Aeolo I

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Redazione Direttore responsabile Leonardo Cosmai Direttore editoriale Enrico Santus Gruppo redazionale: Luca Caproni Francesco Chiofalo Silvia Litterio Valeria Majorana Enrico Santus Impaginazione cartacea e realizzazione web Enrico Santus Copertina Alessandro Russo (foto di Luca Caproni) Logo e locandine Alessandro Russo

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Aeolo, Anno I, Numero 1, in attesa di registrazione

Felici Editore S.r.l. – Via Carducci, 60 – 56010 – Loc. La Fontina, Ghezzano – San Giuliano Terme (PI). © 2009 Aeolo © 2009 Felici Editore S.r.l., Pisa


Rivista letteraria ed oltre

Sommario EDITORIALE.......................................................................5 IL VENTO: LA PERIFERIA I CONTADINI DI RAYMOND DEPARDON (L. CAPRONI).....10 QUEI VICOLI M’HANNO CRESCIUTO (P. GUERRIERI) .......20 FOTO DI CAPRONI E SANTUS IL TEMA DELLA PERIFERIA NELLA LETTERATURA MODERNA E CONTEMPORANEA – INTERVISTA A STEFANO BRUGNOLO (F. CHIOFALO – S. LITTERIO).....................................................23 QUANDO LE CATEGORIE INTERPRETATIVE NON SONO IMMORTALI (M. CALCULLI) .....................................................................35 FOTO DI CAPRONI E SANTUS BUFERE LONDRA, CARICATURA DI UNA METROPOLI (E. SANTUS) 48 FOTO DI ANNA UTOPIA GIORDANO SPIFFERI RAPSODIA (A. U. GIORDANO) .........................................62 NOSTRA SIGNORA DEI FIORI (M. CHINNÌ) .......................63 AVREI POTUTO IMMORTALARE (G. SANTAERA)..............64 PANEM ET CIRCENSES (I. VOGLINI) ................................66 ASCOLTANDO ROXANNE (A. GIANNESE)........................67 FRAMMENTI DI UMANITÀ (M. MANCINELLI) ..................69

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Aeolo GUERRA DI CAMORRA (G. BUDETTA).............................70 PARIGI (S. MARZIALI) .....................................................71 BIOGRAFIA DI BORIS PAHOR NELLA CITTADELLA TRIESTINA (BORIS PAHOR) .............75 BONACCIA CON GLI ARANCI (BORIS PAHOR) .................78 INTER[VENTI] CRISTO: IL MESSIA RIBELLE – INTERVISTA A DAVID DONNINI (E. SANTUS) ...............................................................................84 FOTO DI LEONARDO COSMAI FEELINGS (M. THÉODULE) ..............................................99

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Rivista letteraria ed oltre

Editoriale È passato poco più di un anno da quando nell’aprile 2008 proponevo l’idea di Aeolo e riscontravo – con sorpresa – un grande interesse nelle persone. È passato esattamente un anno da quando nel giugno dello stesso 2008, insieme ad un gruppo di studenti pisani, davamo forma a Aeolo, il Vento. Da allora la strada è stata lunga e produttiva, ricca di soddisfazioni e di ambizioni che non avremmo mai immaginato quando ci sedemmo intorno ad un tavolo per la prima riunione di redazione. Non che siano mancati i problemi: quando si avvia un progetto originale e creativo come Aeolo è naturale trovarsi in disaccordo su alcuni temi; nonostante ciò, rimane fondamentale continuare a lavorare e procedere. Ci si è posto per esempio più volte il problema di capire se Aeolo dovesse avvicinarsi alle riviste scientifiche o meno. Si tratta di un problema che la stessa presentazione del progetto scardina: Aeolo non è rivista scientifica, perché esserlo significherebbe rivolgersi a una nicchia e le nicchie non arrichiscono che pochi. Aeolo non è nemmeno una rivista letteraria nel senso più restrittivo del termine: l’oltre del sottotitolo, infatti, le dà quell’apertura fondamentale che, in 5


Aeolo genere, le riviste letterarie non hanno. Infine, a differenza della maggior parte delle attuali riviste letterarie, dietro Aeolo si trova – oltre che serietà e costanza – un’enorme energia potenziale: l’entusiasmo. Aeolo, la Finestra aveva fatto grossi passi avanti rispetto al suo predecessore: la qualità era in media più elevata ed il gruppo aveva visualizzato meglio il destino del progetto, che non si sarebbe più chiuso a Pisa, ma avrebbe puntato a raggiungere tutta l’Italia. E adesso nasce Aeolo, la Periferia, il quale non ha esaurito né l’entusiasmo né le sorprese: abbandonata la veste monografica dei primi due numeri, Aeolo è ora a tutti gli effetti una rivista, con un proprio determinato carattere. Dal punto di vista grafico, abbiamo puntato ad una maggiore qualità, stampando le fotografie su carta patinata per dare maggior risalto ai nostri artisti. Il tema scelto in quest’uscita non si riferisce semplicemente alla periferia metropolitana, ma a tutto ciò che può essere concepito come dialettica tra un centro e un non-centro. Citando dalla presentazione del tema curata da Luca Caproni “La periferia e il centro convivono, ma non sono pacificati né parificati. Il confine che li separa è mobile, 6


Rivista letteraria ed oltre talvolta invisibile. Eppure aguzzando un po’ lo sguardo emergono tensioni e conflitti: giunture che cigolano, punti di frizione. Ed è proprio in questi spazi, in questi interstizi, che l’intelletto e l’arte devono incunearsi: per capire, e scardinare se necessario”. Oltre a interventi ed opere di grande interesse, in questo suo primo compleanno, Aeolo è orgoglioso di poter ospitare personalità di prestigio nazionale e internazionale, che hanno apprezzato il progetto e lo hanno sostenuto con la loro collaborazione: tra loro vi è David Donnini, grande studioso italiano della figura storica di Cristo; Stefano Brugnolo, docente di Letterature comparate e Teoria della Letteratura; nonché l’illustre scrittore sloveno Boris Pahor, attualmente candidato al premio Nobel per la Letteratura. Prima di augurarvi una buona lettura, desidero ricordare brevemente una persona che dedicò, con rara passione, l’intera vita allo studio letterario: il professor Carlo Alberto Madrignani 1, scomparso il 6 maggio 2008 all’età di 72 anni. 1

Allievo di Luigi Russo, sarzanese di nascita e ordinario dal 1979 di letteratura italiana presso l’Università di Pisa, si è sempre occupato di storia e critica del romanzo. Si è dedicato al Verismo e al romanzo settecentesco, nonché ad autori come Cassola, Graf, De Amicis, Tarchetti, Pancrazi riuniti

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Aeolo Durante la sua ultima lezione, nel dicembre 2006, il professor Madrignani con il suo tipico sorriso, insieme ironico e dolente, aveva pronunciato queste parole: “Spero che abbiate imparato qualcosa da un vecchio come me. Io desidero ringraziarvi, perché da voi ho appreso tanto. Visto che le lettere non vi daranno un posto di lavoro, se avete scelto questa facoltà lo avete fatto per passione: è quindi importante che diate il vostro meglio! Si dice che Molière sia morto sulla scena perché era diventato ripetitivo e noioso. Oramai, credo proprio di esserlo diventato pure io.” Sicuro che possiate nelle seguenti pagine assaporare opere di ottimo valore, vi auguro una buona lettura a nome di tutta la redazione. Londra, 2009-05-23 Enrico Santus

poi nel volume di saggi «Effetto Sicilia». La sua curiosità lo ha portato anche verso territori non strettamente letterari (il cinema, la videoarte e le arti figurative) e autori contemporanei. Nel febbraio del 2007 aveva ricevuto l’Ordine del Cherubino.

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Vento:

la Periferia


Aeolo

I contadini di Raymond Depardon di Luca Caproni Raymond Depardon scopre giovanissimo la sua vocazione per la fotografia. Nato nel 1942, riceve in regalo dal fratello la sua prima macchina fotografica nel ’54. Figlio di contadini, trae i suoi primi soggetti dalla vita della campagna: la corte della fattoria, i vitelli, i cavalli che tirano l’aratro, la chioccia seguita dai pulcini, i gatti che giocano, i covoni di fieno, gli uomini al lavoro. L’infanzia dell’aspirante fotografo si fonde con la vita di bellezza rustica di Villefranche sur Saône – nella regione RodanoAlpi, non lontano da Lione –, anche se tutti quanti in famiglia comprendono ben presto che il lavoro alla fattoria non fa per lui. Si trasferisce a Parigi nel ’58, assistente di un fotografo – «non sapevo usare un telefono a rotella né bere correttamente una tazza di caffè», scriverà anni dopo2. Ma in pochi anni diventa un reporter polivalente: fotografo del jet 2

R. Depardon La ferme du Garet, Carré 1995, p. 187. Tutte le traduzioni sono mie. Le citazioni in cui non è indicata la pagina sono tratte da album privi di numerazione.

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Rivista letteraria ed oltre set come della guerra d’Algeria, delle Olimpiadi o delle campagne presidenziali, fondatore dell’agenzia Gamma, sempre in viaggio dal Sudamerica all’Africa, vincitore del premio Pulitzer, membro della cooperativa Magnum e inviato in Medioriente. Più che una carriera folgorante, una continua ricerca di cibo che lo spinge da una parte all’altra del mondo. Nel ’79, salutando il padre malato che gli chiedeva cosa lo spingeva a ripartire ancora, Raymond rispose spiegandogli «che trovava molti punti comuni tra lui, allevatore di charolaise [una razza bovina particolarmente pregiata] in Francia e i toubou, allevatori di cammelli nel nord del Ciad»3. Fu quello l’ultimo incontro tra i due: il padre morì durante l’assenza del figlio. Al suo luogo natale, alla fattoria di Villefrance sur Saône, Depardon ritorna nel ’95 con La ferme du Garet, dove le sue prime foto degli anni ’50 sono messe in dialogo con nuove foto scattate negli stessi luoghi. Ne risulta un libro molto denso: affresco familiare e “ritratto dell’artista da giovane”, ma anche testimonianza dell’identità contadina e denuncia dell’espropriazione subita per far passare l’autostrada LioneParigi. Negli anni successivi, liberatosi dalla pressione di «questo legame così caro»4, Depardon decide di ricercare e 3 4

Ivi p. 253. R. Depardon La terre des paysans, Seuil 2008.

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Aeolo filmare gli ultimi abitanti delle zone rurali più impervie della Francia. Il progetto è di realizzare un documentario su più anni, che permetta di entrare veramente in contatto con questi contadini e allevatori e di raccontarne la storia. Le difficoltà sono subito evidenti: come entrare in confidenza con queste persone, suscettibili per antonomasia e talvolta poco socievoli? Come metterle a loro agio davanti a una telecamera e far sì che parlino con naturalezza? Dovevo essere introdotto in queste fattorie […]. Era molto lungo e difficile. Bevevo il caffè, ascoltavo, parlavo. Credo che nessuno dei miei film sia stato tanto difficile da preparare. Passavo ore in luoghi sperduti, attendendo l’ora dell’appuntamento. A volte ero disperato. Non mi piaceva niente. Pensavo di essere troppo esigente […]. I contadini non volevano essere filmati. In fondo, li capivo: non mi conoscevano, non si fidavano. Ho imparato a non vantarmi davanti a loro, a essere modesto: “Sono figlio di contadini. Vorrei fare un film. Sì, abito a Parigi... Sono nato in una fattoria della valle della Saône e mio fratello è agricoltore”.

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Rivista letteraria ed oltre Fotografare e filmare un contadino significa entrare nella sua vita privata, instaurare un rapporto di fiducia su più anni. 5

E i risultati arrivano: Profils paysans: l’approche [Profili contadini: l’incontro], del 2001, presentato alla Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, e Profils paysans: le quotidien [Profili contadini: la quotidianità], del 2005, presentato al Festival di Berlino. Fino ad arrivare allo splendido La vie moderne [La vita moderna] del 2008, presentato al Festival di Cannes. Al progetto si associa anche la pubblicazione di un libro, La terre des paysans, che assieme alle fotografie e alle didascalie dell’autore raccoglie memorabili battute di questi personaggi, con cui Depardon interloquisce restando sempre fuoricampo. Battute talvolta amare, eppure al tempo stesso stranamente gioiose: “Tutti qui eravamo poveri. Così, c’erano poche differenze sociali”, Raymond Privat. “Allora, non ha più niente da raccontare?” “Oh, a parte la miseria”, Louis Brès.

