I Gattopardi e le Iene. Splendori (pochi) e miserie (tante) del cinema italiano oggi

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FALSOPIANO

CINEMA


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a mamma e papĂ , che dormono, dormono, dormono sulla collina, ma che sognano nel mio cuore a Franco La Polla, che mi ha insegnato la via e che lassĂš starĂ di certo parlando di cinema con il suo amico Sydney


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EDIZIONI

FALSOPIANO

Claver Salizzato

I GATTOPARDI LE IENE

&

Splendori (pochi) Miserie (tante) del Cinema italiano oggi


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Š Edizioni Falsopiano - 2012 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini Stampa: Atena - Vicenza Prima edizione - Dicembre 2012


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INDICE

Qu’est-ce que le cinéma?

p. 9

C’era una volta... il cinema

p. 35

Film & Cinema italiano 2001/11e oltre...

p. 35

Hors-d’oeuvre

p. 47

Atto I. Scena 1- Gli esordi

p. 57

Atto II. Scena 2 - La politica degli autori: i Gattopardi

p. 75

Atto III. Scena 3 - La politica dei soldi: le Iene

p. 97

Atto IV. Scena 4 - La “scuola” Muccino

p. 109

Atto V. Scena 5 - La “fattoria” Avati

p. 117

Dessert

p. 123

È nata una star?

p. 127

Maschi-contro-femmine

p. 141

Femmine-contro-maschi

p. 150

Ipse Dixit ovvero il cinema italiano d’oggidì in poche parole

p. 159

Ringraziamenti

p. 184

Nota bibliografica

p. 186


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QU’EST-CE QUE LE CINéMA? Innanzitutto e per cominciare, appunto: che cosa è il cinema? Nel corso della sua più che centenaria ed avventurosa storia, il termine con cui si è sempre denominato tale mezzo tecnico di riproduzione della realtà in movimento, messo a punto (benché non inventato) dai fratelli Lumière nella storica proiezione parigina del 28 dicembre 1895, è sempre stato ampiamente usato (ed abusato) da studiosi, storici, semiologi, critici, autori registi e maestranze varie e, non da ultimo, spettatori, in modo così onnicomprensivo ed alquanto ambiguo (se pensiamo che con “cinema” si può intendere anche, nel linguaggio corrente, la sala dove vengono proiettati i film), da risultare poi, alla fine, quasi destituito di un proprio senso specifico. Se tutto può essere cinema, in fondo, niente è davvero cinema. O anche, alla Godard, il cinema non è altro che... il cinema. E con ciò torniamo al punto di partenza. Qualcuno lo ha raccontato come “L’occhio interminabile” che, incessantemente, e con modalità simili, ma ben superiori ed affatto diverse dalle arti figurative, vede, elabora e ricrea in uno spazio ideale il mondo reale (Jacques Aumont, storico del cinema e studioso dei suoi stretti rapporti con la pittura, nell’omonimo libro Marsilio editori, Venezia, 1991). Qualcun altro ha scritto: “Creato inizialmente per riprodurre la realtà, il cinema è diventato grande ogni volta che è riuscito a superare tale realtà pur appoggiandosi su di essa, ogni volta che ha potuto rendere plausibili avvenimenti strani o esseri bizzarri, stabilendo in tal modo gli elementi di una mitologia in immagini” (François Truffaut, nel suo libro Il piace9


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re degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988). Altri ancora ne hanno dato una visione prevalentemente “meccanica”, stabilendo che: “Il cinema non è che fotografia perfezionata. Il perfezionamento consiste nel fatto che con l’aiuto di un apparecchio cinematografico si possono fotografare gli oggetti non soltanto in stato di immobilità, ma anche di movimento. Questo perfezionamento tecnico determina tutte le possibilità ulteriori del cinema” (Osip Brik, ne I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano, 1979). Alcuni, infine, hanno dibattuto indifferentemente di “cinema” e “film” come se si trattasse dello stesso argomento e l’uno fosse sinonimo dell’altro, mentre molti hanno fatto confluire nella “pratica” quotidiana, lasciando unicamente ad essa di testimoniare, questo, ormai divenuto negli anni, “grande segreto”. Finché... André Bazin, critico, saggista, fondatore della prestigiosa rivista Cahiers du Cinéma, padre nobile della Nuovelle Vague francese, oltre che di uno dei suoi uomini e cineasti più rappresentativi (quello stesso Truffaut per il quale, abbiamo visto, il cinema istituisce gli elementi di una mitologia in immagini), e cui si deve per primo la manifestazione del quesito (che difatti fornisce il titolo all’omonima raccolta di suoi scritti, pubblicata in Italia dall’editore Garzanti di Milano nell’agosto 1973), non prova davvero a rispondere, alla vigilia degli anni ’60, che tanto muteranno la concezione ed insieme la percezione del cinema in tutto il mondo, approfondendo la riflessione sui temi dell’”Ontologia dell’immagine fotografica” e, successivamente, e conseguentemente, del “Linguaggio”. Ovvero, da una parte, del “discorso sull’essere” del cinema stesso, e, dall’al10


