Aeolo V

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Redazione Di r ezi on e Leona rdo Co sm ai (di retto re res pon sabil e) Enri co S an tu s (dir etto re e di tori al e) Gruppo Re dazi onal e Luca C apr oni , Ni col a Mari a Carucci , Fra nce sco Chi ofal o , An dre a C orsi gli a, Ter esa D e M arti n, Sil via Li tteri o , Fabi ana Pellegri no, Gi or gi a San tae ra , M a ril ena S cu ott o, M at te o Tar si Impa ginaz ione car ta cea e we b Gi acom o Gucci nelli , Enri co S an tu s Grafi ca Gi acom o Gucci nelli (c ope rti na e l ocan di ne ) Al es san dr o Ru sso (l ogo) Correzi on e bozze Davi de B asil e , Ni col a Maria C arucci, And re a Cor si gli a Col lab orato ri Rena ta Schi av o, R ob ert o L ep er a Sito In tern et: www .aeol o.i t Con tatt i red azi on e: aeolo.red@gm ail .com

I NUMERI PRE CEDENTI


Con il patrocinio dell’Università di Pisa

Aeolo, Anno II, Numero 3 ISSN – 2036 – 1386 Aeolo (Pisa) Registrata al Tribunale di Milano, n. 354 del 29/07/2009 Felici Editore S.r.l. – Via Carducci, 60 – 56010 – Loc. La Fontina, Ghezzano – San Giuliano Terme (PI). © 2010 AEOLO © 2010 Felici Editore S.r.l., Pisa 2


Sommario REDAZIONE ............................................................................ 1 EDITORIALE - CON SAVIANO PER ABBAGLIARE LE TENEBRE ENRICO SANTUS .......................................................................... 5

VENTO: CRASH!!! LA DISGREGAZIONE DELLA FORMA INTRODUZIONE A "CRASH!" - ENRICO SANTUS ................... 12 IL CANTO DELLA FORMA - MARILENA SCUOTTO ................. 14 GREGORIO SCALISE, LA VITA DI UN POETA / POESIE............. 16 INTERVISTA A GREGORIO SCALISE: LA POESIA E L'IMPEGNO RENATO MARVASO................................................................... 23 LA DISGREGAZIONE DELLA FORMA NEI RAPPORTI TRA POLITICA, GIUSTIZIA E INFORMAZIONE - MARCO LOMBARDI ... 30 SPARI - ANDREA BUFFA ....................................................... 32 INTERVISTA A RADIO DI MASSA - MARILENA SCUOTTO ...... 36

BUFERE GUARDANDO IL FIUME CHE SCORRE - GUGLIELMO APRILE . 45 IL COLLEZIONISMO DI OGGETTI ANTICHI E LA NASCITA DEL PRIMO MUSEO CIVICO A SIRACUSA - SANTINO ALESSANDRO CUGNO ..................................................................................... 52

SPIFFERI ALOJZ REBULA, UNA VITA - PRIMOŽ STURMAN ................... 59 LETTERA A CATERINA DA SIENA - ALOJZ REBULA.............. 61 ALDA MERINI - MARCO NAPOLI ......................................... 69 LE INTERVISTE IMPOSSIBILI - ERICA BERNARDI .................... 71 CENTRONUDA - LAURA BERTOLINI ..................................... 79

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ASSENZE CERTE - SERENA GAUDINO ................................... 80 IN BICICLETTA ACCANTO ALL’INFERNO - SALVATORE ZAPPIA ...................................................................................... 84 SENZA TITOLO - DAVID EICKHOFF ....................................... 88 AU REVOIR - FRANCESCO COZZOLINO ................................ 90 TRENT’ANNI SENZA STILE, MA CON LA SECONDA LACRIMA ENRICO SANTUS...................................................................... 103

INTERVENTI RECENSIONE DI “MINIATURE” DI SIMONE PANSOLIN FABIANA PELLEGRINO ............................................................ 106 UN REGISTA FUORI DAL CORO, INTERVISTA AD ALESSANDRO D’ALATRI - PAOLO ANTONIO GUERRIERI .............................. 109 RECENSIONE A “LO SFASCIACARROZZE” DI RICCARDO RAIMONDO - FABIANA PELLEGRINO ...................................... 118

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Con Saviano per abbagliare le tenebre Editoriale Sono passati altri sei mesi. Chi l’avrebbe mai detto? L’avventura “aeolica” continua a tempestare l’attualità, infiltrandosi tra le pieghe della cultura ufficiale e valorizzando quelle potenzialità che normalmente vengono disperse nell’aria. Le soddisfazioni iniziano ad essere numerose: alcuni nostri collaboratori sono stati contattati da case editrici, altri hanno trovato uno spazio nelle redazioni di alcuni quotidiani e di alcuni uffici stampa. Durante quest’ultimo semestre siamo stati trascinati, come su una zattera, per porti inimmaginabili. Abbiamo partecipato a numerosi eventi pubblici, ma soprattutto abbiamo scoperto la bellezza di interagire con gli artisti, organizzando un festival artistico-letterariomusicale che ha riscosso un notevole successo, coinvolgendo centinaia e centinaia di persone. Il suo nome è “Crash! La disgregazione della forma” ed è ad esso che dedichiamo il presente numero. Non anticipo niente sul tema, il quale verrà introdotto nell’apposita sezione. Sottolineo invece l’interessante collaborazione con Alojz Rebula, uno dei più importanti esponenti della cultura slovena. Il suo testo, tradotto in modo eccellente da Primož Sturman, è una lettera che il certosino Stefano Macone scrive a Caterina da Siena, nella quale lamenta lo scisma che sconvolge l’Europa del XIV secolo, nonché la preoccupazione per l’arrivo dei turchi da oriente. La precedente uscita, come probabilmente ricorderà il lettore, si era 5


occupata dell’Italia, dei suoi stereotipi e delle sue principali derive. Anche questa volta, nonostante il tema sia apparentemente slegato, rimaniamo molto vicini alla società: la osserviamo attraverso i versi sferzanti di uno dei più autorevoli poeti viventi, Gregorio Scalise; la critichiamo attraverso il discorso appassionato di Marco Lombardi, ma soprattutto la indaghiamo attraverso lo sguardo analitico di Roberto Saviano. Tra marzo e aprile, infatti, Roberto Saviano ha tenuto quattro seminari sulla “Criminalità organizzata internazionale” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. In essi l’autore ha parlato di come la criminalità organizzata sia sempre meno criminale e sempre più organizzata. Ci ha raccontato che la cocaina – detta anche petrolio bianco – sta modificando gli equilibri politici mondiali: il Messico, ad esempio, è ormai diventato una narcodemocrazia che vive una turbocrescita proprio grazie al traffico di questa sostanza stupefacente. Secondo un articolo apparso sul Sole 24 ore, tra l’inizio del 2008 e marzo 2009 le vittime legate alle guerre di droga al confine tra Messico e USA erano 7.200. Questo spiega perché l’intelligence americana abbia definito la violenza dei narcotrafficanti in Messico la seconda minaccia alla sicurezza, subito dietro il terrorismo islamico. Il discorso di Saviano ci fa percorrere migliaia di chilometri per tornare nel nostro Paese: «Salvatore Mancuso, un trafficante colombiano di origine italiana, dice che “la pianta della coca è molto strana: perché ha le foglie in Sudamerica e le radici in Italia”. C’è infatti da dire – prosegue – che tutte le mafie internazionali considerano quelle italiane come i principali interlocutori». «Il governo sta facendo tanto contro la criminalità organizzata, ma non basta decapitare le organizzazioni mafiose per sconfiggerle». L’Idra di Lerna non può essere uccisa semplicemente tagliandole le teste: esse ricresceranno rapidamente se non si adottano le giuste tecniche. Secondo Saviano bisognerebbe accendere più luci sul fenomeno mafioso: le mafie risentono della luce dei riflettori, desiderano il buio 6


ed il silenzio. Esse sono ben consce dei danni che subiscono quando le loro “piazze” sono sotto l’attenzione dell’opinione pubblica. Lo dimostra la cosiddetta “pax mafiosa” succeduta alle stragi del ’92-93. «La Camorra è molto attenta all’informazione!» afferma Saviano mentre proietta alcuni titoli di giornale che confermano la sua tesi. «Ascoltate quest’intercettazione!» dice facendo partire una telefonata intimidatoria fatta da Michele Zagaria e Antonio Iovine all’allora giornalista del Corriere di Caserta Carlo Pascarella. «I giornali possono essere lo strumento con cui diffamare una vittima scomoda, accusandola delle cose più assurde: pedofilia, traffico d’armi o – addirittura – di appartenere alla stessa Camorra!» Pochi giorni dopo la morte di don Peppe Diana, eliminato nel 1994 dal clan dei Casalesi, il Corriere di Caserta titolò “Don Peppe Diana era un camorrista”. Ma i quotidiani non sono semplicemente dei portavoce, spesso creano anche un immaginario camorristico di successo: «Nunzio De Falco, condannato come mandante dell’assassinio di don Peppe Diana, viene definito dal Corriere di Caserta il “re degli sciupa femmine”». Per non parlare della cultura pop, che penetra nell’immaginario mafioso e lo arricchisce: «Molti dei più giovani camorristi vestono un po’ come i tronisti di Maria de Filippi!» A questo punto parte un’altra intercettazione. Roberto Settineri, ambasciatore dei clan a Miami, canta con la melodia de “Il Padrino”: «Parla ben piano che nessuno sentirà!» Anche i film, quindi, non solo riproducono dei modelli esistenti, ma ne creano pure di nuovi. «E che dire dei neomelodici e della loro influenza nell’immaginario campano?» si domanda lo scrittore, facendo partire la canzone “Nu latitante” di Tommy Riccio, arrivata a quasi 800.000 visualizzazioni, superando persino Tiziano Ferro. Saviano fa ascoltare poi “Il mio amico camorrista”, canzone in cui Lisa Castaldi esalta i valori superiori dell’amico, “uomo pieno di qualità” che “con la paura ed il coraggio rischia la vita e la libertà”. La sagra neomelodica finisce poi con “Pentito” di Maria Nazionale, in cui il pentito viene descritto come 7


un uomo di cartone impaurito dalla galera. Se la denigrazione del pentito si contrappone all’esaltazione del coraggio di chi sottostà alle regole camorriste, nelle organizzazioni mafiose si nota anche il rispetto di una morale molto ferrea. «È capitato – afferma Saviano – che un affiliato fosse cacciato dalla ‘Ndrangheta perché guidava col gomito fuori dal finestrino, facendo lo “spaccone”. Cosa non molto diversa accade in Afghanistan, dove i talebani da una parte producono e spacciano eroina in tutto il mondo, dall’altra obbligano le donne all’utilizzo del burqa». L’autore di “Gomorra” ha concluso i seminari affermando che: «Sebbene la giurisprudenza italiana sia la più avanzata nel trattare i fenomeni mafiosi (si pensi solamente che né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Germania, né in Spagna esiste il reato di associazione mafiosa), nel nostro Paese non si fa ancora abbastanza per lottare contro le organizzazioni criminali». Secondo Borsellino era necessario combattere la mafia non con una “distaccata opera di repressione”, ma attraverso “un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti”. Ciò presupponeva, naturalmente, la necessità di informare la gente: diventano così insensate e spiacevoli le accuse di “supporto promozionale alle mafie” mosse dal Presidente del Consiglio a “Gomorra” e “La Piovra”. L’ottimismo di Berlusconi di poter sconfiggere le organizzazioni criminali italiane entro la fine della legislatura non è credibile. Nel rapporto Sos impresa presentato il 27 gennaio 2010 dalla Confesercenti la mafia italiana è ben lontana dal regredire, anzi, nel 2009 ha fatturato 135 miliardi di euro a fronte dei 90 miliardi fatturati nel 2007. Non rimane quindi che tradire la volontà di mettere tutto a tacere del Premier e seguire il consiglio di un altro uomo di Stato, che forse più di lui aveva compreso come combattere le mafie, Paolo Borsellino: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

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Noi accogliamo la sua richiesta. Contro l’oscurantismo proposto dal Premier annunciamo fin da ora che dedicheremo il prossimo numero al tema della “Criminalità organizzata”. Aiuteremo ad accendere i riflettori sul fenomeno, soffieremo perché il vento sposti la luce un po’ più in là, verso le tenebre. E se ne avremo le forze, le abbaglieremo.

Pisa, 10 maggio 2010 Enrico Santus

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“Panni stesi al vento”, “Papa” di Roberto Funai

“Uotricol due”, “Uotricol tre” di Leonardo Cosmai

“Ritratto di Fritz Schoenberger”, “Ritratto di Madalena Perez”, “Ritratto di Jonathan McCorney” di Vacon Sartirani 10


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Introduzione a "Crash!" di Enrico Santus Tra il 26 marzo ed il 12 aprile, al cinema Lumière di Pisa, si è tenuta la manifestazione «CRASH! La disgregazione della forma», un festival artistico, letterario e musicale che ha indagato come – col passare delle epoche – si sia assistito ad un affrancamento della forma dal contenuto in direzione di una maggiore libertà espressiva. Questo fenomeno ha portato ad esiti interessanti in tutte le forme d’arte: da quella pittorica a quella letteraria, fino a giungere a quelle musicale, teatrale e cinematografica. Si pensi, per la pittura, al ricco sperimentalismo delle avanguardie del primo Novecento, oppure si confronti, in letteratura, il realismo di Balzac al futurismo di Marinetti o al surrealismo di Breton. Anche laddove forma e contenuto non si sono scissi completamente, si è assistito ad un fenomeno che possiamo ben definire come “disgregazione della forma”, ovvero un’emancipazione della forma dai vincoli imposti dal contenuto. Così l’espressività ha superato l’espressione. Che la disgregazione della forma nell’arte abbia le sue origini nei mutamenti sociali dell’ultimo secolo è cosa certa: i differenti stimoli a cui la società è stata sottoposta (si pensi alla tecnologia) e la maggiore coscienza della propria identità sociale e dei propri diritti da parte degli individui hanno certamente contribuito all’abbandono dei formalismi, sia comportamentali sia culturali, a cui eravamo abituati, favorendo così la nascita e lo sviluppo di forme d’arte più consone al nuovo gusto culturale. Durante la mostra sono state messe in luce le diverse fasi di questa tendenza nei diversi campi artistici, presentando un percorso di opere che sono andate dal realismo all’astrattismo. Tra gli autori, citiamo brevemente Mimmo Corrado, Roberto Funai, Leonardo Cosmai, Vacon Sartirani, Antonio De Rose, Giacomo Cuttone. 12


Avrebbe dovuto partecipare anche Alberto Baumann, ma a causa di alcuni problemi logistici abbiamo dovuto rinunciare al suo apporto. In campo letterario, musicale e culturale si segnalano, tra gli altri, gli interventi del poeta Gregorio Scalise, del giornalista de “la Repubblica” Marco Lombardi, del cantautore Andrea Buffa e di Radio Di Massa. Nella presente sezione tematica e nel resto della rivista cercheremo di accompagnare il lettore lungo i momenti più rilevanti della manifestazione, e lo faremo attraverso un susseguirsi di testi e immagini di rara intensità.

Alcuni momenti della manifestazione “Crash! La disgregazione della forma”

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Il canto della Forma U na ri flessione sulla lacerazi one delle Identi tà. di Marilena Scuotto Cos’è l’aggregazione, in fondo, se non l’insieme di forze molto intense che consentono moti di vibrazione costitutivi di reti e reticoli? E cos’è la disgregazione se non la dissoluzione di queste forze e di questi reticoli? Disgregazione, dispersione, frammentazione, logorio, tutti termini che bene si addicono ai rovesciamenti socio-culturali dell’ultimo secolo; stati aeriformi in cui le interazioni delle forze sono estremamente deboli e ai costituenti è consentito muoversi “apparentemente” in maniera indipendente. Non hanno forma propria, tendono a espandersi e a occupare tutto lo spazio disponibile, risultando “schiacciabili”, “comprimibili”. I costumi, i valori, i diritti, i principi, non sono altro che elementi metamorfici spesso legati al giogo dei potenti. Nell’immaginario collettivo dell’Antichità, l’ibrido, l’incongruenza, l’inorganicità riflettevano sentimenti di terrore e di profondo disagio. Le sirene sono un ibrido. Per metà donne, per metà animali. Compresenza di due identità, natura duplice. Esseri dimezzati, aventi le prerogative di entrambe. Entità irrazionali che provocavano, turbavano. Dioniso è un animale e assieme un dio, così manifestando i punti terminali delle opposizioni che l’uomo porta in sé. Attraverso il frammentarsi, vive ciascuna delle lacerazioni del corpo. Ibridismo, doppiezza, ambivalenza, polarità, dualismo sono le qualità che psicoanaliticamente contraddistinguevano i fantasmi creati dalla paura… Era la realtà irrazionale. Oggi “sguazziamo” nell’ambiguità e in un insensato relativismo nichilista. Crash ha aperto il “Vaso”. Attraverso i volti di Cosmai, le 14


interiora di Vacon, la poesia sibillina e rivoluzionaria di Scalise, la poliedricità di Anna Utopia Giordano e l’urlo di profonda indignazione per la perdita d’identità e di dignità della coscienza civile contemporanea lanciato da Marco Lombardi e Radio di Massa, il telaio di Crash ha intessuto “panni” dalla matrice solidissima. Per tre giorni consecutivi, i costituenti della materia sono stati legati da forze intense, hanno plasmato un solido dalla forma invariabile, contro il quale l’opposizione di altre forze, altrettanto intense, non è riuscita a spezzarne i legami. Né causando la rottura, né il taglio del corpo.

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Gregorio Scalise, la vita di un poeta Dall’amicizia con Ad riano Spa tola al presti gi oso premi o Mondello nel 2009. di Renato Marvaso Gregorio Scalise nasce a Catanzaro nel ’39. Negli anni d’infanzia si trova in Calabria, dove subisce l’esperienza terrifica della guerra. Si sposta, però, quasi subito, e l’adolescenza la trascorre a Udine per poi approdare a Bologna. Qui frequenta la facoltà di lettere dell’ “Università vecchia” e s’inserisce in quell’ambiente intellettuale che produrrà, di lì a poco, l’esperienza della Neoavanguardia. Stringe rapporti di amicizia con Adriano Spatola (che licenzierà le sue prime due plaquette di poesia con la casa editrice Geiger, A capo e L’erba al suo erbario) e accoglie i consigli e gli impulsi di figure quali Roberto Roversi e Luciano Anceschi. Sin dai primi lavori, la percezione del tempo e dello spazio è annientata in modo da far risplendere unicamente la parola e il ritmo, il verso libero («Il fumo rosso, più spesso/ il congegno, la stanza seduta sul/ pavimento, questa/ poesia vegetale»). I temi principali sono, fin dal principio, la guerra e il sacrificio del linguaggio in poesia («le parole sfuggono come briciole di mercurio/ per l’intollerabile assurdità/ del ragionamento»). Nel 1975 il suo poemetto Segni è inserito nell’antologia di Berardinelli e Cordelli Il pubblico della poesia; questo decreterà un riconoscimento generale di Gregorio Scalise come poeta. A sostenere il poemetto sarà soprattutto Franco Fortini che ha lasciato un’importante testimonianza in Breve secondo Novecento, ora 16


ripubblicato in Saggi e epigrammi nei Meridiani Mondadori. Scalise non ama la rima, al contempo camuffa nei testi allitterazioni parzialmente sensibili e scarti linguistici al limite del gioco. Nel frattempo Scalise si occupa sia di arti visive (partecipa a mostre di poesia visiva a Saragozza, Parigi, Madrid, Montevideo) che di prosa (pubblica diversi racconti). Negli anni Settanta si avvicina agli spettacoli e alle esperienze di “rinnovata apertura verso il pubblico”: quegli incontri organizzati a Roma dai poeti del Beat ’72 fra cui Renzo Paris, Elio Pecora e Biancamaria Frabotta. Nel 1979 pubblica Dodici poesie con prefazione di Giovanni Raboni e nel 1982 approda a Mondadori, con una raccolta, La resistenza dell’aria, che segna la maturità scalisiana del verso. La tendenza degli inizi verso gli astratti («rincorre palazzi d’argento/ rileggendo la vita a tutte le ore»; « la luna è una ragazza che si spoglia/ i suoi cieli sono sempre al futuro») non si attenua, anzi rispetto ai primi lavori trova piena realizzazione nell’incontro con epigrammatiche, e a tratti montaliane, chiusure aforistiche («in un cielo uguale un uomo ripete/ che quella vita è un lucido disabitare»). Negli anni Ottanta Scalise pubblica, per piccole case editrici, le raccolte di poesie Gli artisti con prefazione di Maurizio Cucchi e Danny Rose. Da questo momento in poi, le schegge di realtà ricominciano a essere sistematizzate in un progetto e in una logica di significazione asciutta e ingenuamente didascalica («Che il mondo segua una linea verticale/ lo si comprende dalle nuvole,/ perché le cose belle/ ci visitano fra tagli ventosi»; «l’anima si esprime/ attraverso esercizi di astrazione»). È sempre in questo decennio che Scalise opera nel teatro e elabora più di quaranta lavori, rappresentati in diverse città d’Italia, premiati e segnalati (Premio Riccione, 1979, Vallecorsi Pistoia, 1980). Nel 1984 uno splendido saggio autobiografico, Bruciapensieri, ricostruisce in chiave personale riflessioni sul passato e sul presente attraverso una prosa d’arte elusiva e piacevole. Ma Gregorio Scalise è anche l’autore di due pamphlet estremamente critici sulla “società 17


dello spettacolo”: Ma cosa c’è da ridere?, irriverente nei confronti dei comici e della comicità in tv, e Talk Show System, sulla deriva della dialettica nel mondo mistificante della televisione. Nel 2000 è ospite a Saint Nazaire della Maison des ècrivains dove scrive Un silenzio popolato, un diario del soggiorno e una riflessione artistica. Dal 1999 produce tre raccolte di poesia (La perfezione delle formule, 1999, Controcanti, 2001, Nell’ombra del vento, 2005), mentre è del 2007 la raccolta poetica Opera-opera Poesie scelte 1968-2007 che riporta al centro dell’attenzione la versificazione scalisiana e significherà il prestigioso Premio Mondello per la poesia “Ignazio Buttitta” del 2009.

