L'immagine unitaria. Quattro studi sul Risorgimento al cinema

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FALSOPIANO

CINEMA


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EDIZIONI

FALSOPIANO

L’ quattro stu sul

a cura di Mathias Balbi

IMMAGINE

UNITARIA

Risorgimento al cinema


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Quaderni di Oltregiogoletteratura 1 La presente pubblicazione costituisce gli Atti della conferenza L’immagine unitaria. Riflessioni cinematografiche risorgimentali, tenutasi presso la Sala polifunzionale di Lerma (AL) nella serata di venerdì 30 settembre 2011, nell’ambito della prima edizione del Festival letterario “OltregiogoLetteratura”, organizzato dall’Associazione culturale “Lettere & Arti”, con il patrocinio del Distretto Culturale dell’Oltregiogo e della Provincia di Alessandria.

In collaborazione con: Comune di Lerma - Provincia di Alessandria - Associazione Oltregiogo Associazione culturale “Lettere & Arti” - Laboratorio Audiovisivo del Dams di Torino - Centro Studi “In Novitate” - Orchestra classica di Alessandria.

© Edizioni Falsopiano - 2012 Via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: Arti Grafiche Atena - Vicenza Prima edizione - Settembre 2012


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INDICE

Introduzione di Mathias Balbi

p. 9

La retorica del Risorgimento nel cinema italiano di Franco Prono

p. 15

Il Risorgimento in commedia di Aldo Viganò

p. 51

L’ombra del sessantotto: dai Taviani a Martone di Guido Levi

p. 65

“All’opera!”. Lirica e colore nel cinema risorgimentale di Luchino Visconti: Senso (1954) e Il Gattopardo (1963) di Marco Cipolloni

p. 97

Filmografia risorgimentale del cinema italiano a cura di Aldo Viganò e Franco Prono

p. 121

Bibliografia a cura di Mathias Balbi

p. 129


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La presa di Roma, 1905


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INtrODuzIONE di Mathias Balbi La “questione” risorgimentale, nella storia del cinema italiano, occupa da sempre la posizione di una problematica rilevante e continuamente attuale: ovvero, anche prima e al di là delle irrinunciabili occasioni celebrative. Tuttavia, il rinascere di un folto dibattito su di essa è innegabilmente di volta in volta originato da queste occasioni e non da meno è stata la celebrazione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia del 2011. L’articolazione del discorso sul Risorgimento cinematografico porta a discutere dei valori del film risorgimentale e ad interrogarsi inquadrandone, ad esempio, la potenziale legittimità e qualità di fonte storico-documentaria: è quello che ha fatto molto recentemente Giuseppe Ghigi in un suo approfondito studio sul tema “Cinema e Risorgimento”, uscito proprio in coincidenza con l’inizio delle celebrazioni unitarie del marzo 2011. È questa una parte significativa dell’approccio critico al tema risorgimentale, che si connette in tal modo

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alla contingenza storica e al contempo fa del testo cinematografico d’argomento risorgimentale una modalità intrinsecamente collegata all’attualità; in un passaggio introduttivo del suo libro Ghigi dice: Oggi, se per ipotesi tutte le fonti sul Risorgimento fossero scomparse, quale del centinaio di film con soggetto rinascimentale girati in Italia dal 1905 al 2011 sceglieremmo per meglio rappresentarlo? Per decidere dovremmo avere in testa un modello storiografico considerato “scientificamente corretto” e “oggettivo” (o da noi considerato tale) in un momento in cui, tra l’altro, la nostra memoria identitaria è messa di nuovo fortemente in crisi e la nostra rete interpretativa non è una tabula rasa perché ha introiettato il Risorgimento cinematografico di Blasetti, di Visconti, dei Taviani, della fiction televisiva e persino di History Channel. [...] i film risorgimentali sono solo importanti memorie del presente in cui sono stati realizzati e la loro lettura si oggettiva attraverso il complesso filtro del nostro immaginario [...] Si deve perciò riformulare la domanda iniziale chiedendoci quale rappresentazione del Risorgimento è data dai film, qual è il rapporto con il loro tempo, che tipo di imagerie costruiscono e con che apparati culturali, ideologici e iconografici sono stati e sono oggi da noi raccolti 1.

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Questa constatazione porta anche a identificare alcuni caratteri fondamentali del cinema risorgimentale italiano, tra cui la mutevolezza e varietà delle sue fisionomie e la molteplicità degli approcci, che ne fanno un materiale particolare e sfuggevole a categorizzazioni precise e stabili. Il tentativo di una visione d’insieme che sia anche ipotesi di sistemazione organica di questa vasta materia si può realizzare con l’aiuto di una periodizzazione quanto di una suddivisione in filoni o correnti e per aspetti specifici. Il Risorgimento di Blasetti non collima certamente con quello dei Taviani e a sua volta il Rossellini di Viva l’Italia si distingue da Visconti, per non dire dell’ancora differente soffio politico di alcuni lavori degli anni Settanta, quale il poco conosciuto Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini, messi in confronto magari alla trilogia papalina di Luigi Magni o alle digressioni nella pura commedia di opere quali il Rugantino di Festa Campanile o Le cinque giornate di Argento. Contemporaneamente, un discorso che si focalizzi su di una periodizzazione puntuale dell’argomento, finisce con l’esaminarne le origini vere e proprie localizza-

