The Rope n. 4-5

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TheRope

marzo 2011

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Ritorni al Neofigurativo 4/5

Visioni Un omaggio a Fabrizio De Andrè firmato Studio Azzurro Maria Luisa Montaperto Iconosaggi Il sublime-trash Il mitema dell’Orlando Furioso nello spettacolo Messa barocca

€ 13,00 € 13 00

ISBN 978-88-89782-19-4

Ritorni al Neofigurativo

Scritture Dion & The Belmonts: gli archetipi nel rock and roll Francesco Paolo Ferrotti Sex And The City & L’Appetito Lucilla Furfaro Un solo gallo nel pollaio. Note su Hedda Gabler Gianfranco Perriera

TheRope

Le pratiche dell’immaginario come esperienza estetica “duchampiana” Giulia Raciti Cinema come “biotecnologia dei sogni” Piera Gemelli Giochi di corpi/giochi di fuoco Alessandro Cappabianca “Gli italiani si voltano”- Dal pedinamento di Zavattini al voyeurismo di Lattuada Renato Tomasino “Effetto quadro” e “Metodologia d’Archivio” nella figuratività filmica dei pittori-cineasti Giulia Raciti Cinema, fumetto e videogioco: per un’estetica del divertimento Elisabetta Di Stefano Il re-incarnato della figura. Brevi variazioni sulla Ninfa contemporanea Dario Tomasello Ariosto barocco e neobarocco Renato Tomasino Dita Von Teese e il revival neoburlesque Daniela Mannino

E F

TheRope

4/5

RITORNI AL NEOFIGURATIVO Il saggista torna sul luogo del desiderio - da Lattuada a Godard da Greenaway ad Aronofsky: il cinema come catalogo del voyeur spettrografia di ninfe e di altri corpi perversi iconologie e mitémi dall’Ariosto alla performance Premio Cinematografico «The Rope» a Immodesty Blaize

Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell’immaginario

EDIZIONI

FALSOPIANO


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FALSOPIANO

TheRope 4/5


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TheRope 4/5 Ritorni al Neofigurativo Il saggista torna sul luogo del desiderio - da Lattuada a Godard da Greenaway ad Aronofsky: il cinema come catalogo del voyeur spettrografia di ninfe e di altri corpi perversi iconologie e mitémi dall’Ariosto alla performance Premio Cinematografico «The Rope» a Immodesty Blaize

Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell’Immaginario


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TheRope Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell’Immaginario

Direttivo: Maria Angela D’Agostaro, Elisabetta Di Stefano, †Giuseppe Pernice, Piera Gemelli, Rino Schembri (vicedirettore), Barbara Tomasino, Renato Tomasino (direttore responsabile) Redazione: Giulia Raciti

Numero quattro/cinque Rivista semestrale 2010 Registrazione presso il Tribunale di Palermo, nr.14 08/05/2007;

Redazione e amministrazione: LUM Michele Mancini Università degli Studi di Palermo Palazzo dei Principi Aragona Cutò, 90011 Bagheria (Pa) Tell. +39.091.23860778 Web: www.lum.unipa.it Mail: redazione.therope@homail.it lum@unipa.it

© Edizioni Falsopiano - 2010 Via Bobbio, 14/b 15100 - Alessandria http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri Stampa: Lasergroup - Milano


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SOMMARIO

Ritorni al neofigurativo 4/5 Editoriale

p. 7

Le pratiche dell’immaginario come esperienza estetica “duchampiana” Giulia Raciti

p. 8

Cinema come “biotecnologia dei sogni” Piera Gemelli

p. 31

Giochi di corpi/giochi di fuoco Alessandro Cappabianca

p. 42

“Gli italiani si voltano”- Dal pedinamento di Zavattini al voyeurismo di Lattuada Renato Tomasino

p. 51

“Effetto quadro” e “Metodologia d’Archivio” nella figuratività filmica dei pittori-cineasti Giulia Raciti

p. 71

Cinema, fumetto e videogioco: per un’estetica del divertimento Elisabetta Di Stefano p. 82 Il re-incarnato della figura. Brevi variazioni sulla Ninfa contemporanea Dario Tomasello

p. 97

Ariosto barocco e neobarocco Renato Tomasino

p. 104


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Scritture Dita Von Teese e il revival neoburlesque Daniela Mannino

p. 145

Dion & The Belmonts: gli archetipi nel rock and roll Francesco Paolo Ferrotti

p. 148

Sex And The City & L’Appetito Lucilla Furfaro

p. 168

Un solo gallo nel pollaio. Note su Hedda Gabler Gianfranco Perriera

p. 171

Visioni Un omaggio a Fabrizio De Andrè firmato Studio Azzurro Maria Luisa Montaperto

p. 210

Premio Cinematografico “The Rope”

p. 244

Iconosaggi

(La sgranatura di alcune immagini è una scelta redazionale) Il sublime-trash Il mitema dell’Orlando Furioso nello spettacolo Messa barocca


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Ritorni al neofigurativo

È ancora il puro scintillio della forma che vince sul contenuto, è ancora un piacere d’organo, quello della vista, che scivola sulle superfici delle immagini e conduce alla catarsi. Insomma, la si chiami fenomenologia scopica o sintagmatica del desiderio, è ancora una volta il neofigurativo, ovvero l’estetica del neoformalismo militante e impudico di The Rope, fatta di oggetti di desiderio trasbordanti di quell’accumulo visivo riconosciuto colpevole di beanza e di dispendio, di dissipata capitolazione del corpo e delle sue energie fisiche e spirituali, ossia di tutto ciò che presiede all’istanza spettatoriale sia della scena sia dello schermo, e che fa il voyeur e il suo perverso diletto. Dunque, anche in questo numero, la forma neofigurativa continua a inseguire le traiettorie del manque che aizza la pulsione scopica, ricercando statuto ontologico nelle pratiche “alte” e “basse” dell’immaginario. Ci si inabissa così nelle voragini superficiali delle apparenze con Immodesty Blaize e Dita Von Teese, maliziose e ammiccanti regine del neoburlesque, si celebra il primato significante della metafora nella grande spettacolarità barocca di Luca Ronconi, e si riabilita la vista metonimica che saltella irresponsabilmente di dettaglio in dettaglio nelle visioni “dei piedi” connotative del cinema di Tarantino, e infine, per il puro e improduttivo piacere orgasmico della visione, ci si perde dietro la macchina da presa di Lattuada nel pedinamento del femminile. Tutto ciò è reazionario. Certo. Nel senso “che reagisce”. Reagisce al messaggio, al valore, al “politicamente corretto”, allo “utile dulci”, all’autore, al progetto, insomma all’omologazione culturale. Di globalizzazione si può anche naufragare, in dispendio e dolcemente: che nessuno osi dire che non si può e non si deve. Contro di lui l’immagine neofigurativa reagisce incedendo terribile e sferragliante di luce, come il dio di Omero che porta la peste. E poi… anche se avessimo voluto cambiare registro, a richiesta si replica e, sia detto senza iattanza, la richiesta dei lettori è stata in questo caso davvero sorprendente.

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Le pratiche dell’immaginario come esperienza estetica “duchampiana” di Giulia Raciti L’intreccio dei concetti di Arte ed Esperienza Estetica interseca, già a partire da Art as experience 1 di Dewey, produzione e fruizione; tuttavia le categorie con le quali si è costituita l’Esperienza Estetica si sono in un certo qual modo opacizzate. Infatti, il magma di inclusione contraddittoria al campo di enunciazione artistico contemporaneo travolge altresì l’estetica, che ora non può più riconoscersi entro la coesa intelaiatura teorica istituita nel Settecento con Batteux. Crolla dunque la classe delle definizioni: Bello, Brutto, Sublime e Arte con la A maiuscola, cessano di essere i concetti fondanti dell’esperienza estetica, la quale ricerca adesso nuovo statuto ontologico nell’immaginario, ovvero il regno del Simbolico. È questo il nuovo luogo dello spettatore in cui i processi fruitivi sono esperiti entro quella dialettica di obversione che invera il passaggio dall’estetica del piacere all’estetica del godimento 2. Quindi, per colmare lo iato esistente tra l’Arte e l’Esperienza Estetica, occorre ripensare i concetti parlando proprio la lingua dell’immaginario, cioè dell’immaginario lavorato dall’arte e dalla moltitudine di pratiche della spettacolarizzazione globale. Si propone pertanto di guardare all’immaginario come al nuovo paradigma per serrare al desiderio epistemologie e persino scienze 3, e si suggerisce inoltre di leggerne le opere alla maniera di un ready-made di Marcel Duchamp. L’artista Dada è l’eponimo del primo punto di rottura epistemologica che inaugura l’arte contemporanea, la quale palesa sin dalla culla la tendenza all’autodistruzione. Infatti i readymade di Duchamp mandano in frantumi le solenni leggi sulle quali si è edificato il Sistema Arte: se quest’ultimo è stato da sempre supportato dal tabù dell’incesto 4, ovvero dalla violazione dell’accoppiarsi con la Cosa stessa, infrangere il tabù significherà allora causare il tracollo autoreferenziale del sistema; origina quindi da qui l’interdetto dell’opera d’arte a unirsi con se medesima, onde essa deve essere piuttosto consanguinea alla Cosa, esibirne cioè la sua imitazione. Fountain (1916), lo scandaloso readymade duchampiano, viola il tabù dell’incesto, dal momento che espone la Cosa in luogo della sua rappresentazione 5, perciò è un’opera ontologicamente incestuosa. Siamo d’innanzi alla transustanziazione dell’oggetto qualunque in arte, che vede come sua conseguenza l’annientamento sia del concetto di mimesi 6 sia di quello di opera d’arte e di bellezza. È pertanto 8


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il collasso dell’impianto estetologico forte creato nel Settecento da Batteux 7, il quale nel suo saggio Le Belle Arti ricondotte a un unico principio, correla i concetti di Arte, Bello, Genio, Gusto e Piacere. A seguito di una simile frattura l’Arte non è più in grado di produrre bellezza, non può più perciò essere fruita all’insegna del piacere, bensì all’insegna della dialettica del godimento estetico 8, che va al di là del principio del piacere 9, e fonda il suo statuto sulla medesima logica di contraddizione che muove il desiderio. È in questa duplice inversione dialettica che si inaugura la Non-Arte, ossia opposto dell’opposto dell’Arte. Duchamp dichiara infatti: «Sono diventato un non-artista […] sono un respirateur e mi piace da morire» 10. Ma la NonArte raggiunge l’apice quando l’autore acconsente a far replicare i suoi readymade in copie seriali, assimilando originale e duplicato: due livelli estetici autocontraddittori che ora si sostengono vicendevolmente, sino a mostrare il sommo grado di omogenizzazione nella Boîte-en-Valise (193541), il duplicato in miniatura delle opere dell’artista, dunque l’iper-readymade per eccellenza. È la copia, di copia tendente a più infinito, perché nel Sistema della NonArte l’originale sfuma nella sua riproduzione, quindi la copia platonica si fa rappresentazione priva di ogni referente, di ogni origine e di ogni originale, operando così la distruzione innocente del platonismo 11 a seguito di cui l’arte diviene radicale orplhelinage ontologico 12, simulacro orfano, scritto nella carenza del Nome del Padre. L’originale dissipa così nell’autoreferenziale, consegnando l’Arte alla sua duplicazione. È questo lo statuto de l’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica 13, l’epilogo del manufatto unico e irripetibile che provoca, secondo Walter Benjamin, la fine dell’unicum, quindi la conseguente perdita dell’aura. Tuttavia nell’immagine seriale avviene un incremento esponenziale della dimensione auratica, cosicché, più che di perdita dell’aura, sarebbe forse più appropriato parlare di perdita ontologica del referente reale, che si fa simulacro, acquista cioè quel surplus di esistenza virtuale, tale da divenire immagine in potenza, moltiplicabile e riproducibile, ma destinata per suo statuto a restare immateriale. Ed è proprio a una simile immaterialità dell’immagine a cui si riferisce anche Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore 14, il primo manifesto sullo sdoppiamento dell’uomo nell’epoca della riproducibilità tecnica. Pirandello afferma infatti:

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«Gli attori di cinema si sentono in esilio quasi anche da se stessi, perché la loro azione, il loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi non c’è più: c’è la loro immagine soltanto» 15.

Le parole dell’autore danno voce al sentimento di dolore di un corpo strappato, trasmesso in un altrove dove è ridotto a mera ombra. È questo il prezzo dell’offerta sacrificale del corpo al medium cinematografico, la belva che lo fagocita riducendolo a residuo. Il corpo traslato nello schermo vive quindi nella condizione congiunta di presente e passato, come atto/traccia flagrante di memoria; ossia il referente intrattabile di cui parla Barthes 16, o ancora, l’animalità dell’immagine in movimento, per dirla con Artaud 17. La consegna del corpo alla riproducibilità tecnica infrange pertanto il primordiale tabù del “mettersi in immagine”, generando così quello scollamento attoriale, dato dal trauma del rivedersi nello schermo 18, causa di uno shock da riconoscimento dovuto alla messa in forma del sé quale doppio. Così, divenuti impalpabili superfici figurative, gli individui come Gubbio acquistano nuova coscienza di sé, ovvero scoprono, citando le parole dello stesso Serafino, di «esser coscienti di non essere più io» 19. Tuttavia, tale consapevolezza giunge solo all’interno del processo di alterazione e duplicazione nel quale ci si scopre altro da sé. L’identità del cinema si costituisce quindi nella dialettica di duplicazione e obversione, la medesima che definisce l’immaginario, vale a dire l’universo di codificazione simbolica in cui si scrive l’esperienza estetica contemporanea fruita all’insegna della logica del godimento, attivata dall’identica contraddizione del desiderio. Infatti l’immaginario per sua definizione non è inesistente, piuttosto è alla lettera “perverso” 20, come perverso è il desiderio, che trova e perde di continuo il suo oggetto, in un unico e solo gesto, poiché perde, solo ciò che ha già trovat, esercitando quella coazione a ripetere che va al di là del principio del piacere 21. È il gioco del Fort-da, lo stesso che avvia le fondamentali articolazioni simboliche e introduce alla scena della rappresentazione 22. Il cinema rafforza visivamente questa mitica intermittenza di allontanamento e avvicinamento dell’oggetto di desiderio, enfatizzando l’alternanza di presenza e assenza anche tramite il ricorso al meccanismo di embrayage/débrayage, ossia movimento centripeto e centrifugo 23 volto a magnificare la fascinazione libidinale dell’immagine, simbolo dell’eterno e inappagato oggetto di cupidigia. Quindi è proprio l’impossi10


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bilità di attingere alla Cosa in sé, a sollecitare il godimento estetico, che poggia sulla mancanza costitutiva del desiderio. Il cinema è dunque immagine-movimento che magnifica la materia, esalta la pelle delle cose, il derma della realtà, operando, come sostiene Artaud, una sintesi di immanenza e trascendenza, da cui prende forma una transustanziazione laica degli elementi 24. La settima arte si appropria così della poetica duchampiana del readymade, perché transustanzia in arte oggetti e soggetti qualsiasi, precipitati nella vertigine di riproduzione e raddoppiamento propria dell’immaginario. Avviene per questa via il passaggio dall’imitazione alla simulazione. Infatti il principio di simulazione sostituisce il principio di realtà: è il reale riprodotto che diviene iperreale, vero più del vero, illusione di quella potenza del falso, già messa in luce da Baudrillard ne Lo Scambio Simbolico e la Morte 25. Morte dunque, ma non dell’arte, bensì di ogni referenza alla realtà! Sicché la morte dell’arte, postulata alle soglie dell’Ottocento da Hegel, coincide con la morte dell’Arte bella, relativa quindi alla deriva della forma classica, che trascende adesso nella deriva dell’Arte nell’Immaginario. Infatti la Non-Arte si dà entro la dialettica di obversione dell’immaginario, poiché afferma se stessa solo quando è negata, e trova nella ricorsività di questa duplice inversione la sua identità. Allora, se «Lo spirito assoluto è lo spirito che si ricapitola da solo quando ha piena coscienza del suo essere» 26, ci troviamo, parafrasando Hegel, innanzi all’avvento di una nuova fenomenologia, in cui l’arte acquista coscienza solo nella duplicazione e nella riproduzione. È la stessa ricorsività che definisce il nuovo statuto ontologico dello stadio video, ovvero manifestazione dello Spirito che si riflette, e nel riflesso rimanda sempre a se stesso, divenendo doppio, icona, simulacro autoreferenziale. Dunque, il doppio come luogo fondante dello spettacolo, DNA della riproducibilità tecnica, perché è proprio nel raddoppiamento dell’identico che lo stadio dello specchio si trasforma in stadio del video 27. In un tale stadio l’immagine riflessa non adempie più a fondare la funzione dell’Io 28, al contrario, la riflessione invera adesso il chiasma obversivo nel quale la dualità fra je e il moi mostra il raddoppiamento parodico del soggetto, svelandone la dis-identità, cioè la consapevolezza, già presente in Gubbio, di non essere mai se stessi e sempre più e meno di se stessi. È in questo processo dialettico di negazione della negazione che il Si11


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gnificante Re è nudo, perché spogliato dalle sue convenzioni simboliche, come nudo è il Sé: siamo nel vuoto del soggetto lacaniano, che è puro riferirsi di sé con sé 29. È quindi la crisi del Simbolico, che sfocia, ancora una volta, nella logica autoreferenziale del readymade secondo cui è sufficiente l’intenzionalità di porre in opera un oggetto qualunque, affinché questo acquisisca statuto artistico. Ed è proprio la consapevolezza del “porre in opera l’opera” a determinare il primato dell’ideologia dell’evento, in nome della quale si innesca quel cortocircuito fra arte e vita, che apre le porte al processo di estetizzazione del quotidiano, divenuto un topos costitutivo dell’esperienza estetica contemporanea. Dewey infatti in Art as Exsperience propugna che l’arte ritorni alla sua radice estetica originaria, ovvero quella esperienziale, annovera perciò fra i processi estetici anche i normali processi biologici, quali il camminare e il respirare 30. L’assimilazione dei concetti di Arte ed Esperienza inaugura dunque una nuova fenomenologia del corpo, che guarda a se stesso come medium deputato per ricercare un’esperienza estetica. Tuttavia, quest’ultima non può ora prescindere dall’imporsi egemonico di quelle dottrine tese a ripensare l’arte nei termini di oggetto-evento 31, nelle quali il bello non è più relativo al piacere, ma piuttosto all’accadere, a quell’esser-presente che diviene l’attualità in atto 32, espressione di una processualità del farsi evento insita all’opera d’arte contemporanea, propria delle forme artistiche dell’happening e della performance. Così, la postulata identità di Arte ed Esperienza diviene il credo di tutte quegli orientamenti estetici del Novecento basati sull’equazione fra arte e vita. Infatti, l’imperativo di vivere la propria vita come un’opera d’arte è già presente nelle avanguardie storiche, basti pensare in tal senso agli accadimenti futuristi 33, e diviene il topos di molte tendenze artistiche sviluppatesi a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, nelle quali si riscontra l’intento programmatico di esasperare fino al parossismo la tesi deweyana, per cui l’arte come esperienza estetica, deflagra in arte come esperienza traumatica 34. E se il trauma delle avanguardie storiche ha determinato il collasso dei recinti di senso simbolici, il trauma delle neoavanguardie ricerca invece il Reale. Si tratta di un trauma non ascrivibile entro la categoria del Sublime 35, poiché la tonalità emotiva che consente di provare piacere dal dolore e di consumare lo shock a distanza, si rivela comunque inadeguata per definire l’esperienza estetica di quel Teatro della Crudeltà 36 12


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nel quale si imprimono pratiche artistiche estreme. Si parla dello stesso teatro in cui Graund Zero rappresenta forse l’evento più traumatico 37, che esplicita il suo massimo catastrofico potere per somigliare all’immagine 38. L’attentato terroristico non sarebbe infatti nemmeno esistito senza una previsione di immagine 39, senza cioè che l’evento rimbalzasse da un medium all’altro, attivando quella dialettica di riflessione che si è detto essere fondante dell’immaginario. Ma se il reale traumatico sostiene una lotta per l’immediatezza, perseguita nell’uguaglianza simbolica di arte e vita, eppur vero che, affinché il dato esperienziale sopravviva come traccia flagrante, è necessaria l’ineluttabile mediazione della riproducibilità tecnica. Così Ground Zero entra nella dialettica di immediatezza mediata, esperienza di esperienza, riflessa per mezzo dei dispositivi audiovisivi dell’immaginario, per cui, in termini logici, l’immediato non si dà, se non come momento di mediazione. L’Arte, al pari di Ground Zero, si afferma solo precipitando nel medesimo vortice obversivo. Infatti già a partire dal primo evento-accadimento, che nel 1952 vedeva impegnati Cage, Cunningham e Raushenberg, si riscontra una sostanziale presenza di dispositivi audiovisivi, in assenza dei quali l’happening sarebbe stato ineluttabilmente bruciato nell’effimero dell’hic et nunc spazio/temporale. È dunque la dialettica di immediatezza mediata a marcare tutte quelle tendenze che guardano al corpo come la fucina privilegiata delle pratiche artistiche: portando a compimento tale dialettica è addirittura possibile sostenere che la Body Art, che propugna la fenomenologia del corpo come luogo di esperienza, e conclama la logica del readymade in quanto l’artista pone in opera se stesso, non è un’arte del corpo, ma un’arte del video 40, poiché esiste solo nella sua duplicazione mediale, grazie a cui è possibile eternarla nei termini ossimorici di “durata del transitorio” 41. È lo stadio video che trasmuta i corpi in ultracorpi, smaterializzando la fisicità in mera perimetrazione bidimensionale; non è appunto un caso che molti artisti performativi, da Yoko Ono a Bruce Nauman, fino a Bill Viola, Matthew Barney e oltre, siano divenuti anche registi di vedeoarte. Sicché paradossalmente si potrebbe dire che la verità della Body Art non risiede nel corpo ma nella sua duplicazione mediale 42, perché è solo per mezzo del video che è possibile fruirne un’esperienza mediata. Infatti la condizione affinché l’arte possa esistere nello stadio video è che questa sia inserita nelle pieghe del palinsesto, legittimata e riconosciuta non dagli snodi di Gallerie, Accademie e Istitu13


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zioni museali sui quali si edifica la struttura del Sistema Arte, ossia il Grande Altro Simbolico, bensì da ciò che Senaldi chiama il Più Grande Altro Simbolico, ovvero l’immaginario massmediale, in cui trasversalmente si immettono le pratiche artistiche divenendo patrimonio dell’estetica di massa. È difatti in format televisivi come il Grande Fratello che confluiscono, fagocitate, le avanguardie e le neoavanguardie. Così, all’insegna dell’equivalenza di arte e vita, i reality show inneggiano a un’epopea del quotidiano che rivisita i fasti della Pop Art e sagoma scenari di corpi reificati, che, alla maniera dei readymade duchampiani, sono oggetti fra le cose, precipitati in quel processo di telemorfosi 43, per dirla con Baudrillard, in cui si invera una performance da schermo. In quest’immensa antropometria catodica44 si annulla il discrimine tra estetico e anestetico, poiché, nella spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita, tutto viene traslato in immagine ed elevato, al di là del suo livello di fiction, ad arte, sino al punto di trasmutare i reality-show in reality-made 45. Così, all’insegna dell’equazione di arte e vita, le pratiche dell’immaginario da un lato ricercano il Reale come esperienza estetica traumatica, e dall’altro lato, in antitesi al Teatro della Crudeltà estrema, si danno in qualità di mero intrattenimento, ovvero enjoement estetico 46. Infatti, come sostiene Wagner «La natura dell’arte moderna è l’industria, il suo fine il guadagno, il suo pretesto estetico, il divertimento» 47. Del resto, se spettacolo, come affermava già nel Settecento Rousseau 48, significa fare un prodotto che deve piacere a un pubblico, esso deve prendere forma da uno spirito che non è assoluto, ma è uno spirito divertito 49, puro enjoement, manifestazione cioè, non della bellezza e della Ragione, bensì della banalità. Di ciò è ben consapevole Andy Warhol che è stato il primo ad avere gestito con radicalità la banalizzazione dell’arte contemporanea 50, fagocitando i «brandelli di quotidiano» 51 ed elevando ad arte i meccanismi della serialità, basti in tal senso pensare a come le sue serigrafie abbiano decuplicato l’aura di noti personaggi massmediali. Sulla scia di Warhol è anche Jeff Koons, il quale ha fatto dell’elogio della banalità il credo della sua arte. L’originalità di Koons sta infatti nell’aver compreso che, a seguito della morte di Dio e della caduta delle fedi laiche, lo Spirito si è incarnato nella non santa banalità. Di conseguenza l’artista inizia a trattare la sua immagine alla maniera di un ready-made duchampiano, per cui ritrae se stesso cinto da simulacri che puntano al nulla, 14


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ossia oggetti ordinari e corpi reificati: fiori, foche, bambini, fotomodelle. È proprio in questa prospettiva che si introduce l’episodio del matrimonio dell’artista con la pornostar e personaggio politico Ilona Staller, una vera opera d’arte che consente a Koons di “salire di livello”, ovvero di trasformare il banale in quella categoria indicata da Zižek come sublime-trash 52, classe estetica che decreta la fine delle crocifissioni morali e recupera l’idea stessa dello Spirito, divenuto Spirito della comunità, godimento non di Uno ma di tutti: «“I’m interested in the spiritual” a patto di intendere lo spirituale come Spirito Porcello, enjoement, forza ultramorale per la quale ogni aspetto del mondo (animalità inclusa) cessa di essere macchia o insulto, e un cazzo infilato in un ano lubrificato ha lo stesso valore del becco di un uccellino che fruga negli stami di un fiore o di una rosa di cera su una torta di compleanno» 53.

Da una tale angolatura il matrimonio con Cicciolina consente a Koons di riuscire laddove lo sterile Duchamp e il single Warhol avevano fallito, cioè partorire un figlio che sarà il nuovo essere carismatico, l’Unto per eccellenza. Infatti, se una pornodiva è la donna di tutti, suo figlio non potrà che essere il Figlio di chiunque, unto non dal Signore bensì dalla banalità. Così, senza più scaldalo e colpa alcuna ma solo all’insegna del puro godimento estetico, Ludwig Staller-Koons è la nuova opera d’arte, frutto della Macolata Concezione fra i lombi sacri di una pornodiva e un artista. Ecco che lo spirito Porcello si incarna in Ludwig, il bambino cosmico-storico, colui che nell’arte oltrepassa la negazione filosofica del Nome-del-Padre 54. Dunque, ricapitolando, la dimensione auratica e sacrale dell’arte si è definitivamente dissolta, così come dissolta è la bellezza; tuttavia l’arte non è morta, essa continua a sopravvivere come trauma o come intrattenimento, ma esiste solo nell’inversione dialettica inerente allo stadio video, poiché «Il mondo reale si cambia in immagini e le immagini divengono esseri reali» 55. È questa l’obversione dell’immaginario, cioè del nuovo luogo dello spettatore, in cui si scrive l’esperienza estetica post-hegeliana. Così, se il filo rosso che raccorda a livello alto Pitagora, Aristotele, San Tommaso, Shopenhauer, sino a Debord, attesta che si ha un’esperienza estetica quando si assume l’atteggiamento dello spettatore 56, si delinea 15


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adesso ciò che Debord, sulla scorta di Hegel, chiama nuova coscienza spettatrice 57, volta a definire quell’esperienza estetica che si attua nelle trame del desiderio e coincide con la totale immersione nella potenza del falso, nel suo carattere scenografico e dichiaratamente ornamentale, insito altresì al teatro, inteso come gusto per la messa in scena, per la mitologia e per lo sbalorditivo. È il trionfo della teatralizzazione dell’arte preconizzata da Nietzsche, il quale ammoniva: «Che il teatro non diventi signore di tutte le arti!» 58. Ma poiché «l’arte contemporanea non riesce più a essere contenuto di conoscenza nella forma della bellezza, declina nel gioco nell’arbitrio e nell’ironia» 59. Quindi, nel punto apicale dello stadio video, l’arte sembra adempiere al suo fine ultimo già indicato da Jean-Baptiste Dubos 60 nel Settecento: evitare la noia. Tutto infatti è play, puro dispendio segnico che inneggia all’elogio della banalità e al sublime trash, fissando la nuova esperienza estetica nella finzione esasperata e riconoscibile come tale. Non stupisce pertanto che Walt Disney sia uno dei più noti e colossali dispositivi di immaginario. Dysneyland è infatti la creazione di un universo nel quale l’immaginario si dà come esperienza estetica. Non sorprende quindi che al suo interno vi si possano riscontrare gran parte dei meccanismi di fruizione spettatoriale insiti alla contemporaneità, ossia l’immersione totale dello spettatore nella potenza del falso e nello spazio delle immagini, che in questo caso coincide con l’immersione in un’opera d’arte totale evocante l’utopia wagneriana del Gesamtkunstwerk; ma soprattutto Dysneyland determina un’appropriazione della logica del readymade, poiché eleva ad arte un’esperienza qualunque di vita quotidiana, portando quindi a compimento l’equazione di arte e vita, che, come si è riscontrato, si innerva nell’estetica a partire da Dewey. Disneyland è perciò l’immaginario che deborda nella vita, trasfigurando lo spirito di entertaiment in artentaiment: con ciò si evince che non è più l’arte a imitare la realtà, bensì è la realtà a imitare l’arte, attivando così quel processo che Senaldi chiama disneyficazione dell’esperienza estetica 61, nel quale si annulla il discrimine fra realtà e finzione. «Qui, tutti sono attori in un certo senso e si capisce che sia così importante filmare o essere filmati […] A Disneyland è lo spettacolo stesso a essere spettacolarizzato; la scena riproduce quel che era già scena e

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finzione – la casa di Pinocchio o la nave spaziale di Star Wars. Non solo entriamo nello schermo invertendo il movimento di The Purple Rose of Cairo di Woody Allen. Ma dietro lo schermo c’è solo un altro schermo» 62.

Così, mentre il protagonista della Rosa Purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985) ha compiuto un inno alla funzione metalinguistica 63 deflorando con il proprio corpo la soglia dello schermo e uscendo fisicamente fuori dalla finzione del film, l’esperienza estetica, al contrario, compie il movimento inverso precipitando nella finzione. Insomma, nella baudrillardiana Disneyland universale fra spettacolo della realtà e realtà dello spettacolo non c’è cambiamento di statuto: si resta nell’immagine. Si impone dunque con veemenza quell’assioma costitutivo dell’età neobarocca secondo cui la concorrenza tra realtà e immaginario porta l’una e l’altro a surrogarsi: non resta dunque che piegarci al potere fascinatorio del simulacro: «[…] è di simulacri che dobbiamo trattare, dotati di tutte quelle caratteristiche di duplicazione, similarità, serialità, sacralità e svuotamento d’oggetto che da sempre definiscono il potere di fascinazione dei “simulacri”: sul fantasma della divina e sacra superficialità del mondo – l’immagine infinitamente riprodotta – si gioca oggi una nuova cosmogonia, propiziata dalle nuove liturgie simulacrali» 64.

Note Cfr. J. Dewey, Arte come esperienza,(a cura di) G. Matteucci, Palermo, Aesthetica, 2007. 1

2

Cfr. M. Senaldi, Enjoy! Il godimento estetico, Roma, Meltemi, 2003.

R. Tomasino, Editoriale The Rope, «The Rope – Grafie di Spettacolo e di pratiche dell’immaginario», Edizioni Falsopiano, Alessandria 2007, n. 1, p.7.

3

4

Cfr. S. Freud, Totem e tabù, trad. it. Milano, Electa, 1998.

5

Cfr. M. Senaldi, cit, p.17. 17


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W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, trad. it. Palermo, Aesthetica, 2004, p. 273: «L’espressione mimesis è post-omerica. Di certo nacque insieme ai riti e ai misteri del culto dionisiaco. […] Con il nome mimesis-imitazione si indicano le attività rituali del sacerdote, composte di danza, musica e canto. […] Nel V sec. A. C. il termine imitazione passò dal linguaggio cultuale a quello filosofico. Iniziò allora a designare la riproduzione del mondo esteriore». 6

7

L’estetica come sapere sistematico nasce nel Settecento per opera della classificazione di Charles Batteux, il quale riconduce le sette Belle Arti a un unico principio: l’imitazione della natura, o meglio, della bella natura, filtrata cioè dall’elaborazione dell’artista. Nel medesimo impianto teorico le Belle Arti non producono utilità, bensì piacere, perché generano bellezza, sono concepite dal Genio e fruite grazie alla facoltà parallela del Gusto; inoltre il loro quid è dato dall’Artisticità: ne consegue che esse sono sorelle, costituiscono cioè il Sistema delle Sette Belle Arti. Cfr. C. Batteux, Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, (a cura di) E. Migliorini, Palermo, Aesthetica, 1990.

8

Cfr. M. Senaldi, cit.

9

Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piacere, trad. it. Milano, Spirali, 1980.

Cfr. J. Gough-Cooper, Effetti su e intorno a Marcel Duchamp e Rose Sélavy, (a cura di) J. Caumont, Milano, Fabbri-Bompiani, 1993.

10

11

G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 233-234.

12

M. Senaldi, cit, p. 154.

Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. Torino, Einaudi 1974. 13

L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi, vol. II, Milano, Mondadori, 1973.

14

15

Ivi, p. 586.

18


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16

Secondo Roland Barthers l’essenza della fotografia risiede nella sua doppia condizione congiunta di realtà e passato. Tale essenza è appunto intrattabile, poiché appartiene alla categoria del passato: la cosa, ovvero il referente, è stato là, e ne rimane solo l’atto-traccia eternato dalla fotografia. Cfr. R. Barthes, La camera chiara, trad. it. Torino, Einaudi, 1980. Cfr. A. Artatud, Scritti di cinema in Opere complete III, a cura di E. Fumagalli, Firenze, Libero scambio, 1981.

17

Agli esordi dell’avvento del medium cinematografico gli attori, specie quelli che traghettavano la loro arte dal teatro al cinema, provavano una violenta reazione di rifiuto e di spavento nel rivedersi in immagine traslati nello schermo. A tal proposito Sadoul racconta che la divina Sarah Bernhardt addirittura svenne la prima volta che assistette alla proiezione de La dame aux camelia (1911), che la vedeva impegnata come attrice. Cfr. V. Valentini, Teatro in immagine. Eventi performativi e nuovi media, Roma, Bulzoni 1987, p. 65. 18

19

L. Pirandello, cit, p. 650.

20

R. Tomasino, Editoriale The Rope, cit.

21

Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piacere, cit.

22

R. Tomasino, Storia del teatro e dello spettacolo, Palermo, Palumbo 2001, p.

58. Cfr. C. Metz, Cinema e Psicoanalisi. Il significante immaginario, trad. it. Venezia, Marsilio, 1980. 23

24

Cfr. Artaud, cit.

Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. Milano, Feltrinelli 1994. 25

Hegel nella Fenomenologia dello spirito definisce lo spirito assoluto come la forma di rappresentazione di un Altro, che diviene adesso l’attività propria

26

19


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del sé. Cfr. G. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. Milano, Rusconi, 1995, p. 1047. Cfr. J. Baudrillard, Videosfera e soggetto frattale, in AA. VV. Videoculture di fine secolo, Napoli, Liguori 1989. 27

Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, in Scritti, vol. I, trad. it. Torino, Einaudi 1974.

28

29

M. Senaldi, cit., p. 207.

30

Cfr. Dewey, cit.

R. Diodato, Esperienza Estetica e interattività, in Esperienza Estetica a partire da John Dewey, (a cura) di L. Russo, Palermo, Aesthetica, 2007, cit. 137. 31

Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia 1994, p. 64. 32

33

L’idea di accadimento si riscontra anche nel Dadaismo, infatti, per quanto i dadaisti siano stati i diretti concorrenti del Futurismo, molte loro pratiche di tipo performativo erano simili alle serate futuriste, se non da queste mutuate. Cfr. G. Dorfles/A. Vettese, Il Novecento, Bergamo, Atlas, 2003, p. 150. 34

Cfr. M. Senaldi, cit, p. 83.

In merito alla concettualizzazione del Sublime si veda: Pseudo Longino, Il Sublime, trad. it, Palermo, Aesthetica, 1987; E. Burke, Inchiesta sul bello e il sublime, trad. it. Palermo, Aesthetica 1998; M. Costa, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, 1990. 35

36

Cfr. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1978.

37

Cfr. M. Senaldi, cit, p. 83.

38

R. Tomasino, I cavalieri del caos, Palermo, L’Epos, 2004, p. 18. 20


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39

Ivi, p. 32.

40

M. Senaldi, cit, p.125.

41

Cfr. T. Adorno, Teoria Estetica, trad. it. Torino, Einaudi, 1977.

42

M. Senaldi, cit, p. 137.

Cfr. J. Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, trad. it. Firenze, Giunti, 2006, p. 41.

43

44

M. Senaldi, cit, p. 137.

45

Ivi, p. 240.

46

Ivi, p. 215.

Cfr. R. Wagner, L’arte e la rivoluzione, trad. it Milano-Napoli, Riccciardi 1955, pp. 307-308. 47

Cfr. J. J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli , trad. it. Palermo , Aesthetica, 1995.

48

49

M. Senaldi, cit, p. 214.

Cfr. J. Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, trad. it. Giunti Editore, Firenze 2006, p. 28.

50

AA. VV., La parola nell’arte: ricerche d’avanguardia nel ’900. Dal futurismo a oggi attraverso le collezioni del Mart, Skira, Milano 2007, cit., p. 673. 51

Cfr. Slavoj Zizek, L’isterico sublime: psicanalisi e filosofia, trad. it. Mimesis, Milano 2003.

52

53

M. Senaldi, cit, p. 214.

21


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54

Cfr. Ivi, pp. 215, 216.

55

G. Debord, La società dello Spettacolo, trad. it, Milano, Sugarco, 1971, p. 90.

W. Tatarkiewicz, cit., p. 324: «Shopenahuer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, afferma che l’esperienza estetica è unicamente contemplazione. L’uomo ha questa esperienza quando assume l’attegiamento dello spettatore. […] Questa definizione dell’esperienza estetica rispondeva ad una concezione diffusa da secoli, di cui parlava già Pitagora, nondimeno era altresì presente in Aristotele e San Tommaso». 56

57

G. Debord, cit, p. 230.

58

F. Nietzsche, Il caso Wagner, trad. it. Milano, Mondadori-Adelphi 1979, p.

29. 59

Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. Torino, Einaudi, 1997.

Cfr. J. B. Dubos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, trad. it. Palermo, Aesthetica, 2005. 60

61

M. Senaldi, cit., p. 65.

M. Augè, Disneyland e altri nonluoghi, trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1997, cit., pp. 21-24. 62

63

La funzione metalinguistica è una delle funzioni indicate dal semiologo e linguista russo Roman Jakobson che circoscrive il circolo della comunicazione ai seguenti elementi: mittente, messaggio, destinatario, codice, canale e contesto. Per Jakobson ad ogni elemento della comunicazione corrisponde una precisa funzione, perciò è possibile parlare rispettivamente di una funzione espressiva, poetica, conativa, metalinguistica, fatica, referenziale. Cfr. S. Gensini, Elementi di semiotica, Carocci, Roma 2002. 64

R. Tomasino, I cavalieri del caos, cit. p. 72.

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Il sublime trash 1. R. Mutt (M. Duchamp), Fountain, 1917, Ready-made cosĂŹ riprodotto nella rivista The Blind Man (foto di Alfred Stieglitz). 2. M. Duchamp, Boite-en-valige (scatola in valigia) 1941-1948. 3. A. Warhol, Orange Marilyn, 1964 - serigrafia tratta dal poster del film Niagara (1953) di Henry Hathaway. 4. J. Koons, Michael Jackson e scimmietta, 1988. Porcellana, (3 esemplari): New York, Sonnabend Gallery. 5. J. Koons, Bourgeois Bust - Jeff and Ilona, 1991 (part). 6. J. Koons, Ilona on top, 1990, opera appartenente alla serie Made in Heaven. 7. J. Koons, Ilona on top, 1990, opera appartenente alla serie Made in Heaven.

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Cinema come “Biotecnologia dei sogni” di Piera Gemelli a proposito di: Enki Bilal Immortal ad Vitam, Francia, (fantascienza) 2004 Kazuaki Kiriya, Kyashan-La Rinascita, Giappone (fantascienza) 2004 Darren Aronofsky, L’Albero della Vita, USA (fantascienza) 2006 Marc Caro, Dante 01, Francia (fantascienza) 2008 “Dopo una lunga guerra durata cinquant’anni la Repubblica Federale della Grande Asia, aveva vinto sull’Unione Europea, ponendo sotto il proprio dominio la quasi totalità dei territori di Euroasia”. Inizia così con una voce fuori campo Kyashan - La rinascita (K. Kiriya, 2004). È l’Oriente l’Impero del Neofigurativo. Si aprono su un sole rosso le immagini della città invasa dalle masse e da una moltitudine di bandiere e foglietti rossi: lo scienziato sta per presentare la sua nuova scoperta. Entra un proiettore, parte il fascio di luce, inizia la visione. Il nome è neocellule, esse avendo la capacità di diffondersi in qualunque tessuto, possono considerarsi come l’origine di tutte le cellule dell’essere umano, di tutti gli organi interni sicuramente fino ad arrivare ai nervi alla pelle alle ossa ai capelli. Mettendo in coltura queste cellule manipolandole, noi potremo creare gli organi a noi necessari quando vogliamo e nelle sole parti interessate. Qui si tratta di quello che abbiamo sempre sperato “la biotecnologia dei sogni” 1.

Lo scienziato è il mago della visione, che ci introduce nelle nuove forme del cinema come “biotecnologia dei sogni”. “Senza bisogno che i registi lo sappiano e ci mostrino di saperlo, il cinema sa bene di essere lui (e mostra di essere lui stesso) lo scienziato folle. È il cinema a impegnarsi direttamente nella costruzione di nuovi corpi, nuove sensibilità, nuove protesi elettroniche” 2. Il cinema della “biotecnologia dei sogni” presenta le sue creature ibride, non si tratta di corpi unitari perfettamente suturati, ma di corpi rizomorfi che costituiti da neocellule/pixel si ramificano, diffondendosi dentro il tessuto del film. Questo lavoro di creazione/manipolazione interviene dunque dentro i vari livelli delle immagini, nella pelle, nelle ossa, e scorrendo come un flusso elettrico all’interno dei 31


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nervi, tende all’estremo le forme e le superfici rendendole così iperboliche e lucide da deflagrare nel caos. Appartengono a questa schiera di corpi mutanti, Immortal ad Vitam (E. Bilal, 2004), Kyashan-La Rinascita (K. Kiriya, 2004), L’Albero della vita (D. Aronofsky, 2006), Dante 01 (M. Caro, 2008). Essi pur non essendo perfetti, si configurano come nodi, link di connessione tra sfera estetica e tecnologie, costituendosi per la loro struttura nodale come passaggi che mettono in luce il dna dell’immagine ibrida 3. Immagini come organismi viventi che delineano galassie e vortici, figure spiraliformi, labirintiche e ad anello, “scienza e tecnologia, percepite, non solo utilizzate. Colte nel presente di un ingorgo, nella spirale dell’attimo, in uno jetzt, non nella sequenzialità di una linea. Ciò che unifica è il sentire e dunque la radice, il luogo fondamentale del sentire” 4. Kyashan-La Rinascita (K. Kiriya, 2004), è allo stesso tempo nodo, spirale e labirinto, gorgo che risucchia lo spettatore nel vortice visivo. La vista è un’ossessione, la signora Midori malata incurabile vive in uno stato di quasi totale cecità. Il prof. Azuma cerca la cura per strapparla alla morte attraverso la creazione di queste neocellule. Combattere la morte-cecità attraverso un potenziamento della visione per mezzo di neocellule che si innestano sul corpo dell’immagine. Come lo scienziato mette in cultura queste cellule manipolandole, il cinema crea i suoi corpi mutanti all’interno delle vasche di liquidità digitale. Kyashan è un film-neuroide, che mischiando cartoon, videogioco, videoclip, fotografia di moda, bianco e nero, seppia, colori acidi, genera un ibrido dalle forme ipertrofiche legate dal loro stesso ritmo. È come se nel magma del flusso visivo si aprissero delle stanze da gioco virtuale, e i corpi degli attori, allo stesso modo dello sguardo dello spettatore rimbalzassero da una stanza all’altra come palline da flipper. “L’oscillazione tra scelte diverse stordisce per l’intensità cromatica e la velocità delle immagini […] fra le diverse opzioni che il digitale può offrire, il regista le sceglie tutte, creando un’opera eccessiva, ridondante, annichilente come il mondo ipertecnologico che descrive” 5. La forma in questo vortice esplode in superficie riflettente, attraversata da linee cinetiche e allo stesso modo i corpi dei personaggi diventano tracce grafiche, spesso solo schizzi subordinati al movimento dello sfondo. Il corpo di Kyashan una volta rinato con le neocellule, aumenta a dismisura di massa muscolare per cui ha bisogno di una tuta, la body suite, senza la quale la sua pelle cederebbe fino a scoppiare. Come il corpo di Kyashan anche il corpo reale ha bisogno di manipolazioni per adattarsi all’ipertrofia della forma. Così come il corpo di Kyashan 32


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diventa cartoon, il corpo reale passando attraverso quella “camera del corpo” (body suite) che è il virtual set e il compositing muta di consistenza e forma. La “camera del corpo” agisce sull’immagine filmica annullando qualsiasi differenza tra corpo reale e corpo virtuale, umani e neuroidi, spazio reale e spazio disegnato, trasformandoli in un continuo flusso cromatico e slittamento di luce. Così, nella scena del primo combattimento dopo la rinascita di Kyashan, si alternano inquadrature in cui i personaggi sono fermi ed è lo spazio a muoversi attorno a loro, ad altre in cui partecipano a questo movimento roteante diventando essi stessi linee cinetiche. Tutti gli elementi che compongono l’inquadratura hanno tempi di movimento diversi, e contemporaneamente attraverso il lavoro della macchina da presa, partecipano del moto complessivo. Vediamo quindi i fogli bianchi che circondati da un alone abbagliante svolazzano in una tempo rallentato quasi sospeso, poi l’ambiente che attraverso piani che esplodono e vengono avanti, si anima al ritmo sincopato della musica, e infine i personaggi, fermi punti di convergenza o sorgenti di irradiazione delle linee dinamiche o che in alternativa divengono essi stessi linee di movimento, grafie bidimensionali fluttuanti in spazi multidimensionali. Se in Kyashan-La Rinascita l’immagine come un organismo vivente si sviluppa per gorghi e per vortici, in The Fountain - L’Albero della vita (D. Aronofsky, 2006) lo fa ramificandosi. Il film attraverso tre tempi storici diversi pone al centro della storia la ricerca dell’Albero della Vita per vincere la morte e salvare la donna amata, da parte di Thomas Creo, triplicemente il Conquistador, lo Scienziato, l’Astronauta. L’Albero diventa la metafora perfetta del nodo di connessione, dell’immagine filmica che si ramifica nello spazio e nel tempo, alla base della creazione metamorfica del cinema come “biotecnologia dei sogni”. Izzie spiega a Tommy il mito della creazione “e questo è l’Albero della Vita che spunta dal suo ventre, il suo corpo divenne la radice dell’albero, che germogliò e formò la terra, la sua anima diventò i suoi rami che crebbero dando vita al cielo, rimase solo la testa del primo padre allora i suoi figli la portarono in paradiso creando Xibalba” 6. Quest’ultima è la stella d’oro, la nebulosa che avvolge la stella morente, lo spazio circolare della visione mistica. «L’albero è come simbolo di tutti gli stupa buddisti un asse dell’universo i cui cerchi concentrici, o mondi che esso definisce, simbolizzano tutti gli universi possibili. Questi universi conosciuti e sconosciuti, sono so-

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stenuti dall’albero cosmico che è, prima di tutto, quello degli assi o dei centri a partire dai quali si elaborano infinite creazioni» 7.

A partire dall’Albero si diramano i tre episodi che sono collegati tra loro come degli anelli, attraverso la coerenza delle immagini, come la traccia d’oro luminosa che scorre per tutto il film alludendo e preannunciando la mistica visione di Xibalba. Questi tre episodi rappresentano altrettanti anelli della creazione verso la liberazione della forma pura. Abbiamo lo spazio del passato, costituito da scenari bui in cui i luoghi sono porosi, pieni di guglie e ghirigori memori del movimento metamorfico della materia delle opere di Ernst. L’altro anello, quello del presente è il laboratorio, situato tra suolo e sottosuolo, spazio artificiale e spazio naturale, in cui tra le vetrate asettiche e trasparenti del laboratorio, compare la crosta dell’albero con tutte le sue escrescenze. Questo anello centrale è fondamentale perché è soprattutto qua che nasce l’immagine “neocellulare” che attraversa il tessuto del film fino a diventare la “nebulosa Xibalba”, e invadere tutta la superficie congiungendo micro e macro. Nella prima scena ambientata nel presente, all’interno del laboratorio è in corso l’esperimento per curare il tumore di una cavia. Tommy visualizza le lastre, costituite da macchie gialle, il tumore cresce sempre di più. Si siede a pensare, guarda la finestra sul tetto, vede il cielo giallo oro. Il campo cromatico dell’oro attraverso la finestra invade tutta l’inquadratura. Tommy ha l’idea brillante, intuisce che la soluzione è un composto, un innesto della Natul Tortuosa, “mischialo col tuo composto […] Immagina le loro strutture piegale una sull’altra come due amanti, la donna sopra… hanno domini complementari” 8. Ecco la magia della creazione attraverso l’ibridazione. Nell’inquadratura successiva dall’alto del laboratorio, la macchia giallo oro dal centro inonda l’immagine, subito dopo Tommy guarda al microscopio. Ecco che si chiude il passaggio da micro a macro (lastre delle cellule tumorali, cielo d’oro) e da macro a micro (cielo d’oro, cellula al microscopio). L’epidemia dell’immagine invade lo schermo, corrode la materia fino a metterne in evidenza la sua struttura “liquida”. È il sogno del cinema che lavora sulla mutazione del proprio corpo-immagine, attraverso la ricerca del nucleo, della neocellula da manipolare e ricreare. È “l’utopia microscopica di una visione sempre più acuta, sempre più interna e appunto “nucleare” del mondo mediante il mezzo filmico, andando oltre la corteccia degli alberi, oltre la pelle e la superficie degli occhi delle persone (fino a un DNA dell’immagine)” 9. 34


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In L’Albero della vita questo non accade per mezzo dell’immagine di sintesi, quello che vediamo non è il fantasma matematico strutturale dell’immagine, ma un composto di immagine fotografica e sintetica. Lo spazio della nebulosa d’oro è creato attraverso collage di fotografie reali scattate dal fotografo inglese Peter Parks. Esse sono foto di micro reazioni chimiche che avvengono nelle capsule utilizzate dagli scienziati per coltivare i batteri, così una volta ingrandite queste forme cellulari assomigliano alle nebulose spaziali. Ma l’equilibrio perfetto di questa fusione avviene nel terzo anello, l’episodio del futuro. Tom nella posizione del loto levita nel vuoto bianco e nero di uno spazio metafisico. Il corpo ascetico di Tom si libra nel vuoto assorbendosi in uno spazio infinito di stelle, è il nero meliesiano dell’incanto, lo spazio del possibile e della meraviglia. Compare in una sfera l’albero della vita. Se la navicella è un’immagine di sintesi, l’albero è un ibrido vero e proprio, realizzato innestando su una struttura d’acciaio, modellini ricostruiti, parti di albero e cortecce vere 10. La navicella invece sembra essere una bolla di sapone, l’artificio è esibito ma con il silenzio dello stupore, l’unione di reale e digitale è una leggera sintesi perfetta. Assorbito nel nero spazio costellato di bianco, il corpo si trascende e diventa grafema, ideogramma che abita lo spazio della creazione, che vive l’infinito presente spaziale della superficie. In una scena Tom tatuandosi col passare del tempo dei cerchi che attestano la sua età come gli anelli dell’albero, diventa egli stesso albero, l’asse senza tempo simbolo della congiunzione di finito e infinito, l’anello che lega terra e cielo, l’alto e il basso 11. Ma la liberazione della forma in pura luce avviene mentre Tom viaggia all’interno della sua navicella bolla e nello spazio si spalanca la visione mistica di Xibalba. Si aprono cieli barocchi d’oro, che ricordano i cieli del Correggio, un’immensa spirale d’oro di nuvole roteanti verso un empireo di luce. Così in l’Albero della Vita lo spettatore è risucchiato all’interno del vortice spaziale, come nella poetica barocca del superamento del limite, tra terra e cielo o micro e macro attraverso il bello. Come dice Giulio Carlo Argan a proposito del Correggio, «le immagini che si formano bensì attraverso i sensi ma ne superano i limiti, sono belle: il bello non è una scelta compiuta dalla ragione tra le forme di natura, ma uno stadio superiore, di elezione, a cui ogni forma naturale può giungere spiritualizzandosi. E non è stasi ma moto, non simmetria ed equilibrio ma asimmetria e ritmo, non fissarsi dell’immagine in un valore immutabile ma mutazione continua» 12. Una mutazione continua delle forme, che approda dopo l’arrivo nello spa35


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zio indefinito costituito da materia soffice dalla lucentezza magmatica, in uno spazio della trascendenza che dai cieli cinquecenteschi italiani ci porta alle visioni spiritual-tecnologiche di Mariko Mori. Subito dopo Thomas del passato trova l’albero e lo trafigge, e mentre si ciba avidamente della linfa bianca densa e lattiginosa come liquido seminale che sgorga dalla corteccia, avviene la metamorfosi finale nell’estasi orgasmica della visione mistica. La forma esplode gonfia di piacere, il suo corpo germoglia letteralmente fino a che non viene riassorbito dalla terra, l’immagine diventa sempre più eterea fino a essere assorbita nell’indistinto del nero. La morte come atto di creazione sotto il segno del corpo spezzettato di Dioniso. Ma è nell’episodio del futuro che si opera la vera e propria metamorfosi conclusiva nel raggio di Apollo. Dal buio si passa all’esplosione di luce, attraverso cui prende forma la trasfigurazione estatica del corpo che prima avevamo visto avvenire nella terra. Il corpo si tende come un arco, si sfalda attraversato da raggi di luce che diventano fuochi d’artificio diafani, dai quali germoglia l’albero. Bianco schermo lattiginoso della visione assoluta. Così in L’Albero della vita «L’esperienza della metamorfosi è all’insegna dell’apollineo nietzschiano: sole, e della semplicità plotiniana: luce; dunque esperienza estatica della Bellezza, attinta nel fulgore dell’immediatezza. […] sulla soglia della trasformazione, dunque è l’apparire della Bellezza nella sua forma più smaterializzata, come luce […] che rende dunque possibile il passaggio tra il visibile e l’invisibile» 13. Quella che avviene a S. Giorgio in Dante 01 (M. Caro, 2008) è invece una metamorfosi sotto il segno del dionisiaco. San Giorgio è un superdotato della visione, egli non parla, non è dominato dal logos, ma vive nella poikilìa, nella dimensione totale della visione, nel caos sacro dei colori. Egli vive in una perenne dimensione mistico-estatica visualizzata attraverso i colori, la policromia ne possiede il corpo, che si torce si contrae come sotto effetto di scosse di elettroshock. Nella navicella tutti gli altri detenuti vivono sotto il dominio del logos, essi infatti possono soltanto udire, dovendo sottostare agli ordini imperanti degli scienziati che attraverso degli schermi li monitorano. Dunque anche gli scienziati avendo la visione totale come in un panopticom, partecipano del principio divino, ma la loro visione è filtrata dagli schermi, rappresentazioni, visioni prospettiche, o elaborazioni virtuali. Visioni che obbediscono all’ordine raziocinante del bianco e nero, della monocromia altra degli infrarossi, o all’ordine matematico di reticoli vettoriali dove i detenuti vengono visua36


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lizzati attraverso dei fasci di colore luminoso, colore come corpo estraneo che sfugge al controllo. A differenza dunque dello spazio/visione dell’ordine degli scienziati, anche San Giorgio partecipa del divino, ma sotto il segno del caos cromatico. Egli è un continuo sentire, è il folle, il posseduto dal divino. La sua visione è all’interno, non è uno sguardo dall’alto (come quello dei monitor degli scienziati) ma uno sguardo panico, che penetra dentro la natura delle cose, dove la forma è materia in cangiante metamorfosi. In una scena in cui è davanti lo specchio, entriamo attraverso i suoi occhi in una visione caleidoscopica dell’interno del suo volto. Non un’immagine unitaria ma una visione che dal centro si dipana in un vortice di frammenti cromatici. Egli è poikìlos. «Poikìlos è anche il folle, l’uomo devastato dalle Furie; e però anche ciò che muta e appare cangiante. […] nella visione della policromia più sfrenata la vista apre alla mente l’accesso alla follia, ma questa è manifestazione divina che giunge ad abitare il corpo. La policromia è pertanto non solo una qualità sensibile, che attiene alla percezione dell’occhio, ma una qualità della mente, almeno di quella alterata e scissa dalla sua identità» 14. San Giorgio vede all’interno del corpo dell’altro, ne visualizza gli organi pulsanti di luce e di colore e ne estirpa il male alla radice. Ancora una volta l’immagine digitale come corpo estraneo, cancro che si ramifica come lo spazio labirinto dentro cui si muovono i personaggi. Se nello spazio albero di The Fountain, le dimensioni temporali per quanto fuse e legate oscillando da un piano all’altro, erano tuttavia distinguibili seguendo le biforcazioni dell’albero, nello spazio labirinto di Dante 01 non esiste una temporalità, ma tutto si arrotola in una dimensione orizzontale di eterno presente. L’albero è verticale i suoi rami pur diramandosi nello spazio si elevano verso l’alto, il labirinto è orizzontale i suoi meandri si aggrovigliano intorno. In entrambi si ha una congiunzione di micro e macro, corrispondendo la visione cellulare all’interno del corpo alla visione dello spazio, ma se in The Fountain si opera la trasfigurazione nel bianco totalizzante della luce spirituale, qui avviene attraverso un’esplosione cromatica, non fuochi d’artificio diafani ma visioni psichedeliche. L’esplosione di Tom è centrifuga, quella di San Giorgio centripeta. Il primo si apre allo spazio arioso della luce, il secondo si lascia penetrare dai frammenti del colore, dalle schegge cromatiche. Entrambi con la loro struttura ibrida ci mostrano le cellule dell’immagine facendola scoppiare, e in Dante 01 ne vediamo il dna nei vortici elicoidali dell’ultima trasfigurazione. 37


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«Sono energie da fuori che entrano appassionatamente all’interno. Epifanie, sguardi pieni di tattilità, nomi che si moltiplicano all’infinito come un paesaggio visto da lontano, meccanismi attraverso cui vedere di più. […] Da qui inizia la pericope della Trasfigurazione da un meccanismo attraverso cui si può vedere di più, un più largo orizzonte, per vedere anche meglio dentro, cogliere una visibilità tra dentro e fuori, tra movimento e permanenza» 15. Anche qui siamo di fronte a degli innesti nel corpo dell’immagine, “Saremo tutti contaminati all’interno, infettati con dei semplici programmi informatici” 16 i detenuti sono sottoposti a “programmi di mutazione biopsichica”, nel loro corpo vengono iniettate delle capsule di nanotecnologia contenenti un programma che una volta innescato aggiunge delle sequenze che correggono il dna. Così il corpo dell’immagine e l’immagine del corpo si trasforma posseduto dal suo fantasma sintetico, dal suo scheletro di pixel che ne brucia la carne, “Prima che arrivassi tu ci è sembrato di avere il fuoco nelle vene” 17 dice un detenuto a San Giorgio. L’epidemia dell’immagine investe corpi e visi sudati esibiti in abbondanza, contorti nelle smorfie di dolore attraversati dai fasci del fuoco liquido digitale, creando così un contrasto tra carne esibita e carne digitale 18, una lotta all’interno dello stesso corpo, quello del film. Se in Dante 01 c’è il conflitto, che sfocia nell’annullamento del corpo nella policromia e nel nero, in Immortal ad Vitam (E. Bilal, 2004) c’è uno stato precario di sospensione tra carne e carne digitale che galleggia in grigi spazi indefiniti. Non abbiamo né le diramazioni dell’albero verso il paradiso, né i grovigli del labirinto verso l’inferno, ma un non-luogo, quello che nel film è detto Zona di Intrusione. Immortal ad Vitam è un ibrido galleggiante come la piramide sospesa di Horus. L’impatto negativo che ha avuto sul pubblico è dovuto anche al fatto che qui tutto sembra fuori posto, in un dialogo del film tra le creature mutanti si dice “i miei organi non sono al posto giusto”-“ non sono tutti al posto giusto... in base al criterio di che? Vedi quel monumento, quella piramide... secondo te ora è al posto giusto?” 19. La commistione tra esseri umani e esseri in CG, anziché legittimare gli uni a discapito degli altri li rende intrusi entrambi. I personaggi in CG creano fastidio, perché per la loro superficie senza pori, precisa e levigata, ci danno l’idea di inquietanti marionette che hanno varcato la Zona di Intrusione, “sono ombre che hanno travalicato i limiti per fingere di essere corpi veri” 20. Per questa ragione risultano maggiormente perturbanti i pupazzoni che simulano gli umani, 38


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rispetto ai corpi sintetici metà uomo metà animale degli dei. La loro alterità di supercorpi è giustificata dalla loro essenza divina. Paradossalmente i corpi che appaiono più pesanti e incapaci di liberarsi nella bellezza della superficie sono proprio quelli realizzati in CG, mentre il corpo ibrido di Jill appare effimero, cangiante come il suo organismo in fase di trasformazione. Jill sembra fatta d’acqua e di luce, la sua pelle bianca e i riflessi iridescenti dei suoi capelli la rendono fugace luccichio della forma, Jill con le sue lacrime blu è l’ibrido sirena che fluttua nella liquidità del digitale. Lei appartiene al mondo delle immagini, la sua visione è esattamente opposta a quella di San Giorgio, se lui vede le cose all’interno e si trasfigura nella superficie dell’immagine, Jill è già superficie e delle cose ne vede il riflesso, le sue visioni sono sfocate e sbiadite come sogni o ricordi. Nella scena in cui entra allo Human Museum, lei è rappresentazione tra le rappresentazioni. All’ingresso ci sono ologrammi di essere umani e modellini scientifici scorticati, Jill attraverso un dispositivo vede all’interno del suo corpo, dentro una teca di vetro si trova davanti alle immagini olografiche di uomini in movimento che ricordano le foto di Muybridge. Sono tutte immagini transitorie, che compaiono sullo schermo lampeggianti. La vera zona di intrusione è il Museo, lì Jill è come se percorresse una galleria di specchi, come se si trovasse di fronte ai fantasmi del suo io mutante frantumato. La scena infatti si conclude nel bianco, dopodiché vediamo la ragazza camminare in bilico su un ponte. Jill è un’immagine precaria, clandestina perché ancora non ha forma definitiva, è la personificazione della zona di intrusione, entrambe sotto il segno della diafania. È lì, nel cuore della zona, che avviene la trasformazione definitiva di Jill in essere umano, in un paesaggio dagli iridescenti toni di ghiaccio che sembra fatto della stessa nebulosa della visione di Xibalba. Ma se in The Fountain sotto il segno della luce solare avveniva la trasfigurazione, qua tra i freddi bagliori lunari avviene l’incarnazione. Ancora una volta l’immagine come organismo vivente, opera all’interno dei suoi vortici la trasformazione. In una scenografia formata da una struttura ramificata di tubi trasparenti, all’interno dei quali passano bagliori di elettricità Jill diventa donna. Metafora di come nel sistema nervoso dell’immagine avviene l’alchemica trasformazione dell’immagine in corpo e del corpo in immagine. «E l’immagine fotografica filmica elettronica sintetica virtuale è già solo una metafora nel momento in cui per la prima volta si rivela metafora.

