Il Pioniere

STUDI IL PIONIERE

Fabio Tamburini Ernesto Preatoni

IL PIONIERE L’inventore di Sharm El Sheikh

Prima edizione in italiano a cura de Il Sole 24 Ore: maggio 2013 Versione inglese e russa: settembre 2013 Seconda edizione in italiano: dicembre 2013 (edizione riservata non destinata alla vendita al pubblico) Stampa: La Tipografica Varese Spa - Via Cherso 2 - 21100 Varese In copertina, fotografia di Efrem Raimondi

Tutti i diritti sono riservati.

Sommario

7 Prefazione 13 L’Aldo Ravelli per cominciare 31 Bi-Invest, la prima scalata 69 Io, Cuccia e le Generali 79 Obiettivo Popolari 89 Sharm, l’investimento perfetto 99 Paesi Baltici sotto tiro 109 Per vincere occorre sapere 129 Appendice 133 Iconografia

Ai miei figli Roberto, David, Eugenio, Edoardo, Greta, Ingrid e Marco Fabio A quelli grandi nella speranza che questo libro li aiuti a trovare le motivazioni giuste.

La Vita non ha alcun significato se non quello che noi siamo capaci di darLe: il lavoro, oltre alla famiglia, aiuta molto a darLe un senso.

Ai figli piccoli che ancora non possono capire.

Nella speranza che la loro madre mi interroghi lungamente in modo da poter trasmettere loro il senso di quanto scritto in questo libro.

Nella malaugurata ipotesi che io non possa farlo personalmente.

Ernesto Preatoni

Prefazione a cura del Professor Giuliano Urbani

Sollecitato dall’intervistatore, Ernesto Preatoni nel corso del suo colloquio mi definisce ad un certo punto come un “amico”.

Certo, è verissimo. Non provo nemmeno a negarlo e ne sono addirittura orgoglioso. Ma perché gli sono amico? Credo sia necessario fornire una spiegazione perché così, non a bruciapelo, più diversi non potremmo risultare. Dico solo questo: da buono studioso, personalmente ho sempre coltivato soprattutto i dubbi, le curiosità, le incertezze e le problematicità (come si dice oggi). Karl Popper sintetizzò meglio di molti altri questa sorta di attività esistenziale: la “ricerca non ha fine”. E la ricerca (scientifica) è sempre animata da congetture, ipotesi, dubbi per l’appunto.

Preatoni? Basta davvero poco per capire che si è davanti ad un autentico uomo di azione, un vero mastino in cerca di certezze (sia pure relative). Quelle certezze che sono sempre indispensabili per agire, per fare (o non fare) secondo quella logica binaria che è tipica di qualsiasi intenditore di razza, del vero homo faber nel senso più pragmatico e fattivo del termine.

Tralascio le non poche altre differenze caratteriali (e ce ne sono..) per arrivare subito al sodo. Se siamo due persone così profondamente diverse, per gusti e propensioni professionali, come facciamo ad essere veri amici? Essendone anche, io stesso, un profondo ammiratore? Insomma qual è la cosa che ammiro più di

8

Prefazione

tutto in Ernesto? Per rispondere dico subito che ho dovuto riflettere molto poco perché la risposta principale mi è venuta facile, naturale e spontanea.

Il fatto è che Ernesto è proprio l’esatto opposto dell’ipocrisia.

Anche se lo volesse non riuscirebbe a comportarsi da ipocrita. È più forte di lui. E in questo libro-intervista questo fatto viene dimostrato in modo disarmante da una miriade di situazioni. Di qualunque argomento tratti, egli non riesce mai a “simulare mentendo”: che è invece la caratteristica genetica, direi addirittura irresistibile, in tutti gli ipocriti di ogni latitudine, ordine e grado. L’ipocrita “simula” naturalmente.. A volte per necessità o per convenienza, ma gli viene sempre e comunque facilissimo. Preatoni no. Certo, trattandosi di un uomo di qualità, quando si trova costretto dalle circostanze a evitare gli eccessi di una sincerità sgradevole, allora… finisce per dire e non dire, edulcorare, alludere, sorridere: ma anche in questo caso glielo leggi immediatamente sulle labbra o fra le righe. E devi essergliene grato, per la cortesia che ti riserva con il suo silenzio. Ma l’ipocrisia di sostenere l’opposto di quel che pensa e ritiene più giusto, beh… questo nessuno potrà mai pretenderlo da lui.

E allora, questa sua lunga intervista finisce per essere anche un singolare e ricchissimo serbatoio di sincerità, franchezza, anticonformismo, aria fresca, idee libere e finalmente chiare. Eh, viva Dio se ne sentiamo il bisogno! Proprio per il fatto di vivere – soprattutto in un Paese come il nostro e in un momento come questo – in un clima politico, economico sociale dove l’ipocrisia risulta davvero senza freni e senza confini. Un Paese in cui ormai siamo abituati a tollerare la fiera, quotidiana e permanente, del dilettantismo e dell’opportunismo, all’insegna del cinismo e delle furberie più penose. Non posso e non voglio dilungarmi con delle esemplificazioni facili (e sacrosante), ma mi limito a due sole annotazioni.

La prima è offerta dalla recente vicenda del Monte dei Paschi, con i suoi dannosissimi intrecci fra politica e finanza (locale e nazionale), occultati per anni e anni da un clima di ipocrisie senza limiti. Su questa vicenda ci è voluto tutto l’estro e il coraggioso

Prefazione

9

anticonformismo di un vignettista come Giannelli (ex MPS!) per dissacrare nel modo più efficace e irresistibile quelle ipocrisie da quattro soldi.

La seconda annotazione credo sia d’obbligo riservarla ad un altro vero e proprio “mito farisaico”. Mi riferisco al monumento costruito per anni sulle virtù del dott. Cuccia e della Mediobanca come campioni idolatrati del mercato della coerenza, del moderno capitalismo finanziario, addirittura del più puro liberalismo imprenditoriale… di fronte al quale “monumento” credo che siano particolarmente illuminanti e impietosi i pochi aneddoti riportati in questo libro.

Oltre alla rara dote della più impietosa e dissacrante franchezza, cosa d’altro mostra questa ricchissima intervista sull’uomo Preatoni e sulla sua non comune cavalcata nel mondo degli affari condotta in Italia e in gran quantità di altri Paesi? Anche qui mi limito allo stretto indispensabile.

Qualcuno ha definito Preatoni una sorta di ”lupo solitario” – non so perché, malgrado le mie origini umbre (vi ricordate l’incontro di S. Francesco con il lupo?) –; su questo genere di animali so davvero troppo poco per poter azzardare paragoni calzanti. Almeno una cosa la ricordo, però, benissimo: il legame ancestrale che i lupi hanno con il proprio branco. E questo vale non poco anche per il mio amico Ernesto. Penso subito ai suoi molteplici legami familiari. Ma penso anche al suo specialissimo legame con i “clienti”, tutti coloro che gli hanno dato credito e che hanno affidato sulla fiducia la gestione dei propri risparmi.

Usando un’espressione del gergo politico, potremmo chiamare questi clienti come una sorta di costituency finanziaria per Preatoni, come la sua cassaforte umana e sociale, come la base e il futuro di gran parte delle sue stesse fortune economiche. Insomma, se qui c’è davvero un lupo di mezzo dobbiamo concluderne che si tratta di una creatura assai meno solitaria e assai più sociale di quanto non sia stata dipinta.

Passando poi ad aspetti ancor più sostanziosi per un imprenditore, ritengo che cose non troppo dissimili dovremmo dirle anche

10

Prefazione

a proposito del suo proverbiale “fiuto” negli affari. Questo fiuto è certamente una risorsa personale alla quale ha attinto copiosamente durante la sua specialissima carriera professionale. Ma, anche qui, con più di un distinguo importante. Perché, come dice benissimo lui stesso, qui ci troviamo in presenza di un professionista al quale è risultato sempre molto naturale l’attitudine ad “imparare dagli errori”. E cioè a razionalizzare, che è poi tutt’altra cosa di chi procede sempre e solo per istinto. Molta parte delle sue scommesse assomiglia infatti grandemente a una sorta di infinita “sfida di scacchi”. Dove evidentemente il fiuto conta, ma sempre al servizio del calcolo razionale; e soprattutto, di quella mente strategica che è tipica delle forme di pensiero più sofisticate.

Così come suscita non poche riflessioni il fatto di notare in Preatoni una così grande fiducia – a volte quasi ingenua e disarmante – verso l’istituzione mercato e verso la legge in genere. Qui l’amico Ernesto rivela la dimensione del liberale puro: del cittadino che sconta sempre di poter lottare e competere in quanto “anche gli altri” trovano limiti invalicabili al proprio agire.

Magari fosse stato così! Le famose “scalate” (bancarie e non) iniziate con tanto entusiasmo dal nostro imprenditore hanno infatti finito col trovare molto spesso, troppo spesso, ostacoli non ortodossi. Certamente molto meno ortodossi di quanto ci si potesse attendere da parte dei suoi stessi concorrenti e avversari. Chi è stato così più unfair? Il libro lo mostra con molti episodi illuminanti, per lo più molto negativi.

Ma tra questi ce ne sono alcuni, in positivo, che mostrano anche un lato forse più sorprendente nel nostro amico imprenditore: il connotato tipico di “un animale politico”. Quando? Proprio allorché ricorda la sua determinazione nel mostrare ai suoi stessi collaboratori come “lavorare”. E ancor più la sua marcata propensione e facilità nel “motivare al lavoro” giovani e meno giovani.

Due aspetti, questi, che sono ingredienti tipici di una leadership naturale, per non menzionare le componenti fondamentali del carisma secondo Max Weber.

Un ultimissimo aspetto non può e non deve essere dimenticato,

Prefazione

11

in quanto mostra probabilmente la vera natura imprenditoriale di Ernesto: la sua non comune capacità di innovare, di creare lavoro, di creare ricchezza per sé e per gli altri. Gli esempi li fa lui stesso, e non è quindi necessario aggiungere altro; se non per menzionare il contributo dato allo sviluppo della cosiddetta “multiproprietà alberghiera” tanto in Italia quanto all’estero per clienti tanto italiani quanto internazionali. Se Schumpeter l’avesse potuto conoscere, credo avrebbe avuto fra le mani un ricco serbatoio di esperienze da citare. Non sembri un accostamento irriverente: lo dico perché di imprenditori veri, autentici e con queste caratteristiche non è facilissimo incontrarne.

Nella mia vita professionale, prima accademica e poi politicoistituzionale, ho conosciuto un bello spaccato di imprenditori famosi. Ma direi una bugia se dicessi che ho trovato in loro altrettante qualità imprenditoriali allo stato puro. Ho semmai trovato “molte altre cose” (non sempre positive e commendevoli), quelle stesse per le quali Luigi Einaudi raccomandava di sostenere la loro funzione nella società e nell’economia, anche “loro malgrado”: più per la funzione (utilissima e insostituibile) che assolvono che non per i loro stessi modelli ideali. In questa specialissima fauna, Ernesto presenta due qualità, come ho detto, rarissime. È l’opposto di un ipocrita. Ed è, naturaliter, un uomo libero: radicalmente estraneo a quella “guerra per bande” della quale il nostro Paese ha sempre sofferto.

L’Aldo Ravelli per cominciare

“Attenti ragazzi, attenti a come parlate: Quest chi l’è vun ch’el rampega” (questo qui è uno che si arrampica). La battuta è di Aldo Ravelli, per mezzo secolo numero uno della Borsa italiana, personaggio d’altri tempi passato a miglior vita a metà degli anni Novanta. Uno che sapeva conciliare grande saggezza ad una spregiudicatezza assoluta, trattava con i grandi al vertice del potere ma parlava il dialetto di Ospiate, piccolo Paese a Nord di Milano, e neppure una parola d’inglese. L’Aldo Ravelli amava descrivere così il giovane Ernesto Preatoni, che si abbeverava al suo sapere di protagonista del mercato azionario, invitando per una volta alla prudenza gli altri commensali, a partire da quel Paolo Mario Leati che proprio in quegli anni stava lanciando Lombardfin come commissionaria pronta a ogni sfida.

Anche Preatoni, “el bel fioeu” (il bel ragazzo), come qualcuno lo chiamava, studiava cosa fare da grande, qual era il modo migliore per prepararsi al meglio, secondo il principio che “la vita non ha alcun significato se non quello che noi siamo capaci di darle”. E Ravelli era un maestro vero, che aveva le chiavi per spiegare sia i segreti più o meno inconfessabili del mestiere sia quelli, anch’essi più o meno inconfessabili, dell’animo umano.

Ravelli gli raccontava i segreti di Piazza Affari, dei protagonisti dell’economia, intrecciava verità nascoste con ricostruzioni a volte un po’ fantasiose, ma era pur sempre maestro di pragmatismo.

14

L’Aldo Ravelli per cominciare

Diceva di Enrico Mattei, che aveva saputo creare dal niente prima l’Agip e poi l’Eni: “Guarda che personaggio strano, fa un gran casino e non gli rimane attaccato niente”.