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Ivi.

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Aeolo “Non è che io ami la solitudine. Ma quando non si ha che questo, bisogna saperci convivere”, Paul Argaud. “Nel nostro mestiere di agricoltori nelle regioni accidentate, non bisogna amare il proprio mestiere, bisogna essere appassionati.” “Lei è sempre stato appassionato?” “Ho dovuto esserlo. Ma ormai sono alla fine della pista...” Raymond Privat. “Sono i tuoi genitori che ti hanno forzato a fare questo lavoro?” “Chiaro!”, Daniel Jean-Roy. “Perché ha venduto le sue pecore? Perché è stato ricoverato in ospedale a Montpellier?” “Oh no. Le ho vendute. Sono vecchio. Quando anche lei avrà ottantaquattro anni, forse non farà tante fotografie quante ne fa oggi”, Marcel Privat.

Il rischio che Depardon riesce a scongiurare è di ritrarre questi contadini come “buoni selvaggi”. Non c’è nessuna metafisica della purezza ma solo umanità: la forza di questi personaggi è nel parlare con il loro dialetto o nel lasciar parlare, ancora più semplicemente, i loro silenzi e gesti quotidiani, il loro lavoro. Scrive Depardon:

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Rivista letteraria ed oltre Per i sindacati agricoli questi contadini non esistono più o sono talmente minoritari da non sollevare alcun interesse. Ciononostante, sono i più toccanti, i più autentici, totalmente privi di illusioni. La loro terra non può scomparire dall’oggi al domani, essi non sono responsabili di questi terreni accidentati dove non si può procedere a un’agricoltura intensiva.6

O altrove: La Terra Indigena non è un paradiso perduto né una riserva di risorse, ma una terra abitata da donne e uomini come noi.7

Terra e vita sono inscindibili in questi contadini, e Depardon pare suggerire che questi due termini valgano come sinonimi. La vita coincide con il lavoro dei campi e delle bestie, l’abbandono prelude alla morte: «sono in pensione sulla carta... per il resto il lavoro continua», dice Raymond Privat, ottant’anni. Un aspetto, questo della morte, che Depardon non elude e su cui anzi, spudoratamente, insiste – perché ciò che passa sotto gli occhi è il dramma di 6

Ivi. Terre Natale. Ailleurs commence ici, Fondation Cartier pour l’art contemporain, 2008 [catalogo dell’esposizione], p. 27.

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Aeolo un mondo che sta scomparendo. Infatti, i pochi giovani che vogliono rilevare le fattorie si trovano a fare i conti con l’assenza di politiche che li spingano a investirvi tempo e denaro. Così, il reportage di Depardon non si esaurisce in una semplice testimonianza, per quanto appassionata: è una denuncia della marginalità di questi contadini e pastori e una rivendicazione del loro diritto a esistere. E tuttavia, l’umanità della loro “vita moderna” non viene mai apertamente contrapposta al mondo della velocità e dell’alienazione cittadina – il terreno si farebbe troppo scivoloso: Depardon lascia alla sensibilità di ciascuno il compito di trarre le proprie conclusioni e di riflettere sulla sostenibilità del progresso. Depardon prova un amore sincero per questo mondo rurale, e ciò rende il suo lavoro estremamente intenso. Una motivazione personale lo guida – lui, figlio di contadini che ha lasciato la fattoria dei genitori: So che sono stato fortunato a passare la mia infanzia in una fattoria! Più tardi, ho vissuto questo come un complesso: eravamo, mio fratello e io, gli unici figli d’agricoltori che andavano alla scuola di Pontbichet, nella periferia di Villefranche sur Saône.

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Rivista letteraria ed oltre Quanto volte mi sono azzuffato nel cortile della scuola perché mi avevano trattato da “contadino”.8

La fotografia e il reportage lo hanno spinto lontano, e tuttavia non c’è mai stato un distacco dal luogo natale. Abbiamo già visto come Depardon risponda a suo padre nel ’79, instaurando un parallelo tra la vita della fattoria e quella degli abitanti del Ciad – come se viaggiare, fotografare e far conoscere realtà marginali del mondo fosse il suo modo di rafforzare il legame con il proprio luogo d’origine. In una recente conversazione con il filosofo Paul Virilio, Depardon ritorna su questo punto: Che io vada in Ciad o che faccia il giro del mondo, la mia riflessione ruota sempre intorno al concetto di Terra Natale.9

La conversazione ha avuto luogo nel quadro dell’esposizione Terre Natale. Ailleurs commence ici [Terra Natale. Altrove comincia qui], tenutasi alla Fondation Cartier di Parigi (21 novembre 2008 – 15 marzo 2009) a cura di Depardon e Virilio. L’apporto di Depardon all’esposizione è 8 9

R. Depardon La terre des paysans cit. Terre natale. Ailleurs commence ici cit., p. 8.

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Aeolo stato di due installazioni video: la prima un viaggio tra «le popolazioni che stanno scomparendo o che vivono in margine alla mondializzazione» e la seconda un frenetico viaggio del mondo per provare «la malattia della velocità»10. La prima di queste due installazioni, intitolata Donner la parola [Dare la parola], è particolarmente interessante perché raccogliendo testimonianze di indigeni dalla Bretagna al Cile, dalla Bolivia all’Etiopia, ci mostra quanto la riflessione di Depardon sulla Terra Natale sia feconda, filosoficamente e artisticamente, e sia, in ultima istanza, al cuore di tutto il suo mestiere di fotografo e cineasta. Così, per comprendere il significato del lavoro di Depardon, non bisogna perdere di vista questa motivazione personale e quasi intima che lo orienta. Al valore testimoniale dei suoi reportage, sempre tesi a far emergere realtà ai margini, si associa una continua riflessione sul proprio passato e sulla propria identità. Nell’album del viaggio a tappe forzate da cui è stata tratta la seconda installazione alla Fondation Cartier – sette scali, da Washington a Tokyo fino a Città del Capo, per poi tornare al luogo di partenza, Parigi, tutto in quattordici giorni – scrive:

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Ivi, p. 10.

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Rivista letteraria ed oltre Ho sempre amato il viaggio nel viaggio. Mi ricordo, giovane reporter, viaggiavo senza sosta di paese in paese […]. Arrivavo da qualche parte senza più sapere cosa venivo a farci […]. Credo che fossi felice, come lo sono oggi. Torno a essere il piccolo reporter appena uscito dall’adolescenza, molto solo ma anche molto libero.11

11 R. Depardon Le tour du monde en 14 jours. 7 escales, 1 visa, éditions Points pour Fondation Cartier, 2008.

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Aeolo

Quei vicoli m’hanno cresciuto Quei vicoli m’hanno cresciuto Gibbose viscere di pietre diseguali Intarsi spigolosi di carne e muri Voci pettegole e odor di legumi. Strade sghembe come arti in frattura ossari di vecchi muli, di scialli scuri. Rughe rosse di mosti, salate dal sole, bronchi e tetti che respirano il vento grondaie come rami, tegole come squame folli eliche sui camini arrotolano il fumo sciami di ragazzini negli eterni pomeriggi e richiami di madri ululano nel silenzio. La mano al caldo nella tasca di mio padre, luce fresca e se i passi non toccano i tombini, divinazione infantile, oggi sarò felice, suonerà la corsa dalla cattedrale verso casa.

Paolo Guerrieri 20


Affari e crisi – Enrico Santus


Prade Garfagnine (LU) – Luca Caproni

Aeolo

22 Al calar della sera – Enrico Santus


Rivista letteraria ed oltre

Il tema della periferia nella letteratura moderna e contemporanea Un viaggio in blue jeans dalla periferia insoddisfatta al centro glamour, dalle belle tahitiane di Gauguin ai passage di Walter Benjamin, passando per Honoré de Balzac e Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

di Francesco Chiofalo e Silvia Litterio Stefano Brugnolo insegna Letterature comparate alla Facoltà di Lingue dell’Università di Sassari e tiene da tre anni per affidamento il corso di Teoria della letteratura presso la Facoltà di Lettere di Pisa. Silvia Litterio: È la stessa etimologia del vocabolo a suggerirne l’indefinitezza: dal greco perì che significa “intorno a…” qualcosa. Non possiamo dunque parlare di periferia in senso assoluto, ma dovremmo sempre

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Aeolo rapportarla a qualcos’altro, plausibilmente un centro. Il tendere verso il centro da parte della periferia potrebbe ricercarsi in una perenne insoddisfazione dell’individuo “periferico”? La periferia è “malata” in quanto eternamente insoddisfatta di se stessa? Oppure questa sorta di “malattia” è da ricercarsi nel centro che non può fare a meno di dettare ed imporre i propri schemi – non solo mentali, ma anche sociali, culturali ed economici – alla periferia? Stefano Brugnolo: Sarà sempre esistita una dicotomia centroperiferia e cioè saranno sempre esistiti luoghi centrali e luoghi periferici e credo che, in buona sostanza, lì valga un criterio essenzialmente economico. Sono centri i luoghi che dettengono il potere economico, culturale e politico e invece sono periferia i luoghi che sono la retroguardia di questi centri. Direi che vale sempre la pena di avere l’idea quasi mondiale delle cose. Lo storico Wallestain parla di economia-mondo che si articola in semiperiferia, periferia e centro; c’è sempre qualcuno che sfida chi occupa il centro dell’economia-mondo per sostituirsi ad esso. Per esempio oggi certamente il centro sta negli Stati Uniti d’America, ma un domani chissà questo centro potrà essere sfidato dalla Cina. Probabilmente mai come nella modernità, che si è avviata con la rivoluzione industriale, è accaduto che si accentuasse così potentemente il divario fra centro e periferia. Posso immaginare che ci sono stati tempi, epoche in cui pur facendo parte di questa grande economia-mondo gli individui

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Rivista letteraria ed oltre poco sapevano, forse, di quello che accadeva al centro, e quindi potevano svolgere una vita in cui erano inconsapevoli di quanto vi avveniva: si potevano svolgere vite complete. La letteratura reca testimonianza di una dinamica in cui spesso il periferico sente che esiste la grande città, ne è affascinato e variamente umiliato, perché ci può essere un vissuto di vergogna periferica. Lì riconosco varie possibilità: ci potrà essere nel corso del tempo una rivendicazione della condizione periferica: il desiderio di mantenere una propria autonomia, originalità. Ma a me pare che si possa dire la letteratura ci reca testimonianza di un potentissimo influsso che viene dal centro e che in qualche modo influenza la vita dei periferici, vuoi attirandoli potentemente verso il centro, ma anche facendo loro sentire la loro vita qualcosa di manchevole. Vorrei ricordarvi almeno un grande testo che spesso non viene letto in chiave di centro e periferia, ma che può e deve essere letto in tal senso: Madame Bovary ha come sottotitolo “scene di vita provinciale” e Madame Bovary al centro del suo sistema di fantasie, di desideri, di immagini ha Parigi. Parigi è per lei la moda, la vita, un’altra possibilità esistenziale alternativa al senso di una vita periferica percepita come povera di fascino, di bellezza. C’è in Balzac l’uomo che dalla periferia muove verso la città e la conquista, anche se vi ricorderei che non sono mai gli umili a muoversi, ma sono gli appartenenti alla piccola nobiltà. C’è un grande moto che va dalla periferia al centro, ma anche restando

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Aeolo dentro alla periferia tutta la grande letteratura tra ‘800 e ‘900 ci racconta di una relazione anche immaginaria tra il vissuto periferico e la prospettiva, l’orizzonte del centro metropolitano.. Francesco Chiofalo: Prendendo ad esempio Morte a Venezia di Thomas Mann e il capitolo del saggio di René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, dove l’autore parla dell’omosessualità di Dostoevskij e del voyerismo in Proust come realtà “malata”, potremmo riconoscere alla “malattia” della periferia un fascino esotico irresistibile? E questo può essere inteso come liberazione dalle sovrastrutture culturali della civiltà occidentale? E infine è assimilabile alla periferia la dimensione del “concesso”? Naturalmente dovremmo sempre distinguere sia dal punto di vista letterario, che pittorico, che generalmente artistico e forse addirittura culturale; il punto di vista del centro che guarda verso la periferia dal punto di vista del periferico che guarda verso il centro: sono due sguardi differenti, diversi. Normalmente lo sguardo del periferico verso il centro è lo sguardo di qualcuno che muove verso il centro non con spirito avventuroso, nel senso dell’esotismo, ma perché è costretto, attratto, attirato, invaso dai modelli e dai valori del centro: non è un gesto libero quello del periferico che va verso il centro, vuoi materialmente, vuoi immaginariamente.