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Metafora del creare, del generare, del diventare mistico ciò che si vorrebbe riprendere o amare o essere. Metafora della voglia di svellersi da quella parata implacabile di fotogrammi colanti nel tempo» 21.

Cinema come “biotecnologia dei sogni” capace di scavare nel DNA dell’immagine, coltivarla nel suo laboratorio, per dar forma a transimmagini rizomorfiche che in erranza tra i livelli della superficie operano una libera e benefica epidemia dell’immaginario.

Note 1

Citazione tratta dal film Kyashan-La Rinascita.

E. Ghezzi, Paura e Desiderio. Cose (mai) viste. 1974/2001, Tascabili Bompiani, Milano 2008, cit. p. 298. 2

Cfr. L. Taiuti, Corpi sognanti, l’arte nell’epoca delle tecnologie digitali, Interzone Feltrinelli, Milano 2007.

3

L. Valeriani, Dentro la trasfigurazione. Il dispositivo dell’arte nella cibercultura, Meltemi, Roma 2004, cit. p. 143.

4

A. Amaducci, Anno Zero. Il Cinema nell’era digitale, Lindau, Torino 2007, p. 181.

5

6

Citazione tratta dal film The Fountain - L’Albero della vita.

M. Random “Introduzione Albero Cosmico” in C. Hirsch, I Simboli, L’Albero, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, cit. p. 11. 7

8

Citazione tratta dal film The Fountain - L’Albero della vita.

9

E. Ghezzi, op.cit p. 300.

Cfr. Pressbook completo di The Fountain - L’Albero della vita (D. Aronofsky, 2006), cit. p. 11.

10

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11

Cfr. M. Random, op.cit. p. 11.

G.C. Argan, Storia dell’Arte Italiana III. Da Michelangiolo al Futurismo, Sansoni Editore, Firenze 1988, cit. p.109.

12

13

L. Valeriani, op cit. pp. 66-67.

R. Tomasino, Storia del teatro e dello spettacolo, Palumbo, Palermo 2001, cit. pp. 122-123. 14

15

L. Valeriani, op.cit. p. 66.

16

Citazione tratta dal film Dante 01.

17

Ibid.

18

Cfr. A. Amaducci, op. cit, p.149.

19

Citazione tratta dal film Immortal ad Vitam.

20

Ibid. cit p. 203.

21

E. Ghezzi, op. cit., p. 539.

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Giochi di corpi/Giochi di fuoco di Alessandro Cappabianca Piedi. Death Proof (Q. Tarantino) comincia con il primissimo piano di due piedi nudi (di donna, con unghie laccate) posati sul cruscotto d’una macchina in corsa, mentre si sente musica a tutto volume. Altri piedi in aria: Jungle Julia a casa sua, sdraiata sul divano, mentre aspetta le amiche. Poi, quando sono tutte e tre in macchina, una è allungata sul sedile posteriore, con i piedi fuori dal finestrino. Analoga posizione assumerà una delle tre ragazze che vanno in macchina, 14 mesi dopo, a prendere la loro amica Zoe. Perché quest’esibizione di piedi? Non che Tarantino si limiti a questo. All’inizio, inquadra con un certo compiacimento il posteriore di Jungle Julia che si affaccia alla finestra per salutare le amiche; e poi, filma la posizione inequivocabile della mano di una di loro, mentre sale di corsa le scale perché deve fare pipì. In questi due casi, come nella lap-dance che più tardi Butterfly balla in onore di Stuntman Mike (K. Russell), le inquadrature si soffermano su particolari anatomici magari “volgari”, ma che hanno comunque a che fare col desiderio (con l’eros). I piedi invece sono oggetti da tipiche “pratiche basse”. Cosa di più “basso” dei piedi? (Sul piano erotico possono riguardare al massimo il campo delle cosiddette“perversioni”). È come se Tarantino, presentandoci una tragica storia di morte, intendesse abbassarne esplicitamente la temperatura drammatica, in modo di poterla poi rialzare all’improvviso nei momenti giusti: i piedi, allora, sono l’equivalente anatomico dei dialoghi interminabili, quasi a minimizzare, fin quasi all’ultimo, il fatto che la Dodge di Stuntman Mike sia nera, e si adorni d’un teschio disegnato sul cofano. Dettagli simbolici, certo – ma inquadrando la macchina assassina, più che sul teschio, allarmante simbolo di morte, Tarantino preferisce indugiare sul pupazzo di Paperino che funziona da marchio sul cofano stesso. (Si potrebbe anche dire: da marchio del cinema di Tarantino, anche se con Bastardi senza gloria, come vedremo, le cose cambiano un po’). Niente a che fare, p.e., con l’enorme, grottesca maschera demoniaca che Stephen King si compiaceva di esibire sul cofano del TIR che guidava la 42


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rivolta delle macchine ribelli nel suo Brivido (Maximum Overdrive, 1983), richiamo anche troppo esplicito alle tematiche del film. Stuntmen e Auto/Games. Ci siamo chiesti spesso, vedendo e rivedendo Death Proof, se le sue vere protagoniste, invece d’essere le ragazze o Stuntman Mike, non siano le macchine (la Dodge nera di Mike, quella bianca che Zoe vorrebbe provare), alla fine impegnate in un vertiginoso duello/inseguimento. Nella seconda parte del film, com’è noto, una sorta di contrappasso colpisce Mike, che resta preso al suo stesso gioco. Forse bisognerebbe riflettere, però, sulla ragione di fondo che determina la sconfitta finale dell’assassino, e io credo sia importante il fatto che, se Mike è uno stuntman (e la sua Dodge è appunto una macchina da stuntman, rinforzata per resistere agli urti più tremendi), Zoe Bell a sua volta è una stuntwoman, che va matta per compiere temerarie acrobazie sul cofano di macchine lanciate a tutta velocità. Kurt Russell non è uno stuntman, ma un attore che interpreta la parte di uno stuntman. Zoe Bell è una vera stunt-woman, qui promossa al rango d’attrice, nella parte di se stessa. Dunque non deve meravigliare che in un duello di urti, scontri e acrobazie, Zoe vinca, sia pure con l’aiuto delle sue amiche; ma quello che intendo sottolineare è che sia lei sia Mike, nell’economia degli effetti speciali dilatata dall’elettronica, rappresentano la sopravvivenza di una figura classica (e in parte obsoleta) come quella della controfigura, basata sulla presenza reale d’un corpo che ne sostituisce (illusoriamente) un altro assente. Insomma, Tarantino gioca ancora con i corpi, senza neppure “travestire” quello di Zoe Bell. Pensiamo invece al segmento Planet Terror, del suo sodale Rodriguez. Il fatto che alla ballerina Cherry venga tagliata una gamba, e sostituita prima con la gamba d’una sedia, poi con una mitragliatrice (sicché diventa lei stessa una specie di micidiale mitragliatrice umana) non ha niente a che fare con la verosimiglianza, ed è un’operazione tutta concepita all’interno di manipolazioni elettroniche. Lo stesso si può dire per le pale dell’elicottero che, girando, decapitano i sickos (rispetto ai quali, gli zombi di Romero diventano modelli di realismo). Le automobili di Tarantino sono comunque “guidate”, nel senso che hanno qualcuno al volante, anche se questo qualcuno dà spesso l’impressione di essere lui a lasciarsi condurre dal mezzo meccanico (dalle 43


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pulsioni che esso scatena). Nel settore fantascienza possiamo scorgere, potenziata dagli effetti elettronici fino al punto di abbandonare ogni pretesa di verosimiglianza, l’avvento dell’estetica dei video-game: si pensi alla Camaro gialla di Transformers, che è la metamorfosi (sempre reversibile) d’un “robot transgenico” e quasi impone d’essere scelta al giovane Sam (l’eroe del film) che si è recato col padre ad acquistare una macchina presso una rivendita di auto usate. Il venditore filosofeggia pro domo sua: “È un legame mistico quello che unisce l’uomo alla sua auto. Non è il guidatore a scegliere la macchina, ma la macchina che sceglie il guidatore”, ma ciò è proprio quello che avviene – Sam sceglie la Camaro, perché in realtà la Camaro ha scelto lui. Siamo qui, se si vuole, all’estetica della Hasbro e dei suoi giocattoli trasformabili di plastica (confermata da Transformers 2), mentre il video-game trionfa in Speed Racer (dei fratelli Wachowski), tra colori sgargianti, scie di luci e macchine luminescenti che sembrano sfrecciare vertiginosamente, quasi volare, lungo circuiti dalle curve improbabili, attraverso dislivelli impossibili. Sappiamo che, in realtà, le macchine erano modelli costruiti al vero, ma senza motore, e stavano ferme, solo un po’ sballottate da piattaforme rotanti, mentre a muoversi attorno a esse erano gli sfondi disegnati dalla computer graphic: ma in tutto il film gli oggetti, i corpi, i paesaggi, perdono il loro volume, si smaterializzano nella luce astratta e irreale dell’elettronica. Il colore del sangue. Può il cinema perdere impunemente il volume, sia pure l’illusione del volume? Malgrado tutto, è un’illusione che i Transformers mantengono, visto che la ferraglia dei robot conserva una sua apparenza di concretezza – mentre per le macchine di Speed Racer il problema neppure si pone. Ci sembra che tra i due poli oscilli anche il cinema di Zack Snyder. In 300, l’utilizzo della IMAX, il ricorso continuo all’intarsio elettronico, la sapienza figurativa suggerita dalla grafica di Frank Miller, si concretizzano nelle inquadrature “metafisiche” di paesaggi “sublimi” (grandi cieli nuvolosi, montagne, rocce, luci irreali, campi percorsi dal vento, aperture visive “sconfinate”), ma anche nell’evidenza plastica di corpi stagliati, belli e atletici (quelli degli Spartani), oppure mostruosi (i Persiani, il traditore Efialte). Schizzi di sangue, in battaglia, volano dappertutto, invadono lo schermo, come le frecce che “oscurano il sole” – è vero che, a 44


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differenza delle frecce, non si posano a terra, come se evaporassero prima, ma le cataste di cadaveri crescono con evidenza impressionante, evidentemente ispirate alle vecchie immagini documentarie girate nei campi di sterminio nazisti dopo la fine della guerra. Qui dunque grafica di Frank Miller e tecnica elettronica riescono a potenziarsi reciprocamente. L’una pratica tira fuori il meglio dell’altra, e viceversa. Non altrettanto avviene, ci sembra, per Watchmen, il successivo lavoro di Snyder, in cui l’ispirazione ai personaggi di Alan Moore e Dave Gibbons si concretizza (salvo alcuni momenti) in una figuratività filmica più convenzionale, che non riesce a sfruttare fino in fondo le potenzialità dell’idea di partenza: la vecchiaia, il disinganno dei Super-eroi, che si sentono messi da parte e costretti a esercitare solo l’arte della memoria, guardando vecchie fotografie e ricordando le passate glorie. Di loro, l’unico che sembra non rassegnarsi al pensionamento è Rorschach, l’uomo la cui maschera è percorsa da quelle macchie scure cangianti che presero appunto il nome dallo psichiatra loro inventore. Ma certo non è stata valutata a pieno, dai realizzatori del film, la caduta di tensione provocata dallo svelamento, che interviene a un certo punto, del volto di Rorschach, che è il volto banale d’un certo Kovacs. La maschera. Se parliamo di maschera, allora, ci sembra molto più giusta l’intuizione di James McTeigue in V per Vendetta, sceneggiato dai fratelli Wachowski, malgrado le riserve (di tipo ideologico?) che Alan Moore – autore della graphic-novel assime a David Lloyd – sembra abbia avanzato nei riguardi del film. V porta una maschera laccata, di ceramica, con le fattezze dell’anarchico Guy Fawkes, condannato a morte nel ’600 per aver tentato di far saltare il Parlamento inglese, ma il regista non gliela fa togliere quasi mai, salvo che per brevi momenti e in modo che il suo volto resti nell’oscurità: che si tratti d’un volto mostruoso, sfigurato dai criminali esperimenti biologici di medici assoldati da Setter, il Presidente/tiranno (siamo in Inghilterra, nel 2019), possiamo solo intuirlo. Nella sua fissità ghignante, alla maschera di Fawkes credo si applichino perfettamente alcune considerazioni di Jean Lorrain, che Caillois cita nel suo I giochi e gli uomini : “La maschera è l’aspetto torbido e inquietante dell’ignoto, il sorriso della menzogna, l’anima stessa della perversità che sa corrompere terrorizzando…”; ma al tempo stesso, qui di essa viene fatto un uso “politico” positivo, fino a diventare un 45


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emblema di rivolta. Finalmente risvegliati dal loro torpore, milioni di londinesi, ognuno con la stessa maschera, scendono in piazza contro il Dittatore, ed essi si, con atto liberatorio, poi se la tolgono, svelando i loro volti di cittadini comuni. Il che non impedisce al film di chiudersi con la spettacolare scena del Parlamento che salta in aria (ma il tutto si trasforma poco a poco in una gioiosa sequenza di fuochi artificiali). Cromie. In ogni caso, niente garantisce a priori la riuscita. Frank Miller è rimasto molto soddisfatto di Sin City, tanto da firmarlo in prima persona assieme a Robert Rodriguez. Il risultato lo trovo tecnicamente eccellente, ma anche un po’ gelido, come se Rodriguez avesse troppo mitigato, a malincuore, la sua più autentica tendenza fracassona. È singolare il modo in cui l’istanza grafica immette nella pratica filmica (elettronica) robuste dosi di formalismo, all’insegna degli intarsi di colore, a cominciare dalla prima sequenza: una donna inquadrata di spalle, vestita di rosso, schiena nuda, affacciata a una terrazza con vista sulla città (nera). Corpo scolpito, marcato rispetto allo sfondo, come un intarsio elettronico. Un uomo le si avvicina, le chiede “Ti va di fumare?”. Nel bianco e nero, su diversi toni di grigio, spiccano solo il rosso del vestito, delle unghie laccate, del rossetto sulle labbra, e il verde degli occhi della donna. Il fuoco dell’accendino invece è bianco, e poi tutte e due le figure si trasformano in silhouettes bianche su sfondo nero, in un processo di completa astrazione, prima che comincino a cadere gocce di pioggia e l’uomo spari alla donna con una pistola munita di silenziatore. Analogamente, un uomo (Marv) dall’aspetto mostruoso e una bionda, coricati assieme sul letto in una lurida stanza, in bianco e nero. Spiccano soltanto la coperta rossa del letto (a forma di cuore) e il giallo dei capelli della donna. Più tardi, dai tanti corpi smembrati sprizzerà sangue rosso. Più tardi ancora, sangue bianco. Da Junior, il mostruoso assassino, sgorgherà sangue giallo, quando B. Willis lo uccide. È evidente che, al di là d’ogni intenzione di verosimiglianza e di un’economia strettamente narrativa, ciò che conta qui è l’efficacia dell’impatto cromatico. Quanto all’uso del colore come elemento simbolico, tipico del cinema orientale e, in particolare, di Zhang Yimou, non posso che rimandare alla brillante analisi di Maria Angela D’Agostaro, apparsa sullo scorso numero di questa rivista. 46


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Cigarette Burns. Con Bastardi senza gloria, Tarantino va oltre, oltre se stesso e oltre ogni manierismo. Ancora una volta, vince la sua scommessa, giocando contemporaneamente su tre tavoli o versanti: il versante/dialoghi, che assume la consueta funzione “ritardante”: il versante/corpi, al cui trattamento non viene risparmiata alcuna efferatezza: il versante/cinema, che li riassume e sublima. I dialoghi mantengono la solita inusuale lunghezza, funzionale all’improvviso e fulmineo “scoppio” dell’azione. Quelli che hanno come protagonista il colonnello Landa trovano perfino una sorta di giustificazione (anche psicologica) nel fatto che il colonnello, perfetto poliglotta e spietato cacciatore di ebrei, ostenta sempre buone maniere, non ha mai fretta, né perde mai un’impeccabile cortesia da ufficiale e gentiluomo. La tecnica dei suoi interrogatori consiste nell’indugiare in maniera esasperante (esasperante per la vittima), prima di affrontare le questioni che gli stanno a cuore e mostrare apertamente il volto ripugnante del boia. Altri dialoghi presentano un legame meno diretto (ma ugualmente fondamentale) con lo sviluppo della storia. Nella taverna La Louisiane, al tavolo in cui siedono i nazisti con l’attrice Bridget Von Hammersmark (in realtà spia degli alleati), si beve birra, festeggiando la nascita del figlio d’un sottufficiale, e si gioca a “20 domande” (una sorta di “Se fosse”). A tutti viene assegnata una carta, che devono incollare alla propria fronte. Si tratta di individuare il nome del personaggio che vi è scritto sopra, ponendo agli altri le opportune domande. A ognuno, dunque, è assegnata un’identità fittizia, che ignora – ma nel gioco vengono poi coinvolti alcuni ufficiali alleati, che sopraggiungono nella taverna travestiti da ufficiali tedeschi, e allora le identità fittizie si incrociano e si sovrappongono, tra il gioco delle “20 domande” e il gioco dello spionaggio. Lo stretto legame che così si istaura tra il gusto del travestimento e quello della recitazione, non può che richiamare il Lubitsch di Vogliamo vivere; ma qualcuno, nella babele di lingue che si pretende di padroneggiare, sarà infine tradito da un accento (o da un gesto che diventa “parola” – per esempio, l’indicazione manuale del numero tre in America, diversa da quella europea). Altri dialoghi ancora hanno per oggetto il cinema degli anni ‘30/’40, quello di Pabst, di Fanck, di Leni Riefensthal, di Clouzot… E nasce l’idea 47


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di programmare la prima di Orgoglio d’una nazione, il film di propaganda nazista caldeggiato da Goebbels in persona e interpretato da un giovane soldato tedesco, Zoller, eroe di guerra e cinéphile, addirittura alla presenza di Hitler, nel cinema di proprietà di Shoshanna, una ragazza francese che in realtà è un’ebrea, a suo tempo sfuggita alle grinfie del colonnello Landa – ragazza che Zoller corteggia senza molte probabilità di successo. Sul versante/corpi, agiscono soprattutto i Bastardi, anello di congiunzione al genere “sporca dozzina”. Anche i Bastardi non disdegnano di ricorrere al travestimento e alla commedia, se occorre, o indossando uniformi naziste o (la sera della prima) facendosi passare per cineasti italiani (anzi, “siciliani”); ma loro, più Bastardi dei bastardi nazisti, sono specializzati soprattutto nell’uccidere, finendo a colpi di mazza i tedeschi che cadono nelle loro mani, incidendo una svastica sulla loro fronte, oppure togliendo lo scalpo ai morti, come era abitudine delle tribù indiane d’America: Tarantino non si fa scrupolo di mostrare perfino questo, sia pure di sfuggita, filmando i coltelli che compiono l’opera sanguinosa di staccare dal cranio il cuoio capelluto. Tutto culmina infine nella mattanza dei nazisti bruciati vivi (Hitler compreso) nel rogo del cinema Le Gamaar, o mitragliati spietatamente mentre cercano di sfuggire alle fiamme – grande rogo di purificazione, tragica catarsi, che non risparmia neppure i due giovani, Shoshanna e Zoller, che si uccidono reciprocamente, quando, in altre circostanze, avrebbero potuto simpatizzare, e addirittura amarsi, magari in onore della comune passione cinefila. La sala cinematografica è la trappola. Il nitrato della pellicola infiammabile (come Hitchcock ci ha insegnato: vedi Sabotage) innesca l’incendio. Il film, il piccolo film girato da Shoshanna, aggiunto al quarto rullo del film nazista, muta addirittura gli eventi della Storia, la riscrive, la reinventa. Il fuoco brucia la pellicola e i corpi. Ma la cultura pop di Tarantino non gli permette di concludere con un apice tanto drammatico – così, al climax segue un anti-climax e il film finisce su una battuta ironica.

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Grafie e coreografie dei corpi in azione. Delle grafie dei corpi, dei loro voli iperbolici e piroette mirabolanti, dei sublimi intarsi elettronici, dei simbolismi cromatici, che Maria Angela D’Agostaro ha così ben descritto (sullo scorso numero di “The Rope”, come abbiamo già ricordato) in relazione al cinema di Zhang Yimou (nel suo versante wuxiapian, che il cineasta cinese alterna di solito a quello “realistico”), ci dobbiamo ricordare di fronte alla La battaglia dei tre regni, il più recente film di John Woo, tornato in Cina (da Hollywood) per girare questo kolossal dall’aria vagamente celebrativa. Ce ne dobbiamo ricordare, e subito dopo dimenticarcene, perché in John Woo le grafie del corpo, sempre subordinate all’esaltazione delle traiettorie cinetiche, non hanno mai il fine (almeno, il fine esplicito) di comporsi in quadri formali armonici, tali da recuperare (malgrado l’uso del ralenti) una sorta di stasi nel cuore del dinamismo, né egli insiste mai più del necessario sulla ieraticità cerimoniale. Nel passaggio a Hollywood insomma (ma anche prima), in Woo la raffinatezza della cultura figurativa cinese si è profondamente imbevuta di umori del film d’azione, e perfino fumettistici, senza per questo involgarirsi, ma invece, all’inverso, facendo sì che fossero proprio questi umori ad assumere da quella cultura una raffinatezza inusuale. Resta vero che il ralenti, p.e., è un procedimento “grafico” per eccellenza. Scriveva lo stesso Woo: “A volte un film è pensato come una pittura, a volte come un brano musicale. E infatti il ralenti è un procedimento molto musicale. Allo stesso tempo è un modo di captare la bellezza: bellezza di un corpo in azione, di un oggetto che sta cadendo… Il ralenti è anche una questione di tempo, è uno strumento per dare ritmo a un film come a un brano musicale.” Nella Battaglia dei tre regni, in effetti, il rapporto tra musica e arti marziali viene evidenziato esplicitamente in almeno due occasioni: quando un bambino suona il flauto e Zhou You, viceré del regno Wu, gli si avvicina minaccioso (almeno sembra) con un coltello – ma è solo per aprire bene i fori dello strumento, in modo che il suono sia migliore – e poi quando lo stesso Zhou e sua moglie sono mostrati mentre si dilettano a suonare il koto, uno strumento a corda tradizionale, dal suono simile a quello della cetra. L’uso del ralenti, invece, è generalizzato, tutte le volte che occorre evidenziare l’aspetto coreografico di un’azione, i movimenti di una formazione militare, la coreografia delle truppe in battaglia, il comporsi degli scudi e il loro ricomporsi a comando in altre configurazioni, la pioggia 49


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delle frecce e l’avventarsi delle lance, i falò delle navi che bruciano… ma i duelli individuali sono filmati in rapidi flash, in un’ottica quasi da videogame che spesso elude la visione “chiara e distinta”, valorizzando le “scie” del movimento. Sarà per questo, forse, che a volte certe sequenze del film evocano, più che Zang Yimou (pensiamo specialmente a Hero, alla raffinatezza della sua simbologia cromatica), analoghe scene di 300; e altre volte invece il mondo di Zack Snyder (con il suo cromatismo uniforme, tra il marrone e il livido) sembra sideralmente lontano. Se in 300, comunque, il sangue scorre abbondante, però senza mai “depositarsi” a terra (è puro sprazzo d’energia cinetica), nella Battaglia dei tre regni è quasi invisibile, come se appunto i corpi dei combattenti fossero puri grafemi, silhouette senza volume. Piogge di frecce cadono nel film di Woo, solcano il cielo in ralenti e lo oscurano, come in 300, come in Hero, ma se in Snyder questo diventa pretesto per la messa in risalto d’una corazza protettiva di scudi e in Zhang Yimou i due guerrieri in rosso (una donna e un uomo) respingono le frecce vibrando colpi di spada a velocità vertiginosa, in Woo esse diventano l’occasione d’un furto, d’uno sberleffo al nemico, attuato con uno stratagemma degno dell’astuzia di Ulisse, per cui le navi-civetta cariche di manichini e foderate di paglia si tramutano in tanti puntaspilli (o puntafrecce) e tornano indietro con un prezioso bottino. Quella che si impone, alla fine, è una grandiosa coreografia del fuoco, dell’acqua e del vento, dove il vento dirige le navi in fiamme, spingendo in una certa direzione la corrente del fiume Yangtze. L’esperienza meteorologica dello stratega Zhuge Liang ha un peso decisivo. Investite dai vascelli incendiari, le navi del malvagio Cao Cao bruciano una ad una in un grandioso olocausto. Sarà un caso che anche qui il fuoco, come in Bastardi senza gloria di Tarantino, decida le sorti della Storia?

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“Gli Italiani si voltano”. Dal pedinamento di Zavattini al voyeurismo di Lattuada di Renato Tomasino Surclassato negli anni ’20 dai kolossal e dalle star americani, il cinema italiano rifiorisce nel decennio successivo. Il Fascismo pensa a quest’arte, che considera privilegiata per le sue dimensioni di massa, in termini analoghi a quelli del Leninismo: istituzionalizzazione di un decisivo intervento pubblico, copiosa produzione popolare “di genere” e nuovi divi, efficacia propagandistica del medium, ma anche impulso alla sperimentazione tecnica e formale. Nascono così l’Istituto Nazionale Luce con vocazione documentaristica e cinegiornalistica (a somiglianza dei Kino-Pravda di Vertov), i nuovi cineclub ma anche il circuito statale ENIC delle sale commerciali, Il Centro Sperimentale di Cinematografia ad opera di Luigi Chiarini e Alessandro Blasetti, i teatri di posa di Cinecittà miranti a centralizzare la produzione. Di conseguenza fioriscono riviste “militanti” di cinema che progettano e fanno “tendenza”. Lo stesso Blasetti fonda Cinematografo alla quale Libero Solaroli e Umberto Barbaro offriranno le tematiche formaliste dei sovietici e sopratutto la teoria della sceneggiatura di Pudovkin in tutto il suo portato sia ideologico che di modalità di produzione, ma anche l’analisi dell’impressionismo tedesco ed altri aggiornati approcci formali. Luigi Chiarini, primo direttore del CSC, fonda e dirige Bianco e Nero che potrà avvalersi della Cineteca Nazionale istituita presso la Scuola e privilegerà in prima istanza la ricerca storico-filologica e le ragioni artistiche e autorali di quel cinema “ben fatto” – francese, americano e italiano – che ingiustamente i critici del secondo dopoguerra bolleranno di “calligrafismo” in base al presupposto ideologico dell’ottica neorealista. Ma altre riviste come Primato e Cinema, dopo la guerra anche la neorealista Cinema Nuovo di Guido Aristarco, accoglieranno gli autorevoli contributi teorici di Chiarini sempre volti alla delucidazione dello “specifico filmico”. Il gruppo di Cinema – per il nostro presente excursus il più interessante – si forma nel ’39 attorno alla direzione della rivista di Vittorio Mussolini, figlio del Duce non troppo segreto ammiratore di Hollywood; il gruppo comprende, tra gli altri, Visconti, De Santis, Gianni Puccini ed i futuri dirigenti comunisti Pietro Ingrao e Mario Alicata 1. Gli interventi di Cesare Zavattini – colui che sarà forse l’unico vero teorico praticante del neo51


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realismo – sono frequenti e già ben argomentati nella direzione di ricerca sperimentale che al Nostro sarà propria, quella di un cinema analitico fondato su di una oggettiva documentazione del reale 2. Tutti concordano nell’ammirazione per le tecniche documentarie e di ripresa metropolita e/o territoriale sia del “noir” che del cinema sociale americani del decennio, fino a quel capolavoro emblematico che è Furore (1940) di John Ford. La bandiera nostrana che viene agitata è quella del Verga, narratore campione dell’oggettività verista. Tutti, dunque, vogliono restituire verità e quotidianità, ma anche il respiro del grande racconto ad una cinematografia che accusano di essere fatta dalle eleganti ma edulcorate divagazioni dei “telefoni bianchi”, da divismi e da retorica celebrativa. La battaglia “anti borghese”, che è anche culturale ed estetica, non farà fatica poco dopo a passare armi e bagagli dall’armamentario intellettuale fascista a quello marxista; tant’è, il gruppo di Cinema ama i maestri sovietici che agli addetti ai lavori è ancora possibile ammirare a Venezia e in altre poche sedi deputate. Da questo contesto nascerà Ossessione (’43) di Visconti e, a liberazione appena avvenuta, La terra trema (’48). Oltre al cinema ed alla letteratura, l’attenzione del gruppo di Cinema va alla fotografia – su questo pressato in particolar modo da Zavattini – come al primo linguaggio della “riproducibilità tecnica” votato all’oggettiva riproduzione, documentazione e analisi del reale. Del resto, scrittori ed artisti tra otto e novecento non hanno saputo fare a meno di praticare la fotografia, magari per trarne quaderni di annotazioni visuali o proprio per investigare sulla realtà, sicché furono fotografi Zola, Shaw, Hugo, Strindberg. Verga, Capuana, Degas, Michetti, etc. Ad alcuni di costoro, per esempio Michetti o Verga, il perfezionamento della tecnica fotografica aveva consentito soluzioni di linguaggio che hanno influenzato le modalità dell’altra loro arte 3. Zavattini rende consapevole il gruppo del fatto che anche gli Americani hanno conosciuto negli anni della “Grande Depressione” e del New Deal roosveltiano una fotografia documentaria di accorata incisività e di grande impegno civile con artisti come Paul Strand, H. Hine, August Sander, Walker Evans, Dorothea Lange, Margaret Bourke White. Nel lontano 1889 la celebre Paula di Alfred Stieglitz aveva cambiato un mondo: era il frammento di una narrazione che precede e segue lo scatto, non una posa. Da un’osservazione della realtà condotta con modalità specifiche era nata la “fotografia moderna”, analitica e insieme estetica. 52


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La rivoluzione tecnologica apportata in quegli anni dalle Eastman estremamente maneggevoli, e dunque dalle nuove possibilità offerte dalle “istantanee”, ben si coordinava alla rivoluzione estetica riguardante la funzione stessa dell’immagine fotografica. E tutto ciò non è stato senza conseguenze proprio sul nascente cinema dei Lumière: infatti le troupes Lumière, girovagando per il mondo, hanno fatto della riproducibilità tecnica per immagini il linguaggio della “caccia” e della conseguente analisi ad una realtà “colta alla sprovvista”, inaugurando di fatto il territorio filmico che sarà del “pedinamento”. Negli anni ’20 e ’30 Paul Strand ed Edward Weston sono tra i figli di Stieglitz. Il primo, in particolare, pensa che solo la nuova arte della fotografia possa osservare con sguardo appropriato il mondo contemporaneo, e dunque si dedica a scoprire valori compositivi, superfici, forme, contrasti inediti sia sulla natura che sugli oggetti e le industrie dell’uomo, attingendo secondo la specificità del mezzo ad uno sguardo “metafisico” che lo accompagnerà anche nella successiva fase realista tra le contrade agrarie degli USA della “Grande Depressione”, e poi tra la gente del Po, proprio in seguito ad un invito e ad un progetto zavattiniani 4. Nel ’55 uscirà infatti per Einaudi il libro fotografico Un paese, dedicato a Luzzara, luogo di nascita di Zavattini. Una parte dell’opera – 25 pose di ritratti – verrà accolta tra i fotodocumentari di Cinema Nuovo 5. A proposito del testo zavattiniano, presentato come una serie di interviste alla gente del posto, commenta lo storico della fotografia Paolo Morello: “I pretesi racconti autobiografici sono, ad una lettura attenta, pieni zeppi di espedienti linguistici tesi ad evocare, in astratto, una parlata dialettale: il cognome anteposto al nome (Benatti Giovanni”), gli anni all’età (“ho anni sessanta”), gli errori, studiati a tavolino, nella consecutio delle forme verbali [...]. L’esperimento zavattiniano, più che di obiettività neorealista, odora oltre modo di maniera e di artificio. Le fotografie di Strand, da parte sua, seguono schemi compositivi precisi” 6. Si tratta, in sostanza, di una “messa in scena” registica che mima il “pedinamento” fotografico: è questa la contraddizione, a volte fertile e foriera di opere importanti, in cui però si dibatterà sempre la poetica zavattiniana. Il Convegno di Parma voluto da Zavattini nel ’52 era stato un estremo tentativo di ridare linfa soprattutto alle ragioni “teoriche” del neorealismo, di fatto in rotta per le radicali differenze interne al movimento e, per conseguenza, per l’assenza di nuove opere che potessero assurgere 53


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al ruolo emblematico di manifesto condiviso. Tuttavia André Bazin riconoscerà via via negli anni al fenomeno neorealista, inteso come sperimentazione teorica, di avere contribuito ad aprire la strada a pratiche cinematografiche alternative rispetto al modello hollywoodiano imperante: la nouvelle vague e le nuove cinematografie nazionali, la crisi del modello spettacolare e della politica produttiva dei “generi”, il sovvertimento delle gerarchie del cast nei modi di produzione. Svolte che per essere compiute avranno bisogno, però, dell’apporto di presupposti tecnici ancora ignoti ai cosiddetti registi neorealisti, quali la semplificazione dell’illuminotecnica, la “presa diretta”, la “camera a mano”, il “passo ridotto”, più tardi il videotape e tutte le modalità produttive dell’inchiesta e della docufiction televisive. Soprattutto la posizione di Zavattini, effervescente emiliano di 50 anni, quale venne ancora una volta ribadita e precisata a Parma, prefigurò alle teoriche neorealiste queste future chances, articolando una nuova dogmatica di stile, pratiche e ideologia; pur se solo con molti “distinguo” si potevano trarre sparsi esempi dei suoi precetti neorealistici dalle opere realizzate, anche le più conclamate della triade Visconti-Rossellini-De Sica. Si precisa in quell’occasione la poetica del “pedinamento” in tutta la sua virtuale portata: rifiuto della fiction, del soggetto e della sceneggiatura apriori, dei personaggi “tipici”, siano essi eizensteiniani o da “realismo” lukacsiano o socialista, e dunque degli “eroi” con funzione proiettiva-identificativa; rifiuto allora degli attori e, tanto più, delle star; e infine del montaggio narrativo e del doppiaggio, rinnegando di fatto non solo il montaggio per ellissi del cinema-spettacolo del capitalismo americano, ma anche il montaggio ideologico sovietico, perché entrambi sovrapponevano comunque una “sintesi” arbitraria al processo di conoscenza del reale. Occorre invece praticare un cinema di “analisi”, capace di dilatare ed esplorare l’episodio insignificante, quello che si compie in pochi minuti: un cinema del “durante”, della “attualità”, che nasca da un’esigenza conoscitiva, politica, etica e che rispetti le specificità del mezzo fin qui ignorate dai processi produttivi capitalistici, o di Stato ma assimilati ad essi 7. Tra le righe, non possiamo non cogliere, oltre alla prefigurazione del cinema “spontaneo” delle lotte sociali degli anni ’60 e ’70, quella di tanto underground, dall’estetica intellettuale del cinema della “durata” di Warhol agli esperimenti militanti di guerriglia cinematografica, come nel progetto delle duemila cineprese a “passo ridotto” di cui dotare il 54


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“Black Panter” dei ghetti come sostituti delle armi 8. In ogni caso, ci sono in Zavattini accenti teorici che si coordinano al futuro sguardo fenomenologico, al Film, ritorno alla realtà fisica 9 di Kracauer (’60), con l’individuazione, certo tendenziosa, di una “specificità filmica” che si allontana dagli schematismi e dalle strutture fictioniali emblematiche di Lukács o, peggio, di Zdanov, dalla loro ottocentesca reductio del processo storico al “tipico” romanzesco 10. Contravvenendo a tali dettami, Zavattini anche su Cinema Nuovo si poneva di fatto in antagonismo con Guido Aristarco che, per esempio, esaltava Senso di Visconti in ragione di quei fraintendimenti di principio e non certo per la sua debordante stilistica simbolica e decadente 11. Secondo questo contesto vanno valutate alcune dichiarazioni pregnanti rilasciate ad apertura del Convegno parmense da Zavattini, come per esempio: “...prima chi pensava a un film, poniamo su uno sciopero, si sforzava immediatamente di inventare una trama che si potesse ben calare nello sciopero e a cui lo sciopero servisse da sfondo – e il riferimento ad Eizenstein, qui coraggiosamente critico, ci pare evidente ... – oggi al contrario ci si mette in una posizione di “rapporto” e si vorrebbe raccontare lo sciopero in se stesso, cercando di far venir fuori dal fatto crudo, documentario, il maggior numero possibile di valori umani, morali, sociali, economici, politici...”. Poi, dopo l’appello di rito ad un cinema della militanza, come l’unico capace di queste soluzioni innovative, per cui occorre “un reclutamento da parte del cinema non solo delle più grosse intelligenze, ma anche e soprattutto delle anime più “vive”, degli uomini più ricchi moralmente”, si prosegue, in antitesi rispetto all’istanza militante, con un atteggiamento fenomenologico ed a-ideologico: “un atteggiamento analitico [...] un potente movimento verso le cose: un desiderio di comprensione, di adesione, di partecipazione [...] non si tratta più di far diventare “realtà” [...] le cose immaginate – la critica alla teoria lukácsiana del romanzo storico qui è chiara – ma di far diventare significative al massimo le cose quali sono, raccontate quasi da sole [...]. Nessun altro mezzo espressivo infatti ha come il cinema questa originaria e congenita capacità di fotografare le cose che secondo noi meritano di essere mostrate nella loro “quotidianità”, che vuol dire nella loro più lunga, vera durata; la macchina ha infatti “tutto davanti” e vede le cose e non il concetto delle cose [...] penetrare sempre più nella quantità e nella qualità della realtà. Si può quindi affermare che il cinema è morale solo quando affronta in tal modo la realtà” 12. 55


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Non era stato facile mantenere e sviluppare un simile approccio al linguaggio del cinema lungo gli anni del primo dopoguerra contrassegnati dall’egemonia culturale del PCI cui il Nostro, ovviamente, aderiva. Il curatore di Americana, l’antologia del ’41-42 che agli scritti aveva unito immagini e sopratutto foto delle quali ben 27 di Walker Evans dedicate alla Grande Depressione, aveva avuto in seguito i suoi grossi guai come direttore del Politecnico, la rivista didattico-culturale collaterale al Partito, da Vittorini aperta nel settembre del ’45 con la collaborazione dell’elegante grafico pubblicitario Abe Steiner, ex compagno partigiano che ora esercitava sotto l’influsso di El Lissitzkij e Moholy-Nagy, riconoscendo tra i nuovi padri gli astrattisti Mondrian e Kandinskij. Sperimentale nella forma moderatamente “costruttivista”, multidisciplinare nei temi e aperta al dibattito nei contenuti, il Politecnico non lesinava l’ospitalità a sequenze fotografiche impaginate ad evocazione della pellicola cinematografica, documentando con lo sviluppo retorico del plot per immagini grandi eventi - come le barricate antinaziste nella Parigi del ’44 -, scioperi, problematiche sociali. Non mancavano però gli autori, per esempio proprio Paul Strand con la sua celeberrima The White Fence 13. Nel ’46 su Rinascita Mario Alicata apre il fuoco di fila contro la rivista, che non sopravviverà oltre il ’47. Con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia su un numero di Rinascita del ’51 lo stesso Togliatti sancisce l’espulsione di Vittorini dal Partito, con un trafiletto non solo brutale ma volgare – lui così forbito, di solito, nel suo umanista linguaggio crociano – mimante un improbabile dialetto siculo da commedia nel titolo: “Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato”. “Credeva fossimo liberali, invece siamo comunisti”, spiega nel pezzo il segretario del Partito 14. A Zavattini viene indubbiamente a mancare una sponda di dialogo nella sua battaglia per un cinema della documentazione e della presa diretta sul reale, avverso alle tipizzazioni eroiche della imperante tradizione realista ed alla “fabula” romanzesca. Da questo punto di vista “tendenzioso” l’analisi zavattiniana di quanto si è fatto, cioè del “neorealismo” storico, è tutto sommato impietosa: “Paisà, Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette, La terra trema, contengono ognuno alcune cose di una significatività assoluta, che rispecchiano il concetto del tutto raccontabile; ma sempre in un certo senso traslate perchè c’è ancora un racconto inventato [...] in certi film come Umberto D il fatto analitico è assai più evidente: sempre però nell’ordine tradizionale. Ma non siamo ancora al neo-realismo” 15. 56


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Inoltre, preconizzando un democratico ed etico abbattimento dei costi – istanza che già prefigura il sistema produttivo underground - immagina poi un esercito di giovani autori, meglio cineasti, pronti a “mettersi in marcia” per conseguire questa nuova eticità–socialità del cinema, con accenti che tuttavia rinviano alla concezione leninista e gramsciana dei compiti dell’artista e dell’intellettuale, aggravata da una critica di principio all’immaginazione ed alle pratiche della fiction-spettacolo proprie del capitalismo. Naturalmente, ci sono sempre stati dei “modi favolosi” per analizzare la realtà – anche nello stesso cinema zavattiniano – e ben vengano anche quelli, trattandosi di modi espressivi naturali nell’uomo. Ma il neorealismo avrebbe fatto capire che “la vera funzione del cinema non è quella di raccontare favole” e sarebbe questo l’assunto che metterebbe in marcia migliaia di nuovi cineasti. Quel che resta del neorealismo storico secondo il Nostro è allora, sopratutto, un lascito morale dettato da una nuova emozione sconvolgente. Scriverà l’anno dopo su Vie Nuove: “Dopo anni di una vita di maniera scopriamo il nostro paese. Questo miracolo che la letteratura era ancora incapace di compiere lo compiva il cinema [...]. Ci siamo accorti che l’Italia aveva un corpo vivente, gremito di uomini. Abbiamo scoperto la Sicilia e le borgate di Roma [...] ci siano accorti dello stupore che c’era negli occhi del popolo italiano mentre dopo la catastrofe scopriva ancora la vita. È la luce di quello stupore che ha illuminato la strada dei successi del cinema italiano nel mondo intero. Bastava che la macchina da presa fissasse una qualsiasi immagine della vita popolare italiana, perchè la carica di vita di quella immagine sorreggesse da sé tutto il film...” 16. In nome di questa emozione, ma anche di questa nuova ortodossia non si risparmia, di fatto, l’assalto a Pudovkin ed alla sua concezione, tutto sommato “capitalistica”, della sceneggiatura come asse di collaborazione e modo di produzione, infatti: “sono il fatto tecnico e il fatto capitalistico che hanno permesso l’equivoco della collaborazione [...] ma un conto è che ci si sia adattati a queste esigenze imposte dalla struttura attuale del cinema, un conto che esse siano indispensabili e necessarie” 17. Non si accorge, Zavattini, che il bozzettismo da commedia, il voyeurismo vellicante, sono in agguato nei suoi stessi assunti, se li si liberano dal dogma ideologico militante. Così, per esempio, tra i fatti filmabili e analizzabili fino alla dilatazione di un intero film documentaristico, cita la “tranche de vie” di una donna che va a comprarsi un paio di scarpe: “Basterà scoprire e far vedere tutti gli elementi che sono dentro questa 57


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‘banale avventura quotidiana’, e subito essa diventerà degna di attenzione e quindi a suo modo ‘spettacolare’” 18. L’esercito in marcia dei nuovi cineasti può passare così dai principi militanti alla pratica del voyeurismo, in parole chiare può divenire un militante esercito di guardoni, filmici s’intende. Per la prima volta Zavattini ha parlato di “pedinamento” nel ’47; progettando una rivista per la Bompiani che non verrà mai realizzata, propone proprio al reietto Vittorini di tenervi una rubrica consona alle sue caratteristiche di scrittore: per ogni numero dovrebbe pedinare un tale, uno qualsiasi, e poi fare il resoconto di questo “pedinamento” 19. Ma proprio sull’aristarchiana Cinema Nuovo, primo numero del 15 dicembre ’52, appare la definizione più dettagliata del termine: “Vorrei fare un film (ne ho parlato a Chiarini e a Maselli) in cui si vede lei quando si alza, cosa dice al figlioletto di due anni, come si pettina, le prime parole che scambia coi vicini [...] e così avanti, il suo cibo, il suo lavoro, il suo sonno. Ci vuole pazienza, pedinarla, e dove si può coglierla di sorpresa” 20. Sembra di leggere il progetto di Anna, il futuro bellissimo underground di Alberto Grifi. E invece – Zavattini nolente – è per un verso l’anticamera della “candid camera” o, ma il metodo è lo stesso, del fotocine-giornalismo scandalistico e d’assalto. Infatti continuerà su un altro numero di Cinema Nuovo, quasi adombrando la pratica professionale del paparazzo: “Il poeta (alias il cineasta) [...] faccia un buco nel tetto, abiti nella casa di fronte [...] diventi spazzino o amico del figlio. Il poeta è poliziotto o istrione perfino, se deve esprimersi. A poco a poco lo stesso teleobiettivo sembrerà un mezzo antiquato” 21. Ma è anche vero che quel “pedinamento” è in sostanza il principio della “commedia all’italiana”, così infatti su un altro numero ancora, proponendo i tanti temi possibili, dopo aver accantonato quello di una “famiglia operaia” che a taluni potrebbe riuscire di scarso interesse, elenca: “i soldati; i preti; le donne incinte; la giornata di una città, di una nazione; i ladri; gli assassini; i generali; il mondo del calcio; le banche; la notte; i ricchi; i vizi del nostro tempo; - La dolce vita è già forse in agguato? – un viaggio da...a...; una mattina in assise, in pretura – verrà fatto da Steno in quello stesso ’53 – i poliziotti; le serve Milano Roma Napoli – Dio sa quante nella nostra Commedia... – nascita e morte degli Italiani; Torino, Venezia e avanti per un mese [...] se l’inchiesta è la formula, i modi sono infiniti come quelli della poesia” 22. 58


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Proprio Cinema Nuovo, paradossalmente dati i suoi assunti in realtà realistico-lukácsiani assai più che “neorealisti”, su suggerimento di Zavattini si fa veicolo tra il ’54 e il ’56 di reportage fotografici di “pedinamento” accompagnati da didascalie, tra i tanti fotografi: Ugo Mulas, Livio Zanetti, Chiara Samugheo, Cecilia Mangini, Angelo D’Alessandro, Paul Strand, Enzo Sellerio, Domenico Rea, Olga Neville, William Klein... insomma un Gotha! Si tratta di una formula ibrida tra il foto-documentario giornalistico e la proposta di un film da fare: ma la distanza tra le due cose deve tendere a zero, secondo quanto scrive con insistenza il Nostro. Tuttavia, le distanze con il dossier fotografico da rotocalco, con la foto-inchiesta curiosa o scandalistica si accorciano anche quelle. Infatti tra i temi che compaiono, alcuni trasudano impegno ed altri spingono proprio in questa direzione, come: Il Grand Hotel di Benedetto Benedetti e Giancarlo Fusco sulla vita dell’Excelsior del Lido di Venezia durante la Mostra; Eterno mio sogno di Livio Zanetti e Piero Pisoni sul mondo dei fumetti, Le bellissime di Antonio Ernazza e Franco Pinna sulle giovani aspiranti miss; Via della passerella di Carlo Bavagnoli sulle giovani aspiranti ballerine d’avanspettacolo che affollano la Galleria di Milano 23 ... immagini, echi, temi, confessioni scabrose e voyeurismi che già occupano non solo i rotocalchi, ma le “commedie all’italiana” e proprio film-inchiesta come L’Amore in città. Per esempio, l’ultimo fotodocumentario, attraverso il “pedinamento” di una finta aspirante-ballerina, una giovane attrice che in realtà replica se stessa, offre una drammatica e partecipata “messa in scena” di quotidiani comportamenti alla moda, sogni infranti, prostituzione e degrado, illusioni, che non lesina però in morboso voyeurismo sul corpo e sull’anima femminili. Già nel ’49, con Riso Amaro, Giuseppe De Santis tradisce l’assunto zavattiniano che era stato di Roma ore 11, perduto dietro al corpo impudente di Silvana Mangano in pantaloncini arrotolati, maglietta striminzita e cappellaccio di paglia, icona dolente e vulcanica che lancia la voga del Mambo all’italiana e impone a quella cruda storia di mondine delle risaie un plot fotoromanzesco. Sicché la Mangano si replicherà, irresistibile, in Mambo (’54) dell’americano Robert Rossen e altrove, compreso il melò Anna (’51) di Lattuada. È proprio la componente erotica, infatti, che giunge a rinvigorire il “cinema popolare” insieme e solidarmente alla divertita, graffiante componente della satira di costume. Questa nella “commedia all’italiana” prende a col59


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pire i vizi e malvezi della borghesia dei consumi, della politica clientelare ed affaristica, dell’oscurantismo cattolico del ceto politico dominante. Vena scollacciata ed aggressione satirica, insieme, sollevano la nostra commedia filmica dal realismo e la indirizzano verso il bozzettismo grottesco e tipizzante. La guerra della “maggiorate” – il termine è coniato da De Sica attore, avvocato difensore nel processo alla Lollo-Frine di Altri tempi (’52) di Alessandro Blasetti – diviene un fenomeno di costume sui rotocalchi e i mass-media nascenti, passando attraverso i concorsi di Miss Italia, cui s’interessavano non solo le mamme, ma intellettuali e registi, in un Paese che vedeva nella procacità di queste belle fanciulle l’uscita dalla fame e dai disastri degli anni ’40 e il radioso augurio di una prosperità di cui già si vedevano i segni tangibili (TV, auto, elettrodomestici, rateizzazioni facili... i nuovi dettami della lussuosa moda romana). Lo stesso Blasetti indulgerà poi verso una Loren più sensuale che mai in quella frizzante commedia con De Sica e Mastroianni che è Peccato che sia una canaglia (’55), e altrove, prima di approdare al reportage sexy con Europa di notte (’59), inaugurando un genere di film-inchiesta del tutto particolare e di sicuro voyeurista. Luigi Comencini, invece, ritaglierà addosso alla Lollobrigida il personaggio della focosa ciociara “la Bersagliera” nella saga popolaresca inaugurata da Pane, Amore e fantasia (’53). La guerra dei decolletées è esplosa, combattuta senza quartiere grazie, per esempio, al glorioso Mario Camerini con La Bella Mugnaia (’55) – la Loren– e, lo stesso anno, all’americano Robert Leonard, ospite della già mitica “Hollywood sul Tevere”, con La donna più bella del Mondo – la Lollo. Le due star furono solo le capofila di questa strana guerra delle “maggiorate”, che tuttavia solo lo specifico voyeurismo della cinepresa poteva rendere possibile, e che oppose le “tifoserie” così come in quegli anni facevano Coppi e Bartali, o in politica Togliatti e De Gasperi. Oltre alle due, aspirarono al primato dapprima la già citata Mangano, poi la romanesca Giovanna Ralli già presente proprio in Gli Italiani si voltano, la mediterranea Rosanna Schiaffino – fenomeno mediatico per eccellenza perchè costruito dai paparazzi di via Veneto prima degli esiti filmici -, la tunisina Claudia Cardinale, la promettente Valeria Moriconi – che diverrà la più grande attrice italiana di prosa del secondo novecento – anche lei non a caso battezzata dall’episodio di Lattuada, Franca Rame – poi militante impegnatissima con Dario Fo – fino a Ste60