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Gli avari senza senno. I bugiardi appesi all’albero o lo spazio nella noce di cocco. Paolo Uccello; i soldati lungo la strada, pallidi, paralizzati, e ancora cavalli, i bottoni, le scale, o nel golfo le navi con le mandibole aperte. Gregorio Scalise1

1 Da A Capo, Geiger, Torino 1968; ora in Opera-opera Poesie scelte 1968-2007, p.17, Sossella Editore, Roma 2007

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Ora confessano che la libertà è un raggio di sole; la visione delle borgate e della potenza lascia larghe fessure sui profili delle colline: l’aria commette una gaffe dietro l’altra, vive fra ombre senza vento o incrostazioni corporee: trovano origini che non esistono nel sogno dove gli antagonismi testimoniano una terra di tutti. Gregorio Scalise2

2 Da Gli Artisti, Lunario nuovo, Catania; ora in Opera-opera Poesie Scelte 1968-2007, cfr., p.59

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1991 E tutto d’un tratto guardando la televisione dove vivo attaccato tutto il giorno un iracheno che si arrende le mani alzate un sorriso fiducioso ho cominciato a correre verso quel fantasma cercando di abbracciarlo. La sabbia del deserto era dentro la mia stanza e quel povero sorriso, quasi felice, era piantato da secoli dentro il mio cuore.

Gregorio Scalise3

3 Da Poesie dagli anni’90, Orizzonti Meridionali, Catania 1997; ora in Opera-opera Poesie scelte 1968-2007, cfr., p.71

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La lingua del compilatore attende quelle grandi occasioni che gli daranno l’indipendenza della mente grandi ritorni dalle promesse del pensiero come se la poesia fosse schiacciata dal sapere senza sentimento si riportano gli occhi fra pagine sempre misteriose, eppure sono sentenze così occupate, così trascurate forse occorre tener conto dell’uso che non perdona. Gregorio Scalise4

4 Testi inediti ora in Opera-opera Poesie scelte 1968-2007, cfr., p.167

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Intervista a Gregorio Scalise: la poesia e l'impegno I ntervi sta del 14 febbraio 2009 5. di Renato Marvaso Gregorio, la sua è una poetica del nonsense? In verità parto da un oggetto “fuori dal senso” per fare un tentativo di costruzione, non è che mi diverta a fare Alice nel paese delle meraviglie. Lei li ha definiti “sprofondi di riflessione”. Mi sembra una cosa un po’ sgrammaticata! Intanto se uno guarda una cosa, in un certo senso la riflette, ma non apprende la storia della cosa. Si potrebbe fare l’esempio dell’innamoramento: incontri una persona e nel momento dell’innamoramento cogli qualcosa in più, gli dai una prospettiva e così “sprofondo di riflessione”… E l’eredità surrealista? Scrittura automatica no, sicuramente. Il surrealismo, negli anni, credo di averlo inteso come un maggiore impulso alle analogie, alla fantasia dell’analogia, mettere in rapporto determinate forze fra loro. 5

Versione integrale in R. Marvaso, La poesia di Gregorio Scalise, Tesi discussa il 28 aprile 2009 (relatore: Carla Benedetti).

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In un momento di pessimismo, potrei dire che la poesia si salva nel linguaggio se il poeta è in grado di usare un aggettivazione differente ma non strampalata. Quindi un gioco tecnico contro la prevedibilità. Che influenza ha avuto Spatola sulla sua formazione artistica? Due o tre sono state le persone che mi hanno insegnato davvero. Si può imparare dai libri ma una persona è un libro vivente. La prima è stata un’insegnante, ne ho parlato in Opera-Opera, Geda Jacolutti, una scrittrice friulana. Poi Roberto Roversi e molto Adriano Spatola, di cui ero amico. Adriano per me rappresentava il poeta moderno. Aveva qualche cosa del poeta nei suoi atteggiamenti ieratici, la barba, il fatto che bevesse o che se eravamo in compagnia e c’era qualcosa che non gli andava fosse capace di aggredire, di andare direttamente contro. La sua libreria di cultura contemporanea di allora era esemplare: gli scrittori del gruppo 47, certe cose di Leopardi e non altre. I surrealisti che lui in un certo modo “giocava” nei suoi libri ed io, venendo dopo lui, dovevo chiaramente portare delle modifiche. Le mie modifiche consistevano nel raffreddare un po’ il surrealismo e soprattutto evitare gli “stridori”. Io non posso parlare di una donna innamorata e di un garage. Possiamo definire: un reintrodurre una idea di forma classica ma nella disfunzionalità surrealistica. L’uso dei due punti è un suo tratto distintivo. Penso che ne faccia un uso… Questa cosa dei due punti mi è stata sempre chiesta: “ma questi due punti?”. Lì era Adriano che sparava i due punti nei testi fra una cosa e l’altra, con una sua strategia di distruzione del linguaggio. Per me si tratta di una forma di sospensione come un’altra: mantenere ancora acceso il discorso però frantumandolo, per saltare poi verso un’altra prospettiva. La memoria del poeta cos’è? 24


La memoria ti porta a vivere due volte gli avvenimenti. Facciamo un esempio: uno si sveglia la mattina e l’ultimo sogno ha portato dei ricordi; si tratta di un rivedere di sghembo, un po’ rapidamente, di taglio, persone e avvenimenti e percepire atmosfere. Se si ha la capacità, è un qualcosa che si avvicina alla verità della cosa accaduta. Ciò che non avevi percepito nel suo accadere, lo recepisci in un aspetto di verità, nella sua ripetizione. È Il reinventare il passato? E poi, l’artista ha nuovi strumenti per rapportarsi con il presente e il passato? È il reinventare il passato… proprio così. Reinventare il passato con le cose che percepisci e ricostruisci lungo le linee del rivedere… No, il poeta non ha nuovi strumenti per capire. Ogni volta che apro un libro vecchio, classico, resto sempre a bocca aperta. Però, vive nuove esperienze? Acquista nuove esperienze, sì. È un capire un po’ di più ciò che gli sta accanto e le cose che gli sono successe. Soprattutto il poeta riesce a disegnare meglio le cose che gli sono accadute: una cosa vista dall’alto, o a distanza, è diversa se vista ravvicinata.

Gregorio, ha ancora senso un’idea di impegno? Il compito del poeta oggi sarebbe di contrastare gli occupatori di spazio. Quante saranno le persone che guidano la televisione? Sono queste che dirigono il paese e danno le opinioni a secondo delle situazioni. C’era tutta la generazione di Moravia, Calvino, Pasolini, Sciascia che contrastavano abbastanza ed avevano la possibilità di dire la loro. Mi sembra oggi che i poeti non si affaccino, che siano incapaci, per quanto rimanga difficile, di misurare un ragionamento complessivo sulla realtà. Insomma, la mia semplice idea è che: primo 25


niente accade per caso, secondo tutto è ricostruibile, terzo esistono delle responsabilità dirette o indirette nelle cose, nei fatti. Analisi di questo tipo non ne vedo, anzi l’impegno non c’è più! Forse è comico? Naturalmente anche drammatico. Guerra e aggressività, storia e umano, si mescolano nei tuoi versi. Dov’è la connessione? Il fatto che sia legato alla faccenda della guerra, che mi ossessiona come problema, è dovuto innanzitutto ai bombardamenti che ho visto, la guerra che ho vissuto. Ero a Catanzaro, c’erano i balilla, i bombardamenti, e poi soprattutto i documentari su Auschwitz, sull’Olocausto, per cui sono rimasto letteralmente scioccato per diverso tempo. Era impensabile che accadessero queste cose. Per evitare accadimenti come questi, mi sono immaginato una sorta di etica nuova, un’etica che non rispettasse più di tanto l’autorità, che sebbene contemplasse rapporti gerarchici questi non fossero in grado di comandare le persone fino in fondo. C’era bisogno di sviluppare un senso di libertà, così è iniziato un mio personale lungo percorso. Questo senso di libertà sono andato ad identificarlo con l’ironia: se ci fosse stata una maggiore ironia, umore lieto, umorismo, una maggiore apertura sul mondo… dissolvere nel gioco determinate situazioni totemiche o sacrali. Essere poeta è un mestiere nella società capitalistica? Ah, domanda politica. Un poeta può riuscire a fornire delle prestazioni, ad avere una sua contrattualità. Può avere delle cose da dire sulla guerra, sulla società, può fare delle conferenze e venire pagato, non ci vedo niente di male in questo. In una società capitalistica come la nostra, durante la contestazione, esisteva una condanna. Se si era “asserviti al sistema” si era considerati servi del capitale. Si potrebbe dire che, oggi, sono tutti servi del capitale, non si vede l’ora di diventarlo.

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Mi è sembrato di cogliere, nei suoi testi, una tendenza a intellettualizzare le immagini, è vero? Sì, mi rivedo pienamente nell’idea di “intellettualizzare le immagini”. Costruisco dei mosaici di poesia. In quasi tutti i suoi componimenti lei conclude con delle uscite aforistiche, delle sentenze. Volendo ci si potrebbe vedere una sorta di sentenziosità ereditata, meridionale. Man mano che vivo scopro di avere alcune caratteristiche del Meridione. Ci può dire qualcosa sul suo romanzo, mai pubblicato e che ho avuto la fortuna di leggere, La Spartizione della Polonia? Un romanzo d’avanguardia. Ci fu uno scambio di lettere addirittura con Italo Calvino in quell’occasione. Gli spedii dei racconti, lui mi diede delle indicazioni su come, secondo lui, andavano riscritti e aggiustati, perché vi ritrovava un’eccessiva fragilità di scrittura. Calvino in quel periodo era a Parigi, studiava Barthes, semiologia, all’Università, siamo sul finire degli anni ’60, primi ’70. Esagerando un po’, parlo de “La Spartizione”, mi sono trovato, credo, di fronte alle stesse difficoltà davanti alle quali doveva essersi trovato Pasolini con “Petrolio”. Che cosa volevo fare? Volevo fare una specie di storia italiana abbastanza approfondita… Sembra che sia matto ma vi prego di credere che è vero: in qualche modo il mio testo ispirò Calvino per il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore. O forse fu solo una coincidenza. In una lettera Calvino scriveva di aver trovato interessante come “slittassi”, utilizzando un personaggio sempre vivo, da una storia all’altra, da un incipit all’altro. Calvino mise a fuoco, da scrittore che aveva molta più esperienza di me, questo elemento vivificante.

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La figura di Pasolini hai influito sulla tua poesia? Si, molto. Molto perché di Pasolini avevo iniziato a sentirne parlare moltissimi anni fa quando vivevo a Udine. Lui era già andato via, però questa figura in bicicletta da Casarsa a Udine, un poeta sportivo, mi colpì. Intendiamoci, si tratta di un ricordo immaginario… vivo, però, per me significativo. Le Ceneri di Gramsci avevano questa intonazione un po’ tardo-dannunziana che io ovviamente non ripetevo. Pasolini era uno sperimentatore. Cercava di cambiare stile, di usare prospettive diverse, anche se non sempre le cose gli venivano bene. La sua, credo di poter dire, è una poesia prosastica, dove la lirica è un po’ assente. È uno sperimentale, è un moderno. Perché l’avanguardia lo odiava? Perché il calco di un certo tradizionalismo lo ha immobilizzato in una posa che non è la sua? La sua raccolta poetica che crede più riuscita? Direi Danny Rose. Ci sono dei passaggi, dei versi che mi piacciono molto come: «di certo si sa che la vita/ è chiusa in un luogo ridente/ con quello sguardo/ che non riguarda nessuno». Mi dà una sensazione di “primavera enigmatica ma non infelice”. Questa mania dell’auto-esegesi… In realtà ho cercato di spiegare un verso con un altro verso. Walter Siti nel suo saggio Il realismo dell’avanguardia accennava, riferendosi alla poesia di Porta, a un “ermetismo di ritorno”. Secondo lei è possibile parlare di ermetismo di ritorno anche per la sua poesia? Sì, a volte ne ho il sospetto. Quando uno crede di essere andato avanti, senza accorgersene approda indietro. E così potrebbe spuntare anche il “ neo-ermetismo”. Lei ha affermato di credere alla figura del bambino poeta. Ma cos’è per lei esattamente questa figura?

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Quando incontravo dei bambini giocavo con loro, adesso un po’ meno. Ma in quelle occasioni scattavano stranissimi e misteriosissimi elementi di comunicazione. Un bambino mi rivolgeva la parola, diceva una fesseria ed io gli rispondevo con un'altra frase. Modi di dialogare sconosciuti e fuori da ogni regola, una forma di attrazione mentale, tutto sommato. M’intendevo con bambini che non avevo mai visto in questo linguaggio inventato. In Opera-Opera, nella Lettera al nuovo lettore, lei descrive la poesia come una donna che si nega continuamente; un po’ come Euridice e Orfeo o l’accezione batailliana di “residuo di desiderio” ? Interpretazione colta. La poesia ha tempi lunghi, lunghissimi. Un verso puoi capirlo dopo dieci anni, come puoi ritornare su certe cose che avevi abbandonato. Tornando all’idea batailliana di residuo del desiderio è vero che da un diniego nasce una fantasia maggiore. Bisogna che la poesia si prenda il disturbo di dirmi di no per l’eternità… Un super-matrimonio… La tua poesia è fatta di linguaggio comune? Ah sì, è un punto di soddisfazione riuscire a costruire attraverso un linguaggio comune una qualche “botta anti-lirica”. Attraverso i versi si può trasmettere ai posteri la propria storia personale? No, non credo. I versi semmai oscurano, depistano ed ogni tanto possono dare una verità. Chi va a leggersi i sogni di Cartesio?

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La disgregazione della forma nei rapporti tra politica, giustizia e informazione Marc o Lombardi è giornalis ta e docente di scri ttura all’Ori entale di Napoli. Ha scri tto per “La Repubblica” 6. di Marco Lombardi Anticipatore, il titolo del vostro convegno. Anticipatore, come qualsiasi cosa riguardi il nostro paese, per le cui emergenze adoperiamo parole nuove che risemantizzano vetusti problemi. Il rapporto politica-magistratura-stampa, per dire. Non ne parlo, non voglio parlarne, da giornalista: vivaddio, mi son preso una lunga vacanza dal mio mestiere; e ne approfitto per riossigenarmi: per osservare da privato cittadino, dolente e ilare, il gioco delle parti, che poi è il codice italiano. Il codice di un paese teatrale che vira verso la farsa, detestando la tragedia. Tutti parlano di forme violate, disgregate, incapaci di mettere ordine nella dialettica democratica. Le forme sono sostanza, dicono i corifei del potere, quando le indagini processuali riguardano i patrimoni degli uomini chiamati a governare: la forma-ricchezza (smisurata), involucro troppo sottile per la sostanza di un progetto (!) politico. La sostanza che non rispetta le forme, replicano i paladini degli inquirenti: ché nell’Occidente liberale i reati non sono amnistiabili per sovrana scelta del popolo, pre o post crimine essa avvenga. Ah, 6

Discorso letto e dibattuto durante la manifestazione “CRASH! La Disgregazione della Forma”.

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quando c’erano le forme da una parte e la sostanza dall’altra, conclude la libera, matura e responsabile carta stampata! Quando, l’altroieri nella cosiddetta prima repubblica, si rubava a man bassa ma il capo dei banditi non poteva diventare il capo dei gendarmi o, quanto meno, un tale in grado di averli alle proprie dipendenze. Dipendenze formali, magari: capo del governo, ossia controllore dell’amministrazione di cui fa parte chi raccoglie le prove e chi le utilizza. Fino al giudizio, salendo per i rami. Posso dire che trovo tutto ciò stucchevolmente farsesco, degno di un paese incapace appunto di tragedie, di cambi repentini della forma: in questo caso della formula del regime, giusti i manuali di scienza della politica? Nell’Italia reale, non nello Stato immaginato a tavolino dalle anime belle illuministe, si sono rispettate per caso le forme? Le forme del potere politico che stabiliscono i propri limiti: che altro è la democrazia? Ce le ricordiamo le forme violate sistematicamente da un cinquantennio di partitocrazia vorace? Le forme (mancate) dell’alternanza tra schieramenti contrapposti, che ripuliscono le scorie nelle stanze dei bottoni? Le forme del futuro, negato a chi non può oramai disegnarne i confini, giacché non ci sono denari in cassa e sono spariti pure i fogli e le matite? Le forme di un giocattolo calpestato da chi se le è messo sotto i piedi. Quel giocattolo si chiama convivenza, voglia e interesse di stare insieme: dalle Alpi alla Sicilia, polentoni e terroni, ricchi e poveri. È una farsa indegna, ripeto, invocare il rispetto delle forme, se la sostanza è un paese normale sognato da chi, con gli occhi chiusi dal passato, vede il Tamigi o La Senna al posto del Tevere. Nelle acque straniere si specchierebbe chi affronta i problemi con il piglio sano di uno scontro tra poteri, attraverso cui intravedere il futuro: orribile, magari, forse no. Nel fondo limaccioso del Tevere, è la vecchia Italia che inciampa, affanna, affonda nei suoi secolari drammi. Risemantizzati, pure farsescamente antichi.

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Spari di Andrea Buffa Ansimando come dopo aver corso, forse dopo aver corso, guardò oltre i piccoli vetri quadrati che componevano gli ingialliti finestroni del magazzino vuoto. La luce filtrava con un colore strano, come deformata dall’afa che rendeva l’aria pesante e i suoi vestiti bagnati di sudore. Sentì nella mano il peso della pistola e, stringendola, ricordò della paura. Girò su se stesso, lentamente, e capì come dentro a quel posto non avrebbe avuto scampo. Non sarebbero bastate le poche colonne portanti di quell’immenso spazio vuoto a proteggerlo né, tantomeno, a nasconderlo. Prima di cedere alla sconfitta, il rumore della città semideserta arrivò a suggerirgli un altro destino possibile. Fuori di lì. Si mosse, con passo deciso, verso la porta arrugginita alla sua destra. Una scala esterna di metallo lo avrebbe portato, due piani più in basso, sulla strada. Prima di scendere guardò tra le case e l’afa di agosto ed ebbe l’impressione che da qualche parte, oltre le strade vuote e le imposte chiuse, dopo il rumore della città deserta, ci fosse il mare e, movendo il primo passo, ne sentì come l’odore. Il rumore della sua corsa sulle scale si fuse perfettamente a quello della città, tanto che non avrebbe saputo distinguerli. Sulla strada, di fronte a lui, un palazzone; di quelli di periferia, con la facciata consumata dal sole e le tapparelle di plastica grigia. Davanti all’ingresso, con i vetri trasparenti e i serramenti appena rifatti, un’auto scura, ferma. La sola in tutta la strada. 32


Nella mano destra, la pistola, non serve più a ricordare la paura perché, adesso, questa sale dalla schiena, passa attorno al collo e morde, forte, sulla pancia. “Forse era meglio aspettare nel magazzino”. Il rumore elettrico dell’apertura del portone dà nuova energia al mostro che gli sale dalla schiena e toglie definitivamente spazio alle congetture. Giacca e cravatta, come per un funerale o da gangster dell’est, due uomini, giovani, uno sicuramente biondo, si apprestano ad uscire. Escono. Prima che lo sguardo del biondo possa metterlo a fuoco è già a due metri dal proprio marciapiede con il braccio teso a portare le tacche di mira nella posizione migliore. Sulla linea di mezzeria, esplode il primo colpo e, sincronicamente ai suoi passi, altri due, subito dopo. Il primo non lo vede, il secondo macchia di rosso la camicia bianca del biondo, il terzo non è più importante. Il secondo uomo non è ancora uscito dal palazzo. Il tempo lunghissimo di due passi divide il bossolo del terzo colpo, che esce fumante dalla camera di scoppio, dall’esplosione del quarto. Il tempo che basta per vedere la mano del secondo uomo che torna, da dietro la schiena, piena del calcio di una pistola. Strappa la manica destra della giacca da gangster ma non fa troppo male visto che questo prende la mira. Il quinto fa la differenza. Benché fuori bersaglio manda in frantumi la vetrata del portone e costringe l’uomo ad indietreggiare di un passo e a reimpostare il tiro. Non è una operazione lenta ma il tempo che impiega un proiettile a percorrere dieci metri è decisamente inferiore. Un punto scuro lo segna sulla fronte e due proiettili vanno a conficcarsi sul muro dietro il portone prima che la pressione del dito 33


sulla leva di sparo si allenti. Adesso il rumore della città deserta è tornato lo stesso, forse non è nemmeno mai cambiato. A tre metri dalla macchina, in mezzo alla strada, si ferma e lascia che il peso della pistola riporti il suo braccio lungo il fianco. Si guarda attorno. Da li è tutto come uno se lo aspetta: la strada vuota, l’afa, una macchina parcheggiata, il vetro di un portone in frantumi e il rumore della città deserta. A quattro passi da lui due cadaveri: uno disteso sul marciapiede, faccia a terra, quasi a cercare qualche cosa rotolata sotto la macchina; l’altro, dietro il portone, con una pistola in mano e negli occhi un destino cambiato troppo in fretta. Alla sua destra, nella direzione in cui è parcheggiata la macchina, la strada continua per alcune centinaia di metri sino ad incrociare un viale alberato e, oltre, si stringe un poco, muovendo verso l’impressione di mare che aveva avuto in cima alla scala. Aprire la mano, lasciare cadere la pistola e iniziare a correre lungo il marciapiede proprio in quella direzione, sono una cosa sola. Dietro le spalle il rumore della città deserta; davanti, l’impressione di un giorno di mare.