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Rivista letteraria ed oltre L’altra modalità è la modalità del centrale, del metropolitano che dal centro muove verso aree, zone periferiche. Qui addirittura distinguerei tra un senso di vera e propria periferia e un senso quasi esotico: Tahiti è periferia del sistema mondo, però non lo è allo stesso titolo per cui una certa Russia contadina poteva essere periferia o semiperiferia rispetto al centro Europa. Quelli diventano spazi tendenti al mitico, anche se poi in realtà c’erano, esistevano e facevano anch’essi parte dell’economiamondo. Mi viene in mente quel verso di Baudelaire “là-bas touts est luxe, calme et vouluptè”: è possibile che anche Baudelaire avesse in mente quel là-bas che per una certa mentalità occidentale da Diderot in poi è stato Tahiti, i mari del Sud. Se distinguiamo questi due ambiti cominciamo a chiarirci le idee. Per esempio Tahiti sia per Diderot, sia per Gauguin e sia per tanta altra letteratura, è lo spazio del concesso, che soprattutto riguarda la sfera sessuale: è quello che in termini freudiani potremmo far corrispondere a parti del sé sacrificate. Non dimentichiamocelo, l’Italia è stata questo, per i viaggiatori del Nord: per Goethe come per Stendhal, l’Italia costituiva uno spazio di maggiore libertà, dove i modi di vita erano meno compressi. Un certo mondo puritano vedeva nell’Italia il paese dove i limoni fioriscono, secondo Goethe, uno spazio di maggiore libertà, abbandoni, felicità corporea, dove non è solo una questione di cieli azzurri, ma evidentemente è anche qualcosa che corrisponde a un bisogno interiore.

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Aeolo Ovviamente su tutto ciò è caduta la scure, per certi aspetti giusta, della critica post-coloniale e di genere, a dire che questo tipo di proiezioni, che noi incontriamo nei testi letterari, in qualche modo sono sì il represso, il rimorso della civiltà occidentale, ma sono il represso ed il rimorso, secondo questa critica, di una società occidentale che non può immaginarsi l’altro se non sub-specie di un mondo dove ancora una volta ad espandersi è l’ego occidentale e maschilista. Io sono convinto che ci siano questi aspetti, però ho come l’impressione che si trascuri il fatto che in questi altri mondi, il ritorno del represso sia anche l’opposto dell’ideologia: la corporeità di Gauguin è sicuramente una corporeità onirica, ed è inutile dire che i Thaitiani e le Thaitiane erano quello; come è inutile dire che gli Italiani in Stendhal o di Goethe, o che i Sardi di Lawrence fossero realmente così. Provate però a pensare: chi viaggia? Solo coloro che hanno il denaro per farlo, se però il punto è questo, allora chi viaggia è comunque un privilegiato perché il contadino dell’estrema campagna indiana forse non farà un viaggio di piacere. Tuttavia io credo che questi scrittori e pittori ci restituiscono immagini di una vita più piena. E in questo bisogno, sogno e desiderio di una vita più piena ci sono schegge di verità, ci sono parti di noi che si esprimono attraverso queste visioni oniriche ma non per ciò false. S.L.: Paradosso: anche la periferia ha un suo centro (e una sua periferia). L’uomo ha dunque bisogno di un centro

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Rivista letteraria ed oltre per vivere? Possiamo assimilare il centro all’Io e la periferia all’altro, parlando di una sorta di “centro emotivo”? L’uomo necessita di sentirsi a casa, di abitudine? Io posso solo rispondere in questo modo a queste questioni che sono di difficile “chiusura”. Fra non molto parteciperò ad un convegno sulla “Frontiera”. Mi pare che il titolo del mio intervento suoni pressappoco così: Confine geografico e confine psichico nella letteratura. Cioè io credo che esista una carta geografica politica culturale ed economica fatta di confini, che ci dice dove sta il centro e dove sta la periferia. Allorché questa carta geografica però ci viene restituita sotto forma di letteratura, ci sono altre corrispondenze: ad un confine geografico può corrispondere anche un confine psichico. Per cui una ipotesi che faceva lei, centro uguale io, periferia allora potrebbe essere uguale all’inconscio o appunto parti psichiche appartenenti a fasi trascorse, dimenticate, rimosse, represse. Dico questo perché è proprio Freud che ci dice che dall’infanzia passiamo all’età adulta e che quindi c’è una evoluzione. Però contemporaneamente ci dice che tutto ciò che siamo stati non lo dimentichiamo. In qualche modo resta. Permane. E lo rincontriamo nei sogni o nei sintomi. Di contro, Marx ci dice che esiste lo sviluppo dell’umanità, ma che è uno sviluppo disuguale dove ci sono zone molto sviluppate, molto “centrali”, ma anche zone meno sviluppate, più arretrate. Io credo che si potrebbe stabilire una qualche analogia tra lo sviluppo disuguale

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Aeolo dell’individuo e lo sviluppo disuguale del mondo. È Walter Benjamin che ci descrive il fascino dei passages, questi luoghi della Parigi moderna che corrispondevano ad un’archeologia della modernità: sono questi, passaggi coperti, come delle gallerie, in cui Walter Benjamin, che si appoggiava ad un libro di Luis Aragon, Le paysan de Paris, ci dice che è come se permanessero delle fasi dello sviluppo urbano ormai superate; oggi si parla di modernariato. Ecco è come se ci fossero delle zone in cui si concentrano, anche spazialmente, pezzi del nostro passato. Io direi che c’è una qualche corrispondenza tra la modernità degli individui e questi pezzi di passato, che hanno anche un loro fascino. Torno però a dire che stiamo parlando del punto di vista del centro sulla periferia, esiste però anche il punto di vista dei periferici, e che lì per certi aspetti, in molta letteratura, la libertà era verso il centro. Ricorderei uno slogan medievale, “L’aria delle città rende liberi”. Ora qui ci si riferiva ad una migrazione dal contado, dove contavano ancora molto i feudatari, e dove dunque andare verso la città voleva dire anche andare verso la libertà. Tutto questo meccanismo sappiamo che oggi è più che mai importante: c’è un romanzo di Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, in cui ci racconta che Robinson Crusoe vive in quest’isola, conosce Venerdì e si affeziona ad entrambi. Quando arriva una nave dal “centro” e gli dicono che lo avrebbero riportato a casa, Tournier ci propone una bella immagine: Robinson dice no. Però non ritrova più Venerdì, al suo posto

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Rivista letteraria ed oltre trova un mozzo che lo sostituirà sull’isola, perché Venerdì va verso il centro, la metropoli. Siamo negli anni ’70 e sappiamo a cosa sta alludendo Tournier: quello che poi sarebbe diventato un enorme fiume umano da tutte le periferie del mondo, che erano state conquistate, colonizzate; ci sono molti dei Venerdì del mondo che dicono andiamo verso questo centro. Con curiosità, con spirito d’avventura, con il desiderio di affrancarsi dalla povertà. Io non trascurerei questo movimento. Cerchiamo di vedere anche l’altro moto: perché per questi Venerdì del mondo, muoversi, sganciarsi dalle periferie è anche un atto di coraggio, è anche un atto di libertà. Credono che nei centri del mondo verrà data l’opportunità che fu data a tutti i periferici balzachiani. Non è affatto semplice il meccanismo di adattamento e vorrei che in questa nostra chiacchierata non perdessimo di vista quest’altra prospettiva. F.C.: Il movimento dalla periferia verso il centro come movimento di emancipazione. Questa scala nella società mi ha fatto pensare subito a Bel-Ami di Maupassant, dove Duroy figlio di contadini della provincia francese, che ha avuto le sue esperienze in Algeria, dunque la periferia della periferia, arriva a Parigi e comincia la sua irrefrenabile scalata al successo. Possiamo dunque vedere un rapporto di desiderio triangolare tra periferia e centro?

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Aeolo Credo che l’ipotesi girardiana c’entri moltissimo e possa aiutarci a capire come funzionano questi meccanismi. Probabilmente addirittura a livello di massa. Dunque probabilmente lì si tratterebbe di capire bene qual è l’oggetto del desiderio e chi fa da modello. Chi fa da modello è il “centrale”, basti pensare a Madame Bovary e alle sue eroine delle quali leggeva nei suoi romanzi, ma possono essere personaggi del cinema, figure della pubblicità, dove l’oggetto del desiderio è questa sorta di vita piena, vera. Un desiderio quindi di sentirsi finalmente al centro. Nella sua ipotesi, secondo me correttamente, il problema non è soltanto quello economico, non bisogna trascurarlo, ma direi che una analisi economica e sociale dimostrerebbe che chi si muove non è solo colui che è in una situazione di estremo bisogno, poiché chi è in questa situazione non lo fa perché non lo può fare. Si muove chi in qualche modo è affascinato dalla possibilità di un'altra vita, che in qualche modo è quella che poi si svolge al centro. Potremmo usare l’espressione inglese “glamour”, il glamour metropolitano, nella cui formazione hanno un ruolo fondamentale i media e il cinema, come nell’ottocento l’avevano i romanzi. Questi grandi meccanismi sono spiegabili, appunto, con criteri girardiani: “io voglio quello che tu hai già”. Ricordo che noi potevamo avere, rispetto ad una periferia dell’est europeo, quando l’est europeo era una periferia non solo dal punto di vista economico, ma anche politica con muri, confini e frontiere, una serie di simboli dell’Occidente, come i jeans, per esempio, oppure i prodotti di

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Rivista letteraria ed oltre cosmetica, che erano molto desiderati. E noi al centro potevamo avere un gesto quasi di stupore, nel senso che non avevano tutta quest’importanza, ma una cosa era l’oggetto visto da colui che il jeans ce l’ha, e può anche sapere che i jeans non corrispondono alla felicità; invece per chi i jeans non ce li ha, i jeans possono essere un segno di un altro modo di vivere di una emancipazione di una libertà di un senso della vita tutto diverso. Ed è più o meno una cosa del genere, provo ad esporla: Girard è come se dicesse “Non c’è oggetto, c’è il mediatore ma non l’oggetto. Tu, soggetto, ti muovi verso il centro attratto dal glamour del centro, ma in realtà non c’è l’oggetto vero e proprio. Chi si posiziona al centro riscontrerebbe il non appagamento di questi oggetti, per l’appunto, inesistenti”. Come a dire: i jeans non appagheranno il tuo desiderio. Tuttavia questi giovani sono mossi da queste, usiamo il termine balzachiano, illusioni. Si riveleranno poi illusioni perdute? Può essere, però è come se il centro continuasse ad esercitare questo fascino attraverso questi simboli e non mi sento di dire che in ciò non ci sia anche un potenziale positivo. Dire che poi tutto questo illudersi sbatterà il naso contro delle asprezze, delle durezze, e che alla fine verrà dimostrato che in fondo c’era tantissima illusione, che c’era molto glamour e che poi di fatto c’è economicamente e socialmente più durezza e difficoltà per chi dalla periferia va’ verso il centro, ci dovrebbe portare a dire che forse è meglio stare ognuno a casa propria, non è assolutamente facile. Si prospetterebbe una ipotesi

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Aeolo utopica, teorizzata dai filosofi e dai politici, nella quale tutti ci sentissimo centro, dove il centro fosse da ogni parte. Beh, durante la vita sarà realizzabile: ognuno potrà sentirsi centro del proprio mondo essendo dove è. Sappiamo però che nella storia i modelli contano non poco, e quindi ci sentiamo in un qualche modo portati ad andare verso luoghi che sentiamo più centrali. Evitarlo non mi sembra né possibile né positivo. Ho letto da poco un romanzo che si intitola Minareto [n.d.r. di Leila Aboulela] che parla della protagonista africana che viene a vivere a Londra. In questo romanzo, l’autrice ci mostra quanto siamo esposti a queste dinamiche e di quanto esse possano farci del male. Dunque cosa ci racconta la letteratura delle periferie? Non ci racconta solo quanto sia difficile per i periferici ambientarsi nelle città e viverci bene. Ci racconta anche la difficoltà di tutti, anche dei centrali. Insomma come diceva Flaubert della sua grande eroina periferica: Madame Bovary c’est moi, il periferico sono io. Perché c’è sempre una componente di inesperienza, di insicurezza che nessuno di noi può dire di non aver provato. Nella storia del periferico è solo più evidente. Perché nel ragazzo che arriva con la valigetta, la condizione di inesperienza è più evidente. Ma quel ragazzo o ragazza, uomo o donna, che capitano con la valigetta in una qualsiasi città del mondo, in realtà c’est moi, c’est toi, c’est nous.

