Nanni Moretti

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NANNI MORETTI

immaginI e speranze di una generazione

Giovanni Scipioni

Giovanni Scipioni

Con una prefazione di Roberto Lasagna

www.falsopiano.com/nannimoretti.htm

immaginI e speranze di una generazione

Giovanni Scipioni, giornalista, è stato per dieci anni direttore de “I Viaggi di Repubblica”. Fra i suoi libri ricordiamo La storia del Signor Pensiero (Marietti) e Bond, James Bond (editore Mimesis). È autore di due cortometraggi. Attualmente scrive su “Zig Zag”, un blog di repubblica.it, su “Domani” e “Il Romanista”.

NANNI MORETTI

L’Ego (e non solo) di Nanni Moretti attraverso i suoi tredici film per raccontarsi e raccontare le gioie e i dolori di una generazione. Dal 1976 a oggi, da Io sono un autarchico a Tre piani, un girotondo d’immagini variopinte, di studenti che non studiano, di professori che non insegnano, di preti in crisi, di psicanalisti in crisi d’identità, di giudici in difficoltà, di assassini a fin di bene. Senza dimenticare l’ansia di un Papa appena eletto che non vuole essere Papa, la minaccia culturale e politica di Berlusconi e la sconfitta del dirigente comunista. Nanni Moretti ha raccontato se stesso attraverso le cose che lo riguardano, dalla pallanuoto al calcio, dalla passione politica alla torta Sacher. Ha fatto del suo egoismo, del suo io, un fertile cammino alla scoperta degli altri.

Giovanni Scipioni

NANNI MORETTI immaginI e speranze di una generazione

€ 18,00

FALSOPIANO

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FALSOPIANO

CINEMA


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Giovanni Scipioni

NANNI MORETTI immaginI e speranze di una generazione


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Ringraziamenti L’autore e l’editore ringraziano Nanni Moretti e Sacher Film per l’amichevole disponibilità.


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INDICE

Palombelle esistenziali e girotondi d’autore

di Roberto Lasagna

p. 9

Nanni Moretti, immagini di una generazione

p. 19

1. Che faccio mi metto a lavorare?

p. 28

2. Che dici vengo?

p. 32

3. Campare di rendita

p. 43

4. Il cielo con un flipper

p. 48

5. Il pappone di carote e zucchine

p. 59

6. Le parole sono importanti

p. 73

7. Il girotondo

p. 84

8. Il parto di un ragazzo fortunato

p. 109

9. Si muore per poter vivere

p. 117

10. Gli uomini liberi

p. 125

11. La balena di Melville

p. 135

12. I due corpi del re

p. 147

13. Tre piani di leggerezza

p. 157

Bibliografia

p. 163


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Nanni Moretti


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PREFAZIONE Palombelle esistenziali e girotondi d’autore di Roberto Lasagna Moretti cresce, cambia, e con lui i suoi film, che sono parte di un lungo racconto, in cui ritroviamo figure familiari, volti di attori amici, pronti a raffigurare parti di quelle ossessioni che popolano la scena. Portandosi sin da subito dietro e davanti la macchina da presa, Moretti è interprete completo del suo tempo, e nella lettura di Giovanni Scipioni emerge quella caratteristica “girotondista” che non riguarda unicamente la partecipazione personale dell’autore a momenti della vita politica nazionale, ma disegna l’attitudine a considerare il racconto della vita attraverso i film come un movimento singolarissimo, il divagare coscienzioso tra le trame ballerine dell’esistenza che farà dell’autore un punto di riferimento per i cineasti europei. Ogni film di Moretti è parte di un discorso che muove dalla crisi del personaggio per raccontare l’esistenza nella fase delicatissima del venir meno delle certezze, sino a quel “giù per terra” in cui si ritrovano presto Michele Apicella e Don Giulio e lo stesso Nanni Moretti senza più alcuna maschera. Un viaggio nel mondo di Nanni Moretti è allora anche un percorso nella storia dei comportamenti che il cineasta di