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“Venezia”, “Banch cornice” di Margherita Guerri 35


Intervista a Radio di Massa Napoli , Corso U mberto, terzo pi ano occupato della Facoltà di Lettere e Filos ofi a dell’U ni versi tà Federi co II . Entro, la sala è enorme. I n fondo un g ruppo di ragazzi parlotta accanto all’impianto radi o. Mi guardano. Da di etro mi sento c hi edere: “Ma chi si ? Che vuò?”. “Sono Marilena, facci o parte della redazione di Aeolo !” rispondo. I mprovvi samente scorgo Domeni co, il mi o trami te. Mi vi ene i ncontro: “Cià guagli ù! Vi presento Mari lena, ci farà un’i ntervi sta. Ti pres ento Daniele così comi nci amo subi to” di Marilena Scuotto Cos’è “Radio di Massa”? Daniele: Siamo una radio di ascolto nata all’interno della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II di Napoli durante il movimento e l’occupazione dell’Ottobre 2008, la cosiddetta “Onda”. Occupiamo quella che era un’ex-biblioteca del terzo piano. L’idea prende spunto da alcuni ragazzi che venivano dalla vecchia esperienza di “Radio Lina”, “Radio Pirata a Napoli” nata nel 2003 durante la “Quarta Adunanza Sediziosa”, grazie al lavoro e all’impegno di un collettivo di persone gravitanti attorno al nucleo napoletano di “Indymedia”. I ragazzi ci hanno convinti e supportati nella realizzazione del progetto che ha funzionato strepitosamente. Durante l’occupazione raccontavamo 24 ore su 24 tutto quello succedeva riuscendo ad avere un grosso picco di ascoltatori, cosa che ci ha incoraggiati a continuare. Anche dopo “L’onda”. È una radio

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che punta all’informazione indipendente, portiamo avanti una “battaglia in streaming”. Cosa vuol dire “in streaming”? Diamo la possibilità attraverso internet di farci ascoltare in tempo reale in ogni parte del mondo. La Web Radio non è quella che ascolta il salumiere all’interno del suo negozio, o quella che si ascolta in macchina mentre si è al volante, questo magari costituisce un limite, ma comunque siamo riusciti ad arrivare tra vari strati della società partenopea e a metterci in contatto con altre radio italiane: “Radio Onda Rossa”, “Radio Onda d’Urto”, che sono radio radicate in Italia da anni e subito abbiamo cercato di stringere rapporti e contatti con loro, cercando di apprendere come si fa “informazione indipendente”, allacciandoci contemporaneamente alla rete di Web Radio che sul territorio napoletano già esistevano. “Radio di Massa” è la più giovane a Napoli. Perché scegliere proprio la Radio e non un altro mezzo di comunicazione? Uno dei motivi che ci ha convinti a scegliere la radio è stato la sua grande funzionalità nella diffusione dei messaggi. Esempi pratici: durante l’occupazione diffondevamo i report delle assemblee, in questo modo le persone impossibilitate a parteciparvi potevano seguire da casa l’evento e le sue evoluzioni, oppure arrivavano da casa alle assemblee dopo essere state avvertite e informate dalla radio. La radio è stata anche un collante tra le diverse “strutture” all’interno del movimento. Quali sono gli obiettivi che si propone “Radio di Massa”? “Radio di Massa” si propone di diffondere un messaggio d’informazione assolutamente indipendente, alternativo, cercando e analizzando personalmente le fonti e i diversi contesti in cui si 37


svolgono i fatti. Cosa vuol dire “Fare Radio” all’interno di un contesto studentesco, universitario, quale quello Napoletano? È bello, è affascinante, ma allo stesso tempo molto difficile. Napoli è un territorio in cui il movimento studentesco è frammentario, con diverse strutture e scuole di pensiero politico, ecco che non si può essere autoreferenziali, né totalmente sordi. Cerchiamo di evitare che ciò accada informandoci e interessandoci alle diverse problematiche anche se contro le nostre ideologie. L’obiettivo è quello di “Essere una Radio” e cercare di avere più ampio bacino di ascoltatori possibile. La Radio è uno strumento di tutti e noi la concepiamo in quanto tale. Che ruolo gioca la politica all’interno di “Radio di Massa”? Bella domanda! Fare informazione è sempre sentirsi “l’ago della bilancia”, non riesci mai ad accontentare tutti. Schierarsi troppo vuol dire scontentare l’altra parte e questo vogliamo evitarlo. Il nostro lavoro cerca di dare spazio a tutti. C’è da dire che “Radio di Massa” è lontana dalle istituzioni, non a caso svolgiamo le nostre attività all’interno di uno spazio occupato ed è un progetto totalmente autogestito. Chi finanzia i progetti di “Radio di Massa”? Viviamo di autofinanziamento. Organizziamo delle feste, invitiamo artisti di un certo calibro come Eugenio Bennato, i Rione Junno, abbiamo avuto in radio, in anteprima, i “99 Posse”. Racconto un piccolo aneddoto comico: c’era una giornalista di “Repubblica” mentre intervistavamo i “99 Posse”. “Repubblica” ha pagato per avere l’esclusiva sull’intervista ed è stato divertente osservare l’indignazione sul volto della giornalista mentre i “99 Posse” passavano a noi, riconoscendoci “un valore” come Web Radio, tutte le informazioni che avrebbero dovuto essere solo ed esclusivamente di “Repubblica”. Esperienze che ci hanno responsabilizzato e fatto crescere molto. È 38


un progetto che cresce con difficoltà proprio perché non ci finanzia nessuno, non abbiamo una regia, viviamo sempre in una situazione di precarietà. Potete definirvi “Associazione”? Assolutamente no. Noi non vogliamo definirci “Associazione”. Avremmo potuto esserlo e avere gli stessi vantaggi di un’associazione, ma noi facciamo politica “dal basso”, non vogliamo nessun tipo di legame con le istituzioni. Se fossimo un’associazione, sicuramente potremmo godere di grossi vantaggi: una connessione libera, ufficiale, che garantisca continuità, ma vigerebbe “il controllo” sulla radio e le nostre iniziative. Oggi siamo costretti a fare i conti con decreti come il “Decreto Pisanu” che veicola e vincola la libertà di utilizzo di uno strumento di comunicazione quale quello di Internet, a meno che non ci si lasci “schedare”. Quindi per voi “Associazionismo” a Napoli vuol dire “Controllo”? “Associazionismo” a Napoli vuol dire “Istituzionalizzare le lotte”. Noi esistiamo a prescindere dalla “istituzionalizzazione delle nostre iniziative”. Non abbiamo bisogno di mettere nero su bianco per esistere. “Radio di Massa” è in antitesi con le istituzioni. Quali sono stati gli ostacoli pratici che avete dovuto affrontare per la realizzazione della Radio? Il primo ostacolo pratico è stato riuscire a trovare e a mettere su tutti gli strumenti di cui una Web Radio ha bisogno: computer, mixer, casse e non è stato facile. Un cavo che ti abbandona, ti rovina la giornata! Qual è il messaggio “Universale” che intende diffondere “Radio di Massa”? Indipendenza, libertà d’informazione e di opinione… Non odiare i 39


media, diventa, fatti media. Questo messaggio trova adesione nella società napoletana e in quali strati della società? Trova consenso negli strati colpiti maggiormente dalle contraddizioni: dal disoccupato “organizzato”, allo studente che vive le incoerenze di un sistema universitario napoletano “malato”. Ovviamente noi ci muoviamo moltissimo all’interno dell’Università e per l’Università, richiedendo più appelli d’esame per gli studenti, affinché i tempi si accorcino, e agevolazioni per studenti lavoratori. Quanti sono gli ascoltatori di “Radio di Massa”? Chiedere il numero di ascoltatori è come chiedere l’età a una signora! A parte gli scherzi, durante il periodo in cui “L’Onda” era nel pieno della sua forza, il picco di ascoltatori era veramente molto alto, adesso gli ascolti sono calati anche a causa di una forzata interruzione della connessione da parte del Rettore. A parte la cooperazione con emittenti sul territorio campano, con quali altre Radio collaborate sul territorio nazionale? Abbiamo collaborato molto con i ragazzi di “Radio Onda d’Urto” che sono venuti a trovarci qui a Napoli. Fanno radio da quasi vent’anni e hanno diversi trasmettitori nel padovano. Anche loro completamente autogestiti e autofinanziati, hanno una storia meravigliosa. Vorremmo cercare di arrivare ai loro livelli anche se ci sembra un sogno irraggiungibile! Oggi catturare una frequenza è dura, non siamo negli anni settanta, non si può piantare un’antenna e fare radio. Ci sono radio che fanno vera e propria camorra perché possiedono capitali ingenti e introiti procurati attraverso vari spot pubblicitari. Napoli ha solo due zone all’interno del suo territorio dove poter piantare un ripetitore che possa dare garanzia di copertura su tutto il territorio: i Camaldoli e il Vesuvio. Quando qualcuno ha chiesto di poterlo fare la contropartita è stata racket ed estorsioni. 40


Come si comporta “Radio di Massa” nei confronti dei problemi legati al territorio napoletano? Cerchiamo di essere presenti in tutte le contraddizioni, lotte e movimenti. Eravamo ad Acerra quando è stato attivato l’inceneritore, eravamo a Chiaiano durante una sommossa popolare. Il nostro obiettivo è solo ed esclusivamente quello di fare informazione, ci occupiamo dell’Università, ma non solo. Vogliamo essere anche di più, perché ci troviamo tra realtà anche molto diverse da quella universitaria, che di “studentesco e studentista”, hanno ben poco: disoccupati “organizzati”, “Officina 99”, gli anarchici. Lo dico con grande entusiasmo perché è difficile trovare una radio che riesca ad avere contatti con tutte queste realtà molto distanti tra loro. Quanti e quali sono gli spazi, le rubriche che propone “Radio di Massa” agli utenti? Abbiamo diviso il nostro palinsesto in diversi settori: ci occupiamo di politica, con vari programmi sulle contraddizioni del tessuto sociale, sui problemi quali la depressione e programmi di informazione musicale e artistica. Il programma “Gli Emeriti” è uno di questi ultimi. Napoli per la musica e per l’arte in genere, come anche per il teatro, è una città “buona e cattiva”. Esistono sul nostro territorio validissimi artisti poco conosciuti che non riescono ad emergere perché non appartengono a “cerchie elitarie” che spadroneggiano e rendono difficile la fruizione di arte. E “Radio di Massa” anche in questo è informazione, diamo voce a chi non ne ha. “Radio di Massa” è una radio anti-fascista, anti-razzista e anti-sessista, ma è soprattutto una voce. Cosa viene contestato e criticato a “Radio di Massa”? Di dare priorità a certe problematiche e a certi argomenti piuttosto che ad altri. La verità è che non riusciamo a seguire sempre tutto e 41


tutti contemporaneamente. Non abbiamo una redazione, né una gerarchia all’interno della Radio. Il nome stesso della Radio allude “alla Massa” a qualcosa di indistinto, a qualcosa che assume quasi sempre una connotazione negativa. Ma la “Massa” è fatta di persone, persone che pensano e agiscono secondo coscienza, individui a sé. Pensate che la realtà Napoletana sia pronta per concepire una Radio sul Web? Dopo gli anni settanta la radio ha visto il suo lento declino ed è stata sostituita dalla televisione. È già difficile oggi che un ragazzo, anche universitario, segua la radio. Trovare un ascoltatore che per scelta focalizzi la sua attenzione sul computer per ascoltare una Web Radio, lo è ancora di più. Eppure noi abbiamo tanti ascoltatori, ne abbiamo. Anzi, paradossalmente è noi che vogliono ascoltare, perché riescono ad informarsi e ad avere una finestra su cose che sono taciute da altri mezzi di comunicazione e da altri programmi. Proponiamo ciò di cui hanno bisogno. Ascoltano noi perché siamo in controtendenza. Ultima domanda. Cosa si propone e si augura “Radio di Massa” per il futuro? Il primo obiettivo sarà quello di avere una regia, perché facciamo radio in un ambiente che ci crea problemi tecnici e di acustica, ma l’obiettivo più grande sarà quello di condividere il palinsesto con altre radio, unire gli ascoltatori, diventare un unico polo informativo indipendente che esca dall’Ateneo per abbracciare ancora di più le diverse realtà del territorio, affinché le cose a Napoli cambino… E devono cambiare!

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“Trio Maschile”, “Volo” di Leonardo Cosmai

“Femminilità”, “Fiumara” di Mimmo Corrado 44


Guardando il fiume che scorre Per una ontologia della “leggerezza” tra Kundera e l’Oriente di Guglielmo Aprile Nelle mattine di pioggia è facile che i pensieri vadano a Kundera. Il romanzo più noto dello scrittore ceco offre diversi livelli di lettura, tra i quali un sottinteso richiamo al significato simbolico dell’autunno7. Osservando le foglie che cadono si capisce il senso del concetto di “leggerezza”, nelle molte declinazioni filosofiche in cui esso è interpretabile. È facile vedere nelle foglie l’immagine del destino umano. L’antica poesia greca edificò alcune delle sue similitudini più fortunate su questa analogia, che a distanza di secoli ritorna, anche se in forma meno esplicita. Seguiamo la stessa sorte delle foglie, inermi al vento, tutti, un giorno o l’altro. La lettura induce perciò a immaginare una Praga sonnolenta, sospesa tra malinconie danubiane e grigiori di regime, dai viali avvolti di colori caldi e morbidi e la nebbia che assottiglia i contorni delle cattedrali, nella stagione della luce declinante e del vento che a intermittenza visita i quartieri come un monito, degli alberi saccheggiati che si vanno facendo sempre più spogli e simili a scheletri, ma ancora non lo sono. Questo sentore di imminenza di una fine si percepisce nei volti, nelle parole e nei luoghi, ma non ingenera un ascetismo, non si rovescia in una desolata e cupa rinuncia alla vita; anzi, le donne e gli uomini del romanzo sembrano mossi da un innocente e testardo desiderio di felicità, da un’ansia a consumare ogni attimo dell’esistenza nella sua pienezza e nella incoscienza della 7 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi, 1984, trad. di Giuseppe Dierna (Antonio Barbato)

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sua caducità, a dispetto di una ideologia che mortifica il loro legittimo bisogno di libertà, come anche del barboso pessimismo di qualunque saggezza basata sul memento mori. Sembra un romanzo autunnale, ma in realtà promuove un’idea molto greca di felicità, tutta rivolta ad un doloroso assenso per la terrestrità. Il rimando a Nietzche, all’inizio della storia, è giustificato. Analogo al fato greco è il ruolo giocato dal Caso nelle vite degli uomini, ovvero la risultante di una miriade di varianti. Kundera ne fa un dio capriccioso e anarchico, un burattinaio imperscrutabile, di vaga reminiscenza gnostica, che per suo mero divertimento e non in vista di un fine teleologico mescola le pedine dell’universo in un mosaico assurdo e bellissimo. È il Caso l’occulto autore degli sterminati romanzi della vita e del sogno; rispetto a lui la nostra volontà è nulla, i nostri piani continuamente e meravigliosamente sconvolti. Viene da pensare al serpente induista Ananta, che circonda il mondo, sulle scaglie della cui schiena ogni cosa accaduta o che accadrà sta impressa, dal sorgere di una galassia a una goccia di pioggia, per ripetersi sempre. Noi non siamo padroni di nulla, non decidiamo nulla, e l’illusione umanistica dell’homo faber sortis sui è come il tentativo di un folle di mettere le redini alle onde del mare. Ma il lato imprevedibile della vita, il fatto che essa spiazzi le nostre aspettative e ci sorprenda, è ciò che la rende interessante. Il nostro universo, nella forma e nelle leggi che conosciamo, è solo uno dei pressoché infiniti che sarebbero potuti essere, e lo stesso vale per ogni dettaglio della vita individuale; perché sia stato questo l’esito, e non uno qualunque degli altri possibili, è mistero. Il protagonista maschile della storia, Tomas, si accorge che non c’è alcuna necessità sottesa al fatto che egli abbia incontrato Tereza o che sia diventato medico: semplicemente, si tratta di cose che sono accadute; sono momenti epifanici quelli in cui egli perviene a tale consapevolezza, e un senso di vertigine e di sbandamento si accompagna all’intuizione di quanto fragile, aleatorio sia il destino, quanto effimero, tessuto d’ombra sia il volto del mondo. La tendenza millenaria del pensiero occidentale si indirizza verso la dimostrazione, per mezzo della dialettica, di un ordine e di un 46


senso superiori, sul piano metafisico, e di una via di condotta su quello morale. Ma tale convinzione si scopre, a un certo stadio della moderna evoluzione culturale, opprimente. Il riconoscimento che non esiste un Es muss sein alla vita, un dover essere, che in altri novecenteschi profeti della crisi sfociava in un disperante compianto sull’orfanità e sulla solitudine di Adamo, assume in Kundera valenze liberatorie. Il nichilismo di fondo del romanzo si fa presupposto di un edonismo più consapevole, anche se dionisiacamente sofferto. La ‘leggerezza’ si carica quindi di un carattere antimetafisico: siamo svincolati dall’obbligo di adempiere un dovere, di assolvere a una funzione assegnata dall’alto, e viviamo l’eclisse di uno scopo trascendente, che vada oltre la vita stessa, come un affrancamento, con una specie di ebbrezza sottile. Ora che “la storia è insostenibilmente leggera, leggera come una piuma, come la polvere che turbina nell’aria, come qualcosa che domani non ci sarà più” (p.228), è finalmente lecito occuparci soltanto di vivere per vivere, invece che per fare della vita uno strumento di conquista della virtù o della verità, o un mezzo in vista di qualcosa da realizzare o perseguire; ora non siamo più tenuti a darci un perché, o a ingannarci che esso ci sia, e siamo al mondo per la gioia gratuita di goderne, senza più bisogno di ancorarci a un fantomatico oltre. Una posizione che mostra spontanee e indirette convergenze con quella dell’antico Bhagavad-Gita, la cui morale attivistica pure esortava a vivere per il piacere disinteressato di farlo, piuttosto che per un premio posto al di là dell’agire. E la forma d’arte che meglio traduce questa libertà incondizionata è il jazz, con i suoi accordi che entro le maglie larghe di un motivo di partenza si combinano secondo il solo estro momentaneo dell’esecutore. Nel grande vuoto lasciato dal senso che non c’è più, i nostri desideri si muovono senza catene: la paura si è mutata in esultanza. Dio è solo il parafulmine che ci siamo dati per troppo tempo al fine di non fare i conti con quel vuoto. Nello scorso secolo, anche un altro praghese, Rilke, è sembrato andare in cerca di un cielo sgombro in cui librarsi (almeno in alcuni momenti, dato l’orizzonte non sistematico 47


e spesso contraddittorio del suo percorso ideale): “Getta il vuoto / dalle braccia agli spazi che respiriamo; / ah, forse gli uccelli sentiranno l’aria / slargata con più intimo volo” (Elegie duinesi, I, 2225). Non è l’unica concordanza rispetto a Rilke: questi sottolinea come ogni cosa accada ein mal, una volta sola e poi mai più (ibid., IX, 13), al modo del personaggio di Tomas quando dice a se stesso che Einmal ist keimal, ossia che “quello che avviene una volta sola è come se non avvenisse affatto”, poiché ogni attimo che viviamo, trascorso il momento in cui si consuma, rientra nella inesistenza, ed è quest’ultima ad avere carattere definitivo, al contrario dell’esistenza che invece è transitoria. Mille secoli o appena un giorno, il tempo che ha modellato una montagna o quello che dura un arcobaleno, sono ugualmente battito d’ali, rapportati a ciò che è eterno e non muta, ma che non appartiene al dominio fisico. E tutta la vita, la nostra, quella di un insetto o dell’intero universo, è anch’essa nient’altro che momento, in quanto inizia e finisce in un tempo determinato, e si riassume nella parabola di un fiore di loto, del suo spuntare dall’acqua all’alba e del suo appassire già prima di sera. È su tale consapevolezza che Kundera fonda l’ideale della “leggerezza”; il romanzo allude a questa condizione con una sorta di serenità zen di fondo, che fa pensare a talune espressioni della meditazione orientale, e indica nella sua accettazione la chiave per rendersi simili alle nuvole e ad ogni materia volatile e aerea, e per sganciarsi dal fardello di quanto ha finora inchiodato l’uomo al suolo. Un implicito rimando a questa concezione è nella scena in cui Tereza, depressa e avvilita dopo l’ennesimo tradimento del marito, cammina sul lungofiume della Vltava, il fiume che taglia Praga; la donna si sente “stanca e pensosa come un’attrice dopo lo spettacolo”, e osserva l’acqua che scorre “perché la vista dell’acqua placa e guarisce”. Il fiume, emblema eracliteo per antonomasia del divenire inesorabile, ha una forte impronta allegorica nel senso inteso da Paul De Man, ossia veicola una interpretazione del mondo da parte dell’autore. Tutto è immerso nel fiume, e anche noi che del tutto facciamo parte – e tutto il fiume porta via. Lacerante l’antitesi tra il 48