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tra, dei suoi modelli espressivi: la sua etica e la sua estetica. Riferendosi ad un’asserzione di André Malraux (in un pezzo sulla rivista Verve, Esquisse d’un psychologie du cinéma, del 1939) secondo cui “il cinema non è che l’aspetto più evoluto del realismo plastico il cui principio è apparso verso il Rinascimento e ha trovato l’espressione limite nella pittura barocca”, Bazin giunge a dire, passando attraverso il discorso sulla pittura e la fotografia quali arti tecniche per eccellenza di riproduzione della “natura”, che: “Il mito direttore dell’invenzione del cinema è dunque il compimento di quello che domina confusamente tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX secolo, dalla fotografia al fonografo. È quello del realismo integrale, di una ricreazione del mondo a sua immagine, un’immagine sulla quale non pesasse l’ipoteca della libertà d’interpretazione dell’artista né l’irreversibilità del tempo” (op. cit.). In virtù di tali argomentazioni (ma anche di tante altre su cui non ci dilunghiamo ulteriormente sia per brevità, sia perché costituiscono soltanto en passant l’oggetto della nostra indagine) sulla ontologia (il discorso sull’essere) dell’immagine cinematografica, e sul suo dispiegarsi in lingua, Bazin pone le basi per dare una risposta alla questione da cui siamo partiti. Per dirci, in definitiva, che “il Cinema è”... Un sistema complesso e molteplice di segni e significati, per mezzo del quale si tramette e si duplica l’immagine in divenire di una determinata società e umanità, stabilendone, come già in Truffaut, “gli elementi di una mitologia”. Sistema che, nella sua prassi, diviene “cinematografia” - ovvero l’insieme di un’industria cinematografica nazionale - e “film” 11


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- ovvero un racconto narrato mediante e all’interno di un determinato sistema cinemagrafico e dei suoi mezzi e linguaggi. Da ciò ne consegue che fra “Cinema” e “Film” intercorre lo stesso rapporto che i semiologi fanno intercorrere fra “langue” e “parola”, ovvero fra l’insieme e la parte, il sistema e le sue individuali manifestazioni. Mentre il significato di una “Cinematografia” dipende tutto dalla consistenza e dallo spessore che possiede, in quel contesto, in quel momento storico, in quella situazione culturale e/o puramente esistenziale, il “Cinema” cui essa fa capo. Sarà utile, a questo punto, proprio perché ci servirà nella prosecuzione e nell’esposizione dei temi essenziali del presente saggio, chiarire e tenere bene a mente che l’affermazione di poco fa secondo la quale il cinema è il sistema e i film ne sono gli atti individuali (e personali), vuol significare soltanto che il cinema, cioè il sistema, vive nella realtà dei film, ovvero negli atti posti in essere secondo la storicità per la quale esso si determina; e che i film, cioè gli atti, a loro volta sono possibili in quanto esiste il cinema, ovvero il sistema definito nella sua storicità. Utile perché tale ragionamento porta alla conclusione, abbastanza logica, benché teorica, che non si può dare cinema senza film (e non si può dare cinematografia senza cinema, sebbene i due termini vengano spesso omologati al medesimo significato, non lo hanno, come abbiamo dimostrato), e, d’altronde, e di conseguenza, non si può dare film senza cinema. O, per meglio dire, il film senza il cinema, pur possibile, diventa soltanto una testimonianza a sé stante, la parte di un tutto mancante che non può e non potrà mai incidere se non su se stessa ed il cui lascito è destinato ad esaurirsi al proprio interno e ad essere 12


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sterilmente autoreferenziale. Ebbene, se Bazin dice il vero e il significato del “Cinema” che cercavamo è questo, con tutti i suoi corollari, come inquadrare in tutto ciò, a questo punto, la vicenda della cinematografia di casa nostra? E come leggerla e classificarla complessivamente alla luce di tale assunto? Bisogna dire intanto che, da questo punto di vista, nel rapporto “Cinema/Film”, il nostro Paese, nella sua storia filmografica, non è mai stato molto lontano da posizioni di eccellenza, anche rispetto a cinematografie industrialmente e tecnologicamente, oltre che culturalmente, più composite, ricche e stratificate, come ad esempio quella americana. Che, anzi, in molti periodi della storia del nostro cinema e fin dalle origini, spesso l’Italia è stata guardata con invidia, con cupidigia, con apprezzamento, come si guarda ad una maestria da cui imparare, da seguire con attenzione, ammirare e, possibilmente, emulare o, addirittura, contrastare sul piano della qualità. Valga, tanto per iniziare, il caso eclatante di Cabiria (1914), Piero Fosco alias Giovanni Pastrone alla regia (che allora si chiamava direzione artistica), ed il sommo poeta Gabriele D’Annunzio alla partitura narrativa. Il film, intanto, esce da un momento molto prolifico e, sia industrialmente, sia artisticamente e di popolarità, tra i più felici del nostro passato: c’era stato, qualche anno prima, nel 1912, il vero e proprio exploit di Quo Vadis? di Enrico Guazzoni, prodotto da una major come la Cines, che aveva portato a casa incassi da record, senza contare le incredibili vendite estere ammontanti a somme da capogiro come i 150 mila dollari negli Stati Uniti (sì, avete capito bene, proprio nella patria del cinema con la “C” maiuscola), le 8.000 sterline in Gran 13


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Bretagna, i 200 mila marchi in Germania, i 35 mila franchi in Belgio; ma, sotto la punta dell’iceberg, c’era un intero sistema Cinema che sbuffava e stantuffava su rotaie ben oliate a tutta velocità. Cabiria, prodotto dalla Itala, quindi, trae dal “sistema” tutta la sua forza e gliela restituisce in termini di innovazione, progresso tecnico, drammaturgico, registico e poetico. È in questo film che Pastrone utilizza per la prima volta nella storia del cinema mondiale un accorgimento tecnico e stilistico che finirà poi per farla la storia del cinema mondiale: il carrello o travelling, che permette alla macchina da presa lo spostamento nello spazio filmico e quindi la ridefizione ed una nuova dimensionalità (la ricerca della profondità di campo e della mitica terza dimensione) dello spazio filmico stesso. Un’invenzione brevettata poco tempo prima dal previdente regista, che così la racconta testualmente: La mia invenzione non si limitava a piazzare la macchina da presa su un carrello mobile. Questo lo aveva già fatto in studio Méliès col suo Homme à la tete de caoutchouc. Ma lui avvicinava la macchina diritto sull’attore, la cui testa pareva gonfiarsi e sgonfiarsi come un pallone. Erano movimenti che tra l’altro comportavano delicate operazioni di messa a fuoco. Col mio carrello questa messa a fuoco si faceva quasi automaticamente, dall’esterno, ma soprattutto, e questo era specificato nei miei brevetti, i movimenti di macchina erano impiegati a creare effetti stereoscopici (...) Nel 1913 potei quindi far uso del carrello per Cabiria con due scopi ben precisi: far capire agli spettatori che le mie scenografie erano vere, e non le semplici tele dipinte di Méliès o Pathé; conservare 14