Ravelli di Ospiate, Preatoni di Garbagnate, a soli tre chilometri. Preatoni aveva cominciato a sentir parlare di lui quando era giovanissimo, da un collaboratore di Ravelli, Remo Terragni, che incontrava in treno, quando facevano la spola con Milano tornando a casa per il pranzo. “Perché l’abbonamento alle Ferrovie Nord costava poco, quasi nulla”, ricorda Preatoni “mentre pranzare fuori costava e non c’erano soldi”.

La lunga corsa verso il successo comincia tra una vittoria nelle gare di salto in alto ai Campionati studenteschi del 1960, gli studi al Liceo scientifico e la facoltà di Economia all’Università Cattolica, iniziata ma non finita. Padre di Garbagnate, madre brianzola.

L’insegnamento che “la famiglia, oltre al lavoro, aiuta molto a dare significato alla vita” ma anche il gusto d’interpretarla secondo regole proprie e un dinamismo senza frontiere, confermato da sette figli in 40 anni, avuti da tre compagne.

Perché gli incontri con Ravelli?

Semplice: non si poteva fare Borsa senza conoscerlo. Aveva una personalità forte e parlare con lui apriva la mente.

Cosa ricorda dei vostri incontri?

Alcuni racconti, mi creda, è meglio dimenticarli. Sia perché riguardavano protagonisti dalla doppia personalità sia per le vicende in cui risultavano coinvolti, a volte sorprendenti. La lingua era rigorosamente il dialetto. L’italiano era bandito. Significava tradimento.

La differenza di età era notevole, aveva oltre 30 anni più di me, che sono del 1942. Ma ci capivamo al volo: lunghe chiacchierate, a volte passeggiando in collina, nei dintorni di Varese, con il suo autista che ci seguiva in macchina perché l’Aldo, quando era stanco, voleva tornare a casa comodo. Io facevo un sacco di domande per capire come funzionava Piazza Affari, e anche il mondo. Lui rispondeva senza tirarsi indietro.

Ricorda qualcuna delle battute per le quali era famoso?

Certamente: “Soldato che fugge combatte ancora”. Tradotto in

L’Aldo Ravelli per cominciare

15

comportamenti di Borsa significa: “Inutile insistere nel tenere le posizioni sul mercato quando si comincia a perdere. Meglio prendere atto, incassare qualche perdita ma conservare le risorse per tentare altre strade.” Oppure: “Alla fine il mondo del potere resta sempre lo stesso: storie di donne e monsignori.”

Cosa le ha insegnato Ravelli?

Era un pozzo di conoscenze sul mercato azionario. Ripeto, non si poteva fare Borsa senza conoscerlo, anche se ha fatto fortuna seguendo una regola sola: mettersi al ribasso quando tutti compravano. E ne era talmente consapevole dall’avere chiamato “Al ribasso”, la bella villa nel Varesotto, sulla cima di una collinetta. La Borsa, diceva, è una pozzanghera dove però chi non è sufficientemente esperto e accorto rischia di affogare.

Era un re Mida che trasformava in oro quanto toccava?

Mica tanto. Non aveva qualità imprenditoriali. Non aveva il gusto di creare ricchezza e posti di lavoro. Si stancava subito delle iniziative che prendeva al di fuori della Borsa. E se ne disamorava.

In genere negli investimenti fatti ha sempre perso quattrini. A volte davvero tanti.

Lei invece è nato imprenditore di se stesso…

Proprio così. La speranza per i miei figli è che, esattamente come è capitato a me, sappiano trovare le motivazioni giuste. La mia vita lavorativa inizia nel gennaio 1967. Mio padre colonnello (non di carriera) che aveva combattuto la prima guerra mondiale, la seconda e la guerra d’Africa, poi rappresentante della Polli, ditta di sottaceti. Mia madre figlia di commercianti, che gestiva un panificio. Inutile dire che non avevo un quattrino. Pochi mesi prima avevo conosciuto un salumiere di Limbiate, un Paese dell’hinterland milanese, a cui avevo venduto l’arredamento per il suo negozio, attività che svolgevo per guadagnare qualche soldo mentre frequentavo, per la verità svogliatamente, l’università. Il negoziante aveva ricevuto una proposta per investire in certi fondi comuni d’investimento dal direttore del Banco Ambrosiano di Monza, che a tempo parziale li vendeva. All’epoca erano assolutamente una novità e lui mi interpellò, visto che frequentavo la facoltà di Economia

16

L’Aldo Ravelli per cominciare

e Commercio, per avere un consiglio, presentandomi il promotore.

Lo scopo era esprimere un giudizio sull’investimento proposto.

Come andò l’incontro?

Me lo ricordo ancora bene, in ogni dettaglio. Anche perché, devo confessarlo, all’epoca non capii quasi nulla. Ma abbastanza per una decisione: quell’attività mi interessava come mestiere. Fu quindi l’occasione, visto che ero molto interessato a quel lavoro, per iniziare ad approfondire il discorso cercando di capire se io stesso potessi cominciare la stessa attività.

Alla fine il direttore mi disse che si sarebbe tenuto a breve un corso di formazione a Desenzano sul Garda al quale avrei potuto partecipare. Fu così che nel gennaio 1967 mi trovai insieme ad una ventina di altri pretendenti a frequentare un corso dove, teoricamente, avrebbero dovuto insegnarci qualcosa sugli investimenti.

Nella realtà tentavano di farci un lavaggio del cervello perché, in effetti, avevano solamente bisogno di venditori.

Ben retribuiti?

Figurarsi. Il corso durava un paio di giorni e noi partecipanti eravamo carne da cannone, da mandare allo sbaraglio: corso a spese nostre, nessun rimborso spese per il lavoro svolto, né tantomeno un salario. E quel che peggio nessun ufficio della società. Ricordo una vicenda particolarmente esilarante: i partecipanti vennero divisi in due gruppi, cioè i negati e altri destinati a grosse vendite.

Io, naturalmente, ero tra gli incapaci. Quello ritenuto il più bravo di tutti era un agente assicurativo, destinato a fare nel lavoro molto meglio di tutti noi.

Come è finita?

Nel modo più ridicolo: tutti noi scarsi, alla prova dei fatti, riuscimmo a fare molto meglio dell’assicuratore.

Chi erano gli organizzatori del corso?

La famigerata IOS, la prima, grande rete di promotori finanziari: 11 mila venditori in tutto il mondo che, in Italia, si è fatta rappresentare da Fideuram, a volte tra mille polemiche più o meno giustificate. Io sono stato un loro venditore.

Assaporò il gusto del successo?

L’Aldo Ravelli per cominciare

17

All’inizio, per la verità, la presi un po’ alla leggera. Feci qualche operazione ma senza grandi risultati. Soprattutto per il fatto che, tutto sommato, non avevo grandi motivazioni. Ma nel maggio 1967 il mio supervisore mi disse: “Noi abbiamo in programma di crescere e servono nuovi supervisori, persone che insegnino ad altri questo tipo di lavoro. Se lei riesce a fatturare 300 mila dollari entro fine settembre, a novembre terremo un corso e avrà diritto a farvi partecipare due uomini scelti da lei, che potranno rappresentare un nuovo nucleo di venditori.” Questa fu la molla che mi fece scattare una motivazione forte, e cominciai ad organizzarmi seriamente.

Quale fu la carta vincente?

L’incontro con un messo comunale di Desio, personaggio molto credibile in una piazza come quella, ritenuta molto ricca.

In che modo vi siete organizzati?

Lui mi fissava gli appuntamenti e io gli riconoscevo una somma sulle provvigioni che guadagnavo. Quell’uomo era una forza della natura: mi fissava talmente tanti appuntamenti che faticavo a seguirli. Fu così che tra i suoi contatti e i miei iniziai a vendere seriamente e in pochi mesi, esattamente il 30 settembre, l’obiettivo dei 300 mila dollari venne raggiunto. Così conquistai sul campo i gradi di supervisore. Mi davano diritto, naturalmente a spese mie, di reclutare uomini fino a un massimo di tre. E per loro l’iter previsto era il solito: prima il corso e poi la discesa in campo come venditori.

Fu facile?

Mica tanto. La vendita era stata la parte meno difficile. Problematico fu trovare le persone che, possibilmente a tempo pieno, abbandonassero la loro attività per iniziare un lavoro senza stipendio, senza rimborsi spese e senza uffici.

Iniziai a Milano e provincia dove però vi erano parecchi venditori IOS senza limitazioni di zona e il livello di questi venditori (pomposamente chiamati consulenti finanziari) era piuttosto basso, rendendo di fatto difficile il reclutamento di persone di livello.

Decisi pertanto di andare in zone vergini e scelsi Ferrara, poiché la mia ragazza era di origine ferraresi, e alla fine riuscii a trovare un paio di candidati.

18

L’Aldo Ravelli per cominciare

Naturalmente li portai al corso, dove fui tra gli istruttori. E alla fine, devo dire con qualche sorpresa di tutti nonché di me stesso, risultò evidente che ero il migliore nel motivare i nostri venditori.

Fu così che, da allora in poi, i corsi li tenni io. Mi occupavo dell’organizzazione e della location, e ai miei corsi partecipavano anche candidati degli altri supervisori. In poco tempo diventai branch manager con tre venditori alle dipendenze e loro stessi, dopo un anno, diventarono supervisori dirigendo alcuni venditori. Insomma, la classica organizzazione a piramide che caratterizzava la IOS. Successivamente venni nominato regional manager. La rete dei miei collaboratori, dopo due anni, era capillare, soprattutto in Emilia Romagna: da Bologna a Parma, da Modena a Ravenna, arrivando fino a Pesaro. Alla fine erano più di una quarantina, con cinque capofila. E io cominciai a partecipare alle riunioni di vendita del vertice. Rimasi, per la verità, un poco deluso, perché non si parlava mai d’investimenti, ma sempre di vendita.

Con quali risultati, per quanto la riguarda?

Ottimi. Nel 1970 riuscii a guadagnare 32 milioni di lire, che oggi potrebbero essere equivalenti a 400 mila euro.

La IOS era una organizzazione molto discussa…

In effetti mi accorsi che accadevano cose un poco strane. Per esempio, quando i clienti acquistavano risultavano sempre operazioni ai prezzi massimi della settimana. E quando vendevano realizzavano sempre il prezzo più basso. Non solo. Il sistema bancario in Svizzera parlava perfino di furti che la IOS perpetrava ai danni dei risparmiatori loro clienti.

Quanto era potente la rete di vendita?

Era una macchina da guerra: 11 mila venditori in tutto il mondo, bene organizzati e con spirito di appartenenza. Rappresentavano, nel bene e nel male, la prima, grande rete di vendita del risparmio.

E fecero scuola. Ogni anno i 100 venditori più forti venivano invitati a Londra tre giorni per celebrare l’evento. Io riuscii presto ad essere tra loro.

Cosa ricorda della prima volta londinese?

Ci riunimmo al Grosvenor House di Londra, vicino a Bucking-

L’Aldo Ravelli per cominciare

19

ham Palace, nell’aprile 1971. Doveva essere un incontro trionfale, nel grande albergo frequentato da celebrità e bel mondo. Ma lì comincio il funerale della IOS. Punto di partenza?

Alcuni venditori e manager tedeschi iniziarono a parlare di trasparenza e mi resi conto che gli speaker della organizzazione erano veramente in difficoltà.

Lei come si comportò?

Mi unii al coro dei tedeschi anche se, durante gli intervalli dell’incontro, ricevevo sollecitazioni continue da parte dei vertici italiani della IOS, che in Italia era rappresentata allora da Fideuram, al fine di moderare i toni. Nell’interesse comune, mi dicevano.

Tutti noi, venditori e manager, avevamo acquistato azioni della IOS e pertanto si sosteneva che il silenzio sui panni sporchi della IOS sarebbe stato conveniente.

Chi erano i vertici?

Inutile dire che erano tutti ebrei. Uno degli speaker era un certo Mell Rose, famoso gestore di patrimoni dell’epoca. Alla fine del suo speech se ne andarono tutti, escluso il sottoscritto e un certo Paolo Alazraki, ebreo pure lui. Allora il mio inglese era assai scarso.

Così, tramite Alazraki, chiesi a Mell Rose qual era il valore delle azioni IOS. La risposta fu secca: “Wall paper”. Io non compresi. Ma Alazraki mi tradusse: “Carta da parati”. Risultò evidente che la IOS non aveva più futuro.

In Italia quale fu la Provvidenza?

Lo shock finanziario fu evitato grazie allo Stato, che intervenne tramite l’Imi, acquistando il 100 per cento della Fideuram.

L’ennesimo salvataggio a spese di Pantalone?

Diciamo che i soldi investiti in Italia tramite l’acquisto di quote Fonditalia furono salvi. Non andò così per tutti gli altri fondi della IOS. E lei?

Fideuram mi corteggiò moltissimo, sperando che continuassi a lavorare per loro ma io, un po’ per ambizione e un po’ perché avevo capito che era fondamentale avere il controllo del denaro raccolto,

20

L’Aldo Ravelli per cominciare

decisi di lasciare.