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La presa di Roma, 1905

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te nel periodo del muto, risalendo a quel 1905 in cui si gira il film che avvia il Risorgimento nella storia cinematografica italiana, ovverosia La presa di Roma di Filoteo Alberini. Questo sguardo d’insieme costituisce anche l’occasione di una discussione riassuntiva (se non esaustiva) sull’argomento e può essere coadiuvato dall’esame, come si diceva, di aspetti specifici e caratteri ricorrenti, nel quadro di una periodizzazione cronologica. Su queste direttrici si muove la presente pubblicazione, che si puntualizza su singoli aspetti, oggetto di un approfondimento e di una riscoperta anche critica: i quattro interventi che seguono propongono una rilettura globale e variegata che parte dal muto, con la sottolineatura dell’utilizzo e della qualità della retorica applicata alla narrazione cinematografica risorgimentale, passando poi attraverso i toni della commedia, che trova nel cinema di Magni un riferimento privilegiato, per arrivare, attraverso le ombreggiature politiche dei Taviani e di altri nel periodo post-sessantottesco, al Visconti sospeso tra il Risorgimento “operistico” di Senso e quello romanzesco del Gattopardo. La varietà di queste analisi è l’espressione di una volontà di circoscrivere e catalogare in una descrizione

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il più possibile votata all’“unitarietà” un materiale che, in ironica opposizione al titolo di questa raccolta di studi, difficilmente si riesce a ricondurre alla forma di una indiscutibile e perfetta “immagine unitaria”. 1

Giuseppe Ghigi, Il tempo che verrà. Cinema e Risorgimento, Venezia,

Gambier & Keller, 2011, p. 6.

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La rEtOrICa DEL rIsOrgImENtO NEL CINEma ItaLIaNO* di Franco Prono (Università di Torino-Dams) In occasione delle celebrazioni del primo centenario dell’unità d’Italia, nel 1961, Guido Aristarco rifletteva sul modo in cui il cinema italiano ha rappresentato il Risorgimento e affermava che per lo più le pellicole che hanno questo tema «o che comunque ad esso si ispirano, prodotte dalla prima guerra mondiale a oggi, si sono solitamente adeguate a uno schema feticistico, apologetico, cartaceo: personaggi astratti, miticizzati, diventano protagonisti della storia, senza idee capaci di illuminare la fisionomia di un particolare periodo; i vari problemi di fondo vengono nascosti per soddisfare una retorica che uccide ogni sentimento nazionale concreto e operante» 1. In genere si tratta insomma di film in costume e non di film storici; parlano di un Risorgimento oleografico, privo degli elementi antitetici che lo compongono, dei conflitti tra i suoi protagonisti e anche della funzione propria delle forze passive e latenti come le grandi masse agricole.

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Pertanto da questi film emerge per lo più non la Storia, ma la leggenda di «un’avventura senza ombre e senza contrasti» - sono parole di Carlo Casalegno - «con i quattro grandi protagonisti sempre a braccetto, occupati a fare l’Italia in perenne concordia» 2. La storia del cinema italiano inizia proprio all’insegna della retorica risorgimentale. Il 20 settembre 1905 a Roma, all’inizio di via Nomentana, migliaia di persone assistono con grande entusiasmo alla proiezione all’aperto del primo film a soggetto realizzato in Italia, La presa di Roma di Filoteo Alberini. È la magica occasione «di rivivere eventi da cui ha avuto inizio la nuova storia nazionale»3 trentacinque anni prima. Pare quasi, afferma Gian Piero Brunetta, che «la gente non avverta la presenza dello schermo steso proprio di fronte alla breccia di Porta Pia e provi, tutta insieme, l’impressione di essere attrice dell’evento, di mescolarsi coi bersaglieri per celebrare, al loro fianco, l’apoteosi della nascita dello Stato unitario»4. Il film è frutto di un lavoro accurato, inusuale per l’epoca: le uniformi e le armi sono autentiche, fornite dal Ministero della guerra, i movimenti delle truppe sono guidati da esperti militari, la ricostruzione storica è basata sulle fotografie scattate da Lodovico Tuminello il 21 set-

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La presa di Roma, 1905

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tembre 1870. Peraltro questa operazione culturale rientra nel gusto decadente e retorico dell’epoca ed è chiaramente funzionale agli interessi ideologici e politici del governo nazionale. La presa di Roma, continua Aristarco, «è già un indice preciso e rivelatore di quel dannunzianesimo e di quel cattivo gusto che hanno accompagnato tanto nostro cinema, specie fino all’esplosione del neorealismo»5. Non è certamente casuale che la produzione cinematografica italiana esordisca con l’esaltazione dell’unità della patria e che nell’ultimo dei sette “quadri” di cui il film si compone, intitolato Apoteosi, compaiano al fianco di una raffigurazione femminile dell’Italia (una ragazza con i capelli lunghi, che in testa ha una corona d’oro “turrita”, nella mano destra una foglia di palma e nella sinistra il Tricolore) da un lato Mazzini e Garibaldi, dall’altro Vittorio Emanuele II e Cavour. Dall’alto una stella irradia i suoi raggi su di loro, sulle nuvole che li avvolgono e su alcuni monumenti e palazzi. Il cielo, il tricolore, la foglia di palma, la corona e il mantello dell’Italia sono colorati a mano di azzurro, verde, rosso, oro. È un finale veramente esemplare per la sua trionfalistica retorica. Pare superfluo notare che unire in un’unica immagine quattro personaggi di diversa