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Rivista letteraria ed oltre

Quando le categorie interpretative non sono immortali Il binomio centro-periferia e il nuovo capitalismo

di Marina Calculli Ragionare per categorie è vizio scientifico antico e resistere al fascino delle strutture – per chiunque abbia letto anche solo un po’ di Claude Lévi-Strauss – è impresa assai ardua. Emanciparsi da esse, ammettere che le categorie interpretative possano essere valide fino ad un certo punto – possano, in altri termini, nascere e morire come nasce e muore un’epoca o una civiltà – lo è ancora di più. Ciò nondimeno, le dinamiche con cui gli uomini si aggregano, definiscono le proprie istituzioni e le loro forme culturali, tradiscono spesso un prelogismo che – oseremmo dire, quasi cedendo alla tentazione strutturalista – si impone di per sé sulla realtà. Non apprezzare i risultati scientifici che derivano da questo presupposto significherebbe disconoscere 35


Aeolo la portata di quella corrente epistemologica – lo Strutturalismo per l’appunto – che in differenti campi del sapere ha fatto molta luce. Pensare, tuttavia, che le strutture trascendano la storia, la precedano e la vincolino in un apparato immutabile e sempre attuale richiede un atto di fede intellettuale. Nelle scienze – siano pur esse inesatte – l’agnosticismo è di sicuro una strada più prudente. Se, dunque, la dicotomia centro-periferia ha indubbiamente rappresentato un criterio interpretativo utilissimo per comprendere molte dinamiche edificatrici di istituzioni, geografie, equilibri e perfino identità per molte epoche del passato, ci si chiede se quella realtà di cui siamo protagonisti storici, comunemente definita Globalizzazione, possa ancora – o per quanto ancora – essere letta con la chiave di questa opposizione funzionale. Un po’ di storia della conoscenza non sembri a questo punto pratica troppo oziosa. Il sentiero epistemologico della lettura strutturalista centro-periferia fu intrapreso tra gli anni sessanta e settanta a partire dal campo economico per poi essere battuto da storiografi, sociologi e teorici delle relazioni internazionali. Questo tipo di dualismo era sotteso 36


Rivista letteraria ed oltre alla teoria dell’Economia mondo, elaborata inizialmente da Fernand Braudel, lo storico francese delle Annales, che nel suo celebre lavoro sulla Mediterranée individuò la base del sistema capitalistico europeo nella interdipendenza gerarchica e funzionale tra un centro monopolista e delle periferie subordinate da un punto di vista geografico quanto da quello delle relazioni commerciali ed economiche. La dicotomia centro-periferia, elaborata in termini di sfruttamento-subordinazione, omogeneità del centrodisomogeneità delle periferie, non poté che essere accolta con favore in un clima intellettuale e accademico, quello degli anni settanta, che da una sponda all’altra dell’Atlantico era permeata da una rivisitazione feconda delle teorie marxiste. Paladini dell’antiliberismo e promotori accademici di fervidi j’accuse contro i ‘centri’ a sostegno di una rinnovata prospettiva che adottasse come fulcro dell’indagine le società subalterne, molti studiosi cominciarono a interessarsi in questo periodo delle periferie del mondo, dall’Africa, all’Asia all’America Latina. Fu proprio uno statunitense, infatti, Immanuel Wallerstein, a riprendere la nozione dell’economia-mondo di Braudel e interpretare secondo quest’ottica i rapporti geopolitici e commerciali instaurati nel corso della storia tra i centri, 37


Aeolo caratterizzati da una produzione specializzata e da una avanzata tecnologia, i semicentri e le periferie, utilizzate dai centri come serbatoio di materie prime e sfruttamento lavorativo. Accanto a Wallerstein che incominciò il suo percorso accademico a partire dalla realtà africana e dalla ricerca di una via di liberazione dal sottosviluppo, anche gli strutturalisti sudamericani, i teorici della ‘Dipendenza’ come Furtado e Sunkel - e gli esponenti della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina – sostenevano che il sistema capitalista si reggesse su una dipendenza gerarchica e statica tra un centro prospero che alimenta il suo costante e progressivo sviluppo risucchiando risorse e forza lavoro da una periferia condannata a rimanere intrappolata nella impasse della subalternità. Il sottosviluppo delle periferie è dunque, secondo questo filone di pensiero, funzionalmente necessario allo sviluppo capitalistico. E’ ben evidente a chiunque getti uno sguardo sulla storia degli ultimi decenni come l’assunto di una dipendenza statica e immutabile dei due membri del binomio centro-periferia venga presto smentita. Lo sviluppo delle cosiddette ‘tigri asiatiche’ ha portato ad un rovesciamento della prospettiva; non si può infatti disconoscere la oggettiva trasformazione di 38


Rivista letteraria ed oltre molte periferie in nuovi centri, caratterizzati da una produzione sempre più specialistica e in grado di esercitare pressione e influenza sui centri tradizionali. Se si considera infatti il boom economico che nell’ultimo decennio hanno vissuto paesi come la Cina o l’India e alle conseguenze geopolitiche che questo ha determinato, si dovrà ammettere che la categoria interpretativa centro-periferia sia ben più dinamica di quanto non preconizzassero gli strutturalisti. Il libero mercato, subito dopo il biennio 1989-91, ha varcato quel muro che gli precludeva l’accesso all’est e – ci piaccia o meno – è stato il motore di uno sviluppo economico di molte periferie del mondo, che hanno saputo appropriarsi delle conoscenze dei processi produttivi e sintetizzare la dottrina liberista e le loro pregresse istituzioni culturali e politiche in forme ibride ma fortissime. Seppur considerazioni prudenti possano essere fatte sul mancato sviluppo sociale di molte economie emergenti, nei paesi che hanno cominciato a basare molto la loro economia sull’export c’è stato un miglioramento innegabile delle condizioni di vita, con un aumento dell’occupazione e in alcuni paesi come la Corea del Sud o Taiwan gli stipendi hanno raggiunto i livelli dei paesi occidentali.

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Aeolo Se ritorniamo scrupolosamente e scientificamente alla applicazione della dicotomia centro-periferia, una rivisitazione del suo funzionamento si impone proprio in virtù del suo essere fondamento di un equilibrio sistemico. La cartina tornasole di questo dinamismo intrinseco della interdipendenza è rappresentata d’altra parte dalla evoluzione degli equilibri geopolitici mondiali. A partire dal 1945 infatti, per tutto il periodo della Guerra fredda il mondo si è assestato su un bipolarismo tra mondo capitalista e mondo sovietico. La caduta del muro di Berlino ha portato alla istituzione di un unipolarismo degli Stati Uniti, contro cui era praticamente impossibile concorrere sia sul piano militare – l’hard power – sia sul piano della influenza culturale – il soft power. Il capitalismo in quegli anni sembrava dunque confermare le tesi dei teorici neomarxisti e imporsi dominante ed eterno. Lo sviluppo delle economie ‘periferiche’ – chiamiamole pure così, funzionalmente alla tesi che vogliamo sostenere – ha però modificato ancora l’ordine mondiale. Dal 2003 in avanti possiamo parlare di un multipolarismo imperfetto, i cui poli accanto alla principale potenza atlantica sono la Cina, l’India e la rinata Russia, la quale, proprio in virtù di una apertura delle barriere al libero mercato, ha potuto riaffermare il suo potere ‘energetico’. 40


Rivista letteraria ed oltre

Ritornando infine alla prospettiva strutturalista, sarebbe legittimo chiedersi se l’imputato della ‘colpa’ sistemica del sottosviluppo sia una parte di mondo, il centro, oppure sia il sistema stesso. Perché nel primo caso si può pensare ancora ad un futuro più etico e giusto rivendicando una potenziale ristrutturazione delle categorie valoriali e delle modalità di scambio politico ed economico da realizzarsi sempre all’interno di un sistema di tipo liberale e capitalistico. Nel secondo caso il vizio è strutturale e dunque per eliminare il male, si deve abbattere la struttura tout court. Il punto di vista di chi scrive, puramente scientifico e per nulla entusiastico nei confronti del sistema che in queste righe pur tuttavia si difende, propende evidentemente verso la soluzione più ottimistica. Pensiamo alla crisi finanziaria che stiamo vivendo. In questi mesi i sostenitori di una morte annunciata del liberalismo economico si sono scambiati la palla del dibattito con coloro che credono invece in un rafforzamento dello stesso. Il turmoil finanziario sta per compiere un anno, se si assume come data convenzionale della sua nascita l’agosto 2008. Da quella estate più calda del solito, in cui il mondo sembrava andare a gambe all’aria, molte cose sono state ripensate. Abbiamo dovuto, volenti o nolenti, accettare il fatto che l’istituzione statale abbia ancora 41


Aeolo ragion d’essere; gli americani hanno eletto un presidente la cui lungimiranza è diventata in tutto il mondo simbolo di una virata verso una globale redistribuzione delle risorse e verso una doverosa giustizia sociale; nelle facoltà di economia in tutto il pianeta l’etica è tornata di moda. Consideriamo ancora una volta il rapporto centroperiferia. E’ ben chiaro che per poter sopravvivere il ‘centro’ non potrà più comportarsi come ha fatto fino ad ora - tenere in pugno il mondo intero in virtù dell’hard power in un’ottica neocolonialista. Al contrario, il centro dovrà esercitare un soft power, basato non tanto sulla esportazione della democrazia quanto sulla promozione di un concreto e tangibile sviluppo in quelle periferie del mondo che altrimenti diventeranno preda facile di altri poteri culturali, forse più pericolosi per il pianeta intero. E’ una questione di attrattività competitiva. Questo Obama sembra averlo compreso molto bene, stando almeno all’impostazione della sua politica estera. L’Europa ha una chance in questa direzione per poter assurgere ad una condizione di indipendenza strategica nel quadro degli equilibri atlantici e mondiali; la chance dell’Europa si chiama ‘Unione mediterranea’ – un accordo storico con tutti i paesi che si affacciano sul bacino del mar 42


Rivista letteraria ed oltre Mediterraneo – esperienza inaugurata a Parigi il 13 luglio del 2007 e poi lasciata in balia dei venti e della pigrizia. Forse perché non è ancora vissuta come foriera di grandi vantaggi per l’Europa. Chissà. E’ una questione di attrattività. Ma se sono i centri a dover sforzarsi di essere attrattivi nei confronti delle periferie, non è accaduto forse che il rapporto di dipendenza si è invertito? Le categorie interpretative hanno l’età delle loro ere culturali.