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fania Sandrelli, Sandra Milo, Sylva Koscina, Maria Grazia Buccella, etc. Ma nel corteggio delle floride figliole da rotocalco primeggia la formosa torinese Marisa Allasio, primo simbolico e propiziatorio bikini d‘Italia nella bella serie dei “bulli e pupe” spiantati di Trastevere inaugurata da Poveri ma belli (’56) di Dino Risi. Poi addirittura attrice che anticipa tutte le Anna Karina della Nouvelle Vague con il bellissimo Marisa la civetta (’57) di Bolognini-Pasolini 24. Il neorealismo in realtà era stato un fenomeno composito dove aveva contato parecchio la componente “autorale”. Solo molto più tardi la critica metterà in luce le raffinate componenti stilistiche e la decadente Weltanschauung mittleuropea di una personalità colta e perfino morbosa quale quella di Visconti; o le geometrie razionali del plot e il bruciante documentarismo “ricostruito” delle immagini di Rossellini. De Sica, intanto, fa tandem fisso con Cesare Zavattini. Ma il tandem, di fatto, si distingue per l’ampia e ben costruita diegèsi che apparenta il film al romanzo, per il sentimento patetico che immette nelle vicende dei protagonisti anche quando siano attori “presi dalla strada” documentaristicamente “pedinati” dalla cinepresa – come in Ladri di biciclette (’48) e in Umberto D (’52) –, per la capacità di far lievitare il plot con elementi fantastici e surreali che giochino il loro contrappunto dialettico con la più cruda realtà “ricostruita” – Sciuscià (’46) o Miracolo a Milano (’50) –. Certo, con più continuità di altri neorealisti De Sica fa ricorso agli “attori presi dalla strada” per raccontare queste straordinarie storie girate fuori dai teatri di posa, per le vie e negli ambienti reali; ma l’esito non è nè cronachistico, nè tanto meno quello della tipizzazione epica alla maniera sovietica, piuttosto di una recitazione piena e aderente, in cui le coincidenze tra attore e personaggio – che è già un dato di partenza nella scelta – traversa una sorta d’inconsapevole stanislavskijsmo per riconfermarsi nell’interpretazione. Il fatto è che, da grande attore dotato di meridionale comunicativa, il regista riesce a trasmettere la sua arte ed a convincere e trascinare l’interprete, anche il più sprovveduto, nell’adesione naturalistica al personaggio: spesso, da quei set, non solo gli attori, ma tecnici e maestranze escono con le lacrime agli occhi, sottolineando con applausi teatrali la fine del ciack. Si capisce come la coppia De Sica-Zavattini sia destinata ad un notevole avvenire commerciale che si delinea negli anni ’50 sia nella commedia popolaresca – detta allora dai critici “neorealismo minore”, mentre si trattava di una fucina di talenti e professionalità dei quali s’è perso oggi 61


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lo stampo – sia nella riproposta in grandi confezioni, e talora sulla base di soggetti letterari, delle tematiche neorealiste in film destinati al mercato ed al successo internazionali. Emblematico il caso de La Ciociara (’60) che Zavattini ha tratto da Moravia, Oscar alla Loren. Ma tra questi anche L’oro di Napoli (’54), tratto dai racconti di Giuseppe Marotta con episodi rimasti memorabili – De Sica nobile spiantato che gioca a carte sussiegoso con il figlio del portiere, la Loren fulgida e civetta “pizzaiola” che recita di ammiccamenti e decolleté e inaugura il suo mito, Totò “pazzariello” pubblicitario per la strade di Napoli... –; il film a episodi Boccaccio ’70, sempre con la Loren; Ieri, oggi e domani (’64) che ribadisce la voga bozzettistica del film a episodi affidandoli a una coppia celeberrima, la Loren-Mastroianni, la stessa che lo stesso anno esploderà nel mondo con Matrimonio all’italiana (di De Sica), tratto dalla Filumena Maturano di Eduardo. E l’affinamento del racconto aneddotico e della caratterizzazione è continuo e magistrale, sicchè davvero, paradossalmente, il corpus firmato De Sica-Zavattini verrà a costituire le spina dorsale della “commedia all’italiana”, genere trainante del cinema e del divismo nostrani per un paio di decenni, non meno di quanto faranno Blasetti, Camerini, Comencini, Germi, Monicelli, Dino Risi, Bolognini 25. Nel ’53, tuttavia, il tenace Zavattini avvia un progetto filmico che dovrebbe consentirgli non solo di dar corso alle sue intuizioni più pure, ma in prospettiva di chiamare a raccolta il meglio del cinema italiano attorno ad esse, programmaticamente intese come l’autentico Verbo del neorealismo. Si tratta di una rivista per immagini, Lo Spettatore, fondata insieme a Riccardo Ghione ed a Marco Ferreri. A causa dell’insuccesso di pubblico e di critica ne esce un solo numero, il film-inchiesta a episodi L’amore in città che accoglie le regie di Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Federico Fellini, Francesco Maselli e Alberto Lattuada 26. Il modello è innegabilmente quello offerto dai reportage per immagini realizzati dai rotocalchi più popolari in un’era che è ancora pre-televisiva. Come avverrà due anni dopo per il progetto fotografico con Strand, anche in questo caso il “pedinamento” è solo un’apparenza, l’esito realistico di un’accurata messa in scena. I tentati suicidi per amore, su cui si sofferma Antonioni, vengono scabrosamente recitati dagli stessi aspiranti suicidi con un esito che spiazza e sconcerta il neorealismo della critica. La sala da ballo di periferia di Risi è tutta ricostruita e recitata, sia pure da “non professio62


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nisti”. L’Agenzia matrimoniale – unico episodio non sceneggiato da Zavattini – è tutta un sogno e un incubo surreale sul progetto di nozze tra una ingenua fanciulla e un mostro nel più puro assunto felliniano, protagonista come finto reporter l’attore Antonio Cifariello. La Caterina di Maselli, una madre che per miseria abbandona il suo bimbo, è reinterpretata dalla stessa protagonista di un fatto di cronaca. Lizzani usa sì delle vere prostitute per la sua inchiesta sulle belle di notte, ma queste sanno benissimo di essere riprese e di conseguenza interpretano se stesse. Mentendo almeno in parte, la voce fuori campo che racconta i vari episodi commenta in stile zavattiniano: “I personaggi del nostro giornale non sono attori del cinema, ma gente della grande città. Li abbiamo presi dalla vita. Ma abbiamo scelto proprio quelle persone che hanno avuto quella parte nei fatti che vi racconteremo”. Nella qual dichiarazione l’uso del termine teatrale “parte” ci pare quanto mai sintomatico. E ancora: “Il nostro giornale ha voluto solo ricercare la realtà più intima e vera, come vuole essere nello stile e negli scopi di un cinema nuovo e cosciente”. E il trailer magnifica: “ Il primo coraggioso esperimento di giornalismo cinematografico” attuato da “sei registi della nuova scuola neorealista”. Poi, smentendo involontariamente la leggenda vulgata, e propugnata da Zavattini, sulla povertà dei mezzi e sui bassi costi del cinema neorealista, conclude esaltando i grandi mezzi, i tecnici, i costi dell’accurata e nuova operazione produttiva. Commenta Paolo Mereghetti: “L’amore in città avrebbe dovuto essere nelle intenzioni di Zavattini una sorta di dimostrazione aurea delle possibilità del neorealismo, fu invece il canto del cigno” 27. Il sesto ed ultimo episodio, quello di Lattuada, Gli italiani si voltano, è forse il più tartassato dalla critica per la sua apparente futilità, ma per noi è il più interessante. Il milanese Alberto Lattuada ha talento per la pittura erotica d’ambiente e per un barocco voyuerismo brancatiano che si manifesterà più tardi a pieno nel suo Don Giovanni in Sicilia (’66), talento impreziosito da un’elegante attenzione al corpo ed all’anima femminili di cui sarà emblematico il fortunato Guendalina del ’57, anno che vedrà molte Guendaline all’anagrafe. Da intellettuale formatosi prima della guerra nel gruppo di Corrente, teorico della fotografia d’arte e fotografo, fondatore di cineclub e cineteche, tenderà sempre a un cinema “calligrafico” atto a tradurre in nitide immagini estetizzanti le suggestioni della grande letteratura: non solo Brancati, ma il D’Annunzio de Il delitto di Giovanni Episcopo (’47), il Gogol de Il Cappotto (’52), il Bacchelli de Il mulino del 63


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Po, (’49), I dolci inganni (’60) sceneggiato da Franco Brusati e da lui stesso, il Machiavelli de La Mandragola (’65); film sempre realizzati con una personalità intellettuale e una sensibilità che lo terranno lontano da ogni egemonia ideologica neorealista 28. E ciò, malgrado non facesse che ripetere di aspirare ad un cinema “con una pellicola che costi come la carta e una macchina da presa che costi come un rasoio elettrico” 29, assunti zavattiniani certo, ma per una poetica autorale di sicuro tradimento di ogni precetto analitico-documentario. Ne Gli italiani si voltano, il suo contributo a L’amore in città, con la dinamica fotografia di Gianni Di Venanzo, sull’onda delle musiche incalzanti del solito Mario Nascimbene e dell’altrettanto incalzante montaggio di Eraldo da Roma, c’è in nuce tutta la poetica dell’elegante voyeurismo erotico di Lattuada. Un via vai di floride ragazze per le vie di Roma attira gli sguardi bramosi e di già brancatiani di maschi assetati dal desiderio... c’è qualche inseguimento, qualche patetico tentativo di abbordaggio, fino all’ultimo “cacciatore” ansante che si va a perdere in una periferia desolata quanto metafisica, una sorta di landa deserta del desiderio. La camera nascosta dentro automezzi o dietro finestre, ma a volte ben evidente, ha sempre lo stesso punto di vista dei voyeurs, esplora nel dettaglio più carico seni, natiche, cosce, fianchi, vitini strizzati, chiome e visi di fanciulle dalla cosmesi ancora povera e incerta, dal look che solo qua e là prefigura la bella stagione romana della moda. Tuttavia è la festa dell’abbondanza, il trionfo di un incipiente e prorompente nuova felicità del vivere. A sostegno del serrato montaggio dei dettagli la macchina carrella avanti e indietro, scivolando con perizia e panoramicando insieme, scarta e carrella ancora sulle camminate femminili, sui dietro-front degli improvvisi corteggiatori, con maestria da vero cinema, quasi si trattasse di correre sui binari e gli scarti di una ferrovia, ma senza mai smettere di perseguire le soggettive degli sguardi; e davvero le gambe delle donne sembrano misurare il mondo come quei compassi che oggi sono di truffautiana memoria, anticipando durate, agilità, oggettività materica e pulsioni dello sguardo che saranno proprie della “nouvelle vague”. Ma all’origine dei tracciati desideranti ci sono qui uomini-maschere: mostri denutriti o grassocci e sudaticci, preti e militari, ipocriti sussiegosi o allampanati sottoproletari dagli occhi di lupo. E si rinnova così il gioco dialettico e osceno del lazzo della Commedia dell’Arte: la bella piena di sé, iconica e incorruttibile, nella sua forma piena e lo zanni spezzettato che arriva dagli Inferi, pazzo di fame e di desiderio 30; il gioco che sarà 64


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della “Commedia erotica” con Franco e Ciccio, Alvaro Vitali, Buzzanca, Renzo Montagnani di fronte alle Fenech e alle Rizzoli di turno 31. Ma qui il gioco è assunto nel suo nitore di “specifico filmico”: è lo sguardo, il suo dinamismo perverso sul “petit object a” della nuance femminile, a raccontare senza parole, a fare episodio, barzelletta, intrusione, alterità, solitudine, gli atteggiamenti del soggetto desiderante allo specchio fornitogli dall’abbondanza, dalla cuccagna sognata prima della vita, dopo la vita, utopica e mortale. Il fatto è che la candid-camera celebrata da Zavattini qui in realtà non esiste. Tutti sanno della cinepresa “nascosta”. Uno dei più assillanti e drammatici abbordatori è Marco Ferreri, che minaccia la crisi cardiaca sulle scalinate di Trinità dei Monti appresso ad una formosa gazzella. La ragazze flagranti rispondono al nome di Hélène Remy, Mara Berni, Giovanna Ralli e sorella, Valeria Moriconi e uno stuolo di allieve del C.S.C. E tutti quanti inscenano il falso di una realtà che è apparenza, esibizione della bella forma, per un cinema-cinema voyeurista che ignora l’ideologia, precorre il formalismo della nuova tendenziosità critica anni ’60-’70 – Filmcritica, Fiction etc. – il neoformalismo spudorato di oggi – The Rope –. Si tratta della scrittura di uno sguardo finalmente liberato dall’impegno ideologico e in pura divagazione di piacere, in perdita e dissipazione vivaddio socialmente improduttive, e in un’operazione tutta meta-filmica e meta-formale. Poco dopo, su Bolero film del 12 settembre ’54 appare per la prima volta una fotografia di Mario De Biasi destinata a diventare non solo celebre, ma addirittura emblematica dei nuovi destini del Paese. Si tratta di Difficile abbordaggio: una donna vista di spalle incede verso una torma di astanti che ammirano sbigottiti le sue curvilinee fattezze. È uno scatto che fa parte di una sequenza commissionata da Epoca, editore lo stesso gruppo Mondadori, che si conforma alla concezione zavattiniana del “pedinamento”: una prosperosa ragazza viene seguita per un’intera giornata – si suppone a sua insaputa – nelle sue perigrinazioni per le strade di Milano fino a sera, mentre le didascalie parlano di un ossesso e fallimentare tentativo di abbordaggio. L’ultimo scatto svela la messa in scena: si tratta della bruna e focosa Miranda Orfei, in arte Moira, artista del circo ed aspirante attrice 32. La messa in scena del “pedinamento”, il ricorso all’attrice, il finto abbordaggio reiterato dietro alla visione del corpo femminile come cornucopia dell’abbondanza e della fertilità future, il collocarsi dell’obiettivo sulle 65


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dinamiche traiettorie di desiderio della vista, tutto fa pensare al modello del filmetto di Lattuada-Zavattini. Ed accade allora che, a furor di popolo, la foto di Bolero film viene ribattezzata con il titolo de Gli italiani si voltano, e come tale archiviata nella storia della fotografia e del costume italici. La lettura simbolica dell’immagine fotografica è complessa e proficua, tale da chiarirci anche tante prospettive semantiche del film omonimo: l’ingresso della Galleria e l’insegna del bar Zucca prefigurano quella che ben presto sarà la “Milano da bere”; il muso della Lancia, la Lambretta, una copia del giornale cittadino La Notte rinviano ad un Paese in sviluppo; tanto più che le dida di Epoca parleranno – con toni da “Commedia all’italiana – di un tentativo d’abbordaggio compiuto da un uomo rimasto solo in città, mentre la moglie è in vacanza, dunque di un tentativo di adulterio, comportamento scandaloso nell’Italia democristiana del ’54 33. Tuttavia nei volti allampanati e tesi dei maschi che comcupiscono la ragazza si leggono fantasie impossibili e frustrazioni, una persistente esistenza tra gli stenti e i tabù, sicché l’immagine assume il valore iconico di un rituale di passaggio, individuale e sociale, una rivoluzione che porta il Paese dal primato brutale del reale – la fame, la guerra...- al primato del significante affidato alla sua più imperativa pulsione: la “pulsione scopica”. Sulle traiettorie del voyeurismo il Paese si riconosce, s’identifica, cresce. E il “cinema delle maggiorate” prende ad esserne il migliore interprete, l’istanza di un cinema in ogni senso “formale”, per la forma del significante che guida le traiettorie della cinepresa e la forma dell’immagine, ovvero il “femminile” che la traccia con le sue grafie. La pratica iconica delle “foto di scena” e la nuova professione del “paparazzo” esplodono in quella che diviene la “Hollywood sul Tevere”, là dove prende a riunirsi il Gotha dello Star-System planetario grazie alle colossali coproduzioni americane. Il pedinamento, la caccia, l’assalto fotografico e anche cinematografico (si pensi ai Film-Luce) diventano appannaggio di questi ultimi e con esiti di scoop, di scandalo, di risse notturne tra i tavoli di via Veneto, che Zavattini non avrebbe potuto prevedere, e tuttavia anche essi accolti dal suo bonario umorismo e dal suo orizzonte di sceneggiatore professionista 34. Nel ’58 Pierluigi Praturlon, zavattiniano fotografo di scena de La Ciociara, fotografa per la rivista Tempo Anita Ekberg che fa il bagno vestita nella fontana di Trevi, dopo una notte al night trascorso proprio con 66


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l’atomica sirena dei fiordi nordici 35. Lo stesso anno il più incursore dei paparazzi, Tazio Secchiaroli, fotografa lo striptease improvvisato della ballerinetta turca Aiché Nanà ad un party della “Cafè Society” presso il Rugantino di Trastevere: ballerinetta in galera e numero dell’Espresso sequestrato 36. Ma entrambe i servizi, insieme al miracolo mariano dei bimbi di Maratta Alta (Terni) fotografato sempre da Secchiaroli 37, finiscono tra gli episodi de La Dolce Vita di Fellini. L’Italia in quegli anni ’50 è cambiata, e così il suo cinema, che almeno in quel momento prende a filmare, metafilmicamente, il nuovo universo del voyeurismo massmediatico. Con nuovi sguardi sul Paese si mette in mostra, allora, una cinematografia molto più specifica nel linguaggio e polisemica nelle opere di quanto non sappiano fare oggi gli analfabeti – filmicamente –, rozzi – culturalmente –, e fascistoidi – ideologicamente – tentativi attuali del tipo Caimano e Videocracy. Con buona pace dei peana dell’intellighenzia, ancora adesso ortodossa come ai tempi di Roderigo di Castiglia. Note Cfr. R. Tomasino, La riproducibilità tecnica: il Cinema in R. Tomasino, Storia del Teatro e dello Spettacolo, Palumbo ed., Palermo 2001, pagg. 1125 – 1197.

1

Cfr. P. Morello, Zavattini, in P. Morello La Fotografia in Italia 1945-1975, Contrasto, Roma 2010, pagg. 214-241. 2

Cfr. R. Tomasino, La riproducibilità tecnica: il Cinema, op. cit. e R. Tomasino, La riproducibilità tecnica: Fotografia, Grammofonia, Radio e Televisione in R. Tomasino, Storia del teatro e dello Spettacolo, op. cit., pagg. 1.105 – 1125.

3

Cfr. R. Tomasino, La riproducibilità tecnica: Fotografia, Grammofonia, Radio e Televisione, op. cit. 4

P. Morello, Strand e Zavattini. Un paese, in P. Morello, La Fotografia in Italia 1945-1975 op. cit., pagg. 251-254.

5

6

Ibidem, pagg. 253-254.

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R. Turigliatto, Alcune idee sul cinema, in A. Barbera – R. Turigliatto, Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, pagg. 317-319.

7

8

Cfr. R. Tomasino, New American Cinema, Glaux, Napoli 1970.

9

S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1962.

Cfr. G. Lukács, Riflessioni per un ‘estetica del cinema in G. Lukács, Scritti di sociologia della letteratura, trad. it. Sugar, Milano 1964 – G. Lukács, Saggi sul realismo, trad. it. Einaudi, Torino 1950. 10

11

G. Aristarco, Dal neorealismo al realismo in “Cinema Nuovo”, IV, 52, 1955.

Cesare Zavattini, Alcune idee sul cinema, intervista rilasciata a “Rivista del cinema italiano” n. 2, dicembre 1952. Testo redatto da Michele Gandin.

12

P. Morello, Vittorini. Da “Americana” a “Politecnico”, in P. Morello, La fotografia in Italia 1945-75, op. cit., pagg. 148-155. 13

Roderigo di Castiglia (Palmiro Togliatti), Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato... in “Rinascita”, VIII, 8-9, 1951.

14

15

Zavattini, Alcune idee sul cinema, op. cit.

Zavattini, Si presentano vestiti in tutù e decretano che il neorealismo è morto, in “Vie Nuove”, 1 febbraio 1953. 16

17

C. Zavattini, Alcune idee sul cinema, op. cit.

18

C. Zavattini, Alcune idee sul cinema, op. cit.

C. Zavattini, Opere 1931 – 1986 (a cura di S. Cirillo), Bompiani, Milano 1991, pagg. XXIX – XXX.

19

20

C. Zavattini, Diario. Roma 13 aprile 1953, in “Cinema Nuovo”, II, 10, p. 264.

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21

C. Zavattini, Diario. 4 maggio 1953, in “Cinema Nuovo”, II, 11, p. 294.

P. Morello, I fotodocumentari di “Cinema Nuovo” in P. Morello, La fotografia in Italia 1945-75, op. cit., pag. 246-250.

22

Carlo Bavagnoli, Via della passerella in “Cinema Nuovo”, III, 47, 1954, pp. 337343. 23

24

Cfr. R. Tomasino, La riproducibilità tecnica: il cinema, op. cit.

25

Ibidem.

26

“Lo Spettatore” n. 1, 1953, Rivista cinematografica diretta da C. Zavattini, R. Ghione e M. Ferreri. n.1: L’Amore in città – film a episodi – ed. in DVD “Minerva Classic”, s.d.

L’Amore in città – film a episodi ed. in DVD, op. cit., contenuti extra. Segnaliamo in particolare nella piccola brochure il contributo critico di André Bazin Una prova non del tutto riuscita dai “Cahiers du cinéma” n.69, 1957. 27

Cfr. E. Bruno, Lattuada o la proposta ambigua, Paperbacks/cinema (quaderni di “Filmcritica”), Roma 1968.

28

29

G. Sadoul, I Cineasti, Sansoni, Firenze, 1981, pag. 222 (voce “Lattuada”).

R. Tomasino, Le tecniche attoriali dell’Improvvisa, in R. Tomasino, Storia del teatro e dello Spettacolo, op. cit., pagg. 421-434. 30

Cfr. R. Tomasino, Grafie dell’Eros: Gina, Sophia, Sylva e le altre in Aa. Vv., La donna nel cinema italiano degli anni ’50, Atti di Convegno, Centro di Ricerca per la Narrativa e il Cinema, Agrigento 1991, pagg. 17-32.

31

M. De Biasi, Difficile Abbordaggio, in “Bolero Film” 383, 1954, pagg. 24-25. M. Lupinacci, Gallismo italiano in “Epoca”, I, 218, 1954, p. 73.

32

33

Cfr. P. Morello, Gli Italiani si voltano, in P. Morello, La fotografia in Italia 69


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1945-75, op. cit., pagg. 360-363. Cfr. P. Morello, Fotografia e Cinema, Paparazzi!, Falsi miracoli e spogliarelli abortiti, Via Veneto in P. Morello, La Fotografia in Italia, op. cit., pagg. 483 – 497. 34

Pierluigi Praturlon, Anita Ekberg fa il bagno nella fontana di Trevi, 1958 – Pierluigi Praturlon /Reporter Associati, Roma. 35

36

T. Secchiaroli, La turca desnuda, fotoreportage in L’Espresso, 46, 1958, pagg. 12-

13. T. Maiorino, La curia di Terni non accetta il prodigio, fotoreportage di T. Secchiaroli, in “Settimo giorno”, luglio 1958. 37

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“Effetto quadro” e “Metodologia d’Archivio” nella figuratività filmica dei pittori-cineasti di Giulia Raciti L’immagine cinematografica come se fosse un quadro. È questa la singolare affezione visuale dei pittori-cineasti, definizione che genera un produttivo campo di interferenze semiologiche tra cinema e arti visive. Infatti, già agli esordi del medium cinematografico proliferano teorie impregnate di suggestioni wagneriane volte a esaltare il carattere totalizzante del cinema, che, proprio in virtù della capacità intrinseca al mezzo stesso di convogliare al suo interno le “arti dello spazio” e le “arti del tempo” 1, è stato definito da Ricciotto Canudo la “settima arte” 2. Tuttavia, nel settore estetologico relativo alla nuova “plastica in movimento” 3, colui che più di ogni altro ha contribuito ad affermare la teoria del cinema come arte figurativa è Carlo Ludovico Ragghianti, il quale, portando a compimento le ipotesi crociane relative alle “essenze comuni” fra le arti della visione, propugna la tesi di identità fra cinema e arti figurative. Il principio sistematico forte enunciato da Ragghianti trova riscontro pratico nei suoi critofilm 4, ossia una “partitura” di immagini finalizzata a penetrare l’opera di noti artisti con l’occhio della m.d.p.: quest’ultima, nel mettere in forma i quadri, «sembra avvicinarsi al metodo di Alain Resnais, cioè alla drammatizzazione dei dati figurativi» 5. I critofilm di Ragghianti costituiscono quindi l’espressione di un approccio filmico alla storia dell’arte, poiché strutturano i dati visivi con le stesse modalità della pittura, cioè impostando interamente la scena «nei valori cromatici di movimento, di qualità tonale e di selezione visiva» 6. A riecheggiare apertamente le tesi ragghiantane è Andrè Bazin, a cui si ascrive la «celebre distinzione fra registi che credono all’immagine e registi che credono alla realtà» 7. Il padre spirituale della Nouvelle Vague si schiera apertamente per l’assoluto primato dell’immagine, e sostiene appunto che il quid del mezzo cinematografico risieda nel suo rapporto di reciprocità con arti figurative, in particolare con la pittura. Soltanto il cinema difatti ha la possibilità di attivare lo spazio-tempo pittorico, “animando” la staticità delle immagini dipinte e plasmando quella che Deleuze chiama l’immagine-movimento 8. Sulla stessa scia di pensiero di Bazin si attestano anche le riflessioni del critico-saggista Aumont, secondo il quale il rapporto tra arti visive e cinema e da ricercare nell’“oltre” della pittura, quindi in quegli sconfina71


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menti che testimoniano l’avvenuto superamento del problema “ontologico” inerente alla distinzione tra specifico filmico e specifico figurativo. Simili speculazioni trovano una strutturazione composita ne L’occhio interminabile 9, in cui Aumont concilia sul piano metodologico le esigenze della prospettiva storica (una storia delle forme) e della prospettiva teorica (una teoria della forma filmica e della forma pittorica) 10. Il saggio in questione è inoltre aperto da un capitolo dedicato a Louis Lumière, che Aumont definisce godardianamente l’ultimo dei pittori impressionisti, e chiuso con un’ampia trattazione inerente all’influsso della pittura nel cinema di Godard 11. Non è di certo una casualità che Aumont, parlando di interferenze fra cinema e arti figurative, scelga Godard come “misura di tutte le cose”. Infatti l’intera filmografia del cineasta della Nouvelle Vague tematizza, in maniera ossessiva e complessa, la relazione tra cinema e pittura; leitmotiv dominante da Il bandito delle undici (1965) a Passion (1982), ossia l’espressione del più completo e sistematico confronto fra le due arti. Ma è soprattutto Histore(s) du cinéma (1992-97) a conclamare l’integrazione tra il medium riproduttore di immagine-movimento e le arti visive. Questa personalissima storia del cinema è messa in forma da Godard mediante l’assemblaggio di materiali diversi: citazioni pittoriche, letterarie, musicali, sequenze di film, foto di scena e commenti ora in viva voce ora con didascalie extradiegetiche 12. Il Païni afferma che Histore(s) du cinéma è «un’invenzione filmica che non si distingue più dal procedimento archeologico e museografico nei riguardi di tutto il cinema precedente» 13. Insomma, potremmo dire che Godard ricava la sua “materia figurativa” ripercorrendo trasversalmente le teche della storia del cinema, o più precisamente «l’archivio della cineteca di Henri Langlois» 14. La figuratività filmica di Godard dunque è l’esito di uno scrupoloso lavoro di ricerca d’archivio, canalizzato sia verso l’iconografia del cinema sia verso quella pittorica, a condizione però di intendere la pittura «come oggetto o come modello del sistema di rappresentazione filmica» 15; si tratta cioè di non limitare al mero citazionismo il prolifero universo di corrispondenze tra i due ambiti, piuttosto, slargare il discorso anche a quei casi in cui la pittura è implicitamente evocata dallo sguardo della cinepresa, la quale, posandosi sulla superficie delle immagini, determina un’affezione visuale dell’inquadratura stessa. È proprio per che per tal via che il modello pittorico, insinuandosi nella continuità filmica, produce quello che Antonio Costa definisce “effetto dipinto”, la cui nomenclatura si suddivide in “effetto pitturato” ed “effetto quadro” 16. 72


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L’effetto pitturato, riferito alle scenografie dipinte de Il gabinetto del dottor Caligari (1920) o al paesaggio lunare di Il viaggio nella luna (1902) di George Méliès, assolve al ruolo di marca di enunciazione, ossia traccia del processo di produzione nel testo filmico, che fonda in questo caso la dimensione discorsiva sull’istanza metalinguistica autoriflessiva per svelare il sistema di corrispondenze fra cinema e pittura, cioè i due modelli di rappresentazione in gioco. La seconda accezione dell’effetto dipinto concerne, invece, il cosiddetto “effetto quadro”: siamo innanzi all’inquadratura che evoca una pittura, sia perché la cita testualmente, sia perché ne riproduce determinati effetti luministici, cromatici o di organizzazione spaziale, o ancora, perché si iscrive nella logica compositiva o iconografica di un preciso genere pittorico 17. Dunque l’effetto quadro imita la staticità e la sospensione temporale della pittura, enfatizzando la dimensione spaziale attraverso, per esempio, la pratica del fermo immagine; espediente tramite cui è possibile eternare la deleuziana durata alla stessa maniera di un calco iconico. Ma un’inquadratura che fagocita il prototipo di rappresentazione pittorica all’interno di quella filmica, genera sempre quella configurazione definita da Metz come schermo al quadrato, o meglio re-cadrages, cioè inquadrature di secondo grado, riscontrabili sia che si tratti di una scena dipinta, dunque quadro dentro un quadro, sia che si tratti di particolari vedute messe in cornice tramite un riquadro formato per mezzo di una finestra, di una porta, di uno specchio 18. Ne deriva che l’effetto dipinto, nelle due connotazioni di effetto pitturato ed effetto quadro, assolve al ruolo di pittura diegetiticizzata, la cui funzione è quella di stabilire un termine di paragone nella narrazione. «L’effetto dipinto è quindi leggibile come una marca di enunciazione, con accentuazioni, più o meno forti, della funzione metalinguistica» 19. Tali “configurazioni enunciative”, così chiamate da Metz in termini figurativi, sono funzionali a interrogare le forme visive nella loro stratificazione di linguaggi e nel complesso gioco delle interazioni dei modelli attivati 20. Plasmare un testo filmico tramite il ricorso all’effetto dipinto significa allora ricorrere a uno specifico trattamento del tempo, dello spazio e del colore per connotare in maniera tipicizzante quelle inquadrature o sequenze che, a secondo dell’intenzionalità registica, devono essere percepite come citazioni o naturali immagini contrassegnate da una qualità pittorica.

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«Questo tipo di film, indipendentemente dalle differenti qualità degli autori, è riconosciuto e apprezzato da un pubblico di fedeli che lo identificano con una sorta di genere. […] Si tratta, infatti, d’un cinema ancora narrativo, nonostante tutto, e in tutti i casi, figurativo e, a volte persino di genere» 21.

In questa direzione si è pertanto parlato di “cineasti artisti”, comprendendo sotto tale etichetta registi come Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Jean-Luc Godard, Stanley Kubric, Walter Hill, Peter Greenaway, David Lynch 22. Molti degli autori in esame traghettano dalla pittura al cinema, appare perciò plausibile poterli metaforicamente etichettare nei termini di pittori-cineasti, formula che sembra calzare a pennello a Lynch, il quale afferma: «Così ero un pittore. Dipingevo e frequentavo l’accademia di belle arti. Non ero minimamente interessato al cinema. Qualche volta andavo a vedere un film, ma dipingere era l’unica cosa che volessi veramente fare. […] iniziai a chiedermi se il cinema potesse essere uno strumento per far muovere i quadri. […] pensai: “Dipingerò un quadro in movimento”. Costruì uno schermo scolpito […] su cui proiettai un cortometraggio in stop motion. […] Il cinema è un linguaggio. […] è uno strumento magico. Per me è bellissimo pensare alle immagini e ai suoni che scorrono insieme nel tempo, una sequenza dopo l’altra, creando qualcosa di realizzabile solo attraverso il cinema» 23.

Ma, fra i pittori-cineasti del cinema figurativo, colui che più di ogni altro ha sviscerato il sistema di interconnessione tra cinema, pittura e metodologia d’archivio è Peter Greenaway, la cui poliedrica attività è interamente plasmata dalle arti visive. La considerevole produzione cinematografica di Greenaway scandaglia infatti tutte le possibili varianti dell’effetto dipinto. Ne Lo zoo di Venere (1985) per esempio il regista persegue l’effetto quadro nella forma del tableau vivant, che si manifesta in maniera esplicita nella messa in scena di L’arte della pittura, celebre opera di Vermeer. Si riporta testualmente un frammento di intervista in cui l’autore approfondisce la costruzione di un simile effetto quadro: 74


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«Con il direttore della fotografia Sacha Vierney ho cercato uno stile visivo e abbiamo adottato l’illuminazione di Vermeer, con la luce che va da destra a sinistra, a circa un metro dal suolo. […] questo ci ha dato una linea di condotta e ci ha consentito di raggiungere una coerenza plastica. In una scena abbiamo riprodotto deliberatamente una tela di Veermer, la più celebre, L’arte della pittura. La macchina da presa all’inizio inquadra la schiena del pittore che indossa un abito a righe nere e bianche, che richiamano quelle della zebra. Poi un carrello all’indietro scopre uno scenario che è la riproduzione esatta – in termini cinematografici – di un quadro del XVII secolo. Se si guarda attentamente si possono vedere le iniziali di Sacha Vierney sul muro, come si possono vedere le iniziali di Vermeer nei suoi quadri» 24.

Dunque Greenaway, coadiuvato dal direttore della fotografia, ricerca la luce come un pittore, meglio, come un pittore diventato regista. Nella filmografia greenawayana, però, i complessi rapporti fra cinema e pittura non esauriscono l’effetto quadro nella forma del tableau vivant, piuttosto, come dimostra la lettura dell’estratto di cui sopra, modellano l’intera metodologia di costruzione dell’immagine filmica. Così, palesemente influenzato dalla pittura è I misteri del giardino di Compton House (1982), «un film in cui l’effetto quadro è emblematizzato in gioco di equivalenze tra il mirino della cinepresa e il riquadro ottico (la mira) usato dal pittore nel suo lavoro» 25. Il contratto del disegnatore dei dodici disegni prospettici, cui allude il titolo originale de I Misteri del giardino di Compton House (The Draughsman’s contract appunto) riguarda la posta in gioco in ogni rappresentazione, ciò che si nasconde dietro la razionale geometria del reticolo prospettico, ciò che le regole del cerimoniale sociale non dicono né possono dire. «Il confronto, fatto di allusioni sottili e ramificate lungo tutto lo svolgimento narrativo e discorsivo, tra pittura e realtà, tra pittura e cinema, è la forma simbolica del fatale riemergere del tempo – il tempo della morte – che l’astratta spazialità della pittura espunge e occulta» 26.

E sempre parlando di figuratività filmica in Greeneway, non ci è possibile non fare riferimento a quell’insolito agape messo in scena ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989), nel quale il protagonista, in onore al pasto antropofagico consumato nell’orda primitiva 27, è in attesa di cibarsi 75


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delle carni del suo rivale, servitogli disteso su una portantina adornata. In questa sequenza Greenaway riesce a raddoppiare l’effetto quadro, ricorrendo a una doppia citazione ottenuta attraverso l’incorniciatura prospettica con cui mette in immagine il defunto, ossia una ripresa in orizzontale che inquadra i piedi in primo piano: così il richiamo extratestuale va direttamente a Il Cristo morto del Mantegna e al ragazzo disteso sull’obitorio eternato da Pasolini in Mamma Roma. Greenaway costruisce quindi immagini dai significati nascosti, in cui l’effetto quadro si insinua surrettiziamente; per disambiguarlo occorre quindi fare riferimento a un articolato sistema iconografico, congiunto a un’interpretazione delle “forme simboliche” mossa nella direzione dell’apparato esegetico iconologico istituzionalizzato dal Panofsky 28. Però, unitamente all’iconologia, è soprattutto necessario sviscerare il filo rosso che congiunge il cinema, la pittura e l’Archivio. Infatti la filmografia del Nostro si dà contemporaneamente come arte visiva e opera d’archivio; è in essa difatti che si inverano i concetti di “programmazione” e “messa in scena museale” teorizzati dal Païni. «[…] la programmazione monta i film come attrazioni ejzenstejniane e sconvolge in modo irreversibile le categorie, la classificazione dei generi e degli stili. […] è diventata una forma di scrittura, una “programmazioneattrazione” che conferisce senso ai film per il solo fatto di accostarli. […] Si tratta di qualcosa che avevo, allo stesso modo scoperto frequentando i musei. Due quadri accostati, a caso o per scelta, facevano a volte scintille, si illuminavano a vicenda, arrivai alla conclusione che lo stesso può accadere nei film» 29.

Nelle intenzioni del Païni quindi la programmazione diviene un processo di scrittura eseguita non in base a un criterio cronologico ed evoluzionista bensì su associazioni intuitive e accostamenti sperimentali, tale da produrre un perenne non-finito che «rimette le opere al lavoro» 30. All’interno della teoria di programmazione del Païni, e della sua conseguente elaborazione della nozione di “messa in scena museale” 31, l’aspetto che più ci riguarda da vicino è il sistema di analogie che si stabilisce tra cinema e arti visive. Si tratta di una corrispondenza che, essendo giocata sul comune tema della memoria, si salda inscindibilmente al principio dell’archivio, ovvero quanto presiede all’adempimento della dimensione museale e la rende produttiva e spettacolarizzabile. 76


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La metodologia di archivio a cui facciamo riferimento è quella concepita dall’Archivio Multimediale dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Palermo, che ha per oggetto lo spettacolo tout court senza alcun pregiudizio tra «“Alto” e “Basso”, “Sutura” e “Scollamento”, “Simbolico” e “Immaginario”» 32. Una teoria “forte” e tendenziosa a un tempo, propugnata dall’équipe di Palermo, che slarga il discorso semiotico-psicoanalitico al corpo e al set e nobilita a forma coerente di linguaggio le manie e le ossessioni del ricercatore, sistematizzate entro griglie teoriche soggette a spettacolarizzazione. «La nostra pratica di catalogazione tende quindi a istituire, tra l’altro, una mentalità per il presente, un modo di usare le tecnologie per aggredire le stratificazioni della memoria, metterle a nudo e spettacolarizzarle. […] un simile lavoro d’archivio si estenderà per griglie di reperti, proliferazione di sintomi che nel loro insieme fanno linguaggio, e linguaggio altro» 33.

Dunque, lontano dal rigore asfittico di certe filologie, la metodologia dell’Archivio Multimediale dello Spettacolo avvalora una progettualità critica di taglio trasversale, fondata sulla contaminazione fra vari media. Ne deriva quindi che un Archivio similmente inteso ottiene una qualità eminentemente visuale, da tradurre in esperienza estetica durante la fase della spettacolarizzazione-fruizione. Tornando a Greenaway, un simile discorso sull’Archivio sembra essere la chiave interpretativa privilegiata per penetrare lo strutturato sistema di significazione del nostro artista, che nella sua produzione persegue un itinerario fazioso in cui mette originalmente in forma le sue manie, senza tuttavia venir meno alla scientificità oggettiva del metodo di catalogazione. «Greenaway ha spettacolarizzato il principio della “catalogazione d’archivio” secondo griglie d’elezione con risoluzioni iconiche di gran cultura e talento. Ci ha reso, dunque, partecipi del suo archivio del mondo, quasi fossimo introdotti in uno di quegli “studioli del Principe” rinascimentali che furono realizzazioni delle Arti mentali dei “Palazzi della memoria”. […] Vi si catalogavano per griglie dell’universale sapienza parole, immagini, reperti e oggetti che, infatti, anche la scena di Greenaway esibisce come un trovarobato, il trovarobato del caos cui l’artista dà ordine.

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Non è un caso che l’idea del Museo, che è anche l’idea della fiction ancora possibile secondo Borges, nasca sempre all’estrema maturazione di civiltà: l’Ellenismo, il Manierismo, il Duemila… L’artista si fa ora interprete di questa tendenza come unica via ad un futuro negato; la via del gioco della memoria» 34.

La filmografia greenewayana è dunque un archivio visuale dello spettacolo, che, oltre a compendiare eventi per definizione “teatrali”, sintetizza cinema e arti visive nella dimensione museale. Una siffatta metodologia partorisce immagini intarsiate e stratificate per livelli, che nel cinema del Nostro sono sempre innalzate all’insegna del primato significante della forma. Ci è pertanto possibile affermare che Greenaway non è soltanto un cineasta-artista figurativo, ma un apripista dell’estetica del neofigurativo, quell’estetica «che è puro scintillio della forma» 35, in cui ogni immagine è un quadro. Note 1

Cfr. Gotthold Ephrain Lessing, Laocoonte, trad. it. Rizzoli, Milano 1994.

2

Cfr. Ricciotto Canudo, Manifeste des sept arts, Seguier, Paris 1995.

Cfr. Ricciotto Canudo, L’officina delle immagini, trad.it. «Bianco e Nero», Roma 1966.

3

Tra i vari critofilm di Ragghianti ricordiamo L’arte di Rosai (1957) e Michelangelo (1964). Per una più approfondita analisi sui critofilm Cfr. Eugenio Riccomini, Il critofilm d’arte, in Cinema e arte. Documentari italiani dal 1940 al 1960, Cineteca del Comune di Bologna, Bologna 1992, p. 35. 4

5

Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, cit. p. 287.

Carlo Ludovico Ragghianti, Arti della visione, vol. I. Cinema, Einaudi, Torino, 1975, cit., p. 9. 6

7

Op. cit., Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 52.

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8

Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine movimento, trad. it. Ubulibri, Milano 1987.

9

Cfr. Op. cit., Jacques Aumont, L’occhio interminabile.

10

Op. cit., Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 35.

11

Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, trad. it. Marsilio, Venezia 1981.

12

Si segnala che oltre alla versione audiovisiva esiste anche una versione in quattro volumi di questa personalissima storia del cinema: Jean-Luc Godard, Histore(s) du cinéma, Gallimard, Paris 1998. Il Païni è un rinomato ricercatore d’archivio che teorizza l’idea di mise en scène muséale e partorisce esperienze “limen” tra museo, cinema e arti visive. Dominique Païni, Conserver, montrer, Yellow Now, Crisnée 1992, cit., p. 27. 13

14

Ivi, p. 26.

15

Op. cit., Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 295.

16

Cfr. Ivi, pp. 305-306.

17

Cfr. Ivi, p. 311.

Cfr. Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, trad. it. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pp. 79-93. 18

19

Ivi, cit., p. 324.

20

Metz, insistendo sul carattere meta-discorsivo della narrazione, ha ricordato l’esistenza di commenti visivi (commentaires iconiques), cioè di «modi di ripresa a debole motivazione diegetica e a forte tenore di chiose e interpretazioni ostentate» per i quali egli chiama in causa Ejzenštejn, ma anche quegli ordinari procedimenti (movimenti di macchina, effetti sonori, inquadrature) «destinati a essere notati per se stessi e a rendere sensibile l’attegiamento del film sul filmato, evitando di affidarne l’espressione alla parola». Op. cit., Christian Metz, 79


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L’enunciazione impersonale o il luogo del film, cit., pp. 79-93, 195. 21

Op. cit., Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, cit., pp. 75, 43.

Il comitato della rivista militante, «The Rope – Grafie di spettacolo e pratiche dell’immaginario» è concorde nel ravvisare in simili autori i padri fondatori dell’estetica del neofigurativo. Cfr. «The Rope - Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell’immaginario», Neofigurativo, 2/3, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2009, p. 8. 22

David Lynch, In acque profonde, Piccola Biblioteca Oscar, Milano 2008, cit., pp. 19-20; 23.

23

In Antonio Maraldi (a cura di), Il cinema di Peter Greenaway, in «Quaderni del centro cinema», Cesena 1989, cit., p. 32. 24

25

Op. cit., Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, cit., p. 321.

26

Ivi, cit., p. 322.

Cfr. James George Frazer, Il ramo d’oro: studio sulla magia e la religione, trad. it. Boringhieri, Torino 1973. 27

28

Cfr. Erwin Panofsky, Studi di iconologia, trad. it. Einaudi, Torino 1975.

Dominique Païni, Le cinéma, un art moderne, «Cahiers du cinéma», Paris 1997 cit., pp. 179, 169. 29

30

Op.cit., Dominique Païni, Conserver, montrer, cit., p. 26.

31

Si osserva inoltre che nella medesima direzione dell’idea di programmazione del Païni si muove l’équipe di ricerca dell’Archivio Multimediale dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Palermo: (LUM – Michele Mancini), che attua un lavoro di risemantizzazione del concetto di programmazione e approda all’innovativa pratica dei “videopercorsi”, i quali elevano l’estetica del frammento a modello di linguaggio. Inoltre la struttura simbolica che presiede all’assemblaggio del videopercorso è edificata attraverso l’impiego di quelle che il critico 80


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Michele Mancini chiama “immagini a registro”, ovvero griglie di spettacolarizzazione tramite cui mettere in forma le manie e le ossessioni del ricercatore. Cfr. Renato Tomasino (a cura di), Figure dell’immaginario: cento anni di mitologie del cinema, L’epos, Palermo 1998. 32

Renato Tomasino, Spettacolo della memoria, Acquario, Palermo 1989, cit., p.

23. Ivi, cit., p. 25. Si segnala altresì che la metodologia dell’Archivio Multimediale dello Spettacolo di Palermo, nella cui messa a punto si è rilevato prezioso il contributo del compianto critico Michele Mancini, si articola nelle tre fasi costitutive: Archeologia, Archiviazione e Spettacolarizzazione; quest’ultima assolve alla funzione museale e genera fecondi scambi intermediali, specie con le arti visive. Tra i più noti esiti multimediali spettacolarizzati dall’Archivio di Palermo si ricorda: Aci trezza, La città set, lavoro di Archeologia sul set La terra trema (1948) di Visconti; Pier Paolo Pasolini, corpi e luoghi, lavoro di Archeologia sui set pasoliniani, Michelangelo Antonioni, architetture della visione, lavoro di Archeologia sul set nelle Eolie de L’Avventura - Lisca Bianca (1960), operazione condotta grazie alla produzione della struttura RAI diretta da Enrico Ghezzi, op. cit., Renato Tomasino, Spettacolo della memoria.. Per la bibliografia di riferimento Michele Mancini, Giuseppe Perella (a cura di), Pier Paolo Pasolini, corpi e luoghi, Nomos, Bologna 1981; Michele Mancini, Michelangelo Antonioni, architetture della visione, Coneditor, Roma 1986; Renato Tomasino (Atti a cura di), Semiotica della rappresentazione, Flaccovio, Palermo 1984. 33

Renato Tomasino, Storia del teatro e dello spettacolo, Palermo, Palumbo 2001, cit., pp. 1083-1084.

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35

Op. cit., «The Rope - Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell’immaginario», Neofigurativo, 2/3, cit., p. 7.

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Cinema, fumetto e videogioco: per un’estetica del divertimento di Elisabetta Di Stefano Sebbene il cinema abbia spesso mutuato temi e contenuti non solo dai classici della letteratura, ma anche da generi narrativi appartenenti alla cultura popolare, come il fumetto (basti pensare alle trasposizioni cinematografiche delle avventure dei supereroi americani: Superman, Batman, l’Uomo Ragno, X-Men, etc.), oggi l’evoluzione della tecnologia digitale ha spostato il confronto non solo e non tanto sul piano narrativo 1 quanto sull’aspetto grafico, caratterizzato da particolari effetti cromatici e da un nuovo stile figurativo. Esemplare il richiamo a due film recenti che attingono entrambi a due note graphic novel di Frank Miller, Sin City e 300: non si tratta semplicemente della versione cinematografica della trama di un fumetto, ma di una vera e propria traduzione di linguaggi, di significanti; non è un caso, infatti, che entrambi i registi si avvalgano della collaborazione di Miller per un’adeguata trasposizione dello stile grafico dalla fonte originaria statica all’immagine in movimento. Sin City (2005) di Robert Rodriguez ricalca fedelmente le forme del fumetto originale: si pensi, ad esempio, ai movimenti innaturali, quasi da “modelle in posa”, assunti dalle prostitute che controllano la città vecchia. Contribuiscono allo stile grafico le immagini in silhouette (figure scure si stagliano su sfondo bianco o viceversa) e l’illuminazione, chiaramente antinaturalistica, che rende più plastico il corpo, staccandolo dallo sfondo in maniera netta e artificiale; a questo effetto contribuiscono pure i vestiti, realizzati con stoffe molto lucide che non richiamano nessun materiale realistico. Anche la pioggia, che compare in molte sequenze, è un chiaro effetto grafico: «è troppo bianca, ovvero, denuncia un controluce troppo evidente, ma soprattutto non colpisce veramente gli attori, nonostante siano, ovviamente, bagnati» 2. Anche in 300 (2007) di Zack Snyder è degno di nota lo stile figurativo: le immagini sono ritoccate e perfezionate in ogni minimo particolare, dai fondali ai dettagli, con tono marcato sulla scala dei rossi nelle scene di battaglia, fino ad arrivare alle scale di grigi e ciano nelle sequenze di dialogo e narrazione. Si può notare l’utilizzo di effetti grafici nelle creature mostruose, nelle quali il realismo descrittivo è abbandonato per privilegiare una figuratività che tende ad enfatizzare le reazioni emotive. Lo svolgersi dei combattimenti, spesso molto cruenti, è esaltato dal sangue aggiunto digitalmente alle scene; quest’ultimo, che sembra quasi essere disegnato a mano, richiama 82


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abilmente i tratti del fumetto da cui è tratta la storia 3. Verso l’inizio degli anni Novanta, quando la colorazione computerizzata cominciò a permettere effetti grafici nuovi e sorprendenti, questa estetica dell’immagine si diffuse sia nel campo dei comics (i fumetti americani) sia in quello dei videogiochi, in cui gli interessi di marketing spingevano verso la realizzazione di immagini sempre più spettacolari. Pertanto le moderne tecnologie digitali hanno aperto nuove possibilità espressive rafforzando i legami già esistenti tra cinema, fumetto e videogioco. Il connubio fumetto-videogioco non è recente; già nel 1982 fu realizzato il videogame Popeye e, nel corso degli anni, sono usciti titoli dedicati ad altri personaggi. Del resto gli argomenti dei fumetti - mondi sconosciuti, misteri, dimensioni parallele, viaggi nel tempo - offrono notevoli spunti per i videogiochi. Infatti anche quando il videogioco è la trasposizione ludica di un film, di solito si tratta di produzioni realizzate attingendo al mondo dei fumetti 4. Eppure talvolta è il cinema che opera incursioni nel mondo dei videogames per trarne motivi ispiratori 5: il western fantascientifico Fantasmi da Marte (2001), di John Carpenter, ricorda molto sia per la situazione d’assedio sia per lo sterminio di interminabili nemici i videogiochi del genere “sparatutto“, molti dei quali hanno avuto una trasposizione cinematografica: si pensi al celebre Doom o a Hitman e Max Payne 6; ma è forse Final Fantasy, film completamente digitale ispirato ad una nota serie di videogames, che segna il massimo grado di compenetrazione tra il linguaggio filmico e quello ludico dei videogiochi 7. Pertanto il settore dei videogiochi ha dimostrato di essere in grado non solo di rifarsi a diversi generi espressivi, ma anche di essere fonte di ispirazione per gli altri media. Tuttavia se può non stupire che Hollywood 8 ricorra ai videogame per trovare nuove idee, sorprende e fa riflettere che l’industria del fumetto si ispiri ai videogiochi, dato che in questi la storia è poco sviluppata e che i fumetti, a differenza del cinema, non possono mascherare con la spettacolarità degli effetti speciali una scarna trama narrativa. Infatti le avventure a fumetti dell’avvenente archeologa, Lara Croft, la prima a fare il salto dal videogioco alla carta stampata, per opera dello scrittore Dan Jurgens e del disegnatore Andy Park, si esaurirono dopo appena cinquantadue numeri (pochi considerata la longevità dei comics americani), ma l’operazione diede avvio ad altre trasposizioni 9. Tra gli esempi più recenti è Prince of Persia - noto videogiochi uscito nel 1989 - che nel 2010 è diventato, oltre al film diretto da Mike Newell, una serie a fumetti scritta dallo stesso Jor83


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dan Mechner, creatore del videogame. Evidentemente questa tendenza conferma l’affermarsi di una nuova estetica figurativa, in cui la forma prevale sui contenuti, infatti è lo stile grafico che costituisce il trait-d’union tra i differenti generi di divertimento. L’evoluzione delle tecnologie digitali oggi consente ai media ludici e narrativi che si esprimono attraverso le immagini (il videogioco, il fumetto, il cinema, compresi i film d’animazione) di raggiungere un alto livello di spettacolarità 10. Queste potenzialità hanno aperto la strada a nuovi sperimentalismi e confronti, dando luogo a fenomeni di citazionismo, commistione dei generi, mutuazioni creative, a scapito del realismo narrativo o dell’aderenza alla versione originale. In realtà si tratta di pratiche ben note anche in passato, sebbene oggi le nuove tecnologie, e in particolare il digitale, offrano maggiori sfide intermediali: il rifacimento trasfigurativo prende il posto dell’originalità creativa per ottenere il massimo della spettacolarità, secondo le logiche che nell’attuale civiltà dell’immagine connotano la condizione post-moderna 11. Le coordinate fin qui tracciate fanno scorgere una progressiva intermedialità del cinema, del fumetto e del videogioco 12. È il caso di esaminare più a fondo tale relazione che, seppur fondata sulla fascinazione visiva della nuova grafica digitale, investe problematiche estetiche più profonde, relative ai rapporti tra cultura alta e cultura popolare. Come si vedrà, il nodo problematico si focalizza intorno alla nozione di gioco, nozione, che tende sempre più a sconfinare dall’ambito del mero divertissement verso la sfera dell’esperienza estetica. Fumetto, cinema e videogioco sono raffigurazioni di realtà fantastiche e immaginarie e si esprimono attraverso il linguaggio visivo, benché l’uno in forma statica e gli altri dinamica. Tuttavia rispetto ad altri generi rappresentativi o narrativi condividono la sorte di essere relegati tra i livelli più bassi della cultura popolare, nella sfera del divertimento, tradizionalmente contrapposto alla sfera seria della cultura alta 13. Inoltre a differenza del cinema - almeno di un certo tipo di cinema -, che è ormai considerato una forma d’arte, i videogiochi e i fumetti continuano ad essere ostracizzati e faticano a farsi apprezzare come qualcosa di più che un hobby o un inutile passatempo per bambini. Naturalmente come i film ci sono anche i fumetti, cosiddetti “d’autore”, che si prestano a letture interpretative plurime e complesse (si pensi ad esempio a Watchman di Alan Moore o alla trilogia di Nikopol di Enki Bilal). Poiché si volgono non ad un pubblico di massa che aspira al divertimento, ma ad una ristretta élite di amatori in 84


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grado di coglierne le diverse chiavi ermeneutiche, tali fumetti aspirano a conquistare una dignità artistica, peraltro ampiamente riconosciuta dai festival e dalle riviste specialistiche 14. Maggiori problemi pone sicuramente il videogioco, dove l’interesse a coinvolgere il maggior numero dei fruitori obbedisce alle logiche di mercato. Eppure anche in questo settore si scorgono aperture verso intenti, se non proprio artistici, almeno più raffinati: un esempio in questa direzione si potrebbe considerare Grim Fandango della Lucas Art (1998), avventura grafica tridimensionale dalle atmosfere tra noir e commedia surreale sullo sfondo di architetture maya e ambienti in stile art decò. I locali - bar oscuri e tavole calde con insegne al neon sembrano ricreare l’America del secondo dopoguerra, mentre gli abiti di alcuni personaggi e certi risvolti della trama devono molto alle atmosfere di Casablanca. Degna di nota la colonna sonora, composta da Peter McConnell, che mescola partiture orchestrali, musica folkloristica centroamericana, jazz e swing con lo scopo di far incontrare le sonorità del noir con quelle della cultura latino-americana, fondendo le due anime del gioco. Il videogame, sin dalla sua uscita, fu acclamato dalla critica, tanto da diventare immediatamente un classico del genere e da aggiudicarsi nel corso degli anni numerosi premi su siti e riviste di settore; significativo il fatto che oltre a riscuotere riconoscimenti come gioco, fu premiato per la “Miglior Grafica per Design Artistico” e “Miglior Musica”, tanto che la colonna sonora fu venduta autonomamente come album. Segno di questa progressiva convergenza tra sfera video-ludica e tecnoartistica è l’evoluzione dei videogiochi in interactive enterteinment software, che hanno ambizioni più elevate rispetto a un mero bisogno ricreativo. In questa direzione uno dei casi più interessanti è stato quello di Eve (Evolutionary Virtual Enviroment, 1997), un CD-rom di Peter Gabriel che mescola la propria musica con interventi di alcuni importanti artisti contemporanei: Helene Chadwick, Nils-Udo, Yukio Kasuma e Kathy De Montchaux 15. Il tema centrale è rappresentato dal tentativo simbolico di Adamo ed Eva di ricongiungersi al paradiso perduto: la faticosa ascensione prevede l’attraversamento di quattro mondi diversi, ciascuno caratterizzato da un brano musicale e dal tratto stilistico di un artista differente. Durante questo percorso multimediale - il Cd Rom contiene filmati, musica e fotografie - si possono recuperare oggetti, collegati a particolari suoni, con i quali divertirsi a comporre innumerevoli inedite versioni di Come Talk To Me, In Your Eyes, Shaking The Tree, Passion. Un interessante intreccio tra fumetto, videogioco e arte presenta Mr. Re85