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La presa di Roma, 1905

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ideologia e spesso in forte contrasto tra di loro è quanto meno una forzatura storica. È quel Mito di un Risorgimento oleografico che Aristarco non vorrebbe più vedere sullo schermo: «Anche il cinema ha il compito di modificare l’immagine oleografica del Risorgimento appresa nei primi libri di scuola, di sfatare cioè la leggenda di “un’avventura senza ombre e senza contrasti, con i quattro grandi protagonisti sempre a braccetto, occupati a fare l’Italia in perenne concordia»6. Numerosi altri film muti italiani di ambientazione risorgimentale hanno finali apologetici, con veri e propri tableaux vivants simili dal punto di vista iconografico alle illustrazioni dei giornali popolari, alle cartoline illustrate dell’epoca, ai santini religiosi, a scene del Ballo Excelsior. Si veda ad esempio Il piccolo garibaldino, un film Cines del 1909, storia di un ragazzino che vuole combattere nelle file dei Mille di Garibaldi al fianco del padre: scappa da casa (un ambiente alto borghese) e dopo un lungo viaggio raggiunge i patrioti che lo accolgono tra di loro; ma nella prima battaglia a cui partecipa viene ferito e muore accanto al Generale. Ed ecco il finale. Appare la dida-

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scalia: “Mamma, guarda: son morto da soldato!”; poi vediamo la madre, a casa, piangente su una sedia; alle sue spalle scompare la parete con i mobili e appare, contornato da nubi, in cima ad una breve scalinata, quello che pare quasi un monumento: il piccolo garibaldino accanto ad una donna (l’Italia) la quale è vestita con una tunica bianca, ha sul capo una corona di fiori intrecciati e con la mano sinistra regge una bandiera tricolore, mentre con gesto protettivo appoggia il braccio destro sulle spalle del ragazzo. Questo scende lentamente i tre gradini, si avvicina alla madre e aperta la camicia - le mostra sul petto il foro del proiettile che lo ha ucciso. La madre lo abbraccia, bacia la ferita e osserva il figlio che lentamente torna a riprendere il suo posto accanto alla raffigurazione della Patria. La visione mistica è conclusa. Nel primo decennio del secolo tutte le Case di produzione italiane realizzano film con tematiche edificanti di carattere sociale o parasociale, i cui protagonisti sono per lo più bambini in quanto essi offrono la possibilità di sfruttare motivi patetici e sentimentalistici sullo sondo di crude tragedie private o di importanti eventi storici. È questo appunto il caso de Il piccolo garibaldino. «Nei cataloghi Cines troviamo titoli che

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riecheggiano e ripropongono motivi deamicisiani, come Piccolo garibaldino, Piccolo violinista, Congiura di bimbe, Piccola modella, Piccolo cantoniere, Orfana riconoscente, Il tamburino di Austerlitz. Tematiche religiose, drammi familiari, malattie incurabili, orfani e bambini abbandonati, ritrovamenti e agnizioni, tutto l’armamentario del romanzo popolare, temperato dalla letteratura edificante, si mescola con tematiche nazionaliste e antioperaie producendo una sorta di co-abitazione di intenzioni diverse, ma mostrando ben chiara la funzione dominante del sermone e della morale conservatrice appena schermata dal pathos drammatico della vicenda»7. Scrive Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo Nazionale del Cinema di Torino: «È opportuno far cominciare l’età “aurea” del cinema italiano dal 1911, che fu un anno importante. Tra i tanti eventi che portarono l’Italia a schierarsi nel gruppo delle più grandi nazioni europee, vi fu in quell’anno l’Esposizione Internazionale di Torino, che sintetizzò il progresso italiano. Torino industriale, Torino artistica, Torino letteraria, dimostrò di essere anche Torino cinematografica, quotatissima sui più importanti mercati del

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mondo. […] All’Esposizione di Torino troviamo sale cinematografiche nel padiglione ufficiale della cinematografia al Pilonetto, nel padiglione degli Stati Uniti, dell’Argentina, del Brasile, ed in quello dell’Elettricità Siemens e Schukert»8. Nell’ambito dell’Esposizione viene bandito uno dei primi concorsi internazionali di cinematografia, che prevede premi in tre categorie: artistica, scientifica e didattica. Nella commissione giudicatrice figurano uno degli inventori del cinema, Louis Lumière, e il grande fotografo Paul Nadar. Un premio per la Categoria Didattica va al film della Cines Il tamburino sardo, tratto dal noto racconto di De Amicis contenuto nel libro Cuore. La nota storia dell’eroico ragazzino che viene ucciso (o gravemente ferito) mentre sta andando a chiamare rinforzi per liberare una squadra di soldati piemontesi assediati dagli austriaci è paradigmatica dell’immaginario patriottico italiano. Il film si conclude nell’ospedale militare allestito in una chiesa, dove l’ufficiale sabaudo scampato all’assedio trova il tamburino disteso in un letto e gli mostra una mano bendata a causa di una lieve ferita. Semisvenuto, il ragazzo gli rivela che gli hanno amputato una gamba. L’ufficiale, sorpreso, indietreggia, poi lo saluta militarmente. Rullo di tam-