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Sorano (GR) – Luca Caproni

Rivista letteraria ed oltre

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Aeolo

Dall’alto: Meriggio – E. Santus Distanze – E. Santus

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Bufere


Aeolo

Londra, caricatura di una metropoli di Enrico Santus Avvertenza. Nei seguenti appunti potrete trovare verità e bugie densamente mischiate: verità su uno sfondo di bugie e bugie su uno sfondo di verità. Desidero con Essi catturare le impressioni mie e di altri e rifletterci su, amplificandole e giocandoci. Quel che ne rimane è una caricatura più che un ritratto, ma poiché ogni caricatura nasconde una parte di verità, lascio a questi appunti il compito di stimolare alcune riflessioni. Insomma, utilizzate il testo come un invito a riflettere e se non vi piace strappatelo via. Sono certo che anche il vuoto lasciato dalle pagine strappate possa diventare un importante spunto di riflessione. LA STRADA. Londra è una città che non dorme mai, una città che non si sveglia mai. Ad ogni ora e in ogni giorno dell’anno puoi trovare per strada ragazze seminude che strillano sui marciapiedi, ubriachi che si pisciano le scarpe tra le risa degli amici, giocolieri che si tuffano in mezzo ai minicab in corsa, madri di famiglia che tornano a casa dopo 48


Rivista letteraria ed oltre aver pulito i cessi dei grandi boss della City per quindici fottutissimi pounds. Spesso queste madri di famiglia lavorano sia il giorno che la notte per comprare le scarpe nuove ai loro ragazzi: giovani simpatici, sia chiaro, giocherelloni e un po’ rap, che non scordano mai di mettere in tasca insieme al cellulare anche un coltello. Io, quando rientro dai club dove passo la notte nell’estasi di luci e flash, le vedo queste madri: nere, sui quaranta, alte sei piedi, con spalle due volte le mie. Salgono sul bus e si siedono nel primo sedile libero; non vanno mai al piano superiore perché là i giovani gridano e fanno casino. Guardano avanti queste donne. Tutte. Con quindici fottutissimi pounds in tasca e le mani che puzzano di varechina. Ma non solo le buone madri nere sono schiave a Londra: asiatici e africani tanto quanto arabi ed europei lavorano senza sosta per cinque pounds (5£) ad ora in una città dove un sandwich al supermercato ne costa tre (3£) ed una bottiglia d’acqua due (2£). IL COLLEGE. Oltre agli schiavi, c’è una categoria più fortunata: sono gli studenti, i figli della crema o dell’estremo sacrificio, quelli che insomma possono o devono pagare 3500 sterline all’anno di tasse per accedere ad università 49


Aeolo dove camerieri molto abili e disponibili servono piatti pronti: tutor e professori riassumono libri fondamentali per la disciplina in mazzetti di slides, così che la futura élite mondiale non si sporchi le mani su “libri inutili”. Non sto parlando di Università sconosciute, ma del King’s College, una tra le prime venticinque Università del mondo. È vero, i servizi ci sono e possono essere sfruttati, a partire dall’assoluta disponibilità dei professori fino a giungere ai laboratori, ai macchinari e agli spazi comuni; è vero anche che l’apprendimento in Inghilterra è più orientato alla pratica che alla teoria (cosa completamente opposta all’Italia, dove si studiano molti libri e poi non si fanno esercitazioni); ed è vero infine che l’idea che mi sono fatto può essere sbagliata o imprecisa, condizionata dalle impressioni recepite in pochi mesi. Fatto sta che non mi esalta il sistema universitario che ho conosciuto e non apprezzo nemmeno l’idea che ci sta dietro: le biblioteche sono aperte solo agli studenti che hanno pagato la retta, perché in Inghilterra anche il sapere è proprietà privata e non sia mai che chi non paga desideri imparare. POPOLAZIONE E CULTURE. Oltre sette milioni e mezzo di persone da ogni parte del mondo abitano la grande metropoli e si arriva a circa dodici milioni se si calcolano i 50


Rivista letteraria ed oltre sobborghi. Londra si estende per circa 1.500 chilometri: se volessimo fare una proporzione – escludendo i sobborghi – Roma con un’estensione leggermente inferiore ha una popolazione pari a un terzo di quella londinese. L'integrazione di ogni diversità è così radicale nella Capitale europea che ci si può trovare davanti ad un cassiere trans, ad un bancario nero coi rasta o ad un’autista di bus donna. Non stupisce nemmeno vedere ragazze con la forza di uomini camminare con mattoni e sacchi di cemento sulle spalle. Quest’integrazione sociale, però, è come un puzzle: solo da lontano l’immagine sembra ricostruita perfettamente. Se ci avviciniamo, invece, noteremo che gli inglesi vivrannomangeranno-dormiranno con gli inglesi, i rasta coi rasta, gli etiopi con gli etiopi, gli europei con gli europei, i trans con i trans, ecc. I punti di contatto sono solo i perimetri dei singoli pezzi del puzzle, mentre la loro area sarà uniforme per cultura, etnia, lingua e religione. Ed è proprio la lingua uno dei problemi fondamentali di Londra: il fatto che giungano nella città persone da tutti gli angoli del mondo fa sì che l'inglese parlato vari radicalmente negli accenti e nelle sfumature, che la grammatica tenda a semplificarsi fino al nocciolo ed il lessico si restringa. A livello sociale, queste variazioni disegnano delle discriminazioni: l’alta società inglese parla una lingua 51


Aeolo attenta, precisa, latineggiante; la bassa società parla un inglese meno raffinato, prevalentemente anglosassone; gli stranieri parlano un inglese sgrammaticato, il cui obiettivo è semplicemente il farsi comprendere e che cerca di arrampicarsi su un lessico ristretto e una sintassi scomposta. LINGUA, AMORE E ODIO. Non si può esprimere un amore in una lingua che non ti appartiene a sufficienza: è così che nascono amori muti, dove persone di diversa origine utilizzano l’inglese come lingua franca, per dirsi pensieri che però non riescono a scendere mai in prondità e galleggiano su un’acqua torbida. Suzan, turca, fidanzata con un ragazzo del Bangladesh, mi dice: «È sempre come se non ti fossi spiegato abbastanza, come se non avessi detto tutto. Così l’amore rimane incompleto!», un buco in quell’acqua torbida insomma. Ben diverso è l’odio: le parole dell’odio si imparano velocemente e poiché l’odio è un sentimento incompleto per sua natura, l’incompletezza che si percepiva nell’amore qui non si sente. Son of a bitch, Asshole, Motherfucker, Fuck you, ecc. sono alcuni tra i termini più frequentemente udibili sulle strade londinesi. Se uno lo dice a qualcun altro e quello si volta per chiedere spiegazioni è la fine: i due non si

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Rivista letteraria ed oltre comprendono e iniziano a imprecarsi ognuno nella propria lingua, finché per forza di cose non si finisce con le botte. GENTE, MICROWAVE E PROIBIZIONISMO. Loro sono inglesi: «Non abbiamo bisogno di imparare nessun altra lingua» dicono col sorriso dello stupido che guarda il dito del maestro che indica la luna. Se solo sapessero che oltre a Shakespeare c’è Dante, che oltre a Sterne c’è Diderot, che oltre Byron c’è Goethe, allora sentirebbero che la loro lingua è solo una parte di un tutto, non il tutto di una parte. E non saprei se è la lingua, la grandezza della città o il clima, ma gli inglesi (e in fattispecie i londinesi) sono poco socievoli: puoi sentire migliaia di «cheers» ogni giorno, migliaia di «thank you» e di «you’re welcome», ma se incontri il tuo flat-mate in cucina non aspettarti alcun saluto e se gli chiedi qualsiasi cosa non attenderti un «e tu?». Si divincoleranno quanto prima possibile per tornare nei loro paradisi di quindici metri quadrati. Gli stessi paradisi dove amano consumare i pasti precotti e scaldati al microwave alle sei di sera. Se per caso udissi il microwave più tardi, non temere che stiano cenando, al massimo stanno cercando di far asciugare un paio di mutande e di calze prima della grande serata (che inizia normalmente alle 7 per finire alle 3). 53


Aeolo E mi aggrappo alla grande serata per parlare del proibizionismo inglese (è quasi divertente vederlo nella pratica): in parole povere consiste nell’aumentare i prezzi delle bevande alcooliche, nel non venderle ai giovani sotto i 21 anni e nel chiudere i pub alle 11:30. Peccato che a quell’ora aprano i club, che non sono altro che dei pub con il biglietto d’ingresso. Insomma, anche qui è un gioco di denaro più che di salute pubblica e sicurezza. IL WHERE E L’ WHO. Quando si conosce una persona non si chiede mai come si chiama, ma da dove viene. Mi accadde persino una volta che aiutai un ragazzo a portare la spesa: era in difficoltà davanti a una rampa di scale, mi avvicinai e gli presi una delle buste. Lui mi ringraziò. Quando arrivammo al piano terra mi dette la mano e mi disse: «Where are you from?». Dopo la risposta mi sorrise e se ne andò. Quel giorno ho fatto fare una bella figura alla mia nazione. NEL BAGNO. Non era una scoperta impossibile. Diciamo che se sono arrivati alla macchina a vapore, potevano benissimo arrivare anche al miscelatore. Invece no, la rubinetteria inglese distingue binariamente il rubinetto dell’acqua calda (bollente) e quello dell’acqua fredda 54


Rivista letteraria ed oltre (gelida), cosicché ci si possa bruciare o gelare a piacere. Questo accade ancora nel 2009, quando il miscelatore è stato adottato da tutte le nazioni del mondo ormai da quasi cinquant’anni. Ma si sa: gli inglesi sono orgogliosi delle loro pecularità; questo è anche il motivo per cui nelle strade procedono a sinistra invece che a destra o perché usano pollici-piedi-miglia invece di centimetri-metri-chilometri. PRUDENZA. L’essere cauti, per gli inglesi, è un imperativo. Per esempio, nelle confezioni di oggetti e cibo non vi sono solamente speciali avvertenze, ma anche cose ovvie, che dovrebbero discendere dall’educazione familiare. Così, allo stesso modo, si può trovare nei bagni la scritta “Lavarsi le mani dopo aver urinato!” o “In quest’area sono proibiti comportamenti di origine sessuale e l’utilizzo di droghe”, oppure si può sentire nella metropolitana una voce che ripete ogni cinque minuti che bisogna prestare attenzione alle scale quando piove perché potrebbero essere scivolose, ma bisogna prestare extra-attenzione quando nevica, in quanto potrebbero essere extra-scivolose. Ed è così che gli allarmi per gli incendi sono settati al minimo, sicché bastano due persone col mal di pancia per far evacuare un intero edificio, bloccandone i lavori per ore.