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Brunico, autore di tredici lungometraggi, ha osservato con sguardo disincantato sin dagli esordi, dall’autarchia dei cortometraggi e di Io sono un autarchico, passando per le maschere degli alter-ego Michele Apicella e di Don Giulio negli emblematici Bianca, Palombella rossa e La messa è finita, attraverso le apparizioni dell’autore-attore in carne ed ossa nella fase cine diaristica di Caro diario e Aprile, gli psicoanalisti di La messa è finita e Habemus papam, il fratello della regista Margherita in Mia madre sino al giudice severo di Tre piani, il film con cui il cineasta per la prima volta adatta il romanzo di un altro autore, quell’Eshkol Nevo e in cui si identifica per la capacità di osservazione di un mondo composto di (almeno) tre piani di complessità psichica. La vita còlta al livello umano, senza troppe certezze, è una condizione smascherata da Moretti e affrontata con eleganza e sinuosa curiosità da Giovanni Scipioni, che nel suo racconto della vicenda artistica del cineasta non tralascia alcun aspetto affrontato o sfiorato dai film diretti e interpretati dal cineasta, dalla storia sociale ai misfatti politici, per cogliere le voci dello smarrimento che i personaggi morettiani riflettono; un viaggio attraverso la vicenda artistica in cui il personaggio pubblico è ripercorso con la fenomenologia di uno sguardo, quello di Scipioni, in grado di cogliere i dissensi, le visioni personali di Moretti, laddove le parole, la musica, i ritornelli ossessivi sono parte di un discorso che vuole il cambiamento pur avendone il timore.

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Michele Apicella manifesta disagio e vezzi ossessivi, soprattutto perché si trova partecipe di una generazione in cui è difficile credere a qualcosa che ha perduto il suo senso, come lo hanno perduto le parole, mentre nuove invadenze omologanti sembrano prospettare poco di buono. Dal crollo degli ideali alla volgarità dei linguaggi, dalle crisi dei partiti alle radio libere, il personaggio morettiano si difende polemizzando, mostrandosi irritante, e soprattutto svelandosi impreparato ad affrontare la vita. Ma non vuole fare di se stesso un portabandiera generazionale. Si permette di usare l’arma che non gli è stata sottratta, ovverosia la parola, e di esprimere (letteralmente) conati di dissenso. Naturalmente figlio della sua generazione, Michele/Nanni fa fatica a distaccarsene e si erge ad accusatore delle abitudini puerili dei coetanei, come nella celebre sequenza in cui, in Ecce bombo, lo si vede domandare all’amica Simona: “che lavoro fai… e l’affitto?... Questa sigaretta?”. Perché la risposta della ragazza - “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose” - diventa un motivo identificativo della generazione di Ecce bombo forse persino oltre le intenzioni dello stesso Nanni Moretti, il quale si avvierà, giovane autore, ad essere il polemista pronto a lanciarsi in invettive contro il cinema italiano più affermato e di successo, quello degli attori-mattatori quali Alberto Sordi o di cineaste come Lina Wertmüller, il cui apprezzamento è confermato negli USA quando un Campus universitario le offre una cattedra.

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Il primo cinema autarchico di Moretti presenta quell’attitudine autoriflessiva difficilmente imitabile, e nello sguardo del giovane autore l’affilatezza dei toni e lo sguardo “antipatico” si affiancheranno al disegno delle fragilità, ma soprattutto alla carrellata di abitudini, caratteri tipici, luoghi comuni che potranno diventare analisi di comportamenti e preludio per affrontare i luoghi della mente, con le loro manie e ossessioni, che popoleranno il futuro cinematografico dell’autore. Le telefonate di Nanni nel suo primo cinema sono sia un momento di comicità disperata, sia un trattato d’impreparazione psicologica, come quando Michele Apicella invita una donna ad uscire con lui e s’ingarbuglia, finendo in trappola in una relazione tutta schemi e frasi fatte. Quelle frasi predisposte da schemi mentali o slogan che il Michele Apicella di Palombella rossa aborrirà quando sentirà parlare la giornalista e finirà per schiaffeggiarla. Frasi fatte avversarie di un cinema che, orgoglioso di sentirsi unico, si scaglia contro i luoghi comuni, le compiacenze, la barbarie di una cultura piegata alle nuove leggi dell’imbonitore di turno. Il quale a un certo punto della vita del paese ha il volto di Silvio Berlusconi, a cui Moretti dedica il suo film Il caimano, un titolo presto incompreso, a più livelli di lettura e imprevedibile, soprattutto perché nella conclusione del suo racconto l’attore Moretti in carne ed ossa si mette a interpretare la parte del Cavaliere delle televisioni private. Ma perché non capire che mettersi nei panni del nemico è un modo