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l’effetto stereoscopico ottenuto muovendo la macchina obliquamente rispetto agli attori. Riuscii così a isolare singoli personaggi nella folla, facendoli poi risaltare via via in primo piano. Ogni battere di palpebra, ogni minima contrazione del viso cominciò ad avere il suo peso: cosa che non si era ancora vista in teatro, né in pittura, né in letteratura o qualsiasi altro genere artistico. (in Georges Sadoul, Storia generale del cinema, Einaudi, Torino, 1967) Il carrello di Pastrone e del suo direttore della fotografia, nonché datore luci e curatore delle riprese con i modellini, Segundo de Chomon, “sarà forse stato utilizzato agli stessi fini da qualche altro pioniere che un giorno sarà scoperto dagli storici.” fa notare sempre Sadoul, avvertendo che “Un brevetto non costituisce sempre una prova di priorità”, ma, puntualizza, “Pastrone fu tuttavia il primo ad impiegarlo in un modo che ritroviamo nella tecnica moderna, con traiettorie rettilinee o sinuose, parallele alla scenografia, in avanti o all’indietro: movimenti, questi ultimi, usati appunto per disperdere o isolare i protagonisti nella folla.” (op. cit.). Il che combacia esattamente con ciò che dicevamo più sopra parlando, con le parole di Bazin, di “Cinema” come ontologia e linguaggio, come “etica” ed “estetica” ed “etica” che crea un’”estetica”. O, con le parole di Truffaut, di “Cinema” che stabilisce gli elementi di una “mitologia in immagini”. Ovvero ancora, in sintesi, di un sistema che rende possibile il film e di un film che giustifica e consolida il sistema. È necessario ricordare, poi, che la pellicola di 15


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Pastrone (certamente una delle vette produttive e stilistiche dell’epoca, ma non isolata e non la sola, all’interno del contesto cinematografico nazionale), nel suo fortunato ed acclamato tour di proiezioni negli Stati Uniti, vive un episodio assai curioso e quanto mai controverso: al termine di una di queste (cui, pare, fosse presente uno dei primi grandi tycoons della neonata Hollywood, destinato a scriverne indelebilmente la Storia, David Wark Griffith), al momento di stivare il materiale, ci si accorge che mancano al film due rulli (pare - è già la seconda volta che usiamo questo termine, ma il dubbio è d’obbligo in una vicenda che assomiglia più ad un gossip che ad un episodio storico - gli ultimi due, cioè proprio quelli relativi all’uso del carrello), la cui ricerca risulta del tutto infruttuosa e della cui scomparsa, o smarrimento (non è poi tanto facile “smarrire” due belle pizze, grosse e pesanti, di un film), che dir si voglia data la mancanza di testimonianze certe, nessuno saprà mai spiegarsi i motivi, le ragioni, il fine ultimo. Si può solo pensar male (che è certo un peccato, ma che spesso ci si azzecca) ragionando sul fatto che, proprio in quel periodo, guarda caso, il nostro Griffith stava lavorando al kolossal dei kolossal, Intolerance, che lo avrebbe messo in ginocchio, ma che avrebbe nel contempo lasciato al cinema internazionale uno dei suoi più limpidi capolavori. E che Griffith era non poco interessato alle tanto sbandierate innovazioni tecniche e poetiche introdotte dall’opera di Pastrone. Il regista americano non verrà mai trovato con la pistola fumante in mano, ma l’ombra del sospetto non scomparirà mai dalla sua fedina artistica. La vicenda, sebbene, ripetiamo, sia qualcosa di più vicino alla maldicenza, poi trasformatasi tra i 16


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cinéphile in una sorta di leggenda metropolitana, però la dice lunga sulla potenza del nostro cinema, del nostro “modello produttivo”, della nostra industria (bisogna sempre andarci molto cauti a parlar d’industria cinematografica in Italia, dato che nel nostro Paese ha sempre, piuttosto, governato l’estemporaneità artistica degli “autori”, o la rapacità dei faccendieri e dei mercanti, che, molto spesso, in tempi di vacche grasse, si è tuttavia rivelata un ottimo succedaneo ad un sistema industriale consolidato) e, possiamo ben dirlo con orgoglio, della nostra arte. E possiamo anche dire, a mo’ di parziale scusante e risarcimento storico per ciò che sarebbe avvenuto in futuro, che la nostra delle origini, la nostra del periodo muto, era una delle cinematografie più significative ed importanti, non solo d’Europa, ma del mondo e che era fondata su un italian movie system di tutto rispetto ancor prima che i sobborghi di Los Angeles diventassero il capolinea obbligato della nascente settima arte e che sulla collina di Beverly Hills piantassero le fatidiche dodici gigantesche lettere della scritta HOLLYWOOLAND. E che se a brevissimo, dopo Cabiria, le masse europee si fossero dedicate allo sviluppo del loro reciproco benessere, piuttosto che gettarsi a capofitto nell’impresa, sempre matrigna di figli devoti e greve di emuli ed entusiasti neofiti, di massacrarsi a vicenda usando tutte le armi di distruzione di massa a loro disposizione al momento, poi denominata dagli storici come Prima Guerra Mondiale o anche Grande Guerra, molto probabilmente i nostri “direttori” (come si chiamavano allora), i nostri tecnici, le nostre strutture e, di nuovo, il nostro sistema, con i suoi film, avrebbe certamente potuto insegnare a fare il cinema 17