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gular di Massimo Cittadini. In questa installazione gli utenti, comodamente seduti sul divano - come il gatto Fritz, protagonista del fumetto creato alla fine degli anni Sessanta da Robert Crumb - vengono digitalizzati e inseriti in tempo reale all’interno di scene virtuali che permettono differenti tipi di interazione, visiva e sonora, senza l’ausilio di caschi o altri strumenti 16. Le immagini visibili sullo schermo presentano una grafica fumettistica e propongono situazioni analoghe a quelle di un videogame (la scena cambia solo dopo che sono state compiute certe azioni), finché la scritta GAME OVER segna il termine del gioco 17. Sebbene molte opere d’arte interattiva multimediale abbiano mutuato forme e contenuti dal videogame, questo continua ad essere considerato un’espressione inferiore rispetto ad altri media ludico-narrativi. In realtà è evidente che dietro la dicotomia tra cultura alta e cultura popolare si cela quella, ben più profonda e complessa, tra arte e divertimento. Questa contrapposizione si radica su una lunga tradizione che, a partire da Platone 18, ha spesso considerato il divertimento negativamente rispetto a ciò che la filosofia considera come forme superiori di cultura. In effetti il termine “divertimento“ etimologicamente (dal latino di-vertere) alluderebbe ad un allontanamento da attività serie e impegnative verso pratiche leggere e ricreative; per questo motivo ha assunto un’ulteriore connotazione di “piacere”. Ma in realtà il concetto di piacere, storicamente, non è estraneo alla categoria dell’arte. Se Petrarca, vinto da timori religiosi di ascendenza medievale, contrappone la ratio al gaudium che proviene dalle arti 19, condannando il piacere estetico 20, un altro umanista, Lorenzo Valla, di formazione epicurea, nel suo De voluptate (14271430) non avrà remore per apprezzare la seduzione della scultura 21; e Charles Batteux, in piena cultura illuministica, fonda la stessa nozione di Belle Arti sul piacere 22. Di li a poco, però, Kant, distinguendo piacevole e bello, avrebbe riservato a quest’ultimo la sfera dell’arte ed Hegel avrebbe ritenuto l’arte portatrice di profondi valori spirituali, considerandola manifestazione sensibile dell’Idea. Attraverso il romanticismo il valore assoluto dell’arte giunge fino ai nostri giorni, prendendo sempre più le distanze dalla dimensione del “piacere” per caricarsi di connotazioni concettuali e intellettualistiche. Nonostante la riproducibilità tecnica l’arte mantiene ancora la sua aura 23, benché la sacralizzazione avvenga oggi tra le mura del museo, dopo il battesimo della critica. Pertanto se l’arte è considerata portatrice di valori supremi parlare di “arte popolare“ significa elevare certe pratiche dalla sfera bassa del divertimento a quella 86


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alta e seria della cultura. La questione relativa allo statuto artistico e al valore estetico dell’arte popolare recentemente è al centro di un acceso dibattito che ha tra i suoi principali protagonisti il filosofo americano Richard Shusterman 24. Sviluppando il pragmatismo di John Dewey, Shusterman si contrappone a quegli intellettuali, tra cui Adorno, Arendt e Bourdieu 25, che reputano ossimorica la stessa locuzione di “arte popolare“ e ne propone una rivalutazione 26. Dewey 27, infatti, aveva osservato che le forme culturali più diffuse tra la classe media erano quelle escluse dal sacro recinto dell’arte: il cinema, il fumetto, la televisione; pertanto contro l’elitarismo di una concezione dell’arte colta, lontana dalla comprensione delle masse, aveva proposto di spostare il valore estetico dall’oggetto all’esperienza, quale fonte di piacere, indicando così una via per nobilitare la cultura popolare. La teoria di Shusterman assume una posizione singolare nell’attuale dibattito teorico americano, dove anche coloro che apprezzano la cultura popolare le negano una qualificazione estetica, considerandola limitata agli strati sociali con un grado di cultura ed educazione poco elevato, e di conseguenza destinata ad essere abbandonata col sollevarsi del livello di istruzione 28. Ma secondo Shusterman questa posizione, fondata sulla tradizionale dicotomia tra arte intellettuale d’èlite e arte popolare, destinata alle masse prive di educazione raffinata, è troppo semplicistica e non centra il problema. Bisogna partire dall’analisi dello stesso concetto di arte popolare, per capire quali sono le peculiarità connotative. Il termine “popolare” 29 non sembra caratterizzare proprietà specifiche dell’opera, poiché divertimenti popolari di una certa epoca, come la tragedia greca o i drammi di Shakespeare o i romanzi delle sorelle Brontë o di Charles Dickens, in un altro periodo sono assurti a capolavori di alta letteratura; né la caratterizzazione “popolare“ si può riferire al tipo di pubblico (la sua età, il suo livello di educazione) secondo stereotipi ormai superati, perché oggi, rispetto al passato, le barriere socioculturali sono meno rigide, a causa del più alto livello di istruzione, a cui contribuiscono, seppur in forme omologanti, i mezzi di comunicazione di massa. Di conseguenza, secondo Shusterman, il pubblico della classe media è più eterogeneo e gli intellettuali della nuova generazione sono cresciuti con la televisione, i fumetti, il cinema, la musica rock e sono degli amatori della cultura popolare; inoltre, possiamo aggiungere, non è insolito vedere uomini, anche maturi, trascorrere buona parte del 87


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proprio tempo post-lavorativo davanti al video di un televisore o di un computer, smanettando tra joystick, pad e tastiera 30. La teoria pragmatica di Shusterman è volta ad un avvicinamento tra arte e vita e quindi alla legittimazione estetica di tutte le forme d’arte che soddisfino i bisogni dell’uomo senza gerarchie discriminanti; ciò potrebbe apparire paradossale se si considera che la stessa nozione di “estetica” nasce con Alexander G. Baumgarten 31 all’interno della cultura filosofica, ma è anche vero che oggi con questo termine si qualificano varie pratiche relative alla vita quotidiana e in particolare alla corporeità, come la cosmetica, la moda, la chirurgia. Di conseguenza l’estetica pragmatica di Shusterman, aprendo le porte dell’arte anche a quelle forme di intrattenimento promosse dall’industria culturale che occupano gran parte della vita dell’uomo comune, riscopre il valore positivo del divertimento, come momento di relax, in grado di predisporre ad una sensibilità più acuta e ad un apprendimento più profondo. Non è un caso che i più recenti orientamenti della pratica artistica, da sempre in anticipo rispetto alla teoria, si volgano alla dimensione ludica scorgendo nel gioco la forma primaria e arcaica di interazione 32. L’applicazione delle nuove tecnologie all’arte ha aperto infinite possibilità di interconnessione fra suoni, colori, video, fotografie, etc., creando una pratica interattiva che ridefinisce i tradizionali concetti di “artista”, “opera d’arte” e “osservatore”: «l’artista tecnologico, privato del gesto fisico demiurgico e creatore, privato della manualità, della materia da cui trarre l’opera, da produttore di artefatti oggettuali tende a trasformarsi in attivatore di processi di comunicazione estetica» 33; l’opera non consiste più in un oggetto conchiuso ma diviene un susseguirsi di processi dinamici, di varianti morfo-strutturali, di cui non è possibile definire lo stato finale; di conseguenza l’osservatore diviene “utente” o meglio “co-creatore” in quanto, attraverso un coinvolgimento non solo visivo, ma il più delle volte sinestetico, attiva quei processi che consentono all’opera di esistere. In virtù di questo ruolo nuovo ed essenziale svolto dal fruitore nelle istallazioni interattive, non sorprende che l’arte elettronica per aggiungere una componente di sorpresa e seduzione alle opere abbia fatto ricorso alla dimensione ludica, la quale però non si riduce a semplice edonismo, ma acquista una responsabilità di ordine etico. Il gioco, infatti, liberando dalle tensioni e dalle preoccupazioni della routine quotidiana e consentendo uno sfogo delle emozioni più torbide e violente, attua un processo catartico che acquista un valore non solo ricreativo, ma anche morale. 88


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In realtà il connubio tra gioco e arte non è una conquista dell’era elettronica; già il movimento Dada, ribaltando la gerarchia assiologica tra gioco e serietà riscopriva le potenzialità liberatorie dell’azione ludica che proprio perché esula dalle regole della vita, dalle consuetudini sociali e dall’agire utilitaristico, può assurgere a valore supremo e essere assimilato all’arte. Le nuove tecnologie hanno poi offerto un linguaggio comune agli sperimentalismi, incentrati sul ruolo attivo del fruitore, sia in campo artistico sia ludico-ricreativo. Se pensiamo al settore dei videogiochi, infatti, ci accorgiamo che il moderno homo ludens 34 utilizza la propria fantasia per trasformare il suo atto di fruizione in una performance, grazie alla natura cooperativa e co-creativa del videogame, un medium che ridefinisce il ruolo dell’utente, il quale da mero ricettore di contenuti predefiniti diviene produttore di nuovi significati 35. é il medesimo ruolo che il fruitore è chiamato a svolgere in molte installazioni artistiche interattive volte a recuperare la dimensione del gioco. Il rapporto emotivo che ne deriva scaturisce proprio dal forte coinvolgimento fisico che comprende non solo la sfera visiva, ma tutta la corporeità, in quanto le persone sono sollecitate a compiere delle azioni tramite delle interfacce che richiedono solo una minima competenza tecnica. Ricordiamo, ad esempio, il progetto artisticotecnologico, ideato (e mai realizzato) da Piero Gilardi nella seconda metà degli anni Ottanta per il parco La Villette a Parigi: si tratta di Ixiana una megascultura abitabile (lunga 40m e alta 15), raffigurante una bambina distesa sul prato 36. All’interno un percorso virtuale, dedicato ai cinque sensi, prevedeva delle “stazioni” dotate di interfacce, con le quali il visitatore poteva interagire e i cui dati andavano a comporre, per ciascun fruitore, un ritratto psicologico-espressivo, proiettabile nel teatro digitale posto all’interno della testa di Ixiana 37. Infine ricordiamo un altro esperimento artistico improntato alla dimensione ludica: Pinocchio Interactive un’installazione dinamica che integra robotica, animazione e fantasia digitale. Il protagonista è un giocattolo, Pinocchio un vero burattino di 1,8 metri in legno e metallo - che costituisce l’interfaccia tra il mondo reale (il visitatore) e il mondo digitale (un Pinocchio Virtuale che si anima sullo schermo). L’utente, attraverso un joystick (proprio come in un videogame) fa muovere il burattino che parla e interagisce con lo schermo sul quale prende forma la storia del Pinocchio virtuale. L’espansione della tecnologia ha trasformato la nostra cultura sia quella alta sia quella popolare, creando un territorio comune di confronto e di sperimentalismo, che ha al centro il fruitore. L’arte si serve oggi dell’infor89


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matica per progettare esperienze - come si è visto - talvolta ludiche; si tende alla liberazione dall’oggettualità del prodotto artistico per valorizzare l’emozione, la sensazione. In questo senso l’estetica, come scienza della conoscenza sensibile, secondo la definizione di Baumgarten, acquista una nuova attualità 38, configurandosi come quella disciplina che, recuperando il valore etimologico dell’aisthesis, può aprirsi verso nuovi orizzonti esperienziali, incluso quello del divertimento. Note M. Feo, Cinema e fumetto: verso un nuovo sviluppo narrativo multimediale, Novara, De Falco, 2004.

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A. Amaducci, Anno zero. Il cinema nell’era digitale, Torino, Lindau, 2007, p. 171. Altro elemento grafico degno di nota sono i capelli e gli abiti mossi da un vento sottile in molte scene del film, talvolta persino in ambienti chiusi, come nel locale in cui si esibisce la spogliarellista. Si tratta di un espediente che risale alla figuratività rinascimentale - si pensi alla Nascita di Venere (1485 Firenze, Uffizi) di Botticelli o al Trionfo di Galatea (Roma, Villa Farnesina, 1511) di Raffaello - e che trova nel De pictura (II, 45, a cura di C. Grayson, RomaBari, Laterza, 1980, p. 78) di L. B. Alberti la sua espressione più pregnante: «Dilettano nei capelli, nei crini, ne’ rami, frondi e veste vedere qualche movimento. Quanto certo a me piace ne’ capelli vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi in uno giro quasi volendo anodarsi, e ondeggino in aria simile alle fiamme; parte quasi come serpe si tessano fra gli altri, parte crescendo in qua e parte in là; così i rami ora in alto si torcano, ora in giù, ora in fuori, ora in dentro, parte si contorcano come funi». Sul movimento dei capelli cfr. anche G. P. Lomazzo, Trattato della pittura (Milano, 1584), libro II, cap. XXI, ris. an. Hildesheim, Olms, 1968, pp. 180-182 e W. Hogarth, Analisi della bellezza, Palermo, Aesthetica, 1999, pp. 61-62.

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Sulle analisi di questi film si vedano i saggi contenuti nel precedente numero di questa rivista The Rope n. 2-3, 2008, in particolare cfr. i lavori di R. Schembri, Sul neofigurativo cinematografico, pp. 9-17 e G. Cappello, I segni della neofiguratività. I comics come linguaggio della visione, pp. 50-54.

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Non ultimo il videogioco 300 in marcia per la gloria, tratto dal film di Snyder. 4

Uno dei primi videogiochi trasposti in chiave cinematografica è Super Mario (1981), l’idraulico italo-americano, divenuto una serie televisiva a cartoni animati (1989) e un film (USA, 1993) cyberpunk.

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Anche Matrix (1999) dei fratelli Wachowski presenta la struttura narrativa di un videogioco: l’intreccio è un percorso ad ostacoli, vi sono continui scontri e duelli contro cattivi che sembrano indistruttibili; tuttavia alcune scene in slow motion - come quella del percorso rallentato dei proiettili o altre in cui il personaggio appare sospeso in aria - ricordano le immagini dei fumetti. 6

Cfr. M. Bittanti, Schermi interattivi. Il cinema nei videogiochi, Roma, Meltemi, 2008. 7

Un caso particolare è rappresentato da Nirvana (1997), il primo film italiano che, spostando i propri orizzonti verso un’estetica più favolistica orientata sulla dimensione irreale del gioco, ha portato alla ribalta il tema della fantascienza iper-tecnologica sull’esempio americano. È significativo che la storia rappresenti proprio la descrizione-narrazione di un futuristico videogioco al limite tra l’umano e il digitale. M. Greco, Il digitale nel cinema italiano. Estetica, produzione, linguaggio, Torino, Lindau, 2002, pp. 98-100. 8

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Un altro caso è quello del videogioco, della serie “sparatutto in prima persona”, ambientato nell’universo di Halo, da cui è stata tratta una graphic novel, composta da quattro storie firmate da nomi celebri nel panorama fumettistico mondiale: Moebius, Jay Farber, Simon Bisley e Andrew Robinson. Il tentativo di realizzare anche il film è fallito per eccessivi costi di produzione. M. Carla, I linguaggi dell’arte e della comunicazione di massa, i linguaggi multimediali: arte, musica, cinema, fotografia, fumetto, pubblicità, televisione e multimedialità, Palermo, Palumbo, 1999. Un caso esemplare dell’alto livello di spettacolarità, consentito dalla grafica in 3D, è il film di James Cameron, Avatar (2009), un pastiche di generi che fonde avventura, fantascienza e temi ecologisti, riproponendo, in una prospettiva rovesciata, il tema dell’invasione 10

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aliena (i cattivi sono gli umani). Inoltre il film presenta un’interessante rilettura del concetto di avatar che, trasposto dal mondo virtuale a quello reale, diviene un ibrido, ottenuto mescolando il genoma umano a quello della popolazione indigena e controllato tramite collegamento neurale dal donatore del materiale genetico. O. Calabrese, L’età neobarocca, Roma-Bari, Laterza, 1987. Per il concetto di post-moderno cfr. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1981.

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M. Bittanti, Intermedialità: videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Milano, Unicopli, 2008. Un interessante caso di intermedialità è costituito da film Labyrinth (1986) del regista Jim Henson, in cui la protagonista Sarah deve percorrere un fantastico labirinto e superare varie prove (puzzle, enigmi) per ritrovare il fratellino, Toby. Entrambi i motivi, l’esplorazione dei luoghi e la ricerca degli oggetti - tipici dei videogiochi - hanno favorito la trasposizione videoludica (1986), mentre il fumetto, in stile manga, Ritorno a Labyrinth (il primo dei tre volumi previsti è uscito nel 2006) rappresenta lo sviluppo narrativo del film e ha per protagonista Toby, ormai adolescente.

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Per una rivalutazione della cultura popolare e della sua portata rivoluzionaria cfr. le teorie sul carnevalesco di Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (1965), trad. it. a cura di M. Romanò, Torino, Einaudi, 1995. 14

Generalmente si tende ad assimilare la cultura alta alle opere celebri, prodotte dal genio, e quella bassa a produzioni mediocri e standardizzate, quando - come ammette pure la critica ufficiale - anche nella cultura alta si annoverano risultati di scarso valore; per cui all’interno dello stesso genere possono esserci alcuni prodotti che perseguono criteri estetici e scopi intellettuali e altri che si rivolgono ad una fruizione meno impegnativa. Sia il cinema sia il fumetto presentano entrambe le categorie. Si ricordi anche Epidemik The Rabbit Generation di Joel Hubaut; primo CDRom d’artista in Francia, tratta l’icona/virus del coniglio attraverso quiz/computergames sull’arte contemporanea. Come ha messo in rilievo M. A. Schroth

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(Il CD-ROM come opera d’arte, in La coscienza luccicante. Dalla videoarte all’arte interattiva, Roma, Gangemi, 1998, pp. 161-201) il CD-ROM è oggi il più caratteristico dei media digitali off-line (distinti dagli on-line collegati in rete, con cui in genere si indica Internet); peculiarità del CD-Rom è quella di consentire molteplici possibilità di interazione: avanzando e retrocedendo a piacere il fruitore può giocare a inventare il proprio percorso di lettura. 16

Le sperimentazioni video-artistiche volte al coinvolgimento del pubblico iniziarono già negli anni Sessanta: Bruce Neuman in diverse video-installazioni usò il circuito chiuso come una specie di specchio deformato in cui lo “spett-attore” si osservava compiere azioni, diventando il protagonista dell’opera. Ritardando l’emissione dell’immagine di qualche secondo, il visitatore poteva rivedersi nel monitor, ad esempio nei luoghi dove era passato poco prima. Il maggiore videoinstallatore negli Stati Uniti fu forse Dan Graham; in occasione di una sua mostra, dei video riprendevano il pubblico che entrava nella galleria, ma solo in una seconda sala era possibile osservare sui monitor il comportamento del pubblico. Infine bisogna ricordare Myron W. Krueger, indiscusso pioniere della Realtà Artificiale; nelle sue costruzioni interattive non bisogna indossare alcuna strumentazione (come invece si fa nella Realtà Virtuale), ma basta muoversi all’interno di uno spazio percepito dal computer e osservare sullo schermo la propria figura che interagisce con figure astratte o con le immagini sintetiche d’altri utenti. V. Fagone, L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano 1990; V. De Angelis, Arte e linguaggio nell’era elettronica, Mondadori, Milano 1998. 17

La valutazione estetica di questo tipo di opere, a confine tra arte e gioco, si basa per lo più sulla grafica delle schermate, ma proprio questo parametro emozionale, assieme alla facilità di approccio, finisce per emarginarle dal sistema dell’arte ufficiale e talvolta persino a demonizzarle come “non serie”, al contrario secondo M. C. Cremaschi, Dalla videoarte all’arte interattiva, in La coscienza luccicante, cit., pp. 194-195), bisogna individuare nuove categorie più adatte ad interpretare queste forme d’arte multimediale e interattiva in cui un ruolo significativo è svolto dalla sorpresa, dal comico, dal gioco, dall’imprevisto. Nel Fedro (276a-277a) Socrate affermando la superiorità della dialettica dialogica rispetto al discorso scritto, seppur di argomento filosofico, contrappone il

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mero divertimento al piacere intellettuale. Anche nel II libro delle Leggi il divertimento è contrapposto alla vera educazione che deve essere seria e controllata. Per questo motivo le arti mimetiche, incapaci di pervenire alla verità delle idee e in grado di produrre solo piacere e degenerazione morale, sono condannate nel X libro della Repubblica. Il capitolo 41 (De statuis) del De remediis utriusque fortunae (13541366) di Francesco Petrarca assume la forma di un dialogo tra Gaudium e Ratio e si risolve in una condanna del piacere estetico. Il De remediis, di cui manca ancora l’edizione critica, si legge in Opera... quae extant omnia..., Basilea, 1554, rist. an. The Gregg Press Inc., New Jersey, 1956; il capitolo XLI, De statuis, si può leggere sia in latino (pp. 186-188) sia in traduzione italiana (pp. 97-100) nel saggio di M. Baxandall, Giotto e gli umanisti, (1971), trad. it. Milano, Jaca Book, 1994. 19

M. Bettini, Tra Plinio e sant’Agostino: Francesco Petrarca sulle arti figurative, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di S. Settis, vol. I, Torino, Einaudi, 1984, pp. 119-267.

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M. De Panizza Lorch, Il volto bello e la statua (pulchra facies e simulacrum) nella teoria del piacere di Lorenzo Valla, in Letteratura italiana e arti figurative, a cura di A. Franceschetti, vol. I, Firenze, Olschki, 1988, pp. 391-396. 21

Ch. Batteux, Le belle Arti ricondotte a unico principio, Palermo, Aesthetica, 2002, p. 34. 22

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Sulla perdita dell’aura con l’avvento della riproducibilità tecnica cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), trad. it. Torino, Einaudi, 2000. Philosophy and the Interpretation of Pop Culture, a cura di W. Irwin e J. E. Gracia, Rowman & Littlefield Publishers, UK., 2007; J. Storey,Cultural theory and popular culture: an introduction, Edinburgh, Pearson Education Limited, 20064.

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P. Bordieu, La Distinction: critique sociale du jugement, Paris, Minuit, 1979, p. 62. 94


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Poiché la sua indagine prende le mosse dal contesto americano, si incentra in particolare sulla cultura hip hop, ma la chiave di lettura democratica che sottende la sua riflessione può essere estesa a tutte le forme di cultura popolare, a seconda delle diverse aree geografiche. Cfr. R. Shusterman, “Entertainment”: A question for Aesthetics, “British Journal of aesthetics, vol. XLIII, n. 3, 2003, pp. 289-307; Id., Pragmatist Aesthetics. Living, Beauty, Rethinking Art, Oxford, Blackwell, 1992, in part. capp. 7 e 8; Id., Performing Live. Aesthetic Alternatives for ends of Art, Ithaca, Cornell University press, 2000. J. Dewey, Arte come esperienza, trad. it. a cura di G. Matteucci, Palermo, Aesthetica, 2007, in part. p. 33 e p. 191.

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Cfr. H. J. Gans, Popular Culture and High Culture: An Analysis and Evaluation of Taste, New York, Basic Brooks, 1974.

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Con l’aggettivo “popolare“ si qualifica tutto ciò che si indirizza ad ampi strati della popolazione, ovvero ciò che i moderni sociologi e teorici della comunicazione definiscono con termine, forse peggiorativo, “cultura di massa”.

In realtà, come nota S. Snaevarr (Pragmatism and Popular Culture: Shusterman, Popular Art and Challenge of Visuality, “Journal of Aesthetic Education, vol. 41, n. 4, 2007, pp. 1-11) tali forme di divertimento, improntate alla cultura visuale, hanno spesso conseguenze negative, in quanto sono una forma di intrattenimento sedentario e solitario, che comporta un aumento dell’obesità, dell’isolamento dei giovani e un impoverimento delle capacità espressive e linguistiche. Forse a questi giochi solitari si deve la difficoltà dei giovani a stabilire relazioni sociali reali, e quindi il successo dei social network e di Second-Life. Benché non sia propriamente un gioco, Second-Life può essere incluso nella categoria del divertissement, in quanto rappresenta uno spazio virtuale in cui gli utenti si muovono e agiscono, tramite degli avatar, realizzando spesso in modo migliore ciò che nella vita reale rimane solo nell’ambito del desiderio, del sogno o della propria creatività inespressa. Su Second-Life cfr. M. Gerosa, Second Life, Roma, Meltemi, 2007; Second Life: oltre la realtà il virtuale, a cura di Paola Canestrari e Angelo Romeo, Milano, Lupetti, 2008. 30

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A. G. Baumgarten, L’estetica, a cura di S. Tedesco, Palermo, Aesthetica, 2000, p. 27.

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S. Bordini, Arte elettronica, in “Art dossier“ n. 156, Firenze, Giunti, 2000, p.

41. P. L. Capucci, Realtà del virtuale. Rappresentazioni tecnologiche, comunicazione, arte, Bologna, Clueb, 1993, p. 138. 33

J. Huizinga, Homo Ludens, Torino, Einaudi, 2002. Sulla teoria del gioco, intesa da differenti prospettive, cfr. C. Gily, In-lusio. Il gioco come formazione estetica, Napoli, Eurocomp, 2000. 34

Esemplare, in tal senso, il fenomeno del modding (la modificazione del software ludico), affermatosi intorno agli anni Novanta con l’incremento dei programmatori amatoriali; il modding ridefinisce la nozione di autorialità, in quanto gli utenti intervengono direttamente sul testo e sulla struttura del gioco, trasformando il videogame originario. H. Lowood, La cultura del replay. Performance, spettatorialità, gameplay, in Schermi interattivi, cit., pp. 69-94. 35

Se consideriamo che alcuni anni prima di Ixiana, nel parco giochi Gardaland vi era una costruzione simile, benché più rozza e priva di sofisticati elementi interattivi - si tratta di Eva, enorme donna di plastica attraverso cui si passeggiava per conoscere il corpo umano -, si comprende che l’industria del divertimento è in grado di cogliere con anticipo la portata coinvolgente di certe invenzioni tecnologiche, pur non prive di implicazioni concettuali. 36

P. L. Capucci, Realtà del virtuale, cit., pp. 120-121. P. Gilardi, Not for Sale. Alla ricerca dell’arte relazionale, Mazzotta, Milano 2000; E. Rentetzi, Piero Gilardi dai tappeti natura alle installazioni “interattive”, in www.artonweb.it/testi/Efthalia_Rentetzi.pdf. 37

Sulla centralità del sensibile nella riflessione estetica cfr. M. Perniola, Del sentire, Torino, Einaudi, 2002; E. Franzini, Filosofia dei sentimenti, Milano, Bruno Mondadori, 1997. 38

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Il re-incarnato della figura. Brevi variazioni sulla Ninfa contemporanea di Dario Tomasello

La storia dell’ambigua relazione fra gli uomini e le ninfe è la storia della difficile relazione fra l’uomo e le sue immagini (G. Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2007)

Cosa rimane dell’umbratile apparenza di fantasmi la cui minaccia sembrava ormai consegnata allo spessore esile di silhouettes senza polpa, senza profondità? La figura oggi torna alla ribalta come capacità di sottrarsi al figurativo, come improbabile ritorno di un pericolo che urge alle porte della nostra coscienza, come ribaltamento e disordine: La presenza del figurale comunque si sottolinea negativamente attraverso il disordine. Non esiste tuttavia una sorta di disordine privilegiato. Non si può affermare che la decostruzione di uno spazio di rappresentazione figurativo sia meno provocante di quello di “buone forme” astratte. La forza critica dell’opera riguarda molto più la natura dello scarto che la genera che i livelli (qui di figura) sui quali fa produrre gli effetti di questo scarto1.

Tuttavia, quando cede il passo ad un impensato ritorno alla visceralità del tratto, la provocazione delle “buone forme” astratte diventa ineffabile sintomo di un’intelligenza altra della figura. Ritorna centrale il quesito sull’enigma dell’incarnato, come materializzazione dell’oggetto del desiderio, come reificazione del fantasma: Bisogna dunque interrogarsi su questo incarnato, a cominciare dall’indecidibilità della parola. «In» sta per dentro, sta per sopra? E la «carne» non è ciò che designa in ogni caso il sanguinante assoluto, l’informe, l’interno del corpo, in opposizione alla sua bianca superficie? Allora perché le carni si trovano costantemente invocate, nei testi dei

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pittori, per designare il loro Altro, vale a dire la pelle? Probabilmente è perché questo stesso equivoco, quest’indecidibilità costituiscono già uno dei fantasmi più importanti della pittura. E il fantasma non è il sogno, che mette tra parentesi la pratica, ma è un rapporto con l’oggetto del desiderio tale da flettere inconsapevolmente l’azione e l’atto, dividendo il soggetto. Esso modifica quindi l’opera, la chiama, la genera, la divide 2.

L’azione si flette, si riflette, come si avrà modo di vedere, più ancora: attraverso l’oggetto del desiderio, il fantasma della figura si re-incarna, diviene oggetto di carne, carnalità di un oggetto che pretende la propria mancanza ed il proprio ritrovamento 3, il riconoscimento del difetto come identificazione, habeas corpus della propria colpa: L’incarnato, come il desiderio, si dispiega e si realizza nell’ordine di un’assolutezza che ammette, e che addirittura esige, il vizio, il difetto, la macchia […] Macchia e difetto nel perfetto candore di una pelle, macchia come indizio stesso del vivente, del movimento del sangue, difetto come indizio del desiderio (il difetto infatti non ha la mitica pienezza del piacere: il desiderio è la dialettica stessa del difetto, della mancanza-a-essere) 4.

È a questo punto che interviene, come suprema sintesi di un irredimibile manque, l’immagine reincarnata della Ninfa, pathosformel warburghiano per eccellenza, che campeggia con l’inquietante profilo del suo eterno ritorno, tramato di “somiglianza nascoste” e di esili allusioni ad una sua familiare estraneità: Non ci sono fate buone, donne savie e amorevoli, disposte a chinarsi sulla culla della modernità intellettuale, tra il XIX e il XX secolo, mentre si preparano i grandi sconvolgimenti della storia. Ci sono, invece, le ninfe: belle apparizioni ornate di panneggi, venute da non si sa dove, volteggianti nel vento, sempre conturbanti, non sempre sagge, quasi sempre erotiche, talvolta inquietanti […] Eroina molteplice dell’estraneità inquietante, ci dà in dono le “somiglianze nascoste”, ove, improvvisamente, tutte le epoche danzano insieme e tutte le incarnazioni possibili si mescolano come in un sogno 5.

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Il dato sorprendente non riguarda la percezione di dove, o quando, Ninfa finirà, semmai fin dove è capace di annidarsi, di nascondersi, di trasformarsi. Si delinea un movimento lentissimo che non smette d’inquietare. L’inarrestabile caduta della Ninfa, il suo tendere verso il suolo, il suo rovinare al rallentatore. Si vuol sapere, allora, fin dove la Ninfa è capace di cadere: Come l’aura di Benjamin, la Ninfa declina con i tempi moderni. In senso proprio, non si può dire che invecchi, perché è un essere della sopravvivenza, e nemmeno che scompaia: semplicemente s’accosta al suolo 6.

Se la Ninfa s’accosta al suolo, lo fa intanto per perdere il suo tratto più specificamente equoreo acquisendo una dimensione terragna e terrifica. Ed è nell’assecondare questo movimento che il corpo cede alla mollezza del panneggio, adeguandosi al velo che manifestava l’oggetto del desiderio, ricoprendone i più riposti segreti: È facile osservare che dalla Venere distesa di Botticelli alla Venere d’Urbino di Tiziano, come in tutte le varianti successive, le vesti sono per così dire cadute. Quando un corpo è spogliato dei suoi veli, il tessuto conquista, non meno dell’incarnato, la sua autonomia visiva, la sua “vita” propria. Il panneggio ricava pertanto da questo processo una funzione iconologica e fenomenologica rinnovata, più potente, per certi aspetti, di prima. Il panneggio che accoglieva e rivestiva il pathos dei corpi ormai cede il posto a un panno, su cui si distendono, si abbandonano o si offrono i corpi. E come la tela dei quadri, in generale, svolge il ruolo di uno schermo – in senso cinematografico – per una vera enciclopedia del fantasma all’antica, così il panno, iperbolizzato dalle scene mitologiche del XVI secolo, diventa ricetto, metaforico e metonimico, della sostanza immaginaria del desiderio 7.

Ed ecco perché con puntualità Didi-Huberman ha scandito le fasi di questa discesa destinata a concludersi in una posizione supina che è, insieme, cadaverica e lasciva: Riassumiamo il “film” dell’ipotesi da noi avanzata, il suo movimento

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generale: l’antica Ninfa warburgiana, la creatura della sopravvivenza che trasmigrava velocemente dai rilievi ai dipinti in epoca umanistica (da Donatello a Botticelli), rallenta il passo e termina a terra nella rappresentazione moderna (da Tiziano a Poussin). Eccola, infine, adagiata negli angoli dei quadri mitologici; presto giacerà, spossata da amplessi libertini, nei dipinti di Boucher e di Watteau, prima di apparire nei nudi pornografici di Courbet e di Rodin. Ma essa sta anche nascosta nei resti, nelle pieghe, negli stracci della propria decadenza. Il movimento della sua caduta è, insieme, sensuale e mortifero: finirà, è prevedibile, nel rifiuto e nell’informe […] In questa casistica di corpi ambivalenti – chiusi-offerti, femminini-mascolini, pudichi-erotici, cristiani-pagani – il panneggio gioca un ruolo preminente: fornisce l’operatore di conversione, l’interfaccia sottile, talvolta neutra, talvolta sublime, di tutte le contraddizioni, ove, insieme, giocano lo spettacolo e la caduta dei corpi 8.

Cosa c’è oltre questa caduta, se non il dispiegarsi del panneggio, l’elemento che sublima le contraddizioni in un fluttuante punto di fuga delle tensioni e delle disseminazioni del desiderio? Come non pensare, dunque, all’idea di una disarticolazione della figura della Ninfa, meglio una dislocazione in un altrove degradato? La spettacolare caduta dei corpi trova un inopinato approdo nell’informe che è dunque il panneggio, metonimica misura di un corpo assurto a codice vestimentale: Il corpo di cui ha esperienza la sessualità neutra non è macchina, ma veste, cosa. Esso è fatto di moltissimi tipi di tessuto sovrapposti e intersecati tra loro. Darsi come una cosa che sente significa chiedere che le stoffe che costituiscono il corpo del partner vengano a mescolarsi con le proprie, creando un’unica estensione nella quale si viaggia per ore, per giorni […] Prendere una cosa che sente significa chiedere che i propri panni siano accolti ovunque e sempre, fino al punto di non essere riconosciuti né da sé né dal proprio partner come appartenenti a qualcuno […] I corpi sono diventati rotoli di stoffa da spiegare e ripiegare l’uno sull’altro, sicché finalmente si può procedere a stabilire un nuovo ordine, facendo stare sete con sete, lane con lane, tele con tele 9.

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L’idea di un corpo a brandelli, preannunciato dalla caduta della ninfa, dal suo discendere, degradandosi, le dimensioni verticali della propria involuzione, coincide con le sapienti intuizioni di Artaud, capace di leggere la stratificazione morbida e disfatta, ad un tempo, che caratterizza molte delle estenuate pose dei soggetti prediletti dal pittore francese: Il getto, dico io, che gli diede questo formidabile e incurabile contraccolpo in cui il giovane Balthus quando vi parla sonda non so quante epidermidi di corpo, quanti vecchi strati di epidermidi ridipinti, e tinti in queste tinture in cui mi sembra – quando Balthus rutta -, ricondurre qualcosa nella sua vecchia valvola, che è la tintura in cui ci si tempra da morti. Non credo che Balthus nelle sue pitture realiste abbia assolutamente e completamente finito di distaccare quest’epidermide che ogni oggetto tiene rinchiuso sotto la sua vecchia palpebra incerata, ma è un’epidermide che egli distacca e approfondisce, la misura e il valore di una vera epidermide. Ho un ventre e degli intestini, questi intestini non sono un mistero. Ma che mi si apra il ventre e che mi si operi, il nero dei miei intestini diventerà un mistero, la pellicola di un corpo vero 10.

La pellicola rimanda, appunto, alla superficie impressionabile, alla patina che separa e, però, restituisce la fisionomia distinguibile degli orizzonti perduti, delle occasioni mancate dal tempo nel tempo, par excellence, della mancanza e della malinconia che ne deriva: l’adolescenza. Balthus cerca, nelle pieghe dei corpi gualciti delle sue bambine, colte un momento prima della discesa vertiginosa del sonno, nell’oblio dell’imminente età adulta, il segreto crudele della propria perdita. Non c’è esibizionismo nei corpi di queste ragazzine affrante che mostrano il sesso appena lanuginoso come in Alice nello specchio, in cui lo sguardo opaco della bambina troppo cresciuta fissa per sempre il momento di passaggio alla cecità dell’età adulta, sublimando le espressioni di molte pensose modelle dell’artefice principale di un rovescio immaginifico della realtà: Di che natura era lo strano fascino che le bambine esercitavano su Carroll? […] Ci limiteremo a constatare che Carroll non amava mai una singola bambina, anche se ne era persuaso: amava, attraverso di lei, un istante fugace, effimero, quel breve istante dell’alba tra il giorno e la notte 11.

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Alla ricerca di quell’istante effimero, la cattura dell’immagine, a lungo anelata, poteva surrogarne lo sconsiderato possesso. Era fatale che Carroll facesse intervenire questo schermo tra l’inaccessibile fanciulla e la sua brama di averla. Egli finiva per possederla attraverso l’obiettivo, l’altra faccia della realtà, lo specchio deformante, il proprio privato paese delle meraviglie. Il dato sorprendente delle immagini di Carroll è l’apparenza compunta dei volti, è la propria malinconia invincibile che lo scrittore va cercando. Così nel più significativo degli scatti, la beggar maid la piccola mendicante – Alice, in posa davanti ad un muro fatiscente, a piedi nudi, sembra osservare l’obiettivo con profondo rammarico. La camicia è lacera e i suoi brandelli, confondendosi con la carne denudata sono, ancora una volta, il sintomo della caduta della Ninfa, la pellicola epidermica che misura il tempo dell’inarrestabile cadere. Se ne ricorderà, dunque, Balthus, capace di denunciare il carattere speculare di questa visione nelle proprie ninfe, attraverso la presenza ossessiva dello specchio che, lungi dal tradire un qualche compiacimento delle giovani modelle, testimonia la persistenza del punto d’osservazione del pittore. L’uomo che guarda, in realtà, si guarda.

Note 1

J-F. Lyotard, Discorso, figura, Mimesis, Milano, 2008, p. 382.

G. Didi-Huberman, La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 21. 3«L’oggetto si presenta prima di tutto come ricerca dell’oggetto perduto. L’oggetto è sempre l’oggetto ritrovato, l’oggetto preso a sua volta in una ricerca, che si oppone in modo assolutamente categorico alla nozione di soggetto autonomo, a cui finisce sempre per arrivare l’idea di oggetto realizzante», J. Lacan, Il seminario. Libro IV La relazione oggettuale 1956-1957, Einaudi, Torino, 2007, p. 21. 2

4

G. Didi-Huberman, La pittura incarnata, cit., p. 62.

Id., Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004, pp. 11-13.

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Ivi, p. 15.

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Ivi, p. 21.

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Ivi, p. 28.

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M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 2004, p. 13.

10

A. Artaud, Balthus e i surrealisti, Torino, Ananke, 2008, pp. 88-89.

Brassaï, Lewis Carroll fotografo o l’altra faccia dello specchio, in Lewis Carroll fotografo, Abscondita, Milano, 2009, p. 20.

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Ariosto barocco e neobarocco di Renato Tomasino a) L’allestimento d’avanguardia di Luca Ronconi Questa vicenda ha inizio dalla sua fine. Il leader della generazione del “teatro di regia” italiano del secondo dopoguerra, Luca Ronconi, a causa delle sue ideazioni sceniche anticonvenzionali è costretto negli anni’60 a lavorare al di fuori dei tradizionali circuiti: nel suo teatro, che predilige la grande drammaturgia manierista e barocca, effetti di crudeltà mostrano l’influsso di Artaud ed installazioni al limite – pendii esagerati, percorsi attoriali costrittivi, costumi a funzione simbolica per niente funzionali – sgomentano critici, impresari e spettatori. Ronconi, in realtà, con il suo laboratorio radicalmente progettuale, si propone come un regista-autore che connette le motivazioni interpretative più profonde del testo alle ricerche delle avanguardie “storiche” e “nuove” sulle tre direttrici delle forma del teatro e dello spazio scenico, del nuovo rapporto fisico emotivo ed intellettuale tra spettatore e spettacolo, della recitazione ideologica e non-naturalista degli attori fino al limite della comunicazione negata e azzerata. Nel ’69 approda ad uno spettacolo shock che sarà destinato a rivoluzionare le sorti del teatro di questi ultimi decenni: l’Orlando Furioso dell’Ariosto, testo la cui poeticità fantastica e narratività epica sembrerebbero dover mettere al riparo da sintesi rappresentative, viene affidato dal maestro alla riorganizzazione in forma drammatica del leader del gruppo ’63 Edoardo Sanguineti. Ne nasce una messinscena dalle dimensioni gigantesche affidata ad oltre quaranta validi attori – tra i quali Massimo Foschi, Ottavia Piccolo, Edmonda Aldini – messinscena da installare in spazi non convenzionali (a Roma, per esempio, il Palazzo dello Sport dell’EUR) con gli ariosi e iconici costumi cortigiani di Elena Mannini e con le macchine plastico-figurative semoventi di Umberto Bertacca riproducenti il volo dell’ippogrifo, le mura di Parigi, i destrieri imbizzarriti, i vascelli sui flutti e quanto altro. Queste macchine, su cui agiscono gli attori, sono sorrette da piattaforme mobili che vengono trascinate a gran velocità fendendo pericolosamente e riaggregando la massa del pubblico. La simultaneità delle azioni costringe ogni spettatore a spostarsi velocemente per selezionare “il proprio spettacolo” e di con104


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seguenza scegliere la propria linea diegetica nel complesso plot ariostesco. L’esito ricorda i trionfi di una festa medievale o barocca, o i grandi misteri urbani con mansions e pageants, ma congiunge queste reminiscenze di grande spettacolarità con le suggestioni recenti dello happening e delle tecniche di coinvolgimento dei gruppi della nuova avanguardia americana. Alla fine la poesia dell’Ariosto si trasmette tutta e lo spettatore letteralmente vola con il suo spirito libero al di sopra delle costrizioni della sala all’italiana, della prospettiva, della immobile passività. Ma queste modalità di rappresentazione non sono in realtà un’idea nuova, quasi quattro secoli indietro il capolavoro dell’Ariosto ha cominciato ad essere utilizzato con criteri assai simili. Una siffatta considerazione ci dà la misura della sperimentalità insita nelle esperienze sceniche dell’ultima Rinascenza e dei secoli successivi che siamo soliti definire come quelli della “età barocca”. b) Il “Concerto Caccini” L’uso spettacolare dell’Ariosto ha inizio nelle corti italiane rinascimentali. La fiorentina Francesca Caccini, la leggendaria “Cecchina” compositrice, attrice, maestra di canto e di ballo cortese, si circonda di fanciulle dell’aristocrazia e crea quel mirabile e vario “Concerto Caccini” che accompagna le imprese festive e spettacolari del padre Giulio, l’operista della Camerata devoto al conte de Bardi. Il tema cavalleresco è di sicuro trattato, tanto che quando il “Concerto Caccini” si trasferisce a Parigi nel 1604, su invito di Maria de’ Medici andata in sposa a Enrico IV, lascia dei germi sia tematici che stilistici che, come vedremo, fioriranno nei ballets de cour successivi. Per altro la leggiadra Cecchina e le sue fanciulle sono costrette a rientrare per ordine perentorio del preoccupatissimo granduca Ferdinando I. Il 3 febbraio del 1625, in occasione della visita a Firenze di Ladislao di Polonia, il gruppo mette a frutto tutte le esperienze accumulate in alcuni debutti precedenti sui temi del Furioso per il grandioso ballo La liberazione di Ruggero dall’Isola di Alcina, “azione scenica in musica” che costituisce di sicuro il maggior evento realizzato dalla Cecchina. La rappresentazione avviene nella villa di Poggio Imperiale che Giulio Parigi ha restaurato e rielaborato, e lo stesso architetto si incarica delle scene che devono ambientare il libretto e le coreografie di Filippo Sarcinelli. 105


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Francesca si incarica delle musiche, ma le parti composte per un ballo finale delle dame di corte e per un ballo a cavallo sono oggi perdute. Il Parigi sovrintende a tutte le feste ed ai tornei dei Medici ed i suoi allestimenti sono riprodotti da incisori quali Jacques Callot ed il figlio Alfonso in un gran numero di copie diffuse dalla stamperia granducale. Per l’occasione non lesina i mezzi: essendo stato allievo ed aiuto del Buontalenti sia nelle fabbriche che negli spettacoli dei teatri degli Uffizi e di Pitti, proseguendo ora nell’allestimento del teatro di Boboli, l’architetto usa tutte le macchine dei suoi teatri per grandi effetti a sorpresa o eclatanti. Sulla prospettiva unica, ed ortogonale rispetto allo sguardo del Granduca, pone dei corpi semoventi avanzati, i fantastici padiglioni arboreo-architettonici dell’Isola di Alcina, tutti praticabili da musici, cantanti e danzatori alla maniera del suo grande maestro, il principe degli Intermedi. Gli intervalli regolari ed i ritmi geometrici dei padiglioni – elaborati secondo la nuova voga della pastorale che è insieme monumentale e silvestre – sono paralleli ai calcolati movimenti delle masse: l’effetto è sorprendente, anche perché i costumi sono di indicibile sfarzo, e la girandola apoteosica di padiglioni e masse nel finale lascia senza fiato, quando l’eroe risolve gloriosamente la sua vicenda d’incantamento. Il tutto poi ha termine a notte con gli “spettacoli in Arno”dai castelli assaltati e dai fuochi d’artificio, sempre musicati, offerti alla cittadinanza. c) Il Balletto a cavallo Il Balletto a cavallo – sottogenere del Balletto di corte che si sviluppa sia al chiuso che all’aperto, come attestano già cronache e stampe del teatro buontalentiano degli Uffizi e del Farnese dell’Aleotti – risulta dalla sintesi di quella forma con il torneo medievale, le pompe fiorentine, i trionfi ferraresi, etc. Si tratta di una esibizione celebrativa di ballo, musica, poesia, scenografia, scherma ed equitazione che sublima nell’eleganza del ritmo, della fusione uomo-destriero, il mito della centauromachia. Il passo danzante del cavallo – che già aveva esaltato Plinio il Vecchio nel suo De Natura equorum – ha un che di divina epifania; così come risulterà in seguito dalla lunga e prodigiosa storia del circo equestre fino agli attuali esiti d’avanguardia, e insieme di ritrovato sciamanesimo della trance, del circo Zingaro e del suo guru il gitano Bartabas. Per restare all’epoca, quel passo prevede due maneggi: al passo o “di terra” e saltato o “d’aria”, esattamente come per la danza umana. Si af106


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ferma a Firenze, dove si consacra nel 1637 adottando temi dalla Gerusalemme Liberata (su coreografie del Ricci) in occasione delle nozze di Ferdinando II con Vittoria della Rovere; ma già un trionfo era stato nel 1620 a Bologna il Ruggero liberato d’ispirazione ariostesca, con versi rielaborati da Ridolfo Campeggi dei conti di Dozza e musiche di Girolamo Giacobbi, prestigioso membro dell’Accademia dei Fluidi di Adriano Banchieri. Di quest’arte inimitabile ci rende conto la passione cavalleresca e araldica del Ménestrier nel suo Traité des Tournois, Joutes, carrousels et autres spectacles (Lione, 1669). I cavalieri duellanti e i loro destrieri danzanti erano, comunque, sempre abbigliati nelle fogge e armature pseudo-carolinge dei paladini di Francia. Fogge del resto non inconsuete tra i costumi più eroici del ballo di corte italiano e francese, e confermate da una sterminata iconografia barocca relativa a sovrani, condottieri, nobili. d) il “Ballet de cour” La storia del Ballet de cour francese inizia con il Ballet comique de la Royne coreografato nel 1581 dall’acclamato danzatore-violinistra italiano Baltazarini da Belgioioso. Questi porta a Parigi le forme ballettate delle nostre corti quali Intermedi, Mascherate, Trionfi, Brandi e Ballitti, accogliendo a sua volta in una sintesi nuova gli apporti poetici degli umanisti della Pléiade. Ben presto si struttura un’articolazione classica del genere in tre parti dalle finalità dichiaratamente celebrative ed encomiastiche: l’ouverture è l’esposizione declamata dell’argomento sempre a tema mitologico e/o eroico suscettibile di leggendarie attribuzioni dinastiche (come d’altronde è già avvenuto largamente nel poema ariostesco con riferimento alla casata d’Este); le entrées, che si fanno via via più numerose, costituiscono le scene di sviluppo della vicenda attraverso la successione, ma anche la simultaneità, di pantomine, danze, récits, canto nelle diverse forme di couplets, chansons mesurées, récits-chantés, e musica strumentale di supporto ad airs, balletts, symphonies de danse; il finale è dato dal grand ballet che vede sciogliersi la favola con l’intervento di tutto il corpo di ballo e coreografie geometriche apprezzabili soprattutto da scanni regali sopraelevati, esattamente come accadrà per il punto di vista in plongée delle coreografie hollywoodiane di Busby Berkeley, non a caso definibili come neobarocche. Il sovrano, la famiglia reale, i nobili della corte si esibiscono sulla scena 107


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insieme a valenti professionisti (quasi sempre italiani) che si fanno via via più numerosi e che si incaricano anche del piacevole dressage di cortigiani e cortigiane al ballo, alla pantomina e al canto. I preziosi costumi sono del tempo – quale che sia la cronologia di quanto viene rappresentato – e si completano con maschere nere o dorate ormai prive di ogni funzione apotropaica, ma destinate a conferire un carisma paradossalmente vezzoso, aigrettes e piume di seta multicolori. Del tutto libera è la mîse enfatica delle dame dagli scolli generosi e le larghissime gonne, mentre gli uomini generalmente indossano una casacca corta che consenta una certa libertà di movimento e stivaletti al polpaccio, ma frequenti sono i sontuosi travestimenti in deità celesti e marine, astri, sole e luna, creature ed animali fantastici. D’altronde le danze sono soltanto strisciate e marciate, al massimo saltellate quando si vogliano assumere le maniere festose e popolariste del contado. Ben presto, infatti, si inclina verso il popolarismo tematico, la satira pastorale, e perfino la sensuale e galante licenziosità, così il sottogenere del Ballet-mascarade si svolge in sale più ridotte o presso dimore nobiliari, su di un testo minimale e spesso frammentario che dia modo di valorizzare le pompose mascherature in entrées assai meno numerose. Come abbiamo detto, ai primi del ‘600 il Caccini ed il Rinuccini soggiornano presso Maria de’ Medici a Parigi portando in terra di Francia l’eredità della Camerata e giungendo a questa fortunata sintesi di struttura che è il Ballet de cour che accoglie anche le esigenze della tradizione locale festiva che è celebrativa e non lirica. Dal loro apporto discende quel grandioso Ballet de la Reine del 1609 che fissa i codici del genere; e l’anno dopo, però, l’ariostesco Ballet d’Alcine in cui la declamazione è finalmente soppressa a favore del canto integrale, com’è nella teoria e nella pratica della Camerata. Con l’incanto della maga Alcina e della sua isola, tema e ambientazione che vedremo ricorrenti in tutte le forme della spettacolarità barocca, si inaugura dunque la voga del Ballet mélodramatique in cui le vicende pastorali e cavalleresche, sostenute da poeti come Malherbe e Durand, da mimi e musici come Boësset e Marais, troveranno agile ed elegante sviluppo grazie alla prevalenza delle musiche e del canto anche a sostegno dei momenti danzanti. Notizie più precise abbiamo su un altro ballet de cour cavalleresco del 1617: La Délivrance de Renault viene rappresentata al salone de Louvre il 29 gennaio su un “teatro” opera del Francini, dotato di plaque-tournant (il palcoscenico girevole già sperimentato da Leonardo nelle feste sfor108


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zesche di Milano) in modo da disporre di quattro cambi di scena a vista. Il libretto tassesco di Durand a tratti risente dell’Ariosto, le musiche sono di Guédron, Boësset e Maudit per ben 92 voci e 45 strumentisti. Luigi XIII, esperto coreografo, vi partecipa in numerose entrées insieme al favorito de Luynes che interpreta Rinaldo. Segue due anni dopo l’altra tassesca Adventure de Trancrède en la forest enchantée, dove il Francini fa meraviglie con i suoi “ingegni”che generano fuochi d’artificio, incendi, nuvole e astri mobili, etc. Ma in mezzo c’è l’ariostesca La folie de Roland del ’18 che, impegnando più o meno la stessa équipe di lavoro rimane leggendaria per la quantità dei mezzi profusi. L’Intendenza ai “plaisirs de la cour” del de Luynes, infatti, assicurerà la prevalenza dei soggetti cavallereschi e romanzeschi fino alla nuova era segnata dal duca di Nemours, con la quale il Ballet à entrée esploderà nelle sue veloci successioni di scene poco coordinate tra loro e di tono galante-burlesco per la gioia dei molti cortigiani che vi prendono parte. E non cade mai in disuso, comunque, la pratica transalpina della declamazione e del canto solista interpretati dietro le scene a sostegno di balletti a funzione soprattutto pantomimica. Il “Mercure François”, periodico ufficiale della Monarchia, recensisce ogni debutto e interviene con articoli di critica nella rissosa “querelle” tra “italianisti” e “tradizionalisti”. Ma mentre con il favore del Mazzarino s’avanza trionfalmente la voga dell’opera all’italiana, l’ultima stagione del Ballet de cour mette tutti d’accordo con il genio di Giovan Battista Lulli, ballerino, coreografo e compositore fiorentino che nel 1661 diviene “surintendent de la musique du Roi”, forte del sodalizio con il talentuoso poeta Benserade. Il Ballet de la Nuit, già nel 1653, ha visto il giovane re Sole e Lulli, che ne è anche coreografo e compositore, danzare insieme e trionfare proprio su temi ariosteschi. Infatti, mentre la prima parte fa assistere ad un malioso e musicale tramonto di città e campagna cangiante di luci nelle ore dalle 18 alle 21, la sera dalle 21 a mezzanotte vede svilupparsi l’avventuroso ed amoroso ballo di Ruggero e Bradamente; il tutto assurge all’apoteosi con gli amori di Diana ed Endimione fino alle tre del mattino, e dalle tre alle sei si chiude con l’affermarsi progressivo dell’Aurora. Dodici ore di spettacolo dal tramonto all’alba che riutilizza inaspettatamente valori rituali propiziatori; soprattutto se immaginiamo che l’esecuzione si sia svolta in tempo reale, recuperando in tal caso alle occasioni della festa quelle suggestioni e quei sortilegi d’atmosfera 109


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di cui ci narra il Castiglione a proposito della sua Urbino, con quel frusciare di gonne delle dame e quelle lunghe ombre di cavalieri che alla luce diafana dei finestroni si ritirano in silenziosa e incantata teoria verso le loro stanze nell’estrema ora antelucana. A proposito di questa grande spettacolarizzazione ariostesca ha commentato lo storico e teorico gesuita Claude François Ménestrier, direttore delle feste cittadine di re Sole e che abbiamo visto appassionato studioso del mondo cavalleresco: “Je ne sçais si jamais nôtre théâtre représentera rien d’aussi accompli en matière de ballet”. (Des ballets anciens set modernes selon les règles du théâtre, Parigi,1682). Il Lulli sovrintende a ben 17 grandi Ballets à entrées e ad 11 comédiesballets in collaborazione con Molière. Ma quando nel 1671 la sua Académie Royale de Danse diviene anche de Musique nella apposita sala teatrale edificata dal Vigarani, la strada è ormai aperta a quell’Opèra-ballet e perfino a quella Tragédie-lyrique delle quali sarà il primo signore, anche con cospicui esiti ariosteschi. e) La “fête galante” Come per contrastare l’affermazione dell’opera italiana il Ballet de cour smarrisce i suoi schemi rigidi e si evolve nelle mille sfaccettature rococò della “fête galante. Questa accoglie ormai le danze più varie, mobili e popolari: minuetto, gavotta, ciaccona, tambourin, passepied, rigaudon, passacaglia, etc. La tematica è sempre pastorale e/o cavalleresca con momenti di apoteosi mitologiche, ed i protagonisti canori e danzanti sono cavalieri, mori, turchi, demoni, mostri, ma anche ninfe e pastori. È difficile, dunque, distinguere il genere con una netta demarcazione dalla Opéra-ballet - che intendeva rispondere all’opera italiana dando alla fête un costrutto musicale di qualche consistenza - e dalla Comédie-ballet di Molière in cui appare anche la recitazione e a volte una limitata tipologia di maschere da commedia dell’arte raffinata e resa romanzesca per la corte. Se in quest’ultima Lulli fu quasi sempre il coreografo, succedendo al mitico Beuchamps, ed il musicista, la fête si avvarrà in seguito del genio musicale di Campra e soprattutto di Rameau, di librettisti del prestigio di Quinault, La Motte, Danchet. Del 1664, giardini di Versaille, è la Première Fête d’Amour o Les Plaisir de l’Île enchantèe, libera invenzione di de Beauvilliers dai canti VI e VII dell’Orlando furioso su musiche di Lulli. L’occasione trionfale è data 110