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dichiarato per scendere in campo? Per esporsi? Per non cercare attenuanti e mediazioni oltre la grande mediazione che un film, così allegorico e dalle venature para-tarantiniane, quasi filosoficamente favorisce? Persino il diventare Silvio Berlusconi è un atto di teatro, un balletto, una guitteria, per quanto potenzialmente drammatica, sconsolata, come sovente succede nel cinema di Moretti. Il quale coglie l’altro, il suo volto e il suo tormento, il suo disagio e il suo punto di vista, interpretandolo, facendolo diventare una sua possibile personificazione. Nanni Moretti diviene un insolito professore di matematica, in Bianca, per illudersi con la casistica di famiglie e relazioni attraversate dall’armonia perfetta dei numeri, un’armonia illusoria che nasconde la malattia mentale del personaggio. Nanni Moretti diviene sacerdote, ne La messa è finita, per rispettare e drammatizzare la solitudine del sacerdote, e cogliere, in una sceneggiatura che formula la direzione di un cinema narrativamente più strutturato, momenti del disorientamento del personaggio, in cui immette pagine del Moretti personaggio irriducibile, quel Don Giulio pronto a lasciarsi quasi annegare da posteggiatori volgari e violenti a cui egli oppone la sua testardaggine che muove però all’adesione emotiva (ma solo dello spettatore). Frasi e passaggi di un cinema che divengono intercalare comune, quali ad esempio “continuiamo così, facciamoci del male”, nota di sconsolato rimprovero ai commensali per un individuo, il professore di Bianca, che ama i dolci e

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non comprende il sadomasochismo di chi non conosce la Sacher Torte. Perché i dolci, beninteso, non sono soltanto dolci. Una lettura, quella di Scipioni, che riesce a cogliere come Moretti, attraverso qualcosa di assolutamente personale come la passione per i dolci, esprima una visione che filtra i comportamenti, regalandoci anche monologhi sulla solitudine di un personaggio le cui ossessioni divengono anche motivo di isolamento. Nell’affrontare tutto il cinema di Moretti, sottraendosi alla mitologia e dando voce alla lingua morettiana, il libro si presenta come un lavoro originale e pedagogico, in grado di raccontare il mondo del cineasta come qualcosa che appartiene alla storia del nostro paese, per riconoscere nella sua attenzione per il linguaggio un tratto che si va perdendo. Dotato di ineffabile capacità di sintesi, il racconto di Scipioni scende però in profondità, ci racconta il pensiero e la crucialità di un autore sempre un po’ più in là rispetto a dove lo si vorrebbe inquadrare, cioè attento alla difficoltà umana affrontata dai suoi personaggi. E sono porte chiuse quelle che Moretti affronta e apre nei suoi film, come La messa è finita e La stanza del figlio. Sono momenti di riflessione sul personaggio che richiedono la complessità e l’urgenza del confronto, come conferma anche il tredicesimo lungometraggio dell’autore, Tre piani, calato nella vertigine del rapporto tra genitori e figli, nelle domande che rimangono sospese e in attesa di risposte, e che uno sguardo oltre le pareti del proprio