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Il piccolo garibaldino, 1909 24


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buri. Didascalia: “Pure, il tricolore custodito nel sacrario delle speranze dei patrioti più ardenti, garriva furtivamente nell’azzurro…” Una bandiera – dipinta a mano sulla pellicola con colori verde e rosso – sventola su un fondo neutro. Fine. (Retorica dell’infanzia eroica). La Casa di produzione torinese Ambrosio vuole presentarsi a questo Concorso del 1911 nel modo migliore e mobilita i suoi uomini più esperti per realizzare in tempi brevi opere particolarmente valide: lo sceneggiatore Arrigo Frusta viene incaricato di scrivere un soggetto capace di suscitare l’adesione entusiasta del pubblico. «Caspita! Bisognava vincere a qualunque costo. – Capperi! Ne va dell’onore della Casa. Conclusione: per vincere era necessario produrre una film eccezionale. Per produrre una film eccezionale ci voleva un soggetto extra ordinem»9. Frusta pensa ad un film d’argomento patriottico, che crei interesse e partecipazione emotiva nel pubblico. Nasce così Nozze d’oro, un racconto di ambientazione risorgimentale in cui agli eventi storici si intreccia una vicenda individuale di grande impatto emotivo: mentre festeggia le sue nozze d’oro, un ex tenente dei bersaglieri raccon-

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ta ai nipoti un fatto accaduto il 30 giugno 1859, giorno della battaglia di Palestro, durante la seconda Guerra d’Indipendenza. Egli si era rifugiato in una cascina dopo essere stato ferito dagli austriaci; qui era stato nascosto da un contadino e dalla sua giovane figlia, con la quale si era poi sposato alla fine della guerra. Il film vince il primo premio per la categoria artistica e riscuote un grande successo grazie alla sua calibratissima struttura narrativa. «Non è soltanto un film ancor oggi suggestivo, tecnicamente elaborato e artisticamente non privo di elementi originali, ma è anche il segno di una maturità, cioè il punto d’arrivo d’un lavoro tutt’altro che improvvisato, frutto d’un progetto artistico-produttivo seriamente impostato e altrettanto seriamente realizzato»10. Gianni Rondolino racconta che «la sequenza della battaglia faceva scattare in piedi gli spettatori, la regia di Luigi Maggi era molto curata e bene si muovevano, sullo sfondo di un Risorgimento non di cartapesta sebbene ancora alquanto oleografico, i personaggi principali, tratteggiati con vigore da Alberto A. Capozzi e da Mary Cleo Tarlarini»11. La trama è accattivante per il pubblico dell’epoca, in quanto lega all’attualità i fatti eroici

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avvenuti cinquant’anni prima e mescola elementi narrativi eterogenei: patriottici, d’azione e sentimentali. Qui la retorica è di tipo più intimo, familiare dei film precedentemente citati, perché all’evento bellico si sovrappone la vicenda che conduce alle nozze l’ufficiale e la contadinella. Nota giustamente Claudia Gianetto che «Tutte le opere a sfondo patriottico hanno un impatto su pubblico e critica sicuramente positivo grazie anche al particolare momento storico politico in cui la nazione si trova. Proprio in quei mesi il governo Giolitti sta preparando diplomaticamente la conquista della Libia che porta alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Turchia il 29 settembre 1911: dopo la pace di Losanna (18 ottobre 1912) l’Italia impone la sua sovranità sulla Libia»12. Voglio mettere in risalto un dato fondamentale: chi fa cinema parla sempre al presente e del presente; pertanto ogni film costituisce un interessante documento storico dell’epoca in cui esso è stato girato, non di quella in cui è ambientata la vicenda narrata. Quando la tematica e l’ambientazione sono risorgimentali, esse funzionano come metafore di situazioni e problematiche contemporanee alla produzione del film, in quanto non solo gli autori, ma anche gli spet-

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tatori vedono, vivono, interpretano il passato alla luce della loro quotidianità, dei loro valori e ideali attuali. In questo caso, appunto, la guerra d’Indipendenza richiama l’attualità della guerra di Libia. Nozze d’oro viene realizzato con circa 15.000 lire, ne vince 25.000 al concorso dell’Esposizione come primo classificato della “Categoria Artistica” e procura all’Ambrosio notevoli guadagni sia in Italia, sia sui mercati di tutto il mondo: più di 400 copie del film sono esportate nel resto dell’Europa, in Stati Uniti d’America, India, Giappone, Australia. Per far fronte alle richieste la Casa di produzione deve assumere nuovo personale addetto alla stampa della pellicola ed istituire turni di lavoro tali da portare la produzione a ventiquattr’ore al giorno. L’entusiasmo di pubblico e critica viene bruscamente a scontrarsi con l’intervento del Ministero dell’Interno che, con un telegramma del 9 dicembre 1911, vieta la proiezione di Nozze d’oro per motivi di opportunità politica. Il Governo italiano teme appunto che la rievocazione della guerra contro gli austriaci possa sollevare qualche reazione imbarazzante nel momento in cui si sta aspramente combattendo in Libia. Dopo Il tamburino sardo e Nozze d’oro, il filone

