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Biden, politicamente corretto e

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La Posta del Cuore

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Elezioni Usa

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Luca Saracho, 3F

Politicamente corretto e politicamente vuoto

In questi giorni negli Stati Uniti, in una condizione di surreale pandemia, quasi tutti gli stati si accingono a confermare i propri risultati elettorali e ad annunciare quale dei due maggiori candidati otterrà i loro voti in Collegio. E se non si avranno significativi risvolti sul fronte delle battaglie legali intraprese dal team dell’attuale presidente è con grande probabilità che Joe Biden si troverà, il 20 gennaio, a pronunciare il fatidico “presidential oath” con cui darà ufficialmente vita alla propria amministrazione. Un’amministrazione che, stando alle parole di alcuni, dovrebbe rappresentare uno storico passo avanti, ma al contempo dovrebbe anche restaurare la “normalità”, il bucolico passato della moderata politica americana. Due aspetti, tuttavia, difficilmente conciliabili, non solo per la concezione di un progressismo che passa per le stantie èlite politiche di un tempo, ma anche perché io non vedo personalmente un vero e proprio passo in avanti in tutto ciò, e non credo che una presidenza Joe Biden possa rappresentare veramente una “rivoluzione”. Secondo molti, soprattutto secondo i principali media statunitensi, la scelta della vicepresidente Kamala Harris, non solo una donna, ma anche nera e figlia di immigrati, sarebbe l’apice del progresso in cui viviamo, già in sé una ragione più che valida per stendere il tappeto rosso alla nuova amministrazione. Ma il quadro non è completo: Alejandro Mayorcas dovrebbe divenire il primo immigrato e latino-americano nella storia a essere a capo del Dipartimento di sicurezza interna; Avril Haines la prima donna a guidare il Dipartimento di Intelligence e Biden ha ufficializzato la sua volontà di nominare Janet Yellen, che diverrebbe così la prima donna al comando del Dipartimento del Tesoro. Ad udire queste scelte ci sarebbe da essere estremamente orgogliosi della svolta rivoluzionaria che sarà presa dalla prossima amministrazione Biden, la fine degli oscuri anni della presidenza Trump, durante i quali sono imperversati solamente razzismo, sessismo, bigotteria, e chi più ne ha, più ne metta! E invece no. Per niente. Questa visione è profondamente erra-

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ta perché basa le sue inaccettabili (e a quello arriveremo in un momento) tesi su ipotesi altrettanto inaccettabilmente errate. Il mito secondo cui Trump sia un razzista, sessista, et cetera, a questo punto mi pare di averlo già esaustivamente esaurito nei miei precedenti articoli. Tuttavia se volessimo comunque aggiungere alla “lista dei miti sfatati” l’apparente omofobia dell’attuale presidente, potremmo menzionare, attraverso la medesima ottica, la sua scelta di destinare Richard Grenell, apertamente gay, a capo dell’ambasciata USA in Germania. La tesi per cui il progresso passa esclusivamente per l’inclusività di minoranze è, come dicevo, inaccettabile: trovo infatti effimero (e in alcuni casi deplorevole) gloriarsi di essere il primo a ricoprire una determinata carica di potere relativamente al proprio sesso, etnia o orientamento sessuale, perché la considero una delle più significative forme di discriminazione di cui nessuno nelle grandi emittenti televisive pare interessarsi. Iniziamo con una domanda, diretta a te, sì, proprio a te che stai leggendo: pensi veramente che la CNN avrebbe presentato nella medesima entusiastica maniera la nomina del vecchio, bianco politico di carriera? Ovvio che no, duh! Bene, di seguito riporto la definizione che la Treccani fornisce del verbo “discriminare”: Adottare in singoli casi o verso singole persone o gruppi di persone un comportamento diverso da quello stabilito per la generalità, o che comunque rivela una disparità di giudizio e di trattamento. Ciò è in linea con l’etimologia della parola stessa: da discrimen, a sua volta derivante dal verbo discernĕre, di terza coniugazione, tradotto dal Castiglioni-Mariotti come “separare, dividere, distinguere”. Benissimo, alla luce di ciò, non converresti con me che un tale entusiasmo riservato a singoli individui invece che altri, sulla sola base della loro etnia o appartenenza ad uno dei due sessi, rientri perfettamente in questa definizione? Ormai l’esaltazione dell’individuo per la propria appartenenza a ben specifiche minoranze ha sostituito la considerazione delle sue qualità morali e dei suoi meriti: uno scenario sempre più antitetico col sogno di Martin Luther King di un mondo non basato sul colore della pelle di ognuno di noi, ma sul contenuto dei nostri animi. Concordi col “sogno” del reverendo, i conservatori nel Regno Unito non si vantano sterilmente di aver eletto Margaret Thatcher perché don-