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appartamento ottiene di evocare in tutta la sua urgenza. La tenacia urtante del personaggio che commentava la sua generazione, la posizione del politico amnesico, la voce stridula del prete che intonava le canzoni di Bruno Lauzi, cercavano, nel passato del cineasta, una qualche armonia perduta. Il nuovo cinema di Moretti, da qualche tempo a questa parte, sembra allora rispondere al bisogno di una riflessione meditativa, rilanciata dalle pagine pasoliniane di Caro diario, rammentata dalla posizione scomoda e in attesa di un cambiamento del neoeletto Papa Michel Piccoli in Habemus Papam, ricomposta attorno all’immagine degli spettatori, tra i quali la protagonista Margherita Buy, che in Mia madre si ritrovano nella fila onirica per un film che sembra Il cielo sopra Berlino di Wenders e possono ascoltare quell’invito morettiano a “rompere un tuo schema, almeno uno”. Perché è quello che Moretti ci invita a fare, sempre, con il suo cinema. E oggi lo fa a tratti in maniera più evidente, scoperta. L’invito a rimettere in discussione il nostro punto di vista su noi stessi e il mondo. E guardare oltre i tre piani, oltre le pareti dei quartieri bene di Caro diario. Ci invita a riconsiderare la storia intima di noi tutti come un fatto (anche) sociale. Con scrupolo e passione, Giovanni Scipioni ci racconta questo e molto altro ancora. In un’avventura tutta da leggere e da scoprire. Per i cultori di Moretti, questo libro è come un film che approfondisce anche aspetti storici, che i

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singoli film del cineasta contemplano e sfiorano più o meno direttamente. Per lo studioso di cinema, un agile manuale in cui trovare tutti i riferimenti per orientarsi nell’universo espressivo di uno dei nostri maggiori cineasti. Per gli amanti della buona lettura, un saggio che si legge d’un fiato e regala momenti divertenti. Per chi scrive questa breve nota introduttiva, i passi più gustosi sono quelli del Michele Apicella a confronto con il gentil sesso. O delle numerosissime occasioni in cui il linguaggio morettiano entra nell’immaginario. Nanni Moretti, il cui nuovo film, Tre piani, esce nelle sale dopo due anni di attesa, è abituato a spiazzare, e il nuovo racconto per immagini sembra allargare la portata metaforica del suo cinema, mentre per alcuni si tratta sin dal primo sguardo di un’opera ambiziosa ma irrisolta. La critica tante volte parla al presente sperimentando un po’ quell’amnesia del personaggio di Palombella rossa. Non rammenta cioè che ogni film dell’autore ha creato non di rado disorientamento al suo primo apparire nelle sale, perfino nel caso di un titolo, Caro diario, divenuto poi un punto di riferimento per la riflessione sull’intellettuale nell’Italia degli anni Novanta. Abbiamo allora il sospetto che anche la scelta di adattare un film da Nevo, cioè da un autore ebreo contemporaneo, portando la vicenda da Tel Aviv al quartiere Prati di Roma, non sia soltanto la ricerca di quell’universalità di sguardo a cui Moretti ci sta abituando, ma,

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appunto, una scelta di campo, il bisogno di guardare da lontano qualcosa che si vive abitualmente da vicino, tra le pareti di un condominio che conosciamo benissimo ma di cui molto rimane segreto. Un invito a cogliere persino nella letteratura di un autore amato quella sottolineatura archetipica, innestandola nell’invito alla socialità che qualcuno non ha colto, ma che presenta oggi tutto il sapore dell’urgenza, ribadita a Cannes 2021 in conferenza stampa dal cineasta alla presentazione del film; proprio come quell’aspetto di relazione da cui ripartire, seriamente e con convinzione, per tornare a fare cinema e affrontare le aporie del presente. E Nanni Moretti lo fa da par suo, accogliendo una visione al contempo sorvegliata e distante, dove l’umanità ritorna anche nel disorientamento a cui, come ben sanno i morettiani più attrezzati, l’autore ci ha da tempo abituati.