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a più di qualcuno in giro per il globo terracqueo. Però, ed il grande imperatore Napoleone I Bonaparte è lì a ricordarcelo ad imperitura memoria con la sua quasi vittoria e di fatto sconfitta sui campi di Waterloo, dato che la Storia non si fa con i “se” o con i “ma”, il 24 maggio del 1915 l’Italia decide, con una delle solite giravolte che ne hanno sempre caratterizzato e sempre ne caratterizzeranno la politica estera, di sacrificare qualche milione di propri amatissimi figli sul tavolo del conflitto generalizzato e dichiara guerra ai propri ex alleati. Per guadagnarci, dopo la bellezza di quasi quattro anni in trincea, qualche banale fazzoletto di terra, e perderci tutto il resto. E, in mezzo a tutto il resto, una florida cinematografia destinata probabilmente, in caso contrario, ad influenzare e permeare di sé la cultura di un intero secolo. Basti dire che durante quei quattro anni di ordinaria follia, il cinema americano (gli USA come sappiamo vengono coinvolti nella carneficina soltanto di sguincio e, come al solito, per cavarci la patata bollente di mano) non solo si assesta e si consolida, ma diventa il primo del mondo. Nasce e si afferma la “mitologia in immagini” (ancora Truffaut) di Hollywood, da cui, d’ora in poi, sarà alquanto difficile prescindere. Alla ricerca di un nuovo “Cinema”, di un nuovo “contenitore” di segni e di senso per i propri film, di una nuova risposta al vecchio, immutabile ed ineludibile, rebus contenuto nel turandotiano quesito “Che cosa è il cinema?”, l’Italia approda, con l’avvento, quasi contemporaneo alla pacificazione generale, dello statalismo, dirigismo e centralismo fascista (la cui indole, come in tutte le dittature che si rispettino, come stava succedendo nella Russia dei 18


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Soviet e come sarebbe successo nella Germania del Reich millenario, sarà sempre e inevitabilmente quella di usare il cinema a fini propagandistici), alle sponde dei finanziamenti e del controllo, politicoculturale, governativi. Se da una parte nasce il Ministero della Cultura popolare (che, abbreviato per maggior praticità, suona comicamente, futuristicamente, Minculpop), dall’altra non ci mette tanto a farsi strada l’idea che, in mancanza di una televisione di Stato con i cui messaggi poter indottrinare il popolo (cosa che succederà a suo tempo), il “Cinema” sia l’arte più potente del momento, in questo senso. Così, appena possibile, viene istituita la famosa Direzione Generale della cinematografia (istituzione che, valicando le ere, anche politiche, oltre che storiche, sopravvive tuttora presso il nostro attuale Ministero dei Beni culturali con la denominazione, certo meno pomposa, ma fotocopiata, di Direzione Generale del Cinema, che, come la sua antenata, ha il medesimo scopo di distribuire al cosiddetto mercato produttivo interno contributi ed “onori” - in termini di qualifiche d’Interesse Culturale - e di indirizzare, con ciò, anche qui né più e né meno della sua antenata, in maniera assai invasiva, l’intera produzione cinematografica italiana verso orizzonti ben prestabiliti dalla politica e dal potere imperanti; ma questo è un’altra storia e la affronteremo a tempo debito). E così, in men che non si dica, Luigi Freddi, il capostipite di un’intera genìa di Direttori Generali che faranno il bello e il cattivo tempo del cinema nostrano nei secoli dei secoli, di ritorno da un viaggio a Hollywood che lo ha ammaliato, come Sherazade il Sultano, convince il Duce Mussolini a fondare, su quell’esempio vincente, la Fabbrica del Cinema de 19


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noantri sulle rive del Tevere: Cinecittà. Benché Oreste del Buono e Lietta Tornabuoni, nel loro documentatissimo libro intitolato appunto Era Cinecittà. Vita, morte e miracoli di una fabbrica di film (Almanacco Bompiani, Milano, 1979), facciano notare che: “Cinecittà è nata dai palazzinari”, dicono: le due sole industrie di Roma, quella labile del cinema, quella torva dell’edilizia e della speculazione sui terreni, s’intrecciano all’origine della fabbrica dei film” (op. cit.), e benché, ancora, ribadiscano più avanti che Cinecittà, più che a Hollywood, somigli “negli anni del fascismo al centro di produzione cinematografica statale d’un piccolo paese di dittatura latino-americana o mediorientale o di monarchia asiatica” (ibidem), non si può fare a meno di considerare che, con quest’opera, edilizia e culturale, il cinema nazionale abbia trovato di nuovo un punto d’appoggio, abbia costituito di nuovo, dopo i fasti malamente rovinati del periodo anteguerra, una struttura, una “fabbrica”, appunto, dalla quale far sgorgare, come acque sorgive, fresche e rigeneranti, i film che la dovranno rendere sempre più ricca e autorevole. Oltre a tutto, il Regime (come non riuscirà a fare, molto dopo il ventennio, alcun governo dell’Italia repubblicana, né di destra, né di centro e, meno che mai, di sinistra - quasi sempre per la cinica e calcolata scelta politica di non possedere un forte apparato cinematografico e quindi una forte cinematografia, in grado di elevare la coscienza culturale, immaginifica, del Paese), contemporaneamente promulga una serie di leggi protezionistiche come quella che, nel 1938 (Cinecittà ha poco più di un paio d’anni), impegna le sale cinematografiche alla proiezione obbligatoria di pellicole italiane, o quella che, circa tre anni dopo, sottopone a regime di 20