In quanti della sua squadra la seguirono?

Una ventina, metà di Milano e metà dell’area di Bologna. Il mio lunedì tipico cominciava molto presto al mattino a Milano, poi saltavo in macchina con due panini e guidavo fino a Bologna, dove iniziavo le riunioni con i venditori intorno alle 16. Terminavo alle 18, di nuovo in macchina verso Milano e alle 21 il meeting milanese all’Hotel Sant’Ambroeus. Fine dell’incontro alle 23.30 e cena a Brera, sempre parlando di lavoro. Il mattino dopo ricominciavo.

Ricordo che facevo il conto: a metà martedì avevo lavorato quanto un operaio della Breda in tutta la settimana. E, per aumentare la produttività, mi ero anche organizzato con uno strumento all’epoca rivoluzionario: il dittafono, che mi consentiva di dettare le lettere mentre ero alla guida.

Come si era organizzato per la raccolta?

Operavo a tutto campo, cercando di ottenere fondi in gestione.

Dicono che si sia occupato anche di recupero crediti…

Confermo. Il modo migliore per conquistare i clienti era di far recuperare investimenti sbagliati.

Immagino che non fosse così facile…

Confermo anche in questo caso. Però ci riuscivo, conquistando gratitudine e piena fiducia dei clienti.

Ricorda qualche esempio?

Per esempio c’era chi aveva acquistato terreni a Miami, ma senza i vantaggi economici sperati perché erano infestati da alligatori.

Per risolvere il problema e recuperare il maltolto si recò anche sul posto?

Ovviamente sì, almeno un paio di volte. Ma mi occupai anche di altri casi classici: fondi di bicchieri spacciati per diamanti, quote di fondi d’investimento che non esistevano e così via. Ne accadevano di tutti i colori e anche i giornali non scherzavano.

Cosa combinavano?

L’Herald Tribune pubblicava giornalmente le quotazioni di fondi, accreditandone l’esistenza. Naturalmente in una nota scrivevano che non erano responsabili dei numeri pubblicati. Così si lava-

L’Aldo Ravelli per cominciare

21

vano la coscienza e scaricavano ogni responsabilità. Il fatto era che alcuni di questi fondi non avevano neppure la banca custode.

In quell’epoca, negli anni Settanta, la gente con denaro cercava investimenti fuori dall’ Italia per paura del comunismo, nel timore che i comunisti andassero al potere e nazionalizzassero tutto. Ecco perché l’esportazione di capitali era legittima difesa, un modo per non veder svaniti o fortemente ridimensionati i risparmi di una vita.

Ravelli, nell’unica intervista della sua vita, si è vantato di essere stato il numero uno nell’esportazione di capitali. Ma aggiunse di avere avuto soprattutto due concorrenti temibili: la Banca commerciale e il Vaticano. Lei conferma la diffusione del fenomeno?

Confermo. I clienti chiedevano di fare operazioni non ufficiali, all’estero. E per promuovere investimenti all’estero era indispensabile esportare capitali. Tengo a precisare che i reati allora ipotizzabili erano di natura amministrativa e non penale.

Lei che strada seguiva?

All’inizio non ne sapevo nulla e mi affidavo ad un certo dottor F., che aveva canali bancari svizzeri privilegiati.

Come funzionava?

Tutte le volte che avevamo bisogno di denaro all’estero lo chiamavo e compravo da lui dollari, in codice “il lontano” oppure “il vicino”, cioè franchi svizzeri. Ovviamente io consegnavo i contanti in Italia e ricevevo la valuta estera in Svizzera. Chiaramente il cambio era superiore a quello ufficiale.

Di quanto?

Dipendeva dal momento e, in particolare, dalle tensioni politiche. In genere la differenza era del 3-4 per cento ma, prima delle elezioni politiche del 1976, quando il Pci continuava ad aumentare i voti, ricordo di avere visto differenze anche del 20 per cento.

Chi era la controparte svizzera del dottor F.?

Me lo chiedevo spesso. Fino a quando riuscii a scoprirlo.

Come?

Aveva una segretaria parecchio bella e, indovini indovini, iniziai a uscirci. Funzionò. Dopo qualche tempo, neppure troppo, seppi da

22

L’Aldo Ravelli per cominciare

lei il nome della banca e, soprattutto, il funzionario a cui si rivolgeva il suo capo. Andai a Chiasso, mi feci fissare un appuntamento e cominciai a lavorare direttamente con il funzionario. Avevo trovato il modo di scavalcare il dottor F. e di guadagnare io la differenza di cambio. Scoprii, però, che c’era chi faceva ancora meglio. E, scava scava, arrivai a conoscere un certo signor C..

Era affidabile?

Mica tanto. Per questo chiedevo sempre di essere pagato da lui prima e successivamente consegnavo il contante da esportare. I miei cambi erano così vantaggiosi che ero riuscito a far diventare miei clienti alcuni funzionari di banche importanti, e facevo un numero di transazioni elevato. Ne ricordo una da 800 milioni di lire in contanti, che fruttò un utile di circa 8 milioni. Come dire oltre 50 mila euro di oggi. Poi però ci furono problemi.

Quali?

Nel gennaio 1975 ebbi la pessima idea di fare un viaggio in Vermont e lasciai ad un collaboratore il compito di consegnare al signor C. 200 milioni di lire in cambio di dollari. Gli ordini erano tassativi: consegnare le lire dopo aver ricevuto i dollari. Purtroppo il mio collaboratore era un imbecille e si lasciò convincere a consegnare le lire accontentandosi della firma del signor C. sotto un ordine di bonifico per l’equivalente in dollari. Facile immaginare come finì: non venne eseguito per il semplice fatto che sul conto del signor C. non vi erano fondi.

Come mai?

Il signor C. per inviare i soldi all’estero utilizzava un metodo totalmente illegale. In accordo con un funzionario della dogana faceva timbrare delle bolle di accompagnamento fingendo l’importazione di macchinari inesistenti. Ma l’operazione, ripetuta troppo spesso, insospettì un funzionario della banca che chiamò la Guardia di finanza. Il signor C. si rifugiò in Svizzera e io cercai di convincerlo a pagarmi il dovuto perché non ero certo responsabile dei suoi traffici. Niente da fare. Persi il mio tempo e capii che dovevo provvedere io a rimborsare i miei cinque clienti. Lo feci in parte e mi misi a lavorare sui cambi in modo da recuperare velocemente il

L’Aldo Ravelli per cominciare

23

denaro necessario.

Il trucco c’era, anche se nessuno lo ha mai scoperto.

Qual’era?

Mi spiace, ma questo non glielo racconto. Preferisco di no perché coinvolge un personaggio che lei conosce bene.

Fino a quando continuò l’esportazione di capitali?

Per quanto mi riguarda decisi di smettere quando la legge cambió e diventò reato penale. Ma per molto tempo fu un’attività assai vantaggiosa.

E voi, dopo l’uscita dalla IOS, che prodotti vendevate?

Mi trovai nella condizione di svolgere un’attività di cui conoscevo poco o nulla. Tra l’altro dovevo vendere a risparmiatori che ne sapevano ancora meno. Non solo. Dopo il crollo della IOS, altre società dello stesso genere erano fallite, lasciando sul campo un gran numero di venditori. Tutti scatenati alla ricerca di nuovi prodotti, i più fantasiosi possibile, destinati inevitabilmente a essere dei bidoni. L’elemento caratterizzante era che chi raccoglieva il denaro non aveva alcun controllo sull’utilizzo che se ne faceva. Un errore grave. Chi ha raccolto denaro, e ci ha messo la faccia, non può delegare a un terzo gli investimenti. Quello che non sapevo era quanto sarebbe stata lunga la strada per imparare a farlo fruttare.

Com’era il Preatoni di allora?

Avevo tanta ambizione ma non ancora sufficiente esperienza, e poi dovevo guadagnarmi da vivere. Esperienze comunque ne stavo facendo, anche sbagliate, che mi sarebbero risultate estremamente utili in futuro.

Come era il mondo del risparmio gestito allora?

Nel tempo i patrimoni gestiti da terzi erano aumentati a dismisura. Senza che gli addetti alla raccolta avessero mai avuto la possibilità di controllo su chi gestiva il denaro. L’illusione era che Consob, Banca d’Italia e altri organismi più o meno burocratici potessero svolgere un’azione di controllo efficace. A ciò si aggiunga la distorsione dei gestori di portafoglio che erano, e lo sono ancora, pagati sull’utile netto. Ma non quello realizzato dal cliente, bensì quello puramente teorico.

24

L’Aldo Ravelli per cominciare

Cioè?

Se un titolo di valore 100 è salito a 150, il gestore ha diritto di incassare gli incentivi, a prescindere da quanto accadrà in seguito.

Quindi perfino se il titolo ritornasse a 100 oppure andasse a 50. Il sistema che mi pare più pericoloso è quello dei fondi d’investimento. È chiaro che se un gestore guarda alla performance trimestrale è interessato a comprare titoli ad alto rendimento che gli permetteranno di incassare i bonus a tre o sei mesi e che non incideranno minimamente sulle sue tasche se, magari dopo alcuni anni, non venissero rimborsati. (Un esempio perfetto sono i titoli del debito pubblico greco).

Su quali prodotti decideste di puntare?

Ci eravamo inventati dei prodotti obbligazionari in Svizzera, dove la gente depositava i soldi sul proprio conto e poi dava a noi mandato di amministrarli. Potevamo comprare e vendere ma non, in nessun modo, prelevare da quel deposito. Il cliente ci pagava la percentuale del 10-12 per cento sull’utile realizzato al netto delle perdite. Oppure proponevamo al cliente titoli poco conosciuti ma redditizi. Ricordo l’inglese War Loan, garantito dallo Stato inglese, che rendeva il 10 per cento. Facevamo anche pubblicità sui giornali, con straordinario successo. Arrivavano valanghe di risposte. Fino a quando Banca d’Italia si accorse di quanto stava accadendo. E così, in quattro e quattr’otto, venne approvata la legge che vietava la sollecitazione del pubblico risparmio, cioè diventò illegale rivolgersi ad un pubblico indeterminato. La nostra attività di promozione, di conseguenza, venne completamente bloccata. Grandi soddisfazioni, invece, arrivarono dagli investimenti in franchi svizzeri. Fummo fortunati perché la lira italiana cominciò a perdere colpi e il franco svizzero, che allora valeva 140 lire, arrivò nel giro di qualche anno a 250-280 lire. Insomma, facemmo la nostra bella figura.

Andò sempre così bene?

Purtroppo no. Cercavo la mia strada, ma devo dire che quella che stavo percorrendo era tutta in salita.

Può fare qualche esempio?

L’Aldo Ravelli per cominciare

25

Negli anni Settanta ricordo tre avventure: l’alleanza con Vincenzo Cultrera nell’immobiliare, l’operazione Euroguide in Italia e Lussemburgo, i terreni del Vermont. Nessuna finì come avevo sperato, ma feci esperienze molto formative.

Quale fu l’accordo con Cultrera?

Mi ero reso conto che avevo bisogno di un prodotto immobiliare da vendere e avevo conosciuto Cultrera, specializzato nella costruzione di supermercati, che affittava alla Esselunga di Caprotti. Io raccoglievo denaro, che doveva essere investito in supermercati.

Sembrava che tutto andasse bene, ma cominciai ad avere qualche dubbio su di lui e sul suo commercialista. Quest’ultimo, in particolare, mi dava l’impressione della persona poco seria. Controllai e mi accorsi che non erano stati ai patti: con i soldi raccolti avevano comprato un terreno nel Sud Italia con lo scopo di costruire un villaggio turistico e non solo, come avevamo stabilito, dei supermercati. Quando mi vennero questi dubbi cominciai a tremare, perché temevo che i nostri clienti perdessero i loro quattrini. Rivedevo il film della IOS, quando avevo visto quanto fosse pesante tornare a casa la sera e vedere le telefonate che arrivavano dalla gente che aveva perso i propri risparmi. Ero molto, molto preoccupato. E lo diventai sempre di più quando mi accorsi che c’era stato un mangia mangia incredibile.

Come decise di reagire?

Li affrontai di petto. La mia prima preoccupazione era che i clienti venissero a sapere quanto stava accadendo. Avevo grandi progetti per il futuro che avrei compromesso se fossi scivolato sulla classica buccia di banana.

Quale fu la loro risposta?

Incredibilmente, e devo ammettere anche intelligentemente, avevano capito la mia debolezza e mi ricattarono dicendomi: “Guarda che se i tuoi clienti vengono a sapere come stanno le cose sarà peggio per te.” Ero nei guai. Non sapevo veramente che pesci pigliare. Ho perso tante notti di sonno a causa di questa vicenda perché il dramma che vivevo era quello di chi aveva dovuto lasciare una società, la IOS, perché era costellata di ladri, si era messo

26

L’Aldo Ravelli per cominciare

in proprio e, subito dopo, si era rimesso nella mani dei ladri. Veramente scioccante.

Risultato?