caos della città e la pace dell’elemento, tra le vicende umane che si svolgono sulla riva, passeggere e destinate all’oblio, e lo scorrere della corrente, indifferente e immutato da sempre. L’acqua, con la sua fluidità, è per sua natura instabile, e in ciò somiglia al presente umano. Quanto oggi sembra definitivo e assicurato cambierà, come uno scherzo di cirri nel cielo o una scritta su uno scoglio battuto dalle onde. Finché amiamo crediamo che l’amore non passerà, che il ricordo permarrà, ma tutto si rimpicciolisce, anche il dolore, se visto da una prospettiva più ampia dell’attimo in cui ci troviamo. Ancora una volta fu Rilke a parlare della “eterna corrente che sempre trascina con sé” (Elegie duinesi, I, 23-25): noi, i nostri volti e le parole trascorriamo, mentre il fiume resta. Ogni cosa che facciamo finirà per essere cancellata, non ha altro scopo che la dissoluzione; ogni giorno non tornerà più, ci ha lasciato per sempre – e intanto il fiume scivola pigro e ci dice continuamente ‘addio’, ci parla di un congedo senza appello, che ogni istante si compie e ci separa sempre più dalla nostra vita. Ciò che ora è tangibile tra poco sarà spazzato via dall’onda, e questa è la causa dell’umano soffrire. A contare è solo il corso delle acque, ossia, procedendo nello sviluppo di questa allegoria, lo svolgersi della storia, che coprirà le nostre opere, e poi anche i nomi e il ricordo: e noi stessi non siamo che relitti portati sulla sua superficie, mentre le proteste e recriminazioni che leviamo saranno sommerse da quello scroscio sempre uguale. Che ne è, ora, di tutti coloro che furono, del già avvenuto? Più nulla, quasi che nulla fosse mai stato. Cosa cambia, dunque, tra l’essere vissuti e il non esserlo mai? Nulla, risponderebbero l’antico Sileno ellenico quanto i jivan-mukta sulle rive del Gange, poiché l’essere si risolve prima o poi nel non essere, ne è solo una variante momentanea. Fallimenti e delusioni hanno forse un risvolto salutare: inducono un atteggiamento di distacco verso la vita, predispongono a un qualche nirvana, una volta estirpate le radici della soddisfazione egoistica, spezzano la spirale di desiderio e piacere che l’un l’altro si alimentano: questo asvattha i cui frutti rispuntano non appena colti (Bhagavad-Gita, XV, 1-3). Ogni esistenza avviene nel tempo e al 49


tempo obbedisce, esce dalla sua mano e in essa rientra, e pertanto è irreale, poiché ha una fine; tutto perisce, nel regno della materia, anche le stelle, tutto è soggetto cioè alla legge di Maya, non è che apparenza. Le immagini del mondo sono ricamate su un velo, e la Maya è lo scenario fittizio, la tela colorata e tenue che un dio ha steso innanzi ai nostri occhi. Chiamiamo “mondo” tale scenario spacciato dai sensi e consideriamo reale la nostra presenza in esso, ma tutto ciò è appena un riflesso sull’acqua, un’impronta di passi sulla sabbia, poiché esiste per poco e poi già non è più – anzi, giacché scomparirà è come se non esista per davvero fin da adesso, come non sia realmente reale; reale è semmai il nulla da cui l’esistenza era scaturita e in cui verrà riassorbita, in un processo che si ripete secondo necessità ciclica come le fasi della luna. In fondo è lo stesso discorso di Platone, che contrapponeva la terra peritura alle eterne idee. Gli attributi che riconoscevamo alla dimensione fantastica, il suo essere vaga e arbitraria, si addicono perfettamente anche al mondo dei corpi, che sfuma a sua volta a rango di sogno e perde consistenza solida. Fu Schopenhauer a dire che la cosiddetta realtà è solo una rappresentazione soggettiva: un sogno che noi stiamo facendo, e in cui noi stessi siamo compresi; o magari è qualcun’altro a fare questo sogno e a sognare in esso anche noi. Anche l’Induismo ritiene che l’universo materiale sia un sogno fatto da Visnu, il dio la cui attività mentale è ciò che crediamo che esista. Alberi, continenti e città non sono che suoi pensieri, e anche noi siamo solo momenti di quell’unico immenso sogno che Egli fa (o magari immagini impresse sulle scaglie del serpente cosmico Ananta, tanto per restare in un’ottica brahmanica). Il simbolo del mondo come sogno di Visnu è il fiore di loto che spunta dall’ombelico del dio: fiore tenero e forte, regale e fragile, che nel suo bacio accoglie simbolicamente tutta la bellezza effimera della creazione. Non c’è da credere mai fino in fondo che quello che ci appare sia reale, che siamo qui e ora. Conviene guardare a tutto come un pubblico guarda alla scena su un palco, con la stessa sordina con cui 50


gli spettatori assistono allo scorrere delle immagini su uno schermo: senza prenderle troppo sul serio. Questa tendenza a relativizzare il presente, a coglierne la precarietà, è una costante in quegli scrittori di tipo idealistico e contemplativo, che più si avvicinano a una sensibilità orientaleggiante. La leggerezza è dunque condivisione sorridente della vita nella sua insussistenza e impermanenza, nel suo esser fatta d’aria e d’ombra, di una materia impalpabile, che svanisce come polvere o piume: è la vita per prima ad essere leggera, come leggeri anche noi diveniamo, quando accettiamo il vuoto su cui essa fonda e la troviamo degna pur nella sua vanità.

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Il collezionismo di oggetti antichi e la nascita del primo Museo Civico a Siracusa di Santino Alessandro Cugno Collezionare è una attitudine tipicamente umana, praticata e diffusa sin dalla più remota antichità, al punto che Sigmund Freud sosteneva che l’uomo ha sempre provato l’esigenza di accumulare oggetti perché ha paura di morire e spera di tramandare il ricordo di sé attraverso di essi. Accumulare manufatti è, in primo luogo, una prerogativa di chi ha il potere, cioè la vecchia nobiltà e la nuova aristocrazia, poiché le collezioni da mostrare a sudditi, dignitari e ospiti stranieri sono di per sé ostentazione di potenza e strumento di propaganda per far toccare con mano le possibilità economiche del proprietario, il suo status sociale e il censo di appartenenza. Collezionano però anche i letterati e gli scienziati, i medici, gli uomini di legge, i colti prelati e i mercanti arricchiti ma, in questo caso, l’ostentazione tende ad essere piuttosto quella del sapere e dell’erudizione. A partire dal XVI secolo inoltre vengono allestiti appositi ambienti, le celebri Wunderkammern (“camere delle meraviglie”), dove i collezionisti possono custodire gelosamente le loro raccolte di pezzi esotici e preziosi, capolavori di oreficeria e argenteria, ebanisteria, pittura e scultura, storia naturale, archeologia, balistica e altro ancora. La diffusione dell’attività antiquaria in Sicilia a partire dai decenni centrali del Settecento affonda le sue radici nel clima di rinnovato interesse per l’antico che si respirava allora in Italia. Infatti l’Illuminismo aveva percepito le civiltà del passato, in particolare il mondo classico, come un imprescindibile modello estetico, etico e politico la cui conoscenza doveva essere diffusa nella società contemporanea. Inoltre lo studio delle antichità cominciava ad essere 52


profondamente influenzato dai rigorosi principi e metodi elaborati dalle scienze naturali: i lavori degli eruditi pongono adesso maggiore attenzione all’analisi diretta degli oggetti e alla loro rappresentazione visiva, ai cataloghi (corpora), all'uso delle copie e censiscono in maniera quasi enciclopedica tutte le varie tipologie di “anticaglie” conosciute. I protagonisti siciliani di questo complesso fenomeno mettono in evidenza soprattutto la capacità di produrre grandi opere di sintesi, opuscoli e trattati vari sulle antiche civiltà e una spiccata tendenza all’analisi topografica e alla sistemazione storica, anche se attraverso un insoddisfacente studio analitico dei materiali raccolti. Il collezionismo antiquario isolano però, pur coltivato dall’aristocrazia e dall’ambiente ecclesiastico, non riesce a restare al passo con il progresso culturale e metodologico europeo, e in particolare germanico, per la difficoltà di essere adeguatamente informato sul dibattito scientifico dell’epoca: è significativo che illustri intellettuali del tempo quali G. B. Vico, L. A. Muratori e F. Münter non forniscano ai loro corrispondenti indicazioni dettagliate sugli antiquari siciliani o ne diano giudizio molto critico, così come, più recentemente, Paolo Orsi, Michele Amari e Antonio Salinas quasi mai ricordano chi li ha preceduti negli studi o nella creazione delle collezioni in Sicilia. Questo silenzio delle fonti rende oggi molto difficile ricostruire in maniera attendibile la storia e le dinamiche culturali di uomini e collezioni spesso scomparse da molti decenni senza quasi lasciare traccia, se si fa eccezione per le poche lettere private e i numerosi carteggi custoditi nelle biblioteche e archivi siciliani, generalmente l’unica arma di impegno civile e di fuga dall’isolamento culturale cui erano condannati gli intellettuali. A partire dal Seicento, e in misura maggiore nel secolo successivo, Siracusa divenne una delle mete principali del Grand Tour, il viaggio di istruzione e formazione che ogni giovane aristocratico europeo del tempo doveva compiere, per via del suo 53


enorme patrimonio architettonico e le bellezze naturali del territorio circostante. Decine di eruditi, artisti, antiquari, viaggiatori e scienziati invasero la città alla ricerca delle sopravvivenze di luoghi e situazioni del suo straordinario passato greco, alimentando allo stesso tempo il traffico internazionale di opere d’arte verso musei e collezioni private di tutto il mondo e gli scavi archeologici abusivi. A Siracusa molto rinomate erano le raccolte di oggetti antichi dell’archeologo Vincenzo Mirabella (1570–1624), del vescovo Giambattista Alagona e Giustiniani (1726–1802) e di Cesare Gaetani conte della Torre (1718–1805), uno dei protagonisti nel campo della gestione dei beni culturali nella Sicilia della seconda metà del Settecento. Negli anni compresi fra il 1740 e il 1778 il conte era stato in stretti rapporti epistolari con i più celebri esponenti dell’antiquaria e dell’archeologia siciliana, cioè Domenico Schiavo, il Torremuzza e il principe di Biscari, e da questi documenti spicca la sua totale indifferenza nei confronti di qualunque problema di conservazione: l’epistolario del Gaetani è dominato infatti dai continui richiami dei corrispondenti affinché il destinatario delle lettere, noto per essere disinteressato al possesso degli oggetti recuperati durante le proprie esplorazioni archeologiche, non si privasse di monete, iscrizioni e altri manufatti rinvenuti nel territorio siracusano per regalarli a viaggiatori e collezionisti stranieri, primo fra tutti sir William Hamilton ambasciatore britannico alla corte borbonica. Tommaso Gargallo (1760–1843), marchese di Castel Lentini, illustre letterato, poeta e storico siracusano, fu uno dei primi uomini di cultura a mettere in rilievo, nelle sue celebri Memorie Patrie del 1791, l’assoluta necessità di tutelare e valorizzare questo straordinario patrimonio storico-artistico attraverso l’istituzione di un “museo civico” con gabinetto di storia naturale da affidare agli eruditi locali. L’idea della creazione di un museo siracusano, tuttavia, cominciò ad essere oggetto di concrete discussioni solo dopo l’eccezionale scoperta negli orti Bonavìa delle celebri statue dell’Esculapio (dicembre 1803) e della Venere Anadiomene (gennaio 1804) per opera di Saverio Landolina Nava (1743-1814), il Regio Custode delle Antichità della 54


Val di Noto e rinomato studioso e collezionista. Landolina riteneva che solo con una istituzione museale civica fosse possibile salvaguardare a Siracusa sia i reperti delle nuove e numerosissime esplorazioni archeologiche che il prezioso materiale conservato nelle tante collezioni private cittadine. Ciò doveva pure servire ad evitare l’esportazione illegale delle opere d’arte e delle antichità aretusee a Palermo o addirittura al di fuori dei confini del regno borbonico. Tuttavia soltanto nel 1809 il Landolina fu in grado di tradurre nella pratica il suo ambizioso progetto culturale e politico, cioè quando mons. Filippo Maria Trigona, vescovo di Siracusa dal 1807 al 1824 e grande appassionato di antiquaria, si dimostrò favorevole nel mettere a disposizione alcuni ambienti del Seminario, donando nel contempo le antichità del piccolo ma molto interessante Museo del Vescovile Seminario dei Chierici, costituite soprattutto dalle collezioni del canonico Giuseppe Logoteta (1749–1809). Il sovrano approvò la nuova istituzione e un’epigrafe marmorea, conservata presso l’ingresso dell’ex Museo Archeologico Nazionale in Piazza Duomo, fu realizzata a ricordo di questa importante fondazione. La scelta del Seminario era particolarmente felice in quanto ubicato al centro della città, nei pressi della Cattedrale e della ricca Biblioteca dove si riuniva l’Accademia Siracusana, che teneva dissertazioni anche su argomenti di archeologia e antiquaria. L’esempio del vescovo venne ben presto imitato dalle donazioni di diversi illustri cittadini, fieri di arricchire la “cultura nazionale” con gli antichi oggetti di loro proprietà e con la consapevolezza di saperli d’ora in poi ben custoditi. Il maggior incremento, comunque, venne fornito dagli scavi condotti da Saverio Landolina e dal figlio Mario (1760–1853) e dagli oggetti appartenenti al prete e antiquario Giuseppe Maria Capodieci (1749–1828). I lavori per il museo furono portati a termine nell’arco di quasi due anni e l’inaugurazione ufficiale ebbe luogo il 20 aprile 1811, durante la quale il discorso di apertura fu affidato al dotto mons. Ignazio Avolio (1765–1844), illustre Bibliotecario dell’Alagoniana. A causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Saverio Landolina dovette però affidare al figlio il 55


compito di affrontare i diversi problemi di carattere pratico nell’allestimento del museo, quali la ristrettezza dei locali, la scarsa disponibilità di risorse finanziarie e umane e le difficoltà nel raccogliere il materiale proveniente dalle aree di scavo archeologico e dalle collezioni private. Presso la Galleria Regionale di Palazzo Bellomo è conservato un quadretto intitolato Il primo Museo Archeologico di Siracusa che raffigura parecchie statue (tra cui la Venere) e gruppi di gentiluomini e dame in eleganti costumi del tempo: questo dipinto di modesta qualità, che Paolo Orsi attribuisce ad un pittore locale ignoto degli inizi dell’Ottocento, ha un grande valore storico e documentario perché restituisce l’immagine e l’atmosfera del nuovo patrio museo siracusano. La vita del museo civico di Siracusa dovette essere, per molto tempo, piuttosto grama e stentata poiché non era oggetto di particolari attenzioni da parte dello Stato e la sua esistenza appariva legata essenzialmente ai vigili interventi degli eruditi locali che ne avevano voluto la fondazione. Fu il ritrovamento del sarcofago di Adelfia il 12 giugno 1872, durante le indagini che Francesco Saverio Cavallari conduceva nella catacomba di S. Giovanni, a dare nuovo impulso affinché si pensasse di collocare le eccezionali testimonianze del passato siracusano in un luogo più degno della vecchia palazzina appartenente all’Arcivescovado: questo auspicio fu presto realizzato in Piazza Duomo dove, per decreto regio del 17 giugno 1878, viene sancita la nascita del Museo Archeologico Nazionale di Siracusa, inaugurato però solo nel 1886. Il primo direttore fu l’ing. Cavallari, al quale subentrò nel 1891 Paolo Orsi, le cui celebri campagne di scavo in tutta la Sicilia orientale resero il museo uno dei più importanti dell’epoca a livello internazionale. Il 16 gennaio 1988 venne infine inaugurata la nuova sede nel giardino di Villa Landolina con un innovativo progetto museologico e museografico, fortemente voluto e realizzato dall’ex soprintendente Giuseppe Voza e dall’architetto Franco Minissi, che espone tutta la storia archeologica della Sicilia sud-orientale dalla Preistoria all’epoca bizantina.

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“Il sacrificio di Isacco”, “Giacobbe che lotta con l’Angelo” di Vacon Sartirani 58


Alojz Rebula, una vita di Primož Sturman Alojz Rebula nasce nel luglio del 1924 a San Pelagio (Šempolaj), piccola frazione del comune di Duino Aurisina nella provincia di Trieste. Durante la guerra frequenta il piccolo seminario di Udine e Gorizia, studi che conclude con profitto nel 1944. Dopo la fine delle ostilità decide di iscriversi alla Facoltà di Filosofia presso l'Ateneo della capitale slovena Lubiana, dove quattro anni più tardi si laurea in Filologia classica con una tesi dal titolo La lingua poetica di Properzio. Il suo percorso professionale inizia poco dopo, con la docenza presso le scuole statali con lingua d'insegnamento slovena nella provincia di Trieste e si concluderà alla fine degli anni Ottanta. Considerato a tutti gli effetti scrittore sloveno, ha però pubblicato più di qualche opera in originale italiano, tra le quali citiamo: il racconto La conversione di Sant'Agostino, la raccolta di saggi La Divina Commedia nelle traduzioni slovene e un'opera monografica sullo sacerdote triestino Jakob Ukmar, prossimo alla beatificazione, nonché l'opuscolo dal titolo italiano/latino Credo. Protagonista insieme a Boris Pahor della rivista letteraria Zaliv, ma ancor prima del Risorgimento letterario sloveno nella Trieste del dopoguerra, rimane fedele ai tre filoni che caratterizzano la sua vita e la sua opera; questi sono il fiero senso di appartenenza alla nazione slovena, l'amore viscerale per il mondo antico e il suo profondo radicamento nella spiritualità cristiana. Notevoli sono in questo senso 59


gli influssi sulla sua opera del filosofo cristiano francese Jacques Maritain. In italiano sono disponibili le traduzioni delle seguenti opere: Nel vento della Sibilla (romanzo ambientato nell'epoca dell'Impero romano), Editoriale Stampa Triestina, 1992 e de La peonia del Carso (ambientata nel periodo fascista sul Carso triestino), Consorzio Culturale del Monfalconese, 2002. E' stato protagonista insieme a Manlio Cecovini, ex sindaco di Trieste, del Carteggio scazonte, pubblicato nel 2001. Oggi vive e lavora nel paese natĂŹo della moglie e scrittrice Zora TavÄ?ar, Loka pri Zidanem Mostu, nella valle della Sava (Slovenia sud-orientale). Il racconto qui presentato è tratto dalla sua raccolta di prose brevi dal titolo Arhipel: Panorama slovenskih stoletij (Arcipelago: Panorama dei secoli sloveni), pubblicato dalla casa editrice Slovenska matica nel 2002.

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Lettera a Caterina da Siena 8 di Alojz Rebula

Certosa di Žiče9, primavera del 1400

Carissima mia Santa Domina, permettimi di esordire riprendendo le parole del salmista: Defecit anima mea in desiderando iudicia tua in omni tempore!10 Sono passati venti anni, domina, da quando ancora giovane, all'età di trentatré anni, abbandonasti la natìa Siena e piantasti la tua tenda nel celeste, lasciando il tuo servitore Stefano11 in questa mortale e oscura valle. Perché allora, mi dirai, ritaglio il mio prezioso tempo contemplativo per scriverti, pur sapendoti ormai altrove? Ti scrivo, poiché la notte certosina si è acquattata con tale forza su di me, per questo avverto un forte bisogno di parlarne con qualcuno. Non sto sopportando solamente il peso delle possenti mura gotiche, ma anche quello delle umide selve che le circondano, il peso di questa terra straniera tra la Sava e la Drava, il peso di quest'Europa, il peso di questa straziante mortalità. 8 Note e traduzione autorizzate dall’autore a cura di Primož Sturman. 9 Žiče, Jurklošter e Bistra sono tre località della Slovenia dove all'epoca sorgevano conventi certosini, ai quali si aggiunse nel Cinquecento anche quello di Pleterje, l'unico tuttora vivo. 10 Mi consumo nel desiderio dei tuoi precetti in ogni tempo!“ 11 Nella versione originale in lingua slovena Štefan.