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Nanni Moretti, immagini di una generazione Il cinema di Nanni Moretti è un girotondo. Una magnifica filastrocca dove Michele Apicella, il prete Don Giulio, lo psicanalista Giovanni, lo psicanalista Brezzi, il figlio Giovanni e il magistrato, protagonisti dei suoi film, sono pronti a smarrire il senso della vita, per poi riconquistarlo subito dopo al giro successivo. Il suo originale girotondo cinematografico gioca con il divertimento e la disperazione nel tentativo di cambiare le storie degli uomini, i luoghi comuni, le banalità, le lampade multicolori. È una gioiosa e vivace giostra dove al posto dei cavallucci e delle macchinine si alternano professori che non insegnano, studenti che non studiano, preti che non credono, psicanalisti che non capiscono e che preferiscono organizzare tornei di pallavolo, sofisticati letterati che si perdono al canto delle sirene televisive, registi che amano il dolce, il canto e il ballo. Un vero e proprio giro giro tondo, in attesa che caschi il mondo e la terra per poi doversi mettere tutti per terra ed evitare di cadere, di uccidere, di andare in carcere o su un’isola senza elettricità, di provare la palombella in una tiratissima partita di pallanuoto. Dal 1976 al 2021, da Io sono un autarchico a Tre piani, dall’autarchia alla diffusione del coronavirus, Nanni Moretti ha raccontato se stesso. L’ha fatto attraverso le storie dei suoi film, giocando con le proprie passioni. È stato figlio della borghesia ses-

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santottina, un figlio che mette sotto accusa i genitori ma che non disdegna da parte loro l’aiuto economico. È stato professore di una generazione post sessantottina che parla, fa dibattiti, si vede, si sente, vede gente, sta un giorno qui e in un altro giorno là, senza vagliare, senza concludere o prendere decisioni. È stato un valente psicanalista alle prese con il dolore più grande, la morte del figlio, e un altrettanto competente strizzacervelli che non riesce ad annullare l’ansia di un Papa appena eletto che non vuole essere Papa. È stato un figlio e un fratello modello che sente il dovere di passare gli ultimi giorni della madre malata al suo capezzale e, con razionalità, abbandona il lavoro. È stato un assassino a fin di bene, se così si può dire, perché gli amici e le persone che ama non rispettano le regole etiche della famiglia e della società. Ha cercato di cambiare le cose, di rimettere insieme coppie separate ma è stato tutto inutile e così, ha ucciso per ristabilire l’ordine costituito dalle leggi morali. È stato Berlusconi, la sua minaccia politica e culturale ed è stato un dirigente comunista sconfitto dal frantumarsi del più grande partito comunista d’Europa. Ha raccontato se stesso, ha sempre parlato di sé e l’ha fatto attraverso le cose che lo riguardano, dalla pallanuoto al calcio, alla torta Sacher. Ma non si è immolato sull’altare del dio ego. Ha fatto del suo egoismo, del suo io, un fruttuoso cammino alla scoperta degli altri. Ha evitato in quarantacinque anni di cinema di perdersi, di svuotarsi raccontando la sua generazione nel corso

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degli anni ma anche le generazioni che, crescendo, l’hanno di volta in volta, accompagnato. Non ha risparmiato critiche feroci ed è sfuggito all’errore classico in cui cadono alcuni bravi registi chiusi nel proprio io. Moretti è stato più volte accusato di vivere da gigione nel suo esclusivo recinto emozionale, ma in realtà la sua cinematografia ha raccontato storie personali inserendole in contesti sociali, familiari e politici. Non ha mai perso di vista i meccanismi della nostra liquida società. Dall’autarchico del 1976 ai Tre piani del 2021. Dal giovane Apicella che guarda estasiato il movimento del mare per poi andarsene con l’indifferenza della gioventù alla vedova, magistrato in pensione, che cerca di riprendere la sua vita privata. Michele Apicella e tutti i suoi alter ego si sono immersi in una vasca di bagno piena d’acqua lasciandosi inondare. L’io di Moretti non ha lasciato la vasca senza acqua, non ha rinunciato a una convivenza ricchissima e complessa con gli altri. Per questo il suo cinema, apparentemente chiuso, è in realtà una singolare espressione artistica in grado di raccontare il nostro paese. Ha raccontato il tempo e la vita dei figli di papà, di cosa sono diventati da grande, dei loro figli e nipoti. Con il cinema Moretti ha percorso la stessa strada esplorata da Alberto Sordi negli anni della guerra, del dopoguerra, del boom, delle speculazioni edilizie e della corruzione. L’ha fatto a suo modo, raccontando le emozioni d’intere generazioni e giocando con un particolare narcisismo costruttivo. Una sorta di