Per trovare una via di uscita rompevo le scatole in continuazione a Cultrera, anche perché stavo perdendo la faccia anche con i miei collaboratori, che ormai erano al corrente di tutto. D’altra parte Cultrera temeva le mie reazioni perché sapeva che conoscevo di lui troppe cose. Alla fine, dopo tanto lottare, trovammo un accordo, riuscendo a soddisfare le esigenze dei clienti che avevano investito con noi. Pericolo scampato. Alcuni anni dopo Cultrera fallì, lui scappò credo in Paraguay con la cassa e il suo commercialista finì in galera. Più tardi commise l’errore di tornare a Parigi, fu intercettato dall’Interpol e credo che sia finito in galera pure lui.

C’è un collegamento tra Cultrera e la vicenda Euroguide?

Sì, fu proprio Cultrera che mi presentò un altro siciliano suo amico per un affare teoricamente molto interessante: la creazione di una guida in Italia e Lussemburgo, che doveva pubblicare informazioni utili sulle istituzioni comunitarie e le società europee più importanti. Erano altri tempi, e reperire certe informazioni non era facile come oggi. Faccio notare che esiste ancora oggi una società, la Europages, con la stessa missione. Ha avuto un discreto successo e sopravvive da una trentina d’anni.

Come finì?

Fummo travolti dalla seconda crisi energetica. Le organizzazioni pubbliche tagliarono i budget e le prime voci eliminate furono le iniziative ritenute meno utili nell’immediato. Politici italiani e comunitari ci avevano garantito l’acquisto di grandi quantità delle guide, ma si dileguarono come neve al sole. La delusione fu notevole. È stata l’ultima volta in cui pensai che si potesse guadagnare ascoltando le promesse di politici. Chiudemmo l’attività con forti perdite, pagando in concordato circa un terzo dei debiti e anche in questo caso, per conservare credibilità, in qualche anno rimborsai i clienti delle perdite. Lasciare un buco del genere avrebbe compromesso il mio futuro. Volevo realizzare qualcosa d’importante e avevo bisogno di loro. Il denaro in quanto tale non è mai stato la

L’Aldo Ravelli per cominciare

27

molla che mi muoveva. Così misi mano al portafoglio e, man mano che guadagnavo, rimborsavo i clienti che si erano comportati correttamente con me.

Cos’altro imparò?

L’esperienza fatta fu importante perché servì ad aprirmi definitivamente gli occhi: fino ad allora avevo conservato un poco di fiducia nella gente, ma ora avevo imparato che dovevo contare esclusivamente su di me, dal primo all’ultimo minuto degli investimenti da fare. La lezione più importante l’ho conservata in ufficio a Milano: è la copia integrale di Euroguide. Prima di firmare qualsiasi contratto la guardo sempre.

Il terzo errore è stato l’acquisto di terreni nel Vermont…

Fortunatamente me ne accorsi in tempi brevi. All’inizio mi venne in mente di portare i clienti in Canada, a Montreal, per investimenti immobiliari. Tra loro c’era una delle famiglie più importanti dell’Alto Adige: erano convinti che fosse meglio acquistare terreni agricoli piuttosto che shopping center o uffici. Conclusi soltanto un paio di affari perché prese piede un movimento separatista che voleva staccare il Quebec francese dal resto del Canada e, appena ottennero la maggioranza dei voti, come primo provvedimento impedirono in buona sostanza l’acquisto di terreni agricoli da parte di stranieri. Ormai però mi ero convinto della validità del progetto.

Quindi non feci altro che attraversare la frontiera e scendere un poco più a Sud, fermandomi nel Vermont, a Newport.

Che situazione trovò?

L’unica cosa certa è che facevo una gran brutta vita. Molto freddo d’inverno, viaggiavo e dormivo in classe economica, atterravo a Montreal e per arrivare in Vermont occorrevano tre ore di automobile. Lì ero visto come un marziano, descritto dai giornali locali come lo straniero che rubava terreni ai poveri agricoltori americani. Fra parentesi: in quel periodo di donne neanche l’ombra. È stata un’esperienza veramente sofferta.

Perché investire in terreni agricoli?

Il ragionamento era più o meno il seguente: la popolazione mondiale aumentava e, di conseguenza, i prodotti alimentari sarebbero

28

L’Aldo Ravelli per cominciare

aumentati di prezzo e con loro anche il valore dei terreni agricoli.

Risultato?

Accadde esattamente l’opposto. In quel momento Paesi come India, Cina e perfino Russia erano importatori di derrate alimentari. Successivamente però tutti impararono a utilizzare fertilizzanti chimici e in pochi anni decuplicarono la produzione. Così i Paesi che erano importatori di alimentari divennero esportatori, i prezzi alimentari diminuirono invece di aumentare, idem i prezzi dei terreni agricoli. Inoltre le fattorie, una volta comprate, dovevano essere gestite, cioè affittate a contadini che formavano un mercato di poveracci. Insomma, un vero disastro: l’investimento in terreni agricoli si rivelò sbagliato.

Inevitabile vendere tutto e tornare in Italia?

Ovviamente. Ma non fu così facile. Le vendite andarono a rilento e rimediare all’errore richiese sia tempo che denaro. La consolazione fu un investimento che si rivelò interessante e che ci fece capire le potenzialità di iniziative del genere: l’acquisto di uno shopping center, datato 1978. Da lì iniziammo a cambiare indirizzo ed acquistare immobili anziché terreni agricoli. Nel tempo si rivelò essere un’ottima mossa.

Fino a quel momento però il bilancio delle sue iniziative risultava più che deludente.

In effetti posso dire che fino al 1978 ho venduto molto l’idea di sapere investire il denaro ma non era così. Però, dopo 11 anni di tentativi, qualcosa avevo imparato, a partire da una certa esperienza su come evitare gli errori del passato. Il 1978 fu l’anno della svolta.

Perché?

In ottobre ebbi l’intuizione di proporre ai miei clienti di tornare a investire nella Borsa italiana che, dal 1961 al 1978, era andata peggiorando di continuo per via dell’eccessivo populismo dilagante, assolutamente contrario agli investimenti.

Tutta colpa del 1968?

Proprio così. Aveva perfino sancito l’idea che il salario fosse una variabile indipendente: i lavoratori andavano pagati, dicevano,

L’Aldo Ravelli per cominciare

29

anche se improduttivi. E molti studenti uscivano dalle università senza avere appreso nulla. Da lì il detto: “Quello lì è un architetto del ‘68”, come a descriverne l’incapacità. Io però avevo capito, in anticipo di un paio d’anni, che il clima in Italia stava cambiando.

Avevo fiutato la svolta in arrivo. E alcuni fatti lo avrebbero poi dimostrato. Emblematica fu nel 1980 la marcia dei 40 mila colletti bianchi a Torino: per la prima volta scesero in piazza per protestare cittadini che non erano né operai né studenti. Chiedevano il diritto di poter lavorare e le reazioni, a mio giudizio del tutto positive, furono a catena.

Come decise di muoversi, non avendo capitali propri significativi da investire in Borsa?

Agivamo così: il cliente depositava i soldi presso una banca oppure una commissionaria, e affidava a noi un mandato per amministrarli. In questo modo avevo pieni poteri per vendere o comprare titoli ma non potevo ritirare i proventi per conto del cliente.

Con quali risultati?

La scelta dei tempi fu azzeccata. Andò esattamente come avevo previsto: fine della lunga era ribassista e impennata delle quotazioni nel 1979 e nei primi mesi del 1980. Non ero però convinto che potesse durare. E il mio intuito mi suggerì di alleggerire le posizioni. Meno male che lo seguii. Verso maggio giugno 1980 il mercato azionario cominciò a perdere colpi e io avevo investito soltanto il 40% del portafoglio.

Bilancio positivo?

Si, ero stato lungimirante. Ma fino a un certo punto, perché avrei dovuto vendere di più. I clienti, come si sa, pretendono molto.

Detto ciò, tutti sappiamo quanto la Borsa sia imprevedibile e, tutto sommato, gli investimenti erano andati abbastanza bene.

Perché Piazza Affari era molto diversa da quella di oggi?

Era una Borsa asfittica. L’Aldo Ravelli la definiva “una pozzanghera”. Ed era una battuta calzante, che significava anche che frequentandola era facile sporcarsi. Non aveva tutti i torti: Piazza Affari era, all’epoca, una sorta di Far West.

Lei continuò ad investire?

30

L’Aldo Ravelli per cominciare

Lo feci per un paio d’anni con operazioni di scarsa rilevanza perché non mi sembrava che il mercato potesse esprimere chissà quali prezzi. Per qualche tempo la Borsa vivacchiò, fino alla ripresa di metà anni Ottanta, favoriti dall’avvio dei fondi d’investimento, che fecero affluire capitali importanti in un mercato piccolo piccolo. Io arrivai puntuale all’appuntamento ma, inevitabilmente, durò poco. Il crollo arrivò nel giugno 1986: in una settimana il listino perse oltre metà del valore. Fortunatamente non avevo neppure un titolo e questo mi dette grande credibilità con i clienti.

Bi-Invest, la prima scalata

La Bi-Invest fu la prima scalata della Borsa italiana e lei ne è stato protagonista. Come cominciò l’avventura?

Quando vennero autorizzati i fondi d’investimento italiani immaginai che banche e operatori avrebbero colto l’occasione che, in sostanza, consentiva alle banche di guadagnare delle ottime commissioni senza rischiare assolutamente nulla, perché eventuali perdite erano comunque in capo al cliente, nel ruolo di sottoscrittore delle quote dei fondi. Era facile capire, e io lo capii per tempo, che sarebbero stati raccolti capitali rilevanti e, di conseguenza, la Borsa italiana, che era un piccolo mercato, avrebbe avuto un grande boom. Così, quando nel 1984 arrivarono i fondi d’investimento, io ero già particolarmente attivo.

Con chi lavorava?

Con la Finanziaria Milanese, commissionaria di Borsa del gruppo Bonomi. L’amministratore delegato, Alberto Piccini, era un conoscitore di Piazza Affari, sempre molto informato. Ad un certo punto mi raccontò che il Gruppo che era nato dalla fusione con la Beni immobili Italia sarebbe stato controllato da Bonomi solo per il 25%.

Praticamente parlava di corda a casa dell’impiccato…

Direi proprio di si. Come scalare la Bi-Invest me lo disse lui, seduto a un tavolo da pranzo della casa che attualmente è di uno dei miei figli, a fianco dei giardini di Porta Venezia, a Milano.

32

Bi-Invest, la prima scalata

Si è mai chiesto perché lo aveva fatto?

Inizialmente ho pensato che non fossero molto furbi, né lui né il suo capo. Avevano bisogno di liquidità e quindi, invece di vendere titoli sul mercato, avevano pensato di venderli giornalmente al sottoscritto, a prezzi di mercato ma evitando d’incidere sui prezzi. O forse Piccini aveva, o cercava di avere, il suo tornaconto. Qualche segnale in proposito, per la verità piuttosto esplicito, me lo mandò.

Bi-Invest era davvero sottovalutata?

Fu la prima verifica che feci. E, in effetti, lo era molto. Più esattamente quotava 3.100-3.200 lire quando avrebbe potuto valere fino a 10 mila lire. C’erano quindi le condizioni per avviare l’operazione.

Cominciai ad acquistare un po’ per volta. Io compravo azioni da loro e loro le depositavano nel mio portafoglio titoli. Io, a mia volta, le distribuivo ai clienti.

Inoltre a loro insaputa comperavo titoli Bi-Invest attraverso altri canali sia dall’Italia che dalla Svizzera. Andammo avanti dall’autunno 1984 all’aprile 1985. Niente di particolare, con il titolo sostanzialmente stabile intorno alle 3.000-3.500 lire. Fino a quando, in maggio, cominciò a salire vertiginosamente. Né io, né Bonomi, né tantomeno Piccini riuscivamo a capire cosa stesse accadendo.

In poche settimane le quotazioni toccarono quota 5.500-6.000 lire. La tentazione di vendere non fu grande?

Esattamente. E io cominciai a farlo. Lo stesso Bonomi, in prima battuta, lo fece, perché il gruppo aveva bisogno di liquidità. Poi io continuai con qualche vendita, a quel punto contro il parere di Piccini, che divenne assolutamente contrario. Aveva capito che c’era il rischio scalata e riteneva che i pacchetti azionari controllati dal sottoscritto avrebbero fatto massa a fianco di Bonomi contro eventuali scalatori.

Quanto era arrivato a controllare della Bi-Invest?

Eravamo al 10-11 per cento.

Scusi, ma sopra la soglia del 2 per cento era previsto l’obbligo di comunicazione alla Consob. Perché non l’avevate fatta?

Il tutto era suddiviso tra diversi investitori e, di conseguenza

Bi-Invest, la prima scalata

33

tale obbligo, che era previsto dopo 30 giorni, decadeva.

Dopo 30 giorni lo scalatore gettò la maschera?