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niente di meno che dalla pace di Acquisgrana che assicura alla Francia il protettorato d’Europa. La Fête comprende tra balli, canti e fuochi d’artificio, ben tre opere del tandem Lulli-Molière: La princesse d’Elide, Les Facheux, Le Mariage forcé. Così dal seno del Ballet de cour ariostesco nasce in Francia l’Opèra-comique che giungerà fino al Novecento. Gaspare e Carlo Vigarani nella II metà del ’600 hanno disseminato Parigi di mirabolanti teatri che divengono i luoghi deputati della fête galante. La Salle à machine (1662) presso le Tuileries, commissionata per le nozze di re Sole con Maria Teresa d’Austria, consentiva addirittura al palco reale di librarsi in aria e depositarsi nel bel mezzo della scena nell’apoteosi finale. Ma fu il figlio Carlo, dieci anni dopo, ad edificare il sontuoso teatro nel parco di Versailles, aperto sulle prospettive della vegetazione reale. A Giovanni Francesco Guarnieri si deve, invece, su ispirazione bibienesca, la fabbrica del pastorale “teatro grottesco” dei principi d’Assia a Kassel (1715). A Vienna ben presto furoreggiano Ferdinando e Giuseppe Bibiena con la loro installazione del 1716 presso il Parco della Favorita: il 22 settembre, per la nascita dell’erede imperiale, un immenso teatro effimero vi ospita la festa teatrale Angelica vincitrice di Alcina che dispone le due mitiche eroine ariostesche ad una rivalità femminile senza quartiere, attorno alla quale ruotano il mondo guerresco dei cavalieri e dei desideri e gli stessi cataclismi del mondo, e che annovera scene di palazzo a prospettiva aberrata, archeologie dell’isola della maga sullo stesso lago e foreste del Parco, mostri immani, battaglie navali con scene denominate Isole Orride, azioni di massa ballettate frammiste ad un’opera in tre atti dal titolo omonimo di Pietro Pariati, l’italiano divenuto poeta cesáreo e precursore del Metastasio, con musiche di Nicola Matteis per i balletti, e per l’opera di Johann Josef Fux. Questi, primo maestro della corte imperiale ammirato perfino da Bach, sapeva fondere gli influssi napoletani melodici nella tradizionale polifonia, generando una sapiente orchestrazione e l’intervento molteplice dei fiati a sostegno del canto virtuoso. Fux nell’Austria di Carlo VI era un leader come Händel presso la monarchia inglese e Lulli presso la francese; la sua incantata e grandiosa Alcina fu perciò, anche per questo, un evento. f) Dopo la “Camerata” Jacopo Peri, il compositore che aveva mosso i primi passi concreti dalla 111


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elaborazione della Camerata alla compiutezza dell’opera con la Dafne e la Euridice, nel 1619 fa debuttare al Teatro di Pitti, in occasione delle nozze di Ferdinando Gonzaga, un ariostesco Medoro cui ha collaborato anche Marco da Gagliano proficuamente contaminando le limpide arie dell’amico con la polifonia in cui eccelleva. Partitura purtroppo perduta. L’anno dopo, a segno del ricorrente interesse del nascente melodramma italiano per i temi del Furioso, è la volta di una Olimpia abbandonata da Bireno, di autore a noi ignoto, ma che chiaramente si inserisce nel filone del lamento d’amore d’Arianna abbandonata a Nasso inaugurato dal capolavoro del Monteverdi. Un filone ricco di opere “minori” che qui non possiamo ricordare, ma che giungerà fino all’Olimpia di Giovanni Paisiello, data al San Carlo di Napoli nel 1768 su libretto, forse, del Trabucco. Un libretto che aveva provocato quasi vent’anni prima un’altra Olimpia passata per il San Carlo, quella di Baldassare Galuppi. A segno che la melodia mediterranea può bene effondersi su di un tema di disinganno e desolazione che è diventato un “mitéma”. Si volge invece di nuovo al mito d’Alcina e del magico incanto Francesco Paolo Sacrati, con la sua Isola di Alcina composta per un matrimonio estense nel 1648 a Bologna su libretto dello stesso compositore, tratto da una tragedia di Fulvio Testi del ’26. Erano previste anche degli apporti musicali di Sigismondo d’India, ma la rappresentazione non venne mai realizzata, anche se il Testi, accademico degli Ardenti, aveva celebrato con la sua tragedia la discendenza della dinastia d’Este dal paladino Ruggero. g) L’opera barocca Nelle corti italiane seicentesche spesso la limpida eredità melodrammatica della Camerata si piega alle funzioni richieste dalle meraviglie della scenotecnica e della coreografia. L’esigenza investe anche i testi, sicchè il librettista veneziano Aurelio Aureli è autore di circa cinquanta libretti caratterizzati dai tratti essenziali del nascente stile veneto che porterà alla corte degli Este di Parma: deità ed eroi pseudostorici dai toni eroici ed altisonanti si mescolano a figure comiche prese in prestito dall’Arte, ed i temi amorosi dominano tratteggiati con una nobiltà che enfatizza le passioni. Il riferimento agli eroi dell’Ariosto non poteva mancare, ed ecco ancora una Olimpia vendicata cui fa seguito nel 1687 una Olimpia placata, opera di successo con alcune arie del Freschi e partitura di don Bernardo Sabadini. Anche questi di scuola veneta, compositore di corte 112


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a Parma pure per spettacoli acquatici, feste e balli, curerà tre anni dopo le musiche del celeberrimo “dramma fantastico musicale” Il favore degli dei, anima dei festeggiamenti scenotecnici di Mauro e Ferdinando Bibiena per le nozze di Odoardo Farnese, libretto sempre dell’Aureli. L’evirato cantore Giovan Francesco Grossi detto “Siface”è la star canora di queste esperienze. Ma spesso, vedremo, il canto dei sopranisti e dei contraltisti sosterrà nell’esperienza veneta gli eroi dell’Ariosto, poiché le loro purissime voci ben si prestano a restituirne l’altisonante nobiltà e la nettezza delle passioni. Così, al volgere estremo del secolo, sempre la coppia Aureli-Sabadini potrà proporre al Teatro Ducale le tormentate vicende di amori e di spade del paladino Ruggero. Un altro compositore secentista d’area veneta, il nobile Agostino Steffani, si forma attraverso i migliori maestri e diffonde per l’Europa, e soprattutto in Germania, un efficacissimo melodismo all’italiana che si effonde nella struttura della “opera ad arie”. A queste caratteristiche corrisponde il suo Orlando generoso dato nel 1691 in quel “suo” teatro della Opernhaus di Hannover che già aveva inaugurato due anni prima. Al sorgere del nuovo secolo non manca un nome illustre, quello del napoletano Domenico Scarlatti, che però a Venezia aveva conosciuto il lavoro di Vivaldi e del Pollarolo e se ne era intriso. Così a Roma, da maestro di Cappella della regina Maria Casimira di Polonia, dà nel teatrino della piccola corte, tra le altre opere, il suo Orlando ovvero la gelosa pazzia, per i festeggiamenti del carnevale 1711. Il tema di Ruggero – altro titolo L’eroica gratitudine – verrà invece ripreso da Johann Adolf Hasse al Teatro Ducale di Milano nel 1771, 16 ottobre, in occasione delle nozze dell’Arciduca d’Austria con Maria Beatrice d’Este. L’operista tedesco discepolo di Nicola Porpora e di Alessandro Scarlatti, ma ora anche incline alla maniera “eroica” veneziana, mette così a segno un’altra tappa del suo proficuo sodalizio col Metastasio. Questo tandem perfetto, che nell’opera “seria” realizza l’ideale poetico metastasiano su temi epico-mitologici, ottiene una nitida esposizione musicale delle passioni che soverchia di gran lunga lo svolgimento dell’azione drammatica. È con opere come il Ruggero che la stessa iconografia eroica e cortese del paladino si ritaglia a tutto tondo e si staglia in uno con la sua alta vocalità. Tant’è che il tema ruggeresco verrà ripreso in età romantica dal Ruggero o l’eroica gratitudine di Antonio Gandini (1820) e poi da Giuseppe Curci, musicista e baritono pugliese allievo a Napoli dell’evirato 113


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“sopranista” Girolamo Crescentini, con la presentazione nel 1835 al San Carlo di un Ruggiero che s’avvale del libretto di Cesare Dalbono; ed in seguito anche da altri. Ma un altro Ruggiero famoso d’età barocca era stato quello denominato anche Bradamante e Ruggiero e rappresentato al veneziano San Salvatore nel 1769 con libretto di Carlo Mazzolà e musiche, stavolta di scuola napoletana, di quel Pier Alessandro Guglielmi tuttavia attivo anche a Venezia. Lo scapestrato artista – avventuriero, spadaccino, responsabile di una famiglia abbandonata, di molte opere non finite e lasciate alle bramosie degli allievi, di diverse accuse di plagio – è comunque un musicista toccato dal genio, e questa sua opera si effonde nei toni sentimentali non meno di quanto avrebbero fatto Paisiello o Cimarosa, e parimenti nei toni comici e caricaturali. Guglielmi insisterà nel filone ariostesco con un Orlando Paladino del 1774, libretto del Badini, debutto addirittura londinese in quello Haymarket dove aveva furoreggiato Händel pochi anni prima. Anche il suo figliolo Pietro Carlo manterrà aperti i conti con l’Ariosto, pur se versato nella “opera buffa” con la quale ha conseguito una tale fama europea da far considerare il Rossini come un prosecutore della sua arte. La sua Fata Alcina, che si segnala per i bei concertati e finali ed ha avuto successo nel carnevale del 1799 al romano teatro Alibert, mantiene un che di giocoso e si fonda su un libretto che appare come una rielaborazione anonima de L’Isola di Alcina di Giovanni Bertati. Libretto fantasioso e divertito, questo ultimo, che ha avuto una fortuna notevole, dato che è stato appannaggio del musicista di scuola veneziana Giuseppe Gazzaniga nel 1772; lo stesso anno di Giacomo Rust, opera omonima debuttata come l’altra al San Moisè di Venezia; e testo di base per la versione tedesca Die Inselder Alcina del 1794 di Antonio Bianchi. V’è poi la congerie delle opere ispirate ai personaggi “minori”. Non si contano quelle dedicate alle intricate vicende di Isabella. E storia a sé fa il Rodomonte sdegnato dato a Venezia al Teatro S. Angelo nel 1714 su libretto del prolifico Braccioli, con musiche di Michelangelo Gasparini, un “evirato cantore” contraltista comico la cui esperienza era contigua alla Commedia dell’Arte. Tant’è che il guerriero ariostesco è qui divenuto una maschera di “capitano” gradasso e rissoso. La genia infelice e talentuosa degli “evirati cantori” dell’opera barocca dà voce estesa e squillante agli eroici paladini di Francia. Anzi, il più mitico tra essi, Carlo Broschi detto il Farinelli, dà il via alla sua prodigiosa 114


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carriera, che lo condurrà ai vertici delle sorti del teatro inglese e di quello spagnolo, con un’ariostesca “serenata” del maestro Nicola Porpora, Angelica e Medoro, con clamoroso successo eseguita in prima a Napoli il 28 agosto 1720 nella magione del Principe della Torretta, soirée in onore dell’imperatore d’Austria. Accanto a Medoro-Farinelli, Angelica è la bella Bulgarelli-Benti, insieme ad altri quattro interpreti. Il libretto è il primo in assoluto di Pietro Metastasio che lo svilupperà nell’opera Angelica, musiche dello stesso Porpora, in quello stesso anno data a Napoli ed a Vienna. Lo stesso libretto raggiungerà Madrid con la Angelica e Medoro di Cañizares e Corradini. Si capisce perchè il Metastasio, in una dedica al Farinelli (Nitteti), abbia scitto: Appresero gemelli a sciorre il volo/la tua voce in Parnasso e il mio pensiero”. Così la voga ariostesca entra nel mito, dell’illustre poeta romano e di quel divino ragazzo che sempre il poeta chiamerà “caro gemello” e “gemello amatissimo”. Quanto al poeta, non smetterà mai di trarre da quella voga nitida ispirazione funzionale al canto ed alla musicalità mediterranea, sarà così per il Ruggiero di Hasse e così ancora per la napoletanissima parodia detta Angelica abbandonata o Angelica accojetata. Il Farinelli da parte sua tornerà a cimentarsi con gli incanti ariosteschi come sopranista, a Roma nel 1728, nell’opera L’isola di Alcina composta dal fratello Riccardo Broschi. Ed è qui che avrà inizio la saga degli aneddoti legati alle sue straordinarie prestazioni: in un’aria si mette a gareggiare con una tromba famosa che esegue la musica di sostegno; il trillo dei due contendenti si fa acuto ed infinito, i volti paonazzi...ed ecco che quando la tromba cede, nella sicurezza che altrettanto faccia il cantante, sorridendo il Farinelli continua... h) Vivaldi, Händel, Haydn Il grande Vivaldi non è davvero un caso isolato quanto all’opera veneziana d’ispirazione ariostesca, ma forse oggi il più famoso. Il suo Orlando è stato di recente rivalutato dalla critica e sottratto all’oblio che per due secoli è toccato alle sue 45 e passa opere, ritenute frutto sbrigativo di committenze cogenti e mondanità soverchianti, fin dalle critiche di Goldoni e dalla caustica satira del Teatro alla moda di Benedetto Marcello. La verità è che Orlando, rappresentato al Sant’Angelo di Venezia nel 1727, è una solida opera classicheggiante redatta con begli innesti di tradizione melo115


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dica partenopea nella consueta limpida struttura di sinfonie ed arie. Una coloritura musicale costante accompagna le più diverse passioni, dalle semiserie alle tragiche, e l’eroe ha una nitida partitura, ovviamente da squillante “sopranista”. Il libretto del ferrarese Grazio Braccioli è un rifacimento di quello Orlando finto pazzo che i due avevano già presentato nel ’14 sempre al Sant’Angelo; libretto su versi dell’Ariosto così convincente che già nel ’13 era stato utilizzato con il titolo Orlando furioso dalle musiche del Ristori; e nel ’33 lo sarà ancora da Händel. Meno noti, ma danno un’idea del contesto in cui matura l’esperienza braccioliana-vivaldiana, sono l’Orlando Furioso con musiche del veneziano Bioni (1724) e quello dell’anno dopo di un altro valido “artigiano barocco” veneziano, allievo di Legrenzi e cantore di Cappella, Antonio Pollarolo, entrambi sul libretto del Braccioli. E qui dobbiamo tralasciare i numerosi altri libretti venuti fuori in buon numero sempre sul tema della follia del paladino, tra i quali quello dell’abbate Casti di datazione incerta a fine settecento; ma prima quella dell’arcadico napoletano Domenico Lalli (1715) che si annuncia come “tragedia, tragicommedia, commedia” e si propone di introdurre l’opera comica in quel di Venezia. E prima ancora, quello edito a Venezia nel 1635 dell’autore drammatico, musico, cavaliere e torneatore degli Este, e poi del Granduca di Toscana, Prospero Bonarelli. A questo maestro delle feste si deve anche un’ariostesca “tragedia a lieto fine”, il Medoro, infarcita di intermezzi musicati dallo stesso. E così via, ma di libretti ariosteschi, anche validi, mai giunti alle scene sono piene le cronache di due secoli delle Corti e dei teatri. Del filone alcinesco è l’opera perduta di un altro illustre veneziano, Tommaso Albinoni, amico di Vivaldi nonchè allievo di Legrenzi. Si tratta della Alcina delusa da Ruggero, 1725, libretto del Marchì. Sappiamo che nel carnevale del ’32 l’opera venne ripresa al San Moisè con il titolo Gli evenimenti di Ruggero. Altre opere alcinesche furono: l’Alcina e Ruggero di Felice Alessandri (carnevale del 1775, Teatro Regio di Torino, libretto del Cigna accademico dei Trasformati) opera di belle melodie di scuola napoletana; un Rinaldo und Alcina di Von Paradis e un’omonima con libretto di Baczko e data a Dresda nel 1799 con musiche dell’editore e catalogatore di Mozart Johann André figlio, che si segnala per le “arietten” aliene da virtuosismo italiano, trasparenti rispetto al verso e pregne di quell’incanto verso la natura che lo stesso musicista ha profuso nei suoi

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lieder. Ma sono tante altre le Alcine operistiche e non ci dilunghiamo oltre. Il tedesco naturalizzato londinese Gerog Friedrich Händel ha avuto un ruolo importante nella traduzione in musica dell’epica ariostesca. Il suo Orlando in tre atti vede la luce nel 1733 al King’s Theatre ed è opera di sicuro più vibrante che non il precedente vivaldiano. L’eroe, un contralto dramamtico, nelle arie effonde i moti irrefrenabili del suo animo. Celebre è rimasta la scena della follia nel II atto, quando il paladino dai sensi ottenebrati discende all’Ade sospinto dalle divinità infernali prodotte dalla sua mente, bella contaminazione del Furioso con fonti classiche e virgiliane. E nei momenti di maggiore intensità espressiva le “arie” del protagonista hanno l’ardire di infrangere la struttura con “da capo”. Un’opera, dunque, a servizio del giganteggiare dell’infelice eroe. Anche se qui costretti a trascurare il tassesco Rinaldo del 1711, va detto che l’epica e gli amori dei Paladini ritornano in quel capolavoro händeliano che è l’Alcina rappresentata al Covent Garden il 16 aprile 1735. La struttura di base della “opera ad arie” caratteristica del barocchismo italiano qui si sviluppa con mirabile ariosità attraverso le tematiche dell’amoroso, del pastorale, del mitico, del magico. Grandi forme concertistiche con “da capo” secondo lo schema A-B-A vengono riprese con ricche ornamentazioni belcantistiche dagli interpreti che usano il tema di mezzo per variare e perfino contrastare il tema principale. Dunque tutti i sentimenti richiesti dal tema – gioie, amori, seduzioni, ironie, ire, odio... – si effondono in una sorta di “teoria degli affetti” che, su moduli musicali codificati, si fa scena e galleria iconica. I raccordi d’azione sono tracciati da recitativi incalzanti con accompagnamento di clavicembalo e culminano in duetti e terzetti che nei finali si liberano nel coro di tutti gli interpreti. Questi si producono sul proscenio avanzato, mentre la scena di fondo, all’italiana, genera una grandiosa fantasmagoria di crolli, incendi, sortilegi, battaglie e approdi. Il complesso allestimento, memore del Roland di Lulli, non lesina nemmeno in balli, nei quali signoreggia la divina Marie Sallé della reale Accademia francese. La rivale della più virtuosistica e tecnica Camargo è una donna di gran temperamento che già nel ’27 si è prodotta in una ripresa del Roland lulliano, e che ora esprime un’arte pantominica di intensità drammatica nobile e libera, con i capelli sciolti in un vortice allora scandaloso e veli di mussola in luogo del prescritto guardinfante; sicché – alter ego danzante dell’Alcina canora – merita in pieno il commento di Noverre che la definisce al tempo stesso “voluttuosa e spirituale”. Non 117


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a caso dal capolavoro händeliano verrà estratta nel ‘900 una Alcina suite che con i corpi di ballo della Chladeck, della Howard e di Milloss avrà tanta parte tra le avanguardie ballettistiche. Un altro tedesco, Georg Caspar Schümann, in seguito ad un viaggio in Italia e a Venezia aveva prodotto nel 1722 un Orlando furioso con un libretto che è riformulazione diretta dell’Ariosto e con musiche di arioso barocchismo. Con questo ed altri lavori il valido compositore, la cui evoluzione sembra proprio parallela a quella di Händel, ha dato sostanzialmente avvio alla vicenda dell’opera tedesca. L’austriaco Joseph Haydn ha appreso da Nicola Porpora la maniera dell’opera all’italiana, ma – maestro di cappella alla corte degli Esterhazy – da Gluck quella della nuova opera alla tedesca. Realizza una sintesi felice che non gli impedisce una cospicua collaborazione anche con il nostro Goldoni. Il prestigioso musicista ha forse mostrato il suo amore per l’Ariosto già con alcune delle brillanti opere per marionette che hanno suscitato nell’apposito teatro di Esterháza l’ammirazione incantata dell’imperatrice Maria Teresa. Ma non ne abbiamo notizie dal suo catalogo. Di sicuro c’è che un’opera tassesca, l’Armida, debutta sempre a corte nel 1783, e che nel 1782 era stata la volta di Orlando Paladino, libretto eroicomico del Porta rielaborato da Le pazzie d’Orlando del Badini già usato da Guglielmi padre. Rappresentazione comunque in lingua tedesca in omaggio alla tendenza guckiana: Der Wütende Roland . Ninfa Egeria di questi anni è la cantante napoletana Luigia Polzelli, amata dal musicista: a lei sono dedicate le arie più virtuose che costituiscono il vero perno emotivo e il preziosismo tecnico-espressivo di queste opere. Un altro compositore tedesco, il futuro valente pianista Franz von Bercke, si dedica in quegli anni al grande mitema di Orlando: esortato sia da Gluck che da Hasse, porta a compimento nel 1770 un Roland che utilizza il prestigioso libretto di Quinault che era stato di Lulli. Ciò non ostante, mai gli riuscirà di vedere rappresentata questa sua opera. i) “Tragédie- lyrique” e “Comédie-lyrique” Grazie all’autorità di Quinault quello stesso mitema – imprese eroiche dell’eroe, innamoramento, follia distruttiva – era diventato nel frattempo in Francia un tema operistico ricorrente, naturalmente secondo le modalità tipiche di commistione della “tragédie-lyrique” con il ballo e la festa. Il 9 gennaio 1685 c’era stato infatti a Versailles il clamoroso debutto 118


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del Roland di Quinault-Lulli. Ancora una volta il grande tragico riesce a miscelare l’enfasi rovinosa generata dall’amore inteso come valore supremo ed estremo con l’affabulazione romanzesca, sicchè gli episodi scioltamente originano dai personaggi e dalle loro passioni. Tuttavia il nitore del verso, che sembra non perdere mai di vista la levità dell’Ariosto, approda a sentimenti semplici e patetici non indegni dell’originale. Il fantastico vi trova pure posto, ma carico di valori morali e simbolici: ad esempio, sono le anime degli antichi eroi a risvegliare Orlando dal sonno della ragione ed a restituirlo, nel finale, alla via della gloria. Salvato così il consueto intento celebrativo – del resto era stato come sempre il re Sole a scegliere il soggetto – Quinault, ancora una volta assecondando l’epica, non si fa scrupolo di infrangere le classiche unità aristoteliche. D’altra parte è così che riesce a riempire la vasta e codificata articolazione della tragédie-lyrique: il prologo di celebrazione del re, i ben cinque atti che mescolano eroi e dei con una ricca presenza del coro ed un’imponente presenza orchestrale, gli Intermezzi che sviluppano la stessa trama con canti e danze che prevedono “personages chantants”, in genere impegnati a raccontare le pene e i piaceri dell’amore, e “personnages dansants” che si producono in evoluzioni pantomimiche sul canto, fino all’ultimo intermezzo apoteosico di cui s’è detto. Giovan Battista Lulli domina musicalmente tutta la situazione dalle trionfanti orchestrazioni alla limpidezza delle arie, secondo scansioni di valorizzazione teatrale nelle cui cesure fioriscono i “divertissements” del ballo. I suoi interpreti sanno declamare nel canto con la proprietà stentorea e l’attenzione al verso che il musicista ha avuto modo di apprendere da Baron o dalla Champmeslé della Comédie. Quella caratteristica “déclamation chantée” si attaglia a soggetti e personaggi del mito e della cavalleria reggendo alla perfezione delle elementari arie bipartite ed antivirtuosistiche, ma enfaticamente sostenute dall’orchestra. Carlo Vigarani, costruttore di macchine e di teatri con patente reale, realizza delle scene “torelliane” a prospettiva unica, aberrata da infinite teorie di quinte decoratissime e corpi avanzati disposti su più piani di ornamentale magnificenza. Memore delle meraviglie sceniche del Bernini, vi immette acque cascanti e zampillanti e fuochi d’artificio, macchine e mostri semoventi, sicchè la tradizione italiana invade le scene di corte e fonda l’Opéra nel fulgore del barocco. Ma anche per Vigarani la concezione dell’amore è cavalleresca: i suoi dei ed eroi sono anche essi travestiti da paladini con corazze ed enormi pennacchi policromi. Né si 119


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lesina in eroi alati (Astolfo) e in carri volanti. Alla fine, però, eroi e dei – proponendosi come degli “exempla” figurativi – castigano il vizio e determinano il trionfo della virtù. Sembra di assistere alla “messa in azione” del grande decorativismo delle chiese e delle regge, ma tutte le componenti dello spettacolo, alla fine, convergono in una struttura così nobile e composta da apparire comunque classica. Non solo i pittori nelle loro tele, ma anche gli arazzieri dei Gobelins fanno allora di simili eventi dei soggetti privilegiati . Sotto il segno dell’epica cavalleresca, l’evento del Roland si replica poco dopo in una tassesca Armide dalle caratteristiche similari e dove, in più, i versi di Quinault tratteggiano il furore amoroso ed il disinganno della protagonista con un’intensità paragonabile alla Phèdre raciniana. Nel 1777, all’Opéra, un altro Roland: è quello dell’accademico, e saggista anti-rousseauiano sul “Mercure de France”, Jean-François Marmontel, rielaboratore di Quinault. La nuova “tragédie-lyrique” serve ora ai francesi per contrastare la nuova influenza di Gluck con la qualità strutturale dell’ormai affermata opera all’italiana. Se ne incarica Niccolò Piccinni, che ha portato la voga “alla napoletana” a Parigi e che si avvale degli allievi della sua École Royale de musique et de déclamation. Pur con qualche concessione a marcette e pompe care alla tradizione del luogo, il compositore effonde nell’opera il suo consueto limpido lirismo; e nel III atto, con il recitativo dell’eroe folle, raggiunge ariosità e drammaticità sorprendenti. Un decennio prima il tema di Roland si espande in una coralità di eroi comprimari, così come è nell’Ariosto, nel libretto Les Paladins di Monticourt per la grande “Comédie-lyrique” di Jean Philippe Rameau, data con successo e molte polemiche nel febbraio 1760 all’Opéra. Da tempo i lullisti accusano di “italianismo” l’illustre teorico e compositore, soprattutto per il valore musicale degli Intermezzi a scapito dello spettacolo pantomimico-scenotecnico (“querelle des buffons”), per i virtuosi vocalizzi delle “ariettes”, le ouvertures tripartite, e adesso pure per eccesso di intellettualismo e quale “distillateur d’accords baroques” in un’epoca in cui si profila il gusto neoclassico e Rousseau polemizza con il maestro perchè le parti vocali, non più declamatorie, sono ridotte al ruolo di “accompagnamento dell’accompagnamento”. In effetti la diffusione in Francia dell’opera all’italiana appare travolgente, ma malgrado la querelle di cui sopra, Rameau resta tenacemente figlio del “grand siècle” inaugurato da re Sole, e si guarda bene dal seguire gli italiani sul terreno dell’opera buffa. La complessità e incoerenza del libretto è funzionale ad un’esplo120


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sione di danze, cori e divertissements che funzionano da veri elementi di sutura della vicenda dei paladini; ed il loro mondo è fatto, insieme, di pomposa solennità e di incanti barocchi, sicché la nostalgia genera tenerezze elegiache e sentimenti di abbandono e di perdita irreparabile. l) Tra Commedia dell’Arte e tragedia Siamo costretti ad omettere, qui, i tanti scenari e canovacci che la Commedia dell’Arte ha tratto dal capolavoro dell’Ariosto e diffuso, infarciti di maschere e di lazzi anche fantastici, per tutta l’Europa; sicché spesso non è nemmeno possibile distinguere questa vasta attività dei commedianti dagli esiti “seri” di una drammaturgia che nell’età barocca si è rifondata nei vari filoni nazionali, ma è restata spesso concomitante ai tanti rivoli dell’Arte e dell’Improvvisa. Al milieu delle “commedie ridicolose”, cioè dei canovacci per l’Arte stesi per intero alla maniera delle “commedie regolari”, dobbiamo probabilmente attribuire una Alcina maga scritta dal Martini nel 1631, a segno della persistenza del tema. E sicuramente queste esperienze professionali “colte” dovevano pescare anche in tradizioni popolari sorte dalla grande diffusione del Furioso. Il D’Ancona, ad esempio, segnala in area toscana due Maggi – feste popolari rituali e propiziatorie con spettacoli drammatici, canti danze, motteggi – il Rinaldo appassionato e Bradamante e Ruggero amanti e sposi. Nella Spagna del tardo Seicento Francisco Antonio de Bances, erede del gusto barocco calderoniano e della grande drammaturgia del Siglo de oro, elabora il dramma Orlando el furioso che, pur nel rispetto del genere cortigiano e di “cappa e spada”, si apre al romanzesco ed al fantastico con un lirismo intenso che investe i temi epocali della magia, dell’alchimia e il dibattito sul “libero arbitrio” che era stato centrale nei capolavori del maestro. Ne abbiamo notizia da un’edizione a stampa postuma, del 1722. Addirittura del 1591 sarebbe l’elisabettiana The History of Orlando Furioso di Robert Greene, tragico incline al “tremendismo” senecano più truce, ma anche ai preziosismi di stile da “eufuista”. Ma qui il tema romanzesco si carica di comicità grottesca e perfino dei toni della farsa che tende a irridere ai vizi e alle immoralità della Londra del tempo. Così Angelica si presenta come la paradossale “virtuosa” figlia del re d’Africa Marsilio, alla cui mano aspirano fin troppo numerosi pretendenti. È l’inizio di una rielaborazione satirica dell’Ariosto che avrà sulle scene una certa fortuna. 121


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Ma il filone ariostesco non è disdegnato nemmeno dai gesuiti, purchè volto a fini edificanti. Ed ecco che il nobile umanista siciliano Ortensio Scamacca, tra i suoi 50 lavori drammatici per il “Teatro del Collegio dei Gesuiti” di Palermo, annovera un Orlando furioso riflessivo e moraleggiante pur nella sua necessaria concitazione. Un altro religioso seicentesco, il patriarca di Aquileja Giovanni Dolfin Cardinale veneziano e accademico della Crusca, tra le sue diverse tragedie a tema storico, se ne è concessa una, Medoro, che rielabora i versi dell’Ariosto alla luce del successo dell’omonima tragedia ad intermezzi di Prospero Bonarelli. Al volgere del secolo, nello ’85, probabilmente del signore di Dancourt, nobile, autore drammatico, attore e avventuriero, è una Angélique et Médor che porta la compagnia dell’Arte dei La Thorillière a recitare alla Comédie. Per l’occasione il nostro “poeta di compagnia” rinuncia ai suoi strali satirici sui vizi del tempo e sugli scandali dell’aristocrazia e della grassa borghesia, per metaforizzare il tutto in una tenera e maliziosa “pastorale”. Dal testo, probabilmente, nasce assai più tardi l’opera romantica di Ambroise Thomas, data nel parigino teatro Sauvage nel 1843 con musiche di gaiezza nello stile “Opéra comique” alla Auber e distensioni liriche che preannunciano Gounod. Nel secolo dei lumi, il figlio d’Arte Anton Giovanni Sticotti, figlio del “Pierrot” Fabio cantante nella compagnia di Luigi Riccoboni, dopo essere stato a sua volta Pierrot, Pantalone e Lelio l’Innamorato nella Surprise de l’Amour di Marivaux, tra le sue tante commedie e tragedie rappresenta nel 1743 la commedia parodica Roland. Presi di mira dalla sua irriverenza di commediante dell’Arte sono niente di meno che Lulli, Quinault e la loro opera barocca. Nella prima metà dell’Ottocento solo il poeta e romanziere Alfred-Victor, conte di Vigny, si ricorda di Ariosto; ma il suo Roland, tragedia giovanile di stile neoclassico scritta ancora in collegio, viene distrutta dallo stesso autore che ormai ammira Shakespeare e si dispone a proclamare il manifesto del dramma romantico francese. m) Ariosto e la “danza classica” La vicenda dell’Ariosto nel balletto classico ha inizio con Christian Cannabich, il compositore tedesco allievo di Jommelli e alfiere della scuola di Mannheim che egli stesso porta a Parigi: nel suo lavoro i tradizionali balletti alla francese si assoggettano alla tessitura unitaria del sinfonismo in oltre 50 produzioni: così il Roland Furieux del 1768 che probabil122


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mente si avvale come libretto della tragicommedia di Jean Mairet data oltre un secolo prima, nel 1638, allo Hôtel de Bourgogne. Di questo testo, ormai classico, assume infatti tutti i pregi riversandoli nel nascente balletto moderno: il variare dei toni dal serio al grottesco, le scabrosità erotiche, le trasgressioni nell’irregolare e nel romanzesco dell’intreccio complesso si saldano nel rispetto delle unità aristoteliche e di una “pastorale restaurata” che qui diviene evento sinfonico. La differenza sta nel fatto che al posto delle declamazioni dell’affascinante madame Le Noir, qui abbiamo le evoluzioni dei danzatori sull’espressività generata dalla musica. Cannabich debutta anche a Kassel con Angélique et Médor (1770) e Renaud et Armide (1769) dalle analoghe caratteristiche sinfonico-pastorali. I tempi sono maturi per l’affermazione del ballo romantico. Se ne incarica Charles–Louis Didelot, ballerino-coreografo nato in Svezia e naturalizzato parigino dopo avere studiato con Naverre e Vestris. Dal 1801 è al Mariinskij di Pietroburgo come primo ballerino e coreografo imperiale. Il suo Roland et Morgana è del 1803 ed è finalmente una danza non pantomimica e con costumi assai semplificati, inserendosi peraltro nella sua predilizione per i soggetti letterari. Le musiche sono dei veneziani Caterino Cavos, divenuto direttore “di tutte le scene liriche del teatro imperiale” nonchè il fondatore dell’opera russa, e Fernando Antonolini che eccelle nell’opera buffa e per i teatri dello Czar si dedica non solo ai balletti ma a dei veri e propri vaudevilles. L’anima romanzesca del primo e la semiseria del secondo si fondono nell’occasione inaugurando un tandem fortunato nella splendida corte. n) Tensioni del Novecento: da Milloss a Totò Esaurita la parentesi romantica, nessuno immaginava che la vicenda del balletto classico “ariostesco” potesse avere una straordinaria reviviscenza in pieno Novecento, contaminandosi con le più coraggiose avanguardie ballettistiche. Invece, il ballerino, coreografo e regista ungherese Aurel Milloss, allievo dei Ballets Russes, della Gsovskj, di Laban, collaboratore di Kodàly e di Bartok, mette in scena nel ’34-’35 all’Opera di Budapest un’ammaliante Alcina Suite che fa agio sulla partitura di Händel. La medesima suite, con contaminazioni da Henry Purcell, debutta in contemporanea ad opera della ballerina-coreografa inglese Andreé Howard presso il londinese Mercury Theatre, con scene e costumi della stessa. 123


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La Howard nel ’51 al Festival Pleasure Gardens darà nel regno del vaudeville alla Sullivan anche una versione satirica degli eroi cavallereschi con The silver wedding of Orlando the marmelade cat, musiche di Arthur Benjamin, libretto comico, scene e costumi di Hale. Due anni prima della Howard e di Milloss, la Alcina Suite händeliana era già stata appannaggio anche della intensa ed aspra espressività della danzatrice austriaca Rosalia Chladeck che ha riunito la grande tradizione classica mitteleuropea con apporti di “danza libera” contemporanea; costumi di Ferand per la preastigiosa tournée dell’ensemble Hellerau-Laxenburg. Così il mitéma di Alcina si affermerà tra i più congeniali ai destini della danza. Tornando a Milloss, nella stagione ’46-47 Toscanini lo chiama a sé come coreografo della Scala. Lì l’artista realizza La Follia d’Orlando con libretto e musiche di Goffredo Petrassi e scene di Felice Casorati. La grande produzione passerà poi anche al Maggio Musicale fiorentino dove il coreografo assume analoghe responsabilità, come del resto avverrà al Massimo di Palermo, al San Carlo, all’Opera di Roma, collaborando con altri grandi artisti quali Prampolini, De Chirico, Guttuso. Petrassi per l’occasione ha elaborato un ballo in tre quadri per grande orchestra e recitativi affidati ad un baritono che funge da storico-narratore in modo da liberare totalmente la danza da preoccupazioni narrative e da soluzioni mimiche spurie, ma di fatto restaurando una voga barocca. Il primo quadro, dopo un’introduzione al tema di stilizzato arcaismo, presenta la danza di Angelica, un valzer politonale a schema bipartito per la presentazione della suprema beltà al campo dei Franchi; un passo a tre che consta di tre variazioni sinfoniche per definire i personaggi (violino e orchestra per il carattere capriccioso e trasgressivo della fanciulla, fagotto e orchestra con coloriture ironiche per il cavalleresco Rinaldo, violoncello e orchestra per la drammatica nobiltà del conte Orlando); infine una danza guerriera ritmica e timbrata con durezza, quando i due paladini si disputano la bella che ne approfitta per fuggire. Il secondo quadro, di nuovo introdotto dal recitativo baritonale, mostra gli amori di Angelica e Medoro in un ambiente pastorale evocato dalla magia timbrica di preziosità orchestrali, là dove il timbro addirittura sostituisce le funzioni della pantomima scenica e dunque libera la danza più area e leggiadra. Sopraggiunge Orlando che perde il senno. Il terzo quadro, dopo l’introduzione, vede Astolfo tornare a volo dalla Luna con l’ampolla del senno dell’eroe, mentre la musica è un “presto volante e leggero”. Dopo la bal124


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doria dei paladini che vogliono costringere Orlando ad annusare l’ampolla, si chiude con un Trionfo della ragione, ovvero la danza generale del rinsavimento che è un rondò su movimento di gagliarda. La polifonia strumentale fortemente ritmica dell’insieme, aperta ad influssi di un barocchismo rivisitato in chiave postmoderna, genera una struttura neoclassica qua e la incrinata da apporti atonali ed espressionistici, sicchè ogni psicologismo ed ogni narratività si scioglie nella preziosità dell’evento sonoro. La suggestione è tale che la critica apparenta l’evento al successivo Don Qujote de la Manche: è evidente che Milloss e Petrassi apparentano ad un’identica ispirazione i due eroi, quello ariostesco e quello cervantino, entrambi per eccesso di generosità e nobiltà travolti da una follia che è voglia dell’assoluto perdersi nel desiderio. Reduce da diverse edizioni del Maggio fiorentino, Casorati li asseconda con un’ambientazione scenica “stereometrica” di rarefatta e metafisica prospettiva e di matematico rigore; non pittorica, dunque, ma nemmeno astratta e costruttivista, ma di un arcaismo che si risolve in inquietante modernità, cui i costumi rigidi, di un gesso abbagliante, conferiscono un’aura stupefatta e remota, quella del mito rivisitato attraverso la iconograficità delle avanguardie. Serge Lifar, allievo della Nijnska e membro dei Noveaux Ballets de Montecarlo, dopo avere prodotto splendide edizioni dei più classici balletti di Tchaikovskij, Strawinskij, Debussy, si dimette dall’Opéra di Parigi e riprende in mano la partitura di Petrassi. La sua acclamata Follia d’Orlando va in tournée nel ’59. Nel ’64 un’altra significativa ripresa, quella della russa Tatjana Gsovsky che ha fondato il Berlin Ballet affidandogli tutto il gran repertorio novecentesco dei Ballets Russes nella più pura tradizione accademica pietroburghese; ma per la Follia d’Orlando la coreografa non lesina, quando necessario, incisivi momenti di “danza libera” mutuati da quella Duncan di cui era stata allieva, e perfino di Modern Dance alla Graham. Un’avanguardia sui generis è quella del marionettista lucano Remo Bufano, che le avanguardie le aveva attraversato davvero lavorando con le sue figurine per De Falla, Strawinskij, Balanchine... . Trasferitosi a New York, dove a Little Italy poteva continuare a soddisfare da spettatore la sua passione per i pupi siciliani, nel 1914 riduce l’Ariosto a libretto drammatico per un Orlando Furioso affidato alle sue marionette. Un’altra avanguardia sui generis è quella del principe De Curtis: Orlando Curioso è una famosa rivista di Michele Galdieri del 1942, che ha visto 125


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impegnata al “Quattro Fontane” di Roma la compagnia Totò-Anna Magnani. È in abito moderni e borghesi, ma il riferimento al mondo dei paladini è divertente e irriverente. Del resto la voga satirica, relativamente all’Orlando Furioso, ha una sua storia tra i cubo-futurismi del Novecento, storia che sembra in qualche modo riprendere il filone della commedia dell’Arte. Così nel ’27 Gherardo Gherardi, commediografo e giornalista critico teatrale, dà al Teatro Sociale di Brescia con la compagnia Sperani i quattro atti del suo L’Ippogrifo, pièce abile e divertita che ebbe successo anche all’estero con il titolo paradossale de Il drago volante. Si rifà chiaramente al futurismo, ma con innesti folclorici siciliani, il dramma buffonesco in quattro atti La spada d’Orlando del palermitano Federico De Maria, giornalista e direttore di una compagnia drammatica dell’EIAR. Debutta negli anni trenta al milanese Teatro del Verme con la compagnia di Annibale Ninchi. o) Ariosto tra cinema e fumetto Ariosto arriva, intanto, anche nel mondo dei media. Il successo del Furioso nell’immaginario cinematografico è cospicuo. Nel 1918 Giuseppe De Liguoro regala al muto il primo Orlando Furioso. Nel ’52 Pietro Francisci realizza un accurato film in costume, Orlando e i paladini di Francia, con Rick Battaglia (Orlando) e un’Angelica quanto mai seducente: Rosanna Schiaffino. A confronto, assai meno curato è Il paladino della Corte di Francia diretto da Maurice Régamey nel ’63. L’Orlando Furioso filmico di Luca Ronconi, 1974, ci riconduce all’inizio di questa nostra ricognizione: è un prodotto-mônstre per la RAI di 293 minuti e con gli stessi interpreti dell’edizione scenica. Ma qui, grazie alle scelte scenografiche ed ai costumi di Pier Luigi Pizzi, sono coinvolti i saloni a fila delle architetture rinascimentali per fughe d’amore sulle macchine dei destrieri fatati, sottolineate in vertiginose prospettive da velocissimi carrelli cinematografici in piano-sequenza, esaltate dalla fotografia e dalle luci manieriste di Vittorio Storaro. Nello ’83 I paladini – Storia d’armi e d’amori di Giacomo Battiato si avvale della bella fotografia di Dante Spinotti e di riprese veloci nelle scene di battaglia, con un cozzare di armature e destrieri che evocano Bresson e Borman, e sempre all’insegna di riferimenti pittorici colti. La bella serie sexy-romanzesca di Angelica, sia letteraria che filmica, non 126


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ha nulla a che vedere con l’Ariosto, salvo il nome della protagonista che è egualmente seducente, trattandosi dell’attrice Michèle Mercier. Ma va detto che, con ispirazione dichiarata dall’eroina dell’Ariosto, Angelica è stata la protagonista di tanta letteratura licenziosa protetta nei “sancta sanctorum” delle biblioteche sei e settecentesche, per cui ha paradossalmente contribuito a fondare nell’immaginario cosiddetto collettivo quel mitéma della “fanciulla perseguitata” – si guardi la fuga da Orlando e ancor più l’episodio dell’esposizione nuda all’orca vorace, già nell’Ariosto – mitéma che ha suscitato popolari insonnie, ma anche seri studi degli strutturalisti russi (Veselovskij) e che è, indubbiamente, alla base della saga letteraria avventurosa e frizzante dei Golon e di quella filmica di Bernard Borderie. Sempre al mitéma della “fanciulla perseguitata” si ispira, infine, una licenziosa collana di fumetti erotici degli anni ’70 con bei disegni che escludono ogni “bucalità” pornografica ed esaltano la figuralità iconica di silhouettes seducenti e trionfanti. Si tratta per l’appunto di Angelica, dove la stupenda e poco vestita pin-up, principessa cinese di un medioevo fantastico, affronta intrepida gli oltraggi di mori, tartari, briganti, pirati, mercenari, castellane invidiose e maghe sadiche restando in tutto il fulgore della sua beltà per le bramosie dell’eterno salvatore, il paladino Orlando. Eppure, sembra incredibile, spunti e situazioni traggono le mosse proprie dall’Ariosto...quasi si offrissero ad un’altra lettura dell’immaginario. Anche questo è l’Orlando Furioso, una macchina di mitémi che, attraverso i secoli, non ha mai cessato di produrre. I sentieri maestri dell’affabulazione risultano così ancora oggi percorsi da quanto quella macchina continua a generare: il confronto eroico e cortese, il lungo viaggio iniziatico irto di prove, i sovvertimenti del plot magico e fantastico, la fanciulla perseguitata, la fatale Aracnide dominatrice, l’Arianna abbandonata, l’edenica età dell’Oro, la discesa agli Inferi e l’ascesa ai Cieli, questi ed altri sono i sentieri che si diramano e s’incrociano assumendo di volta in volta i passi di Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo, Olimpia, Alcina, Isabella e tutti gli altri eroi, così catturati nel cangiante labirinto delle loro significazioni, fluttuanti larve iconiche atte ad assumere la maschera di ogni metafora, dell’intera metafora del mondo. Acquisito il teatro di regia dell’Orlando Furioso di Ronconi, degli spazi dinamici e polidirezionali, anche la “Post-avanguardia” di fine Novecento si interessa ai mitemi del poema ariostesco, magari facendo tesoro delle 127


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lezioni scenografiche e ritmo-figurative delle “Avanguardie storiche” di inizio secolo. È il caso del gruppo riminese dei Motus, fondato nel ’91 dallo scenografo Enrico Casagrande e dalla dramaturg Daniela Nicolò. Dal 1998 in avanti il loro Orlando Furioso cresce come installazione, poi come performance, video e infine composito evento maturato nell’ottica intermediale della post-modernità: uno “spettacolo” neo-manierista e neo-barocco che non lesina l’evocazione del fumetto, della moda del peep-show sado-maso, della body-art estrema, per un esito pop affascinante pur se discontinuo, denso di metafore. E in quel vorticare della piattaforma centrale espositiva di oggetti erotici e/o incomprensibili, di corpi nudi o integrati da protesi feticistiche, in quel guardare “attraverso” del pubblico verso la piattaforma, con la mediazione-scansione di feritoie che fanno del fisso- immagine i fotogrammi di un paradossale cinema vivente, la metafora-principe si affida proprio allo slittamento scenico incessante in cui si traduce il dominio del Desiderio. Non una trascrizione teatrale del poema, dunque, ma un’interpretazione tra la cosmologia platonica dell’Eros e la follia d’amore dell’eroe, Orlando… amore per una donna bellissima, irraggiungibile, cinica e indifferente, Angelica, che qui copre il ruolo di un Assenza, di un manque-à-être che sarebbe il motore di tutte le inarrestabili vicende. Uno degli ultimi spazi dell’evento: la storica Galleria-salotto di Milano. BIBLIOGRAFIA AA.VV., Enciclopedia dello Spettacolo I-X (e 2 suppl.), Le Maschere, Roma 1954 – 66. Ariosto, Ludovico, Orlando Furioso (a cura di Cesare Segre), 2 voll., Oscar Mondadori, Milano 2008. Avventure di Angelica – fumetto per adulti (senza autore), La Terza s.r.l., Milano 1970 e segg. Basso, Alberto (diretta da), Storia della Musica, voll. 5, UTET, Torino 2004-2005. Baur-Heinhold, Margarete, Teatro Barocco, ed. it. Electa, Venezia 1971. D’Ancona, Alessandro, Origini del Teatro Italiano, voll. 2, ed. anastatica, Bardi ed., Roma 1971. d’Arco Avalle, Silvio (a cura di), Veselovskij – Sade, La fanciulla perseguitata, Bompiani, Milano 1977. de Jamaron, Jacqueline (a cura di), Le thêà128


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Il Mitema dell’Orlando Furioso nello spettacolo 1. Orlando Furioso, regia di Luca Ronconi, Milano 1969. 2. Coreografia equestre – Figure della festa a cavallo, rappresentata nel teatro di Ser.mo Granduca di Toscana, Luglio 1637, incisione. 3. Villa dei principi d’Assia presso Kassel. Nel complesso trionfa la natura primigenia. Incisione del progetto di Giovanni Francesco Guernieri. 4. Ballet de Cour – costumi per il Re sole (al centro) e per due gentiluomini, 1653. Fête Galante: incisioni delle scenografie e delle macchine di Ferdinando e Giuseppe Galli Bibiena per l’opera Angelica vincitrice di Alcina, Vienna 1716. 05. bozzetto di scena 06 Veduta del proscenio 07. Reggia magnifica 08. Veduta delle isole fortunate 09. Isole orride occupate dai diversi mostri 10. Scoglio – macchina teatrale per “mutazioni di scena” 11. Approdo dei cavalieri di Angelica alle isole orride di Alcina 12. Maria Sallé. Incisione da un dipinto di N. Lancret. 13. Gustave Doré, Ruggero, sull’ippogrifo, salva Angelica 14. Angelica, tratta da Avventure di Angelica – fumetto per adulti (senza autore), La Terza s.r.l., Milano 1970 e segg.

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SCRITTURE Dita Von Teese e il revival neoburlesque di Daniela Mannino

In questa congiuntura mortale dell’iperrealtà del sesso, è dunque la femminilità ad essere appassionante, come lo fu un tempo, ma in senso opposto, nell’ironia e nella seduzione 1. Fulgida chioma nero corvino, viso di porcellana, occhi segnati da una sinuosa linea di eyeliner, labbra rosso fuoco e un corpo le cui curve delineano una silhouette impeccabile. Sono questi gli elementi caratterizzanti di Dita Von Teese, la cosiddetta regina del neoburlesque. Un revival questo, che rievoca uno stile di seduzione che condensa, ibrida e vampirizza tratti delle ballerine parigine di fine secolo tanto care a Henri Toulouse-Lautrec, delle dive dello star system dell’epoca d’oro e delle maliziose e ammiccanti pin up. La Von Teese crea infatti la sua icona fondendo il fascino dark di Rita Hayworth alla malizia di Bettie Page, creando un mix sapientemente studiato e mostrato nelle sue performance che rievocano la ritualità dello spogliarello, non come semplice atto di togliersi i vestiti, ma come gioco della femminilità che risiede nel regno dell’apparenza. Ecco che ogni performance segue delle tappe fondamentali, iniziando con l’arrivo in scena del corpo femminile sinuoso e danzante a ritmo dello swing delle big band degli anni Trenta e Quaranta. Entrata in scena, dopo aver ammiccato a un pubblico pronto a lasciarsi sedurre, la Von Teese attua la sua strategia del “tease” ovvero di quel gioco ironico che consiste nell’erotizzare ogni movimento del suo corpo e rendere ogni parte del suo costume che verrà tolto, puro feticcio. Dal primo guanto, per passare alla guêpière, fino al mostrarsi solo coperta da luccicanti pasties: nessuno di questi accessori sfugge al suo destino, ovvero quello di offrirsi al voyeurismo del pubblico. Praticamente immancabili nelle sue esibizioni sono i boa, i ventagli di piume con cui gioca con il vedo-non vedo, scoprendo, coprendo o mostrando in trasparenza. Ogni oggetto è scelto in base al tema centrale della performance, come la celebre coppa di champagne in cui finisce per immergersi dopo essersi versata addosso un’intera bottiglia di quest’ultimo. Diventata l’esibizione simbolo dello stile della Von Teese, che oltre 145


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a creare dei numeri estremamente personalizzati ha anche attinto alla tradizione circense tanto cara a Toulouse-Lautrec (come in Au Cirque Fernando, l’écuyère, 1888), quando ha messo nel suo spettacolo un cavalluccio che sembra rubato alle giostre eleganti e colorate che si vedono nelle vie parigine. Un classico questo, rielaborato anche da altre performer del revival burlesque come l’australiana Lola The Vamp, che si esibisce con un unicorno. Differenza fondamentale tra le due è che il lavoro della Von Teese è incentrato sulla performance live, mentre la The Vamp spesso preferisce realizzare video dei suoi numeri, con effetti e uno stile di ripresa che riporta ai film muti dei primi anni del cinema e di tutta una epoca di fin de siècle in cui le citazioni al Moulin Rouge e alla Belle Epoque ne fanno il tratto distintivo. In questo mondo però la The Vamp si muove con grazia e delicatezza, anche perché ricorre spesso per le sue coreografie, alle punte e alle pose del repertorio della danza classica. Di tutt’altro genere sono le esibizioni di Kitten De Ville, che combina un look ispirato a Marilyn a un movimento del corpo vibrante, che le consente di proporre in ogni spettacolo il celebre numero dove si toglie il vestito semplicemente scuotendosi il corpo. Molto più aggressiva è la sensualità del versante inglese del revival con Immodesty Blaize, che mette in scena spettacoli molto più complessi e articolati, in cui le fa da contrappunto un corpo di ballo tutto al femminile, così come quelli di Ivy Paige che in più canta e dà una vera e propria forma narrativa allo spettacolo. Queste sono solo alcune delle più celebri performer che partecipano a un revival in cui epoche del passato, stili e generi spettacolari vengono rielaborati liberamente da ogni singola performer, che attinge a una lunga tradizione per rinnovarsi continuamente, dando così vita a un fenomeno ampio e in forte crescita. È infatti recente l’arrivo sulle scene anche dell’italiana Eva La Plume che contrasta alla sua chioma ramata pizzi e merletti dai colori pallidi e si esibisce anche nel programma televisivo “Chiambretti Night”, vera e propria culla televisiva italiana del Neoburlesque. Le performer si esibiscono nelle location storiche come il “Moulin Rouge” e il “Crazy Horse” parigini, il “Whoopee Club” di Londra, il “Bar Jeder Vernunft” di Berlino, lo “Starshine Burlesque” di New York, mentre a Las Vegas, tra un club o l’altro, si può anche visitare l’“Exotic World Burlesque Museum” che ospita anche il concorso annuale di “Miss Exotic World” in cui si elegge la nuova promessa del new burlesque. Ciò che accomuna ogni diva che si esibisce in questi locali è il rifiuto di ogni tipo mascolinizzazione del corpo della donna in favore di una accetta146


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zione della sua gioiosa dirompenza, in un gioco di spettacolarizzazione del femminile, che ispira così molti altri che sono influenzati in modo più o meno diretto dal revival. Un fenomeno dunque estremamente vasto, multiforme e composito, a cui anche il cinema partecipa rievocando icone come Bettie Page nel film The notorious Bettie Page (Mary Harron, 2005). Ma è Buz Luhrmann con Moulin Rouge! (2001) che fa rivivere con un tono burlesco e ironico la folle epoca della Parigi bohémien, a cui fa eco il videoclip di Lady Marmalade in cui Pink, Mya, Missy Elliott, Lil’ Kim e Christina Aguilera si trasformano in performer del burlesque, in una scenografia fatta di cuori posticci, colori accesi, trucco pesante e movimenti provocatori, accentuati da riprese in plongée e contre-plongée, che restituiscono il punto di vista dello spettatore degli spettacoli del genere. Sempre in ambito musicale Kylie Minogue sceglie il trucco, le scenografie, i costumi e la spettacolarità del burlesque per il tour Showgirl (2005), dove esplora un mondo fatto di paillettes e lustrini che ricordano anche gli spettacoli di Las Vegas, per poi proseguire con il video Two Hearts, alla creazione di un look che mescola i capelli biondo platino di Marilyn a un abbigliamento bondage che ricorda ancora una volta Bettie Page. Un po’ più retrò è la versione di Gwen Stefani, ispirata a Jean Harlow, personaggio che interpreterà anche nel film The Aviator (M. Scorsese, 2004) e sul versante pop quella della giovane Katy Perry, fino al mix tra burlesque e glam di Lady GaGa. Ogni artista partecipa al revival con contaminazioni e citazioni provenienti da fonti eterogenee, ma che rappresentano sempre una donna che diventa protagonista di uno spettacolo in cui si consegna in tutta la sua flagranza al voyeurismo e al feticismo del pubblico, con i suoi oggetti preziosi e scintillanti, le pose provocanti, in cui non vi è spazio e tempo per lasciare nulla al caso e in cui tutto è convogliato per innescare un meccanismo di seduzione messo in atto da una meravigliosa strategia delle apparenze 2.

Note 1

J. Baudrillard, Della seduzione, tr.it. Se, Milano 1997(1979), p.15.

2

J.Baudrillard,ibid.

