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Incanta(u)tori: Verità e Teatro, Verità o Teatro

PIETRO CATTANEO, 3bb

Θεάομαι, osservare. Questo il verbo alla radice di “teatro”, così come, del resto, di “teoria”. Perché questo preambolo da classicista compiaciuto, quale spesso commetto l’errore di essere? Perché spesso si sceglie di contrapporre la verità alla finzione, la sincerità alla recitazione. Il teatro è fatto però anche di gestualità, di una componente in cui la parola non sempre è protagonista. Il teatro è occhio, ed è l’occhio a mediarne il significato: la sensazione è alla base dell’esperienza narrativa. Il teatro è fatto di interpretazione: generalmente si parla di patto narrativo, ossia dell’atteggiamento che ci permette di vedere personaggi che vivono, ridono e soffrono anziché attori che recitano un copione. Si tratta di compiere una scelta, di rivestirsi di un atteggiamento propositivo che ci lasci guardare con occhi giusti e dalla giusta prospettiva. Lo stesso non vale per il modo in cui ci rapportiamo con la nostra realtà? Possiamo davvero parlare di realtà, senza prima puntualizzarla come nostra? Possono sembrare problemi inesistenti, inutili, o quantomeno irrisolvibili - qualcuno direbbe che fa lo stesso. Ci hanno riflettuto fior fior di filosofi e artisti, cosa può dirne uno studente al terzo anno di liceo? Niente, in effetti.

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Non penso mi si chieda di avere soluzioni, non credete? D’altra parte, nella mia infinita umiltà, posso permettermi di riferire parole altrui, portandovi le diverse posizioni di persone che ne san ben più di me. E, nella mia infinita ignoranza, posso provare a farlo attenendomi alla rubrica che in questo pentamestre ho portato sul nostro EtCetera, partendo cioè dai versi di cantautori italiani, più o meno recenti, più o meno valenti, più o meno coinvolgenti. Sta a voi prestarmi ascolto - si fa per dire, anche qui dovrete usare gli occhi per sentirmi. La prima posizione, la più drastica, è quella del cantautore pugliese Caparezza, alias Michele Salvemini. L’artista, esponente cardinale di una scena rap italiana da cui spesso si discosta, ha voluto regalarci “L’Infinto (capitolo: la finestra)” nel suo concept album sulla prigionia “Prisoner 709”, datato 2017. All’apparenza, questo pezzo sembra scritto quasi per gioco: una dimostrazione di abilità tecnica, fatta “per il meme”. Infatti, per tutta la canzone sembra volerci proporre un disegno complottista in stile Matrix, secondo cui la realtà in cui viviamo altro non sarebbe che una simulazione di un supercomputer, un videogioco su cui non abbiamo nessun controllo. Un po’ più in là vediamo però una teoria un po’ più profonda, che, a dirla tutta, viene esplicitata nei primi due versi: Solo accettando la finzione noi ritroveremo l’umanità. Ok, ma che vuol dire? Vuol dire che, siccome ciascuno si approccia al reale secondo il proprio punto di vista, che naturalmente è alterato dalla propria esperienza, arrivare alla piena conoscenza della verità dei fatti è in definitiva impossibile. Di conseguenza, anche se ciò che ci circonda fosse del tutto diverso da come noi lo crediamo - come nel caso proposto dalla canzone - potremmo non accorgercene, persino avendone le prove sotto il naso. E di conseguenza, l’unica cosa che rimane da fare è accettare la finzione, abbracciarla e sguazzarvici. Per il cantautore, l’apogeo di tale approccio si trova nell’arte, che permette di “scegliersi” una realtà accettabile e bella contro una verità potenzialmente terrorizzante: ciò che Caparezza ci dice nella canzone “Eyes Wide Shut” - liberamente ispirata all’omonimo film di