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risorgimentale viene ripreso da altre Case produttrici nello stesso anno 1911 e negli anni successivi con film quali I Mille e La lampada della nonna di Luigi Maggi (Ambrosio, 1913), «quest’ultimo concepito come copia perfetta di Nozze d’oro con il passaggio al punto di vista della nonna, e da un’altra casa torinese, la Gloria, che sforna una serie di film deamicisiani dal Tamburino sardo al Piccolo patriota padovano. Una notevole influenza viene esercitata anche dai quattro drammi scritti a partire dal 1910 da Domenico Tumiati (Giovane Italia, Carlo Alberto, Il tessitore, I Mille), che, con il loro infiammato nazionalismo, cercano di far rivivere al presente gli ideali risorgimentali»13. Il film di ambientazione risorgimentale più memorabile di tutta la storia del cinema italiano è a mio avviso 1860 di Alessandro Blasetti (del 1933), straordinariamente privo di retorica e di elementi oleografici. È la storia di «un montanaro siciliano da poco sposato ad una ragazza del suo paese che parte per raggiungere Garibaldi a Genova e ritorna con i garibaldini nella sua Sicilia. Il film termina con la battaglia di Calatafimi nella quale vengono sbaragliate le truppe borboniche»14. Dietro suggerimento di Emilio Cecchi,

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Blasetti si ispira a Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba e riesce a riprodurre la freschezza di questo libro in molte sequenze del film. Per cercare di evitare l’agiografia, il regista non inquadra mai il volto di Garibaldi, ma mostra il condottiero di spalle, o da lontano; lo stile è sobrio, rigoroso e pare talvolta preannunciare il clima figurativo del Neorealismo. In una sequenza ambientata su un treno vengono messe in risalto le differenze esistenti tra gli Italiani provenienti dalle varie regioni: essi non costituiscono ancora una nazione, parlano lingue diverse, hanno culture diverse. Il pastore siciliano ascolta i dialoghi di alcuni borghesi istruiti senza capire nulla. In un articolo pubblicato su “La Stampa” nel 1933, il regista spiega che il suo intento primario è quello di rendere attuale l’epopea di Garibaldi paragonandolo a Mussolini: «Il film, in due parole, vuole essere questo. Evocare l’atmosfera del 1860 per molti aspetti simile a quella del 1920-1922. Torrenti di chiacchiere, torre di Babele politica, incoscienza della immanente rovina di ogni possibilità di unione della patria. Nuclei isolati di patrioti e di ribelli muti, decisi, votati alla morte resistono nella fiducia in un Uomo che convoglierà le

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loro forze e altre ne attiverà fatalmente quando porterà la realtà politica attuale dal campo della discussione a quello dell’azione»15. Se queste sono le intenzioni dichiarate da Blasetti, nel film non vengono affatto esplicitate: è infatti evidente nel crudo realismo di queste immagini «la rinuncia critica al film di propaganda in favore di toni più smorzati, dove l’inquadratura solo di rado immobilizza l’attimo monumentale, e più spesso sposa il ritmo piano dell’accadimento, con l’idea implicita che si stia filmando la storia come se fosse cronaca»16. Anche il finale del film - la vittoria di Calatafimi è alquanto dimesso, non trionfalistico: il picciotto Carmeliddu corre a riabbracciare la sua Gesuzza che lo ha seguito sul campo di battaglia e poco prima ha confortato un giovane soldato nel momento della morte. Poi la macchina da presa compie una lenta carrellata su alcuni cadaveri stesi a terra insanguinati, e soltanto a questo punto mostra l’entusiasmo delle truppe garibaldine per la vittoria, con squilli di tromba, soddisfazione di Garibaldi e sventolio di bandiera. Ma il finale originario, che è stato soppresso nel dopoguerra dallo stesso Blasetti, era ben diverso: apologetico, retorico e formalmente e visivamente incongruo con

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tutto il film precedente: si vedeva un gruppo di vecchi garibaldini che assistevano ad una sfilata di plotoni di Camicie Nere armati di moschetto al Foro Italico di Roma. Veniva così posto un segno di continuità tra le battaglie per l’Indipendenza e quelle del regime fascista paragonando Garibaldi a Mussolini. Era questa la realizzazione pratica degli intenti espressi dal regista nel suo articolo sulla “Stampa”. Nel 1961, anno in cui l’Italia festeggia il primo centenario dell’unità nazionale, troviamo addirittura due lungometraggi a soggetto e due documentari d’argomento “risorgimentale” realizzati dal grande Roberto Rossellini, che a mio parere sono di gran lunga i peggiori della sua lunga e splendida carriera. Il primo è Vanina Vanini, un melodramma ispirato a Stendhal che pare la brutta copia di Senso di Visconti e soffre molto della pessima performance dell’attrice protagonista, Sandra Milo. I pesanti interventi sul film operati dal produttore Moris Ergas (taglio di tutta la parte iniziale, nuovo doppiaggio della Milo) inducono poi il regista a non riconoscere quasi più la paternità dell’opera. Rossellini è da poco tornato in Italia dopo l’esperienza di India ed inizia a sentire l’esigenza di realiz-