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Dion & The Belmonts - Gli archetipi nel rock and roll di Francesco Paolo Ferrotti Nato da una famiglia di immigrati italiani, cresciuto nel Bronx, Dion DiMucci (in arte Dion) fu uno dei teen idols più meritatamente popolari nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ‘50 ed i primi ‘60. Poi, con l'avvento della cosiddetta british invasion, la sua fortuna cominciò a tramontare, come avvenne per altri protagonisti di quell'era. Eppure, nel 1967 furono proprio i Beatles a rendergli un tributo, immortalandolo nel sacrario di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: nella gran moltitudine di personaggi celebri che trovano posto nell’immagine di copertina, gli unici altri due musicisti presenti sono Bob Dylan e Karlheinz Stockhausen; ciò induce a pensare che Dion godesse di grande rispetto negli anni ‘60, in particolare nell'ambiente dei Beatles. Perché la loro scelta era caduta su questo personaggio, oggi poco noto al grande pubblico? Quale fu il suo contributo all'immaginario beatlesiano, in particolare a quello di Sgt. Pepper? C’è anche un’altra domanda da cui vorremmo partire, scorrendo la parata di figure che sovrastano la “Lonely Hearts Club Band” (la band che funge da “maschera” per gli stessi Beatles), tra le quali spicca l’assenza di Sigmund Freud e la presenza di Carl G. Jung. Questa domanda la affidiamo proprio ai Beatles, ai versi di Eleanor Rigby, uscita l’anno precedente: “all the lonely people, where do they all come from?”. Per trovare risposta a queste domande, per scoprire anche altri aspetti, prenderemo le mosse dalla storia di Dion DiMucci e ad essa torneremo in conclusione, rendendo così un tributo ad uno degli artisti di origini italiane che più hanno contribuito alla storia del rock. Nel lontano 1957, Dion aveva appena diciassette anni quando diede vita alla sigla Dion & The Belmonts, una formazione r'n'b/doo-wop composta da altri tre italo-americani: Fred Milano, Angelo D’Aleo e Carlo Mastrangelo. L’esordio del gruppo fu segnato dal singolo We Went Away, splendida canzone dal mood melanconico che non ebbe alcun successo in termini di vendite, forse perché piuttosto inconsueta rispetto agli standard del periodo. Le sorti cominciarono a cambiare quando il gruppo firmò per l’etichetta Laurie, ottenendo una discreta fama con i singoli successivi. All’inizio del 1959, in rapida ascesa, Dion partì per un tour insieme a tre grandi protagonisti: Buddy Holly, Big Bopper e Ritchie Valens. Ma il 3 Febbraio, giorno che poi sarebbe passato alla storia, le strade dei quattro giovani si separarono per sempre. Sulla via del ritorno 148


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da un concerto, Dion non aveva sufficiente denaro per prendere l'aereo insieme ai tre più blasonati compagni; così, per una fortunata fatalità, egli scampò al tragico incidente in cui morirono le tre stelle del rock and roll. Quel giorno diventò simbolicamente lo spartiacque tra due generazioni, tra quella che aveva vissuto l’euforia dei favolosi anni ‘50 e quella che presto sarebbe partita per l'inferno del Vietnam: “Il rock and roll va in malora da quando è morto Buddy Holly”, affermava John Milner in American Graffiti, film di George Lucas ambientato in un 1962 che, a prima vista, non sembrava diverso dagli anni ‘50. Ma era proprio quella battuta di Milner, il più grande e disilluso dei ragazzi, a ricordare che la soglia era stata già varcata, e che niente sarebbe rimasto uguale. Sin dal 1960, l’entusiasmo del rock and roll si cominciò a stemperare in una produzione che, se da un lato rappresentava l'ultimo residuo della golden era, dall'altro presagiva già la fine di quella stagione aurea, spesso adottando la metafora della fine dell'estate (come in Summer’s Gone di Paul Anka). Dion fu tra i maggiori protagonisti di quel periodo incerto, sospeso tra illusioni passate e nuove inquietudini. Le sue canzoni erano piccoli teenage drama che esprimevano il travaglio del passaggio all’età adulta, anche se gli aspetti tragici sembravano celati da una dimensione apollinea fatta della materia dei sogni: limpide armonie vocali, testi (apparentemente) solari e spensierati. Eppure, dietro quel velo di estatica innocenza, dietro quei teenage dreams che avrebbero ispirato l'immaginario di American Graffiti, Grease e Happy Days, si nascondeva un ragazzo cresciuto nei bassifondi, a diciotto anni già con problemi di dipendenza dall'eroina. Nel 1960 Dion lasciò i Belmonts, approdando alla carriera solista con un brano dal titolo Lonely Teenager. In questa canzone egli indossava i panni di un giovane solitario e abbandonato, sospeso tra la nostalgia di “casa” e l’iniziazione alla vita adulta. Sulle prime, si può esser indotti pensare che fosse un motivo autobiografico, poiché in parte la canzone rispecchiava la storia di Dion. Tuttavia, quella stessa loneliness era comune ad altri artisti e risuonava nelle note di almeno altre quattro canzoni che si affermarono tra 1959 e 1960: Lonely Boy di Paul Anka, Only The Lonely di Roy Orbison, Lonely Blue Boy di Conway Twitty e infine Lonely One, un brano strumentale di Duane Eddy, autore tre anni dopo di una Lonely Boy, Lonely Guitar. La canzone di Paul Anka, da egli scritta nel 1959, fu la precedente tra queste, ma non era un’invenzione originale: era stata preceduta da una poco conosciuta Lonely Boy (1958) di 149


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Ronnie Jones & The Classmates, che ebbe diffusione locale. Nello stesso 1958, risulta un’altra Lonely Boy dei Castaleers, una degli El Dorados, e un’altra ancora di una formazione di nome Justifiers, sulla quale non è stato possibile reperire altra notizia. Non è stata riscontrata l’esistenza di altre registrazioni con quel titolo che siano precedenti al 1958, ma è possibile che ciò dipenda solo dalla mancata testimonianza. Non si trattava pertanto di un motivo individuale, bensì di un sintomo culturale comune ad una generazione alla ricerca della propria identità. La canzone di Dion, che presentava una leggera variante nel titolo, si prestava ad una lettura ancora più universale: sembrava contenere un intreccio iniziatico, una fiaba sotto forma di dramma musicale: When I was sixteen ran away All alone on a stray What can I do what can I say I'm a lonely teenager Now I'm seventeen still alone Wondering if I should go home Or maybe stay out on my own I'm a lonely teenager 1 Una variante sul motivo della loneliness era presente in un’altra sua canzone di successo, The Wanderer, che in seguito sarebbe stata reinterpretata da tanti altri, dai Beach Boys a Bruce Springsteen. The Wanderer, ovvero il “girovago”, è un fanciullo vagabondo e incorreggibile, che vive vagando di città in città, cambiando sempre casa e ragazza. La canzone sfoggia un ritmo clownesco ma, come affermò Dion molto tempo dopo, “anche se molte persone non lo capiscono, è una canzone molto triste”. Questo wanderer, per metà bricconesco e per metà tragico, denuncia forti ascendenze almeno quanto la parola che, comune alla lingua tedesca, rievoca anche il viandante di romantica memoria. Dion tornò sul tema dell’abbandono in altre canzoni, come Somebody Nobody Wants (1961) e sopratutto Lonely World (1961), tra gli episodi più brillanti della sua produzione: dopo un incipit fulminante, egli fondeva in modo pionieristico le armonie vocali del doo wop con l'irruenza del rock and roll. Così, veniva già spianata la strada ai Beatles, che due anni dopo esordirono con esperimenti analoghi. Intanto, dopo il 1960, quella loneliness diventò onnipresente: ci fu un Lonely Sea (The Beach 150


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Boys, 1962), un Lonely Surfer ( Jack Nitzsche, 1963), un Lonely Rider (The Hondells, 1964), un Lonely Soldier (il “Mr. Lonely” di Bobby Vinton, 1964); infine, passando per Eleanor Rigby (“all the lonely people…”), si giunse 1967, al grande spettacolo di Sgt. Pepper e della sua Lonely Hearts Club Band. Cominciamo a capire il perché della presenza di Dion nell’immagine quell’album: era stato un fondatore del “lonely hearts club”, un’icona del lonely world. Nel settembre del 1961, compiuti ventun anni, Dion balzò per la prima volta in vetta alle classifiche con Runaround Sue, un pezzo funambolico che diventò presto un classico. Ma è altrettanto valido il lato B del singolo, una canzone dal titolo Runaway Girl. Nonostante la qualità, all’epoca rimase all’ombra del successo di Runaround Sue, e la cosa non sembra casuale: ne è in qualche modo il volto nascosto, il lato inconscio, l’ombra. Come vedremo alla luce delle prossime pagine, le due facce del disco formano una coppia bipolare che sembra esprimere inconsapevolmente una struttura fondamentale della psiche, quella di coscienza/inconscio. In entrambi i titoli, una figura femminile si trova associata alla parola “run”: corsa, fuga (ancora, la mente va ai Beatles: “Run for your life, little girl”...). La prima faccia del singolo si apre raccontando una storia, che in principio sembra la stessa dell'altro: “here's my story sad but true / it's about a girl that I once knew”. Dopo questo prologo, il ritmo di Runaround Sue diventa esuberante, scandito da cori e handclapping. Il testo della canzone ruota, con una buona dose d'ironia, intorno ad una ragazza leggera e inaffidabile, che non si cura dei sentimenti del protagonista. Contrapposta alla solare euforia (estroversione) della prima canzone, nell’altra l’atmosfera diventa melanconica e disforica (introversa), grazie alla maggiore presenza della tonalità minore. Mentre nel primo lato la ragazza gira intorno (around) alla coscienza del protagonista e ha un nome definito (Sue), nel secondo lato è una figura inconscia (away) di cui non si conosce il nome, ma soltanto il sesso femminile (girl). Anche la run-away girl fa soffrire il protagonista, tuttavia la ragione del suo comportamento sembra più profonda: si tratta di una fanciulla in fuga da qualcosa, non sappiamo cosa e perché. Un verso della canzone ci suggerisce uno stretto legame tra la fuggiasca, la runaway girl, e il lonely teenager: “I won't be a lonely boy, with my runaway girl…”. Questo legame viene confermato dall’altra canzone, Lonely Teenager, che esordisce proprio con il racconto di una fuga: “When I was sixteen ran away…”. Per ora, limitiamoci a rilevare che la 151


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fuga e la solitudine sono comuni alle due figure evocate in queste canzoni, una maschile e l’altra femminile. Nel febbraio dello stesso 1961, un altro artista rock and roll, Del Shannon, ebbe grande successo con una canzone dal titolo Runaway, destinata a diventare una delle più fortunate della storia del rock, immortalata anche in una sequenza di American Graffiti. Il testo narrava di una ragazza in fuga e della solitudine del protagonista. È singolare il fatto che, a distanza di pochi mesi, uscirono due variazioni sullo stesso tema, quasi con lo stesso titolo, ma senza che sia dimostrabile un’influenza diretta dell’una sull'altra. Anche nel caso tale influenza ci fosse, non se ne potrebbe concludere nulla circa la paternità di quello che ora cominciamo a chiamare il “motivo della runaway girl”: di esso infatti troviamo tracce già nella preistoria del rock, com'è documentato da una Run Away Blues di Ma Rainey, targata 1928. D'altro canto, a quanto risulta, prima delle due canzoni uscite nel ’61 non troviamo pressoché alcun esempio di questo motivo nel repertorio del rock and roll degli anni '50, mentre poi nel corso degli anni ’60 diventa ricorrente in tante altre. Ci troviamo di fronte ad un problema di non facile soluzione, perché è da escludere sia che Dion o Shannon si fossero ispirati alla canzone di Ma Rainey, sia che quest’ultima contenesse a sua volta la paternità (o in questo caso la “maternità”) del motivo: il blues era costituito da un repertorio collettivo e tramandato, che affondava nell’oralità. Come dirimere la questione della genesi del motivo escludendo priorità individuali, meccanismi causali ed influenze dirette? Si potrebbe avanzare l’ipotesi della reviviscenza inconscia di un motivo latente nel “canzoniere collettivo” da cui deriva la musica rock. Intanto, dal confronto incrociato con canzoni posteriori che presentano lo stesso motivo, ricaviamo una qualche definizione di questa runaway girl: si tratta di una giovane che, seguendo un richiamo istintuale, fugge da casa oppure viene indotta a farlo da una figura maschile che la “rapisce”; in certi casi rari ma emblematici – che rientrano nelle cosiddette teenage tragedy - la fanciulla trova la morte. Non sarebbe possibile elencare tutti gli esempi, che giungono fino a tempi recenti, e ci limiteremo a citarne qualcuno; si tratta di canzoni che hanno per protagonista una ragazza, spesso cantate da interpreti femminili: nel 1963, uscì una Run, Run, Runaway prodotta da Phil Spector e cantata da Darlene Love; l’anno successivo due varianti sul titolo: Run Run Run delle Supremes e Breakaway di Irma Thomas. A volte il titolo poteva anche cambiare 152


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del tutto, ma per esprimere lo stesso motivo: così in Gone (1963) dei Rip Chords e soprattutto in I Can Never Go Home Anymore (1965) delle Shangri-Las. Quest’ultima è un’intensa teenage tragedy, in cui emerge una dimensione teatrale: la voce suadente di Mary Weiss, con tono parlato, è di una fanciulla che si rivolge mestamente alla madre, rievocando al passato la storia della propria fuga, al seguito di una misteriosa figura maschile. Anche se non viene detto esplicitamente, si percepisce che la fuga ha avuto esito fatale, e che la ragazza parla dall’oltretomba: è per questo che “non potrà mai più tornare a casa”. Dopo l’ultima strofa della voce solista, irrompe una sorta di “coro tragico” che impersona la madre, esprimendo il dolore per la perdita della figlia. Episodio non ultimo ma significativo, nel 1967 fu la volta di She’s Leaving Home dei Beatles, tra le canzoni migliori di Sgt. Pepper’s. Il brano, a firma di Paul McCartney, è generalmente ritenuto ispirato da un episodio di cronaca che in quell’anno fece scalpore. Scrive Riccardo Bertoncelli: “She’s Leaving Home è quasi la vera storia di Melanie Coe, una diciassettenne di ottima famiglia scappata di casa nel febbraio 1967 alla ricerca della libertà […] Paul venne colpito dalla storia quando la lesse sul Daily Mail e ci fantasticò un po’ sopra, immaginando che la ragazza fosse fuggita all’alba […] e sostituendo il croupier della cronaca con un man from the motor trade” 2. Pur senza escludere che ciò sia in parte appropriato, noi vorremmo ribaltare la prospettiva, o almeno considerare l’altra faccia della medaglia: non fu tanto l’episodio esteriore a determinare la canzone, quanto alcune mitologie a dar luogo anche ad episodi reali. Infatti, un episodio di cronaca non avrebbe potuto fornire un soggetto artistico così forte ed immediato, se non fosse stato già presente nelle mitologie del rock and roll (poi anche la stessa canzone dei Beatles contribuì a sua volta ad alimentare l’immaginario, dando luogo ad episodi simili). Il confronto con i brani che abbiamo citato rivela che l’origine di She's Leaving Home non è riposta nell’episodio contingente - se non come mera occasione - e nemmeno nella creatività individuale di McCartney: si tratta in prima istanza di una variazione su un tema preesistente, come rivela la palese affinità con I Can Never Go Home Anymore, uscita due anni prima, e con il nucleo già contenuto in Runaway Girl. Che la cosa fosse più o meno consapevole da parte dei Beatles, abbiamo trovato così il senso della presenza di Dion nella copertina di Sgt. Pepper’s: egli evocò due mitologie giovanili, una maschile e una femminile, la cui forma originaria era espressa già nei titoli dei suoi brani, Lonely 153


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Teenager e Runaway Girl. Nella primissima canzone di Dion & The Belmonts, le due figure sembravano ancora condensate in un nucleo indifferenziato, nello stesso titolo:We Went Away. Cosa esprimono i due motivi individuati, e da dove derivano? La prima risposta, la più banale, sarebbe quella secondo cui nelle canzoni si rispecchiano i costumi del periodo, anni di rivendicazioni giovanili e di emancipazione della donna. Tuttavia, come ben sosteneva Erwin Panofsky, non è in base al mero rapporto di causa-effetto con il contesto storico che si possono comprendere i fenomeni di natura artistica: questi scaturiscono da una dimensione che appare relativamente autonoma rispetto all’epoca e rispetto agli artisti stessi, ossia quel “volere artistico” (kunstwollen) che va ben oltre le intenzioni coscienti degli autori 3. Alcune forme simboliche e motivi artistico-letterari sembrano quasi vivere di vita propria, come il motivo presente in She's Leaving Home: non è di paternità di Paul McCartney, e nemmeno di Dion o Del Shannon. Non è neanche limitato ad un’epoca o un’area culturale specifica: a parte la citata Run Away Blues del 1928, Runaway Girl è anche il titolo di una commedia musicale inglese di fine ‘800. Ad un’analisi approfondita, la diffusione del motivo è ben più universale: dai fecondi studi del folclorista russo Vladimir Ja. Propp sulla fiaba 4 e dell’americano Joseph Campbell intorno al mito 5, ricaviamo che il motivo della fuga da casa è in assoluto tra i più ricorrenti nei miti e nelle fiabe di tutto il mondo, così come il rapimento di una fanciulla, episodio che nell'intreccio assume lo stesso significato funzionale della fuga. La nostra runaway girl è una figura analoga alla tipica principessa fiabesca in fuga, alla fanciulla mitologica rapita: come ci suggerisce il caso di I Can Never Go Home Anymore, si tratta di una forma moderna dell’antico mito di Kore/Persefone o altri affini. Così, dietro quello che potrebbe sembrare un elemento creativo/individuale, oppure ispirato all’autore da eventi esteriori, abbiamo rintracciato un mitologema: siamo in presenza di una figura simbolica ricorrente, una persistenza dell'immaginario, ovvero dell’espressione di un archetipo dell’inconscio collettivo nei termini di C. G. Jung. Secondo le teorie dello psicologo svizzero, rivisitate in tempi più recenti da James Hillman, un’immagine archetipica può riaffiorare in qualsiasi secolo e in qualsiasi luogo come mito, fiaba, sogno, opera d’arte oppure, in una forma mito-patologica, come prodotto di disturbo psichico. Se consideriamo con attenzione il motivo del lonely boy, ovvero del fanciullo vagabondo (wanderer), scopriamo che anch’esso non è indivi154


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duale, né legato ad un’epoca specifica, bensì rientra nell’immaginario mitologico: il “fanciullo abbandonato” è un tipo ricorrente nelle formazioni più disparate per tempo e luogo; i suoi tratti appartengono a quella figura atemporale di giovinetto che la psicologia analitica identifica con un altro archetipo, il puer aeternus 6. Negli studi in collaborazione con Jung, il filologo K. Kerényi 7 rilevò come il mitologema del fanciullo abbandonato, spesso associato all’elemento musicale, sia presente tanto nella mitologia greca, quanto in quella orientale, come nel “prodigioso orfanello” delle fiabe. Per questo eterno fanciullo archetipico, estraneo da ogni riferimento biografico, “lo stato di abbandono è una condizione necessaria, non un semplice fenomeno accessorio”, nota Jung nel suo commento psicologico alle pagine di Kerényi 8. Riprendendo i termini della questione, con un occhio rivolto alla modernità, Furio Jesi scriveva in Letteratura e Mito: “quando il piccolo Dioniso, nell’inno orfico, viene catturato e dilaniato dai Titani, suo padre Zeus è assente. Il fanciullo primordiale deve essere orfano o abbandonato […] nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire di un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano” 9. Seguendo le tracce dell’inconscio collettivo, in quella dimensione atemporale in cui si dileguano i confini tra antichità e modernità, tra vecchio e nuovo mondo, possiamo riconoscere le maschere indossate dalla stessa figura archetipica in alcuni celebri modelli letterari che segnano altrettante svolte culturali. Nella prima metà dell’Ottocento, dopo i giovani eroi celebrati dal Romanticismo, il puer aeternus assume l’aspetto dell’orfanello Oliver Twist, forse il primo eroe-fanciullo della letteratura moderna. Qualche decennio più tardi, mentre nel vecchio continente Friedrich Nietzsche annuncia il ritorno del fanciullo tragico Dioniso, dall’altra parte dell’oceano l’archetipo indossa gli stracci di un fanciullo vagabondo e bricconesco 10 che vive presso il fiume e abita dentro una botte, respingendo caparbiamente le regole sociali: “non c’è personaggio più solitario nella letteratura” 11, scrisse T. S. Eliot su questo archetipico wanderer che nel romanzo di Mark Twain porta il nome di Huckleberry Finn. Alle soglie del Novecento, lo stesso mitologema segna un’altra svolta culturale nei panni di Peter Pan, il tragic boy (così è chiamato nell'opera di J. M. Barrie) che rifiuta l’approdo all’età adulta. Il tratto mitologico più evidente condiviso da Oliver Twist, Huck Finn e 155


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Peter Pan è quella condizione di orfano che Peter condivide anche con il dio di cui rievoca il nome, Pan. Con il suo flauto, Peter-Pan è la nuova forma assunta dall’antico fanciullo tragico e musico: egli non cresce perché è un dio, lo spirito di un ragazzo morto, un puer aeternus. Come Dioniso, come l’attore tragico, Peter Pan si accompagna anche ad un gruppo di “coreuti”, quelli che nell’opera sono chiamati Lost Boys: ragazzi perduti, fanciulli morti. Nell’immaginario del rock, Peter Pan & The Lost Boys potrebbe essere il nome di una band, esprime il rapporto archetipico di solista/coro che segna l’origine di un gruppo come Bill Haley & The Comets, la prima rock and roll band. Lo stesso rapporto è contenuto in Buddy Holly & The Crickets, Dion & The Belmonts e altri. Ma c’è anche un altro modello più prossimo al rock and roll, e del quale dobbiamo fare menzione. Nel secondo dopoguerra, a tradurre in un linguaggio moderno l’archetipo del tragic boy 12, del prodigioso orfanello, fu un giovane attore che – non a caso - il destino volle orfano di madre e abbandonato dal padre: James Dean. Con i suoi film, in particolare East of Eden e Rebel Without a Cause, entrambi usciti nel 1955, si definirono i tratti del lonely teenager americano, quello che entrò a far parte dell’immaginario del rock and roll. Com'è noto, fu la morte prematura in un incidente stradale, il 30 settembre 1955, a rendere l’attore James Dean un vero e proprio eroe tragico, trasportandolo in quella dimensione mitologica in cui non si possono separare realtà e fiction, tanto che per decenni circolò un culto misterico intorno alla credenza che egli non fosse davvero morto. Dietro l'icona di James Dean e il suo enorme impatto sull'immaginario si celava ancora l'archetipo del puer aeternus: come l’eterno fanciullo Peter Pan, anche James Dean diventò un forever young (titolo che poi diventò una canzone Bob Dylan, il quale era stato uno tra i primi fan dell'attore). Fu questo mitologema a segnare le origini del rock and roll, fenomeno giovanile emerso proprio nello stesso anno in cui morì il giovane attore e rinacque l’antico mito. Elvis Presley e tutti i primi rockers avevano un grande culto per James Dean, e poi John Lennon (che sarebbe diventato un altro forever young) giunse ad affermare: “senza James Dean non sarebbero mai esistiti i Beatles”. Da una generazione all’altra, gli idoli del rock sono stati alter-ego di James Dean, sopratutto quando la morte precoce ha riattivato nell'immaginario collettivo il mitologema del puer aeternus: come avvenne per Jim Morrison e Jimi Hendrix, Sid Vicious e Kurt Cobain, l’idolo rock è un giovane morto prematuramente che di156


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venta una sorta di divinità neo-pagana, identificandosi con un’immagine archetipica imperitura, un’icona oggetto di culto da parte dei fans, i suoi “fedeli” 13. Nell'età moderna, questa eternità viene garantita dall’infinita riproducibilità tecnica sia dell’immagine che della musica. Scomparso a ventidue anni nel 1959, Buddy Holly fu il primo di una lunga serie di lost boys, di “fanciulli abbandonati” e assurti al Pantheon del Rock. Questo ci può far capire perché, alle soglie del 1960, riemerse con intensità l'immagine archetipica del lonely boy: negli anni ’50 il rock and roll si fondò sulla mitologia del puer aeternus, e poi anche la seconda generazione trasse nuova linfa dal medesimo archetipo, in quel giorno chiamato the day the music died. Scampato per uno scherzo del destino all’incidente in cui perse la vita Buddy Holly, Dion doveva esser particolarmente sensibile alla risonanza inconscia del puer aeternus, e ciò può spiegare la presenza ricorrente di tale motivo nel suo repertorio. Essendo però di natura collettiva, era comune anche ad altri suoi contemporanei, come la figura della runaway girl. Nelle canzoni di Dion abbiamo già trovato qualche indizio sullo stretto legame tra i motivi del lonely boy e della runaway girl, ma ora dobbiamo aggiungere qualcosa in più. Uno spunto sul rapporto tra queste due figure ci viene offerto ancora dall’opera di J. M. Barrie, in cui i due tipi sono accomunati sin dal titolo, Peter Pan and Wendy (1911). Peter Pan è colui che induce Wendy a fuggire, per sottrarla alla crescita; Wendy è una runaway girl per eccellenza. Avevamo ipotizzato che quest’ultimo motivo fosse una versione moderna del mitologema di Kore/Persefone, e la figura di Wendy ce ne offre una conferma: corrisponde proprio alla fanciulla mitologica rapita che è anche dea dell’oltretomba. L'analogia con il racconto mitologico di Kore è palese dall'inizio alla fine: nella scena iniziale, prima che il “rapitore” Peter Pan entri in azione, il narratore presenta la fanciulla ancora bambina che raccoglie fiori insieme alla madre. Nel capitolo conclusivo, la madre promette alla figlia di lasciarla tornare ogni anno nell'isola che non c’è quando giunge il tempo delle “pulizie di primavera” 14. Al pari di Kore/Persefone, come lo stesso Peter Pan suo compagno, la figura di Wendy è legata all’oltretomba; lo rivela non soltanto quando cuce l'ombra di Peter Pan, intessendo le trame tra il mondo dei vivi e il regno delle ombre, ma sopratutto quando si presenta al tragic boy con il suo nome completo, che riconduce alle tre Moire filatrici, al motivo dei tre scrigni di freudiana memoria 15: Wendy Moira Angela. Così, la fuga notturna di Peter e Wendy, che volano dalla 157


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finestra per sfuggire alla crescita, può essere accostata ad una morte mitologica, al simbolismo delle nozze nell’oltretomba. Tornando al nostro repertorio, proviamo ora a confrontare questo nucleo mitologico con i versi della canzone We Went Away di Dion & The Belmonts, in cui il motivo maschile e quello femminile risultano ancora indifferenziati, tanto che la voce narrante è un “noi”: Only you and me / we went away We went on a long trip / forever we’ll stay Goodbye everybody / you won’t see us no more Il fatto l’idolo rock and roll sia legato all’archetipo del puer aeternus, ovvero alla figura corrispondente a Peter Pan, spiega perché nella produzione musicale ricorra il simbolismo di Wendy, della Kore: anche se con diversi gradi d'intensità, dietro i motivi del giovane abbandonato e della ragazza in fuga ritroviamo due figure archetipiche che si rincorrono come Peter Pan e Wendy, magari mascherate nelle vesti di un'ordinaria canzone d'amore adolescenziale. A volte, possiamo individuare alcuni “elementi rivelatori”, come il nome della ragazza: una canzone dei Beach Boys ha come titolo Wendy, e si tratta proprio di una fanciulla fugace (“Wendy left me alone”). Non casualmente, la canzone si trova nello stesso album (All Summer Long,1964) in cui è contenuta un’altra canzone dal titolo We’ll Run Away, circostanza che contribuisce ad illuminarle reciprocamente. Va ricordato che il nome Wendy contiene sempre un retaggio del personaggio letterario: infatti, sembra che tale nome fosse quasi sconosciuto prima dell’opera di Barrie. Un altro nome rivelatore, più inconscio, è quello di Sandy: nel repertorio di Dion troviamo già una canzone con questo titolo, anche se le componenti archetipiche associate al nome erano contenute ancora prima in Sandy Went Away (1958) degli Impalas. Nel corso degli anni ’60, la figura di Sandy si trasforma spesso in una Wendy bionda e/o californiana, circostanza forse determinata dal fatto che il nome Sandy sembra essere una sintesi tra Wendy e “sand” (sabbia). Nell’album Sandy (1965) di Ronny & The Daytonas, la fanciulla s'identifica ancora una volta con la runaway girl: “Oh Sandy, you laugh and run away, you just don't care”. Non sfugge al simbolismo del nome nemmeno la bionda Sandy protagonista femminile di Grease (1978), cult-movie che celebra le mitologie del rock and roll vent'anni dopo. Anche se la storia ha (almeno in ap158


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parenza) lieto fine, la canzone dal titolo Sandy viene associata alla sequenza in cui il protagonista appare solo e abbandonato: John Travolta, nei panni di Danny Zuko, assume il ruolo del lonely boy e canta con spiccato lirismo i versi “Why you left me? Oh Sandy”. Per quanto il nome possa essere simbolico, la matrice mitologica/archetipica del motivo di Kore emerge in un modo ancora più intenso nella forma della runaway girl, ragazza senza nome. In questo caso, colpisce per un verso l’assenza del nome e, per l'altro, la ricorrenza del tipo: così come l'eroe dai mille volti di Campbell, l’archetipo non può essere associato ad un nome e un volto individuale, poiché è l'elemento inconscio rispetto alla coscienza individuale, sebbene l’appartenenza alla dimensione collettiva lo renda universalmente familiare in ogni tempo e luogo. Pertanto, ci si approssima tanto più al nucleo inconscio/collettivo dell'archetipo quanto più ci si allontana dal principium individuationis, da un nome proprio, da un aspetto definito e contingente. Anche la stessa “Kore” è una figura senza volto: quello che sembrerebbe il nome significa soltanto “fanciulla”. Non solo il nucleo dell'archetipo non possiede forma definita, ma la cambia sempre: la nozione junghiana di archetipo si fonda sul paradosso di essere un elemento formale/strutturale “proteiforme” (quest'ultimo termine proviene dal dio greco Proteo, in grado di mutare il proprio aspetto). Afferma Jung: “quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni. Gli archetipi sono elementi incrollabili dell'inconscio, ma cambiano forma continuamente” 16. A dimostrazione di come l'archetipo non sia solo una nozione teorica, bensì immanente tanto all'opera d'arte quanto alla teoria stessa, questo elemento d'indeterminatezza e polimorfismo viene tematizzato in modo illuminante in un'altra variazione sul motivo della runaway girl, alternativa per eccellenza a quella beatlesiana: ovvero, la celebre Ruby Tuesday (1967) dei Rolling Stones. La canzone esordisce con il verso “She would never say where she came from” (“non disse mai da dove proveniva”), che non lascia adito a dubbi sulla provenienza ignota, inconscia, della figura femminile. Un'altra caratteristica delle figure archetipiche, secondo Jung, è che “sono bipolari e oscillano tra un significato positivo e uno negativo” 17; tale condizione è determinata dal fatto che “l'archetipo, unificando gli opposti, fa da mediatore tra le basi inconsce e la coscienza” 18. Questo è anche ciò che esprimono i versi successivi di Ruby Tuesday, in cui la fanciulla va e viene, oscillando tra luce e tenebre: 159


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While the sun is bright Or in the darkest night No one knows She comes and goes Il ritornello completa quella che sembra una delle migliori “traduzioni” in un linguaggio artistico della nozione teorica di archetipo, in tutta la sua proteiforme paradossalità: Goodbye, Ruby Tuesday Who could hang a name on you? When you change with every new day Still I'm gonna miss you È senz’altro da escludere che Keith Richards (autore di musica e testo) volesse esprimere consapevolmente la nozione di archetipo; eppure, la canzone esprime simbolicamente non solo il mitologema della runaway girl, ma persino le implicazioni teoriche a cui abbiamo accennato, rivelando come tanto il primo quanto le seconde – ben prima di essere una teoria – siano effettive espressioni dell'archetipo. Abbiamo riscontrato qualcosa di analogo anche nella produzione di Dion: la relazione tra le facce opposte della stessa medaglia, Runaround Sue e Runaway Girl, funziona come un equivalente simbolico della bipolarità strutturale di coscienza/inconscio. La prima faccia è quella di una ragazza con un nome specifico, pertanto una figura nota alla coscienza individuale del protagonista; il lato B invece corrisponde a ciò che Jung nella propria autobiografia 19 chiamò personalità n.2: una figura atemporale che appartiene alla psiche collettiva, che non possiede un nome e un aspetto definito, ma soltanto alcuni tratti ricorrenti con un certo significato funzionale. In Runaway di Del Shannon forse ci si avvicina ancor più al nucleo profondo: qui manca anche la connotazione sessuale esplicita, pur trattandosi di una figura femminile. Ma cosa esprime il mitologema della runaway girl? In una delle prime sequenze di American Graffiti, la canzone Runaway di Del Shannon presagisce l’apparizione di una fanciulla angelica che, dopo aver fulminato il protagonista, non si lascerà più vedere: si potrà riconoscere soltanto dalla sagoma sfuggente della sua bianca Thunderbird, un nome d’auto che assume valore simbolico ( Jung associa l'uccello bianco alla figura di Kore). Durante una notte di fine estate carica 160


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di presagi, e alla vigilia di una possibile partenza, Curt insegue la sua runaway girl per conoscerne l’identità, senza successo. In questo suo vagabondare senza meta, egli segue inconsciamente un percorso iniziatico che, come tappa culminante, lo conduce presso l'antro di Jack Wolfman, un arcano manovratore, un mentore nei panni di un disk jockey. Grazie all’intercessione di questa figura misteriosa, all’alba di un nuovo giorno Curt riesce finalmente a mettersi in contatto telefonico con la fanciulla divina, ma per scoprire che si tratta di una prostituta; quando le chiede il nome, “almeno il nome”, la linea telefonica è interrotta. Questo perché la fanciulla non possiede un’esistenza individuale: è piuttosto un simbolo, un messaggero dell’inconscio, corrisponde a “quella figura sconosciuta di donna, il cui significato oscilla tra gli estremi della dea e della prostituta” 20 di cui parla Jung a proposito dell'archetipo di Anima. Allo scacco subito dal protagonista, corrisponde la sua scelta (in realtà obbligata, come quella dell’eroe tragico) di lasciare la città e gli amici, di abbandonare il mondo della propria giovinezza. Nell’ultima scena, mentre decolla in volo verso un futuro ignoto, dal finestrino dell’aereo vede per l’ultima volta la bianca Thunderbird della misteriosa fuggiasca, un puntino bianco che si dilegua in lontananza. In quelli che emergono come i tratti persistenti e distintivi, l’immagine archetipica della runaway girl sembra esprimere la primavera/giovinezza che fugge: la giovinezza che tenta di fuggire il tempo, come Wendy; la primavera rapita, come Kore. Il legame della fanciulla fugace con la controparte maschile, con il dionisiaco puer aeternus, può esser illuminato dai celeberrimi versi di Lorenzo il Magnifico ne Il Trionfo di Bacco e Arianna (“quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia…”). Che si tratti di Dioniso e Kore, di Peter Pan e Wendy, i due archetipi dietro i motivi del lonely boy e runaway girl sono l’espressione simbolica di un nucleo meta-storico che viene dal profondo, e che riemerge ciclicamente dall’inconscio collettivo con la funzione di compensare una fase critica della coscienza, sia di quella individuale, sia di quella storico-culturale. Siamo giunti pertanto alla conclusione che il motivo del lonely boy corrisponde a ciò che la psicologia analitica chiama puer aeternus, mentre la figura della runaway girl assume la funzione simbolica del mitologema di Kore, ed è un aspetto dell'archetipo che nelle opere di Jung prende il nome di Anima 21. I due tipi rivelano anche quella “reciproca e fluida compenetrazione” che secondo Jung è “una caratteristica essenziale degli archetipi” 22: si tratta di aspetti complementari (maschile e fem161


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minile, animus/anima) dello stesso nucleo, in quanto “giovanetto e fanciulla formano una sizigia o coniunctio, che simboleggia l'essenza della totalità” 23. Il nostro scopo non è di tentare un’ulteriore “interpretazione” poiché, come già ricordato, l’archetipo è per essenza qualcosa di ambiguo e paradossale, che sfugge: come la runaway di Ruby Tuesday, è una forma proteiforme, un significato troppo significante per poter esser catturato dalla coscienza: “le immagini archetipiche”, afferma Jung, “sono a priori così cariche di significato che non ci si chiede mai che cosa veramente possano voler dire” 24. “Ogni interpretazione rimane necessariamente al come se...” 25. Quindi, ammonisce lo psicologo svizzero, “non dobbiamo cedere nemmeno un istante all'illusione di poter definitivamente spiegare, e con ciò liquidare, un archetipo. Anche il migliore tentativo di spiegazione è solo una traduzione più o meno riuscita in un altro linguaggio metaforico” 26. L'unica possibilità per esprimere l'archetipo è di tradurlo in un'altra forma simbolica che ne mantenga inalterata la funzione psicologica; le stesse espressioni linguistiche usate per circoscrivere l'archetipo sono efficaci in quanto traduzioni simboliche: puer aeternus è la metafora per un nucleo inconscio che, a parità di funzione, potrebbe esser chiamato lonely boy. Pertanto, il senso dell’archetipo è riposto nella sua stessa esperienza, nel suo riemergere inatteso nelle più disparate formulazioni, nell’intuire come due o più termini denuncino un comune “termine ignoto” che ne riveste il medesimo significato funzionale, laddove quest'ultimo è riconducibile al concetto di funzione adottato da Propp per definire gli elementi strutturali comuni a tutte le fiabe. Infine, prenderemo brevemente in considerazione il problema del rapporto tra l'elemento inconscio/collettivo e l'individualità creativa. Come abbiamo visto, i nostri due motivi non possono essere assegnati ad una canzone in particolare, né ad un autore in particolare: gli autori delle canzoni, che fossero Paul Anka, Del Shannon o Paul McCarteny, esprimevano motivi collettivi. Da questo punto di vista, il caso di Dion DiMucci ci sembra ancora più emblematico: diversamente da altri episodi del suo repertorio, Lonely Teenager e Runaway Girl non recano nemmeno la sua firma, ma gli furono affidate da autori piuttosto anonimi. Egli era sopratutto un interprete e performer, non ancora un cantautore, figura che nei primi anni ‘60 era rara. Tuttavia, il presunto deficit di “autorialità” – la relativa autonomia rispetto all’“artista” di una produzione che sembra appartenere ad una dimensione più collettiva che in162


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dividuale - non comporta a priori che il valore estetico dell’opera vada ridimensionato. Forse, oggi andrebbe piuttosto relativizzata la mitologia della creatività ex nihilo, quell’idea secondo cui il valore di un’opera consiste nell’esprimere il più possibile l’individualità dell’artista, concezione che le avanguardie del secolo scorso hanno portato alle estreme conseguenze, fino al punto di sacrificare l’opera stessa al parossismo del gesto personale. Sebbene il pubblico della popular music tenda ancora ad esaltare la mitologia dell'artista creativo – e l'industria musicale ha tutto l'interesse nell'alimentare la credenza, lasciando dietro le quinte produttori e arrangiatori – in questo campo l'effettiva produzione dell'opera risponde ad altri criteri. Infatti, un album musicale è sempre un’opera collettiva alla quale contribuiscono varie persone e in cui confluiscono diverse pratiche artistiche, paragonabile ad un set cinematografico. Basterebbe ricordare il contributo dell’arrangiatore e produttore George Martin alle canzoni dei Beatles, senza il quale esse non sarebbero state quelle che conosciamo. Inoltre, nella popular music la creatività individuale ha sempre e comunque un valore relativo (ossia fondato su una relazione) rispetto ad un patrimonio collettivo di forme simboliche, mitologemi e stilemi musicali le cui origini si perdono nella notte dei tempi: a questo proposito, si può ricordare il repertorio del nostro Fabrizio de Andrè, ricco di persistenze poetico/musicali. Spesso, ciò che ad un’analisi superficiale appare frutto di creazione individuale, oppure ispirato da un evento contingente, trae invece la sua vitalità dalla reviviscenza di un archetipo, come nel caso di She’s Leaving Home. Partendo dalle “canzoni archetipiche” di Dion DiMucci, giungiamo all’idea che il valore di alcune opere (perlomeno quelle di origini “popolari”) non è riposto tanto nella paternità d'autore e nell'esprimerne l'individualità creativa, quanto piuttosto nella rielaborazione inconsapevole di elementi collettivi, privi di autore e paternità: essi non appartengono a nessuno, ovvero, come l'inconscio collettivo, appartengono a tutti. Seguendo le orme di Jung, Joseph Campbell affermava: “Il sogno è la versione individuale del mito, il mito è la versione collettiva del sogno. Mito e sogno sono entrambi simbolici, in quanto frutto della stessa dinamica della psiche” 27. Se volessimo un’ulteriore conferma dell’utilità e della pertinenza dei modelli junghiani per esplorare il campo della popular music, del rock in particolare, potremmo citare Runaway Girl come caso emblematico. In questa canzone, la coincidenza tra elemento onirico/individuale 163


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e mitologico/collettivo si trova espressa in una forma autenticamente simbolica, senza consapevolezza, senza alcun simbolismo contraffatto: la canzone stessa non può far altro che presentarci la runaway come una formazione onirica, confermandone così anche la natura mitologica, e rivelando come l’esperienza estetica della canzone sia fondata su un’esperienza archetipica: I fell in love with a runaway / a little runaway girl Each night she's all that I dream about / my little runaway girl Con effetti meta-teatrali, la parola dream era tra le più ricorrenti nelle canzoni di Dion. Per aprire le porte all’inconscio, non aveva bisogno di esprimersi con il linguaggio di Lucy In The Sky With Diamonds o Strawberry Fields Forever: a distanza di decenni, i suoi teenage dreams appaiono oggi più visionari di certi artifici psichedelici, più onirici di certe velleità surrealiste. Proprio in quella veste così sognante, apollinea, la sua musica dischiudeva una profondità dionisiaca che affondava nell'archetipo stesso del dramma musicale: dietro i suoi sogni, dietro le sue maschere, si stagliava sempre l’ombra dell’archetipico lonely boy, l’orfanello, l’eterno fanciullo tragico. Ogni tanto, affiorava alla sua coscienza una sottile inquietudine, la consapevolezza che la scena teatrale non è altro che apparenza, eppure l’unica apparenza vera nel palcoscenico della vita. Così, indossando i panni di un novello Prospero, egli tra un sogno e l'altro rivelava un’antica verità superiore: la vita stessa non è altro che sogno… Life Is But a Dream.

Note 1

Al testo della canzone, così come a quelli successivi, si è scelto di non affiancare la traduzione italiana, peraltro agevole anche per il lettore che abbia scarsa familiarità con la lingua inglese. Con questa scelta, si vuole ricordare al lettore che il testo non può esser mai dissociato dalla forma-canzone, che è fondata tanto sulla parola quanto sul suono. Considerando isolatamente il mero significato delle parole, si rischia di depotenziarne le componenti simboliche, sino a disperderle del tutto; è pertanto indispensabile fruire il testo nel contesto vivo e funzionale dell'opera musicale.

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2

R. Bertoncelli, Sgt. Pepper – La vera storia, Giunti, 2007, pp. 85-86.

Cfr. E. Panofsky, Il concetto del “Kunstwollen” [1920], trad. it. in La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1971.

3

Cfr. V. Ja. Propp, Morfologia della fiaba [1928], trad. it. Einaudi, Torino 1966; cfr. anche: Le radici storiche dei racconti di fate [1946], trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1949.

4

5

Cfr. J. Campbell, L’eroe dai mille volti [1949], trad. it. Guanda, Parma 2000.

Cfr. J. Hillman, Puer Aeternus, trad. it. Adelphi, Milano 1999. E anche: M.L. Von Franz, L’eterno fanciullo. L’archetipo del Puer Aeternus, trad. it. Red Edizioni, Milano 1992.

6

Cfr. Jung- Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia [1942], trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1972. 7

C. G. Jung, Psicologia dell'archetipo del fanciullo, trad. it. in Opere vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 132.

8

9

F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1981, pp. 12, 13.

Cfr. C. G. Jung, K. Kerényi, P. Radin, Il briccone divino [1954], trad. it. SE, Milano 2006. 10

T. S. Eliot, Introduzione a The Adventures of Huckeberry Finn, trad. it. In Le avventure di Huckleberry Finn, Einaudi Torino 1994, p. VI. 11

Nelle nostre pagine, i termini lonley boy, lost boy e tragic boy vengono usati come equivalenti: rientrano tutti sotto lo stesso segno, quello del puer aeternus, del forever young. 12

La parola fan è un’abbreviazione di fanatic che, come il corrispondente italiano, deriva dal latino fanaticus: ispirato dalla divinità, invasato, legato al santuario (fanum). 13

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Non sfugge quella che sembrerebbe una significativa inversione rispetto alla versione più nota del mito di Kore: mentre Kore in primavera torna nel mondo dei vivi, Wendy torna nel regno delle ombre. Questa inversione, che meriterebbe uno studio a sé, non solo non intacca il significato funzionale dell’intreccio archetipico (invertendo il segno positivo/negativo di due elementi non cambiano i rapporti interni), ma anzi ne arricchisce il senso. Cfr. S. Freud, Il motivo della scelta dei tre scrigni (1913). Anche il motivo di Kore, nelle pagine di Kerényi (1941), è espresso da una trinità: Demeter/Persefone/Hekate. Su alcuni punti i due studi sembrano convergere, rivelando come dietro le due prospettive teoriche ci sia lo stesso mitologema, visto da punti di osservazione diversi: in entrambi i casi, si tratta di una triade femminile che ha per fulcro una figura ambigua di dea/fanciulla dell'amore/morte.

15

16

Jung, Psicologia dell'archetipo del fanciullo, cit., p. 172.

C. G. Jung, Aspetto psicologico della figura di Core, trad. it. in Opere vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 193.

17

18

Jung, Psicologia dell'archetipo del fanciullo, cit., p. 167.

19

Cfr. C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni [1961], trad. it. BUR, pp. 73-125.

20

Jung, Aspetto psicologico della figura di Core, cit., p. 193.

Intorno alla nozione di Anima, la quale “non deve esser confusa con nessuna nozione cristiano-dogmatica o filosofica finora elaborata in proposito” (Jung), cfr. C. G. Jung, Sull'archetipo, con particolare riguardo al concetto di Anima, trad. it. in Opere vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1980. 21

22

Jung, Aspetto psicologico della figura di Core, cit., p. 193.

23

Ibid., p. 186.

C. G. Jung, Gli archetipi dell'inconscio collettivo, trad. it. in Opere vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 12. 24

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25

Jung, Psicologia dell'archetipo del fanciullo, cit., p. 150.

26

Ibid., p. 154.

27

Campbell, Op. cit., p. 24.

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Sex And The City & L’Appetito di Lucilla Furfaro Per l’intera durata della Serie le ragazze hanno un’età ed una posizione non ben definite. Il vero obiettivo di Sex and the City infatti non è quello di dispiegare un racconto didascalico ma, piuttosto, è quello di ancorare le vite delle quattro girls alla Città. È proprio la City a rendere reale l’identità delle protagoniste, che è inoltre consolidata in ogni sequenza dagli accessori, che sono sempre accuratamente abbinati a secondo delle occasioni. Difatti le uniche indicazioni tangibili si possono esclusivamente evincere dal sofisticato corollario di dettagli che di volta in volta connotano i diversi episodi della Serie. Così, osservando il contesto, comprendiamo che al centro di Sex and the City orbitano le vicissitudini giornaliere di quattro Trilly, le quali, a dispetto dell’era disinibita e delle rubriche settimanali sul sesso, desiderano trovare l’unica cosa che veramente conta: l’Amore. È solo in virtù del raggiungimento di questo sentimento supremo che esse canalizzano tutte le energie della loro vita, gestendo il proprio tempo tra lavoro, cura della persona e pianificazione strategica basata sull’osservazione attenta delle proprie e delle altrui esperienze. Insomma si comportano come donne in carriera, stabilendo regolarmente riunioni operative durante le quali si raccontano quello che pensano, cercano conferme, definiscono strategie di difesa e di attacco, che per oggetto hanno sempre il solo caro primario argomento, cioè l’amore, l’unico vero appetito che le spinge a ritrovarsi sedute attorno ad un tavolo, tra loro o con qualcun’altro. Quell’appetito misconosciuto soltanto dalla più adulta ma sinceramente sentito dalle altre. Perciò, se pranzano, non lo fanno mai in casa e tanto meno da sole e si comportano come se fosse l’ora del tè. Se cenano, cenano fuori. La scelta dell’ennesimo ristorante f-a-v-o-l-o-s-o è argomento di conversazione durante il pranzo-tè, oppure escono tutte insieme dal taxi, magari fanno la coda all’ingresso o la scavalcano, sono già sedute, stanno per ordinare, hanno ordinato… ma poi… mangiano? Il cibo vede forse modificato il proprio ruolo prioritario: da ragione di scelta del luogo a pretesto per essere nel luogo? Nell’epoca nella quale conviene tenere gli occhi aperti qualche attimo in più, i ristoranti sono forse diventati le nuove Vetrine? E se così fosse le nostre Trilly ben vestite, pettinate e truccate, sempre in gara per essere glamour in un con168


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testo molto più glamour, sono forse l’Arredamento Animato che attende al guardare (o al farsi guardare?) E, la Cena, è il nuovo Aperitivo? Può darsi. È probabilmente per questo che le portate, quando raramente appaiono sullo schermo, sembrano essere solo dei sottopancia all’ennesimo piano americano, conformato ai tempi del dialogo. Inoltre, per quantità ridotta rispetto al numero dei commensali e per aspetto ridondante, il companatico somiglia molto al vecchio antipasto, composto da cibi per lo più freddi, indubbiamente ben assortiti, probabilmente in base al colore, spesso scelti a completamento dell’arredamento di scena, in tema cioè con il luogo e lo status del posto che rappresentano, a volte addirittura per questo i cibi sono solo nominati, attesi… e mai inquadrati. È anche interessante notare che durante queste occasioni conviviali stranamente alcune tra le poche cose che vediamo mangiare sono un attentato al glamour per calorie e forma: dolci ipercalorici spesso consumati da un unico piatto! Rimane costante però l’inadeguatezza, sono piccoli, scarsi, inadatti cioè al numero e specialmente alla ostentata golosità dei commensali, ma il tema del racconto non era… l’Abbondanza? Quando poi le nostre ragazze mangiano in Casa lo fanno sempre con il preciso scopo di stupire il malcapitato di turno. Festeggiano così Il-PostRito-Propiziatorio per le occasioni a venire, ma in realtà già concluse in partenza, preparando colazioni faraoniche e dimenticando di pensare ai gusti dell’Ospite. La Tenerezza le pervade: si occupano del Proprio Piccolo Principe trascurando l’eventualità che magari non gradisca mangiare, specialmente appena sveglio, onde il malcapitato si vede intrappolato in una serie di risvegli densi di aspettative sovradimensionate per cui non gli resta che la fuga come sola via per trarsi in salvo. Oppure le maliarde celebrano il Pre-Rito-Propiziatorio-Scaramantico al fine precipuo di sedurre il commensale allo scopo di ascoltare rivelazioni inaspettate o per indurlo a formulare promesse esageratamente attese. Ma in entrambi i casi, non mangiano mai, perché l’eccesso di zelo tradisce il movente e perciò, ad un certo punto, il malcapitato spezza l’incantesimo, generalmente offendendo l’amor proprio della cuoca, la quale di colpo vede se stessa relegata al solo ruolo, appunto, di cuoca e non di Principessa-che-fa-perfino-la-cuoca-per-Amore. L’Onta chiede Vendetta, e a seguito della vertiginosa concentrazione di calorie ingerite per esigenze di copione, l’ex cuoca si ritrasforma in Principessa. Cosicchè con un monologo breve e stizzito sui massimi sistemi, ella scaccia 169


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il malcapitato, che il Fato o l’eccesso di sovraesposizione di decorazioni commestibili, ha salvato da un destino sinistro, disseminato da altri agguati, tutti testimoniati da un avvenuto soprappeso. Ancora una volta, ma al contrario, quantità inadatte al numero ristretto (due) dei commensali ed assortimento imbarazzante, vanno perdute. Non vengono consumate, non assolvono cioè allo scopo per il quale esistono, nella vita reale. Ma allora: quanto questi racconti riflettono la Realtà? Oppure, quale parte della Realtà riflettono e quale alterano per confermare l’altra? O forse, come sempre è stato, è solo cambiato il punto di vista ed ogni dettaglio di sceneggiatura racconta e conferma il più macroscopico dei cambiamenti avvenuti in una società che era partita da Doris Day? L’Emancipazione Femminile, donne che vivono libere al pari degli uomini e che, come loro, si muovono nella Vita svincolate da orari e simboli ma cariche di Status Symbol. Fino a negare od amplificare una delle poche cose necessarie alla sopravvivenza della Specie, cioè mangiare. Non è però tutto perduto, un Amore Adulto arde come la Brace sotto la Cenere e, puntuale all’ultimo appuntamento, scongela il Glamour come neve al sole. Carrie si sposa. Accoglie il suo Amore lungamente atteso, malgrado nel tempo le abbia inflitto molte disattenzioni. È finalmente rivelato, presente nel corpo e nel nome, rinuncia allo Status del soprannome ed accoglie l’uomo chiamandolo per nome. Accetta inoltre la cerimonia in comune e sceglie un abito non griffato. Ma avviene d’un tratto la catastrofe annunciata: l’Uomo, che non è mai un Vero giocatore di poker, ha… Paura-di-sbagliare-di-nuovo, così i due sono sul procinto di perdersi irrimediabilmente. Ma l’Araba Fenice, che non delude mai i Sogni di noi Sognatori, rinasce, arrampicata sulle sue Manolo azzurre nuove: la Storia si chiude in un fast-food con ombrellini, cannucce e bicchieri di carta. Il buono trionfa come sempre, ed i protagonisti, completi di prole al seguito, sono disordinatamente seduti ed in pieno giorno, All dressed up in love sostituisce la pista audio e finalmente… mangiano. Per ora.