Proprio così. Era Francesco Micheli, che dimostrò di essere molto più furbo di me. Ciò che avvenne è molto semplice: Micheli, forse l’unico che oltre me ha fatto in Italia delle scalate di Borsa vere, aveva studiato la Bi-Invest ed era arrivato alle stesse conclusioni del sottoscritto. Ma invece di acquistare come facevo io titoli senza fare denaro e quindi senza far aumentare i prezzi, lui trovò un compratore finale interessato all’acquisto.

In casi come questo l’Aldo Ravelli diceva: “El ghera già el rilevatari (compratore finale)”. Quando scese in campo el rilevatari?

Fin dall’inizio. Questa è la vera storia della famosa scalata alla Bi-Invest. L’accordo fu tra Micheli e l’allora amministratore delegato di Montedison, Mario Schimberni. Micheli aveva lavorato in quella società all’epoca in cui era governata da Eugenio Cefis e aveva mantenuto strette frequentazioni. A Schimberni disse che il titolo era sottovalutato, gli raccontò le opportunità favolose del titolo e, a mio parere, aggiunse che c’era la possibilità di sovvenzionare l’operazione dalla Svizzera, in modo da guadagnare sulla differenza tra i valori che avrebbe raggiunto il titolo sotto scalata e le 3.500 lire di partenza.

Partecipò anche Cefis?

Secondo lei? Tutto quel mondo venne coinvolto e in fondo, non va dimenticato, Schimberni era considerato il vero erede di Cefis.

Lo sapevano tutti, ma proprio tutti. I legami, tra gli esponenti di quel mondo, erano fortissimi. Diciamo che erano una corrente scissionista, e ad un certo punto del tutto autonoma, del partito Mediobanca.

Lei lo ha incontrato?

Sì, nell’isola di Cavallo, in Francia. Lì avevo avviato un interessante investimento immobiliare ma venni bombardato un paio di volte, non metaforicamente, dai separatisti corsi e preferii lasciar perdere. Non consiglio a nessuno di fare affari in Corsica. Cefis andava in vacanza all’Hotel des Pecheurs, e ho colto l’occasione

34

Bi-Invest, la prima scalata

per qualche battuta, sempre senza risposta. Era, per definizione, molto riservato.

Perché la scalata fece così scandalo?

Fu il primo caso in cui il mercato vinse contro l’establishment.

Quando la vicenda divenne di pubblico dominio scoppiò uno scandalo, perché scalare la società di qualcuno ritenuto parte del sistema come Bonomi venne considerata un’eresia.

In realtà Carlo Bonomi non faceva parte del giro stretto della Mediobanca mentre, in fondo, Schimberni era l’erede di Cefis, che negli anni Sessanta e Settanta era stato molto vicino a Enrico Cuccia. Non era perfetto per essere scalato?

C’è del vero. L’operazione andò comunque a buon fine e noi vendemmo tutti i titoli in nostro possesso a valori compresi tra 5.500 e 8.000 lire, guadagnando in maniera superlativa. Pensi che gli ultimi pacchetti di Bi-Invest, a scalata praticamente chiusa, li abbiamo venduti a prezzi stratosferici allo stesso Bonomi che, avendo capito di aver perso, si limitava ai guadagni differenziali che poteva spuntare tra il prezzo di mercato e il prezzo di acquisto di Montedison.

I conti finali della operazione li faceva Olga Clausen, allora mia moglie, la seconda delle tre che ho avuto. Era stupefatta degli utili che avevamo fatto: erano incredibili.

Può ricordarli?

Guadagnammo, compreso gli utili realizzati dai clienti, 11 miliardi di lire esenti da imposte perché, all’epoca, i capital gain non erano tassati. Io ero pagato con il 10-12 per cento dei guadagni ottenuti dai clienti, più gli utili sui miei investimenti. Il bilancio finale della scalata furono un paio di miliardi guadagnati direttamente e altrettanti sugli utili dei clienti.

Incontrò mai Micheli?

Non durante la scalata. Successivamente sì, ma della operazione Bi-Invest abbiamo accennato soltanto dieci anni dopo. Ma stava schiscio, non ha mai parlato volentieri di quanto era realmente accaduto.

Il bilancio della operazione Bi-Invest fu eccezionale

Bi-Invest, la prima scalata

35

Può ben dirlo. Ci trovammo con parecchia liquidità. Inoltre, i fondi d’investimento avevano avuto successo e continuavano a far entrare soldi, perciò continuai a comprare e rivendere titoli fino al marzo 1986.

E dopo?

Tirai il freno. In quel momento, secondo le mie analisi, la Borsa era salita troppo e quindi vendetti praticamente tutto. Così ad aprile mi trovai senza titoli e completamente liquido.

Fu il momento di brindare?

Tutt’altro. Il mercato continuava a salire e ho fatto la figura del cretino.

Le era venuto il dubbio?

Sì, qualche dubbio mi stava assillando. Fino al 3 giugno. Ricordo bene la data. Quel giorno arrivò il momento del redde rationem: in una settimana la Borsa perse il 53 per cento. Ma io ne ero fuori e questo mi diede grande prestigio con la clientela, poiché non avevamo più titoli in portafoglio e, di conseguenza, non avevamo avuto perdite. Risultato: i clienti erano pronti a riaffidarmi i loro capitali per nuovi investimenti.

Cosa aveva imparato dall’esperienza fatta fino a quel momento?

Mi era sempre più evidente la necessità di gestire in proprio il denaro raccolto. Oppure, quanto meno, con il massimo del controllo possibile da parte mia. Raccogliere denaro per portarlo a terzi non funzionava: il rischio è che personaggi tipo Cultrera se ne appropriassero lasciando il sottoscritto con il cerino in mano oppure che ne traesse giovamento, in modo graduale e almeno in apparenza meno brutale, il sistema bancario, come usa fare quando gestisce il denaro di terzi. Meglio conoscere di persona chi gestisce il proprio denaro piuttosto che affidarsi a un marchio.

Continuò anche con gli investimenti immobiliari?

Nel 1978 le mie conoscenze erano ancora piuttosto approssimative. Avevo conosciuto un certo geometra Sinnone, modesto all’apparenza ma grande competente del mercato immobiliare. Da lui ho imparato molto e con lui ho iniziato la costruzione di qualche

36

Bi-Invest, la prima scalata

villetta nell’Hinterland milanese oltre a una grande scommessa in quel periodo: 160-170 appartamenti in piazza Ohm a Milano.

Avevo maturato la convinzione che poteva risultare conveniente investire in operazioni di sviluppo immobiliare, nonostante la crisi di mercato in atto. Rilevai l’investimento di piazza Ohm da una società vicina ai socialisti, uomini di Bettino Craxi e Pillitteri.

Erano in forte crisi e necessitavano di liquidità. Comperai a buon prezzo e iniziai la costruzione vendendo sulla carta gli appartamenti. Capii che la crisi stava passando e mi scatenai a cercare iniziative immobiliari in tutte le parti della città. Ne ricavammo grandi soddisfazioni.

Avremmo dovuto costruire anche il grattacielo più alto di Milano, ben 148 metri, in cui io stesso avrei dovuto prendere casa all’ultimo piano, con tanto di piscina e di eliporto. Ma l’iniziativa non decollò per una serie di piccoli ma numerosi ostacoli. Erano anni impegnativi ma perfino divertenti.

Può raccontare almeno un episodio?

Il mercato era attivo in tutta Milano tranne che a San Siro. E si diceva che non lo fosse perché era isolato e, di conseguenza, prevalesse la paura dei rapimenti. Lavorava con me un geometra di cui non ricordo il nome che chiedeva con insistenza un appuntamento. Pensando ad una perdita di tempo avevo sempre evitato.

Un giorno me lo ritrovai davanti all’ascensore e mi disse tutto d’un fiato: “Signor Preatoni, io so perché non si vende a San Siro.” Me lo feci spiegare. La sua tesi era che il gruppo Ligresti, l’unico che costruiva in quella zona, aveva realizzato appartamenti di 200 metri quadrati, con finiture faraoniche. I prezzi quindi erano molto elevati, cinque milioni al metro quadrato. E nessuno li acquistava, senza che Salvatore Ligresti ne capisse le ragioni. In effetti non poteva capirle perché era un imprenditore immobiliare legato alla politica che non si era mai confrontato con il mercato. Era un vero esperto nei cambiamenti delle destinazioni d’uso dei terreni, spalleggiato dai politici. Errore. Nel lungo periodo vince sempre chi si confronta con il mercato, non chi punta su giochetti vari. Tornando a San Siro, l’alternativa invece c’era: vendere a 3 milioni e mezzo al metro

Bi-Invest, la prima scalata

37

quadrato appartamenti più piccoli. In sostanza con 385 milioni di lire, contro 1 miliardo chiesto da Ligresti, si poteva sistemare una famiglia.

Ci provaste?

Ovviamente si. Ligresti faceva tantissima pubblicità su San Siro, la gente arrivava, metteva i prezzi a confronto e comprava da noi.

Fu un grande successo.

Fino a quando continuò a puntare sull’immobiliare?

Cominciai a tirare il freno dopo il 1992.

Per quale ragione?

Innanzitutto gli italiani che avevano la prima casa erano diventati sempre più numerosi e poi la stagione di “Mani pulite” cambiò molto il settore immobiliare, provocando grandi paure presso tutti gli operatori. Inoltre terminò l’epoca degli investimenti in nero nel settore immobiliare anche a causa dell’interpretazione restrittiva del reato di falso in Bilancio.

All’epoca “il nero” era un fenomeno molto diffuso?

Guardi, diciamo la verità: lo facevano tutti. Tanto che alcuni, quelli prudenti, utilizzavano il contante ma gli altri facevano due assegni: uno per le somme regolari e l’altro per il nero.

Anche lei finì sotto inchiesta?

Si, nel 1996, nell’ambito ben più ampio dell’inchiesta sulla Banca Popolare di Crema. Ma, alla fine, non trovarono nulla. Mi interrogarono per la prima volta dopo tre anni di indagini. All’interrogatorio era presente anche un magistrato particolarmente esperto, Francesco Greco. E lo dissi anche loro. Mi chiesero: “Le risultano vendite in nero nell’immobiliare?”. Risposi: “Mi stupirebbe che negli anni Ottanta ci sia stata anche soltanto un’operazione regolare.” Ma la vera motivazione dell’inchiesta erano i miei continui rastrellamenti di titoli delle banche popolari e di Generali.

Cosa ricorda dell’inchiesta?

Furono anni difficili, in cui ne accadevano di tutti i colori. Le racconto un episodio. Un avvocato venne da me e mi disse: “Ho una brutta notizia da darle: la stanno per arrestare.” C’era del vero, ma alla fine per fortuna finì diversamente, con il rinvio a giudizio

38

Bi-Invest, la prima scalata

per amministrazione infedele, che ancora oggi non ho capito bene quale reato sia.

Fu condannato?

No. Considerazione finale?

Il pubblico ministero che si era occupato dell’indagine, secondo me, era in buona fede ma non capiva nulla di economia e finanza.

Di sicuro nel Paese era cambiata l’aria. Lei come reagì?

Mi spaventò il reato di falso in bilancio. Prima del 1992 praticamente non esisteva. Poi diventò il grimaldello per procedere con le inchieste. A quel punto il rischio diventava penale, con tutte le conseguenze del caso. Inoltre il mercato non era più ricettivo come prima perché buona parte degli italiani aveva già acquistato la prima casa. A quel punto, non ritenendo più il Paese interessante, mi rivolsi prevalentemente verso altri Stati.

In Italia è rimasta una presenza significativa nella multiproprietà, ma senza grandi successi. Come mai il settore non è mai decollato? È sempre stato frequentato quasi completamente da persone di dubbia moralità. Ciò era dovuto alla mancanza di leggi che la regolamentassero. Con l’amico Giuliano Urbani, all’epoca semplice deputato e per di più all’opposizione del Governo di allora (presieduto dall’On. D’Alema), riuscimmo nel miracolo di convincere sia l’Esecutivo che la stessa maggioranza parlamentare dell’epoca a far approvare una legge che, di fatto, impediva vessazioni ai danni dei clienti, vietando ai promotori di dare in garanzia immobili promessi in vendita per ottenere finanziamenti, oppure dando per un certo periodo agli acquirenti la possibilità di rivedere la loro decisione. Ma i problemi di fondo ci sono sempre stati e rimasero.

Lei quando decise di lanciare Domina vacanze?

Nel 1988, quando ebbi modo di conoscere un personaggio molto competente. In realtà era un uomo scaltro, molto abile nella vendita, a tutti i costi, di multiproprietà. Una formula di per sé interessante perché prevede per le famiglie la possibilità di acquistare uno

Bi-Invest, la prima scalata

39

o più millesimi di strutture alberghiere in posti generalmente molto belli, che non si potrebbero permettere. Contemporaneamente ottengono il diritto di utilizzare una camera o una suite per un certo periodo dell’anno. Il limite possono essere i costi di distribuzione e di gestione, che possono risultare molto elevati.

Su quali località puntò?