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monopolio statale l’importazione di film stranieri (tanto che, per protesta e ritorsione, majors prestigiose come Metro Goldwyn, Twentieth, Paramount e Warner, tutto il meglio del cinema americano, si ritirano dal mercato), permettendo così al cinema italiano di crescere e moltiplicarsi. Sì, è vero che questa è la strada obbrobriosa, un po’ infame, dell’autarchia, la strada che porta fuori dal mercato e che isola dal consesso dei liberi e della circolazione delle idee, la strada, infine, che porterà il Paese alla rovina (e, ahinoi, ben più tremenda di un film in più o in meno in un cinema più o meno florido), ma va riconosciuto, da osservatori e storici obiettivi e non partigiani di un’ideologia, da qualsiasi parte essa provenga, che il Ventennio fascista è stato uno dei più fulgidi periodi della macchina “Cinema” italiana. Uno dei pochi per i quali si possa parlare di industrializzazione cinematografica nella Storia della nostra Nazione e uno dei pochi in cui lo sviluppo e l’importanza educativo-culturale del film, il suo valore artistico, vengono riconosciuti universalmente attraverso premi prestigiosi e festival dedicati tra i quali quello che diventerà, negli anni, il secondo, per importanza, nel mondo, secondo solo a Cannes: la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, per la cui direzione ancora oggi in molti, critici altrimenti seri e paludati, studiosi con una carriera più che onorevole sulle spalle, cinefili d’alto bordo e d’alto lignaggio e via dicendo, non si fanno problemi di accapigliarsi con tutto lo stile che compete ai loro pedigree. Nell’arco di quei vent’anni di dittatura, dura ed iniqua come tutte le dittature, a Cinecittà si producono film come La Corona di Ferro (1940) di Alessandro Blasetti (sfido chiunque a trovare, nel 21


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corso della storia del cinema italiano futuro un’altra “impresa” come questa, ed allora di queste “imprese” se ne mettevano in cantiere parecchie), crescono e si affermano registi come Carmine Gallone, Mario Camerini, Renato Castellani, Raffaello Matarazzo, Mario Soldati, Roberto Rossellini, e l’elenco potrebbe essere ancora molto lungo e altrettanto “tonante”, si sviluppano quadri tecnici e manageriali che, nel secondo dopoguerra, verranno apprezzati perfino dai grandi di Hollywood. Come premettevamo, “Etica” ed “Estetica”. Come premettevamo, “mitologia in immagini”. La sintesi del “Cinema” e del suo farsi “Film”. Basterebbe citare, su tutto, la vicenda artistica, professionale, intellettuale, del già nominato Blasetti, dimenticata o meglio, occultata, sottovalutata, negata e talvolta denigrata per motivi prettamente politici da gran parte di una certa cricca di critici di sinistra dalla morale pelosa, che, nel 1929, con il suo primo film, Sole, immediatamente salutato dai suoi contemporanei come l’opera che apre la strada non tanto ad una rinascita (la guerra, ricordiamo, è finita solo da un decennio), ma addirittura al (parole di Alberto Cecchi su L’Italia Letteraria del 23 giugno 1929) “Rinascimento del cinema italiano”, prende per mano la disastrata cinematografia nazionale e le insegna “che cosa è...”. “Papà” Blasetti (mi piace rievocare questo sentito appellativo con il quale si rivolgeva a lui Gian Luigi Rondi, forse il solo che, in tempi non sospetti, ne abbia studiato, conservato e tramandato la memoria e l’eccellenza) insegna a fare il cinema storico-mitologico, d’impegno sociale, di commedia (sofisticata e popolare), di cappa e spada, di melodramma, d’autore e d’intrattenimento, industriale ed artistico, così come si conviene ad un 22


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“sistema” adulto che funzioni e sia produttivo di idee, talenti, professionalità, diversità e, naturalmente, film (insegnerà perfino, superata Cinecittà, e mantenendo il proprio magistero, a fare il cinema in televisione o la televisione come se fosse il proseguimento, il superamento, la nuova frontiera, del cinema - cosa che, di fatto, succederà e poi sarà lentamente la fine - ma anche questa è un’altra storia). Blasetti è l’incarnazione di Cinecittà (tanto è vero che quando in Una vita difficile, di Dino Risi, 1964, uno dei picchi più alti della commedia italian style, il personaggio di Alberto Sordi entra a Cinecittà alla ricerca della famosa diva Silvana Mangano per proporle il proprio sudatissimo copione, capita proprio su un mastodontico set di...Blasetti; e tanto è vero che quando Luchino Visconti, nel 1951, con Bellissima, deciderà di raccontare la storia un po’ grottesca, molto cinica ed amara di una madre che spera, con un provino a Cinecittà, di aprire le porte del successo alla sua bambina, il regista scelto per interpretare se stesso in quel ruolo, sarà sempre Blasetti). E Cinecittà, a propria volta, è, e lo resterà per molto tempo ancora, dopo il fascismo, l’incarnazione del “Cinema” italiano. Creatori entrambi, l’uno attraverso l’altra e viceversa, l’uno per mezzo dell’altra e viceversa, di senso e stile, di “Etica”, come essenza e natura della cosa in sé, ed “Estetica”, ossia il suo modello espressivo. In sintesi, la risposta vivente a quel nostro quesito. Ma anche qui, di nuovo, arriva una guerra ad imbrogliare carte, uomini e destini progressivi, non già e non tanto di una cinematografia, che sarebbe il meno, ma di una Nazione e di un popolo. La seconda in vent’anni. Di nuovo il “sistema” italiano, in un momento in 23


