamente, uno individuale. Tuttavia, troppo spesso ci si dimentica del primo. Mi piacerebbe quindi ringraziare innanzitutto tutti i professori e gli amici che, in diversi modi, mi hanno lasciato qualcosa, negli studi come nella quotidianità, stimolando la mia personale ricerca culturale, passando per la filosofia, l'antropologia, la comunicazione etc. Seppur non sia possibile indicarli tutti, almeno il prof. Silvio Lanaro, che da poco è venuto a mancare, è necessario ricordarlo non fosse altro perché il suo ultimo corso di Storia Contemporanea ebbe come tema la destra italiana nel secondo dopoguerra e, proprio lì, la mia passione per la storia dell'Italia repubblicana e per la strage di Piazza Fontana ebbe modo di svilupparsi. Un ringraziamento particolare va poi alla mia compagna, Domitilla, instancabile segugio di errori nonché stimolo quotidiano e referente primo con cui discutere su dubbi o, laddove ci siano, certezze da verificare. Altrettanto importante è stata la mia famiglia senza di cui probabilmente non sarei nemmeno arrivato a laurearmi; nonostante tutte le difficoltà il percorso scolastico è stato messo al primo posto nella mia vita ed è stato fatto testardamente anche quando, per me, aprire un libro era un peso. Un ringraziamento va poi all'Istituto veronese per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea, in cui ho avuto la fortuna di fermarmi per un periodo di tirocinio e in cui ho potuto consultare i documenti utilizzati nel primo capitolo, e ai funzionari della Biblioteca Civica di Verona, sempre molto cortesi e disponibili, in cui ho consultato «L'Arena». Infine, certo non per importanza, un ringraziamento va al prof. Focardi che, prima ancora come 101


professore, devo ringraziare per lo spirito umano, mai categorico e autoritario, sempre aperto e disponibile che ha avuto nei miei confronti e, credo, nei confronti di tutti gli studenti. Ogni responsabilità di quanto scritto e per eventuali errori è ovviamente mia.

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