Acquistammo proprietà importanti a Corvara, Portofino, Cortina, Positano, Courmayeur. E iniziammo a vendere nel 1989, con buon successo. I punti deboli erano la richiesta delle reti di vendita, che pretendevano di riservare l’albergo soltanto a chi aveva acquistato le multiproprietà, e le perdite della ristorazione, perché il numero dei comproprietari che utilizzavano il servizio era molto limitato, mentre noi dovevamo pagare il personale anche in assenza di clienti. Nel primo caso, soprattutto, gli alberghi erano troppo spesso mezzi vuoti e così producevano perdite certe. Cercai di rimediare imponendo una gestione che fosse parzialmente indipendente dalla comproprietà. Per quanto riguarda la ristorazione, il segreto dell’innovazione che introdussi è semplice: i clienti pagano il personale di servizio nelle spese condominiali. Ciò significa che possono mangiare a costi molto più bassi. Risultato: funziona benissimo e, per esempio, a Cortina, dove eravamo sempre vuoti, al ristorante dovemmo istituire tre turni per i pasti.

Cercò alleanze?

Il figlio di Eugenio Cefis, Giorgio, era interessato. L’ho incontrato più volte, anche a Parigi. Ma, alla fine, senza risultato.

Bilancio della sua attività nel settore?

I risultati non sono particolarmente eclatanti, ma va tenuto conto del difficile momento del Paese. In alcuni momenti, per la verità si è rischiato di far andare la società a picco. Poi abbiamo perfino rilanciato acquistando belle proprietà tra cui la grande iniziativa di Zagarella, in Sicilia.

Contemporaneamente all’attività nell’immobiliare ripartirono i suoi investimenti in Borsa. In che modo?

Avevo capito che era necessario cambiare completamente il modo di affrontare Piazza Affari. Fino a quel momento la formula

40

Bi-Invest, la prima scalata

per avere successo era semplice: acquistare un titolo nella speranza che qualcuno più fesso di me lo comprasse a prezzi superiori.

Non era poi così facile. Anche perché andava tenuto conto di un fatto: la Borsa era diventata un qualcosa di molto diverso.

In che senso?

I volumi scambiati erano aumentati enormemente. E questo aveva conseguenze importanti: l’era Ravelli, quando con quattro soffiate si riusciva a indirizzare il mercato, era finita. Ecco perché era necessario cambiare strategia.

Come lo fece?

Introducendo un doppio step di valutazione dei titoli da comprare: la selezione di quelli sottovalutati e la contendibilità. Un fatto fondamentale, a tutti facile da capire, era la capacità di valutare un titolo quotato e di verificare l’eventuale, grande differenza con il valore di mercato. Concetto semplice ma applicazione difficile.

Perché?

Come valutare titoli di società industriali che magari hanno speso fortune per costruire catene di montaggio totalmente inutili nel caso di crollo dei mercati o per l’arrivo di nuove tecnologie che potrebbero rendere obsoleti gli impianti esistenti? In altri casi, invece, le valutazioni erano molto più agevoli. Per esempio nel caso delle società immobiliari o, meglio ancora, delle banche. Di conseguenza, identificai un titolo a rischio zero, il Credito Fondiario, che finanziava acquirenti di case ponendo ipoteche di primo grado e concedendo al massimo il 60 per cento del valore dell’appartamento stesso. In pratica il business era a rischio zero.

Provò a rastrellarlo?

Lo feci. Il titolo quotava il 20 per cento meno dei mezzi propri!

Senza contare il valore di avviamento dell’attività. Cominciai ad acquistarne e arrivai presto a quota 5 per cento. Una posizione su cui rimasi incagliato per parecchio tempo.

Come mai?

La verità è che il 5 per cento del Credito fondiario non interessava a nessuno, per il semplice motivo che il 65 per cento dell’istituto era controllato stabilmente, e a nessuno interessava aumentare

Bi-Invest, la prima scalata

41

tale partecipazione. Diverso sarebbe stato se l’azionista di maggioranza avesse avuto solo il 20 per cento. In pratica avevo scoperto il valore del secondo step di valutazione necessario prima di lanciare una operazione di Borsa: la selezione dei titoli secondo la loro contendibilità o scalabilità.

Passò dal dire al fare?

Ovviamente. La necessità era di trovare titoli sottovalutati, con un certo grado di stabilità e contendibili. E la mia attenzione si rivolse ai titoli bancari. Già a metà degli anni Ottanta avevo ipotizzato di puntare sul Credito Romagnolo. Ma non ne feci nulla. Non ritenevo di essere maturo per un’iniziativa del genere ma avevo visto giusto, come confermò il fatto che la fece l’Ingegnere.

Gli istituti di credito venivano valutati in caso di acquisizione dei pacchetti di maggioranza sommando al valore dei mezzi propri il 12-15 per cento dei depositi. Non solo. Le banche, se non erano di grandissima dimensione, avevano sempre dei compratori probabili delle partecipazioni rilevanti. Anche perché le grandi banche italiane erano gestite da manager che, nel caso di acquisizioni, allargavano il proprio potere personale senza alcun problema perché spendevano i soldi degli azionisti. Alla fine della ricerca il risultato delle analisi fatte fu chiaro: le azioni più interessanti erano quelle quotate al Mercato Ristretto. Ricordo perfino che acquistai un libricino che si chiamava “Guida al Mercato Ristretto”.

Vi erano ben evidenziati i numeri delle banche quotate e i relativi pacchetti di controllo. Lo esaminai attentamente durante un lungo viaggio verso Singapore. Così ebbi modo di elaborare una lunga lista di prede possibili.

Può citarne qualcuna?

In cima all’elenco c’erano Banca del Friuli, Banca Popolare di Lecco, San Giminiano e San Prospero, Credito Bergamasco, più una serie di banche popolari minori. Tutte erano l’ideale per essere rastrellate in Borsa. E io l’ho fatto, anche se in molti casi neppure si è saputo.

Ci aveva preso gusto?

Devo ammetterlo. Ero nelle condizioni ideali: forte liquidità di-

42

Bi-Invest, la prima scalata

sponibile, convinzione che fosse nata una nuova era di Borsa di cui potevo essere protagonista, un discreto numero di prede individuate.

Quale fu la prima mossa?

Tornato a Milano da Singapore andai da Piccini, quello della BiInvest, per chiedergli informazioni su qualche titolo bancario. Lui mi segnalò la Popolare di Lecco ma, per cominciare, decisi un altro obiettivo: la Banca del Friuli. I titoli di quella banca si compravano bene, anche fuori mercato, a livello locale. In poco tempo avevo rastrellato un pacchetto di qualche rilevanza. E decisi d’incontrare, ben presentato, la Cecilia Danieli, di Udine, passaggio obbligato per qualsiasi operazione di rilievo da quelle parti.

Come reagì?

La reazione iniziale fu di grande interesse. Poi però preferì lasciar perdere e spiego il perché: si considerava parte del sistema di comando in quel territorio e non riusciva ad immaginare sé stessa coinvolta in una battaglia che ne avrebbe cambiato gli assetti. Allora bussai alla porta di un altro esponente di spicco dell’imprenditoria: Gilberto Benetton. Lui disse subito di sì, con un certo entusiasmo, e mi fece contattare dal suo uomo di fiducia.

Andò tutto come previsto?

Mica tanto. Sembrava che tutto funzionasse. Poi, ad un certo punto, arrivò il contrordine: “Non se ne fa nulla”, mi dissero. Inutile dire che rimasi veramente sorpreso.

Cos’era successo?

Non impiegai molto a capirlo. In realtà continuarono a rastrellare titoli. Ma con una sostanziale differenza: acquistavano per conto loro. Lo scriva pure. È finita che la Banca del Friuli è stata scalata e la plusvalenza su un’idea mia se la sono intascata loro. Ho potuto però consolarmi perché anch’io ho guadagnato bene, rivendendo il 2 percento che avevo raccolto.

Altra liquidità disponibile per la seconda scalata ad una banca quotata al Ristretto. Quale finì nel mirino?

La Popolare di Lecco, quella consigliata da Piccini, che era davvero appetibile. Aveva 250 miliardi di mezzi propri e una sessantina

Bi-Invest, la prima scalata

43

di sportelli, tutti nella zona più ricca d’Italia, tra Varese, Como, Lecco e Bergamo, con sportelli anche a Milano e Roma.

Quando cominciarono le grandi manovre?

Sempre nel primo semestre 1986. La BPL di popolare aveva conservato soltanto il nome. Per il resto era una società per azioni come tante altre, sia pure con uno statuto particolare che stabiliva limiti ai voti che ogni titolare di azioni poteva esprimere in assemblea. In pratica il management della banca deteneva un grande potere, anche perché i piccoli azionisti non partecipavano mai in misura consistente all’assemblea. Più esattamente il presidente della banca, Giancarlo Bellemo, che ne era il vero padrone, possedeva soltanto il 12 per cento, ma la controllava utilizzando le deleghe raccolte prima delle assemblee agli sportelli dell’istituto.

Quanto capitale riusciva a convogliare in assemblea?

Avevo verificato che era in grado di raccogliere al massimo un 35 per cento, un livello comunque difficile da scalzare. Tuttavia, se un altro azionista fosse riuscito, senza rivelarsi, a raccogliere una partecipazione del 25-30 per cento, Bellemo si sarebbe trovato in difficoltà perché i piccoli azionisti si sarebbero divisi e presumibilmente si sarebbero schierati almeno in parte con la nuova forza. Anzi, la prospettiva di raddoppiare il valore delle azioni incassando una grossa plusvalenza avrebbe permesso allo scalatore di raccogliere molte partecipazioni, più di coloro che detenevano il controllo della banca e potevano ottenere in cambio soltanto la promessa di entrare in consiglio di amministrazione, ovviamente spendibile soltanto con un numero ristretto di soci.

Quindi la sfida era di contare sull’effetto sorpresa raccogliendo un pacchetto rilevante di titoli senza insospettire il management…

Proprio così. Un altro aspetto che complicava la scalata era il fatto che i titoli della BPL non circolavano per libera girata, come accade per quasi tutte le Popolari. Lo statuto prevedeva la cosiddetta clausola di gradimento, che teoricamente dava al consiglio di amministrazione la possibilità di negare l’iscrizione al libro soci, cioè la possibilità di votare in assemblea. Ciò poteva avvenire sen-

44

Bi-Invest, la prima scalata

za giustificato motivo ma solo in quanto il nuovo azionista era sgradito alla compagine societaria. Questo era illegale, ma rivolgersi all’autorità giudiziaria poteva significare perdere anni. In più, i certificati per l’iscrizione a libro soci non circolavano per libera girata ma, ogni volta, venivano annullati e ne venivano riemessi di nuovi a nome dei nuovi azionisti che avevano ottenuto il gradimento del consiglio. Un sistema che permetteva al management di conoscere tutti i compratori e i venditori dei titoli della banca.

Come organizzò la scalata?

L’unico modo era intestare i titoli a un numero molto elevato di soggetti che avrebbero presentato le domande di iscrizione tramite intermediari diversi, naturalmente coordinati da una sola persona.

Tutto qui?

Ci fu un’altra carta vincente. Bellemo aveva creato un fondo acquisti azioni proprie per circa 10 miliardi di lire. Serviva a sostenere i valori del titolo, terribilmente depressi. La sua intenzione era di liquidarlo per evitare di evidenziare in bilancio che il 2-3 per cento del capitale era stato acquistato dalla banca stessa. Non era una operazione presentabile. L’opportunità era favolosa.

Come si mosse?

L’operazione era tutt’altro che facile, ma cominciai ad acquistare le azioni e a intestarle ai miei clienti. Le comprammo intorno alle 9 mila lire, che corrispondevano ad una valutazione della banca inferiore ai mezzi propri.

Quanto valeva il titolo?

Avevamo calcolato circa 18 mila lire per il pacco di maggioranza. Era chiaro però che se la scalata fosse fallita i titoli raccolti non avrebbero potuto essere venduti, perché il mercato non li avrebbe mai assorbiti.

Chi ne era al corrente?

Naturalmente non potevo mettere al corrente i miei clienti, né i miei collaboratori. In tal caso, la scalata sarebbe diventata nel giro di poco tempo di dominio pubblico e sarebbe sicuramente fallita.

L’operazione aveva un nome in codice?

Certo, l’avevo chiamata “Operazione Urania”, e in codice il tito-

Bi-Invest, la prima scalata

45

lo della Popolare di Lecco era diventato “Urania”.

Come presentò la scalata ai suoi collaboratori?

Spiegai che stavamo iniziando una avventura diversa: il tentativo era di scalare una banca e c’erano grandi probabilità di riuscita.

Caricai un po’ tutti e ci riuscii bene, perché è una delle mie doti migliori. Il mercato continuava ad essere depresso e, come base di partenza, riuscimmo a raccogliere il 3-4 per cento del capitale, ad una velocità di raccolta intorno al 10 per cento l’anno. L’obiettivo iniziale era di raggiungere quota 15 per cento, un pacchetto che ritenevo interessante e tale da indurre Bellemo a trattare con me per trovare un accordo soddisfacente per entrambi.

Partecipò ad assemblee dell’istituto?