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Aeolo Tutte queste misure sono forse eccessive, ma permettono ad una città praticamente immensa (e immensamente difficile) di vivere in un’ampolla di vetro, prevenendo danni che – considerata la dimensione di ogni cosa – sarebbero sicuramente ingenti. ANIMALISMO. Gli inglesi hanno un enorme rispetto per gli animali: non è possibile fare alcuna violenza su un essere vivente senza andare contro la legge. Una volta vidi un ragazzo che seguiva una volpe nel tentativo di darle un calcio (a Londra le volpi scorrazzano serenamente per le strade). Un poliziotto (in inghilterra la maggior parte dei poliziotti si muove a piedi!) fece una corsa ed afferrò il ragazzo alla spalla, immobilizzandolo e prendendone il nominativo: non so come andò a finire la storia, ma pensai simmetricamente ai poliziotti italiani, che a piedi si vedono solo durante le cariche nelle manifestazioni; avrebbero mai difeso una volpe? SIMBOLI E ORGOGLIO. Sopra la maggior parte dei palazzi inglesi, siano essi pubblici o privati, vi è una bandiera: la bandiera Britannica o Union Jack. Forse pochi sanno che questa bandiera è composta dalla sovrapposizione – studiata in base al peso dei regni – delle singole bandiere di 56


Rivista letteraria ed oltre Inghilterra (una croce rossa su sfondo bianco), Scozia (una croce di Sant’Andrea bianca su sfondo blu) e Irlanda del Nord (croce rossa con stemma su sfondo bianco). Mi capita veramente di rado di vedere la bandiera italiana, se non durante le partite di calcio, come se quello fosse l’unico orgoglio nazionale. E vada bene che Berlusconi ha vinto le elezioni del ’94 “scendendo in campo” e cantando “Forza Italia”, ma è possibile che la nostra nazione si regga in piedi sopra uno stupido pallone pezzato? Questi appunti, forse, non sono altro che un tentativo di sfatare il mito della Gran Bretagna come “paese perfetto” opposta all’Italia, il “paese imperfetto” (anche in termini di tempo verbale): ma se il “paese perfetto” non esiste – e quindi nemmeno il “paese imperfetto” – la Gran Bretagna dovrebbe riavvicinarsi al resto d’Europa e l’Italia credere maggiormente nelle sue potenzialità, nella sua storia e nelle sue tradizioni. Qualcuno disse che i difetti rendono qualcosa più vera, dandole maggior valore; Mougham affermò che la perfezione “ha la tendenza ad essere noiosa”. In questi mesi ho imparato che l’opposto di “perfezione” non è “imperfezione” e che aver scoperto le debolezze di questa città non ha che accresciuto l’amore che provo per Lei, rafforzando allo stesso tempo l’orgoglio di essere Italiano. 57



Anna Utopia Giordano Foto di: Fabrizio Dal Passo Costumi: Brancato Costumi

Rivista letteraria ed oltre

59 Anna Utopia Giordano


Anna Utopia Giordano In senso orario dall’alto, foto di: G.Aeolo Quattrocchi, M. Alterio, C. Mele. Costumi: Brancato Costumi

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Spifferi


Aeolo

Rapsodia skiron supplicando pulsing into mydriasis si avvelena

dandles mo(ve)ments e morde disegni e orli with textural slivers

- lasciatelo in silenzio -

Anna Utopia Giordano

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Rivista letteraria ed oltre

Nostra signora dei fiori Da questa fetida cella in cui il mondo si è estinto mi guardano segni sui muri incisi da vite arenate. Su un lenzuolo di sudore e di sperma – sacro sudario! – scrivo il mio sogno, dipingo Matilde, Nostra signora dei Fiori, checca irrequieta, pelle di sabbia e sesso di marmo. Figlia della terra, strappata ai ciliegi da briganti in uniforme di vittoria, martire leggiadra nei vicoli di lussuria, dove incauto si appresta il borghese col bavero rialzato sopra il volto: copre l'ipocrita contegno dei suoi abiti. Quale fu la pistola che La uccise lo sa il complice silenzio della strada, ma ora brilla, stella del sottosuolo fra le sfere celesti dei santi mascalzoni

Michele Chinnì 63


Aeolo

Avrei potuto immortalare Avrei potuto immortalare Momenti Ma solo vuoti farciti come Assenti. Esalo quadri e dipinti E il gimnofisita oltre il mio sentire non sente, Assente che compari. Gatti neri polvere da sparo Sguardo nero amaro Musicanti maledetti Ultime cene di amanti metallici. Assente, tiri fuori dal cilindro le orecchie di un coniglio, immagini haiku e rimandi d’assonanze di presagi. Non sbucare più da macerie Dov’è l’attimo da fermare? …………………………... Se poi accartoccio un foglio per paure sfarinate nel cuore 64


Rivista letteraria ed oltre – sbiadiscono il traslucido scoglio Divorandomi per vile fame l’odore –

Completata il 6 luglio Giorgia Santaera

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Aeolo

Panem et Circenses Povertà, disperazione e odore di speranza negli sguardi stranieri ammassati nelle carrette del mare o negli occhi dipinti brancolanti nel buio delle strade …mentre là… gli Eroi del ventunesimo secolo sfrecciano via cavo e su onde radio alla velocità del Bispensiero arricciando annoiati i capelli platinati della Ricchezza… Nessun rumore scuote il deserto dell’Indifferenza. Perfino le Sirene reclutate dal Padrone Potere hanno venduto il loro canto al Sistema. E tu, Dio, dove sei? Forse i tuoi occhi temono la luce del Sole?

Ilaria Voglini 66


Rivista letteraria ed oltre

Ascoltando Roxanne Sono qui a pensare un Modugno d’annata, accompagnando questa malinconia che non è star male, ma solo uno strano mio modo di vivere la dolcezza. E’ carattere, sono geni intrecciati e stretti che dicono il mio vivermi, come palpabili lacrime, tatuate dove l’osso affiora alla carne. E’ la tristezza che porto nei sorrisi reali e mai falsi, una saudade finnica che non ha parafrasi. Il mio correre al destino senza poter immaginare la sconfitta, la grandezza che non conosce rivali, perché ho un super-io appollaiato sul super-io, 67


Aeolo e si esprime nel lasciar credere agli altri di esser pur qualcosa.

Alberto Giannese

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Rivista letteraria ed oltre

Frammenti di Umanità Mentre abbandoni lo sguardo nel bianco e nel blu del cielo, virgole nere trafiggono i tuoi occhi Indulgenti margherite danzano su prati verdi d’erba e di grilli, intorno a te tutto è quiete. Poi all’improvviso… Un rombo, un fischio Immagini emergono dalla tua coscienza… E sei solo. Mentre il mondo riprende la sua folle danza

Morena Mancinelli

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Aeolo

Guerra di Camorra Polvere s’alza… palpebre infuocate ed in periferia c’è guerra di camorra. Per la via un morto ammazzato. Sul marciapiede merda di cane. Segatura su sangue aggrumato che alle folate di vento resiste. Ha le spalle alla gente il morto ammazzato. Marzo svaria di ora in ora... Sole cangiante brusche ventate…

Giuseppe Budetta 70


Rivista letteraria ed oltre

Parigi Mi nascosi nella nebbia di una mattina. Pochi i curiosi a quell’ora. CosÏ entrai nel mio quadro perfetto di molte linee notti insonni e labbra soggioganti. Ne uscii sudato sporco. E aspettando un passaggio o un’altra idea soffiai al vento la mia soluzione alla vita.

Stefano Marziali 71



PrimoĹž Sturman e Boris Pahor, Trieste, novembre 2007 (foto di Damiano Balbi)

B

oris Pahor nasce a Trieste nel 1913. Gli anni della sua adolescenza sono segnati dalla forte pressione snazionalizzatrice che il regime fascista inizia a mettere in atto nei confronti delle genti slovene e croate da poco inglobate nel Regno d'Italia. L'episodio clou di questa repressione è rappresentato dall'incendio del Narodni dom che nel luglio del 1920 segna l'inizio delle scorribande fasciste e che viene vissuto in prima persona anche da Pahor. Successivamente Pahor continua i propri studi al seminario di Capodistria, nel 1940 viene chiamato alle armi. Dopo l'armistizio del settembre 1943 torna a Trieste dove collabora con la resistenza slovena; per questo viene arrestato dai collaborazionisti sloveni, imprigionato e successivamente deportato in vari campi di concentramento nazisti. Dopo la fine della guerra passa un periodo in sanatorio. Tornato a casa si laurea all'Università di


Padova e inizia la carriera di insegnante nelle scuole con lingua d'insegnamento slovena. Nel 1975 viene a lungo ostracizzato dalle autorità jugoslave dell'epoca per aver portato alla luce insieme agli amici Edvard Kocbek e Alojz Rebula la a lungo taciuta verità sui massacri dei collaborazionisti sloveni nel dopoguerra. Ancor prima, precisamente nel 1967, esce il suo romanzo che porta il titolo Nekropola e che solamente quarantunn'anni più tardi sarà accessibile al vasto pubblico italiano con il titolo Necropoli. È la sua consacrazione in Italia, mentre già prima aveva vissuto analogo successo in Francia e Germania. Complessivamente le sue pubblicazioni, tradotte in una decina di lingue, sono più di un centinaio. Nel 1992 gli è stato assegnato il Premio Prešeren, maggiore onorificenza culturale slovena; nel maggio del 2007 è stato insignito con l'onorificenza statale francese della Legion d'onore. Numerosi i premi letterari vinti da Boris Pahor anche in Italia. È attualmente candidato al Premio Nobel. Principali opere di Boris Pahor tradotte in italiano: Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2004), tutte pubblicate dalla casa editrice Nicolodi di Rovereto; Necropoli (2008), Qui è proibito parlare (2009), entrambe pubblicate dalla Fazi Editore, Roma. 12

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Nota biografica a cura di Primož Sturman


Rivista letteraria ed oltre

Nella cittadella triestina 13 di Boris Pahor Una piccola e piacevole casetta in fila con le altre lungo la ripida viuzza. Alcuni anni fa le abbellirono tutte, anche la numero 13, la quale a inizio Novecento era stata abitata dalla bella e fiera Marija Ambrožič, già cuoca della nobile famiglia Amodeo, e 13 I due racconti qui presentati, tradotti da Primož Sturman e rivisti e autorizzati dall’autore, fanno parte dell'ultima raccolta dello scrittore triestino di madrelingua slovena Boris Pahor Moje suhote (I miei luoghi coperti), pubblicati dalla casa editrice Študentska založba di Lubiana nel 2008. Il libro si compone di una sessantina di racconti, tutti autobiografici. Il filo rosso che l'autore ha voluto seguire nella loro stesura, sono le suhote, in sloveno “luoghi coperti”, che nel corso della sua vita gli hanno dato riparo, ma anche riservato molti patimenti e brutte sorprese. Tanto per citarne alcuni: la casa natale e le case triestine che l'autore ha abitato e continua ad abitare durante la propria esistenza, l'universo concentrazionario nazista, le sale d'interrogatorio della polizia politica jugoslava, ma anche gli innumerevoli rifugi alpini che da provetto camminatore si era ritrovato a visitare, le case e le sale di cultura sparse qua e là, le presentazioni dei suoi libri, i premi letterari dei quali è stato insignito e via dicendo.

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Aeolo da Franc Pahor, fotografo presso la sezione scientifica dell'imperial-regia gendarmeria cittadina. Allora la casetta doveva assomigliare molto a una baita, poiché a pochi passi da San Giusto, nel primo decennio del Novecento, esisteva ancora un grosso podere rurale con tanto di pozzo; il tutto si evince ancora nella cartolina a colori che mi era stata incorniciata dal caro signor Josip Merkù, il quale, sul suo retro, aveva incollato una nota con i dati dei proprietari, la famiglia Filepič. La viuzza che si inerpica da Corso Italia è parecchio importante, con al suo fianco il grande palazzo del centro culturale giudaico. Di giudaico sull’erta c'è però anche l'abbandonato camposanto poco al di là del muro, proprio di fronte alle già menzionate casette a schiera: nella città vecchia, non lontano da qui, c'era il ghetto. Ciò significava che i miei genitori si erano rifugiati in un misero alloggio adiacente all'arteria principale cittadina, attorniata dai ragguardevoli palazzi posti tra Piazza della Borsa e Piazza Goldoni. Sebbene la casa sia piccola, le due entrate danno subito l'idea che sia stata progettata per dare un tetto a due famiglie. I Pahor di sicuro abitavano nel piano superiore. La mamma, infatti, preferiva stirare al lume del lampione, tuttora visibile e fedele alla sua vecchia forma. 76


Rivista letteraria ed oltre Questo è tutto quello che so; una volta ero troppo poco curioso per carpire qualche notizia in più riguardo alla vita della giovane coppia in Via del Monte, così chiamata per la sua posizione che si inerpica ripida fino al castello e alla cattedrale. Avevo pensato alla casetta nascosta dietro le sfarzose ville signorili quando, dopo la morte della sorella Evelina, mi sono ritrovato tra le mani la fede nuziale di mio padre, recante incisa la data 13.1.1913. Ebbi così la conferma di non essere nato come bambino prematuro, bensì di essere venuto al mondo frutto dell'amore quando quest'ultimo non era ancora stato ufficialmente confermato. Se così è stato, quella casetta ha per me un fascino tutto suo. L'intimo affetto dei due innamorati è infatti strettamente legato alle compagini della parte antica della mia città. Saba considerava questa viuzza un luogo sacro, una Via dei Santi Affetti, poiché in quel cimitero abbandonato avevano trovato il loro eterno riposo i suoi avi, dopo tutte le difficoltà e le mercanzie del ghetto. Per i due neosposi la casetta sulla ripida stradina segnava un principio di speranza; in effetti, il peggio sarebbe ancora dovuto arrivare.