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cui sembra aver trovato una propria ragione ed una propria collocazione, una propria “mitologia in immagini”, necessariamente costretto a cedere il passo di fronte ad eventi più grandi di lui, barcolla e s’inceppa. Non che, durante il conflitto lungo cinque anni, costellati di massacri ancor più efferati dei precedenti e chiosato da un genocidio, non si sia fatto del cinema (o meglio, dovremmo dire dei film) sparso: dovremmo citare per lo meno il tentativo di spostare Cinecittà a Venezia, durante tutto l’ultimo atto prima della calata sanguinosa del sipario sul regime, dal ’43 al ’45, gli anni della Repubblica di Salò, presso una ex fabbrica di birra all’isola della Giudecca, che produce qualche sparuta pellicola di Luigi Chiarini (La locandiera, 1943/45), di Giorgio Pastina (Enrico IV, 1944) e soprattutto di Federico De Robertis (Uomini e cieli, 1943/45), con attori come la coppia maudit Valenti-Ferida, o Doris Duranti, Gino Cervi, Germana Paolieri ed altri che avevano aderito, in pochi e non tra i più famosi, al trasferimento da Roma. E di film sparsi, comunque, si tratta, non certo di una primavera, forse nemmeno di un volo di rondini. Pur tuttavia il “sistema” che barcolla e s’inceppa, qualche radice nel passato, comunque, l’ha messa ed ha ancora, nella manica, qualche asso da far valere, qualche ingranaggio della vecchia “fabbrica” da rimettere in circolo. Così getta sul tavolo la carta di Roma città aperta (1943/45) di Roberto Rossellini. Il cinema è morto. Viva il cinema! E così trova il modo di inaugurare e di battezzare una nuova stagione, un nuovo impianto artistico, un nuovo assetto industriale (è una bella favola quella dei film neorealisti a prezzi stracciati, con attori presi dalla strada, mezzi insufficienti e rimediati, set all’a24


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ria aperta fuori dai teatri, ma rimane pur sempre una favola se uno come Carlo Lizzani che, oltre ad esserne uno storico di indiscussa competenza ed affidabilità, ne è anche uno degli autori - perché d’ora in poi questo termine sostituirà sempre più spesso quello di “regista”, fateci caso - di punta, può affermare a posteriori sul Contemporaneo del giugno 1961 “Non c’è un solo film del movimento neorealista (...) che non sia stato prodotto a prezzi industriali e secondo schemi produttivi normali, o addirittura di economia allegra”, il corsivo è di Lizzani stesso; e se è vero, come è vero, che proprio Roma città aperta schiera fra i suoi protagonisti attori del calibro di Anna Magnani e Aldo Fabrizi). Una nuova “Etica” ed una nuova “Estetica”, insomma un nuovo modo di fare e pensare il Cinema. Il cosiddetto “neorealismo”, termine coniato dai critici stranieri dopo la vittoria di Rossellini a Cannes nel 1946, non durerà poi molto (pochi anni, non più in là del 1950/51), ma costituirà l’ossatura, il dna della cinematografia nazionale a venire, almeno fino alla crisi, ai ponti bruciati alle spalle e alla contestazione contro i “padri” degli anni ’60. Rossellini, De Sica, Visconti che, a onor del vero, esordiscono e si affermano (De Sica solo come attore) nel corso del cupio dissolvi fascista, diventeranno comunque, con il loro insegnamento, i loro film, la loro influenza culturale, la base su cui si svilupperà tutto il prossimo edificio cinematografico nazionale, fuori e poi di nuovo dentro la “fabbrica dei sogni” ed il modo di produzione di Cinecittà, che di lì a poco tornerà, come dice quella famosa battuta di Petrolini, “più bella e più grande che prìa”. La loro triade, con titoli come il già citato Roma città aperta o Paisà, Ladri di biciclette o Miracolo a Milano, La terra trema o Bellissima, sarà per il nostro “sistema”, 25


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inteso nel senso che abbiamo dato finora al termine, in quanto significato della domanda baziniana, la pietra miliare di tutte le strade. Da qui si dirameranno generi, filoni, tendenze, esperimenti ed innovazioni che rendono forte e danno sostanza ad una cinematografia, sia dal punto di vista artistico che commerciale e le permettono di realizzare opere e prodotti dell’ingegno che, a loro volta, in una maniera o in un’altra, la arricchiscono, la maturano e la perpetuano. Dalle costole del neorealismo, ad esempio, nascono la sua versione rosa e quella del feuilleton popolare (da una parte Castellani con film come Due soldi di speranza o Sotto il sole di Roma, dall’altra la vecchia scuola di Matarazzo riveduta e corretta con tutta la serie di melò targati Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson). E poi, come in una partenogenesi cellulare, compaiono le varianti della commedia (che proprio negli anni ’50 mette a fuoco tutte le sue potenzialità artistiche, pronta a diventare, attraversando il comico, la farsa, la commedia di costume, la grande “commedia italiana” del prossimo decennio, e a dare ai patrii schermi alcuni tra i più grandi capolavori del cinema internazionale, riconosciuti in festival e premi prestigiosi), dei “generi” (il cui avvento ha reso imbattibile il cinema hollywoodiano fra gli anni ’30 e ’40), dallo storico-mitologico di mai sopita memoria, all’opera lirica... E così via. Sono anni, quelli dallo stentato e disastroso secondo dopoguerra con il Paese semidistrutto e in ginocchio, a tutti i ’50, fino alle soglie dei ’60, nel corso dei quali la macchina cinematografica italiana fa ciò, ed è, come non mai, ciò che per sua “essenza” deve fare e deve essere: produce e ri-produce quegli 26