Kubrick -, è che la finzione, inevitabile, può essere (resa?) necessaria: Come puoi dirmi di non fingere se la scelta di fingere è un bisogno reale, se anche l’età cambia il mio volto con un colpo teatrale? Se togli l’arte dal mio mondo è solo un posto banale, ricorda: Art is better than life. Art is better than lies. Così si conclude questo secondo brano. C’è chi però non la pensa allo stesso modo: il cantautore padovano Dutch Nazari, nel brano “Long Island”, quarta traccia del neonato album “Cori da Sdraio”, esordisce così: Unica regola sempre: io non ci credo alla verità, perché ho notato che chi mente spesso lo fa con sincerità. Emerge qui attraverso un paradosso un pensiero del tutto diverso dal primo: la verità esiste ed è raggiungibile, ma rimane incomunicabile ed irrimediabilmente ancorata a un punto di vista. Nell’Italia del secolo scorso, strenuo sostenitore di questo relativismo sociologico fu Luigi Pirandello, scrittore, poeta e drammaturgo di fama internazionale, nonché Premio Nobel per la letteratura. La maggior parte di noi ha letto, sta leggendo o leggerà il celeberrimo “Uno, Nessuno e Centomila”, romanzo pubblicato nel 1926 che tratta la relatività della percezione di sé e degli altri, e il percorso assurdo attraverso il quale il protagonista Vitangelo Moscarda ne raggiunge la consapevolezza. Si esplora l’incomunicabilità che vige tra ciascun essere umano e l’impossibilità, per una coscienza, di comprendere appieno un’identità - inclusa, per l’appunto, la propria stessa. Meno famosa è invece la novella precedente “Così è (se vi pare)” (1917), riadattata ben due volte - guarda caso - per il teatro: nel 1917 e nel 1925. Rispetto a Uno, Nessuno e Centomila, qui è ben più chiaro come l’esistenza di un’effettiva realtà non venga messa in dubbio; tuttavia, questa rimane inafferrabile: ora non più per via dell’irraggiungibilità della prospettiva altrui, bensì per la diversità del criterio di giudizio umano. Difatti, ciascuna notizia potrà essere utilizzata o scartata tra i tasselli che ci aiutano a comporre il nostro quadro di realtà; la maggior parte delle volte, però, i motivi per selezionarne l’uno o l’altro si equivarranno e allora sceglieremo secondo istinto, o per comodità. Conseg-

uenza naturale è l’uguale validità di molte “opinioni”, tutte indiscutibili e pertanto, paradossalmente, tutte allo stesso modo errate. Infine, la prospettiva più serena: nonostante noi tutti ci cimentiamo ostinatamente nella finzione, sia questa per mantenere un’apparenza circa la nostra identità, oppure per convincercene, per ingannare, o per ingannarsi, la verità emerge sempre con autenticità e candore di bambino. Chi ci presenta questa visione è Roberto Vecchioni, cantautore bresciano ed ex-insegnante, che sotto tali vesti passò anche per la vicina Cesano Maderno. Nel brano Teatro, Roberto Vecchioni dipinge infatti l’ironico - ed iconico - decesso del commediografo e attore teatrale Molière, che morì nel recitare “Il malato immaginario”. Vecchioni immagina un dialogo tra il morituro e un altro personaggio, probabilmente un assistente alla scena a lui caro: l’attore lo esorta a continuare a recitare al posto suo, per non fermare lo spettacolo; l’altro, da parte propria, rimane ammaliato dalla naturalezza di un personaggio che ha speso la propria vita a fingersi altri: E quella sera l’ho adorato, che pianse, rise, improvvisando. Ma Molière prova a ribattere. Lui né ha riso né tantomeno ha pianto: recitava come al solito, anche nelle braccia della morte. Queste parole, però, non riescono credibili in nessuna misura all’amico, che gli risponde: No, non è vero, ci credevi, è stata la tua vita ed è la mia, e se non è così il teatro è una follia. Perché è in questi momenti che emerge la verità: nell’errore, in quell’inatteso in cui l’uomo si orienta più di quanto non voglia credere. E sta alla nostra umanità riuscire a cogliere l’imprevisto: la sfumatura, altrimenti impossibile da cogliere, del vero che si fa naturalmente strada nella finzione. Dunque, sempre nella mia infinita umiltà, posso permettermi di proporvi quest’ultimo approccio, che si schiera contro un relativismo ormai abusato senza freno: esiste una realtà effettiva, che se ne infischia di tutte le nostre “opinioni valide tutte allo stesso modo”. Al contrario di quello che molti deducono da questa prospettiva, però, non dev’essere ciò a frenare la nostra ricerca continua: lo strenuo sforzo in direzione di una visione più aderente

al vero si vede anche e soprattutto nel saper dosare da una parte l’accettazione delle verità che ci vengono regalate, dall’altra nell’insaziabile curiosità verso l’esterno, in barba a chi ci circonda. E come tendere al vero quando circondati dal teatro? A mio parere, attraverso quell’umanità che ci permette di trovare scorci di realtà nell’errore, e che perciò confuta le prime due posizioni, che di questa non tengono affatto conto nella propria logica macchinale. A volte, si tratta solo di osservare.