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Un solo gallo nel pollaio. Note su Hedda Gabler di Gianfranco Perriera “Quel che manca al pensatore occidentale e che proprio in lui non dovrebbe mancare - scriveva Oswald Spengler - è appunto questo: la coscienza della relatività storica dei suoi risultati, che sono espressioni di una esistenza particolare e soltanto di essa, la consapevolezza dei limiti della loro validità, il convincimento, appunto, che la sua verità immutabile e le sue intuizioni eterne sono vere solo per lui” 1. La parola dell’occidente e il soggetto che la parla si erano attribuite, almeno in linea di principio, il dovere di una progressiva esattezza e una vis formativa che obbligava la realtà: nominandola infatti la rischiarava e la produceva innanzi a sé. La tradizione classica definiva i barbari, di non fluida pronuncia o aneu logou, senza discorso, coloro che non partecipavano del consorzio razionale e civile o che erano incapaci di prender parte al libero discorso che contraddistingue i cittadini che possono deliberare; la tradizione ebraico – cristiana aveva concesso a Adamo la facoltà di dare i nomi alle cose 2. L’uomo, così, aveva la gratificante consapevolezza che la realtà si poteva avvicinarla sempre più in un processo asintotico, chiamarla a sé, dominarla in un processo produttivo in cui sapere e potere coincidevano. Il dramma rinascimentale aveva innalzato l’uomo ad unico soggetto del discorso all’interno di in un contesto esclusivamente interumano 3. Il settecento illuminista aveva trasferito nel salotto il luogo deliberativo per eccellenza. Al suo interno la classe sociale vincente coniugava spirito d’iniziativa, sagacia tattica, buoni sentimenti e propositi educativi per lanciarsi alla conquista del mondo. Il salotto borghese diveniva allora la novella anticamera del re, dove il pater familias – o meglio il pater linguae – prendeva la decisione cui avrebbe dovuto arridere il successo nel mondo. Il salotto era il centro operativo da cui si diramavano i viaggi nel mondo e le cui porte dovevano essere sempre aperte, senza che nessun tiranno potesse mai sigillarle. Basti ricordare come le ricchezze e il successo di Robinson postulano la necessità del viaggio in terra straniera malgrado il divieto del padre, o come, nel Padre di famiglia di Diderot, un genitore che avesse voluto segregare in casa un figlio sarebbe stato destinato – suo malgrado – a divenir tiranno e al fallimento. Le porte che si aprono sul fondo e sui lati di questo salotto sono le “disciplinate” fessure attraverso cui si garantisce il percorso nel mondo e le barriere, insieme, che ne regolano il troppo caotico presentarsi alla co171


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scienza. Il nuovo, per quanto laico e disincantato, “temenos” del salotto doveva essere protetto da eccessive turbative: quelle legate alla sensibilità, alla concupiscenza, in primo luogo, e alla tendenza tutta femminile di adescare in tradimenti che avrebbero potuto sconvolgere la serenità di decisione. Ma soprattutto era necessario che la struttura fenomenica del reale, di cui le porte regolavano l’introduzione sino al salotto, si inscrivessero nelle stesse strutture di appercezione trascendentale dell’individuo o fossero generate dal medesimo spirito. Quando lo spirito prese ad arrancare dietro una materia troppo veloce per i suoi tempi di reazione o di immaginazione, ogni progetto di una mite e universalmente convincente disposizione del mondo saltò e sotto la maschera crepata il soggetto del discorso prese a rivelare un volto meno affabile: tutto finiva per risolversi in una corsa per il diritto di dare i nomi. L’importante era depositare per primi all’ufficio brevetti il proprio codice grammaticale del reale. Farne la più forte moneta corrente. La storia vedeva franare il suo credo nello sviluppo progressivo e rivelava il suo carattere di favola ideologica narrata dai più forti 4. La garanzia del macrotesto disegnato nella mente di Dio scompariva con lo stesso Dio. Gettato nel vortice dirompente del valore di scambio l’io soffre del timore di essere precipitato in un solipsismo quasi autistico, mentre il salotto, che era stato la fucina e il centro del suo potere decisionale, si trasforma in un vano rifugio, soprattutto in una prigione. Segregazione, impotenza, peso di un passato che opprime, risentimento, inconsistenza dell’io, rivincite sognate ad occhi aperti che mai arriveranno, sono i temi più ricorrenti nel teatro di Ibsen. L’ossessione di un fallimento che preclude ogni possibilità di futuro, perché ci si trascina “appresso una maledizione e il rimpianto di quella gioia che il mio passato mi preclude” 5, si coniuga con l’impossibilità di tracciare un ordinato discorso sul mondo, di metterne in opera una duratura mappatura. In Hedda Gabler, Lovborg può esclamare: “Ho distrutto la mia vita. Perché non distruggere anche l’opera della mia vita. Si, te l’ho detto. Strappato in mille pezzi. E poi li ho gettati nel fiordo. Fuori, lontano. È fresca laggiù l’acqua del mare. Se li porterà via. Turbineranno, spinti dalla corrente e dal vento. E poi s’inabisseranno” 6. Ma, colmo della spietata ironia ibseniana, si tratta di una patetica bugia. Perché all’individuo Ibsen non concede neanche il titanico gesto di sfida al mondo. L’opera- come vedremo- Lovborg l’ha smarrita per distrazione, per un incidente nient’affatto sublime. Della morte del sublime, di una coscienza individuale che si ritrova risucchiata nel ridicolo senza via 172


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d’uscita e insieme della denuncia delle finzioni che tenterebbero di dissimularne lo scacco, Hedda Gabler (1890) ,in quattro atti, è uno dei documenti più esemplari. La vicenda si svolge tutta nella villa Tesman e si può così sintetizzare: atto I:Hedda, la figlia del generale Gabler, e suo marito Jorgen Tesman sono appena arrivati nella loro casa coniugale. Dal dialogo tra la zia Julle e la domestica Berte, con cui si apre il testo, apprendiamo che Jorgen è in attesa di un incarico universitario. Quando il nipote compare accenna alle spese esose sostenute per il viaggio di nozze e per l’allestimento della nuova casa. La zia gli mette a disposizione la rendita e si mostra assai orgogliosa del nuovo libro storico che il nipote ha in preparazione. Entra in scena Hedda. Dopo un altezzoso disguido a proposito del cappello della zia scambiato per quello della domestica, la donna respinge l’ipotesi di essere incinta. Un mazzo di fiori con bigliettino annuncia la visita di Thea Elvsted, ex compagna di collegio di cui la Gabler si ricorda appena. Thea si presenta quale ex governante e ora seconda moglie del giudice di pace Elvsted, ma per niente innamorata di quest’uomo assai più vecchio, confessa di essersi messa in viaggio sulle tracce di Ejlert Lovborg, giovane maudite ricco d’ingegno che lei ha redento, aiutato nella stesura di un’opera sul progresso della civiltà e con cui ha intrecciato una relazione. Essendosi allontanato da lei teme che lui possa ripiombare nella perdizione, proprio adesso che sta per ultimare un libro che ha per argomento le sorti future dell’umanità. Teme, soprattutto, che Lovborg possa nuovamente essere attratto da qualche donna del passato che ha un indubbio ascendente su di lui e per la quale aveva rischiato di tirarsi un colpo di pistola. Non sa però che la donna in questione è proprio Hedda. Dai Tesman e in particolare da Jorgen che ne era amico spera di ottenere aiuto per ricondurlo con sé. Appare l’assessore Brack. Sa dell’arrivo in città di Lovborg e comunica a Jorgen che la sua nomina a professore dovrà meritarsela con un concorso a cui parteciperà anche Lovborg. Tesman teme di venire sconfitto e si rimprovera di essersi lasciato tentare dalle avventure. L’atto si chiude con Hedda che si tratulla con le pistole che il padre le ha lasciato in eredità; atto II: Brack corteggia Hedda, la spinge a rivelare il poco amore che nutre per il marito e la riluttanza che prova per ogni relazione intima con tutti gli uomini in generale. Rientra il marito con una pila di libri in mano, tra i quali anche quello di Lovborg, di cui loda i contenuti. Gli occorrono per la sua “specialità”. Si ritira nello studio. Hedda, di nuovo sola con Brack, gli confessa 173


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di aver sposato Tesman solo per fatuo capriccio. Adesso non è felice, teme di affogare nella volgarità e nella noia in una villa che odora di morte. Arriva Ejlert Lovborg. Racconta del suo libro in preparazione sulle future sorti della civiltà, ma assicura che non parteciperà al concorso. Brack lo invita alla piccola festa che organizza a casa sua. Lovborg declina l’invito e Hedda insiste per trattenerla presso di sé. Tesman e l’assessore – quest’ultimo senza perdere di vista il nuovo ospite – si trasferiscono nel salotto posteriore. Hedda e Ejlert rimasti soli possono chiacchierare in segreto come facevano un tempo a casa del generale Gabler.Rivangano il passato, l’amore di lui per lei, la richiesta da parte di lei che lui compisse un gesto estremo, il suicidio. Hedda ribadisce il suo terrore per le relazioni troppo intime. Ritorna Thea. Ejlert riafferma la loro fede reciproca. Hedda, facendo leva sul suo orgoglio, spinge Lovborg a recarsi alla festa. Se non lo facesse gli altri uomini potrebbero credere che non si sente sicuro delle proprie forze. Tutti escono. Hedda e Thea rimangono sole. La seconda è preoccupata, la prima la rassicura: il suo uomo tornerà prima delle dieci; atto III: Thea è rimasta a casa Tesman. Nessuno è rientrato dalla festa. Hedda convince l’amica, ancora più preoccupata, a dormire un po’. Rientra Jorgen. Confessa di aver trovato notevole il manoscritto che Lovborg gli ha letto alla festa, e di averne provato invidia. Rivela però che l’amico si è lasciato completamente andare. Completamente ubriaco ha smarrito il manoscritto, ora nelle sue mani. Hedda lo convince a non restituirlo e gli consegna una lettera della zia Julle che gli comunica l’aggravarsi delle condizioni della zia Rina. Tesman si precipita a casa della zia. Arriva l’assessore. Racconta che Ejlert ha trascorso il resto della serata nel salottino di Madame Diana, ex cantante e cacciatrice di uomini. In quel salotto Ejlert ha sbraitato, sostenendo di esser stato derubato da lei o da qualcun altro di qualcosa di prezioso. La polizia lo ha trascinato in guardina. Concluso il resoconto, Brack rivela a Hedda di aver capito quali sono i reali sentimenti di Ejlert nei di lei confronti e precisa di voler essere lui il solo gallo nel pollaio. Riappare Lovborg, trafelato. Piccolo dialogo tutto sottintesi con Hedda e a seguire l’incontro con Thea. Le confessa di essere un uomo finito e che la loro relazione deve interrompersi. Nega che il loro libro possa più uscire, poiché – inventa – ha fatto il manoscritto in mille pezzi: come ha annientato la sua vita, così ha fatto della sua opera. È a questo punto che Thea chiama l’opera il loro bambino e che Ejlert ammette di aver compiuto un infanticidio. Thea corre via inorridita. Lovborg si dichiara 174


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perduto e solo con Hedda le confessa di aver mentito a proposito del manoscritto: non lo ha strappato, ma semplicemente smarrito. Hedda gli suggerisce che è giunto il tempo di finire in bellezza e gli consegna una delle sue pistole. Lovborg esce. Hedda, rimasta sola, getta nella stufa il manoscritto; atto IV: la zia Julle annuncia la morte della zia Rina, ma si riserva di trovare un’altra malata cui dedicarsi. Entra Jorgen. Vorrebbe restituire il manoscritto a Ejlert, ma Hedda gli dice di averlo bruciato. Lui appare sgomento, ma subito si lascia persuadere dalla moglie: lo ha fatto perché temeva venisse sconfitto al concorso e poi, forse, è incinta. Ricompare Thea. Annuncia che qualcosa di grave è capitato ad Ejlert. Arriva Brack a chiarire l’arcano. Lovborg è in agonia, all’ospedale. Forte dell’angoscia in cui ha precipitato il suo uditorio, l’assessore centellina le notizie: Lovborg si è ferito…alla tempia…no al petto…sta malissimo… forse è già morto. Tutte queste notizie le ha sapute da un uomo della polizia con cui è in contatto. Finalmente un vero gesto, prorompe Hedda. Thea e Tesman, intanto, pensano a ricostruire l’opera di Lovborg. Con un duro lavoro si potrebbe recuperare. Si ricompatta così l’antica coppia di gioventù e si ritira a lavorare nel salottino posteriore. Brack, rimasto solo con Hedda, spegne tutte le sue illusioni. Lovborg non ha compiuto nessun bel gesto. L’assessore è stato costretto a qualche variante per riguardo a Thea, ma in realtà Lovborg è stato trovato morto in casa di Diana, dove era tornato per cercare il manoscritto. Il colpo gli era partito per sbaglio e lo aveva preso al basso ventre. Tesman e Thea fanno di nuovo capolino con i loro appunti farraginosi ed escludono Hedda da ogni partecipazione alle loro fatiche. Brack la lega a sé col ricatto: non rivelerà alla polizia come la pistola della signora Gabler sia arrivata nelle mani di Ejlert. Di un eventuale scandalo Hedda ha una terribile paura. Ormai è legata mani e piedi ai desideri dell’assessore e lo stesso marito la consegna alle sue attenzioni per poter dedicare più tempo al suo lavoro di restauro. Hedda siritira nel suo studiolo, suona un ballabile al pianoforte e si spara. “son cose che non si fanno”, conclude Brack semisvenuto nella poltrona. Veniamo ora all’analisi di alcuni punti fondamentali. L’ex villa Falk, ora villa Tesman, nel cui salotto si svolgerà l’intero dramma, rivela sin dalle prime pagine la sua essenza. Posta ad occidente della città, nella terra del tramonto, è un luogo di lutto – sofferto, rimosso o persino auspicato a seconda dei protagonisti – e di mal riuscite simulazioni: i fiori e le piante disseminate dappertutto - il cui rigoglio artifi175


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cioso fa da ironico pendant a “qualche albero ingiallito dall’autunno” che fa capolino dalla porta a vetri - si vorrebbero augurio agli sposi appena arrivati ma rimandano pure ad una cappella funeraria; gli arredi e il vestiario falliscono miseramente nel loro tentativo di rendersi all’altezza della vita che la sposa, Hedda, la figlia del generale Gabler, conduceva in casa del padre, ma si rivelano, lo stesso, quale fonte di pericoloso indebitamento per il marito, Jorgen Tesman; il timore della domestica Berte di non essere in grado di soddisfare le pretese della nuova padrona - la cui provenienza da una classe ben più alta e il cui atteggiamento da dominatrice sono annunciati dallo spropositato numero di bauli che ha condotto con sé nella nuova casa - è pari solo al dispiacere di non poter stare vicina alla sua precedente padrona, la zia eternamente malata di Jorgen. La casa e il suo salotto diventano, dunque, una grande teca funeraria dove si consumano a fatica gli ultimi scampoli di malattia e le ultime mal riuscite finzioni. Nient’altro, come dirà Hedda, che una camera mortuaria dove si affastellano i giorni susseguenti ad una festa per sempre finita 7. La vecchia zia Julle per l’arredamento della casa ha impegnato la sua rendita. È dunque un artefice fondamentale della vita maritale del nipote. Eppure tutto ciò cui si dedica è contraddistinto dall’aridità. Da una parte, infatti, ha consacrato la sua vita alle cure della sorella Rina, per cui ha fatto sempre da infermiera. Dedizione vana: la salute di Rina non promette mai alcun miglioramento 8. Dall’altra il suo insistente desiderio di un erede dal nipote non ottiene mai una risposta confortante. Nel primo atto, quando la zia spera in “qualche novità”, alludendo evidentemente all’arrivo di un figlio, Tesman si ostina a non comprendere, a far riferimento alle sue speranze di una libera docenza, così come si ostina a supporre che le due stanze vuote, che nei propositi della zia sarebbero destinate ad accogliere altrettanti figli, serviranno invece ad accrescere la sua biblioteca. Poco dopo Hedda, quando il marito alluderà alle rotondità del suo corpo, reagirà inorridita, negherà persino che Tesman possa avere l’occasione di vederla senza abiti e giurerà “sono tale quale come prima (di partire)” 9. Se anche nel quarto e ultimo atto, dopo che per i due precedenti l’argomento è totalmente ignorato, si può avanzare l’ipotesi che Hedda sia incinta – cosa che nessuna parola conferma espressamente a ribadire il tabù, l’impronunciabilità di una tale condizione – la sbalordita e quasi incredula felicità di Tesman ( “Oh Hedda! Mi par di capire! Signore Iddio è proprio vero?”, grida, “congiungendo le mani” quasi in una preghiera di ringraziamento per il miracolo), 176


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l’epilogo, con il suicidio di Hedda, fa sì che la casa sia connotata dalla sterilità: un luogo ormai prosciugato, privo di umori, dove nulla può nascere e tutto si consuma, sotto il peso di un passato tanto ingombrante quanto confuso, che rende impossibile ogni futura rinascita: come per la zia Rina, nessun evento salvifico si darà dopo una lunga sofferenza, nessuna fenice rinascerà dalle sue ceneri. Scriveva Bachelard che “il mito della fenice è il mito della rinascita progressiva, la dialettica della vita e della morte, dialettica evidentemente arricchita del senso della vita amplificata, della vita che va oltre le pene e le delusioni, la morte e le sconfitte”10. Ebbene, proprio l’idea “dell’oltre” sembra preclusa in casa Tesman. Fuori di casa viene annunciata soltanto la lotta per primeggiare – il concorso cui Jörgen non vorrebbe sottoporsi e da cui, invano, sperava che la casa potesse proteggerlo – sì che quel libro definito “un’opera grande sul progresso della civiltà” ha subito il suono stonato di una bugia mal raccontata. Del resto una simile opera era ipotizzabile solo laddove si fosse accettata l’idea della storia come processo unitario ed organico tendente ad un fine. Tale era il credo della modernità, che aveva celebrato la sua apoteosi con la filosofia della storia di Hegel. Ma la “modernità finisce quando non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario. Una tale visione della storia, infatti, implicava l’esistenza di un centro intorno a cui si raccolgono e si ordinano gli eventi (…), ma la filosofia tra ottocento e novecento ha radicalmente criticato l’idea di storia unitaria, proprio svelando il carattere ideologico di queste rappresentazioni (…). Non c’è una storia unica, ci sono immagini del passato proposte da punti di vista diversi, ed è illusorio che ci sia un punto di vista supremo, comprensivo, capace di unificare tutti gli altri” 11. La fatica dello storico, a cui si vota Tesman, l’ipotesi di un riscatto del tempo perduto attraverso il lavoro di rilettura del passato naufraga goffamente nelle pagine di Hedda Gabler. L’accumulo di tutto il sapere passato produce soltanto una congerie irrelata ed irrisolvibile di fatti, giudizi, sensazioni, che gravano come zavorra sulla singola coscienza. Quest’ultima poi, così appesantita, sprofonda sempre più nel proprio abisso alla ricerca di un’autenticità impossibile cui sacrifica le sorgenti più pure della vita. Come scriveva Nietzche nella II inattuale del 1874, “il sapere che viene raccolto a dismisura senza fame, anzi contro il bisogno, ora non agisce più come motivo trasformatore e incalzante verso l’esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno, che quello moderno, con singolare superbia, indica come l’interiorità a lui peculiare”12. Il me177


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diocre e piuttosto dubbio candore di Tesman, il suo ottuso raziocinio gabbato dagli eventi ne fanno “ironico emblema” della coscienza storica moderna: un inesausto collezionista di saperi, un travet della conoscenza, sudato e affaticato dal peso dei libri troppo numerosi per essere letti davvero tutti, che non può né incidere sulla realtà esteriore, né tanto meno incidere sui fogli bianchi di un libro l’opera scientifica definitiva 13. L’abbaglio in cui cade l’ingenua donna del popolo, la domestica Berte 14, a proposito del titolo di dottore conferito al signor Tesman, disvela, con la solita ironia ibseniana, il discredito in cui è caduto il sapere spirituale. È questa l’epoca del trionfo della medicina, come ci ricorda Michel Vovelle, in cui il medico si sostituisce definitivamente al prete “come colui da cui ci si attende la guarigione in virtù della sua perizia tecnica o come intermediario dell’ultimo passaggio secondo le nuove regole laicizzate” 15. Il signor Tesman porterà pure il titolo di dottore, ma non cura la gente. E, quel che è peggio, il suo ingegno – con cui dovrebbe poter diventare tutto quello che vorrà, a cui sarebbe dato riunificare nell’unità del concetto il molteplice della percezione fenomenica – si rivela invece assai miope. Da un lato la sua intelligenza imitativa, perché si limita a spigolare nelle creazioni altrui, ha fiaccato il suo istintuale slancio vitale: la sua attività sessuale, al contrario di tanti mariti ibseniani, appare rimossa e titubante, la sua importanza in casa alquanto ridotta e la sua affermazione nella vita subordinata alle zie che lo sostentano e incoraggiano. La sua aspirazione ad una senescente quiete trova ironica conferma nelle vecchie pantofole cui tanto ha pensato durante il viaggio di nozze 16. Dall’altro l’enorme congerie di appunti da lui raccolti si trasforma in un guazzabuglio sempre disordinato di nozioni, di cui ha perduto la chiave con cui trasformare la conoscenza in azione pratica. Scrive ancora Nietzsche: “Egli [l’uomo moderno] ha annientato e perduto il suo istinto, egli non può più ora, fidando nel ‘divino animale’, lasciar cadere le redini, quando la sua mente vacilla e il suo cammino conduce attraverso deserti. Così l’individuo diventa titubante e incerto e non può più confidare in se stesso: affonda dentro di sé nell’interiorità, vale a dire, in questo caso, nel caotico ammasso delle nozioni apprese che non operano all’esterno, dell’istruzione che non diventa vita” 17. Paffuto e roseo, metodico e superficialmente retto, Tesman diventa l’impotente e disincantata vittima di eventi che non tengono in nessun conto le sue capacità organizzativo - previsionali: si sposa con Hedda - che non lo ha mai amato 18 - solo per la capricciosa volontà della donna di costellare di qualche incidente 178


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il grigiore della vita; non sa trovare una sola parola nel momento decisivo, non sa giudicare gli eventi e tanto meno Hedda, di cui fraintende sentire ed agire, in cui ripone una fallimentare fiducia. Tesman è lo specialista che, a furia di guardare attraverso le regole analitiche, ha finito per trascurare anche l’evidenza sensibile, ha disseccato le fonti della vita e delle relazioni sociali. Anche il discorso etico gli risulta interdetto: di fronte alla distruzione del manoscritto di Lövborg operata da Hedda, sa solo rifugiarsi infatti nell’astrazione della norma legale, “questo è disporre illegalmente di oggetti trovati”, dice alla moglie, e sarà pronto a dimenticare l’accaduto quando verrà toccato nel suo amor proprio e coccolato nella sua maschilità, quando gli si farà credere, cioè, di aver finalmente donato la vita 19. E, beffa ed epitaffio finale, sua moglie si sparerà mentre lui è immerso nell’esame di appunti farraginosi. Il giovane padrone di casa si rivela allora, di scena in scena, un illuso e debole maschio in balia degli eventi. Un bamboccio bisognoso di cure premurose, cresciuto senza padre e senza madre, ma dipendente da una figura femminile, naturalmente sterile e solo putativa, la zia Julle, che “gli ha fatto da padre e da madre”, che gli paga la casa, gli consente di sposare una donna dalle pretese di Hedda, lo incoraggia e sostiene nei suoi sogni di libera docenza. Madre-zia che brilla per la vocazione da infermiera di malati terminali: ha dedicato, infatti, la vita alla sorella morente e il suo più sostanziale desiderio è quello di trovare una povera malata bisognosa d’affetto a cui dedicarsi 20. Madre-zia che gli permette di rimuovere la sua incapacità di incidere nella vita reale. Al contrario delle figure eroiche, Tesman rifiuta ogni sacrificio, ogni prova iniziatica, coltiva le sue ambizioni demandando sempre ad altri la possibilità di soddisfarle e invocando dal femminile una mano materna 21. La casa-salotto non è più luogo di decisioni nel e per il mondo, ma, invece, rifugio che isola nella noia del sempre uguale, camera mortuaria dove si vegliano desideri mai realizzati e si strema l’istinto vitale, dove si sogna di impiantare un’immensa biblioteca di storia del passato e non si riesce a produrre una sola opera per il futuro. Oppressa dal suo stesso sapere l’umanità si troverebbe in una situazione tale per cui, come scrive Nietzsche, “ invece di correre attraverso la storia, i moderni attraversano di corsa le gallerie d’arte” e “per parlare senza abbellimenti, il cumulo di ciò che affluisce è così grande, lo sconcertante, il barbarico e il violento premono con sì gran forza (…), serrati in orribili ammassi sull’anima giovanile, che questa può trovare una via d’uscita solo usando una premeditata mancanza 179


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di perspicacia” 22. L’epoca si dà come scolorata, votata, pigramente, alla scomparsa. Perché non si danno padri, le donne saranno sterili, e, dunque, non si daranno figli. Tesman, infatti, è senza genitori ed attribuisce alla nascita di un proprio figlio la qualità di evento impronunciabile e perciò stesso miracoloso. Il futuro è solo una minaccia. Non bisognerebbe mai lanciarsi in avventure, sentenzia Tesman. La casa è un nido in cui isolarsi e rifugiarsi, rinunciando a qualsiasi viaggio o a qualsiasi incontro 23. L’interno borghese è divenuto uno spazio inaridito, troppo angusto, reso infido dalla sua stessa clausura, dove il principio maschile organizzatore è ormai troppo debole e troppo fatuo, capace solo a parole di promettere le meravigliose sorti progressive, ma costretto poi a ripiegare nella solitudine di quattro mura, a gestire il grigiore di un’economia familiare senza apertura al mondo e completamente cieco rispetto alla donna con cui vive. Tutto concentrato a mettere improbabili pezze alla sua estrema fragilità, Tesman ignora senza troppo darsi pensiero i desideri di Hedda: ad una donna abituata al lusso e alla mondanità prospetta una vita frugale e appartata; una donna bella e con tanti pretendenti, così ritrosa e persino scontrosa nei suoi confronti, abbandona senza nessun apparente sospetto nelle braccia dei possibili amanti; una donna visibilmente scossa, stanca, che crede incinta, che il pubblico sa in procinto di suicidarsi, è pronto ad esiliarla in casa della zia Julle, pur di avere campo libero per i suoi progetti libreschi. Il potenziale comico di Tesman è continuamente sollecitato da Ibsen, e trova forse la sua più esplosiva manifestazione a proposito delle pistole del generale Tesman. “Per carità, tesoro…lascia stare quegli oggetti pericolosi! Fallo per amor mio, Hedda”, è la sua battuta con cui si conclude il primo atto. Alla riapertura del sipario del secondo atto troviamo immediatamente Hedda intenta a caricare le pistole 24. Del mito ottocentesco di un matrimonio quale completamento reciproco dei coniugi, nel rispetto dei diversi campi di eccellenza (all’uomo l’avventura e la conquista nello spazio esterno, alla donna la custodia e la cura della riproduzione nello spazio interno) e nell’adattamento della donna all’uomo e non viceversa, la coppia Tesman- Gabler è una evidente smentita: Jorgen Tesman non è per nulla produttivo, Hedda non è per nulla adattata al marito 25. Ma se l’intelletto pigramente analitico riceve attraverso la figura di Tesman la sua più ironica sconfessione, anche il suo opposto, il vitalismo senza risparmio, pare ad Ibsen non promettere alcuna redenzione. Löv180


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borg, il doppio orgiastico di Tesman, non fa più bella figura, anzi risulta una smentita senza appello di ogni energia creatrice di bergsoniana memoria. Bergson riconosceva l’esistenza di una morale gretta e di una società chiusa, in cui venivano limitate le possibilità dell’intelletto umano a favore di una solidità delle conquiste fondamentali alla specie. Ma aveva anche riconosciuto allo stesso intelletto una potenza creatrice – strutturalmente inarrestabile – che metteva in discussione qualsiasi definitiva stasi. Era questa potenza, la fluida energia che aveva dato origine alla morale del Vangelo, che prometteva un’irresistibile marcia in avanti. Tale istinto vitale che fluidifica la materia è “moto come principio” e il movimento “comprende (al contrario della stasi) l’immobilità, essendo ogni posizione attraversata dal mobile concepita ed anche percepita come un arresto virtuale” 26. Parola d’ordine della coscienza che abita nella società chiusa è il benessere, mentre dell’anima aperta ai viaggi nell’ignoto del progresso parola d’ordine è la gioia. Ma Bergson stesso, valutando i vantaggi del benessere, non si nascondeva quanto problematica fosse ormai la lotta tra slancio vitale e suo arresto nelle forme materiali. E, a non farsi troppe illusioni, indicava quale caratteristica dell’uomo moderno l’enorme sproporzione tra interno spirituale, infinitamente piccolo, e esterno corporale, smisuratamente grande 27. Un abisso dunque separa un’anima troppo piccola da un gigantesco corpomacchina, rendendo inefficace ogni sforzo di guidarlo e ridicolmente infantile ogni tentativo di opporgli un’estetica-etica dello sradicamento e della rigenerazione che passi attraverso il ribellismo o l’attraversamento di ciò che la società bolla come male. La vocazione maudite e decadente, di cui Lövborg è figura, può soltanto “mimare” la grandezza restando invece travolta in un destino ridicolo e volgare. Lovborg non può più ergersi a tragico titano contro il conformismo della sua epoca, ma farsi soltanto l’interprete di una ribellione ormai solo simulacro di se stessa. Sorta di clown inconsapevole che sbugiarda ogni sublime, Lövborg è passato per tutte le dissipazioni, per tutti gli sprechi del Sé, che il puritano perbenismo non può che giudicare come attentato al vivere civile. L’alcool e l’alcova erano i suoi luoghi deputati, luoghi di consunzione e prosciugamento delle sue possibilità. Lo attende però il recupero allo spazio sociale. Tra una “devianza” e l’altra, giunge in una casa dove la sua supposta diversità pare trovare la giusta collocazione: può frequentare uno spazio chiuso rimanendo straniero, non ha bisogno di sprecare la sua energia, ma la veicola nell’insegnamento delle sue conoscenze. 181


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In pratica diviene utile, mantenendo, apparentemente, l’autonomia della sua personalità. In quella casa, Lövborg, fa conoscenza con una donna, Thea Elvsted, che non dotata delle stesse qualità intellettuali, non lo irretisce, però, nelle trappole della lussuria, ma, condividendone la stessa situazione emotiva, lo accoglie a compagno di una relazione di libero scambio dei discorsi e delle emozioni. Il giudice Elvsted con cui si è accasata in seconde nozze è abbastanza vecchio sì da dover vivere nel risparmio dei sentimenti e nel metodico calcolo degli utili. I continui viaggi nel distretto per disbrigare i suoi uffici di giudice di pace lo costringono ad abbandonare sguarnita la casa. Thea, come spesso avviene ai personaggi di Ibsen, si è trasformata da governante in moglie troppo giovane di un marito troppo vecchio, inguaribilmente scontenta, senza afflato affettivo nei confronti del coniuge, a caccia di quegli improbabili sogni di cui Nora in Casa di bambola è la capostipite. Lövborg e Thea condividono, a diverso titolo, una condizione di estraneità rispetto alla logica della proprietà ed esercitano un lavoro regolato da contratto (lavorativo o matrimoniale, ma le due cose sembrano produrre gli stessi sostanziali effetti a casa Elvsted). Thea, sin dal primo giorno in cui mise piede nella casa, con la prima moglie del giudice malaticcia ma ancora viva, cura l’economia domestica. A Lövborg sono affidate le facoltà intellettuali della prole. Entrambi sostengono la proprietà ma non ne sono in prima persona beneficiari 28. Non servi, ma “impiegati di concetto”, che si mantengono a buon mercato e spesso dissentono dalla proprietà, Lövborg e Thea possono supporre di mantenere una certa distanza rispetto alla soffocante struttura della casa e di attuare una sorta di complicità paritaria, forti della disattenzione del proprietario. L’idea che una vera complicità può ottenersi solo a patto di sfuggire allo sguardo-controllo del padrone di casa è un concetto neanche tanto sotterraneo che informa l’intero testo e che trova negli atteggiamenti di Hedda la conferma e in Lovborg l’oggetto ripetuto di sperimentazione. Hedda e Lovborg, infatti, si scambiano confidenze mentre il legittimo proprietario è distratto da altre faccende: all’epoca del loro primo incontro è il generale Gabler ad essere ingannato mentre volta loro le spalle leggendo il giornale; in seguito tocca al marito essere eluso mentre chiacchiera con Brack nella stanza posteriore al salotto 29. Anche la relazione di Lovborg con Thea può attecchire solo nella distrazione del legittimo marito di lei. Ed ecco, così, che Lövborg abbandona le sue vecchie abitudini, ecco che Thea inizia a pensare, a riflettere su molte cose. La lin182


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gua non è più né lo strumento raggelato in cui parla la cultura e la ragione della società attraverso l’inconsapevole trasformarsi dell’uomo in meccanico ripetitore, né la balbuzie prelogica del pazzo o di chi è in preda allo spreco nei fumi dell’alcool e della lussuria. La lingua, invece, rivivificata dalla corrente emotiva di un rapporto autentico, ridiventa com-prensiva, in grado di congiungere le anime e di penetrare più in profondità il mondo. Insomma il caldo flusso di una corrente emotiva torna a dare rilevanza significativa ai messaggi e alle parole che li compongono 30. Lo scambio di amorosi sensi di due anime - abbastanza logorate ma cariche di esperienza della sofferenza e unite dalla consapevolezza di una posizione ingiustamente subalterna - riaccende la scintilla di un’emozione generatrice di nuove forme. Accade allora di forgiare un’opera in cui l’autore sia tutto intero, autentico e perciò stesso possa prevedere il futuro progresso della civiltà 31. Salute personale e salute collettiva, dice con sorniona ironia Ibsen, sembrano coincidere. L’amore del resto è produttivo e proiettivo. Ditta opere divine. La gloria della scrittura non potrebbe avere miglior peana. Essa rivela tutto l’uomo, conserva la memoria e profetizza il futuro dando speranza ai sogni. Anzi la sublimazione del desiderio in un rapporto amicale, in cui nessuno dei due sessi, senza rinunciare al fascino della carne, assuma di fronte all’altro una volontà di dominio, regalerebbe alla scrittura una maggiore comprensione del reale. Il testo anziché di un autore è opera a quattro mani. La complementarità tocca la perfezione. La donna, invece che elemento distraente e depauperante del senso, riacquisterebbe un ruolo di musa e il suo calore tornerebbe a farsi preziosa incubatrice del lievito della parola 32. Questo novello eden, però, non dura a lungo. Paga il suo scotto ai rapporti di potere e di appropriazione che regolano la società degli uomini. L’amicizia si rivela possessiva, non consente la libertà del distacco; la fiducia reciproca si trasforma in controllo minuzioso e sospetto. Hedda lo dirà chiaramente a proposito del suo rapporto con Lovborg: è proprio dall’intimità che bisogna guardarsi, il suo risvolto è volontà di dominio. Thea stessa lo aveva confessato: “Cominciai ad acquistare una specie di potere su di lui” (atto I, p. 24). È in virtù di tale potere che Thea si sente autorizzata a partire per verificare i comportamenti di Lovborg, è per tale potere che Thea aziona, con la più vieta gelosia, i meccanismi di un tragico “ridicolo”. L’amore, come Schopenhauer, la cui opera proprio nella seconda parte del secolo ottiene maggiore diffusione, aveva indicato nel suo Mondo come volontà e 183


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rappresentazione, era al fondo solo un’illusione letteraria, l’inganno supremo della natura che, prospettando agli amanti una somma felicità, legandoli indissolubilmente nell’apparente intensità di un rapporto privilegiato fra individui, faceva in realtà il proprio gioco a servizio della specie. La veemenza dell’istinto sessuale, la sua stessa meccanica di tensione e scarico, al di là di ogni deliberazione della coscienza, sanciva la totale secondarietà dell’individuo, la sua precarietà e il suo ridicolo atteggiarsi ad eroico e spirituale demiurgo, quando in realtà era soltanto uno strumento di processi fisiologici 33. L’intimità della casa, allora, dove dovrebbe ottimizzarsi la relazione a due, può solo atteggiarsi a luogo di una studiata continenza, di una impossibile sublimazione degli impulsi, e di una ordinata distribuzione dei ruoli in cui si celebra l’autoinganno degli individui: “l’interno” diviene lo spazio solo ipocrita del valore. Ipocrita non solo perché la medicalizzazione e l’“igienizzazione” del costume sessuale a garanzia di una produttiva etica del lavoro viene puntualmente smentita dal comportamento e dalla disattenzione dei costituenti della relazione di coppia: per quanto, a parole, moralmente repressa, la drammaturgia borghese istituisce a suo fondamento l’esistenza del triangolo amoroso. Ma ipocrita, soprattutto, perché ogni comunicazione relazionale, sotto la superficie di una serena e industriosa compartecipazione, rivela di fondarsi su rapporti di potere, ormai incapaci di restarsene mascherati sotto schermi ideologici o sotto fiabe letterarie. Le quattro pareti domestiche non consentono neppure più di nasconderli gli inganni. Ogni segreto viene allo scoperto o implode scardinando il rifugio. Tutti sono spiati e scoperti negli appartamenti ibseniani, come ha giustamente sottolineato Roberto Alonge 34. A nessuno è più concesso illudersi o nascondersi nell’autoinganno. Il significato e la parola che lo veicola vengono assorbiti nell’economia del valore di scambio, dove progresso e verità ultime dipendono dalla domanda e dall’offerta, e, soprattutto, dai “padroni della zecca”. Così il vantato pudore e la protezione dell’intimità venivano aggrediti e immancabilmente sbugiardati da una vocazione ipervoyeuristica. Era questo il paradosso della fine della modernità svelato da Ibsen attraverso l’aggressione all’interno borghese: che – per prendere in prestito una metafora nicciana - le verità ultime erano metallo fuori corso che aveva perso la lucentezza della moneta sonante, eppure, nonostante questo, in tale metallo che “non circola” più, si riponeva una irrigidita, insensata fiducia o, peggio ancora - come vedremo nel caso dell’assessore Brack – si assumeva il ruolo di falsario autoriz184


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zato, almeno fino a che si fosse stati in grado di gestire la fabbrica dei discorsi autorizzati 35. Il comportamento antieconomico di Lovborg si dibatte invano in una contraddizione senza via d’uscita. Da un lato la dissipazione, seppure sfugge la rigidità, il congelamento vitale, precipita in una sorta di afasia: lo spreco impedisce di tesaurizzare le risorse per dar corpo (tipografico) alla voce. E che la metafora monetaria da cui siamo partiti resti fondamentale ci è confermato dal fatto che innanzitutto lo spreco di Lövborg è spreco di denaro. Ha dilapidato, infatti, tutte le sue fortune e, dato che non può sfornare un libro all’anno, condanna il suo ingegno alla perdizione a meno che – di nuovo la metafora monetaria il clan familiare non intraveda nel suo ingegno una moneta sonante da investire nel mondo 36. Dall’altro lato la “conversione” di Lövborg è troppo precaria e letteraria. Tornare alla scrittura e dare alla stampa “un’opera grande sul progresso della civiltà” è possibile solo a patto di mettere a nudo la propria anima, di confessare interamente in un clima di fiducia tutto se stesso. Come se, dando fondo a se stessi, fosse possibile ritrovare un’ispirazione che renda isomorfi e trasparenti autenticità del discorso interiore e verità del discorso dell’essere, sì da ridonare alla parola del soggetto valore inaugurale e una purezza etica che, come scriveva Simmel a proposito del dovere morale, eguagli il ritmo stesso delle sorgenti della vita 37. Ma il discorso di Lövborg è ab origine reticente - egli non ha mai rivelato a Thea che è Hedda la donna cui era stato profondamente legato - e dunque fondamentalmente inautentico. D’altro canto la relazione dialogica fondata sul comune sentire e sul rispetto reciproco della libertà dell’altro si rivela assai labile: la “pressione” di Thea scioglierà l’incanto e Lövborg ripiomberà in quella che è insieme residuo di una tara ereditaria, cara alle teorie naturalistiche, e incapacità ormai congenita dell’individuo di sostenere un ruolo eroico.Tornando ai bagordi Lövborg smarrirà in modo ridicolo la sua opera profetica. Di essa resterà solo un’indecifrabile congerie di appunti. Il circolo vizioso delle velleità individuali si chiude sui troppo fragili sogni di Lövborg cui manca persino la consapevolezza nichilistica del costruttore Solness, che due anni dopo Lövborg, affermerà che “non vale la pena di costruire case per gli uomini”. Ritornare all’alcol e all’alcova è allora il segno non solo di un immutabile scollamento fra ideale e realtà materiale, ma soprattutto dell’impossibilità di viaggiare sul limite. Non si danno traiettorie alternative tra la voracità mortuaria della casa – dove sotto la patina di un’affettuosa cordialità si nascondono o la noia di un’ecolalia priva di 185


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sbocchi o l’apprensione e il rancore per il comportamento del coabitante (figlio o partner che sia) - e la nullificante vanità del mondo – dove sotto lo sfavillante profluvio di belle parole si nasconde un deserto di senso in cui unici padroni sono l’impulso a riprodursi della specie e la vana volontà di dominio di ogni singolo. L’intellettuale sradicato e sognatore, costantemente bisognoso di una donna-madonna che con le sue virtù redentive dia sostanza alla sua ispirazione quale è Lovborg, conclude la sua parabola agendo come un bambino capriccioso intento solo alla ripicca. La mancanza di fiducia da parte della sua amica Thea e lo sguardo commiserevole degli altri che dubitano della sua forza di carattere e sostengono che non andrebbe alla festa per paura di ricadere nei suoi vizi, consegnano questo personaggio al suo ridicolo scacco. La impossibilità di corrispondenza fra parola e gesto, anzi la discrepanza fra altezza del dettato verbale e “bassezza” del comportamento materiale, impediscono a Lovborg quella paradossale coerenza tragica che pur spingendo l’eroe romantico alla morte lo rende ostinato nell’affrontarla. Lovborg non può farsi exemplum, non può assumere sino in fondo la sua scelta personale e si destina dunque al ridicolo involontario. Proprio colui che avrebbe voluto denunciare la meschina indolenza del mondo, che dalla sua opera non si aspetta la nomina ad un posto privilegiato tra le carriere accademiche, ma reclama la trionfale ammirazione di un’opinione pubblica da cui si mostra enormemente distante 38, morrà nel luogo sbagliato, per una causa sbagliata, per aver minacciato la persona sbagliata. Il profeta delle forze civilizzatrici del futuro muore dunque accecato dalla stessa passione mal indirizzata per la sua opera e vittima del più evidente dei ribaltamenti comici. Perde la più preziosa delle sue creature, cui aveva consegnato eterna fede nel progresso, mentre si abbandona al fuggevole presente della lussuria. Con evidente icasticità, allora, sarà colpito proprio ai genitali, proprio in quell’organo che alla generazione del futuro è preposto e che dovrebbe “garantirne” la logica e penetrante scrittura. Ma quest’organo, come aveva sentenziato Schopenhauer, era in realtà lo strumento della specie e non dell’individuo. E gli ideali sono solo gigantesche finzioni destinate a crollare come castelli di carta. La vera ragione dell’essere è una volontà cieca di autoconservazione, che impedirebbe quella fondamentale esperienza di sospensione, di distanziazione del e dal mondo che renderebbe possibile la pratica di discorsi diversi. Eppure l’umanità sembra non rendersene conto. O, meglio, finge di non rendersene conto. E allora Ibsen con freddo distacco le strappa 186


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ogni maschera. Nelle case borghesi del resto se ne combinano di tutti i colori (rancori, odi, vessazioni, sfruttamenti, tradimenti, inganni, persino omicidi e incesti sono all’ordine del giorno nei testi ibseniani). La stessa struttura della casa vacilla, è diventata spettrale. Vegliare la propria decadenza, la propria lenta morte sembra l’inconsapevole destino di questa umanità di fine secolo. Vent’anni prima di Spengler, Ibsen sottoponeva al suo pubblico l’ipotesi che “l’umanità non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non li ha la specie delle farfalle o quella delle orchidee. Umanità è o un concetto zoologico o un vuoto nome” 39. Il soggetto di quest’epoca al tramonto, si ritrova allora senza padre (perché non ha tradizioni né da continuare, né cui opporsi), e senza figli ( non solo tutti i personaggi di questo dramma non hanno concretamente dato alla luce degli eredi e se Thea ne ha di acquisiti non esiterebbe certo ad abbandonarli, ma più metaforicamente fanno a gara nello smarrire o distruggere quel che si potrebbe consegnare al futuro). Si aggrappa però alla volontà di conservazione - o sarebbe meglio dire che la volontà di conservazione si attacca all’individuo - e si ritira in un cordoglio protettivo, in un lutto che consente forse il silenzioso risentimento ma che non presenta vie d’uscita se non l’addomesticamento della morte 40. L’interno borghese è il cimitero di antiche favole, si sostiene sui rapporti di potere e su convenzioni sociali atte a mascherarne la crisi. Da un lato, infatti, la somma di tutte le esperienze non fa una teoria, sicché la massa di tutti i documenti possibili e di tutte le sensazioni possibili non è racchiudibile in unità; dall’altro la somma di tutti i momenti della storia dell’Essere persegue scopi di cui gli individui sono solo strumenti o effimeri ricettori di mosse che si tramano sopra le loro teste. Del discredito in cui Ibsen getta ogni connubio tra aspettative ideali e pratica quotidiana, il testimone più critico, proprio perché estremamente malato, proprio perché profondamente deluso, è Hedda. Allevata sotto l’ala protettiva del padre, il generale Gabler, era vissuta da gran signora, e – come sottolinea Alonge – sul padre è rimasta fissata 41. Lo stesso Ibsen, com’è noto, in una lettera indirizzata al traduttore francese Prozor il 4 dicembre 1890 precisava di aver titolato il dramma Hedda Gabler per suggerire come il personaggio fosse da intendersi più come figlia del del generale Gabler piuttosto che come moglie del professor Tesman. Le pistole di lui, che Hedda ha voluto portare con sé, sono il simbolo del potere maschile di disporre della realtà, comandandola, ma anche 187


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di offrirla ai piedi della figlia. Ma uomini di quella pasta sono uomini di un’altra generazione: erano uomini che lasciavano assaporare il trionfo alle figlie, lasciandole cavalcare in piena luce, con gli abiti più eleganti 42. A loro si può ormai solo dedicare una piccola appartata cappella, all’interno del grande cimitero che è ormai la casa, ma niente di più. La loro assenza rende esangui i tempi e ancora più esangui le figlie; relega le donne in una condizione di morte-viventi, proprio perché attaccate ad un passato ormai solo tombale e perché segregate nella oscurità di una casa che non è alla loro altezza. Delle figure in cui l’Ottocento ha incarnato il lato minaccioso del femminile (chimera, sirena, vampiro) Hedda è una variazione dell’immagine del vampiro 43: ha deliberatamente rinunciato alla sua funzione sessuale e procreativa, estenua ogni energia vitale, si oppone al divenire, rinvenendo in esso una volgare caduta di stile 44. Essere insieme semivivo e semimorto, Hedda è obbligata a fuggire il calore della luce 45, metafora esplicita che la indica quale abitante del buio e muto mondo, in cui i fantasmi pallidissimi sono cristallizzazioni del rancore per il vuoto di essere in cui sono imprigionati. Se, per natura, come scriveva Schopenhauer, ma ben più per ragioni sociali come pensiamo oggi 46, nell’amore l’uomo è “portato all’incostanza e la donna alla costanza”, se “l’amore dell’uomo diminuisce sensibilmente, a partire dal momento in cui è stato soddisfatto” e “ l’amore della donna, invece, cresce a partire proprio da quel momento” e “la natura la spinge istintivamente e senza riflessioni a conservarsi colui che nutrirà e proteggerà la futura prole” 47, allora il suo frigido rigor mortis, la sua volontaria inidoneità alla procreazione perseguita non attraverso la dissolutezza ma con il rifiuto quasi totale del consumo sessuale, divengono l’atto d’accusa alla vuota, volgare e meschina mascherata della vita 48. Come il vampiro - condizione cui Hedda è stata certamente condannata dalle nozze, dal momento che essere ammirata, galoppare a testa alta all’aria aperta, una vita riccamente mondana sarebbero stati i suoi desideri prematrimoniali, ma a cui tendeva, per così dire, in quiddità, dal momento che il suo malessere esistenziale è stato, per quanto sappiamo dai ricordi di Lovborg, sempre attratto dagli abissi e dalla morte – essa è l’immagine di un problema di adattamento a se stessi e al sociale che non è stato risolto. Nel dialogo del secondo atto tra Hedda e l’assessore Brack s’intona insieme il cinico de profundis del matrimonio borghese e dei suoi luoghi deputati e quello di un soggetto, che raccogliendo in unità i saperi, si faccia artefice di storia. Per quanto l’uomo si inventi i più bei nomi - progresso, 188


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intuizione pura, autenticità, autorivelazione dell’idea – per scorgervi un disegno, la storia resta il campo dell’inautentico e della lotta senza soluzione di continuità. Esclude pertanto ogni felicità che non rientri nel lucido calcolo economico degli interessi: una villa principesca, la vittoria in un concorso, il miglior partito possibile tra i corteggiatori, un’amante posseduta col ricatto. La vita moderna trova, allora, la sua azzeccata metafora nel viaggio in treno, dove si siede eternamente l’uno di fronte all’altra, e in cui perciò ogni comprensione è impossibile e sempre necessario sostenere lo sguardo dell’altro. Scendere da quel treno è vietato e, quel che è peggio, provare a farlo è consegnarsi come feticcio all’occhio altrui. “Non scendo mai dal treno”, assicura Hedda, perché “c’è sempre qualcuno che sbircia le caviglie”, conclude sornione l’assessore Brack. Dal momento che le caviglie non hanno più ali, perché nessuno spirito può involarsi in alto, che nessuna leggerezza può danzare, perché niente sfugge alla dura legge della pesantezza della materia, che il corpo femminile è subito catturato dallo voyeuristica concupiscenza dell’occhio maschile perché questo vuole ab aeterno il codice sociale, è meglio restarsene immobili, pesantemente seduti. “La dignità dello star seduti – come ricorda Canetti - consiste in particolare nella sua durata(… ) La pressione che egli esercita consolida la sua autorità; quanto più a lungo la esercita, tanto più sembra sicuro” 49. Sempre seduta Ibsen ha cura di mostrarci Hedda Gabler in tutti i momenti decisivi del testo: seduta quando tresca con Lovborg, seduta quando ascolta la confessione di Thea, seduta quando duella verbalmente con Brack, seduta persino quando brucia il manoscritto – “va alla poltrona accanto alla stufa e siede tenendo in grembo il pacchetto”, sente la necessità di precisare l’autore – e quando si suicida, dal momento che la ritrovano distesa sul divano. Costretta all’immobilità dal codice di genere, Hedda ribadisce, si direbbe, ed estremizza la paralisi. Ma - come con la solita ironia pare suggerirci Ibsen nel dialogo tra Brack ed Hedda del secondo atto - la donna siede su una sedia in movimento, su un treno che trascina, con la rapida indifferenza della tecnica, alla sua destinazione anche chi vuole imporsi una granitica, persino mortifera, immobilità. Assai più adatto al ritmo dei nuovi tempi appare allora l’assessore Brack, il cui occhio è esercitato a non lasciarsi sfuggire nulla di quanto il panorama gli mette a disposizione. “ Occhi vivaci, mobilissimi (…) Usa occhiali a molla che ogni tanto lascia cadere” (atto I, p. 26), così ce lo descrive la didascalia che accompagna il suo ingresso in scena. Del discreto terremoto con cui 189


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vengono infranti il muro delle quattro pareti domestiche e tutte la maschere identitarie protettive che gli uomini avevano posto sul loro volto 50, l’assessore Brack è lo smagato e cinico osservatore. Sa sempre tutto e lo vediamo costantemente impegnato a spiare. Sa dell’arrivo di Lovborg in città e della possibilità che voglia concorrere per lo stesso posto cui aspira Tesman (atto I, p. 27-28); sbircia con la coda dell’occhio il dialogo tra Hedda e Lovborg senza muoversi dalla stanza posteriore dove si è ritirato con Tesman (atto II, p. 47); segue gli atti e i gesti dei suoi invitati, o piuttosto di qualcuno di loro, e sa dell’incontro di Lovborg, in una soiree animatissima, con la cantante Diana esperta nella “caccia all’uomo” (atto III, p. 65); conosce la reale fine dello stesso Lovborg e quanto Hedda vi sia coinvolta (atto IV, p. 83–85). Forte di questa virtù del suo occhio, l’assessore è in grado di godere di tutti gli stimoli della realtà fenomenica e di usare tutte le conoscenze carpite come occasione di guadagno personale, come avviene nel caso della disincantata proposta “triangolare” prima contrattata, poi estorta a Hedda. Oswald Spengler dopo aver sottolineato che “quel che manca al pensatore occidentale e che proprio in lui non dovrebbe mancare è appunto questo: la coscienza della relatività storica dei suoi risultati” e che “il denaro come grandezza astratta inorganica, priva di ogni relazione col senso di una terra fertile e coi valori originari di un’economia domestica è il vantaggio che i Romani ebbero sui Greci”, affermava che “se per effetto di questo libro [Il tramonto dell’occidente] uomini della nuova generazione si dedicheranno alla tecnica invece che alla lirica, alla marina invece che alla pittura, alla politica invece che alla critica della conoscenza, essi faranno proprio ciò che io desidero, né si potrebbe desiderare per essi nulla di meglio” 51. L’assessore Brack - si direbbe - la pensava allo stesso modo qualche decennio prima. E non si può fare a meno di notare che la qualità del suo sguardo sia il perfetto duplicato di quello dello spettatore di una pièce naturalista: per entrambi la quarta parete è trasparente, entrambi curiosano nella vita altrui e traggono un “sensibile” piacere da azioni che coinvolgono e sconvolgono davvero solo coloro che le compiono. Lo scontro fra i due sguardi, quello di Hedda e quello di Brack, posti l’uno di fronte all’altro, è uno scontro impari: tutti e due scoperchiano, certamente, le menzogne su cui si regge ormai la cultura fine ottocento, tutti e due corrodono qualsiasi idealità e ne rivelano il suo ridursi ad un goffo ed insulso desiderio di fanciulle e di intellettuali tardoromantici. Ma guardano da una posizione di squilibrio: Brack, senza 190


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più grilli per la testa fa della sua capacità e del suo diritto di tutto osservare – non a caso è a lui che si deve l’“aver ottenuto condizioni vantaggiose” per l’acquisto della casa in cui si svolge il dramma, e per tornare al paragone con lo spettatore, è la borghesia che si è appropriata di un suo teatro dal settecento in poi - lo strumento di presa tecnica, si direbbe amministrativa sulla realtà. Come dice la sua stessa professione, assessore (ad-sessus, cioè seduto presso), lui se ne sta sempre nei pressi degli accadimenti e sa utilizzarli per il proprio tornaconto. Al contrario Hedda, in virtù delle prerogative di genere sessuale, è esclusa dal poter guardare tutto direttamente, può farlo solo per interposta persona. Lei stessa confessa a Lovborg che non era affatto il desiderio di purificarlo che la spingeva ad interrogarlo con tanta audacia, ad ascoltarlo mentre gli raccontava tutte le sue ”abiezioni”. “Le sembra così strano – gli dice – che una fanciulla quando le è possibile in tutta segretezza (…) si lasci attirare a gettare uno sguardo in un mondo che (…) è costretta ad ignorare” (atto II, p. 49). Sguardo da una posizione emarginata dunque, quello di Hedda, che ripudia la funzione redentiva e purificatrice che il codice vigente vuole imporre alle signorine di buona famiglia e che invece manifesta il desiderio di visitare i luoghi oscuri ed interdetti cercando però di non esserne solo la preda. “Né amore, né infedeltà. Non è roba per me”, dice a Lovborg, (atto II, p. 48), destinandosi così ad una sorta di non luogo, dove si può solo affogare nella noia, dove si può solo condurre l’insoddisfatta esistenza di un vampiro, imprigionato nel più crudele dei paradossi in quanto la sua eterna brama può trovare pace solo nella morte. La morte, dunque, non luogo per antonomasia, a cui Hedda vorrebbe consegnare Ejlert Lovborg, quale bel gesto sublime che sconfessa, nella scelta di un volontario suicidio, tutte le menzogne dell’esistenza, e in cui invece sarà lei stessa precipitata dalle trame di Brack. Lo sguardo di Hedda, forse mai davvero tanto meduseo come in questo caso, pietrifica i turbamenti dell’artista maledetto trasformandolo in letteratura di consumo a vantaggio del voyeurismo borghese, ma contemporaneamente si rifiuta di accoglierlo in un discorso terapeutico o salvifico. Lo sparagmos, la dissipazione di Lovborg era del resto solo l’altra faccia, quella di superficie, di una richiesta di assoluzione: trasformare Hedda in una sorta di confessore cui affidare il compito di risollevarlo dalle brutture 52 così come farà con Thea Elvsted, donarle le fattezze della Margherita faustiana che riporta il dannato nella grazia di Dio. È costume di Ibsen proporre nei suoi testi coppie di personaggi che 191


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stanno in relazione oppositiva. Doppio di Hedda è appunto Thea. Lei sì che ha accettato la condizione di donna della intercessione e della redenzione, riportando Lovborg alla vita produttiva e non più dissipativa. Come tutti i doppi che si rispettino uno manifesta un aspetto aggressivo, l’altro remissivo. Hedda, quand’erano bambine, aveva l’abitudine di tirarle i capelli e un giorno le aveva persino detto che li avrebbe bruciati (atto I, p. 21). Se consideriamo che simbolicamente i capelli sono una delle principali armi di seduzione delle donne e che nella didascalia che la introduce in scena Thea è descritta come una donna dal “personale fragile, lineamenti belli e delicati, grandi occhi di un azzurro chiaro, un poco sporgenti, dalla espressione timida e interrogativa. La sua chioma è chiarissima, d’un biondo quasi bianco, insolitamente ricca e ondulata”, ci pare di trovarci di fronte a quelle creature diafane, un po’ spaesate che gremiscono i quadri preraffaelliti che descrivono le donne angelicate. È allora al simbolo seduttivo della donna che sublima la sua sessualità in nome della redenzione dell’amato che Hedda mira nella sua vocazione distruttiva. I doppi però così come sono legati sono altrettanto escludenti. Si son conosciute da bambine al collegio, da allora benché “così lontane, così lontane l’una all’altra e appartenenti ad ambienti così differenti” (atto I, p. 21), hanno finito per contendersi gli stessi uomini a ritmi alterni: Tesman è una vecchia fiamma di Thea, prima del matrimonio con Hedda, così come Lovborg è un fervente innamorato della Gabler, prima di conoscere Thea. Alla fine del dramma la coppia originaria si ricostituirà: come nelle storie di doppi a lieto fine sono sempre i ribelli all’ordine costituito a dover essere sacrificati, sono sempre i più adattati a sopravvivere. Ma, con la sua solita fredda ironia, Ibsen lascia in vita coloro che non conoscono il reale modo in cui si è svolta la vicenda. Gabbati ed inconsapevoli potranno tornare alle loro caratteristiche occupazioni lavorando alle incomprensibili note di cui Ejlert si serviva per dettare la sua opera ormai perduta: Tesman a fare ordine nelle carte altrui, Thea a dare il “giusto senso” alle vite scapestrate e ad ispirare un uomo che senza il suo aiuto risulterebbe inconcludente. La loro cecità estromette definitivamente lo sguardo che scruta l’abisso e dunque emargina definitivamente Hedda, consegnandola tra le braccia dell’assessore Brack. “Non posso servirvi proprio a nulla?”, chiede Hedda alla nuova coppia tutta assorta a raccapezzarsi tra gli appunti, impegnata ad erigere un monumento – ancora una costruzione che sa di funerario – alla memoria di Lovborg. Suprema ironia del drammaturgo, l’uomo che si voleva 192


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autentico e ispirato profeta del futuro affidato alle mani di coloro che ignorano completamente il senso delle vicende in cui è stato precipitato e che nella loro inconsapevolezza non fanno altro che ribadire l’indolente decadenza dei tempi. “No, assolutamente nulla – intanto Tesman risponde alla moglie – D’ora in poi lei, caro assessore, dovrà avere la bontà di tener compagnia a Hedda”. Gli esperimenti della ragione occidentale hanno prodotto alla resa dei conti solo morte. La morte delle finzioni metafisiche, soprattutto. Esse sembrano lasciare il campo soltanto a tattiche menzogne, assai più grette, con cui imbandirsi i favori di una fortuna quotidiana. Brack è il cinico maestro di questo novello “imperialismo del successo quotidiano”, dove gli amori si stipulano sulla base di contratti fondati sulla bugia e sulla paura. Un universo desublimato e reso economicamente efficiente è la maledizione che Hedda sente pesare sulle proprie spalle, un universo che si nega all’autodeterminazione del soggetto pensante. Ogni cosa che lei tocca, confessa, precipita nel ridicolo e nel volgare. Di ogni determinazione di valore lei è insieme consapevole e inconsapevole sbugiardatrice 53. Diviene allora il vortice mortale che annega nel silenzio definitivo tutte le fiabesche determinazioni della ragione classica, roso però, ancora, da un inarrestabile risentimento, da un rimpianto del bel gesto dei tempi antichi di cui è nel contempo la più convincente smentita. La sua resistenza ai patti sociali di cui la ragion sufficiente si serve è, insieme, smascheramento dell’agonia rituale in cui la casa-coscienza consuma ogni energia vitale, e aspirazione ad un ormai impraticabile bellezza, ad una sublimità dell’atto di cui la sua stessa consunzione fisica è smentita. Come il vampiro, appunto, è una paradossale richiesta di vita nel ribadire la morte. Addomesticata, suo malgrado, ma soprattutto per ragioni economiche, nel suo ruolo di moglie, Hedda patisce nel suo stesso consumarsi invano l’impossibilità di uscire dalla prigionia. Mimare, paradossalmente, il comportamento della ragione classica col tenere a distanza l’oggetto come fa ogni volta che le relazioni affettive si dovessero fare troppo intense e conservare così un’autonomia che non si lasci travolgere dalle passioni; o praticare un ingenuo e smaccatamente infantile diritto di protesta, come mostra il suo piacere nello sparare contro il cielo azzurro – fare un buco nel cielo con le pistole del padre, ecco a cosa si è ridotto il progresso, ecco il residuo bersaglio dell’antico fallocentrismo - sono le uniche pratiche possibili, velleitarie e rivelatrici della pochezza di senso in cui si è cacciato il soggetto. Ridotto, questo sog193