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“atti individuali” che si chiamano film, soggetti, storie, movimenti artistici (pensiamo soltanto, per comparazione, a cosa è la nostra letteratura in quei medesimi anni - Pavese, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Pasolini, Flaiano, tanto per fare qualche nome alla rinfusa - e quanti scrittori, poi, siano direttamente coinvolti nella progettualità e nella pratica quotidiana del far cinema, fino a passare addirittura, nel caso di Pasolini, dietro la macchina da presa per andare poi a realizzare fra le più specchiate opere d’arte in motion picture del secolo). Non parliamo, naturalmente, di soldi, incassi, risultati al botteghino, tutt’altro, parliamo di pellicole ed autori che, tutti insieme ed ognuno per la propria parte e sensibilità, formazione culturale ed immaginario, ognuno per sé si potrebbe dire, concorrono alla formazione e composizione di ciò che Francesco Pasinetti, indimenticato cineasta, critico cinematografico, fotografo e fine intellettuale veneziano (che la Mostra d’Arte cinematografica di Venezia ricorda perennemente con una sala ed un premio a lui dedicati) ci insegnava, nei suoi scritti, essere il fine più nobile di una cinematografia, una “coscienza collettiva”. Parliamo di un “sistema” Cinema che, ancora oggi, è oggetto di studi, approfondimenti, analisi, scritti e conferenze, nei più prestigiosi atenei d’America, ad esempio, dove il Cinema lo considerano davvero una cosa seria (chi potrebbe mai pensare che oggi i film di Pieraccioni, Vanzina, Parenti, Zalone, AldoGiovanniGiacomo, FicarraPicone, Brizzi e compagnia cantante, campioni stabili d’incasso di casa nostra con cifre da capogiro, possano essere soggetti di studio, indagine, riflessione da parte di chicchessia se non dello storico che ne accer27


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ti e ne rubrichi la pura esistenza in vita?). E sono anni, infatti, quelli, di gente come Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Pietro Germi, e poi, più in là, Sergio Leone, Bernardo Bertolucci, Paolo e Vittorio Taviani, oltre ai già citati Rossellini, Visconti, De Sica eccetera. Di titoli come Luci del varietà, Il grido, L’uomo di paglia, Senso, Umberto D e ne dimentichiamo tantissimi altri di uguale, se non maggiore, rilevanza. Per non parlare di quello che potremmo definire a prima vista spettacolo d’intrattenimento, ovvero ciò che Vittorio Spinazzola (nel suo Cinema e pubblico, Bompiani, Milano, 1974) denomina come “film per il popolo”: in verità ci accorgiamo, con l’aumentare della distanza storica, che anche questi prodotti, come i loro compagni di più alto valore estetico ed artistico, risultano alla fine essere parti ineludibili di un tutto (pensiamo innanzitutto a Totò, pensiamo a Matarazzo, a Sordi avviato a diventare, nel bene e nel male - da Tutti a casa a La grande guerra -, la “maschera” comica, tragica e grottesca della nostra Iliade e Odissea personale e pubblica, della nostra costituenda “mitologia in immagini”, dell’etica nazionale, della presente e futura italian way of life). Ecco cosa succede dopo che la guerra, la seconda in così pochi anni, la più devastante e totale a memoria d’uomo, si poteva pensare avrebbe azzerato il “Cinema” e i “Film” delle nostre parti, succede ciò che proprio Bazin nel suo libro (già citato) stigmatizza con queste considerazioni: “Ritengo che giustamente si possa sostenere che l’originalità del cinema del dopoguerra (...) sta nel promovimento di certe produzioni nazionali e in particolare nel sorgere sfolgorante del cinema italiano (...) e che si possa concludere da ciò che il fenomeno veramente importan28


gattopardi_carmelo bene 27/11/12 17:45 Pagina 29

te (...) è l’introduzione nel cinema di un sangue nuovo, di una materia ancora inesplorata (...). Non è forse il “neorealismo” un umanesimo prima di essere uno stile di regia?”. Ecco il punto centrale: se il “Cinema” è una cattedrale ed i “Film” sono le parti costitutive della sua architettura (dai semplici ed umili materiali di costruzione che devono però essere di buona scelta e fattura per reggere i segni e le ingiurie del tempo, alle belle colonne di marmo, ai transetti, alle ampie navate, all’abside, su su fino alla cupola che la completa), il cinema italiano di quest’epoca (che rappresenta poi la sua maturità e modernità) assomiglia molto ad una chiesa Romanica dove, secondo la filosofia umanistica, lo spirito si fa carne e la carne incontra lo spirito. Dove, quindi, la scelta di un’inquadratura, di un’angolazione, di un movimento della macchina da presa, ossia la scelta dei materiali per questa sua incarnazioneedificazione, ha a che vedere con l’etica, come poi avrebbero sentenziato e statuito (ancora Godard fra tanti) i jeune turcs della Nouvelle Vague, prima che con l’estetica. Anche se bisogna ugualmente dire che una cinematografia, in quanto tale e per esser tale, è non solo “senso”, ma anche “segno”, non solo, come rileva Bazin, “ciò che il film vorrebbe dirci”, ma anche “come lo dice” (op. cit.). Il “Cinema” necessariamente crea il proprio stile. L’etica necessariamente crea la propria estetica. Tutto questo per far notare come, dietro alla rivoluzione dei soggetti che la corrente del “neorealismo” porta con sé (l’attenzione marcata alle piccole, spesso tragiche, cose della vita quotidiana, lo zavattiniano “pedinamento del personaggio”, lo sguardo al mondo dei figli di un dio minore, e così via), c’è, sia pure in maniera un po’ meno percettibile, anche 29


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un modello narrativo ed un impianto stilistico, che si stanno evolvendo, perfezionando e affinando. Basterebbe pensare, banalmente, a cosa comporta, in termini di fotografia ed illuminazione (che vanno poi ad incidere sull’uso che si fa della macchina da presa e dell’inquadratura), solo il passaggio dai teatri, dove tutto è sotto controllo, all’aria aperta, dove l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e dove si deve adattare la tecnica di ripresa agli scenari e non viceversa. Basterebbe pensare alle contaminazioni fra “documento” e “finzione” in opere come Roma città aperta, Paisà, Achtung, banditi!, Ladri di biciclette, Sciuscià, perfino Riso amaro, per non parlare del caso limite di Umberto D dove l’ideologia zavattiniana si dispiega in tutta la sua ampiezza e in tutta la sua eversione rispetto ai comuni canoni narrativi, e a come la regia riesca a conciliare questi elementi così contrapposti in un discorso filmico omogeneo e addirittura innovatore, precursore di futuri, molto prossimi, sviluppi. E ci riferiamo ad epigoni quali Antonioni, Fellini, poi, più tardi (ma non di molto, Accattone è del 1961), Pasolini, Rosi (Salvatore Giuliano, stesso anno), Olmi, e fino agli inoltrati anni ’60, da Bertolucci ai Taviani a Bellocchio, i quali, nella contestazione, anche brusca, senza alcun timore reverenziale, dei “padri nobili”, non fanno altro che trasfondere in un nuovo linguaggio, in una nuova “estetica” quella preziosa eredità cinematografica. Quanto film come La commare secca, Prima della rivoluzione, I pugni in tasca, Un uomo da bruciare e fino alla completa maturità degli anni ‘70/’80 (cito a caso Ultimo tango a Parigi, la saga di Novecento, San Michele aveva un gallo con Allonsanfan...) siano le estreme conseguenze del 30