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Mi serve sapere al mio fianco un interlocutore, al quale io possa chiedere: i tempi del giudizio sono già arrivati? Gli angeli della fine stanno già sfoderando le loro trombe? Oppure se, in questa umida valle sotto il monte Konjiška gora, ho oramai trasentito il loro suono, permettendo che le danze finali avessero inizio senza la mia consapevolezza? È possibile che peggior cosa intacchi la nostra santa Chiesa cattolica? Cosa c'è di peggio del vedere l'uomo che si rivolge al suo simile, non chiedendogli se cristiano o maomettano, ma dicendogli: “Di quale obbedienza sei, romana o avignonese?” O tunica di Cristo, lacerata per tutta la tua lunghezza! Entrambi pensavamo, domina – nel paese della luce, dove ti trovi, ricordi ancora questo fatto? – che con la fine del nuovo esilio babilonese tutto si sarebbe concluso: il vicario di Cristo avrebbe fatto, dopo settant'anni, ritorno da Avignone alla volta di Roma e il giardino unificato della santa Chiesa avrebbe potuto così rifiorire in una nuova primavera. Quante lettere, tu analfabeta per volere del Sommo, mi dettasti a questo fine, divina foriera di unità; con un gran seguito in tutta Europa! Quante lettere a papi, cardinali, conti, dottori e altri individui di ogni genere! Per non parlare di quelle con le quali riconciliasti molte città, strette in mortali morse d'odio. Ma tutte queste epistole così appassionate non erano servite a placare il tuo ardore. Ti recasti ad Avignone, nella lontana valle del Rodano, per convincere il santo padre Gregorio a tornare. Non seppe decidersi, ricordando l'esperienza che dovette subire il suo predecessore Urbano. Quest'ultimo decise infatti di tornare, ma tre anni di sommosse della plebaglia romana gli bastarono, così se ne tornò affranto nella sua Babilonia francese. Per questo Gregorio, il suo successore sul seggio di Pietro, ebbe parecchi dubbi, quando dovette affrontare i rischi già sperimentati dal predecessore. Lasciare Avignone alla volta di Roma non è come essere passati dall'oggi al domani. Ma tu, domina, grazie a Dio e con l'ausilio della tua grande sorella nel Signore Brigitta di 62


Svezia, riuscisti a convincerlo. O, quale beato autunno del 1376, quando Gregorio con altri tredici cardinali partì verso sud, dove lo attendeva l'esultante Sione tiberino! Quanto fosti gioiosa, domina, quando vedesti compiuta la missione, per la quale la tua vita s'era consumata ardendo… Ma quanto durò questa fortuna che fu al contempo anche la fortuna di tutto il mondo cattolico? I giardini romani erano appena rifioriti in una nuova primavera, quando il cielo della santa Chiesa si oscurò nuovamente, scatenando molto presto nuovi lampi e tuoni. Dopo la morte di Gregorio con i cardinali arrivarono al conclave anche i loro diavoli custodi. Come ogni romano aveva avuto per sé anche il proprio diavolo custode, così tutti noi battezzati ce l'abbiamo accanto al nostro angelo. E così i diavoli romani urlarono ai cardinali: “Eleggete un papa italiano!”, i diavoli francesi ribatterono invece dicendo: “Rinnegate l'elezione di Urbano, andatevene da Roma ed eleggete un altro pontefice!” E così, in opposizione al nostro Urbano, Clemente si sedette sul trono di Avignone. Due pontefici contemporaneamente nella Chiesa – quando mai era occorso un tale fatto durante i millecinquecento anni di storia? A te, domina, non fu necessario guardare questo ribrezzo per più di un anno, dato che già qualche mese dopo lasciasti questa nostra infausta Valle. Io, disgraziato, la sto invece guardando già da venti anni a questa parte! E chissà, se non mi toccherà vederla per altri venti! Si, da vent'anni sto guardando due chiese. L'Italia e la Spagna sono romane, mentre la Francia, l'Aragona, la Castiglia, la Navarra, la Scozia, l'Irlanda e Napoli avignonesi. Il tutto è peggio di quello che era stato l'esilio avignonese! Quella volta il papa aveva dimorato ad Avignone invece che a Roma, ma la Chiesa era stata una e unica, sotto la guida di un unico pastore. Mentre ora, sventura di tutte le sventure, i suoi pastori vorrebbero 63


essere due! Tutto è diviso, popoli e diocesi, divise sono, per così dire, anche le chiese e i cimiteri. Come possono davanti a tutto ciò restare indivisi gli ordini ecclesiali – i domenicani, i minoriti, gli agostiniani, i giovanniti? Come possiamo restare uniti noi, figli di San Brunone, e i nostri monasteri nell'Europa intera? “Entra nella certosa, Stefano,” mi dicesti, domina, quando ti venni a trovare, distesa sul tuo letto di morte. Ti obbedii, come ti ascoltai pure quella volta, quando al nostro primo incontro mi invitasti di lasciarmi alle spalle la mia vita impura. Abbandonai il mio ius, indossai il saio monacale e mi avviai verso la montagna della compiutezza. Per via del mio sapere in fatto di giurisprudenza molto probabilmente dovetti sobbarcarmi anche l'onore di diventare priore. Dopo aver capitanato vari monasteri, la Provvidenza mi aveva portato qui, in questa certosa, la più antica di tutte sul territorio dell'Impero, il nome della quale però la mia bocca italica stenta ancor'oggi a pronunciare: Žiče. Se provi a dire la nostra parola ciccia, non sei lontano dal suo suono originale, con il quale gli indigeni chiamano questo luogo. La località si trova infatti nella Slovenia, non lontano dalla Via Gemina, lungo la quale le legioni romane, partite da Aquileia, si erano dirette alla volta della Pannonia e del limes settentrionale. Ti avevo detto di come le saette di Satana abbiano in lungo spaccato anche la secolare quercia del nostro padre Brunone: una parte, quella avignonese, aveva iniziato a pendere verso la grande Certosa, l'altra verso Žiče. Avrei potuto anch'io scegliere anche una destinazione diversa, poiché questo piccolo paese possiede altre due certose, quella di Jurklošter e quella di Bistra. Detto in parole povere: quello che rappresenta la grande Certosa ai piedi delle Alpi per l'obbedienza avignonese del nostro ordine, è raffigurato da quella di Žiče per l'obbedienza romana. E la mia indegnità si è dovuta prendere carico di stare alla sua testa. Lo sta facendo da tre anni ormai.

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Io sono italiano, al mio fianco lavora l'economo praghese, gli altri monaci sono invece francesi e tedeschi. Uno di loro è sloveno, sloveni sono anche l'usciere e il giardiniere. Questa è la nostra Europa, raggranellata un po' da ogni dove; ma ci si trova bene insieme, uniti dai due elementi della nostra universalità fraterna: la lingua latina e l'obbedienza romana. Non dico che i nostri fratelli della grande Certosa siano in qualche modo meno vicini a Dio, poiché obbediscono ad Avignone, la quale è loro molto più vicina di quanto non lo sia la stessa Roma. Molto probabilmente gli sono ancor più vicini, considerando il fatto che si trovano nella nostra casa madre non lontano da Grenoble; quella fu la prima, nella quale si insediò l'angelo di Brunone. Ma tu, mia santa domina, stesti senza dubbio alcuno dalla parte di Roma e di Urbano VI, anche se egli volle, subito dopo il suo insediamento, stravolgere tutto quanto. A cosa porta l'ardore, quando prende l'avvento sul raziocinio! Se solo Urbano fosse stato meno rude nei confronti dei cardinali, questi ultimi non gli avrebbero voltato la schiena e non avrebbero eletto un nuovo papa avignonese. Ma tu ti schierasti a fianco di Roma e io ti seguii, sebbene la stragrande maggioranza della Chiesa avesse preferito seguire Avignone. Ma quale maggioranza mai, quando lo fecero perfino alcuni dei più santi membri della nostra Chiesa. Non fece la stessa scelta anche il tuo santo fratello Vincenzo Ferreri? O Dio, quando ci ritroveremo finalmente un nuovo Geremia che avrà intonato il suo triste canto sul marcio ribrezzo che regna nella casa del Signore? Non sono infatti divisi solamente il papato, la rosa dei cardinali e le diocesi, ma anche la stessa santità! Si riuscirà forse scorgere il giorno, quando sopra di noi regnerà un solo pastorale? L'unità non è voluta solamente dall'angoscia che regna sovrana sulla barca di Pietro. Essa è voluta anche dall'angoscia che avvolge il mondo intero. Cosa risuona sulla sponda beata, dove tu ora contempli 65


la Santa Trinità che sempre bramasti? Vi giunge almeno l'eco lontana di tutto quello che sta capitando nella nostra Valle? Guarda il turco! Di questo nuovo flagello di Dio, che si è avventato sul mondo dalle profondità asiatiche, abbiamo avuto sinora solamente qualche sentore. Abbiamo sentito, di come il nuovo Anticristo avesse guadato i Dardanelli e lungo della Via Egnatia si fosse diretto alla volta dell'Occidente. Anni fa abbiamo sentito del Campo dei merli12 e di come il principe serbo fosse riuscito a uccidere il sultano Murat, sebbene le grande battaglia non abbia riservato sorte fortunata ai serbi. Ma una cosa era sentire di fatti accaduti lontano, un'altra invece rendersi conto dell'incupirsi turco all'orizzonte. Dove andrà a picchiare questo nuovo flagello di Dio, dopo aver soggiogato l'impero bulgaro e distrutto l'esercito crociato presso Nicopoli? Se solo Tamerlano riuscisse a stringere i turchi da est con i propri eserciti mongoli, dato che noi cristiani al momento non siamo in grado di farlo. Non ci resta che attendere il momento, quando gli anticristi e i loro cavalli avranno risalito la valle della Sava. Non cercheranno la strada da imboccare. Il paese brulica di loro spie, per questo saranno stati preventivamente informati di ogni piccolo anfratto nascosto. Credi non sappiano dell'esistenza dei vari monasteri? Come vuoi che non sappiano di Žiče? Si avventeranno sulla certosa come delle vespe su di una pera marcia. La povera gente nei dintorni si sta chiedendo di come ci si possa difendere da questi sciami di cavallette sataniche. Stanno riflettendo sul da farsi; di come non trovarsi impreparati al loro arrivo. Per questo hanno pensato di approntare cataste di legna in cima alle colline, per annunciare il loro arrivo. In questo modo collina annuncerebbe a 12

Riferito alla battaglia del Kosovo polje, combattuta nel 1389

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collina il loro avvicinarsi. Anche il rintocco delle campane potrebbe darne notizia. Così come i piccoli cannoni potrebbero farlo, ma questo è già un affare della nobiltà terriera. Ma se i diavoli arrivassero sul serio, come ci potremmo difendere? Dovremmo scappare nelle foreste oppure approntare delle fortificazioni, cinte da spesse mura? In questa terra ci sono molte chiesette in cima alle colline e se le circondassimo con delle mura, la gente potrebbe trovarvi riparo. Come vedi, mia santa domina, il tutto ci fa credere che siamo purtroppo destinati al cadere sotto il giogo turco. Ma se almeno la nostra chiesa sapesse imbarcarsi in questo futuro turco in modo unitario, non lacerata lungo la sua travatura centrale! Peccato che all'attuale pontefice Bonifacio IX non importi molto di ristabilire quest'unità. Ha addirittura rifiutato la proposta dell'avignonese Benedetto XIII di tenere un incontro per intavolare negoziati. E questo tu non lo avresti sicuramente approvato. Chissà se in questo caso non avresti iniziato a schierarti dalla parte di Avignone? In tal caso il tuo fedele Stefano ti avrebbe certamente seguita. In quale pasticcio ci troviamo, mio Dio! Dovresti vedere come ci mettono a disagio certe circolari. Sono romane o avignonesi, ci interroghiamo? Per i confratelli di Jurklošter e di Bistra le cose sono un po' più semplici, poiché non sono tenuti a gestire tutta l'obbedienza romana certosina, cosa che tocca a noi di Žiče. Per non parlare del fatto di cosa non ci riservino i preparativi alle assemblee di tutto l'ordine certosino. Ho visitato Jurklošter poco tempo fa. E' certosino per la sua posizione, se così si può definire, chiuso tra boschivi anfratti, più selvatici dei nostri, e sovrastato da una montagna dalle pareti quasi verticali. Di spirito forse anche, poiché i frati sono più avvezzi allo studio e alla scrittura. Come già detto, noi siamo parecchio impegnati dalla burocrazia dell'obbedienza. I carpi che vengono coltivati nel loro stagno sono però meno saporiti dei nostri.

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Ho finito e mi sono tolto un peso dall'anima, mia santa domina. La campana monasteriale mi sta richiamando in una nuova giornata. Che riesca a onore di Dio e alla mia salute eterna!

Ricorda nel regno della luce il tuo fedele Stefano Macone, certosino

P. S. Nella Commedia del nostro conterraneo toscano, quell'incallito fiorentino di Dante Alighieri, ho trovato per ben cinque volte menzionata la cittadina senese: cinque volte, pensa. Due volte nell'Inferno (dove ci considera dei presuntuosi) e tre volte nel Purgatorio. Nel Paradiso invece nemmeno una‌

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Alda Merini All’ alba del parto folle, Alda Creatura dormiente dal sacro volto dalla nuda prigionia sepolcrale dalle latèbre del cuore umano il verso regale dal sonno svegliasti. Mio fiore avvizzito e costernato, voce esiliata nell’innocente colpa riposa furtiva navigando l’ultimo sonno e dai navigli celebranti l’infernale poesia, rifulge di nuova visione il funereo autunno. Erano ossa scarnite gli anni del silenzio, fuochi di anni scolpiti al vento rivestiti nella loro polvere di luce languente e mentre noi malati spargevamo menzogne la follia della ragione decretava il suo primato.

Marco Napoli

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“Taglio Forte”, “Luca” di Andrea Familari

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Le interviste impossibili Eri ca Bernardi i ncontra Boni faci o VIII di Erica Bernardi NOTE: Opera per il teatro radiofonico. Il luogo dell'intervista è l'VIII cerchio dell'inferno, il cerchio delle male bolge, precisamente nella III bolgia: la bolgia dei simoniaci. Bonifacio VIII ha la testa conficcata in una buca lambita di fiamme e le gambe in aria. (Rumori di braci ardenti e della troupe che prepara il luogo dell'intervista, spostamenti bruschi, grida dei dannati) Bernardi: - Buongiorno cari ascoltatori, il nostro ospite di quest'oggi è sua santità Marcello Caetani, meglio noto come Bonifacio VIII, socio fondatore della ONLUS “forza giubileo”, paladino dei diritti dei Neri. Neri che è riuscito a mettere in riga a suo modo – in Colonna non sia mai! – e inoltre definito come il più grande diplomatico mai esistito nei difficili rapporti che legano il nostro paese alla Francia. Vi confesso che temo sempre di non essere all'altezza di uomini di una religiosità disarmante quale sua santità, ma devo confessare che registrare una puntata all'inferno mi è sembrata una proposta troppo aitante. È uno di quei trip che nella vita vanno fatti. Ma eccoci al suo fianco, sembra scosso dal lavoro che la nostra troupe ha fatto per potergli collegare il microfono. Bonifacio: - Se' tu già costi ritto, se' tu già costì ritto, Marcinkus? Di parecchi anni mi mentì lo scritto. Se' tu sì tosto di quell'aver sazio per il qual non temesti tòrre a 'nganno la bella donna,e poi di farne strazio? Bernardi: - Buongiorno sua santità Caetani, temo che voi dannati abbiate perso le vostre capacità preveggenti col passare dei secoli. A 71


quanto pare Marcinkus non l'hanno inviato qui a darle il cambio, ed è già morto da un bel pezzo. In compenso hanno inviato me. Bonifacio: - E lei chi è? Bernardi: - Chi sono io non ha alcuna importanza. Quel che importa è chi è lei. Le basti sapere che non sono Marcinkus. Bonifacio: - Dannato! Avrà pagato quel mafioso di Sindona per farsi traghettare in purgatorio! Bernardi: - Sindona è stato avvelenato in carcere. Bonifacio: - Come? E Calvi? E la banca vaticana dello IOR? Bernardi: - Calvi è stato trovato impiccato sotto il ponte dei Blackfriars e lo IOR è fallito più di 20 anni fa. Ma Marcinkus non è stato mandato qui. Glielo ho già detto: dopo più di 700 anni può prendere in considerazione la possibilità che le vostre capacità di prevedere il futuro si siano un po' arrugginite? Bonifacio: - Oh Mon Dieu! Sono il vostro umile servitore, je vous en prie de m'aider! Quanto ancora dovrò restare qui? Bernardi: - Vedo che non avete perso la vostra encomiabile fede nei secoli e soprattutto la vostra attitudine a parlare francese... Bonifacio: - Guardi, io e Filippo il Bello abbiamo sicuramente avuto qualche piccolo attrito fra noi, ma c'è sempre stata reciproca stima. Bernardi: - Sarà per questo che gli anni successivi al vostro pontificato sono stati ricordati come gli anni della cattività avignonese. Bonifacio: - Ancora non mi capacito di come mi abbiano scaricato addosso tutte le colpe! Filippo voleva abolire tutti i privilegi fiscali del clero in Francia per creare il suo staterello laico e accentrato! Ma dico, ma lei lo sa quanta fatica richiede il nostro ruolo? Bernardi: - Al momento mi sfugge... Bonifacio: - Tutta la vita a dover parlare con qualcuno che non ti risponde mai, ma che ti dicono che c'è. Tutta la vita senza poter toccare una donna,quando tutto ciò che vorresti è abbracciarne una, baciarla e farci l'amore da mattina a sera. Tutta la vita a dover porgere 72


l'altra guancia, anche quando gli ambasciatori di un pischello francese vengono a schiaffeggiarti. Bernardi: - Anagni l'ha ferita profondamente? Bonifacio: - Sì. Io capisco che magari Unam Sanctam non suona troppo bene alle orecchie dei francesi, o che il mio ideale teocratico non trovava spazio nella nuova realtà che si stava definendo, ma via, oltraggiare e catturare il papa e lasciarlo morire in una lurida prigione è un atto inconcepibile! Bernardi: - Non le è stato utile passare del tempo solo con se stesso in quella prigione? Non ha meditato sui suoi errori? Bonifacio: - Senta, se lei si riferisce al povero Pietro da Morrone, pace all'anima sua, non ho avuto scelta. Lui era in odore di santità e noto per la sua religiosità, è vero, ma la sua elezione è avvenuta solo per la necessità di trovare un outsider . Le pressioni popolari degli ordini mendicanti erano forti e tutte le famiglie nobili romane non riuscivano a mettersi d'accordo sull'elezione di un nuovo pontefice. Ma come voleva che si sentisse in Vaticano un fraticello abruzzese arrivato da un eremo sulla Maiella? Bernardi: Non lo so, me lo dica lei. Bonifacio: - Le pressioni sono continue a Roma, non credo di essere stato il solo a invitarlo caldamente ad abdicare. La verità è che Celestino V era un vile, uno senza attributi. Una volta morto, l'hanno spedito nell'unico spazio dove non si è ne' carne ne' pesce, dove è giusto che stia. Povero nerd! Trascorre il suo tempo correndo dietro una bandiera bianca con vespe e mosconi a seguito, non lo invidio per niente. Mi dia retta: non vale la pena di tessere troppo le lodi di quest'uomo che si è sottratto alle proprie responsabilità per paura, non è migliore di nessuno di noi. Bernardi: - “Colui che fece per viltade il gran rifiuto”, devo dire che la sua posizione su Celestino V è l'unica cosa che ha in comune con Dante Alighieri, anche se certamente con motivazioni differenti alla base. 73


Bonifacio: - Sono convinto che se Dante fosse stato un po' meno testa calda avremmo sicuramente trovato molte altre cose in comune. Per esempio anch'io da ragazzetto ho avuto un grande amore che si chiamava Beatrice. Beatrice da Todi. Aveva un fratello insopportabile però. Non ha mai digerito che tra me e sua sorella ci fosse qualcosa, era gelosissimo di lei. Ha speso tutta la vita a scrivere componimenti vibratamente risentiti nei miei confronti, anche quando non avevo più nulla a che fare con la sua amata sorella. Bernardi: - Sorrido delle sue affermazioni in merito a Dante Alighieri. Lei e Alighieri siete stati, siete e sarete sempre due poli opposti e tra loro inconciliabili. Dante era un guelfo bianco, lei stava con Corso Donati e coi neri. Quando Dante nel 1300 viene nominato priore di Firenze voleva mantenere una posizione di equidistanza tra papato e impero e non voleva che il papato interferisse nelle questioni cittadine, lei invece voleva inglobare Firenze nello Stato della Chiesa. Bonifacio: - Altro? Bernardi: - Lei ha chiamato Dante a Roma facendogli credere che avrebbe voluto accordarsi con i guelfi bianchi quando in realtà stava tramando contro di loro per poter prendere il potere a Firenze. Lei ha fatto arrestare e mettere in galera moltissimi dei compagni di Alighieri e solo pochi sono riusciti a scappare. Bonifacio: - Vedo che è preparatissima, continui! Bernardi: - Lei ha fatto accusare Dante di baratteria, gli ha dato dell'evasore, di colui che cerca di arricchirsi grazie alle cariche pubbliche. Bonifacio: - Non lo era? Bernardi: - Certo che no! Bonifacio: - E allora perché non si è presentato in tribunale dichiarandosi innocente? Bernardi: - Se si fosse presentato in tribunale sarebbe stato un processo farsa, l'avreste condannato e basta. Lei così lo ha obbligato a scegliere l'esilio. 74