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Aeolo

Bonaccia con gli aranci di Boris Pahor Il tanto citato verso di Goethe sulla terra nella quale fioriscono i limoni si riferisce proprio al luogo dove nel frutteto di Salerno c'erano i padiglioni quarantenari per i reduci tornati dal mondo desertico. Il provvedimento di prevenzione era stato preso per evitare eventuali contagi; sulla nave dapprima era stato disposto che tutti avrebbero dovuto essere rasati a zero, ma la calca, con le teste coperte dai caschi tropicali, era riuscita, rivoltandosi, a mettere in salvo i propri capelli. Che si sia trattato di una specie di riconoscimento alle reclute che avevano combattuto contro la sabbia sahariana e bevuto l'acqua di mare filtrata? Ma l’unica cosa che valeva come equo compenso alla sofferenza patita era un miracolo; non lontano dal padiglione splendevano infatti le chiome degli aranci. Così nell'oscurità della sera dei contrabbandieri legati alla cintura si calavano dalle basse finestre e riempivano le proprie vestaglie di ammalati con i frutti; salivano con difficoltà, gonfi com’erano, le stesse finestre e quando si ritrovavano con la refurtiva al sicuro, 78


Rivista letteraria ed oltre riempivano i lavandini con gli aranciati doni di Dio, dei quali il nettare, assai più nobile di ogni ambrosia divina, bagnava e rifocillava le cellule ustionate dagli ardenti raggi solari. L'ingordigia delle bocche e i menti segnati da rigagnoli di dolce nettare... Ma lì, nelle lunghe giornate di riposo forzato durato un mese, uno dei godimenti più eccelsi era quello di ricapitolare i singoli passi dei testi che avevo studiato per superare la prova svolta sui banchi dell'aula magna del Liceo di Bengasi14 e sentire la soddisfazione al pensiero che il comandante della batteria deve accettare che tu lasci i suoi cannoni (che ancor prima erano stati di Borojević) e ti metti in strada a fermare i camion che viaggiano speditamente verso Ovest. Non c’è che dire; in quell'avventuroso viaggiare è riassunta la scena della dipartita di Enea da Didone, non tanto amabile nel compiere i doveri che il fato gli aveva assegnato. Ma forse la soddisfazione maggiore la dava il pensare al professore che, non avendo il testo dei lirici greci che erano in programma, decise di scegliere da sé un passo, ma dovette ben presto convincersi che non ero uno dei 14 L’esame di cui parla il testo è l’esame di maturità classica sostenuto a Bengasi. Si tratta di un secondo esame di maturità sostenuto dall’autore perché quella conseguita al Liceo del seminario non aveva valore per l’iscrizione all’Università.

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Aeolo candidati che avevano frequentato le magistrali e quindi si presentavano alla maturità classica senza conoscere il greco; in quel momento egli dovette arrendersi e mi disse con voce non proprio cordiale: “Beh, cosa ha portato?”. Il muro è stato infranto. Sofocle e il Socrate di Platone. Lì, vicino agli aranci salernitani, era una delizia riconquistare i versi delle Bucoliche, oppure gli argomenti nella Replica di Socrate; ma anche ripetere la materia d'esame in storia dell'arte, interpretare la differenza che passava tra il gotico francese e quello tedesco e confrontarli con quello italiano, povero in verticale; fare allo stesso modo con l'originale Trecento scultoreo e pittorico di Pisano e Giotto... A proposito della letteratura italiana vorrei dire che il mio esaminatore veniva dal sud dello stivale; era infatti molto interessato a Verga e a Pirandello, si soffermava però anche molto sugli influssi della Scuola siciliana sul Dolce Stil Novo. Tutto questo variopinto sapere insieme con Bacone e Bergson in forma scritta era ormai contrassegnato da una redenta bellezza simile alla fierezza con la quale il chirurgo di sicuro ricorda un suo difficile intervento all'interno del torace nel quale, alla fine, riesce a riordinare il battito del cuore del suo paziente. Proprio così (sebbene non da clinico) con soddisfazione l'autore dà un'ultima occhiata al suo testo stampato, concentrando particolare attenzione sui punti nei quali è 80


Rivista letteraria ed oltre riuscito a trasmettere la propria idea. Ovviamente con un po' di autocompiacimento, ma anche con parecchia soddisfazione nell'essere riuscito a venire a capo di una qualche difficoltĂ ; o in misura ancora maggiore se si era trattato di un problema vitale il tutto meritava grande compiacimento. In fondo tutto, anche se testimoni di una quarantena, restava circostanziato nel proprio mondo interiore e al contempo incluso nel silenzioso boschetto salernitano.

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Inter[Venti]


Aeolo

Cristo: il messia ribelle Intervista telefonica a David Donnini

di Enrico Santus David Donnini, studioso appassionato di fotografia, volo e religioni, si è occupato a lungo dello studio della figura di Gesù Cristo da un punto di vista storico, non per professare un ateismo scevro di ogni valore, ma per contrastare inutili dogmatismi e dar spazio alla ricerca personale. Lo studioso, con grande umiltà, indaga le verità che si nascondono dietro i vangeli e dietro le trasformazioni che essi hanno subito nel corso della storia.

Enrico Santus: David, quando hai iniziato a lavorare sulla figura di Gesù Cristo? A metà degli anni ’80. A quel tempo ero interessato alle discipline orientali e desiderai vedere se la figura di Cristo poteva assomigliare ai maestri orientali.

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Rivista letteraria ed oltre

Leggevo che anche Pasolini è stato un stimolo... Sì, sì, perché durante il periodo dell’università mi reputavo un non credente, un materialista. Un giorno vidi il film “Il Vangelo secondo Matteo” e ne rimasi profondamente colpito. Mi resi conto che non ero affatto un agnostico, un materialista, ma anzi il tema e il messaggio mi colpiva vivamente. Quali sono le fonti principali per i tuoi studi? D. D.: Le fonti sono tante, tantissime... Negli ultimi anni uno dei punti di riferimento più importanti è lo studioso americano Robert Eisenman della California State University. Ho iniziato a leggerne i libri in inglese alla fine degli anni ’90, quando ancora in italiano non era stato pubblicato niente... Adesso il suo libro “Giacomo, il fratello di Gesù” è abbastanza famoso. Ma in passato ho letto tantissime opere di studiosi laici e non: tra questi ultimi citerei Samuel Brandon, un sacerdote anglicano che fu uno tra i primi a vedere una relazione tra il movimento di Gesù Cristo e quello degli Zeloti (e ci tengo a sottolineare che era un religioso, non certo un materialista interessato a screditare la figura di Gesù!). Altro grosso punto di riferimento sono 85


Aeolo stati i francesi Guignebert e Alfred Loisy, quest’ultimo cattolico e sostenitore della tesi secondo cui “nazareno” non ha niente a che fare con la città di Nazaret. Tu – se non mi sbaglio – parli di Gamala15 come patria di Gesù... Sì, ma sempre a livello di ipotesi... Non mi sento di sottoscriverla come certezza, ma ci sono una serie di indizzi convergenti che portano in quella direzione... Ora, io ho qualche difficoltà col mio pubblico perché loro si aspettano affermazioni sicure, mentre io posso solo fare ipotesi in base ai dati che ho a disposizione... In ogni caso mi pare che sostenessi queste ipotesi con argomentazioni tutt’altro che deboli, come la morfologia del territorio che coincide con quella descritta nei vangeli 15

Gàmala (in ebraico: ‫אלמג‬, Gamla o Gamala) fu la principale città del Golan dall'87 a.C. al 67 d.C., quando fu distrutta dai Romani nel corso della prima guerra giudaica. Le sue rovine possono ancora essere viste sulle alture del Golan. Esistono studiosi, come l'italiano David Donnini e l'ungherese Edmund Bordeaux Szekely, che individuano nella città golanita il probabile luogo di provenienza del personaggio storico che, nella narrazione evangelica, è identificato come Gesù detto "il Cristo".

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Rivista letteraria ed oltre solo se parliamo di Gamala e non di Nazaret, oppure l’assenza di prove archeologiche che testimonino l’esistenza di Nazaret ai tempi di Gesù... ...sì, certo, se andiamo ad elencare le argomentazioni alla mia ipotesi, ce ne sono storiche, geografiche, letterarie: per esempio, Nazaret non viene mai nominata dagli autori di quel periodo, come Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino. Essa viene nominata per la prima volta due o tre secoli dopo in scritti cristiani. Ma, in ogni caso, non ci sono prove certe: poteva essere un villaggio piccolissimo che non suscitava l’attenzione di nessuno, ma anche in questo caso non è da escludere che fosse usata come fattore deviante, così come accadde con “galileo” (che non significa “della Galilea”) e “cananeo” (che non significava “di Canaan”), che significano entrambi “zelota”. David, puoi spiegarci brevemente chi erano i Nazareni e gli Zeloti? I Nazareni erano persone che assumevano particolari voti: si lasciavano crescere i capelli, si astenevano da rapporti sessuali, mangiavano vegetariano... Insomma, persone che vivono un periodo di ascesi che può essere temporaneo o anche a vita. Quindi “nazareno” potrebbe essere una parola 87


Aeolo che si collega col termine ebraico ha Notzri (in aramaico Nazorai), che praticamente ai tempi di Cristo era il nome che designava una setta di giudeo-cristiani, ossia di persone che seguivano l’ideale messianista senza voler fondare una religione extra-ebraica: anzi erano dei fondamentalisti ebraici! Gli Zeloti, in particolare, erano l’ala interventista; quelli che erano convinti che fossero arrivati i tempi per realizzare le profezie messianiche e che bisognasse mettere in atto la lotta contro i Romani e scacciarli per riportare sul trono di gerusalemme un re della dinastia di Davide e nel tempio di gerusalemme qualcuno degno di tale carica. Quindi gli zeloti erano combattenti religiosi abbastanza simili agli odierni combattenti islamici... Bene, torniamo un attimo a Gamala... In uno dei tuoi testi parli de Il maestro e Margherita di Bulgakov, perché? Ah, sì! In maniera sorprendente all’inizio del libro, Bulgakov scrive un dialogo tra Gesù Cristo e Pilato. Quest’ultimo chiede a Gesù di dove fosse e lui risponde: “Sono di Gamala e mio padre era siriano”. Ora, stiamo attenti che col termine “siriano” in quel tempo si intendeva “del Golan”. Leggendo quelle parole sono esploso nella sorpresa! Mi domandavo se si fosse inventato tutto di sana pianta o se 88


Rivista letteraria ed oltre l’avesse ricavato da qualche lettura... Del resto ho sempre pensato che nelle sette esoteriche del cristianesimo, può darsi che certe tradizioni siano state portate avanti... altrimenti sarebbe una coincidenza incredibile! Un momento della vita di Cristo su cui ti sei soffermato maggiormente è l’arresto di Gesù ed il processo: cosa puoi dirci brevemente? Da una lettura comparata dei quattro Vangeli canonici, si scopre che in quel momento affiorano contraddizioni spaventose: in uno succede una cosa, nell’altro il contrario... Direi, in ogni caso, che il punto più sorprendente è il ballottaggio tra Gesù e Barabba! Esattamente: raccontaci dei misteri che si nascondono dietro quell’evento... È venuto fuori che Barabba, contrazione di “bar Abbà”, significa “figlio del padre”: noi sappiamo bene che il termine “padre” è semplicemente un diversivo per dire “Dio”, in quanto sappiamo che gli ebrei non possono pronunciare questa parola. Ora, sapendo che il Vangelo stesso usa il diversivo “figlio del padre” riferendosi a Gesù ci sorprendiamo, perché veniamo a scoprire che con Pilato di 89