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cinema documento. Com’è stata l’avventura di Alberto Sordi iniziata negli anni Cinquanta e conclusa sostanzialmente negli anni Ottanta. Moretti ha cominciato a descrivere il nostro paese, i suoi amici, gli sconosciuti e se stesso nel lontano 1976, due anni prima il rapimento di Moro, per finire nell’anno della pandemia, interrogandosi con la generazione Covid. Curioso, ma forse non troppo, che il primo giro di manovella sia avvenuto con un profetico “Ce lo meritiamo Alberto Sordi”. Un inizio insolente verso un grandissimo attore interprete eccellente di vizi e virtù di una parte degli italiani, ma anche l’avvio di un lungo racconto per immagini che metterà a nudo le vacuità, le debolezze, le stupidità e le angosce di una buona parte dei nostri connazionali, così come aveva fatto Alberto Sordi. È come se tutti i suoi film avessero raccontato, di volta in volta, l’arresto del brigatista Renato Curcio, l’ergastolo agli autori del massacro del Circeo, la partita vittoriosa della nazionale italiana di tennis in Cile, giocata in un paese sotto una dittatura militare, l’inflazione, la strage alla stazione di Bologna, la crisi energetica, il decreto Berlusconi, i governi Berlusconi e le televisioni Berlusconi, la fine dei 45 giri, la beatificazione di due veggenti di Fatima, l’entrata dell’euro, lo storico scudetto della Roma, l’elezione di Papa Francesco, l’epidemia del coronavirus. Avvenimenti che hanno accompagnato le storie personali dei protagonisti dei suoi film, impossessandosi del loro privato. Vicende che hanno toccato le loro personalità, i loro malumori, le inefficienze 22


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della società e dei suoi interpreti più importanti. Michele Apicella e tutti gli altri alter ego di Moretti sono figli di una società che, in quarantacinque anni, non è mai riuscita a trovare il filo, magari leggerissimo, in grado di avvolgere le menti più disparate in un sistema comune. Ci hanno provato insegnanti, psicanalisti, allenatori, preti, ballerini, politici, studenti, magistrati, poliziotti, giornalisti, disoccupati e scansafatiche. Ci hanno provato in tutti i modi, anche uccidendo, ma senza raggiungere risultati apprezzabili. Comunque ci hanno provato e questo ha portato miglioramenti alla loro scatola mentale. La società naviga ancora a vista, sembrano sussurrare tutti gli attori messi in campo, ma noi continueremo a provare a cambiare le cose. I film di Moretti sono come le città invisibili di Calvino che proiettano le loro ombre sullo schermo della nostra immaginazione. Sono sottili, nascoste, hanno i frontoni di marmi e i muri di pietra. Sembrano irreali, ma in realtà sono solo invisibili. Con i desideri, le gioie e le angosce le città diventano reali. Moretti ha proiettato le sue ambizioni e le sue inquietudini, ha scavato dentro la sua scatola mentale, svelando la realtà della società moderna. Ha messo sul lettino dello psicanalista il suo Io per poter convivere con noi spettatori sospesi sull’abisso del contemporaneo. All’uscita del tredicesimo film l’io del magistrato Moretti si veste di un’autorità necessaria per esprimere giudizi da Cassazione. Lo fa in un condominio di tre piani apparentemente tranquillo. Le tre famiglie che vi abitano in realtà nascondono una vita pas24