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zare opere essenzialmente didascaliche, che documentino in modo preciso momenti importanti della storia dell’umanità. Decide pertanto di realizzare Viva l’Italia, un film sulla spedizione dei Mille, rappresentando i piccoli fatti della quotidianità, fuori dalla tradizione agiografica del Risorgimento. «Ho sempre ritenuto», afferma Rossellini, «che la nostra storia dovesse essere narrata dal cinema non con accenni celebrativi, come purtroppo è sempre stato fatto, ma con il tono dimesso se pur entusiasta della cronaca viva»17. L’intenzione è quella di fare la ”cronaca” di eventi accaduti cent’anni prima come se il regista e la sua troupe fossero stati presenti ai fatti, offrendo così allo spettatore non un’interpretazione critica di quei fatti, ma il loro semplice resoconto. In tal modo Rossellini vorrebbe sottrarre l’impresa garibaldina alla retorica che la tradizione scolastica ha tramandato arricchendola di aneddoti romanzeschi, ma non riesce ad andare al di là della superficie dei fatti e dell’affresco popolaresco. Il suo progetto “didattico” viene raggiunto soltanto a metà. «Il dissidio documento-finzione, intento didascalico-intento spettacolare», secondo Gianni Rondolino, «non trova una soluzione accettabile, e soprattutto riporta in primo piano il problema di

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un cinema realmente didattico e informativo. Perché l’assenza deliberata di un chiaro giudizio storico-critico (che utilizzi fatti e personaggi per un discorso globale di informazione precisa e motivata, ossia di indirizzo interpretativo - che non significa costrizione ideologica o sfruttamento parziale e politico dei fatti) impedisce alla rappresentazione cronachistica di assumere i toni di un autentico quadro storico. La voluta quotidianità, addirittura la banalità, dell’azione drammatica (o almeno di quella parte di azione drammatica che non coinvolge direttamente i due protagonisti) non sempre è riscattata sul piano dell’immagine e della narrazione come “quotidianità” reale, passibile di molteplici interpretazioni critiche: il più delle volte rimane amorfa, non si carica della tensione, dell’attesa, che sono sempre state le caratteristiche peculiari dello stile e della poetica di Rossellini. È evidente che si tratta di due differenti concezioni dello spettacolo, di una aspirazione a superare la “finzione” in direzione di una informazione “obbiettiva”, e di un retaggio non lieve del cinema a soggetto, narrativo. È come se Rossellini si trovasse attratto in pari misura da queste due tendenze, e non avesse ancora fatto la sua scelta definitiva»18.

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La parziale riuscita del film e la sua ambiguità a livello retorico è riconosciuta anche da Guido Aristarco, il quale afferma che il film, «che vuole essere un popolare affresco dell’epopea garibaldina, un omaggio ai Mille e al loro capo in occasione del centenario, non sfugge all’immagine di un Garibaldi mistificato, umiliato, costretto alla oleografia. La vita romanzata del generale […] ha tradito il regista, cui si deve tuttavia riconoscere, sia pure in mezzo a non poche ambiguità, il tentativo di una qualche revisione storica, di far luce su certi contrasti tra Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele, su un incontro a Teano che esclude la visione di un’ottimistica e ingenua concordia»19. Concorde con Rondolino e Aristarco ma più severo di loro nel suo giudizio sulle qualità espressive di Viva l’Italia è Guido Fink, secondo il quale «Rossellini è rimasto a metà strada fra la tendenza epico-spettacolare e la vocazione modernamente antiretorica: anche stilisticamente, il film non riesce a trovare un suo linguaggio, appare un fastidioso compromesso fra il western nazional-popolare e un cronachismo minuto e pedante. Purtroppo entrambe le direzioni sono poi intese da Rossellini nel senso più banale e pedestre»20.

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Rossellini tenta di mostrare un ”Risorgimento senza eroi” di gobettiana memoria, ma «i fatti rimangono spesso amorfi, privi d’una giustificazione che non sia quella della “cronaca”, incapaci di fornire uno spunto all’indagine ulteriore, alla critica storica. Così, non soltanto si cade a volte nell’oleografia delle stampe di Épinal, ma anche si rifiuta un’interpretazione critica rifugiandosi in una visione della realtà che può assumere i caratteri dell’indifferenza, del qualunquismo»21. Così, alla fine, il “santino” dell’Eroe dei due Mondi non viene affatto negato, criticato, revisionato, ma confermato con convinzione nei suoi aspetti più insopportabilmente oleografici. È vero che nel film Garibaldi è visto “dal basso”, attraverso le cronache di Giuseppe Bandi (I Mille. Da Genova a Capua, 1886) e di altri testimoni, come artefice sul campo di quell’unità d’Italia che la politica (Cavour) vorrebbe ostacolare, è vero che vediamo un personaggio non impettito, «anziano, anzi pieno d’acciacchi: inforca gli occhiali per leggere i proclami, porta la maglia di lana e la pancera, non sguaina la spada ad ogni passo ed evita di ergere l’intrepido profilo. E guardando le cose dal punto di vista della cronaca, come ha fatto il Bandi nel suo diario: “Basta leggere Bandi – osserva