Bonifacio: - Lei crede? Bernardi: - Un ingegnoso piano architettato per poterlo incastrare: questo vi ha permesso di condannarlo a morte in contumacia e in più di sequestrare tutti i suoi beni. Quindi sinceramente non credo sia mai stata una sua prerogativa fare amicizia con Alighieri. Bonifacio: - (ride) Lei ha un'umana limitatissima prospettiva delle cose: se Dante fosse tornato a Firenze non avrebbe mai scritto la Divina Commedia, l'opera che lo ha reso immortale. Cosa crede che sia la Divina Commedia se non il parto di un frustrato in esilio che vive in una condizione d'indigenza senza alcun bene e senza patria? Bernardi: - Effettivamente da tutta l'opera emerge un’animosità astiosa nei confronti dei fiorentini, della chiesa, della politica e dell'avido accaparramento del potere… Bonifacio: - Bingo! Indi comprenderà bene che Dante non sarebbe passato alla storia se fosse tornato al suo posto. Certo sarebbe stato riconosciuto come un brillante e stimato priore di Firenze, ma nulla più. Dalla sofferenza nascono i capolavori, Dante Alighieri e Ugo Foscolo docent. Non sono un Piccolomini, ma qualche conoscenza in materia culturale come vede l'ho anch'io! Bernardi: - Indi mi sta dicendo che in qualche modo le siamo debitori? Che senza di lei non avremmo avuto la Divina Commedia? Bonifacio: - Esatto! E non solo la Divina Commedia... Le ricordo che sono il fautore di un trend che non è mai obsoleto da oltre 700 anni: il giubileo. Bernardi: - E qui Simon Mago docet. Bonifacio: - (ride) Devo dire che per essere una figlia del suo tempo signorina, lei è piuttosto bigotta. E' fastidiosamente moralista. Sono stato un pioniere all'epoca, un uomo con e per il progresso. Bernardi: - Un vero business man. Bonifacio: - Perché non convogliare le energie di tanti pellegrini che venivano a Roma? Perché non incanalarle nell'edificazione di un 75


grande stato della chiesa esaltando la gloria di Dio? Ho semplicemente istituzionalizzato e economicamente finalizzato qualcosa che esisteva già da tempo. Bernardi: - C'est ça qu'il faut faire, quoi! (ironico) Bonifacio: - Oui, voilà! Ho offerto speranza a milioni di pellegrini che si recavano a Roma per redimere tutti i peccati commessi in vita chiedendo loro null'altro che una donazione spontanea qual è l'obolo di San Pietro. Bernardi: - Ma dal punto di vista dottrinale non bastava una semplice confessione? Bonifacio: - Sì. Ma volevamo un sistema più moderno, volevamo essere più moderni anche noi, a partire dallo slogan. INDULGENZA PLENARIA: YES, WE CAN. Non suona bene? Se io fossi un pellegrino, con uno slogan così sarei sicuro della garanzia di avere un posto in purgatorio prima e in paradiso poi. Bernardi: - L'aveva immaginato come Alighieri il passaggio nell'aldilà? Con la barchetta dell'angelo che parte dalla foce del Tevere e che porta le anime in purgatorio? Bonifacio: - Credo manchi un po' di sontuosità. Uno viene a Roma, paga, ottiene l'indulgenza, speravo ci fosse una nave Costa Crociere super-accessoriata per il viaggio e non un'insulsa barchetta. Ma Alighieri non era un uomo per il progresso. Bernardi: - E lei lo è? Bonifacio: - Credo che io e Alighieri rappresentassimo già ai tempi le due categorie principali della vostra epoca: l'una abbraccia il capitalismo, l'altra lo contesta senza però proporne una valida alternativa. E la storia si fa in questa dialettica. Bernardi: - Posizione singolare la sua, direi. Un'ultima domanda sua santità: quale futuro per Bonifacio VIII?

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Bonifacio: - Dato che non sono pi첫 in grado di prevederlo, non so. Mi auguro solo che al pi첫 presto inviino qualcuno a prendere il mio posto, ho il sangue alla testa da secoli in questa posizione. Bernardi: - Ci fermiamo qui signor Caetani. La ringrazio di essere stato con noi. FINE

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“Gola d’eterno”, “Amore doloroso”, “Il piccolo Antonio e le facce del mondo” di Antonio De Rose

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Centronuda Strati sovrapposti di me che l'uno dopo l'altro si sfogliano lasciando sull'asfalto pagine di me. Ne resta un corpo nudo che non ha pi첫 scuse, che perde quella spada con cui ho battuto il buio e crolla l'armatura con cui ho riempito il vuoto. Ma non esiste un cielo per questa emorragia Di inutili comparse. Laura Bertolini

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Assenze certe di Serena Gaudino Alle quattro precise l’autista ha accostato lungo il marciapiede ai margini dell’area industriale. Tutt’intorno, l’orizzonte era interrotto da decine di colline dolci coltivate a grano, brevi altipiani illuminati da intensi fasci di luce e attraversati ognuno da grossi nastri d’asfalto o brevi ferite di terra battuta. Alla fermata dell’autobus, ad aspettarmi c’era il mio amico. Lui è nato qui, quasi cinquanta anni fa. Una volta gli chiesi se aveva mai pensato di andar via: mi guardò dritto negli occhi senza rispondermi e poi quello stesso sguardo lo rivolse a un gabbiano che volteggiava proprio sopra le nostre teste. Per raggiungere il paese abbiamo percorso una strada secondaria, in silenzio. Lui ogni tanto mi sorrideva, muto, e poi tornava a guardare davanti a sé, sembrava concentrato su una cosa che non era là, in quel momento, in mezzo a noi. Dal paese ci mancavo da una decina d’anni: pensavo di trovarlo uguale, invece s’era leggermente ingrigito. La zona nuova, costruita dopo il terremoto degli anni ’80, è un agglomerato di luoghi sparsi: strade piuttosto banali, case quasi tutte a un piano con la pianta quadrata e palazzi, o troppo colorati o col cemento a vista, senza intonaco, senza colore. Prima, esisteva solo il paese vecchio e qualche periferia lontana, con le fattorie, le stalle, i fienili, i granai. Ma quando la terra ha tremato, le case più deboli si sono lesionate, moltissime sono crollate, pochissime sono state restaurate. La casa del mio amico è una di queste case nuove: a due piani, color cemento. Nella casa c’era solo la sua figlia più grande. Gaia appena ci ha visti ha passato il foglietto al padre, ha raccolto lo zaino dal 80


pavimento, ha indossato un baschetto rosso, un poncho di lana con le frange ed è uscita, senza dire una parola, anche lei. Nello studio del mio amico, al di là di un disimpegno dipinto di azzurro, le pareti sono tappezzare di libri, e sotto il tavolo da lavoro al centro della stanza c’è un vogatore e una cyclette ripiegata su se stessa. Lui mi ha indicato una poltrona verde a fiori, prima di sedermi mi sono sfilata il cappotto e i guanti. La sciarpa larga l’ho usata per fasciarmi le spalle. Si è seduto davanti a me, su uno sgabello dove punti anche le ginocchia. Leggermente piegato in avanti; ha acceso uno dei computer e mi ha sfiorato la coscia. Io gli ho preso la mano e ho cominciato a leggere ad alta voce. Mi ha parlato in un orecchio, mi ha baciata sulla fronte, tra i capelli e mi ha stretta contro il suo corpo. Ha continuato a leggere lui mentre io respiravo con un po’ d’affanno. Poi ci siamo di nuovo guardati negli occhi e ci siamo odorati, spogliati, avvinghiati. Senza fretta, senza temere nulla, nella penombra pomeridiana, neanche di essere scoperti. Più tardi, abbiamo parcheggiato la macchina in una stradina appena dietro la piazza principale del paese vecchio. La piazza era un grande spazio vuoto. Il vuoto in questo paese è qualcosa di solido: un compagno, una compagna, un amico; può essere, il vuoto, anche un invitato a tavola, un’assenza certa. Dal centro abbiamo percorso la strada che porta verso la piazza del convento. Lungo la discesa ho intrecciato il mio braccio al suo. Qualcuno tornava dai seggi, altri ci andavano per controllare, contare, numerare, registrare i voti che aveva preso questo o quel candidato. “Qui – ha aggiunto lui – la vita si misura sulla salita o la caduta di qualche re”. Il mio amico è un poeta. Le sue parole hanno ridisegnato la mappa di questi luoghi che lui assaggia e dopo mastica, consuma, digerisce, metabolizza ogni giorno. Sulla piazza del convento, ho avuto la sensazione di essere poggiata in un grembo slabbrato, di fronte alle pale eoliche delle colline di Sant’Agata. E mentre l’aria si trasformava in sibili lui mi ha detto, quasi sussurrando, che non potrebbe andarsene da qui perché questo è il suo mondo, la sua 81


terra; le sue radici affondano in queste colline smussate, insieme a quelle di sua madre, di suo padre che non c’è più, dei suoi figli e della sua sposa. Se non fossi stata innamorata di un altro forse mi sarei innamorata di lui, in quel momento, così, ecco. Mentre guardavamo laggiù io ho sentito il suo alito caldo colpirmi il viso, mi sono avvicinata per raccogliere il suo odore e ci siamo abbracciati forte. Forte tanto quanto ci si abbraccia sapendo che il mondo può sparire da un momento all’altro, e quel momento forse è quello buono e ci siamo baciati sotto la magnolia al centro dello slargo. Poi lui mi ha indicato una porta sul lato sinistro del convento, dentro non c’era nulla, se non una pila di sacchi di grano. Abbiamo fatto l’amore su quei sacchi freddi, sul pane futuro dei nostri figli, al ritmo dei cuori furenti e dello scroscio della pioggia che intanto ha cominciato a cadere. Risalita la via siamo riapparsi sulla piazza: c’erano gruppi di uomini in ogni angolo. Il mio amico ha salutato tutti: quelli che passavano nelle macchine, che si affacciavano ai balconi, o che stavano in fondo a certe vie buie e nascoste. Qualcun altro, di passaggio ha stretto la mano al mio amico, aspirante senatore, chiedendogli di non mollare. “Ho quasi cinquant’anni” ha detto, con tutta la disperazione che si porta dentro. Il caffè l’abbiamo preso in un bar accanto alla sede del Comune dove tre vecchi erano seduti attorno a un tavolo senza parlare, senza bere e con gli occhi persi al di là del fondo della loro tazza asciutta. Alle otto abbiamo ripreso l’auto e prima di raggiungere l’area industriale dove avrei dovuto aspettare la corriera per rientrare in città, siamo passati a salutare sua mamma, sua moglie, i suoi figli. E io avevo il cuore ancora più gonfio. Mi mancava il respiro, forse avrei dovuto piangere. Invece sono rimasta in macchina con lui che scriveva una poesia. Ed è arrivato l’autobus. Ho salutato il mio amico con un bacio rapido a fior di labbra e sono ripartita. In città ho ripreso a respirare, regolarmente.

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“Beyond the apparence”, “Left hand path” di Anna Utopia Giordano (foto di Luca Catellani)

“Isola non è arrivo”, Giacomo Cuttone

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In bicicletta accanto all’inferno Sorridi, si scioglie la tua lingua infinita ci abbraccia ci coglie ci invita. Nel ferro nel fuoco nel gioco, un camino. E una storia lì intorno c’è il forno, vicino. Cammino per ore nel quieto terrore perché sono perché esisto perché ho visto e mi disseto d’esistenza inesistenza tra le reti che varcai l’esistenza non fu mai. Ho voglia di piangere e non ci riesco. Ho perso le mie lacrime in un pozzo di sale e mi fa male ritrovare la mia sete rivedere la mia pace tra le spine di una rete improvvisa ma verace su di una bicicletta un uomo solo torretta dopo torretta come i corvi s’alzano in volo. Né perdono né memoria né pietà ma chissà per quale suono poi si gira guarda intorno è in bicicletta accanto all’inferno. Quest’inverno sa di vetro 84


guardo indietro se va in pezzi come un puzzle come un gioco che disprezzi perché è poco forse è niente ciò che intendo ciò che prendo dai camini dalle torri incastonate le budella attorcigliate dentro il filo che lo sguardo attraversa col ritardo di chi giudica alla fine in quest’aria di confine c’era fango c’era ghiaccio ora piango e poi mi taccio e invece niente indifferente è il mio animo di stracci. Poi li vedo gli sorrido due bambini sui pancacci. Trovo i nomi, quel disegno un disco rosso sopra il legno e vorrei non vomitare rimanere qui a cercare le parole tra i riflessi delle rose sopra i cessi mentre cado in terra stanco e mi appare un cielo bianco. Bianco da ridere a vederlo così bianco. Bianco come un foglio su cui scrivere una storia che riporti la memoria di un momento ma non sai che cosa dire e lo guardi 85


sperando che qualcuno ci disegni qualcosa. Mentre lo guardavo ci hanno disegnato un disco rosso nel cielo di Birkenau. Salvatore Zappia

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“Voli di speranza”, “Quaranta di febbre” di Giacomo Cuttone

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Senza titolo di David Eickhoff "Luci spente, occhi chiusi, bussola rotta. Le pile del GPS, ahimé, son scariche. Le mie orecchie qua e là sentono qualcosa. Ma sono voci strane che non mi dicono nulla. Non è la mia lingua, non è il mio tempo, non è la mia terra. In giro per le strade della città. Ancora le mie gambe mi portano. Con le mani cerco di orientarmi, di non cozzare contro le mura piene di pubblicità e polvere. È lavoro faticoso decifrare gli scritti solo con le mani ma bisogna starci dietro." Così dice il Nuovo Glossario delle Tecniche Culturali: Vivere è mestiere faticoso. Ma c'è chi ci aiuta. La salvezza è a portata di mano. Mano porgente l'opuscolo pubblicitario. Spegniamo le luci. E nessuno ci chiede: Qual è la vera natura delle cose? Dov'è la vita a tutti gli effetti? Chi è l'artefice del surrogato che è diventato perno della nostra vita? "E quanto vivo bene. Posso essere contento, no? Tante belle cose mi ha insegnato il Nuovo Glossario. L'insalata, la so defecare (?), digerire, masticare, condire, prendere dal frigo, mettere nel frigo, portare a casa, pagare alla cassa del supermercato, mettere nel carrello, scegliere fra quelle in offerta." Così dice il Nuovo Glossario delle Tecniche Culturali: Vivere è mestiere faticoso. Ma c'è chi ci aiuta. La salvezza è a portata di mano. Mano porgente insalata in involucro di plastica. Chiudiamo gli occhi.

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E nessuno ci chiede: Chi è il redattore, chi l'editore e quali sono le librerie venditrici di quello che oggi ci viene spacciato per codice della civiltà? "È vero, non so da dove arriva la mia insalata bella fresca né chi ha fatto l'involucro di plastica. Ma non sono mica affari miei! Io non ho tempo. Vado avanti: scelgo, metto, pago, porto, metto, prendo, condisco, mastico, digerisco e defeco. E via. Faccio la navetta. I corridoi del supermercato sono diventati tanto familiari. Ad orientarmi non faccio mai fatica. È come se fossi guidato da una mano invisibile. E miracolosamente si riempiono gli scaffali." Così dice il Nuovo Glossario delle Tecniche Culturali: Vivere è mestiere faticoso. Ma c'è chi ci aiuta. La salvezza è a portata di mano. Mano riempiente gli scaffali. Buttiamo le bussole. Tanto abbiamo i nostri GPS.

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Au revoir di Francesco Cozzolino La sera prima era un po’ nervoso. Continuava a controllare la sacca verde in cui aveva stipato le sue cose. Ripercorse mentalmente gli oggetti che ci aveva messo dentro. Passò dieci minuti buoni così. Poi si mise a letto ma non si addormentò prima di un’ora. Arrivò in stazione in anticipo, Manuel. Perse tempo tra i binari e gli schermi delle partenze. Lo scompartimento era quasi vuoto. Il tessuto del cuscino delle Ferrovie dello Stato era consumato al centro ma profumava di pulito. Non gli riuscì di dormire. Si alzava ad ogni fermata, un po’ per impazienza, un po’ per trovare qualche differenza tra le stazioni. Sapeva che Hira sarebbe stata lì. Ad aspettarlo. Non sulla banchina di una stazione, non voleva che fosse un posto qualsiasi. Voleva ritrovarla a casa, come se fosse una cosa naturale. Ma ci sarebbero voluti ancora due giorni e lui non desiderava altro che berlo quel tempo. Aveva sete. Avrebbe preferito saltare subito alla fine. A Hira. A quello per cui aveva deciso di tornare per poi partire ancora. Questa volta insieme. Pensò a lei. Era un ricordo sicuro e si assopì. Verso la fine del viaggio incominciarono le gallerie e allora si ricordò di essere su un treno. Un marinaio che arriva in treno, che scemenza. Se lo sapesse Kostas, si disse a voce bassa. E sorrise. Fu il primo a scendere dal vagone. Imboccò il sottopassaggio e percorse il linoleum nero che portava fino all’atrio della stazione. Manuel aveva ventotto anni, anche se ne dimostrava sempre qualcuno di meno. 90


I suoi lineamenti erano l’eredità di un padre scomparso prima che lui nascesse. Sua madre algerina, di origine francese. Da lei aveva preso il carattere fantasioso, così gli avevano sempre detto. Lui non ci aveva mai pensato granché. Aveva passato la prima parte della sua vita ad Algeri in un appartamento di due stanze sul porto, tra scaricatori, prostitute e sindacati. Al porto trovava tutto. Da mangiare, da vestirsi, imparò a truffare i turisti, americani, italiani e francesi per lo più. Imparò anche a parlare inglese. E soprattutto a scappare in tempo. Uscito dall’atrio della stazione l’aria era più calda. Le città di mare sono sporche. E puzzano, pensò. Perché ci passa più gente che nelle altre, si disse. Ma non era del tutto sicuro che fosse così. Scartò in fretta un paio di autobus al capolinea davanti alla stazione e decise di camminare. Aveva due giorni e solo una cosa da fare. Poteva sprecare il tempo. Svoltò a destra prendendo una via in discesa che portava al porto, entrò in una rotonda facendo attenzione alle macchine. Percorse tutta la strada senza concedersi sconti, camminava su ogni palmo di marciapiede, grato di avere qualcosa sotto i piedi. Ben presto arrivò alla stazione marittima e un pensiero lo prese di sorpresa. Un ricordo solo, ma così nitido che gli aprì i polmoni. Estrasse dal taschino della camicia un foglio piegato a metà, lo aprì e lesse l’indirizzo. Poi lo ripiegò con cura e continuò a camminare. Otto anni prima la città non era così. Era cambiata, se sapevi dove guardare. Allora pensava ancora che tutte le città di mare si assomigliassero. I porti sono una necessità universale, una risposta allo stesso intimo bisogno. Il resto è storia. Il mare fa le persone e le persone gli rispondono con le loro vite. Le ricalcano sulle onde, le incastrano negli 91


spazi rimasti liberi, tra la terraferma e l’acqua. Per quello, se fosse stato per lui, non sarebbe più sceso da una nave. Non ne aveva bisogno. A lui bastava guardarle da lontano, dalla costa. Attraccato, credeva di poter capire tutto di un luogo. I porti erano sempre gli stessi, le dita fredde di una terra senza più niente da stringere. Città codarde, che si fermavano un attimo prima dell’acqua. Preferivano la sopravvivenza all’ignoto. La monotonia al viaggio. Era arrivato a detestarle. Non ci si fermava mai per più di qualche giorno. Non si fidava. Perché più si va dentro alle cose, più le si guarda da vicino e più quelle assomigliamo ad altre cose. Kostas lo aveva fatto e non ne era più uscito. Non riusciva a smettere di pensarci. Saper rendere i posti unici è un dono, gli diceva. Ma nonostante già allora sapesse quanto aveva ragione, detestava quell’idea. Detestava il senso di immobilità che portava con sé. La sconfitta per lui aveva il volto di una città immobile, qualcosa da cui non si può scappare semplicemente con un timone in mano. Con gli anni decise che non era così. Quelle di mare sono forse le città più diverse che ci siano. Mai una sbagliata. Mai una migliore. Solo tanti labirinti prima del nulla. Il mare. Uno dei luoghi meno ospitali della terra, diceva Kostas. La prima volta che decise di fermarsi per più di una settimana incontrò lei. Hira aveva gli occhi verdi e veniva dal Libano. Per intere mattine, dopo svegli, la lasciava parlare di tutte le cose che lui non sapeva. Scopriva che quello forse era più che partire, più di arrivare. Forse era meglio. Scopriva di sentirsi meno straniero. Da allora decise che non si sarebbe più sbagliato, perché sapeva dove andare. Solo ci sarebbe andato in un altro modo. 92