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na, ma per il suo merito: la sua grande determinazione con la quale successivamente riportò la sua nazione tra le maggiori potenze mondiali. Inoltre vorrei chiedere quanto “coraggiosa” può essere la scelta di includere donne nella propria amministrazione in una realtà dove se si esprime un punto di vista estraneo all’estremismo femminista di terza ondata si rischia seriamente il linciaggio mediatico. Avere donne o individui provenienti da varie minoranze è un bene, segno che il passato fortemente razzista dei secoli scorsi è diventato ormai quello: passato. Ma assumere individui solo sulla base della loro etnia e/o sesso per dimostrare la propria “inclusività” diventa in sé discriminazione. Smantellato dunque il valore di un simbolismo vuoto, fine a se stesso, teorico, che non è sinonimo di efficienza o del miglioramento della vita dei cittadini, un ulteriore interrogativo necessita di una risposta: come sarà un’amministrazione Biden? Come accennavo in precedenza alcuni vedono in lui il ritorno alla “normalità”. Il punto sta nel comprendere a quale normalità si sta facendo riferimento. Forse all’eccellente economia trumpiana pre-Covid-19? Non credo proprio. A questa discussione si è aggiunto il parere di Roxanne Roberts, che, a sue parole, ha provato ad associare tale “normalità” con i fasti dell’amministrazione Obama. Non che vengano messe in evidenza le peggiori condizioni economiche in cui versava l’intera popolazione americana, assolutamente no. Roberts, sin dai primi paragrafi del suo articolo pubblicato sul Washington Post, con “normalità” intende invece la magnificenza di banchetti e cene di stato che, nel loro sfarzo, ritorneranno alla “passata gloria”. E non si fa neanche scrupoli a segnalare esplicitamente chi saranno i diretti destinatari di tali gala: letteralmente scrive “l’aristocrazia della città”. In poche parole un’amministrazione Biden sarebbe un ritorno dell’establishment di proporzioni epiche, della “palude” che Trump ha tentato di bonificare nei suoi anni da presidente. Dunque, chi potrebbe meglio adempiere tale compito se non uno storico membro dell’élite politica, in senato per 44 anni e Vicepresidente per 8? Eccoci arrivati all’epilogo di questo articolo (tirerai sicuramente un sospiro di sollievo a saperlo) trattando il nodo centrale dell’argomentazione: perché Biden è stato votato? Ebbene, l’unico motivo è che non vi era alternativa: dal quadro fornito dai media mainstream, era l’unica opzione in mezzo al sorgere di “estremi-

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smi”. Come prima cosa il suo obiettivo è stato quello di sconfiggere il socialista Sanders nelle primarie, opponendo le sue radicali posizioni politiche; dall’altro quello di battere quel “nazi-fascistone” di Trump. Biden ha solamente dovuto prevalere nelle primarie democratiche perché sapeva che avrebbe ottenuto ogni possibile forma di sostegno contro Trump. I sostenitori di Sanders e Warren hanno difatti seguito come delle pecorelle il resto del partito, che avrebbero sicuramente disconosciuto se solo non vi fosse stato Trump: come confermato dall’hashtag “Settle for Biden” (ovvero “accontentarsi di Biden”), loro non lo hanno votato per la bontà dei suoi valori, ma per l’unico pregio di non essere l’attuale presidente. E così l’odio nei confronti di Donald Trump da un partito è stato amplificato dai mass media all’elettorato, che dunque presentava conoscenze parziali se non totalmente errate su questioni riguardanti l’operato di Trump. Dunque un’elezione, quella di Biden, priva di valori politici e solidi programmi, focalizzata interamente sullo schierarsi contro il singolo. Potrà un governo più preoccupato della sua facciata politicamente corretta ed inclusiva, andare oltre il mero essere contro l’amministrazione precedente e guidare un’America “unita” per i prossimi quattro anni?

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