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Viva l’Italia, 1961

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Rossellini – e uno capisce quello che era Garibaldi”. Ad esempio: Garibaldi aspettava l’arrivo dei generali borbonici per trattare la resa di Palermo, lui stava sbucciando un’arancia, ha cominciato a dividerla e ne ha dato uno spicchio a ciascuno. Fatti inediti, ci garantiscono. E invece fa parte del mito del personaggio - e anche dell’impaginatura scolastica che serve a mascherare gli sgarri polemici, contro l’ordine monarchico, di Garibaldi - insistere sulla sua natura dimessa, isolata dal contesto politico: la bonomia del bravo eroe che dopo le fatiche militari si ritira nella povera isola di Caprera, mangia pane e formaggio, tratta alla buona la gente. Tale ritratto si legge nei libri di storia dei ragazzi italiani, e questi connotati troviamo anche nel film. Il fatto nuovo comincerebbe quando, dietro il facile mimetismo neorealistico, lo spettatore intravedesse i contenuti reali e polemici e le vistose contraddizioni politiche di questa natura popolana; e invece il personaggio viene completato da inopinate positure monumentali: gli sceneggiatori e il regista gli pongono in bocca tirate da manuale scolastico, frasi storiche, gesti teatrali: magari “veri”, ma qui inturgiditi dall’immagine: si inerpica come un giovanetto balzando su per i greppi, passa in rassegna i feriti nemici a passo di

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Viva l’Italia, 1961

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carica e, petto in fuori, strepita come fosse in una piazza d’armi: “Mirate giusto”»22. Indubbiamente il valore di Viva l’Italia risiede molto più nella sua fisionomia di opera sperimentale che nelle sue qualità espressive e concettuali. Infatti, «accanto a momenti di realismo cronachistico, modernamente grezzi e abbozzati, ultima espressione della tendenza “orale” del cinema di Rossellini, ne troviamo altri che preludono alla messa in scena didascalica, bidimensionale, frontale, “irrealistica” e “primitiva” che diverrà lo stilema ricorrente dell’enciclopedia storica; il film è così insieme essai nel senso di abbozzo e essai nel senso di saggio»23. Infine si può prendere anche in considerazione un’arrischiata ma suggestiva ipotesi avanzata da Adriano Aprà, una chiave autobiografica attraverso cui interpretare Viva l’Italia: a Teano Garibaldi consegna i territori conquistati nelle mani di Vittorio Emanuele e viene ringraziato con la messa in riserva e il ritiro a Caprera; allo stesso modo, «l’Italia ufficiale non sa che farsene» di ciò che Rossellini ha fatto per il cinema nazionale. Inoltre, «La conduzione dell’impresa militare somiglia molto al modo in cui Rossellini cent’anni dopo e alla stessa età del protagonista - ama

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girare: non rispettando l’eventuale copione, adattandosi di giorno in giorno alle condizioni concrete del terreno (del set), ma sempre con una visione d’insieme della situazione, conducendo i propri soldati (la troupe) con sicurezza e insieme con olimpica calma»24. Sempre nel 1961 Rossellini la Rai incarica Roberto Rossellini di realizzare Torino nei cento anni, un documentario celebrativo sul ruolo di Torino nella storia nazionale dal Risorgimento ad oggi, costituito dal montaggio di immagini fisse (stampe antiche e quadri), inquadrature di luoghi torinesi e alcuni momenti di una messinscena teatrale. Il valore espressivo dell’opera è scarso, ma essa segna un momento importante nella filmografia di Rossellini il quale in questo periodo è sempre più convinto che la televisione sia il mezzo creativo del futuro. Pochi anni dopo egli abbandonerà il cinema per occuparsi quasi esclusivamente di televisione, realizzando programmi divulgativi che rispondono alla sua teoria sulle possibilità didattiche del nuovo mezzo. Per conferire a Torino nei cento anni un corretto impianto scientifico, il cattolico Rossellini chiede la collaborazione di Vittorio Gorresio e di Carlo

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Casalegno, autorevoli giornalisti di cultura laica, in quanto egli crede profondamente all’integrazione tra queste due culture come elemento fondante di una nuova Italia. «L’incontro tra Rossellini e i suoi collaboratori ha però un’ulteriore valenza. Tutto il documentario è pervaso da un forte ottimismo per quanto riguarda lo sviluppo dell’Italia, e questa era una corrente di pensiero molto diffusa in quel particolare momento storico. Il 1961 è infatti un anno chiave per la vita politica e sociale italiana: il Paese vive il cosiddetto boom economico, si sta trasformando rapidamente e da prevalentemente agricolo diventa una potenza industriale, mentre la migrazione interna dalla campagna alla città raggiunge punte inaspettate. […] Se altri intellettuali (soprattutto Pasolini) guardano con sospetto alle modifiche che avvengono nella società italiana, Rossellini vede invece il momento come una grande occasione positiva: tutto il film è pervaso dall’idea che la nuova ricchezza che l’Italia produce possa modificare in meglio la vita quotidiana e alzare il tasso culturale dell’Italia»25. Questo è particolarmente evidente nell’ultima parte del film, quando si vede la Torino contemporanea, con i Treni del Sole in arrivo alla Stazione di Porta Nuova. Lo speaker

