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colarmente necessario si è formato strada facendo. Non c’è davvero un momento in cui razionalizza, sceglie, individua un suo metodo, c’è piuttosto la consapevolezza di che tipo di Teatro, esperienza, preferire. Probabilmente gli anni di gavetta trascorsi al Rossini Opera Festival subito dopo il diploma, gli hanno anche fornito una sorta di campionario, repertorio delle possibilità di essere e fare il regista, di essere e fare lo scenografo, di concepire quindi il proprio mestiere. Calcagnini racconta infatti di aver visto, ad esempio, un numero cospicuo8 di spettacoli di Pier Luigi Pizzi - scenografo, costumista e regista - tutti bellissimi, tutti in qualche modo “riconoscibili”, iscritti cioè in uno stesso “modello”, in una stessa “cifra”. Quattro invece gli spettacoli di Luca Ronconi in quegli stessi anni al ROF, anche questi tutti belli e tutti completamente diversi. È sicuramente questo secondo modo di fare Teatro che Calcagnini preferisce, un modo nel quale uno scenografo può continuamente confrontarsi piuttosto che ribadirsi. Se gli si chiede se sia una questione di stile, risponde di no. “Sono curioso di individuare, volta per volta, lo spazio che lo spettacolo contiene. Per questo motivo sono sempre stato più interessato ad avere a che fare con i camaleonti piuttosto che con le aquile reali”. Il suo metodo e l’interesse che lo genera derivano dalla sua idea sia di Teatro sia di spazio. Lo scenografo, “organizzatore”, parafrasando lo stesso, di uno spazio dato, drammaturgico, fisico che sia, ha una concezione del teatro che non può prescindere dallo spazio, pertanto lo spazio scenico ideale non è obbligatoriamente il palcoscenico, ma ciò che ogni volta diventa tale. E da questo punto di vista si riconosce l’imprinting, l’origine del danno9, quell’idea di Teatro che sicuramente impropriamente può definirsi ronconiana.

8  Ne ricorda circa diciassette. 9  Si rimanda a pag. 23.

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