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getto, a incerte tramature di piccole cattiverie quotidiane o di ciniche indifferenze, in una grigia commedia degli inganni, dove nessun atto sublime è concesso, dove coloro che cercano l’unità organica dei saperi sono distratti e sciocchi pedanti o illusi e infantili sognatori travolti dalla prima difficoltà della vita. Nell’indifferente processo con cui i mondi si sostituiscono ai mondi, le culture alle culture, si sgretola così la vocazione onnicomprensiva del soggetto classico e pare profilarsi all’orizzonte un’unica scelta praticabile: l’utile, ciò che ricade nella computabilità della prestazione di successo. Del resto – come scriveva l’altro grande scandinavo- “il carattere dell’uomo è il suo destino, tale era a quei tempi la locuzione ripetuta spesso e riconosciuta da tutti [ma] la società onora con l’espressione carattere coloro che hanno cercato e trovato un equilibrio e una posizione, dopo aver lungamente meditato sul modo di comportarsi, per poi agire da automi” 54. Pertanto non restava che recitare la propria parte - con rassegnazione o con risentimento - o con freddo cinismo assumere, per quel tanto che il tempo lo avesse permesso, il ruolo del burattinaio. Da pietra miliare sul cammino del progresso la coscienza-soggetto, si vede rigettata in una eterna minorità: non è la sua liberazione e la sua felicità il destino a venire, ma una “comica” coazione a ripetere il ciclo dominatore-vittima, tra risentimenti, ripicche ed affarismi. I grammata che compongono la sua lingua non consentono né interpretazione, né comprensione, né tantomeno illuminazione, ma si iscrivono in una scacchiera in cui il codice generativo delle mosse - nella sua accezione di istinto di conservazione, di economia dello spreco, di fervorosa applicazione dello schema dominatoredominato - testimonia soltanto la inadeguatezza del mondo al sublime. Il silenzio è in questa piece la sentenza di fallimento logo e fallocentrico del soggetto occidentale. La sua logorrea cumulativa e lineare si rivela vuota chiacchiera, la parola si rifugia in un unico sofisma: dare forza al proprio discorso di fronte allo scandalo della inconsistenza di ogni senso. Così la ridicola morte di Lovborg diviene sonante moneta di scambio nelle mani di Brack: imponendo ad Hedda la menzogna prima, il silenzio poi sulla fine di Lovborg, all’assessore sarà possibile godersi la propria preda, vincendo nel ricatto la resistenza di Hedda 55. Il tramonto del secolo, con Ibsen, ci consegna una parola da una parte leggera come le bolle di sapone in cui si riducono i significati metafisici, dall’altra, pesante come un mandato di cattura che si usi per migliorare la propria prestazione. Una parola anestetizzata e desublimata che non vibra della scossa 194


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dell’emozione né del più generoso slancio dell’intelligenza, ma che simula il discorso, imponendo invece un’afasia di fondo. È anche per questo, probabilmente, che le opere di Ibsen sono così piene di parole. Si parla a lungo, si parla troppo, per mascherare l’impotenza della parola o per dilazionare il più possibile la pronuncia di quella che rende prigionieri senza speranza. “D’ora in poi sono in suo potere, mani e piedi legati” dice Hedda all’assessore Brack. Il logos maschile si comporta ormai solo da legaccio con cui soddisfare qualche piccolo capriccio, con cui ribadire il proprio piccolo e raggelato potere, nei confronti di un femminile ridotto nelle condizioni di impotente vittima sacrificale. O si cede ai piaceri dell’assessore indossando una maschera ipocrita o si viene consegnati alle domande della polizia, affidati alle forze dell’ordine e dunque segregati socialmente. Due tipi di prigione. Non si dà altro scampo. Non avendo più metaracconti da sostenere con la virtuosa resistenza alle passioni, il logos fallocentrico non ha nemmeno più eccessiva paura del “femminile” vampiresco. Ne accetta, anzi ne sollecita quel suo essere un “vuoto nulla” e, proprio per questo, un agile passatempo. Sapendola più lunga cerca solo di addomesticarne la furia, di razionalizzarne gli sprechi. Ma Hedda ha assunto fino in fondo il suo ruolo corrosivo. Sancirà, pertanto, la dissacrazione di ogni velleitarismo edenico, portando però iscritta nel suo stesso corpo e nel linguaggio che parla, nel suo destinarsi alla sterilità, nel suo sentirsi già consumata, vecchia, la ferita per l’atrofizzarsi dello spirito. La via di ogni purificazione è smarrita, ogni sublime cade nelle trappole del ridicolo, il “basso” trionfa sull’“alto”, dal momento che le ultime immagini che il testo ci consegna prima della finale catastrofe sono il sesso di Ejlert Lovborg sfracellato da un colpo di pistola, la dabbenaggine quasi appagata della nuova coppia Tesman-Elvsted, il ricatto a scopo sessuale dell’assessore Brack nei confronti di un Hedda senza via d’uscita. “Niente amore …niente infedeltà”, aveva detto Hedda. E infatti, con un’ironia degna della tragedia greca, è una specie di violenza sessuale ciò che attende Hedda. La gabbia in cui s’è intrappolata e l’emarginazione cui è stata condotta rendono il suo suicidio un obbligo, una fuga e non certo un gesto di sublime disprezzo. Hedda non è – così come non lo è mai alcun personaggio di Ibsen – un eroe troppo più generoso della pochezza del mondo, un’anima bella che la società non merita. Ibsen non concede mai ai suoi spettatori il conforto di sciogliere ogni tensione nella sorte, anche tristissima, dei suoi perso195


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naggi. Hedda è una figura della paralisi, dell’abisso senza risalita. Ma è comunque a lei che si deve il precipitare degli eventi. Al gesto con cui ha dissolto il manoscritto di Lovborg. Con tale gesto è la parola che è stata colpita alla radice, soprattutto quando parla inconsistenti fole metafisiche e metastoriche. Il fuoco, ricorda Bachelard ne La psicanalisi del fuoco, è estremamente ambivalente, purifica come distrugge. In esso si coagulano diverse pulsioni, e fra queste il desiderio di una morte cosmica, come avviene in Empedocle. Al fuoco Hedda affida quello che dovrebbe essere il libro in cui si tratta delle forze civilizzatrici dell’avvenire e del futuro progresso della civiltà. Riducendo in cenere un metaracconto che proprio in virtù della sua forma scritta, della coerenza sintattica e concettuale, avrebbe dovuto ancor di più far risaltare l’aureo rigore strutturale del suo discorso, Hedda rigetta il mondo nel suo caos originario e smaschera le menzogne ideologiche su cui è fondato 56. Creatura del crepuscolo e della sterilità, Hedda, novella Medea, deve opporsi alla generazione: le sarà dunque necessario compiere il suo infanticidio, uccidendo nella “creatura” di Lovborg e Thea una parola del soggetto che, al tramonto di un’epoca, appariva soltanto infondato idealismo o menzogna strategica. Il suicidio finale della Gabler con cui si conclude la vicenda, privo di qualsiasi aura eroica come abbiamo già visto, non fa che ribadire la raggelante impressione di un’epoca che si strema nell’assenza di futuro. Appartata, già consegnata alla solitudine e alla sottomissione, nella stanza - cappella dedicata al padre si tira un colpo di pistola. Una tale morte non può attendersi dal pubblico un pianto consolatorio. Se, come scriveva Simmel ne L’istinto della vita, nella vita è implicita una tendenza alla trascendenza, a spostare sempre in avanti i limiti dell’esperienza, il silenzio in cui Hedda si confina ed è insieme confinata definitivamente è il segno dell’afasia, della sconfessione di ogni trascendenza, di un’immaginazione atrofizzata, in cui ricade l’uomo in un mondo che si è trasformato in favola a cui nessuno più crede e dove nessuna nuova esperienza si può più dare 57. Ma persino la sua morte inesorabilmente desublimata non può essere ridotta a effetto d’operetta: mentre tutti gridano alla scoperta del cadavere, l’assessore Brack piomba semisvenuto sulla poltrona. “Ma son cose che non si fanno” è l’ultima battuta del dramma, pronunciate dalla voce disanimata del personaggio che era sempre sembrato in grado di tramare nell’ombra e di sapersi muovere a suo agio tra le manchevolezze di tutti gli altri. Del personaggio il cui 196


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modo di guardare duplicava quello degli spettatori ( il pubblico borghese) presenti a teatro. È questo l’estremo tranello che Ibsen tende ai suoi spettatori: che non pensassero di cavarsela a buon mercato in questa fine di secolo affidandosi alle astuzie del calcolo e al meticoloso senso degli affari. Che non considerassero addomesticabile l’abisso a cui amavano guardare da una posizione defilata e rassicurante. Che non ritenessero impresa facile rimanere il solo gallo nel pollaio 58. Note 1

O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, trad. it., Longanesi, 1978, vol. I p.

43. 2

“E l’eterno Iddio, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli, li menò all’uomo per vedere come li chiamerebbe, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli darebbe” Genesi, 2, 18. “Perché la natura (…) non fa niente senza scopo e l’uomo, solo fra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (…) ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto”. Aristotele, Politica, trad. it., La Terza,2000, p.6. 3

A questo proposito Peter Szondi scriveva: “il dramma dell’età moderna è nato nel Rinascimento (…).La realtà dell’opera d’arte in cui voleva fissare e rispecchiare se stesso, sulla riproduzione dei meri rapporti interumani. L’uomo entrava quindi nel dramma solo come membro della società umana (…) il luogo in cui egli giungeva a realizzazione drammatica era l’atto della decisione. Ma in questo suo risolversi all’azione il mondo degli altri era riferito a lui (...), il mezzo espressivo di questo mondo di rapporti intersoggettivi era il dialogo”. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, trad. it., Einauidi, 1979, pp. 9, 10. 4

Gianni Vattimo riassume così la vicenda della svalutazione dell’oggettività della storia : “Alla consapevolezza dei meccanismi retorici del testo si è accompagnata (…) la consapevolezza del carattere ideologico della storia. Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, ha parlato della “storia dei vincitori”, solo dal punto di vista di questi il processo storico appare come un corso unitario, do197


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tato di consequenzialità e razionalità”. G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1998, p. 17. H. Ibsen, La casa dei Rosmer, in Tutto il teatro, vol. 3, Newton Compton, trad. it., atto IV p. 287.

5

6

H. Ibsen, Hedda Gabler, Einaudi, trad. it.,. atto III p. 70.

7

“Hedda: Mi pare che in tutte le stanze ci sia odore di lavanda e di rose secche. Forse è stata la zia Julle a portarcelo. Brak: No, sarà piuttosto una traccia della signora Falk, buon’anima.. Si, è odore di cadavere. Fa pensare ai fiori del ballo…il giorno dopo.”, Ibidem, atto II, p. 39.

8

“Tesman: Dunque la zia Rina non vuol migliorare, eh? Zia Julle: No, purtroppo…non c’è speranza di miglioramento, per lei. Sempre in fondo a un letto da tanti anni, poveretta. Non saprei che farmene della vita se lei non ci fosse.” Ibidem, atto I, p. 9. 9

Ibidem, atto I, p. 9-10 e p. 15.

10

G. Bachelard, Il diritto di sognare, Dedalo, 1974, trad. it. p. 132.

11

G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, nuova edizione, 2000, pp 9,

10. F. Nietzche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali II, GTE Newton, trad. it., p. 114. 12

13

Esemplare a questo proposito questo scambio di battute all’interno del secondo atto: “Tesman: Uff! che caldo, trascinarsi appresso questa montagna di libri (posando i libri). Sono tutto sudato, Hedda. Oh guarda! gia qui, caro assessore. Eh’ Berte non me l’ha detto (…) Hedda: Che sono tutti quei libri? Tesman: (In piedi, sfogliando qua e là) roba della mia specialità di cui avevo bisogno. Hedda: Della tua specialità? Brack: Ah, della sua specialità, signora Tesman (Brack e Hedda scambiano un sorriso d’intesa). Hedda: Te ne occorrono ancora molte di queste opere? 198


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Tesman: Si, mia cara Hedda; non ce ne sono mai troppe. Bisogna seguire tutto quel che si scrive e si stampa” H. Ibsen, op. ct., atto II, p. 37. 14

“Zia Julle: Berte, non devi più dire il signor assistente, bisogna chiamarlo il signor dottore. Berte: Già me lo ha detto anche la signora, stanotte, appena entrata in casa. Ma è proprio vero signorina? Zia Julle: Certo che è vero. Figurati, l’hanno nominato dottore, all’estero, durante il viaggio (… ) Berte: Eh già e chi sa cosa diventerà ancora, così in gamba com’è il nostro signor Jorgen. Però mai e poi mai avrei creduto che si sarebbe messo a curare i malati.Zia Julle: Ma no, non è un dottore di quelli che curano i malati (crollando significativamente il capo). D’altronde credo che presto gli darai un titolo ancora più importante..” Ibidem, atto I, p. 7. 15

M. Vovelle, La morte e l’occidente, trad. it. Laterza, 2009, p. 472 -473.

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“Zia Julle (tira fuori un pacchetto avvolto in un giornale e glielo porge) Ecco, figliolo, prendi. Tesman (aprendo il pacco) Buon Dio! Ma guarda! me le hai conservate, zia Julle!Hedda! Questo è proprio commovente, no? (…) Le mie vecchie pantofole, pensa! (…) Si mi mancavano molto. Ecco, guardale, Hedda”. Ibid., atto I, p.13-14.

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali II, ed. cit., trad. it., p. 119.

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18

“Hedda:Ecco: l’estate scorsa, la sera, dopo i balli, Tesman mi riaccompagnava a casa (…). E Tesman , poveraccio, era tremendamente imbarazzato; non trovava nulla da dire. Allora io ebbi pietà di quel povero scienziato. Brack: (sorridendo incredulo) Lei? Davvero? Hum! Hedda: Ma sì. E allora per dargli un appiglio, dissi, così senza pensarci, che mi sarebbe piaciuto abitare in questa villa”. H. Ibsen, op. cit., atto II, pp. 38-39. 19

“Tesman (dando un balzo): Bruciato! Hai bruciato il manoscritto di Ejlert! Hedda: Non gridare così! La cameriera ti può sentire. Tesman: Bruciato! Signore Iddio! No, no, no, è impossibile. Hedda: Eppure è così. Tesman: Ma lo sai quel che hai fatto, Hedda? Questo è disporre illegalmente di oggetti trovati! Figurati! Chiedi all’assessore, sentirai.”. Ibidem, atto IV, p. 76. 199


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“Hedda: Adesso si sentirà sola, signorina Tesman. Zia Julle: Sì i primi giorni. Ma spero che questo non duri troppo. La stanzetta della nostra povera Rina non deve rimanere vuota, sapete? Tesman: No? E chi ci vuoi mettere? Zia Julle: Oh, si troverà facilmente – purtroppo – qualche povera creatura malata che abbia bisogno di affetto e di cure. Hedda: Avrebbe il coraggio di ricominciare subito a portare una croce simile? Zia Julle: Una croce! Dio ti perdoni, bimba mia, non è stata una croce per me. Hedda: Ma prendersi in casa una persona estranea ….Zia Julle: Oh! Con i malati si fa presto amicizia. E anch’io ho un bisogno di vivere per qualcuno. Grazie a Dio… anche qui in casa vostra ci sarà sempre qualche cosa da fare per una vecchia zia.” Ibidem, atto IV, pp. 74-75. 21

Commentando un’immagine della Madonna della Misericordia di Piero della Francesca che accoglie sotto il suo manto diversi imploranti, così scrive Joseph L. Henderson: “La personalità ancora indifferenziata del giovane è protetta dalla madre (…) però l’ego deve alla fine potersi liberare dal proprio stato d’incoscienza e d’immaturità, e questa battaglia per la liberazione viene spesso simboleggiata dal duello tra l’eroe e un mostro” J. L. Henderson, Miti antichi e uomo moderno, in L’uomo e i suoi simboli, a cura di C. G. Jung, Casini, trad. it., p. 118. Val la pena di ricordare che l’assai più smaliziato Brack dice di Tesman che “ha l’anima veramente candida”, alludendo ad una sua notevole dabbenaggine.

F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia. Considerazioni inattuali II, op. cit. pp. 130, 131. 22

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“Tesman: Ah Hedda! non ci si dovrebbe mai arrischiare nel paese delle avventure. Hedda: (lo guarda e sorride) Parli di te? Tesman: Ma sì scusa… non si può negare che sia stata una follia sposarsi e mettere su casa fondandosi su vaghe possibilità. Hedda: In questo non posso darti torto. Tesman: Beh, se non altro abbiamo il nostro bel nido. Ricordi? (…) La casa di cui sognavamo insieme. Quanto ne abbiamo fantasticato, eh?. Hedda: (si alza lentamente, con stanchezza) Era inteso che dovevamo far vita di società, aver casa aperta. Tesman: Mio Dio… sì, era una gioia per me. Figurati…vederti brillare come padrona di casa!...in un ambiente raffinato! Già, per ora purtroppo, dovremo vivere soletti, Hedda Inviteremo tutt’al più la zia Julle, di quando in quando. Ahimè… era una vita tutta diversa quella che dovevi fare tu!”. H. Ibsen, op. cit., Atto I, pp. 30-31. 200


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Mi pare davvero singolare la lettura che Georg Groddeck, - cui pure dobbiamo la intuizione che “c’è molto umorismo nelle opere di Ibsen”, che a proposito di Casa di bambola avvertiva “avete dinanzi a voi, una commedia, credete a me”, considerazione che del resto estende all’intera opera dell’autore scandinavo, dal momento che “in ogni tragedia c’è della comicità, in ogni commedia della tragicità. Dipende dal punto di vista di chi crea e di chi osserva ciò che è stato creato, e non dal fatto che finisca con la morte o con una risata. L’esito è sempre quello di una risata” (p. 42) – dà del personaggio di Tesman. “Jorgen Tesman non è affatto uno stupido – scrive – Bisogna avere l’impressione che Tesman sia un uomo ben educato che si muove senza incespicare. Perché Hedda che detesta ciò che è comico non l’avrebbe sposato, né lui potrebbe frequentare il gran mondo” p. 102 -103). Così come piuttosto sbrigativa mi pare la definizione di Hedda quale donna che “malgrado il matrimonio, nel suo intimo, nel suo modo di concepire la vita, è rimasta una ragazza, una bamboccia… una donna graziosa, ma immatura, con ideali intesi in modo sbagliato, con il timore del ridicolo proprio delle ragazzine” (p. 107). Tutti i virgolettati sono tratti da G. Groddeck, Il teatro di Ibsen, Guida, trad, it., 1985. Mi limito ad osservare che è appunto piuttosto singolare far dipendere l’impossibilità di esser sciocco di un personaggio dal giudizio di un altro personaggio che si considera sciocco. 25

Yvonne Knibiehler, dopo aver sottolineato che ”per via dello sviluppo culturale ed economico (della seconda metà dell’Ottocento) la ripartizione delle funzioni secondo il sesso si sta risistemando” e che “tuttavia ognuno, ognuna ammette, in teoria come in pratica, la distinzione tra la vita pubblica, in cui si danno da fare gli uomini, e la vita privata, regno delle donne”, conclude che “le donne considerate fortunate nel matrimonio sono, nell’ottica del tempo, quelle che si adattano completamente al proprio marito. I viaggiatori osservano, con sorpresa, che in Francia, nei laboratori, la mamma sta alla cassa, mentre il babbo fabbrica: questa solidarietà economica stringe il legame tra i coniugi (… ) Alcune mogli di scrittori o di artisti, come Julia Daudet, o Alma Mahler, si rendono indispensabili aiutando efficacemente i mariti nella loro carriera, trascurando la propria” Y. Knibiehler, Corpi e cuori, in Storia delle donne, L’Ottocento, a cura di G. Fraisse e M. Perrot, Laterza, trad. it., pp. 336 e 349. 26

H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Ed. di Comunità, 201


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1979, trad. it., p. 50. 27

“Lo strumento dell’operaio continua il suo braccio; l’attrezzatura dell’umanità è dunque un prolungamento del suo corpo. La natura, dotandoci di un’intelligenza essenzialmente creatrice, aveva così preparato per noi un certo ingrandimento. Ma macchine che vanno a petrolio, a carbone (…) sono venute a dare al nostro organismo una estensione tanto vasta e una potenza tanto formidabile, tanto sproporzionata alla sua dimensione e alla sua forza, che certamente nulla di questo era stato posto sul piano di struttura della nostra specie (…). Ora in questo corpo smisuratamente ingrandito, l’anima resta ciò che era, troppo piccola ora per riempirlo. Troppo debole per guidarlo. Di qui il vuoto tra i due; di qui i formidabili problemi sociali, politici, internazionali che sono altrettante definizioni di questo vuoto e che, per colmarlo, provocano ora tanti sforzi disordinati e inefficaci; ci vorrebbero nuove riserve di energia, potenziale, questa volta morale”, ibidem, p. 264. 28

Con battute di questo tenore Thea descrive la sua vita presso il giudice Elvsted :”Veramente egli [il giudice Elvsted] m’assunse come istitutrice dei figli. Ma sua moglie - la sua prima moglie - era malaticcia e quasi sempre a letto. Così dovetti occuparmi anche della casa. (…) Hedda: Com’è tuo marito, Thea? Nel modo di trattare voglio dire. È buono con te? Thea (schiva): Lui crede certamente di fare tutto il meglio che si può. Hedda: Mi sembra troppo vecchio per te. Ci sono venti anni di differenza, nevvero?. Thea: Sì. Anche questo. E tante altre cose. Tutto in lui mi urta! Non abbiamo un solo pensiero in comune. Non c’è nessuna intesa tra noi. Hedda: Ma tuttavia ti vuol bene, a modo suo? Thea: Ah non lo so neanch’io! Gli torno utile, questo sì. E ci vuol poco a mantenermi. Non costo molto, io”. H. Ibsen, op. cit., pp. 22-23. 29

Ibid., atto II, p. 46-50.

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A questo proposito ancora Bergson scriveva: “Che una emozione nuova sia all’origine delle grandi creazioni dell’arte, della scienza, della civiltà in generale, questo non ci sembra dubbio, e non solo perché l’emozione è uno stimolante, ma perché essa incita l’intelligenza a intraprendere e la volontà a perseverare (…). Un’emozione è una scossa affettiva dell’animo, ma altro è un’agitazione della superficie, altro un sollevamneto della profondità. Nel primo caso l’effetto 202


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si disperde, nel secondo resta indiviso (…). Bisogna distinguere due specie di emozioni, due varietà di sentimento, due manifestazioni di sensibilità (…). Nella prima l’emozione è consecutiva ad un’idea o a un’immagine rappresentata; lo stato sensibile risulta da uno stato intellettuale che non gli deve nulla, che basta a se stesso che, se ne subisce l’effetto di rimbalzo ci perde più che non ci guadagni (…). Ma l’altra emozione non è determinata da una rappresentazione. Piuttosto sarebbe in rapporto agli stati intellettuali che sopravverranno, una causa e non più un effetto, essa è ricca di rappresentazione.” H. Bergson, op. cit., pp 38, 39. 31

“Lövborg: Ma quando uscirà questo, Jorgen Tesman…allora sì che lo dovrai leggere. Perché lì ho messo la verità. Lì mi do veramente per quel che sono. (…). È diviso in due parti. La prima parla delle forze civilizzatrici dell’avvenire. E la seconda (continuando a sfogliare) dei futuri sviluppi della civiltà”. H. Ibsen, op. cit., atto II, pp. 43-44. 32

“Thea: E poi vennero i bei giorni, i giorni felici della nostra collaborazione. Egli mi permise di aiutarlo. Hedda: Davvero, l’hai aiutato nel suo lavoro? Thea: Si, voleva sempre ch’io lavorassi con lui Hedda. Da buoni compagni, vero? Thea (vivacemente). Da buoni compagni! Si, Hedda! Anche lui diceva così.” Ibidem, atto I, p. 25.

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Per cui era facile per Schopenhauer concludere sulla base di osservazioni scientifiche che “la massima vitalità nonché la decrepitezza del cervello sono sincrone e collegate”, che “l’uso esagerato di quella forza (sessuale) abbrevi in ogni età la vita e la continenza, viceversa, rialzi tutte le forze, specialmente quella muscolare e per cui essa faceva parte della preparazione degli atleti greci (…); che la vita dell’individuo, in fondo, è soltanto presa in prestito dalla specie, e che tutta la forza vitale non è che forza della specie frenata mediante arginatura”.A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, trad. it., La Terza, 1930, p. 623. 34

“In Ibsen non mancano personaggi che origliano, qualche volta in maniera confessata (Un nemico del popolo e in Rosmersholm), qualche altra volta in maniera più nascosta (nell’Anitra selvatica ad esempio). D’altra parte di che stupirci? Tutto il teatro borghese dell’Ottocento (…) è traboccante di spazi insidiati, 203


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di occhi che si insinuano velatamente nell’intimità del salotto, di muri e di porte che hanno orecchie. Il significato di Ibsen è semmai proprio questo, di fondare alcuni schemi essenziali della drammaturgia ottocentesca: il salotto borghese si svela come semplice “angolo illuminato” di uno spazio più vasto, che rimane nell’ombra ma di cui si sente tutta la pressione”. R. Alonge, Ibsen, l’opera e la fortuna scenica, Le Lettere, 1995, pg. 47. 35

“Che cos’è la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che, migliorate praticamente e retoricamente, sono trasposte e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni che abbiamo dimenticato siano tali, metafore divenute consunte e svuotate della forza dei sensi, monete che hanno perso la loro immagine e che vengono considerate solo come metallo, non più come monete”: F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Il libro del filosofo, trad. it., p., Savelli 1971, p.76. 36

“Tesman: Un uomo [Lövborg] di tanto talento…. Ed io che avevo la dolorosa certezza che si fosse rovinato per sempre. Brack: Era l’opinione di tutti. Tesman: Però non so immaginare cosa farà adesso. Di che cosa vivrà? Eh? Hedda: (a Brack sorridendo con ironia) Dalla mattina alla sera Tesman si chiede di che cosa si vivrà. Tesman: Ma santo Iddio, parlavamo del povero Ejlert Lövborg. (…) io credo che abbia consumato da un pezzo tutto il suo. E non può scrivere un libro nuovo ogni anno, eh? Sicché mi chiedo proprio che ne sarà di lui (… ) Brack: Non bisogna dimenticare che la sua famiglia è abbastanza influente. Tesman: Oh, purtroppo i suoi parenti l’hanno completamente abbandonato. Brack: Una volta però lo consideravano la speranza della famiglia.” H. Ibsen, op. cit., atto I, pp. 28-29. 37

“La moralità, che è fluire continuo, non si orienta affatto su un valore esteriore comunque posto (anche se questa esteriorità è provocata dall’anima stessa), ma è come il ritmo secondo cui scaturisce la vita dalle sue sorgenti più profonde: non una coloritura delle cosiddette azioni, e neppure probabilmente della sola volontà, ma di tutto l’essere.” G. Simmel, L’intuizione della vita, Bompiani, 1938, trad. it., p. 188.

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“Tesman: Senti, Ejlert, questo avvenire della civiltà…sarà il tema delle con204


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ferenze che vuoi tenere, immagino. Lovborg: Si Tesman: Perché ho saputo dal libraio che in autunno terrai un corso di conferenze. Lovborg: Sì, è la mia intenzione. Non devi avertene a male, Tesman. (…). Ma aspetterò la tua nomina. Tesman: Aspetterai? Ma… non volevi concorrere anche tu? Eh? Lovborg: No. Ma mi basta vincerti di fronte all’opinione pubblica”. H. Ibsen, op. cit., atto II, p. 45. 39

O. Spengler, op. cit., p.40.

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Werner Fuchs in un libro del 1973 riassumeva così l’atteggiamento di lutto di fronte alla morte: “I modi di comportamento sintetizzati nel concetto di cordoglio sono stati analizzati specialmente dalla scuola psicanalitica (…). Se ne può dedurre - e questi sono anche i risultati di alcuni studi sociologici - che lo status di chi esegue il lavoro di cordoglio imita per molteplici aspetti l’isolamento dal mondo dei vivi ed un avvicinamento alla condizione del morto (… ). Chi è in lutto non può adempiere a determinate attività sociali per un breve periodo di tempo - che però una volta era più lungo - la sua condizione richiede astinenza ed isolamento. Se ciò denota a sufficienza come l’istituzione del cordoglio allontani il congiunto dalla società, sia pure parzialmente e per un periodo limitato, e gli dia la condizione di un essere a parte, che si colloca in qualche modo tra l’ambito dei viventi e quello dei morti, vi sono anche fenomeni fisiologici che confermano la medesima vicinanza al defunto (…). Chi esegue il cordoglio mostra frequentemente poco appetito, rinuncia dunque in parte alla riproduzione fisica (…). La depressione psichica va dalla diminuzione delle capacità di prestazione, degli interessi verso il mondo esterno, fino alla riduzione della percezione, talvolta sino alla stasi completa dell’apparato psichico”. W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, trad. it., Einaudi 1973, p.146. 41

R. Alonge, Ibsen, l’opera e la fortuna scenica, Le Lettere, 1995, pg. 61-62.

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Così Hedda viene presentata ad inizio testo dalla zia Julle: “ (…) la figlia del generale Gabler. Finché c’era suo padre, è vissuta da gran signora. Ti ricordi quando usciva a cavallo col generale? Con una lunga gonna nera e un bel feltro piumato?” H. Ibsen, op. cit., atto I, p. 6.

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Si pensi soltanto alla sua descrizione fisica: “Il colorito è di un pallore opaco; gli occhi grigio-acciaio hanno un’espressione di fredda e limpida calma. I capelli sono di un bel colore castano, non molto abbondanti”. H. Ibsen, op. cit., atto I, p.12.

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Ancora prima di Weininger, Schophenhauer sottolineava l’inganno adescatore della donna quale tipo ideale che precipita l’uomo in un abisso di perdizione involgarendone lo slancio spirituale e negandogli ogni un’autonomia intuitiva e contemplativa. “L’uomo volgare [infatti], questa marca di fabbrica della natura, che ne crea in ragione di parecchie migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, incapace, per lo meno con continuità, di quell’appercezione pienamente disinteressata sotto ogni aspetto che è la contemplazione vera; può dirigere la attenzione verso le cose solo in quanto le cose hanno una relazione, ammettiamo pure del tutto indiretta, con la sua volontà (…), l’uomo ordinario non s’indugia a lungo nell’intuizione pura; non posa a lungo il suo sguardo su di un oggetto, ma per ogni cosa che gli si offre corre subito a cercare il concetto nel quale poterla classificare (…); non fa dunque che raccogliere, nel senso più largo delle parole, una serie di nozioni topografiche: quanto alla contemplazione della vita in se stessa, non ha tempo da perdervi”. A. Schopenhauer, op. cit., trad. it., Mursia, 1969, p. 225. È evidente, invece, che Hedda pur accettando di sé la femminilizzazione in quanto abisso del desiderio, tendendo ad eludere la sessualità, praticando la distanziazione, impedisce qualsiasi topografia del suo corpo e pratica dunque la sua stessa “assenza di senso” come denuncia di una crisi a tratti invalicabile. 45

Sin dal suo primo apparire Hedda si conferma creatura del crepuscolo sia nel suo dormire più degli altri, sia nell’essere restia alla piena luce del mattino. “Zia Julle: (un po’ imbarazzata) Ebbene… come ha dormito la giovane signora nella sua nuova casa? Hedda: Oh, grazie! Discretamente! Tesman: (ridendo) Discretamente! Questa è buona! Dormivi come un ghiro quando mi sono alzato. Hedda: (…) Uh… la cameriera ha aperto la porta della veranda. Qui dentro c’è un sole che abbaglia. (…) Caro Tesman, chiudi le tende. Avremo la luce più blanda.” H. Ibsen, op. cit., atto I, p. 13. 46

Come felicemente reassume Umberto Galimberti: “Ridotta la differenza dei generi alla differenza degli organi sessuali, il corpo, consegnato alla sua ana206


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tomia, rimuove la sua originaria ambivalenza per iscriversi in quello statuto sessuale che, se da un lato gli consente di entrare senza fraintendimenti nell’ordine sociale, è pur sempre una forma di segregazione. E in effetti la distinzione maschile/femminile fu il primo principio d’ordine intorno a cui si organizzarono le culture primitive (…) Il mito dell’identità sessuale non nasce allora da una fenomenologia del corpo vissuto, né tantomeno da un’analisi del profondo, ma dall’operazione logica che, risolvendo la sessualità nella genitalità, fa di quest’ultima il principio universale che la cultura ha sempre mantenuto intorno al sesso e al corpo, quasi l’equivalente generale dei valori sociali, il caposaldo e il richiamo ultimo delle istituzioni” U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, 2009, p. 23-25. 47

A. Schopenhauer, op. cit., vol. II, ed. La Terza, 1930, p. 661.

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Nella sua persecuzione dei luoghi comuni e delle finzioni moralistiche Nietzsche poteva scrivere a proposito delle donne: “La donna è indicibilmente più cattiva dell’uomo, più intelligente (…). Amore – nei suoi mezzi, la guerra, nel suo fondo, l’odio mortale tra i sessi (…). Come si cura, come si redime una donna? Le si fa fare un bambino. La donna ha bisogno di bambini, l’uomo è sempre soltanto strumento (…). Emancipazione della donna? – è l’odio istintivo della donna mancata, cioè inidonea alla procreazione, verso la donna realizzata, la lotta contro ‘l’uomo’ è sempre soltanto strumento, pretesto, tattica.”F. Niezschr, Ecce Homo, trad. it., GTE Newton, p. 259. Mi pare che Hedda nel rinunciare alla sua funzione di matrice di bambini, di materia inerte che il soggetto maschile dovrebbe fecondare, e insieme nel non atteggiarsi ad amazzone di una rivincita del femminile attraverso le più ovvie armi della femme fatale, sia il segno impietoso della denuncia dell’aridità in cui tutti i discorsi sul senso della ragione occidentale siano andati a cacciarsi. 49

E. Canetti, Massa e Potere, trad. it., Adelphi, p. 472 – 473.

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Qualche anno dopo Hedda Gabler, così Simmel descriveva il ritmo di vita impostosi nella civiltà a lui contemporanea :” Il nostro ritmo interno richiede periodi sempre più brevi nel cambiamento delle nostre impressioni, o, in altre parole: l’accento degli stimoli si sposta in misura crescente dal loro centro sostanziale al loro inizio e alla loro fine. Lo si avverte nei sintomi più insignificanti, 207


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per esempio nella sostituzione sempre più frequente del sigaro con la sigaretta, nella smania di viaggiare che durante l’anno divide la vita nel maggior numero possibile di periodi brevi, accentuando le partenze e gli arrivi”. G. Simmel, La moda, trad. it., Oscar Mondadori, 2009, p. 29 - 30. 51

O. Spengler, op. cit., p. 43, p. 72.

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“Lovborg: Non c’era da parte sua il desiderio di purificarmi…quando venivo da lei ad apriele l’animo mio?” H. Ibsen, op. cit., atto II, p.49. A proposito del legame tra confessione e strategia della sessualità all’interno dei discorsi di sapere, cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it., Feltrinelli, 2001. 53

“Hedda: Oh! Il ridicolo e il volgare si posano come una maledizione su tutto quello che io tocco”. H. Ibsen, op. cit., atto IV, p. 83. 54

A. Strindberg, Il figlio della serva, trad. it., Sugarco, 1984, pp. 141-142.

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“Brack: Però dovrà rispondere a una domanda: perché ha dato la pistola a Ejlert Lovborg? E quali conclusioni si trarranno dal fatto che gliel’ha data? (… ). Beh per fortuna non c’è nessun pericolo, finché io taccio. Hedda (alzando lo sguardo su di lui): Dunque io sono in suo potere, assessore. D’ora in poi, sono in suo potere, mani e piedi legati”. H. Ibsen, op., cit., atto IV, p. 86.

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“Hedda (gettando uno dei quaderni nel fuoco mormora assorta): Ora brucio il tuo bambino, Thea… testolina ricciuta! (getta altri due o tre quaderni nella stufa). Il bambino di Thea e Ejlert Lovborg. (gettando sul fuoco il resto del manoscritto).Ecco lo brucio…lo brucio il bambino”. H. Ibsen, op. cit., atto III, p. 72.

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Scrive a tal proposito Gianni Vattimo: “Il mondo dove la verità è diventata favola è infatti il luogo di un’esperienza che non è più autentica di quella aperta dalla metafisica. Questa esperienza non è più autentica perché l’autenticità- il proprio, la riappropriazione- è tramontata essa stessa con la morte di Dio” (G. Vattimo, La fine della modernità, ed. cit.). Il che, sia detto per inciso, apre la strada a quella dissacrazione dell’essere di cui Hedda è si implacabile testimone, ma ancora “ingenua” avversaria nell’ipotizzarsi regista di un folle e autodistruttivo bel gesto che di questo ridicolo sarebbe resistenza tardo-romantica. 208


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Due volte tale locuzione ritorna nel testo, sempre pronunciata da Hedda. La seconda volta come ultime parole fuori scena di Hedda prima di spararsi a conclusione di uno scambio di battute che ne sottolinea l’icasticità. “Tesman: L’assessore avrà la cortesia di venirti a trovare anche in mia assenza” Brack: (esclama allegramente dalla sua poltrona) Volentieri, signora Tesman, tutte le sante sere! Ci divertiremo noi due, vedrà! Hedda: (a voce alta e chiara) È questo che spera, assessore? Lei, l’unico gallo del pollaio (Un colpo di pistola…)”. H. Ibsen, op. cit., atto IV, p. 87.

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VISIONI

Un omaggio a Fabrizio De Andrè firmato Studio Azzurro di Maria Luisa Montaperto

Ho sempre pensato che la musica debba avere un contenuto, un significato catartico: tutti gli sciamani, gli stregoni di tutti i popoli, che ben conosciamo, usavano il canto come medicina. Credo che la musica debba essere balsamo, riposo, rilassamento, liberazione, catarsi. Fabrizio De Andrè

Protetti da un’oscurità avvolgente, quasi consapevoli di aver varcato la soglia di una dimensione interiore, immaginifica e intimistica, i nostri sensi seguono il solco di parole e visioni fluttuanti, orme solide ed evanescenti che ci coinvolgono in sensazioni sinestetiche. È questo l’inizio di un viaggio suggestivo e affascinante; questo, il racconto universale di un uomo e di un artista senza tempo. A circa un decennio dalla sua scomparsa, Studio Azzurro1 dedica, infatti, al grande cantautore genovese una mostra itinerante2, un percorso appassionante e interattivo che, tappa dopo tappa, ripercorre e rievoca l’arte lirica di De Andrè: il suo mondo, la sua esperienza, la sua lucida e feroce lungimiranza. Il primo ambiente, la sala della poetica, esibisce fin da subito una maestosa ricognizione d’archivio, una raccolta imponente di testimonianze che si mescola armonicamente a immagini e avvenimenti contemporanei, fatti di cronaca e di cultura che sottolineano l’estrema attualità del suo pensiero. A conquistare lo spazio è la parola: scritta, pronunciata, palesemente evidenziata. L’espressione verbale si rende così tangibile, si espande, si dilata, scivola sugli schermi e sul suolo per poi scomparire diafana, 210


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lasciando tuttavia un segno indelebile. Attraverso un diretto confronto con i nostri tempi, i suoi testi, affollati di schizzi e annotazioni, si mutano in paradigmi universali, un sapere intramontabile che offre senza reticenze le chiavi per una migliore comprensione di noi stessi3. In questo spazio fortemente immersivo, Amore, Guerra, Genova, Libertà, Morte, gli Ultimi sono i temi attorno ai quali si dispiega la riflessione lirica di De Andrè, una memoria archetipica e attuale che affonda le radici nel lato oscuro di ognuno di noi, preludendo alla formazione di una coscienza individuale. Arte, dunque, come rigenerazione e catarsi, un passaggio ascetico tra le pulsioni più istintive e profonde del nostro inconscio. Si spiega, così, la condivisione empatica di De Andrè per tutto ciò che vive e si nutre ai margini della società e della morale: prostitute, fannulloni, vagabondi, e perfino assassini, che, nel loro essere diversi, si ergono a emblema di una realtà cruda perché fin troppo reale. Già soddisfatti, ma in realtà soltanto al prologo di un intenso racconto, la nostra “missione esplorativa” prosegue con la sala della musica e la sala della vita, luoghi ricchi e interattivi in cui solidi tavoli in legno e robusti cavalletti fungono da touch screen di ultima generazione, permettendoci di visionare una sconfinata selezione di materiale audiovisivo. Come per magia, da semplici oggetti di carta4 scaturiscono testimonianze di amici, parenti e collaboratori di De Andrè, che con affetto e devozione tracciano un quadro intimo e confidenziale di un uomo colto e sensibile, dissacrante cantore di una società lacerata da ingiustizie e “vistose infamie di classe”. Alla sua voce, calda e sicura, e a quella dei suoi affetti, si aggiunge una costellazione di documenti insoliti, frammenti di memoria privata che scatenano associazioni mentali più che un racconto volutamente compiuto: foto, album, pagelle, lettere private, agende, ma soprattutto libri, testi dai più disparati argomenti, pesantemente sottolineati, annotati, divorati dall’interno con insaziabile e incontenibile voracità. Non feticci o «reliquie da collezione»5 ma appunti di vita, resti di un pensiero che mantengono viva «la potenza disvelante della sua poesia»6. Anarchico, libertario e pacifista, De Andrè ha, infatti, concepito la musica come un mezzo per la formazione di una coscienza individuale, come un concreto tentativo di dar forma a un’irriducibile ansia di giu211


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stizia sociale. Le sue canzoni, veri e propri racconti, sono pregne di un’umanità emarginata e ribelle, eccentrici interpreti di una parade carnevalesca: è la stessa materia del narrare a suggerirmi la musica. Solitamente scrivo le mie canzoni descrivendo persone che ho incontrato e che, in qualche modo, mi hanno interessato. Per loro monto una storia fantastica che metta in risalto le caratteristiche […]. È vero che i miei personaggi mi sono simpatici. Inoltre mi piace, nelle canzoni, salvare tutto ciò che gli altri condannano incondizionatamente per questioni di conformismo e di falsa morale7. Questi singolari protagonisti, portatori di un’umanità atemporale, si materializzano e animano nella sala dei tarocchi, dove tre grandi schermi, mascherati da enormi carte da gioco8, sostengono il vivace danzare di una folla variopinta e concitata. Abbiamo così, invece dei Trionfi e degli Arcani, «Piero, immaginato come un soldato burattino, Marinella, una ballerina intrappolata in un carillon, Geordie, che fugge tenendo in mano una testa di cervo, Nancy, in equilibrio precario su una fune»9; tarocchi vivi, virtuali, porzioni di una memoria universale ed arcaica che si offre attraverso suggestioni polisensoriali. Quella di Studio Azzurro è, dunque, una realtà immersiva e coinvolgente, un ambiente sensibile sorretto da tecnologie sofisticate ma non invasive, celate affinché se ne possano scorgere soltanto gli effetti: «una narrazione multimediale che si inoltra nella fitta trama delle parole del cantautore -rintracciate nelle poche interviste televisive, nelle molte canzoni e tra gli infiniti appunti- che va in contro ai visitatori per reagire ai loro gesti ed alle loro scelte»10. La mostra, che assume a Palermo una sua personale fisionomia, si arricchisce, inoltre, della suggestiva sala del pianoforte, dove, tra riproduzioni di testi manoscritti e foto ingigantite, è esposto lo strumento musicale grazie al quale De Andrè trasformò i suoi pensieri in affascinanti visioni sonore. Segue, infine, la sala del cinema, un luogo piccolo e raccolto, dove poter scrutare, attraverso una proiezione non-stop, materiale in gran parte inedito, quali interviste, apparizioni televisive e concerti. Una mole sconfinata di fonti che, nella loro incredibile articolazione, non vuole sommergere lo spettatore ma, al contrario, offrirgli una vasta scelta di opzioni interpretative. 212


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Attraverso «un corpo a corpo tra opera e spettatore»11, infatti, la grafia, il canto, la poetica di De Andrè si animano, si esibiscono in brandelli di memoria all’interno di un progetto che non vuole essere un semplice tributo, ma la rimappatura di un processo «creativo senza cedere ad una facile celebrazione»12.

Note 1

Tra i più importanti gruppi a realizzare videoarte in Italia (fondato nel 1982 da Fabio Cirifino, Paolo Rosa e Leonardo Sangiorgi), Studio Azzurro ha collaborato per diversi anni con l’Università degli Studi di Palermo, organizzando lezioni e workshop creativi in collaborazione con il L.U.M. (Laboratorio Universitario Multimediale “Michele Mancini”). Dopo Genova, Nuoro e Roma, “Fabrizio De Andrè. La mostra”, curata da Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia e ideata da Studio Azzurro, giunge a Palermo, allestita presso l’ex Deposito locomotive Sant’Erasmo.

2

3

«La musica, il canto, il suono, sono espressione dei propri sentimenti, della propria gioia, del proprio dolore. A volte un tentativo di autoanalisi, analizzando te stesso, offri una via agli altri per analizzare se stessi», Fabrizio Cristiano De Andrè. 4

Riproduzioni di famosi album di De Andrè.

Studio Azzurro, Per non farsi sfuggire il suo sguardo, commento critico alla mostra. 5

6

Idem.

7

Fabrizio De Andrè.

Un mondo che, come sottolinea Studio Azzurro, «il cantautore aveva scelto come scenografia per la sua ultima turnè». Alla fine del percorso, su una lavagna interattiva, è inoltre possibile comporre un tarocco personalizzato, che, in8

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serito nel database, sarà visionabile in un ulteriore schermo posto all’interno della sala. 9

Op. cit., Studio Azzurro.

10

Idem.

Di Marino B. (a cura di), Tracce, sguardi e altri pensieri, Feltrinelli “Real Cinema”, Milano 2007.

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12

Op. cit., Studio Azzurro.

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La sala della poetica

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La sala della musica

La sala della vita

La sala della vita

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La sala dei tarocchi

La sala dei tarocchi

La sala del pianoforte

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Messa Barocca (omaggio a Immodesty Blaize & co.)

La Lussuria La Figura La Carne Il Tempo

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LaLussuria Immodesty Blaize

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La Figura

Immodesty Blaize 226


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Chatherine D’Lish

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Kalani Kokonuts 230


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Immodesty Blaize 232


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LaCarne Immodesty Blaize

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Il Tempo

Satan’s Angel

Satan’s Angel 240


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April March

April March

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Dixie Evans

Dixie Evans

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Joan Arline

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PREMIO CINEMATOGRAFICO THE ROPE La giuria del Premio cinematografico The Rope è composta da: Umberto Cantone, Maria Angela D’Agostaro, Elisabetta Di Stefano, Piera Gemelli, Enzo Li Mandri, Daria Parisi, Gianfranco Perriera, Giulia Raciti, Rino Schembri, Barbara Tomasino, Renato Tomasino. Trattandosi di un premio di tendenza, il riconoscimento consiste solo in un comunicato stampa dedicato annualmente ad un’opera audiovisiva recente che verrà ritenuta il miglior prodotto, senza distinzione di genere, di durata, di distribuzione e di finalità PremioCinematografico The Rope 2010 a: Burlesque Undressed di Immodesty Blaize, written and directed by Alison Grist, Parlaphone-EMI, DVD. Motivazione: Immodesty prende vita da una silhouette sexy del fumetto e incarna il peccato: la sua bocca è allusiva di ogni profanazione anche se solo parla o respira, il suo make-up satanico occulta un volto reale che mai ci sarà, i suoi capelli sono cotonati come una pagoda esaltando il feticismo della figura, la sua mîse da lucente pelle di lucertola è rosso fuoco come quella di Lilith o nera come quella di Lucifero, le sue curve – meglio che procaci – si esibiscono protese, il suo giro di vita innaturale è di 48 cm! Icona, silhouette fattasi tridimensionale, simulacro del vizio per la venerazione del femminile che nulla ha a che fare con la donna, Immodesty non cadrà mai nella pornografia del reale, non sarà mai corpo senza protesi, meno che mai scissura o fenditura nel corpo; resterà intatta e incontaminata aizzando la disperazione della vista, il cui stupendo oggetto si rivela inattingibile, assoluta Assenza d’oggetto. Protagonista di uno spettacolo dimenticato – lo striptease – fa del suo Burlesque il giardino delle delizie e delle torture, quello delle pratiche di scena per arrivare all’icona adorabile: due anni di prove full-time per due minuti di sublime vizio danzante; copricapi impennacchiati con armature di ferro che spezzano la nuca da tenere sempre eretta (e che condivide con un’altra grande, Kylie Minogue, musa di sua maestà Shaekespeare- Nick Cave); grandi ali di piume di struzzo alla Lili St. Cyr che lussano gli omeri e le braccia; corsetti a stecche rigide che spezzano le reni e impediscono di cibarsi (e che da se stessa si avvita all’ultimo nodo 244


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come una santa barocca il suo cilicio); sandaletti a spillo che le deformano per sempre i delicati piedini come fosse la musmè di un mandarino, strapuntini di metallo miniato e strass tenuti con lo scotch alle tre zone erogene, da cambiare repentinamente più volte in una serata; il trucco di scena elaborato, invece, per quarantacinque minuti ad ogni numero… e poi il dressage della danza e dei balli, della gestica, della mimica, della micro fisionomia che – dice Immodesty – sembra guidata dalla bocca, e invece è guidata dagli occhi (come un Bharata Natyam da devadasi); dei colpi di reni secchi e furiosi e delle violente contrazioni del plesso solare esaltate dal lamé; dello sgambettare alto fissandosi in posa a tutta coscia. Il DVD documenta ogni pratica – anche con le parole della bella che mostra una sapienza registica pari a Brook o a Strehler nella cura estetica e simbolica del décor, delle musiche e della performance; una sapienza che però li sopravanza perché volta solo allo show della perversione scopica, la cosa più fascinosa e spettacolare che ci sia – tutto ciò il DVD analizza anche didatticamente, tutto ciò muta poi in tragedia e Thanatos con la galleria di rughe e disfacimento delle anziane star: le colleghe di Immodesty che le annunciano che così sarà presto anche lei, anche se non certo il suo simulacro immortale. Chapeau! … alla Parlophone ed alla EMI che ha distribuito qui da noi un DVD fuori target e dalle davvero incerte prospettive di successo nella nostra grigia era di preti massmediatici d’ogni risma e di pornografi moralisti a caccia mortale delle superstiti transex, escort e veline come gli inquisitori d’una volta (tant’è che ora, su Mediaset, fanno show le “velone” disfatte e cineree nello spettacolo quaresimale del nuovo immaginario collettivo: vanitas vanitatum!) Immodesty fa dunque uno show d’altri tempi, di una civiltà preziosa ed estenuata che forse non è più in nessuna parte di un mondo omologato dall’ideologia diurna del “Parental Control” e da quella notturna dei “pacchetti a pagamento” di cruda macelleria e di bucalità senza fiction né pratiche di scena; uno show in cui la femmina, ridisegnata dall’immaginario, torna finalmente a rivaleggiare con il travestito, condividendone lo stesso amore folle per la madre, pronendosi con la propria icona immaginaria a sutura del manque materno… per dotarla, la madre, di quelle protesi della figura che le consentono di recuperare il desiderio del Padre assente, e irretirlo ancora una volta nello splendido falso dell’assoluto femminile. E, dunque: premio The Rope al più bel film 2010! 245


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Hanno collaborato a questo numero:

Alessandro Cappabianca Architetto e critico cinematografico di formazione, come suol dirsi, non accademica e militante. Da anni nel direttivo della rivista Filmcritica. L’ultimo suo libro, edito da Costa & Nolan, intitolato L’immagine estrema, approfondisce la rilevanza nel cinema della crudeltà artaudiana. Ha pubblicato monografie prestigiose e centinaia di saggi ed è stato nel Direttivo di Fiction – Cinema e Pratiche dell’Immaginario. Maria Angela D’Agostaro Assegnista di ricerca in Storia, Teorie e Tecniche del Teatro e dello Spettacolo, docente a contratto presso il DAMS (Università di Palermo). Autrice di diversi saggi di cinema e di teatro su miscellanee accademiche e atti di convegno. Ha di recente pubblicato una monografia su Lola Montez. Elisabetta Di Stefano Ricercatrice presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo e docente di Estetica alla Facoltà di Architettura. Ha scritto alcune monografie su temi relativi alla teoria delle arti dal Quattrocento al Seicento, fino alla nascita dell’estetica moderna, esaminando diversi autori significativi, tra cui Leon Battista Alberti, Giovan Pietro Bellori, Gian Lorenzo Bernini. Attualmente si interessa di problematiche relative ai rapporti tra estetica, architettura, design e nuovi media. È socia del Centro Internazionale Studi di Estetica e della Società Italiana d’Estetica. Francesco Paolo Ferrotti Laureato in DAMS indirizzo Arte, è dottorando di Ricerca in Estetica e Teoria delle Arti presso l’Università di Palermo. Fa parte della redazione di OndaRock, rivista musicale on-line per la quale ha curato diverse monografie, interviste, recensioni. È socio della Società Italiana d’Estetica e della IASPM (International Association for the Study of Popular Music). 246


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Piera Gemelli Laureata in Scienze e Tecnologie dell’arte, dello Spettacolo e della Moda, con la Percorsi del colore dal cinema moderno al postmoderno. Frequenta il corso di laurea specialistica di Scienze dello Spettacolo e della Produzione Multimediale, collabora con il L.U.M Michele Mancini - Università degli studi di Palermo e come Tutor al Master in “Cinema Pubblicitario in Digitale”. Daniela Mannino Laureata presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo, nel corso magistrale di Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale, con la tesi “Serialità e generi cinematografici: il caso James Bond”. Ha lavorato alle due ultime edizioni del Taormina Film Fest e collabora con il LUM Michele Mancini – Università degli Studi di Palermo. Maria Luisa Montaperto Laureata magistrale in Storia dell’Arte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia degli Studi di Palermo, con tesi in Storia dell’Arte Contemporanea. Lavora come curatrice di eventi, tra i quali Compleanno Bianco, performance pittosonora organizzata in onore a Giacomo Serpotta, presso il complesso monumentale dell’Oratorio di San Lorenzo. È inoltre assistente, addetta all’accoglienza e Public Relation presso expo e concorsi artistici. Gianfranco Perriera Regista e attore, fa parte del 1985 del Teatro Teatés, di cui è vicedirettore artistico, e insegna regia e recitazione nella stessa Scuola di Teatro. Autore di testi teatrali, nel 2004 il suo Senza protezione di sorta riceve la segnalazione al Premio Calcante. Suoi racconti e saggi compaiono in diverse riviste culturali. La sua ultima pubblicazione a carattere scientifico è Sparizione e ritorno (2008). Giulia Raciti Dottoranda di Ricerca in Tecnologie Digitali per lo Spettacolo, presso La Sapienza - Roma. Laureata presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo, indirizzo DAMS Arte V.O., ha conseguito un 247


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Master in Cinema Promozionale in Digitale, tenutosi nella sede del LUM (Laboratorio Universitario Multimediale). Redattrice della rivista The Rope – Grafie dello Spettacolo e Pratiche dell’Immaginario. Rino Schembri Ricercatore di Cinema, Fotografia e Televisione nel DAMS della la Facoltà di Lettere e Filosofia (Università degli Studi di Palermo), presso la quale insegna Storia e Critica del Cinema e Storia e Tecnica dei Linguaggi Audiovisivi, è anche componente del comitato tecnico-scientifico del LUM. Autore di Lara Croft e le altre (L’Epos, 2003), ha pubblicato diversi saggi in miscellanee accademiche ed è stato anche critico cinematografico e televisivo per i quotidiani Oggi Sicilia e Avanti!. Dario Tomasello È professore associato in Letteratura italiana contemporanea. È coordinatore scientifico del Centro interdipartimentale di Studi sulle Arti Performative presso l’Università degli Studi di Messina. Codirige, insieme a Massimo Fusillo, la collana di studi sulla Performatività delle Arti “AlterAzioni” per la casa editrice Le Lettere di Firenze. È stato visiting professor alla Sorbonne Nouvelle - Paris III e ha tenuto conferenze in molti Atenei e Istituzioni italiane ed internazionali (fra gli altri: Columbia University; State University of New York; Istituto Italiano di Cultura di Chicago; Katholieke Universiteit Leuven; Università degli Studi di Bologna). Il suo ultimo volume è Un assurdo isolano. Il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, Editoria & Spettacolo, Roma, 2009. Barbara Tomasino Lavora con Rumore, Marie-Claire, altri organi di stampa e network radiofonici, tra cui la RAI, come critico musicale, cinematografico, di costume e culture giovanili, autrice e conduttrice di format. Ha pubblicato Groupie – Ragazze a perdere (L’Epos, Palermo 2004) e diversi saggi su cataloghi di mostre e rassegne internazionali. Ha collaborato alla realizzazione di crito-video. È tra i fondatori del Laboratorio Creativo A Bout de Clip.

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Renato Tomasino Ordinario di Storia del Teatro e Presidente del DAMS (Università di Palermo). Ha lavorato con L’Astrolabio, Filmcritica, Fiction, Sipario, Rinascita, Giornale di Sicilia e altri organi di stampa come critico teatrale, cinematografico, opinionista, in alcuni casi come redattore e condirettore. Ha pubblicato la Storia del teatro e dello spettacolo dell’Editrice Palumbo (Palermo 2001) e numerose altre monografie. In atto è direttore responsabile di The Rope e di Letterature e Culture (on-line).

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