Aeolo “figli di Dio” ce n’erano due, ossia c’era Gesù e c’era Barabba! Quando poi veniamo a scoprire che in numerosi manoscritti del IV sec. del vangelo di Matteo c’è addirittura scritto “Iesous o leghomenos Barabbas”, ossia “Gesù nominato Barabba”, si apre tutta una prospettiva di ipotesi dalle quali affiora una sola certezza, ossia quella che i redattori dei Vangeli hanno cercato di nascondere la realtà storica di questo processo. Ma noi possiamo facilmente arrivare alla conclusione che ciò che ha portato questo personaggio ad essere crocifisso è stata la sua militanza zelotica: i Romani l’hanno arrestato e condannato perché era coinvolto in questa lotta per restaurare la dinastia di Davide sul trono di Gerusalemme... Parlavi dell’arresto: se non ricordo male, dicevi nei tuoi testi che sul Vangelo di Giovanni si parlava di Gesù catturato da 300-600 uomini, mi sbaglio? No, non sbagli: nel quarto Vangelo, il Vangelo secondo Giovanni, non ci sono dubbi: mentre gli altri temporeggiano e parlano di folle, il Vangelo di Giovanni – sia in latino sia in greco – dice chiaramente che si trattava di una corte comandata da un tribuno, e noi sappiamo che tali corti erano 90


Rivista letteraria ed oltre formate da circa 600 soldati: rendiamoci conto, allora, che quella notte deve essere successo qualcosa di straordinario se si è mossa una spedizione di 600 soldati romani per arrestare qualcuno... loro [i Romani, n.d.R.] non si sono mai scomposti per i predicatori. È vero che Giovanni battista è stato condannato e decapitato, ma sotto ordine di Erode, perché gli dava fastidio; i Romani se ne fregavano! Infatti i Romani sono noti anche perché offrivano libertà di culto ai popoli conquistati e accettavano addirittura l’ingresso di nuovi culti nella loro stessa religione... Sì, certo, fintanto che il culto non provocava problemi politici o di ordine pubblico: i Romani, lo sappiamo, erano molto tolleranti; le religioni all’interno dell’Impero erano centinaia e se loro si sono schierati contro il cristianesimo non era certo perché professava la resurrezione... Si trattava di un movimento legato al missianismo ebraico, cioè alla speranza degli ebrei di rimettere sul trono un discendente di Davide. Anzi, ci sarebbe da dire che se il cristianesimo si è trasformato in una religione extra-ebraica è stato proprio perché qualcuno ha sentito la necessità di spoliticizzarlo, dandogli un significato salvifico coerente con altre dottrine presenti nell’Impero, trasformando Gesù da Salvatore 91


Aeolo politico di Israele a Salvatore dell’animo umano: e questo processo è stato avviato da San Paolo. L’ebreo con cittadinanza romana Paolo di Tarso Esatto, lui si è reso conto che i Romani avrebbero raso al suolo Gerusalemme se i cristiani avessero continuato la lotta contro l’Impero, esattamente come accadde nel 70 d.C. con Tito, così ha cercato di mitigare gli ardori trasformando la speranza messianica da una salvezza politica in una salvezza spirituale... Pensi che serva ancora una religione nella società contemporanea? E di quale tipo? Se mi chiedi se ci sia bisogno di una religione, ti dico che un popolo senza religione non è un popolo. Anche se io personalmente non aderisco a nessuna dottrina mi rendo conto che la gente ha bisogno di qualcosa sulla quale poggiarsi. La nostra società poi è cresciuta sulla base del cristianesimo per duemila anni: oggi è improponibile quel che urlano certi anticlericali sulla distruzione della Chiesa, ecc. Piuttosto, penso che il Cristianesimo debba essere conosciuto per i suoi valori, che sono eccellenti...

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Rivista letteraria ed oltre A proposito di questo, mi torna in mente Oriana Fallaci quando rivendicava di essere un’atea cattolica... A me non importa più se i valori sono trasmessi da una fiaba o da un racconto storico: nel Cristianesimo ci sono molti valori da salvare; io auspico che la gente assuma un atteggiamento critico e costruttivo piuttosto che un atteggiamento fideistico e bigotto. C’è da dirlo, però, oggi il Cristianesimo ha anche sfacettature puramente ipocrite e di comodo: la gente non lo dovrebbe cogliere nei riti, nelle cresime, nei matrimoni, ma nei valori. Avviamoci verso la conclusione: quali reazioni hanno suscitato i tuoi libri su critici e studiosi? Abbastanza poche purtroppo, poiché avendo pubblicato sempre con case editrici di non primissimo piano le critiche sono arrivate dai piani inferiori e non da quelli superiori. Mi rattrista, putroppo, che in genere le reazioni suscitate sono di tipo estremo: o entusiastiche o distruttive. Quelle entusiastiche sono spesso da parte di anticlericali e mi dispiace fortemente, perché non ho lavorato tutta la mia vita per sostenere le loro tesi. La loro è una strumentalizzazione!

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Aeolo Questo lo metti in chiaro in tutti i tuoi libri. Ciò che critichi non sono le religioni, ma le superstizioni e il bigottismo... Il bigottismo, ma sopratutto il dogmatismo, ossia il prendere la dottrina religiosa come un pacchetto prefabbricato che uno deve o accettare o rifiutare. Secondo me il cammino spirituale, il cammino dell’individuo è fondamentale, invece la Chiesa chiede ancora ai suoi fedeli un atteggiamento di totale sottomissione alle sue dottrine. In antichità c’era lo gnosticismo, che aveva anche sfacettature deliranti, ma almeno un pregio ce lo possedeva: chiedeva all’individuo un cammino personale verso la conoscenza! Giuseppe Ferrara, importante regista che si è molto concentrato sul rapporto tra Mafia e Politica, ha provato a realizzare un film basato sul tuo libro “Cristo, una vicenda storica da riscoprire”, ma non ha trovato nessuno che lo finanziasse. Perché? Questo accadde a metà degli anni ’90: ricevetti l’inito da parte del regista per scrivere insieme a lui una trama basata sul libro che hai citato. È una persona gentilissima; lui ha presentato il progetto a diversi produttori, ma nessuno ha voluto finanziarlo. Io credo per due motivi: primo, perché, lui 94


Rivista letteraria ed oltre arrivò una decina d’anni prima che scopiasse il caso planetario de “Il codice da Vinci”, che ha ridato ossigeno a questa tematica; e poi perchè lui è troppo famoso per i suoi instat movies sul caso Moro, sul caso Calvi, ecc. e allora i produttori hanno probabilmente pensato che non avesse nessuna esperienza per i film in costume e non se la sono sentita di finanziare il progetto. Capisco... David – salutandoci – quali sono i tuoi progetti per il futuro? Sarebbe continuare a pubblicare, ma in questi tempi – con la crisi economica – le case editrici sono molto più prudenti, più avare nella scelta dei libri da pubblicare: io ho già pronto un lavoro che ho messo anche sul mio sito web che tratta la nascita di Gesù in diverse tradizioni (i Vangeli canonici e apocrifi, il Corano, ecc.). Al momento attuale non sto riuscendo a trovare nessuno che me lo pubblichi, ma confido di trovarlo presto! Vi dò l’in bocca al lupo per Aeolo, che sembra un ottimo progetto ed ha sicuramente buone prospettive di crescita.

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Rivista letteraria ed oltre

97 Memoria – Leonardo Cosmai


Aeolo

Mistero di Cristo – Leonardo Cosmai

98 Memoria – Leonardo Cosmai


Rivista letteraria ed oltre

Feelings di Matteo Théodule Feelings è un progetto in via di sviluppo che vorrebbe nascere dalla collaborazione di più persone che ne condividano contenuti e modalità. Il centro di tutto, punto di partenza e di arrivo, è la vita. L'obiettivo, come dice la prefazione, è quello di ricrearla, di renderle tributo, di celebrarla per come essa è. Facendolo nel suo stesso linguaggio, parlando la sua stessa lingua. Restituire sotto forme di espressione molteplici tutta quelle serie di stimoli, di sensazioni, che in alcuni minuscoli frammenti di esistenza si manifestano dandoci di essa una limpida quanto fugace testimonianza. Per maggiori informazioni teo.theo@hotmail.it

Prefazione Inizia a vivere la tua vita. Così mi hanno detto. [Non sarebbe neanche una cattiva idea, se solo si sapesse come fare].

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Aeolo Vivere è di per sé tutto. Ma può anche tradursi nella volontà che il tutto si trasformi in un nulla totale. Vivere non è necessariamente trovare la propria posizione nel mondo, anche se è la cosa più comune alla quale pensare. A volte il mondo reale dà l’impressione di essere così distante, quasi come se non si riuscisse a sentirlo ..sulla pelle, dico. Come se stessi cercando di muoverti su un qualcosa che resta esterno e ti pare di vederti mentre provi a starci attaccato, con le gambe piegate, a tentoni come i bambini. Un immenso bambino sul tetto del mondo, che cerca disperatamente di mantenere il proprio equilibrio precario e non vuole rinunciare in nessun modo a provare a tirarsi in piedi. Vivere è una sensazione e le racchiude tutte. Vivere è amare e vivere è soffrire. Vivere è morire, in qualche modo. Per qualcuno morire si trasforma nell’unico modo per continuare a vivere. Vivere è respirare, ma non basta. Basta a sopravvivere, e neanche in tutte le accezioni del suo significato. Eppure ogni tanto sopravvivere è già così difficile.

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Rivista letteraria ed oltre [Forse pretendiamo troppo da noi stessi.] Trovare un senso a qualcosa che ci racchiude, che è impalpabile, impercettibile, soggettivo, imprevedibile.. Reale? Chi lo sa, forse. Feelings: [Abbiamo un continuo bisogno di stimoli, di sensazioni. Condannati a nutrircene avidamente per tentare di erigerci a divinità di noi stessi, padroni della nostra vita o forse solo consapevoli di esserne parte.] La volontà di scrivere Feelings nasce dal tentativo di voler celebrare questo disordine, di rendere tributo alla vita per come essa è, unica nella sua incatalogabilità, meravigliosamente inconcepibile in quanto vita stessa, una sorta di legame invisibile ad un caotico stimolo primordiale. Feelings. Sensazioni. Abbozzi di singoli momenti. Speciali e quotidiani. Collezioni di attimi.

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Aeolo *** [e chissà cosa succederebbe se ci obbligassero a compilare quotidianamente ciascuno il proprio Feeling personale. I bambini nelle scuole, gli adulti al lavoro o a casa la sera. E mi direbbero: “Lei non compila il Feeling? Sappia che andrà incontro a pesanti sanzioni.” Sui treni annuncerebbero: “Viaggiare sprovvisti del proprio Feeling personale rende impossibile la compilazione quotidiana, chiunque ne sarà sprovvisto sarà fatto scendere alla stazione più vicina e ricondotto al suo domicilio per recuperarlo”. Chissà... magari avremmo il più completo studio sulla vita umana privo di un’interpretazione. Ma non funzionerebbe con l’obbligo. No, per fortuna non funzionerebbe. Avremmo soltanto milioni di copie di Feelings ufficiali mentre i milioni di Feelings autentici resterebbero ai legittimi proprietari] …e oggi faceva brutto tempo ma io mi sentivo bene. ***

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Rivista letteraria ed oltre Poesia materiale. Provate a pensare all’immagine di una splendida e grande finestra in una giornata assolata. Un vetro perfettamente pulito rivolto verso la luce. Dev’essere un’immagine familiare, una di quelle che avete perfettamente stampate in mente. Ora provate a pensare di essere quel vetro. Ad immaginare che questo sia il vostro corpo, a sentirlo come vostro. Siete perfettamente lisci, trasparenti, meravigliosamente intiepiditi. [Non vi viene voglia di partire?] Aggiungete al vostro nuovo corpo quattro mura verticali, di cui una forata con le dimensioni della vostra finestra e due orizzontali; la vostra Stanza. Collocatevi con il vostro vetro/corpo nel bel mezzo della vostra parete verticale forata su misura per voi. La stanza è vuota, non tocca terra, è nell’aria. E la luce entra solo ed esclusivamente dal vostro corpo. Ora che avete ben chiara la situazione immaginatevi le sensazioni sulla vostra nuova pelle e sul grande magazzino che vi portate dietro. Assaporatele. Qualunque esse siano. 103


Aeolo Fatele vostre. Adesso cambiate un parametro nell’equazione della vostra immagine mentale: la luce del sole diventa la vita. Chiudete gli occhi. Sentitela scorrere attraverso di voi. E riempire la vostra Anima.

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