Il giorno prima di lasciare Hira avevano pranzato insieme. Poi avevano fatto l’amore, nel pomeriggio. Le ultime ore avevano camminato e basta. Piccole traiettorie intorno al porto, come indecisi se perdersi o ritrovarsi. Ma ogni volta significava tornare in un posto conosciuto, come lasciar cadere il piede dentro un’orma già segnata. “Ho sempre voluto essere responsabile di qualcosa. Di qualsiasi cosa.” Le disse. “Se c’è una cosa che ti insegna il mare è che non esistono stranieri. Chiunque ti troverai ad incontrare, sarà sempre qualcuno.” Per la prima volta la smania dietro i suoi vent’anni gli sembrò una cosa stupida. Una rotta necessaria, ma finita. Partì intorno a mezzanotte. Ben presto tutti si ritirarono nelle cuccette ma lui rimase sul ponte ancora una buona mezz’ora. Lei era sul molo e si allontanava con tutta la città dietro. Scivolava via, sulla terra. Lentamente diventava una striscia che brillava sempre meno, finché non scomparve nel buio. Ma quel buio non gli faceva paura. Sapeva che l’avrebbe vista di nuovo e di nuovo ancora fino a che non avrebbe avuto più bisogno di tornare. Sapeva che non poteva essere altrimenti. Sarebbe stato come conoscere qualcuno. Come aveva sognato, e voluto, con lei. Erano passate più di due ore da quando era sceso dal treno, ormai era pomeriggio. L’aria tiepida e profumata era impalpabile, lo teneva con sé in un’irrealtà fatta di ricordi. Decise di proseguire. Si lasciò la stazione marittima sulla destra e cominciò a camminare costeggiando il porto. Voltando la testa venne sorpreso da un colore diverso, un viola scuro che scendeva dai monti. Le città di mare hanno un orizzonte troppo vasto, è difficile tenerlo tutto sotto controllo. Cominciò a piovere. Rimase sotto una pensilina mentre le gocce si infittivano. Le guardò unirsi all’acqua oleosa del porto. Un traghetto stava lasciando il molo. Gli ombrelli si muovevano su e giù, a tempo con i passi delle persone. La pioggia trasformò il 93


paesaggio ai suoi occhi, diede un senso a quel luogo. Lo rese più reale, qualcosa da toccare e bagnarsi. Fece a passo veloce il tratto di strada che lo separava dal bar. La rosa dei venti che stava sull’insegna era scrostata. Si sedette ad un tavolo d’angolo, su una panca foderata di velluto rosso e ordinò un pastis. Pagò il conto in anticipo. Dopo un sorso tirò fuori l’astuccio di cuoio nel quale teneva il tabacco e girò una sigaretta. Fuori la gente era scomparsa. La zia di Manuel era algerina come la madre, ma si era trasferita in Francia dopo aver sposato Guillaume, un ingegnere francese di bell’aspetto che loro avevano sempre visto solo in fotografia. Scriveva almeno due volte al mese alla sorella. Manuel ricordava tutte quelle lettere, gli piacevano soprattutto i francobolli. La zia cercava di mandarne di diversi ogni volta. Tutte le volte che tornava a casa controllava la cassetta delle lettere. Quando ce n’era una prima la odorava, poi correva per le scale mettendola in mano alla madre sull’uscio. Lei passava la busta sul vapore della stufa e la apriva. Poi staccava delicatamente il francobollo e lo metteva ad asciugare sotto il peso più grosso della stadera che avevano in cucina. Quindi si metteva comoda e leggeva a Manuel. Ogni lettera dipingeva una felicità e ogni felicità prometteva di estendersi ed abbracciare anche loro. Presto, molto presto. Così finivano la maggior parte delle lettere. Manuel prendeva i francobolli e li conservava in un quaderno. Ogni francobollo era una promessa. Ma non guardava mai le pagine già piene, quasi per paura di ritrovarle, un giorno, bianche. Quel quaderno diventò l’assicurazione del suo viaggio. Lo custodiva come fosse un biglietto di sola andata. A quindici anni e quando mancavano quattro pagine alla fine del quaderno decise di partire. Prese una nave che tossiva gasolio e si imbarcò come mozzo di bordo. 94


La nave compì una rotta commerciale, ventidue giorni durante i quali ce la mise tutta per non affondare. Il ventitreesimo giorno Manuel vide il sole che scintillava sugli ormeggi del porto di Marsiglia. Con l’indirizzo stretto in mano andò all’appuntamento con la zia Terèse. Il marito di Terèse, Guillaume, gli trovò un lavoro in una locanda, prima serviva ai tavoli, poi passò al banco. Stava da loro, nella stanza degli ospiti. Guadagnava abbastanza per le sue spese e per mettere da parte un po’ di soldi. Il lavoro non era male, conosceva molte persone e aveva parecchio tempo libero. Dopo un mese e mezzo lasciò la locanda e cominciò a lavorare come scaricatore nei silos. Il lavoro era più duro ma guadagnava più del doppio. Dopo quattro mesi mise da parte i soldi per regalare un viaggio dignitoso alla madre. La andò a prendere al porto e arrivò con due ore di anticipo. Terèse e il marito all’inizio li aiutarono economicamente. Lui trovò loro un appartamento sfitto ad un prezzo modesto. Era bello, soprattutto d’estate. Le mattine profumavano di basilico. La madre raccoglieva la lavanda e ne faceva dei sacchetti di stoffa per profumare i vestiti negli armadi. Lei lavorava in una sartoria nel centro della città, Manuel continuava il suo lavoro di scaricatore. Terèse e il marito erano gentili con loro, ma dietro ai gesti di Guillame c’era sempre un sottointeso per Manuel. Era come se li trattasse da stranieri. Anche le volte che venivano invitati a cena non mancava mai di dar peso alle differenze tra le due famiglie. Terèse e Guillaume non avevano figli. Stavano in una casa sul promontorio e avevano una macchina americana. Terèse non lavorava. Quello che guadagnava lui bastava per entrambi e per i figli che non avrebbero mai avuto. Una volta li avevano invitati nella casa nativa di Guillaume, in campagna, a cento chilometri da Marsiglia. Erano arrivati in ritardo a 95


prenderli, ma il viaggio era stato divertente. La madre e Terèse avevano riso molto. Avevano passato l’intero week end in quella casa. Manuel aveva bevuto vino ed era andato a cavallo. La stanza degli ospiti era occupata dalla madre e Manuel dormiva in un divano letto nel salotto. Quella notte sentì Terèse e il marito litigare. Dopo quella volta non li invitarono più. Terèse e la madre continuavano a vedersi. Ogni domenica portava anche Manuel da lei, ma Guillame non c’era quasi mai. Una mattina Manuel si presentò volontario come marinaio semplice su un cargo che faceva rotta nel mediterraneo. I soldi erano buoni e due settimane lontano da casa non erano poi molte. Al suo ritorno gli offrirono un altro imbarco. Due giorni più tardi. E a quello ne seguì un altro. E un altro ancora. Ogni volta che tornava la prima cosa che faceva era chiedere se c’era bisogno di marinai, mozzi, cuochi o faccendieri. Ben presto a Manuel quella città cominciò a non bastare. Ne voleva un’altra e un’altra ancora. A costo di vederle solo dal mare, nella luce del primo mattino o a notte fonda. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di stare sul ponte di una nave. L’unico luogo dove non si è stranieri per nessuno. E si immaginava di stare sempre tornando in qualche posto conosciuto. Ma prima doveva partire. E farlo di nuovo. E di nuovo ancora. Per la tipica illusione dello spazio per cui tutto ciò che è lontano è diverso. E ciò che è diverso è migliore. Fu allora che incontrò Kostas. Era il marinaio più vecchio dell’equipaggio. Nei successivi cinque anni si imbarcarono insieme nella maggior parte delle rotte che partivano da Marsiglia. Alle sette il cielo passò dal viola al rosa tenue. La pioggia smise. Uscì dal bar caricandosi la sacca su una spalla e costeggiò di nuovo il porto. I tombini mandavano un rumore di acqua che correva. Stette un 96


po’ a sentirla, immaginandosi lo strano buio percorso che doveva fare per unirsi al mare. La strada era coperta da un velo di pioggia che nei punti più consumati rifletteva i palazzi intorno. Svoltò in un vicolo dove la cucina di un ristornate regalava un profumo di legna che bruciava e spezie. Arrivò davanti a un’insegna verde, Pensione Genziana. Una stella color seppia brillava di lato e mandava un ronzio costante. Al bancone c’era una donna con i capelli neri legati e striati di grigio. Intorno, del mobilio anni cinquanta e il ticchettio di un orologio. Le mani della donna tenevano una rivista e una penna biro tra l’indice e il medio. “Vorrei una stanza.” La donna alzò la testa lentamente e lo osservò. “Un attimo, per favore” ricacciò gli occhi sul bancone, fece frusciare un paio di carte. Poi sostenne di nuovo il suo sguardo. “Sono diciotto euro, colazione esclusa.” “Va bene. Vorrei avere la numero sette, se fosse possibile.” Lei lo fissò come spazientita. “Perché?” “Sono già stato qui e mi piacerebbe tornare in quella stanza.” La donna fece un sospiro di lamento. Abbassò gli occhi sulla rivista. “Non mi ricordo di lei.” “E’ stato anni fa.” “Non so se è libera.” “Può controllare?” Sospirò di nuovo e lasciò cadere la penna. Chiuse la rivista e si alzò dallo sgabello sul quale era seduta. Lo guardò all’altezza delle mani. Poi alzò le pupille acquose verso il suo viso. “Non siamo il Grand Hotel, ma un posto dignitoso sì. Abbiamo clienti puliti e seri.” 97


“Capisco.” “Rispettiamo i nostri affittuari e ci aspettiamo che loro facciano lo stesso.” “Certo.” La donna si girò e andò verso una scaffalatura che stava a lato del bancone. Fece scorrere il dito indice sul primo scaffale e si fermò al gancio con la placchetta numero sette. “E’ fortunato, la stanza è libera.” “Bene.” Tornò al bancone e ci posò sopra la chiave. Manuel fece per prenderla ma la sua mano la coprì di nuovo. “Quanto conta di fermarsi, signor…?” “Djaout. Manuel Djaout. Solo una notte, sono di passaggio.” Ci fu silenzio. La donna rimase immobile davanti a lui con la mano sopra alla chiave. “Di solito non affittiamo stanze per una sola notte.” Manuel notò lo smalto rosso acceso. L’anello che aveva all’anulare era stretto e la pelle in eccesso si gonfiava alle estremità del cerchio d’oro. Cercò di rimanere calmo. “Chiudiamo all’una. Non può tornare più tardi di allora. Di solito lasciamo una copia delle chiavi del portone, ma visto che lei si trattiene solo per una notte credo che sia inutile.” Annuì. “Deve liberare la camera entro le dieci. C’è la possibilità di avere la colazione, con un supplemento. Non facciamo servizio in camera.” “No, grazie. Non ne ho bisogno.” La mano della donna scoprì la chiave. “Mi serve un documento.” Gli tese la carta di identità e la donna sparì nella stanzetta dietro al bancone. Fece una fotocopia e tornò dopo qualche istante restituendogli il documento. 98


“Primo piano a sinistra.” “Grazie.” “Si ricordi, non dopo l’una.” Salito in camera venne attratto dalla luce che filtrava dalla persiana. Aveva bisogno di aria. Posò la sacca su una poltrona vicino alla finestra e aprì le ante. Lo stucco intorno al vetro era secco e si sfaldava in diversi punti. Spalancò le persiane e le agganciò al muro esterno. Respirò, poi si ritrasse. Immobile, fissò la poltrona. Spostò la borsa sul letto, ne tirò fuori un libro e lo posò sullo scrittoio. Si affacciò di nuovo alla finestra e fumò un po’ di tabacco. Si sentiva osservato. Lasciò cadere la cicca di sotto e si voltò di scatto. Guardò la stanza con calma, la percorse per tutta la grandezza. Il comodino laccato, la testiera del letto e il crocefisso sul muro. Spalle alla porta guardò di nuovo la poltrona. Andò verso lo scrittoio senza smettere di guardarla. Prese il libro e si sedette, ne accarezzò i braccioli con i palmi delle mani. Appoggiò la schiena, allungò i piedi sullo scrittoio e respirò. Rimase gran parte della sera così. La cosa migliore era il rumore. Gli sembrava che le onde potessero entrare nella stanza e coprire tutte le sue cattive azioni. Sarebbero riuscite a nascondere la voce e i ricordi, così da poter parlare con onestà. Confessarsi. Perché è bello che qualcuno conosca i tuoi segreti, pensò. Dovrebbe sempre esserci qualcuno pronto a farlo, gli diceva Kostas. Lui ce l’aveva. Vicino, domani. E sempre. Aprì il libro e lesse una riga a caso. “Segrete vengono, piene di memoria. Insicure navigano: barche o baci, agitano le acque. 13”

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Eugénio De Andrade, “As Palavras”

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Kostas era un amico. Aveva passato quarant’anni sul ponte di una nave. E tante navi, che non ne ricordava più il numero o il nome. Avevano vissuto cinque anni e decine di rotte insieme. Quello, il ponte di una nave, era il centro nomade del mondo. Così lo chiamava lui. Il posto che puoi rendere unico e mai straniero. Un gesto che Dio concede a tutti, almeno una volta. È morto qui, seduto su questa poltrona, con in mano un libro di canti. Diceva che nel mare c’è una fortuna e una disgrazia. Se prendi una non puoi sottrarti all’altra. Diceva che il mare accusa o difende e che noi siamo solo testimoni. Lesse un’altra riga. “Se ritornerà un'altra volta e un'altra volta e un'altra volta a queste sillabe infiammate rimarrà cieco da tanto chiarore. Sia felice se arriverà. 14” La mattina dopo lasciò la chiave sul bancone alle nove in punto. Con la sacca in spalla uscì dalla pensione. Percorse il vicolo fino alla luce del sole. Costeggiò il porto. Sorrise.

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Eugénio De Andrade, “Ver Claro”

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“Belle Epoque”, “Eredità del ventesimo secolo”,

“Teatro delle Macchie – Arlecchino” di Alberto Baumann

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Trent’anni senza stile, ma con la seconda lacrima Recensi one a "Q uesto è il paese che non amo" di Antoni o Pascale di Enrico Santus "Questo è il paese che non amo" è un saggio che scorre rapido come un romanzo. Antonio Pascale ci accompagna attraverso riflessioni autobiografiche, filosofiche e scientifiche in un'Italia senza stile, incapace di raccontarsi se non attraverso gli stessi termini brutali che vorrebbe (e dovrebbe) cancellare. Termini che, citando Kundera, Pascale attribuisce al desiderio di produrre la seconda lacrima. Non la prima, quella spontanea e genuina, ma la seconda, quella che nasce dalla commozione provocata dal pensiero di quanto sia bello e giusto piangere in quel momento. A tal proposito, appare tagliente la critica al testo "I maiali" di Antonio Moresco, racconto nel quale viene attaccato il voyeurismo mediatico che si era sviluppato durante la tragedia che portò alla morte di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo nel 1981. Moresco concludeva il racconto sostenendo che Alfredino, pur raggiunto da un soccorritore, non gli avrebbe dato la mano perché schifato dalla gente là sopra. Pascale si domanda se non vi fossero altri modi per muovere la stessa critica oltre a quello di utilizzare il medesimo voyeurismo mediatico, ed anzi superarlo entrando addirittura dentro al pozzo col bambino. Il saggio ripercorre gli eventi politici e culturali che hanno caratterizzato l'Italia degli ultimi trent'anni: dall'arrivo degli immigrati senegalesi in Campania fino alla nascita delle televisioni commerciali, 103


dal caso Di Bella al caso Englaro. Pascale non lancia sentenze: il suo procedere è cauto e riflessivo, ricco di punti interrogativi e attento a riportare fatti e dati. Questo suo procedimento va in controtendenza rispetto a quegli intellettuali che, privi di conoscenze scientifiche, hanno trasformato questioni molto serie in simboli, semplificando la realtà in contrapposizioni manichee: bene versus male, naturale versus artificiale. Si chiede Pascale se questo "romanticismo" ha veramente aiutato a comprendere, oppure se ha semplicemente alimentato la confusione. Ragione ed emozioni (tema già affrontato anche nel saggio Scienza e sentimento, Einaudi) sono quindi due parole che non possono convivere pacificamente: la realtà ci richiede un'analisi attenta, basata su dati concreti e non sul cuore. Emblematico di questa situazione è il caso di Vandana Shiva, che dichiarò nel marzo 2009 che "I semi sterili del cotone OGM" avevano causato "centomila suicidi tra i contadini indiani". Sentito ciò, Pascale immagina "schiere di giornalisti [...] prendere nota di questa affermazione perfetta [...] e riprodurla, amplificarla in cento, mille inchieste televisive, radiofoniche, giornalistiche: zoomare sempre, zoomare ancora". Poi, dopo aver chiarito che quei semi sono stati impropriamente definiti "OGM", Pascale fa riferimento al rapporto dell'IFPRI (Istituto internazionale di ricerca sulle politiche alimentari), nel quale si constata negli ultimi undici anni una diminuzione dei suicidi dei contadini dall'1,71 a 1,55 ogni 100.000 abitanti al fronte di un aumento esponenziale delle coltivazioni incriminate da Vandana Schiva (da 508.000 a 1,8 milioni di ettari solamente nella provincia di Maharashtra tra il 2005 e il 2006). Chiamando in causa testi di critica cinematografica e letteraria, ma anche trame di film e articoli giornalistici, lo scrittore casertano promuove uno stile di narrazione attento a non cercare la seconda lacrima, in quanto le emozioni che essa suscita annichiliscono l'iniziativa, scaricano la responsabilità. Diviene così centrale, nel 104


saggio, più ancora dell'oggetto da studiare il modo in cui si osserva tale oggetto. Pascale si domanda se sia possibile raccontare l'altro da noi senza prima esaminare il proprio sguardo. La proposta che l'autore sembra portarsi dietro durante tutto l'arco delle 188 pagine è quella ereditata da Goffredo Parise, ovvero congiungere la democrazia e la pedagogia, nella speranza di creare una classe intellettuale onesta, capace di analizzare in maniera laica e scientifica i problemi e quindi insegnare con stile il modo in cui affrontarli, evitando i simboli e le banali semplificazioni. Solo allora si arriverà ad una democrazia vera e propria, poiché le opinioni degli intellettuali verrebbero – almeno idealmente – "lette dai nostri politici di riferimento e tradotte, poi, in una serie di leggi, norme, circolari esplicative che dovrebbero portare benefici e miglioramenti al mondo che abitiamo".

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Recensione di “Miniature” di Simone Pansolin di Fabiana Pellegrino Schizzi di un mondo immaginato, sognato, sospirato. In una parola sola, vissuto. Il mondo di Simone Pansolin non è fatto di materia, almeno non del tutto. La sua è anche una dimensione pensata, fatta di immagini e frammenti reali che sparpagliati in giochi di parole, impegnativi quanto la vita vera, fanno sembrare troppo tutto complicato. A una prima lettura “Miniature” (Casa editrice Sciascia, collana “Scrittori del Mondo”) è come una selva attraverso cui è difficile passare, si rischia di restare intrappolati tra i segni d’inchiostro. Poi, a un certo punto, la natura si arrende e il passaggio diventa naturale. È così che Pansolin si schiude al lettore, così che diventa comprensibile. L’artificio retorico diventa poesia, la ruvidezza di immagini complesse si apre alla mente di chi legge, e sogna. La sua è aspirazione all’infinito in una corsa che dura poco più di cento pagine ma che avrebbe ancora il fiato per continuare a lungo. Uno scritto d’esordio che sta a metà strada tra la poesia, nel senso tradizionale del termine, e la prosa, né l’uno né l’altro, ma anche un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Queste miniature si muovono tra la scrittura prosastica e un respiro poetico, disegnano un contorno fatto di chiaroscuri in cui nulla, in fondo, è come sembra. All’apparenza caotico, Pansolin si arrampica su arcaismi linguistici d’altri tempi, e al lettore non resta che seguirlo in un saliscendi di emozioni e flash. È un viaggio alla scoperta di sé, faticoso per chi scrive e per chi legge quanto impegnativa è la ricerca del senso. Pansolin misura le parole, dietro ciascuna di esse si nasconde una scelta – linguistica, semantica, umana – ben precisa, nulla è lasciato al caso. Eppure, le emozioni sono ancora quelle di un giovane che, per quanto cauto nel suo cammino, si lascia anche travolgere dalla forza dell’amore. È in 106


cerca di un’anima e strada facendo scivola tra boschi, fate, farfalle e curve femminili, a tratti sembra essersi smarrito, sempre torna sulla via maestra che conduce all’infinito. Simone Pansolin vive arroccato nell’ombra, la luce per lui serve a far esistere il buio, lui spia e cammina in un mondo fatto di contrasti, contraddizioni, complesso nella sua immediatezza. Tutto è frammentato e le tessere, alla fine del viaggio, servono a ricomporre l’emozione di un uomo. La prima parte, “Tessere e frammenti I”, è l’inizio della via che conduce alle Miniature. Gli elementi ci sono già tutti, Pansolin non si risparmia e la natura è la vera protagonista in questa parte del viaggio. “È notte nel bosco. Il fianco oscuro della luna si cela dietro il pallone rotondo che filtra le foglie d’un tiglio”, ma subito arriva la luce: “E intanto dai fusti un miele un poco ambrato stilla a perlare il terreno con gocce di luce: non si può distinguere il suolo dal cielo stellato”. La composizione è già in bilico tra sole e luna, già immersa nel bosco, già accarezzata dal tiglio. E poi ci sono le stelle a tinteggiare la notte. Pansolin insegue il cuore del mondo per cercare di sentirlo pulsare, ha voglia di bagnarsi nell’infinito. “Una neve assolata piangeva tutto il suo pianto”, ma quando tutto sembra oscuro o triste, ecco che arriva la rinascita: “Ma ancora sbocciava la mia primavera”. Chi scrive non s’arrende alla malinconia, odora il profumo dell’autunno che “dipinge anche l’aria”, piange lacrime che ringiovaniscono la sua anima, “trascesa in un tempo perduto di fanciullezza”. Il poeta muore e risorge tra le sue pagine come il giorno e la notte sulla terra: “Venuta è la sera, il sole è caduto, e il giorno s’è fuso alla notte. Con un impulso volitivo il cuore frantuma il passato illusorio, e sotto quel picco risorge il presente”. E lì “intuisce il respiro del mondo”, perché questa è la ragione del viaggio. La sfida è lanciata alla morte e cammina sui passi dell’amore. La seconda parte dell’opera, “Nudi”, è un inno alla passione. Qui Pansolin si spoglia di ogni artificio e si scioglie nella semplicità dell’amore. Ora tutto scivola morbido, le parole sono come i petali delle mani di lei. Regna la sensualità di una fiamma che “sudava d’intorno stormi e stormi di ombre scure”. La donna si cristallizza in 107