gattopardi_carmelo bene 27/11/12 17:45 Pagina 31

sistema cinematografico italiano uscito dal dopoguerra, non è questione che si possa mettere in dubbio (la si può forse discutere un po’ più approfonditamente di come possiamo discuterla qui, ma questo è un altro paio di maniche). E altrettanto indiscutibile è quanto tale sistema abbia reso possibile, sulle rovine fumanti del cinema del Ventennio (su Cinecittà, il suo modo di produzione, la sua poetica dei generi, il suo italian studio system), la metamorfosi del linguaggio, l’affermazione di un codice più evoluto e adeguato ai tempi, oltre che universalmente riconosciuto ed apprezzato (se non bastassero i Truffaut ad incensare i Rossellini e la loro generazione, ci sarebbero i Coppola e gli Scorsese), di un modello estetico senza precedenti consegnato alla posterità. C’era già tutto prima, è vero e l’abbiamo anche sottolineato: il travelling-carrello-movimento di macchina, il piano sequenza (di cui Blasetti è già un maestro in tempi lontani), la poesia delle inquadrature, la composizione dei piani e dei campi, i tagli di luce eccetera eccetera. Ma tutto, poi, nel corso della storia, si scompone e si ricompone in un ordine nuovo: Rossellini con quella sua “rotaia” indietro, mentre Anna Magnani corre disperata verso il camion di prigionieri per essere abbattuta da una scarica di mitraglia, così “documentaristico” e quindi ancora più drammatico; Antonioni che trasforma il piano-sequenza in funzione psicoanalitica e lo coniuga con le poetiche della incomunicabilità umana, dell’assurdità dei rapporti, intangibilità delle coscienze (il tutto emblematizzato dalla impossibilità, nella scena finale de L’avventura, che la mano di Monica Vitti possa mai raggiungere la nuca di Gabriele Ferzetti di spalle, benché, di fatto, gliela 31


gattopardi_carmelo bene 27/11/12 17:45 Pagina 32

accarezzi per un attimo); Fellini e quella sua attitudine di contaminare con la tecnica e l’uso del teatro, la realtà ed utilizzare l’obiettivo in senso grottesco; Bertolucci che considera un dolly su un piano morale; Leone (di cui non abbiamo molto parlato, ma che molto ha contribuito e lavorato - sotto e sopra il concetto di “autore” -, secondo modalità soltanto sue e quindi irripetibili, all’edificazione della “cattedrale”) con quella sua incredibile sensibilità per la contrapposizione dei campi e dei piani, per il “panfocus” (che gli americani non riuscivano a fare con eguale maestrìa) e l’uso drammatico dei dettagli... E potremmo andare avanti per molto così. Ma il discorso è un altro. Il discorso è che, dopo questa lunga cavalcata (per necessità, per sua natura e per scelta, non esaustiva, piuttosto esemplificativa e sintomatica) intrapresa per dimostrare “che cosa è il cinema” italiano e come si è fatto e rifatto nel corso della sua più che centenaria storia avventurosa, di come si è manifestato in una miriade di film che, presi nella loro globalità, lo hanno reso possibile, lo hanno stratificato e riempito di significati in quanto cinematografia nazionale, credo sia giunto il momento di tirare le fila di tutte le argomentazioni fin qui esposte, e di asserire con una certa attendibilità qualche “fondamentale”. Primo fra tutti è che fare del cinema non basta a fare “il Cinema” di una Nazione; che una quantità di film messi insieme il più delle volte non è sufficiente a fare una cinematografia solida, riconosciuta, affermata; che, piuttosto, è il “Cinema”, il sistema, a rendere possibili i “Film” e che, in questa incessante e necessaria dialettica, se manca il primo fattore il secondo, concepito in se stesso, lascia il tempo che trova, diventa preda della casualità, nella migliore 32


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delle ipotesi di un mercato senza veri punti di riferimento, alla ricerca frenetica di un pubblico e di un senso. Che, infine (ma non per finire, perché il discorso proseguirà altrove), solo il “Cinema” può creare quella “mitologia” dei propri caratteri distintivi, immediatamente riconoscibile e riconosciuta sotto tutte le latitudini (come autorialità, divismo, creazione di linguaggi universali eccetera). I “Film”, i suoi “atti individuali”, da soli o presi singolarmente, estrapolati da una struttura o ad essa alieni, possono tutt’al più generare un po’ di “popolarità” e l’esercizio di un mestiere fine a se stesso ed al proprio mantenimento. Ecco, a quella domanda iniziale, “Che cosa è il cinema?”, fino a quasi tutto il secolo passato, l’Italia ha sempre saputo dare una risposta, perché, fino a quasi tutto il secolo passato, il “Cinema” italiano è sempre stato una realtà, a volte solida, altre meno, ma comunque una realtà che, attraverso le sue manifestazioni individuali, i “Film”, ha dato, anche al resto del mondo, un contributo importante, molto spesso eccellente, a questa strana forma d’arte (la stranezza sta nel fatto che i più non la considerano affatto arte). Il “Cinema” è vivo! So long to prohibition!

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