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Io sono un autarchico (1976)

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sata e presente piena di segreti e assai poco ordinata. Sono uomini e donne colpiti duramente dagli eventi ma che sembrano conservare la forza per continuare a lottare, a cambiare le cose. È Moretti ultimo, la sua speranza di un mondo migliore, fortemente voluta e cercata da Michele Apicella fin dal lontano 1976. Sta facendo l’ennesimo singolare girotondo, cercando, ancora una volta, di mettersi giù per terra per vedere meglio, per avere un’inquadratura a fuoco delle lampade multicolori della nostra società.

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1. Che faccio mi metto a lavorare? Interno casa. Corridoio. Michele Apicella, in piedi, è al telefono, seduto accanto a lui Fabio Traversa. “Ciao papà, senti… sì sto bene, allora… mi lasci il solito assegno mensile da 200mila, sì… come sempre… certo, come ogni mese… certo, si va bene… ciao, saluti a tutti”. Michele riattacca e si rivolge a Fabio: “Perché mai qualcuno si chiedesse come vive, chi lo mantiene, ha una casa eppure non lavora… Fabio così abbiamo chiarito”. Michele è Nanni Moretti, Fabio è Fabio Traversa, il film è Io sono un autarchico del 1976, il primo lungometraggio di un geniale regista che ha saputo raccontare, attraverso personaggi strampalati, ironici e pungenti, oltre quarant’anni della nostra storia, della nostra società, dei giovani figli di papà e di quello che sono diventati da grandi. Il 1976 è, nel mondo, l’anno dell’ebola, della morte di Mao Tze Tung e dell’oscar a Qualcuno volò sul nido del cuculo, in Italia il terremoto in Friuli conta circa mille morti, viene ucciso da fascisti il giudice Occorsio, nasce il quotidiano “la Repubblica” e la Democrazia cristiana e il Movimento sociale approvano alla Camera un articolo della legge sull’aborto che considera la pratica un reato. È l’Italia che con difficoltà cerca di togliersi la polvere grigia accumulata nelle case e nelle istituzioni dopo il Sessantotto. I giovani, quelli che hanno tra i venti e trenta anni, diventano l’ennesima speranza di un mondo miglio-

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re. Ecco allora che l’alienata gioventù dell’epoca entra nel campo cinematografico morettiano. Gioventù fuori dagli schemi tradizionali, piccoli borghesi mantenuti, incapaci di rapporti con gli altri e con se stessi. Chiudono con i genitori che rappresentano il potere per poi utilizzare le loro economie. Michele Apicella, due anni prima il rapimento Moro, è uomo del suo tempo. Sfrontato, quasi villano, irriverente e incapace di essere marito e padre. Vive tra le nuvole della sua immaginazione, cullandosi in un realismo che non gli appartiene, vivendo, consapevole, un perfetto egoismo. Casa. Cucina. Michele in piedi, Silvia, la moglie, seduta. “Insomma Silvia sono giovane, sono ancora giovane… tu pure sei giovane… quanti anni hai? Mannaggia non me lo ricordo mai. Devo lavorare per vivere, come faccio a mantenere il bambino, che faccio… mi metto a lavorare? Faccio i piatti… i letti… da mangiare? Ma perché ci siamo sposati? Mica mi ricordo perché… sì lo so… no non lo so”. Una fotografia della famiglia che stava per nascere in quegli anni dove la convivenza tradizionale dei padri e dei nonni era stata completamente stravolta. C’è il trionfo dell’io, senza passi o salti verso l’altro. Dove finisce la mia mente e dove inizia il resto del mondo? si chiedono due filosofi americani Andy Clark e David Chalmers. Per Michele Apicella il resto del mondo non inizia mai. Almeno mentalmente. Perché fisicamente c’è, c’è sempre stato e ruota intorno al