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fuori campo commenta i dati sulla forte immigrazione dal Sud e si chiede: “Perché a Torino più che altrove?” Dopo alcune brevi interviste ai nuovi immigrati i quali si dichiarano sicuri di trovare lavoro in città, lo speaker prosegue - mentre la cinepresa fa una lunga panoramica su palazzi e chiese tra il Lungopo e la collina torinese -: “Ecco perché: perché Torino è una promessa di libertà e di lavoro, una speranza che nella storia dell’Italia unita non è mai andata delusa, perché la fiducia riposta in Torino per oltre un secolo ha ripagato gli Italiani e l’Italia tutta con la buona moneta dell’onestà, con la feconda rispondenza ad ogni coraggiosa iniziativa senza distinzione o discriminazione di classe, di pensiero, di origine, di fede”. Sull’ultima parola appare in sovrimpressione la scritta “Fine”. Si tratta evidentemente di un discorso sostanzialmente falso (le discriminazioni ci furono, di vario tipo, e l’“onestà” non sempre fu indiscutibile), ricco di luoghi comuni insopportabilmente retorici e privi di aderenza alla realtà che il documentario vorrebbe illustrare. Non c’è dubbio, ad anni di distanza, che Pasolini aveva pienamente ragione a prevedere la rovina non solo dell’Italia, ma di tutta la civiltà neocapitalistica, e Rossellini aveva torto con il suo astratto e trionfalisti-

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co ottimismo. Sono convinto che, in generale, chi vede soltanto gli elementi positivi presenti nella realtà e nella storia del proprio Paese, ed esalta acriticamente in ogni occasione il “dolce suolo” natío, spesso è molto meno “patriottico” di chi invece critica aspramente tutti quegli elementi negativi che determinano la sofferenza dei propri concittadini, e lotta per rovesciare la realtà esistente nella prospettiva di un diverso ordine sociale e politico e di un nuovo modello di sviluppo economico. Se nei discorsi sull’identità nazionale e sulla storia patria vengono a mancare la razionalità, l’obiettività e l’autocritica, c’è il rischio che prendano il sopravvento la vuota retorica, l’agiografia, l’oleografia, l’autoincensamento: tutte istanze deleterie le quali danno vita a quel falso patriottismo fascista e razzista che costituisce in ultima istanza – cito Samuel Johnson e Stanley Kubrick - «l’ultimo rifugio delle canaglie»26. (* Relazione dell’intervento dal titolo: Retorica e oleografia nei film sul Risorgimento).

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Note Guido Aristarco, Risorgimento senza film, in “Cinema Nuovo�, n. 151, maggio-giugno 1961, p. 203.

1

2

Carlo Casalegno, citato Ivi, p. 205.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano. 1. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Bari, Laterza, 1995, p. 1. 3

4

Ibidem.

5

Guido Aristarco, Risorgimento senza film, cit., p. 203.

6

Ivi, p. 205.

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema muto 18951929, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 139. 7

Maria Adriana Prolo, Storia del cinema muto italiano, Vol. 1, Milano, Poligono, 1951, p. 37. 8

Arrigo Frusta, citato in Gianni Rondolino, Torino come Hollywood: capitale del cinema italiano 1896-1915, Bologna, Cappelli, 1980, p. 57. 9

Gianni Rondolino, Torino come Hollywood: capitale del cinema italiano 1896-1915, cit., p. 38. 10

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11

Ivi, p. 58.

Claudia Gianetto, Società Anonima Ambrosio: cinema muto nei documenti d’epoca, Roma, Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema, 2002, p. 36.

12

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema muto 18951929, cit., p. 162.

13

Francesco Pasinetti, Storia del cinema dalle origini a oggi, Roma, Edizioni di Bianco e Nero, 1939, pp. 261-262. 14

Alessandro Blasetti, Confidenze di Blasetti, in “La Stampa”, 23 maggio 1933. 15

Adriano Aprà, Blasetti regista italiano, in Alessandro Blasetti, Scritti sul cinema, a cura di Adriano Aprà, Venezia, Marsilio, 1982, p. 22. 16

Roberto Rossellini, citato in Gianni Rondolino, Rossellini, Torino, Utet, 1989, p. 268. 17

18

Gianni Rondolino, Rossellini, cit., p. 275.

19

Guido Aristarco, Risorgimento senza film, cit., p. 203.

Guido Fink, Viva l’Italia, in “Cinema Nuovo”, n. 150, marzo-aprile 1961, p. 156. 20

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21

Gianni Rondolino, Rossellini, cit., p. 270.

Pio Baldelli, Roberto Rossellini, Roma, La nuova sinistra/Samonà & Savelli, 1972, p. 157. 22

Adriano Aprà, Rossellini: bilanci, prove tecniche, progetti, in Scuola Nazionale di Cinema, Storia del cinema italiano. Volume X - 1960/1964, a cura di Giorgio De Vincenti, Venezia-Roma, Marsilio/Edizioni di Bianco & Nero, 2001, p. 62. 23

24

Ibidem.

Davide Bracco, Stefano Della Casa, Paolo Manera, Franco Prono (a cura di), Torino città del cinema, Milano, Il Castoro, 2001, p. 225. 25

Questa espressione è contenuta in una battuta del colonnello Dax (Kirk Douglas) al generale Mireau (George Macready) nel film Orizzonti di Gloria (Paths of Glory, 1957) di Kubrick. 26

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