Nell’aprile 1987, per rendermi conto chi fosse il nemico e, senza esserne azionista, mi intrufolai nell’assemblea di approvazione del bilancio. Vi parteciparono circa 250 azionisti, che rappresentavano il 33 per cento della società e tutti votarono a favore dando l’impressione di grande unità.

Tutti guidati da Bellemo?

Esattamente. Mi parve come un nobile signore e mi dissi che dovevo sforzarmi di iniziare a odiarlo.

Cercò anche un rilevatari?

Non ho mai creduto che fosse difficile trovare una banca acquirente del pacchetto di maggioranza della Popolare di Lecco. Il problema era un altro: il via libera della Banca d’Italia, decisamente contraria a qualunque operazione di mercato che mettesse in discussione gli equilibri consolidati di controllo dei gruppi bancari.

Nonostante ciò, cominciai a guardarmi intorno. Proprio in quel periodo avevo conosciuto il direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano, Pierdomenico Gallo, che mi sembrò persona affidabile e, un po’ alla volta, cominciai a parlargli della possibilità di acquisire, eventualmente, altre banche. Lunghi colloqui, in cui cercai di capire quali erano le loro esigenze e i loro interessi.

Quale fu la reazione?

Intuì che la Lecco era sicuramente qualcosa di molto appetibile, ma riteneva assolutamente impossibile che qualcuno potesse of-

46

Bi-Invest, la prima scalata

frirgli una partecipazione consistente di azioni della banca.

Io gli spiegai che controllavo già il 12 per cento e che sarei arrivato con facilità al 15 per cento. Entrai nei dettagli della operazione e, finalmente, lui mostrò il suo reale interesse. Ci lasciammo con il sottoscritto che gli chiese riservatezza assoluta, di non parlarne con nessuno anche all’interno del suo stesso istituto, nell’attesa che arrivassi alla soglia di almeno il 15 per cento. Parlammo anche di prezzo, inizialmente 18 mila lire, poi arrivammo a 20 mila lire.

Intanto il titolo era lievitato intorno alle 12-13 mila lire, ma era comunque un business interessante.

Può ricordare perché?

I miei clienti che avevano comprato a 9 mila lire avrebbero potuto rivendere i titoli dopo un periodo di pochi mesi o al massimo un anno e mezzo a 18 mila lire, guadagnando il 100 per cento dell’investimento, in un momento in cui il mercato azionario stava perdendo il 50 per cento.

Come proseguì l’operazione?

Nell’agosto 1987 ero arrivato al 13-14 per cento, ma arrivò la sorpresa.

Quale?

Sui giornali lessi che Gallo aveva l’intenzione di abbandonare il Nuovo Banco Ambrosiano e assumere l’incarico di vicedirettore generale della Banca Nazionale del Lavoro. Gliene chiesi la ragione, senza peraltro ottenere risposte convincenti. Questo episodio mi lasciò piuttosto turbato perché, andandosene Gallo, io avevo perso il rilevatari. Allora gli chiesi di parlarne con Giovanni Bazoli, presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, che io non ho mai conosciuto. Così avvenne e, incredibilmente, dopo quel colloquio, il titolo iniziò a salire.

Da dove arrivavano gli ordini di acquisto?

Gli ordini arrivavano tutti da Brescia, città dove Bazoli non solo è nato ma vive e fa affari. Il mio sospetto è che qualcuno vicino a lui possa avere pensato: “Noi comperiamo. Così, quando Preatoni venderà il suo pacco, ci aggiungiamo il nostro, con una bella plusvalenza.” Era un’operazione decisamente scorretta, e mi fece

Bi-Invest, la prima scalata

47

entrare fortemente in crisi. Io acquistavo spuntando prezzi interessanti perché rastrellavo titoli che eventualmente arrivavano sul mercato. Loro si erano messi a fare denaro, cioè a comprare, in modo pauroso, e la quotazione del titolo si era messa a crescere rapidamente. Ero in mezzo al guado. Avevo raccolto una partecipazione che non potevo più vendere sul mercato perché avevo troppe azioni ma, per contro, erano troppo poche per rappresentare un pacco di titoli decisivo. Mi ero accorto, tra l’altro, che il 15 per cento a cui tendevo era troppo basso. Il traguardo doveva essere spostato al 20 per cento.

Come reagì?

Dovevo togliermi di torno i rastrellatori bresciani. E feci come avrebbe fatto l’Aldo Ravelli, giocai di furbizia. Ravelli era un maestro del depistaggio e nell’indurre le controparti a cadere nei tranelli, portandole a fare esattamente quello che per lui era più conveniente. Andai a Roma, parlai con Gallo e buttai lì che non avevo tutte le azioni di cui avevo parlato, che erano soprattutto semplici diritti di prelazione e che, quindi, ero molto preoccupato. Poi aggiunsi che non stavo più comprando e che, anzi, stavo prendendo in considerazione la vendita dei titoli sul mercato.

Conseguenze?

Sarà stato un caso, ma partirono vendite significative e il titolo ridiscese verso le 12 mila lire ad azione.

Brindò?

Lo feci ricominciando a comprare e riprendendo la scalata. Nel frattempo avevo deciso di raddoppiare la posta, mettendo sotto tiro anche un’altra banca: il Credito Bergamasco, che aveva come socio di riferimento la Curia di Bergamo, a cui faceva capo il 4 per cento circa del capitale. Il Creberg aveva molti punti in contatto con la Popolare di Lecco e, in particolare, capitalizzava poco meno del valore dei mezzi propri. In più, perlomeno in apparenza, sembrava scalabile più facilmente.

Per quale motivo?

Non aveva statuti particolari e, soprattutto, non aveva azionisti di riferimento se non psicologici.

48

Bi-Invest, la prima scalata

In pochi mesi raccolsi un pacco del 3-4 per cento, quanto bastava per impostare l’operazione.

In quel periodo cambiarono le regole di funzionamento del Mercato Ristretto. Fu un vantaggio oppure uno svantaggio? È stato un colpo di fortuna vero. Il mercato Ristretto passò da una cadenza settimanale all’apertura quotidiana, raddoppiando le quantità trattate. In più mi inventai uno stratagemma veramente formidabile.

Quale?

Convinsi Giuseppe Decio, un collaboratore che lavorava al Creberg e che avevo conosciuto poco tempo prima, a farmi da spalla nel rastrellamento. Naturalmente neppure a lui dissi che stavo scalando la Popolare di Lecco. Era un pacchetto di titoli, gli raccontai, che stavo mettendo insieme su richiesta di altri.

Che cosa avevate architettato?

Un depistaggio clamoroso. Decio si rivolse ai livelli più alti della Popolare di Lecco, disse che aveva clienti che avevano disinvestito dalla Borsa principale e avevano liquidità da investire. Parte l’avevano impiegata nell’acquisto di titoli del Creberg ma, spiegò, ne era ancora disponibile una parte significativa. E propose di convogliarla sull’investimento in titoli della Lecco.

Abboccarono?

Completamente. Il problema era trovare ogni volta nominativi nuovi, possibilmente bergamaschi per rendere credibile il tutto, a cui intestare i titoli. Soltanto in seguito informai Decio della scalata e aggiunsi che, secondo me, una banca a cui poteva interessare il pacco della Lecco poteva essere proprio il Credito Bergamasco.

Fu d’accordo?

Mica tanto. Si mostrò molto scettico in quanto sosteneva che il management del Creberg non avrebbe mai avuto la capacità di prendere una decisione simile. Il presidente era l’onorevole Giovanni Giavazzi, democristiano, un uomo prestato dalla politica che di banche capiva veramente poco. I vicepresidenti erano due: il professor Tancredi Bianchi, che in teoria era un esperto di banche ma invece era solo un bravo professore, e il commendator Gnutti,

Bi-Invest, la prima scalata

49

imprenditore siderurgico bresciano e persona di buon senso ma anche lui non sufficientemente pratico in campo bancario. Decio accettò di fare la sua parte e mi presentò don Aldo Nicoli, il vicario della Curia bergamasca, con cui riuscii a stabilire fin dall’inizio un buon rapporto.

Qualcuno lo chiamava il Marcinkus di Bergamo, sottolineando così un tratto comune con il numero uno dello Ior, l’Istituto vaticano, all’epoca l’alleato migliore del Banco ambrosiano di Roberto Calvi. Don Nicoli gli somigliava davvero?

Ma no, mi sembrò invece perfino un po’ sprovveduto. Di sicuro si entusiasmò all’idea di partecipare alla scalata della Popolare di Lecco e poi all’idea di portare il pacco di azioni al Creberg. L’operazione gli parve subito molto, molto allettante. Si dette da fare, ma ho sempre avuto l’impressione che partì male, sbagliando i calcoli.

Sbagliando i calcoli?

Proprio così. Mise uno zero in più e annunciò l’intenzione di acquistare titoli per 2 miliardi e mezzo di lire invece di 250 milioni.

Probabilmente dopo una settimana si rese conto dell’errore, ma non ebbe il coraggio di tornare indietro e li comprò davvero. Si trattava di una somma davvero importante e, in quel momento, ci faceva veramente comodo. Infatti il serbatoio dei miei clienti tradizionali era ormai saturo. In media avevano investito in titoli della Lecco dal 25 per cento al 60 per cento dei loro portafogli.

Per questo occorreva cercare in continuazione del denaro nuovo e la disponibilità data da don Nicoli rappresentava manna dal cielo, anche se naturalmente non bastava.

Qual era il ritmo degli acquisti?

Si era notevolmente accelerato. Ogni settimana dovevo trovare 4-5 miliardi nuovi di clienti, possibilmente bergamaschi, che acconsentissero all’acquisto dei titoli di una banca che stavano scalando ma di cui non conoscevano il nome.

Messa così sembra una operazione impossibile…

Senza dubbio. Ma io sono convinto di un fatto. Nella vita tutti gli ostacoli possono essere superati. Ad una condizione: grande concentrazione e grande determinazione.

50

Bi-Invest, la prima scalata

Possibile che il vertice della Popolare di Lecco non sospettasse nulla?

In effetti cominciavano ad avere forti dubbi, anche se io cambiavo molto spesso gli agenti di cambio tramite i quali passavano gli ordini di acquisto. E non poteva essere diversamente, perché veniva assorbita qualunque partita di titoli offerta sul mercato. Ma trovarli diventava sempre più difficile. Ricordo le urla di entusiasmo del sottoscritto e dei miei unici due collaboratori a conoscenza dell’operazione tutte le volte che riuscivamo a raccogliere partite rotonde.

Ad un certo punto, verso fine 1987, cominciarono ad uscire i primi articoli sui giornali…

Si, ma Bellemo, il presidente della Lecco, non credeva alla possibilità di una scalata. Avevamo lavorato bene e non sembrava possibile che 350-400 persone nuove a libro soci potessero essere coordinate dalla stessa persona, cioè il sottoscritto. Al contrario riuscimmo a raccogliere il 23-24 per cento. A quel punto con Decio e don Nicoli concordammo di offrire la partecipazione al Credito Bergamasco. E così facemmo, tramite un intermediario.

Quale fu la reazione?

All’inizio sembrò che accettassero. Il prezzo concordato era di 24 mila lire, comunque formidabile. Tutto sembrava filare liscio.

L’assemblea della Popolare di Lecco si tenne il 5 marzo 1988, io partecipai confuso in mezzo ai numerosi azionisti presenti, 400-500 persone. Però mi identificarono e ricordo che erano in parecchi ad additarmi come lo scalatore. Bellemo fece finta di niente e non accadde nulla di significativo. Ricordo che al termine, in un bel fine pomeriggio di primavera, feci pure una passeggiata. Casualmente passai con un collaboratore davanti allo sportello della Popolare di Lecco in via Mercanti, a Milano. La scritta recitava: “Banca popolare di Lecco fondata nel 1872”. E il mio collaboratore con un pennarello aggiunse: “e affondata nel 1988”. Mi presi perfino una settimana di vacanza per smaltire lo stress. Invece le cose andarono diversamente.

Bi-Invest, la prima scalata

51

Non dire gatto finché non lo hai nel sacco…

Appunto. Il giorno successivo dovevo vedere il vertice del Creberg per chiudere formalmente l’operazione. L’incontro non ci fu.

Al suo posto venne a trovarmi don Nicoli, stravolto, e disse che non se ne faceva assolutamente nulla. Giavazzi gli aveva detto che noi non avevamo in mano niente, solo un pugno di mosche, e che ce l’avrebbero fatta pagare per il tempo e la credibilità persa.

E lei?

Ero sconvolto anch’io. Non me lo aspettavo e c’era il rischio di reazioni estremamente negative nei nostri confronti. Anche da parte dei clienti. Trovai la forza di reagire immediatamente e dissi a don Nicoli che sicuramente avremmo trovato un altro compratore e che non dovevano preoccuparsi più di tanto. In realtà, tornando in macchina a Milano, confesso che ero distrutto e avevo quasi voglia di piangere.

Quale fu la contromossa?