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proprio egoismo. La scatola nera del protagonista de Io sono un autarchico incorpora solo necessità, piaceri, tutto quello che gli permette di vivere lo stupore mentale del nuovo e del diverso. È un figlio viziato della generazione che ha vissuto la guerra, non conosce drammi, se non teoricamente, ed evita tutti i problemi, dal matrimonio alla responsabilità di dover crescere un figlio. Il mondo fuori dalla sua mente diventa interessante soltanto quando è in grado di soddisfare il proprio io. Via libera quindi a spettacoli, divertimenti ecc. Spiaggia. Michele in silenzio ammirando il mare. Arriva Fabio. - Che c’è? - Il mare. - Hai visto? Andiamo. - Mmmh. Anche quando il mondo mette in mostra lo spettacolo delle onde del mare che si battono sulla spiaggia Michele, con l’aiuto del suo amico, non si lascia prendere emotivamente più di tanto. Quel suono naturale così esaltante potrebbe distoglierlo dal prepotente cammino solitario che ha deciso di intraprendere. È spinto in più direzioni ma non vuole prendere quella che lo porterebbe a vivere con gli altri in una società che disprezza. “Io non parlo di cose che non conosco” sentenzia in un film degli anni successivi. Per poi cambiare immediatamente idea: “va bene andiamo”, dice rispondendo a un amico che lo invita ad andare in un posto bellissimo.

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Io sono un autarchico (1976) Regia e sceneggiatura: Nanni Moretti Musiche: Franco Piersanti Interpreti: Luciano Agati: Giuseppe Lorenza Codignola: Valentina Simona Frosi: Silvia Nanni Moretti: Michele Beniamino Placido: critico teatrale Andrea Pozzi: Andrea durata: 95 minuti Costato appena 3 milioni e settecentomila lire e interpretato da attori non professionisti (amici, parenti, intellettuali), è il primo lungometraggio di Moretti, girato in Super8 e in tre mesi a Roma. Più per limiti tecnici che per scelta stilistica, è quasi interamente composto da riprese a camera fissa e da sequenze che per lo più si esauriscono in un’unica inquadratura. Il film è interamente doppiato.

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7. Il girotondo Nel 1993, l’anno dopo, il Paese sembra riprendersi. Ciampi diventa presidente del Consiglio, Totò Riina capo di Cosa Nostra viene arrestato dopo 24 anni di latitanza, la Democrezia Cristiana dopo la valanga tangentopoli si scioglie ufficialmente e il democratico Bill Clinton è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Sembra un anno di speranze. Non c’è posto per Michele Apicella. Per nessuno degli Apicella. Infatti il regista Moretti lo accantona ed entra in campo in prima persona con Caro diario. Tre episodi che raccontano tre stati d’animo e, questa volta, senza metafore o rappresentazioni. Una sorta di diario aperto. C’è in questo film la voglia e il desiderio di parlare nuovamente del proprio io, ma senza gabbie narrative. Il teatro della sua mente si svela senza palcoscenico. E lo fa per tre volte. Tre momenti personali. Il primo episodio In vespa racconta le passeggiate estive di Nanni tra i quartieri di una Roma semideserta. Le bellezze della città e le sue riflessioni come in un girotondo fanciullesco. “Mi piace vedere le case e i quartieri e il quartiere che mi piace di più è la Garbatella… me ne vado in giro tra i lotti popolari. Non mi piace solo vedere le case dall’esterno, a volte mi piace vedere come sono fatte dentro e allora suono un citofono e faccio finta di fare un sopralluogo e dico che sto preparando un film. Il padrone

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Giovanni Scipioni

NANNI MORETTI immaginI e speranze di una generazione © Edizioni Falsopiano via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri Per l’immagine in copertina: Nanni Moretti, Aprile (1998) In seconda di copertina: Nanni Moretti e Margherita Buy, Tre Piani (2021) In terza di copertina: Nanni Moretti, Tre Piani (2021) Prima edizione - Novembre 2021


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