“baci polposi” sullo sfondo di un “sorriso pudico”. È una danza d’amore di due corpi intrisi di magia, “e mentre ti guardo m’immergo nel sogno che solo cambiò delle rose il profumo”. L’ultimo frammento della composizione (Tess. e Framm. II) comincia là dove l’estate finisce. “Dicono dopo l’estate piova sul mondo la solitudine, ma in fondo pure in ottobre l’erba inverdisce, anche per chi, come l’acero, sempre si veste d’autunno”. E assieme arriva anche l’antidoto al sospetto della fine: “e se l’inverno fa ancora paura, non resta che fuggire sopra le nuvole dove non c’è tempesta”. Questa è la parte finale del viaggio, Pansolin tira le somme del suo cammino, sempre accompagnato dalla morte, come un’ombra che lo guarda da lontano e lo segue a ogni passo. Ma chi scrive non s’arrende mai, la paura del vento e della notte non si impadroniscono della poesia, ma servono ad arrivare al traguardo. “Andando per i sentieri vidi passare l’ombra del vento sospinta da nubi di gesso. E in breve giunse la pioggia a incendiare i colori”. Il paradosso presta frammenti di realtà alla verosimiglianza retorica. La ricerca si ferma. “Che siano le nostre anime? Quando la notte svanisce e le stelle sprofondano nella mattina i nostri spiriti, come le lucciole, si assopiscono sotto le foglie”. Pansolin, musicista e poeta, ha concluso il suo viaggio con i passi di chi si affaccia per la prima volta sulla via della poesia. Chitarrista d’origine, porta con sé la sensibilità di chi anche nella musica ha scelto un percorso singolare, legato al repertorio barocco italofrancese. Un esordio impegnato e sincero, curato dal professor Franco Zangrilli, docente presso la City University of New York, per le edizioni “Sciascia”. Pansolin sembra uno di quegli uomini che passano la vita a cercare, e lo fa attraverso le formule immaginifiche che appartengono alla dimensione del pensiero. Che siano note musicali o schizzi d’inchiostro, il mondo si rompe in mille pezzi e lui, durante il cammino, prova a ricomporlo, raccontando ogni dettaglio che incontra sulla strada. Chi legge non si aspetti “sconti” e metta in valigia pazienza, curiosità e fatica. Il viaggio è lungo e quello di Pansolin è appena cominciato. 108


Un regista fuori dal coro, intervista ad Alessandro D’Alatri Ore 13 a M ontrouge, i l sobborgo della prima peri feria pari gina dove lavoro. La mi a pausa pranzo oggi sarà dedicata ad una i ntervis ta con Alessandro D’ Alatri. L’occasi one di ques ta chi acchi erata è la recente usci ta di “Sul Mare”, ulti mo lavoro del regista. Atti vo il registratore vocale e compongo il numero di Milano. Lungo la dorsale vi rtuale di una comuni cazione tra nsalpi na cominciamo a parlare. di Paolo Antonio Guerrieri Paolo: Aeolo ha preso in prestito dal vento il suo nome, perché pensiamo che arte e scrittura scuotano e rinnovino la vita. La stessa tensione innovatrice l’abbiamo riconosciuta in “Sul Mare”. La mia sensazione è stata quella di una rivoluzione, diretta, non elitaria. Esiste una moda cinematografica recente fatta di ragazzini innamorati ed esiste il cinema impegnato che tratta di drammi sociali. Nel Suo film coesistono: per me è una piccola rivoluzione, quale è stata la Sua ispirazione? Alessandro D’Alatri: La riflessione di Aeolo individua precisamente il fulcro del film: io concordo con la vostra interpretazione. La mia ispirazione è letteraria. “Sul Mare” è la mia seconda opera direttamente ispirata ad un libro, dopo “Americano Rosso”. Ho letto il romanzo “Sul Mare” di Anna Pavignano e tra le pagine ho visto il film. Nella sua tessitura letteraria esisteva già l’isola come set e io la vedevo; esistevano l’amore giovanile e la durezza della vita reale. Il contrasto dei due elementi ha colpito me da lettore, come poi ha 109


colpito voi. Io penso che ogni volta che per parlare d’amore si censura la vita si censura anche l’amore. P: Bella, una sintesi perfetta... A.D.: Sì, il rosa e il melò, se astratti dalla vita, tradiscono l’amore: siamo tutte le cose che interagiscono e interferiscono con i sentimenti, tutto ciò che ci succede e non solo quello che amiamo che ci succeda! P: La dualità della vita è contenuta nella battuta manifesto del film, ovvero la metafora che Salvatore, il protagonista, applica alla sua esistenza. Come i due lati di un materasso, ha una vita invernale: la terraferma col lavoro in nero e il lato dell’estate quando le sue giornate si svolgono sul pelo d’acqua del mare di Ventotene... A.D.: Tutti noi siamo oggi costretti a fare una doppia vita come i materassi: è una delle istanze del mio cinema, un tema che ho già affrontato in “La febbre”. Tutti noi facciamo un lavoro che ci piace e un lavoro che ci piacerebbe fare, sopravviviamo con mansioni che danno la paga di fine mese e poi ci innamoriamo di impieghi non remunerativi nel contrasto costante tra dover essere e voler essere... P.: …parla con uno che è in Francia a fare il consulente in gestione aziendale, ma la miglior cosa che ha fatto nella vita é un libro di poesia ed ama collaborare con una rivista letteraria! A.D.: Ecco, lo vedi, io non sono un nostalgico dei tempi che furono, ma prima – diciamo un secolo fa – facevi il mestiere che ti sceglievi: se studiavi da medico, perché potevi permetterti quegli studi, poi facevi il medico; se imparavi a fare il falegname poi facevi quel mestiere e, un secolo fa, tu a Parigi ci saresti stato non da consulente ma da poeta che sorseggia pastis o assenzio, a seconda dei gusti! P.: tanti collage di vite insoddisfatte... A.D.: considera che nel film Salvatore ha i due lati del materasso, ma la ragazza che ama, Martina, gli risponde che lei di vite non ne ha 110


neanche una: Vive un presente fatto di palliativi, una vita non soddisfatta in cui passato e futuro non si raccordano, come accade ad un’intera generazione! Doppiezza della vita, ma anche insoddisfazione sono temi di sfondo della vicenda sentimentale... P.: insisto sulla metafora: il lato bello del materasso è Ventotene, il mare azzurro su cui la vita galleggia più leggera. Per quella cinica ironia che il destino possiede, qualche settimana dopo l’uscita del film Ventotene è passata dall’essere un set cinematografico a scena di un dramma... A.D.: la tragedia, le due ragazze... P.: esatto, parlo delle due studentesse che hanno perso la vita travolte da una frana: il film parla di morti bianche e quindi di trascuratezza nel mondo del lavoro... la tragedia è stata frutto della trascuratezza verso la natura. Che ha provato? A.D.: Io quello mattina – mi ricordo – ho sentito il sangue gelarsi. Le mie figlie nel 2007 erano in quello stesso posto, su quella spiaggia. So che ha significato per l’isola quella tragedia e posso immedesimarmi nel dolore delle case in cui si é pianto per quelle ragazze. Ed è vero che in qualche modo quel materasso si è rigirato! Resta l’amara constatazione che nulla restituirà alle famiglie quelle ragazze ed io non ho avuto spazio se non per il dolore. P.: e come sempre resta da chiedersi se una tragedia e la commozione che essa genera saranno sufficienti ad evitarne altre... E’ un po’ quello che si dice anche dopo ogni morte bianca... A.D.: La tragedia di Ventotene parla del grande disegno della vita in un senso che appartiene anche al film. Voglio dire che “Sul Mare” dice di come sulle nostre vite e sui nostri amori incomba la tragedia. Però, al di là di quanto decida la sorte c’è la questione della responsabilità e dell’irresponsabilità. Io mi chiedo come mai ci sia il lavoro nero e le morti bianche. C’è qualcosa di assurdo in questa cromia: il bianco sembra assolvere quella morte come se essa fosse 111


innocente e priva di colpevoli. Perché? Mi chiedo perché debba corrispondere questa assoluzione ad una morte sul lavoro quando al contrario la morte sul lavoro ha sempre, sempre un colpevole! [la conversazione è ormai fluida ed Alessandro D’Alatri che è a mille chilometri da me e non ho mai visto mi si rivolge con familiarità e senza filtri. Lui mi dal tu... io mantengo un lei solo formale e non sostanziale] A.D.: Del protagonista mi piace citare non solo “il materasso”, ma anche il discorso finale con la sua visione ottimistica dell’aldilà. Il discorso è ripreso dal romanzo e mi piace parlarne perché l’aldilà ci soffoca. La nostra società è schiacciata dall’idea dell’aldilà e più in generale è terrorizzata dalla morte. La gente declina paure: aldilà, morte e poi ancora... la paura di sbagliare. Il risultato è l’inazione: non si fa nulla per non commettere errori e ciò é la chiave dell’immobilismo sociale e politico che ci consegna oggi una struttura sociale uguale a se stessa da anni... P.: sono colpito dal trasporto con cui mi parla, con cui mi dice del film così come più in generale del mondo: scorgo una tensione sociale pura e il bisogno autentico di progresso. Proprio per questo le chiedo che effetto le hanno fatto quelle recensioni in cui si accusava il film di essere un impasto poco riuscito di cinema di impegno e di temi romantici... Ho letto qualcosa del genere sul SOLE24ORE. A.D.: Ah guarda, un atteggiamento tipico del nostro paese è il disorientamento verso forme nuove. Ciò che non è catalogabile e classificabile secondo precisi canoni fa tremare. Passi pure il SOLE24ORE ma se penso all’Unità che mi ha dato del disonesto. Per il modo in cui ho trattato le morti bianche mi ha dato del disonesto! P.: ...questa mi era sfuggita... A.D.: Ah me no, ti assicuro! Sul momento ci resti male, ma alle critiche si fa l’abitudine... 112


P.: Le propongo una parentesi... io ho trent’anni e per i temi trattati mi era molto piaciuto un altro suo film “Casomai”. Lì si parla dei trentenni messi di fronte alla questione dell’assunzione delle responsabilità nel momento in cui si costruisce una famiglia. Se “Sul Mare” può considerarsi l’alternativa al giovanilismo alla Moccia. “Casomai” mi era parso alternativo, come immagine dei trentenni, ad un totem da botteghino come “L’ultimo bacio”... Allora le chiedo se riconosce nella sua cinematografia lo sforzo di insistere sui temi di moda delle stagioni del cinema cercando però chiavi narrative diverse? A.D: Ti ringrazio. Ti dico: è nella mia matrice stilistica mettermi in gioco ogni volta. E’ chiaro che la mia cinematografia affronta i temi che il quotidiano offre ma c’è da parte mia uno sforzo intellettuale, onestamente intellettuale di dire parole non superficiali e soprattutto non uniformate... non normalizzate nei cliché del cinema a compartimenti stagni, per cui c’è cinema impegnato, cinema d’autore, commedia. Io credo nell’applicazione del proprio talento a tutte le tematiche: tu pensa, “Casomai” è di dieci anni fa, è girato nel 2001, no? Quel film affronta un tema ancora attualissimo, quello della famiglia, della sua costruzione e della sua disgregazione! Quando uscì pensai che mi sarei beccato una scomunica, per come proponevo la scena del matrimonio. Il prete del film reinventava la liturgia del sacramento interrompendola e facendo uscire e rientrare i convitati in chiesa. Pensavo ad una scomunica e invece con quel film qualcuno fa i corsi prematrimoniali! Lo sapevi questo? P.: No..non lo sapevo, ma il sacerdote del film era una bell’immagine di uomo di fede... A.D: Su quella figura di sacerdote ci hanno scritto un libro: Dario Viganò, docente di cinema all’Università Laterana ci ha scritto un libro. In quel film, vecchio di dieci anni, io ho unito famiglia laica e famiglia cristiana, nel senso che vi si parla di cosa ci unisce e non di cosa ci divide. Una famiglia laica e una cattolica condividono più cose rispetto a quelle che le separano. Hai visto “Agorà”? Film bellissimo 113


appena uscito che ribadisce lo stesso concetto! P.: Non l’ho visto: ma è vero che l’esaltazione delle differenze è un modo per gestire il potere... A.D.: chi è che non vuole che laici e cattolici dialoghino? È chi preferisce l’immobilismo che fa facilmente presa vista la paura diffusa dell’errore e dello sbaglio. La stessa fissità la si vuole applicata al cinema, per cui dovrebbero restare separati cinema di impegno e temi più leggeri! P.: “Sul Mare” ha forzato questo blocco: ha parlato di morti bianche senza essere “il filmone” drammatico votato all’impegno civile... A.D.: In Francia al “Nouvelle Vague” nasce quando un gruppo di giornalisti stanco di modi ormai consumati di far cinema lascia la penna e prende la macchina da presa. Ed allora una critica che vuole essere costruttiva e dice che non le piace il modo in cui si fa cinema lo facesse... lo reinventasse... P.: Io ribadisco il mio modesto giudizio su “Sul Mare”, l’accostamento di temi è stato una rivoluzione... A.D.: ...lo apprezzo tanto. Quando si va al cinema da spettatori si é come fogli bianchi, con una sensibilità non preconcetta: va visto un film... P.: oltre alla innovazione dei temi nell’impasto dei temi, “Sul Mare” ha inaugurato anche un approccio nuovo in termini di mezzi di realizzazione: cito la scelta del digitale per le riprese, l’impegno dell’impatto ambientale zero, l’insistenza su canali comunicativi moderni come facebook e internet in genere! Pensa di riconfermare questo insieme di scelte per i progetti futuri? A.D.: Dipende dai progetti che farò: certo dovrò valutare anche il fatto che questo film, nonostante i molti elementi a suo favore, non ha dato i risultati commerciali che erano auspicabili. Dal punto di vista artistico il film mi ha regalato le più belle recensioni della mia carriera, sopratutto a livello internazionale. Hollywood Reporter mi ha scritto 114


una pagina di encomi che porto stampata nel cuore... e i commenti delle persone che l’hanno visto sono pubblicati su face book: veri atti d’amore... P.: Commercialmente ha reso poco? A.D.: Commercialmente è stato definito un suicidio! Ma è chiara la ragione della definizione. Il film sperimentava e come tutte le cose nuove fa paura. Tu pensa quanto potesse non piacere un film a impatto zero a chi noleggia costosi macchinari inquinanti da ripresa, pensa a chi vive dei compensi di artisti affermati e si trovava di fronte ad un film fatto da attori esordienti... ancora pensa a chi usa fondi pubblici in misura molto superiore a quanto abbiamo fatto noi. È chiaro: resta la delusione per come il pubblico, per primo, sia rimasto freddo... P.: Si è dato una spiegazione? A.D.: Allora la prima cosa che mi chiedevano sul film era il tema. Dico: è una storia d’amore. La seconda domanda era: ma con chi è? Il film è stato disatteso perché ha violato la logica di uno star system italiano che produce film riunendo cast di nomi, che fanno botteghino... P.: Io ho visto l film a Pisa e lo passavano nel piccolo cinema intellettuale... magari sul risultato ha pesato la distribuzione? A.D.: ma non credo: eravamo anche in molti multisala. Bisogna chiedersi qual è il pubblico del cinema oggi in Italia... P.: l’idea che ho è che esistano categorie di pubblico: quelli da film di impegno civile e quelli da tre metri sopra il cielo. La “colpa” di “Sul Mare” è stata forse cercare un amalgama diverso... A.D.: C’è un pubblico totalmente in preda alla distrazione di massa dalla qualità. Un pubblico educato alla logica dell’auditel. Esistono contenuti, esistono registi e attori di spessore ma chi sta tradendo tutto è il pubblico: tu pensa solo alla musica che vince rispetto a 115


quella che perde. Pensa alla scomparsa del balletto e del teatro. Fai mente locale ai best seller che vengono venduti. Quelli che li scrivono sono anche miei amici: ti dico che Fabio Volo è il primo ad essere sorpreso dal suo successo... P.: l’ho ascoltato l’altro giorno alla radio recitare la “Supplica alla madre” di Pasolini ed ho pensato Pasolini passa ancora solo perché lo legge Fabio Volo... A.D.: Eh eh! I primi film di Pasolini a Fabio li ho consigliati io. Mi chiese quali film devo guardare... Per tornare a quello che dicevamo, ad un pubblico distratto fa da contraltare una critica che ti accetta se sei classificabile. La critica che mi ha fatto più piacere su questo film è quella di Paolo D’Agostini su Repubblica: è la critica che mi ha fatto più piacere in assoluto nella mia carriera. Ha scritto “D’Alatri è un regista fuori dal coro”. P.: bella! Le prometto che la userò come titolo dell’intervista. A.D.: Grazie... P.: a Lei!

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“Senza Titolo” di Margherita Guerri

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Recensione a “Lo Sfasciacarrozze” di Riccardo Raimondo di Fabiana Pellegrino Lui si definisce “ecologista”, chi scrive direbbe, forse, futurista. Raimondo Riccardo, giovane siracusano, improvvisa un gioco di parole ragionato. “Lo Sfasciacarrozze” (Bonanno Editore, 2009) è un androide metropolitano che impasta sentimentalismo troppo umano e disincanto contemporaneo. Un percorso intimista sospeso sui tempi moderni, Riccardo è figlio del consumo a passeggio fra mummie di cemento. La sua poesia è anarchica, dice lui, sfida al limite e superamento. I suoi versi, si potrebbe aggiungere, sono segni impressi sulla carta. Poco è lasciato al caso, molto è scelto come un attore per il suo ruolo. La raccolta si muove fra metafisica e anima, sempre immersa nell’oggi, sempre aspirando al cielo per raggiungere l’oltre. Tra prosa poetica e versi il giovane poeta siciliano sperimenta sulle pagine, ora osa una rima, ora scommette sul manierismo recitato, la voce segue gli occhi dove serve, la mente si sposta da una scrittura all’altra. La pancia è futurista. La poesia che titola l’opera è un insieme di versi presi in prestito dalla metropoli meccanica. “E poi su sfondo denso di fumi lievitanti, cementi calcitanti, si ergono castelli: grovigli di carcasse roventi arrugginite digeriscono la luce, grattando il cielo grigio: metalliche dispense di pezzi di ricambio”. Linguaggio estetico tinto di smog, bagnato dal consumismo: “E quell’uomo che si erge sulle macerie del consumo, aspetta d’ingrassarsi con cibo raffinato… e la scatola dei sogni propina gl’incentivi per i poveri di oggi, per i ricchi ancora ricchi”. Un mondo a rate pieno di carcasse dei sogni di ieri. Raimondo Riccardo affronta il Potere alla sua maniera, senza fuggire. Il suo è un Giudizio universale: “L’acid storm parla al chimico industriale sciamano post-metropolitano, alchimista newyorkese. Non credi sia un po’ troppo pretenzioso tutto questo Potere?”. E via 118


continuano le domande. La città si trasforma in una giungla, l’elefante è saggio amico, il colibrì è petroliere che “succhia polline dai cuori”, il ghepardo si riposa. Un mondo “a manovella”. La testa e il piede della raccolta sono fatti d’umano. Carezze amare di una memoria fugace. Ansia di giovinezza, amabile nelle sue paure e nei suoi sbalzi di umore: “Striscio e lascio una scia di rugiada, umido di sogni. Trascinandomi i rimpianti, il buio di ogni turbamento, scemano sui giorni i sentimenti, sciamano i ricordi”. Raimondo Riccardo sa giocare con la parola, riconosce il divertimento del verso. A volte fa giri bizzarri per tornare su di sé. “C’è sempre un lume, luce fioca, una speranza, un barlume di coscienza, che puoi far finta di non sentire… e c’è sempre un gioco nuovo da provare, giovare, divertire”. L’ansia si scioglie nella sorpresa di vivere: “c’è un sogno nuovo ogni giorno, e ogni è una volta, è una vita”. Il possibile è adesso: “c’è sempre un’altra vita, possibile altra vita, oppure la non vita comunque sempre vita. Ammettiamolo a noi stessi che l’anima è di natura elettrica”. Prosa poetica o poesia, chi scrive preferisce la seconda. “Lo sfasciacarrozze” è un buon esperimento semantico, a cui al massimo si potrebbe rimproverare l’acerbità della giovinezza. Acerbo, eppure interessante quanto chi conosce il mestiere della penna, dovendo imparare a dominarlo del tutto. Meglio lo sfasciacarrozze a passeggio fra i versi, ingenuo, fragile, brillante. “Senza pretese, spero, così ingenuo, così fragile, fiorire in nuovi petali: la primavera che non conosco. Mi affascina sapere che esiste un sole caldo, che quando lo cerco mi consola”. E, probabilmente, è solo l’inizio.

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