Invece di andare a casa tornai in ufficio e rimasi lì un paio d’ore a pensare. Dopo, nel pomeriggio, convocai la riunione degli associati, cioè i collaboratori che mi avevano aiutato a trovare il denaro da investire. Raccontai quanto successo e indicai la strada da seguire: raddoppiare gli sforzi, raccogliere altro denaro e comprare altri titoli. Più la partecipazione diventava rilevante e più facilmente sarebbe stata collocabile.

Reazione?

Mi guardavano esterrefatti. Naturalmente il primo ad essere perplesso e preoccupato ero io. Stavo bluffando pesantemente.

Dentro di me sentivo la morte nel cuore. Però così dovevo fare e così feci. Decisi una serie di incentivi per gli associati e ripartimmo alla caccia di clienti. Ormai potevamo raccontare come stavano le cose e di che titolo si trattasse.

Ma cos’era successo? Perché lo scenario cambiò in modo totalmente imprevisto?

Il vero problema era la Banca d’Italia che ci aveva messo i bastoni tra le ruote, e continuò a farlo con tutti quelli a cui ci rivol-

52

Bi-Invest, la prima scalata

gemmo.

Perché?

Giudicava l’operazione scandalosa. Com’era possibile che qualcuno osasse scalare una banca? Costui, dal loro punto di vista, andava punito.

Come rimediò?

Avevo conosciuto l’allora numero due della Consob, Pazzi. Gli spiegai l’operazione e gli chiesi consiglio. Mi disse di farmi rappresentare da un bravo avvocato e, allo scopo, mi presentò Ferro-Luzzi, molto stimato in Bankitalia, che ricorreva a lui quando doveva nominare un commissario, nei casi in cui le banche si trovavano in situazioni di rischio.

Ferro-Luzzi accettò volentieri?

Non credo proprio. Lo fece soltanto perché sapeva che Pazzi voleva dire un certo tipo di potere politico.

Diciamo un nome: Giulio Andreotti.

Diciamolo.

Quale fu il suo impatto con Ferro-Luzzi?

Mi presentai al primo colloquio, gli spiegai l’operazione e lui mi sembrò un po’ scettico.

Riuscì a capire perché?

Pochi giorni dopo. Ci rivedemmo e me lo disse chiaramente: Banca d’Italia aveva avuto una reazione estremamente negativa.

La posizione di Bankitalia era chiara: “Scalare le banche è un’eresia”. E io di rimando: “Figurarsi se rinuncio”. E ancora: “Io sono un eretico e andrò avanti, fino in fondo.” Sempre secondo Ferro-Luzzi, Preatoni in Banca d’Italia era visto come un delinquente e Bellemo aveva riferito loro che eravamo personaggi equivoci, che riciclavano denaro della mafia. Balle colossali.

Dicono che dietro le grandi fortune accumulate rapidamente ci siano sempre comportamenti illegali. Cosa risponde?

Può anche essere ma nel mio caso non è così. Al massimo un po’ di furbate.

Accuse pesanti…

Naturalmente Bellemo aveva raccontato una serie di menzogne

Bi-Invest, la prima scalata

53

per convincere la Banca d’Italia ad ostacolarmi in qualsiasi maniera.

E Ferro-Luzzi cosa fece?

Si mostrò incerto ma, alla fine, accettò di collaborare con noi senza neppure concordare quello che avrebbe dovuto essere il suo onorario.

Per quanto riguarda la parte legale quali erano i punti controversi?

Soprattutto due: il blocco dell’iscrizione al libro soci di gran parte dei nostri clienti e in particolare il rifiuto dell’iscrizione di una di loro, la signora Vittorina Giorgelli, con la motivazione che come casalinga non poteva possedere denaro sufficiente per acquistare i titoli della Lecco. Bellemo riuscì anche a far pubblicare un articolo sul quotidiano “La Notte”, notoriamente scandalistico, una pagina intera sulla casalinga che scalava la banca. In entrambi i casi ci rivolgemmo alla magistratura. Per quanto riguarda la Giorgelli avevano scelto male: era notevolmente ricca ed era dimostrabile facilmente. In più, sia lei che il marito, dimostrarono un grande “sense of humor”. Il mio timore era di carattere fiscale. Temevo che la clientela si spaventasse. A nessuno, infatti, fa piacere che il suo nome venga messo in evidenza come possessore di patrimoni consistenti.

Quale fu la vostra risposta legale?

Partimmo lancia in resta per ottenere l’iscrizione della Giorgelli a libro soci con provvedimento d’urgenza e il pretore di Lecco, contrariamente alle mie paure, già in primo grado ci concesse tale facoltà. Non fu così semplice per quanto riguarda l’iscrizione a libro soci di tutti gli altri. Ma alla fine trovammo il grimaldello giusto: l’azione civilistica nei confronti di tutti gli amministratori della Lecco, solidalmente, per i danni che ci avevano provocato impedendo di fatto la vendita dei titoli acquistati. Negando l’iscrizione a libro soci e, di conseguenza, non consegnandoci i titoli, gli amministratori della banca impedivano la vendita della partecipazione raccolta. Il danno che avevamo calcolato e di cui chiedevamo il rimborso era ingente: 65 miliardi di lire, che rappresentavano un deterrente

54

Bi-Invest, la prima scalata

di carattere straordinario.

Lo fu?

Venni a sapere di riunioni formali e informali del consiglio di amministrazione in cui Bellemo veniva continuamente sollecitato affinché trovasse un accordo con noi. Ma la strategia del presidente era di prendere tempo. Un po’ perché tendenzialmente non prendeva mai decisioni, un po’ perché credeva che dopo il no del Credito Bergamasco all’acquisto dei titoli della Lecco ci saremmo sciolti come neve al sole. Sotto svariati aspetti Bellemo era un avversario comodo: quando c’era da combattere preferiva stare in seconda fila. Tale aspetto del suo carattere si rivelava allo stesso tempo pericoloso, perché la sua indecisione non ci permetteva di raggiungere l’accordo sulla cessione del pacchetto.

Chi cedette per primo?

Ne dubita? Tra Aprile e Maggio Bellemo prese contatto con noi perché impaurito dall’acquisto continuo di titoli da parte nostra.

Il presidente della Lecco temeva che andassimo troppo avanti nella scalata e che quindi, il giorno in cui avessimo raggiunto la maggioranza assoluta oppure una partecipazione particolarmente importante, il suo pacchetto sarebbe diventato invendibile. Finita la scalata i volumi di compravendita erano destinati a diminuire terribilmente, i prezzi pure e una eventuale vendita di titoli poco per volta sul mercato sarebbe risultata praticamente impossibile.

Il contatto iniziale avvenne con una telefonata a un altro mio avvocato, Vittorio Galvano. Ricordo che mi chiamò e, giustamente trionfante, mi disse: “Caro Ernesto, quelli di Lecco incominciano a calare le braghe!”

Tutto risolto?

In realtà cominciò un lungo balletto. Bellemo, di carattere, cercava sempre di rinviare le decisioni. Io, anche se non lo dimostravo, ero arrivato al limite delle mie risorse, sia fisiche che monetarie.

Il giorno del possibile accordo finale eravamo arrivati a definire i dettagli dell’intesa, con cui concordammo il prezzo di vendita delle azioni, la cessione dei rispettivi pacchetti e perfino la sua permanenza alla presidenza. Ad un certo punto sembrava fatta e Bellemo

Bi-Invest, la prima scalata

55

si ritirò con i suoi avvocati. Lui avrebbe scelto il destinatario finale, negoziando la presidenza e il prezzo di vendita anche delle sue azioni. Ma al ritorno, all’improvviso, si alzò e cominciò ad urlare: “No, non se ne fa niente. Il suo pacchetto lo compro io. Quanto vuole? Su, su, mi dica, quanto vuole? Lo compro io!” Ricordo che pensai di avere a che fare con uno squilibrato, con una persona assolutamente inaffidabile.

Quale fu la sua reazione?

Cercai per l’ennesima volta di ritrovare il filo dell’accordo. Poi, quando mi accorsi che era impossibile, lo aggredii a mia volta urlando “che lo avrei distrutto, fatto a pezzettini, che una persona del suo genere non meritava di occupare il posto dove stava.” E aggiunsi che di azioni ne avevo troppe più di lui per lasciarlo nel posto dov’era. La guerra, a quel punto, sarebbe stata totale.

E lui?

Molto impaurito, ma trovò la forza per reagire dicendo: “Sì, sì, va bene, ma io aspetterò passare il suo cadavere sulla sponda del fiume!”. Reazione tipica di chi, aggredito in modo così violento, come a volte mi succede di fare, non poteva stare in silenzio.

Conclusione?

Tornai a casa con il morale sotto i tacchi, anche se mi guardai bene dal darlo a vedere. L’unica soluzione, per l’ennesima vola, fu quella di andare avanti.

In che modo?

Iniziai a raccogliere firme per la convocazione dell’assemblea.

Ma non era così facile perché occorreva un quinto del capitale sociale, controllato da azionisti regolarmente iscritti a libro soci.

Avevamo dalla nostra il fatto che, dopo il ricorso in tribunale, Bellemo aveva iscritto gran parte dei nostri clienti a libro soci, ma raggiungere quota 20 per cento non era facile. Anche perché azionisti come la Curia di Bergamo e altri clienti non volevano assolutamente esporsi. Il vero deterrente furono la minaccia di dare battaglia sulle pagine dei giornali e una mia certa idea. Fino a quel momento avevamo mantenuto una linea di basso profilo e i giornali ne avevano parlato ma non troppo. Avevo preferito usare l’arma della

56

Bi-Invest, la prima scalata

stampa veramente come extrema ratio perché poteva risultare pericoloso. La banca è un organismo molto delicato e una risonanza troppo forte sui giornali avrebbe potuto mettere in allarme i risparmiatori, magari convincendoli a spostare i depositi in altre banche.

Meglio l’altra idea?

In effetti fu quella che sconvolse i piani di Bellemo. Decisi di prendere contatto con gli azionisti principali della banca per convincerli a darci mandato a vendere i loro titoli ad un prezzo molto elevato, superiore alle 20-21 mila lire. Il problema era come farlo.

Se lo avessi fatto troppo direttamente mi avrebbero sicuramente risposto di no. Trovai la soluzione. Mi feci presentare da Gallo il direttore del Nuovo Banco Ambrosiano di Lecco, e tramite lui presi contatto con alcuni azionisti che controllavano pacchetti significativi. Contemporaneamente risultò fondamentale l’accordo con il responsabile dell’ufficio titoli della Lecco, un ragioniere molto sveglio. E lo confermò, comprendendo al volo cosa gli conveniva fare. Ovviamente non poteva muoversi liberamente perché rischiava il licenziamento in tronco. Riuscì però a portarmi cinque, sei azionisti piuttosto importanti, che in totale valevano un altro 5 per cento del capitale. Queste persone non si sarebbero mai schierate pubblicamente contro Bellemo. Semplicemente, in caso di vendita, avrebbero ceduto parte o tutti i loro titoli assieme a noi.

Quale quota avevate raggiunto?

Il 37 per cento circa. Quello che sconvolse Bellemo, però, fu venire a sapere i nomi di alcuni degli ultimi azionisti coinvolti che avevano dato mandato a me. Evidentemente si sentì tradito.

E sul fronte Banca d’Italia?

Ferro-Luzzi stava lavorando bene, adagio adagio, anche grazie al fatto che ero andato molto avanti nella scalata e che obiettivamente Bellemo aveva perso molta credibilità. Tuttavia i tempi della Banca d’Italia erano lunghissimi. Per questo cercavo di forzare la mano e trovare alternative.

Quali?

Si presentò a casa mia Francesco Micheli, con una offerta decisamente poco allettante. Era la prima volta che lo incontravo ed

Bi-Invest, la prima scalata

57

ero un po’ disperato, ma gli risposi di no. Poi ebbi due colloqui con il gruppo De Benedetti e con Carlo De Benedetti personalmente.

Arrivammo abbastanza vicino alla conclusione. La mia impressione, però, fu sempre che De Benedetti non avesse il coraggio di comperare in proprio e avrebbe cercato il via libera della Banca d’Italia per acquistare tramite il Credito Romagnolo. Ma difficilmente lo avrebbe ottenuto perché aveva appena concluso una battaglia all’interno del Romagnolo molto cruenta, che gli aveva permesso di piazzare suoi uomini al vertice. Una battaglia che in Bankitalia non era stata molto gradita. In più non c’era accordo sul prezzo. De Benedetti offriva 20 mila lire per azione. A me non stavano bene.

Sarebbero state comunque remunerative, ma agli occhi di alcuni clienti avrei perso un po’ la faccia perché 21 mila lire erano un finale onorevole, mentre al di sotto era un prezzo troppo tirato.

Ci furono contatti con altri candidati?

Ricordo quelli con il vertice della Popolare di Lodi. In quel momento il numero uno era Mazza, poi sostituito dal suo principale collaboratore, Gianpiero Fiorani. Avevano una gran voglia di far diventare grande la Lodi. A tutti i costi. Perfino puntando alla Lecco, che all’epoca era più grande della Lodi. Me lo confessò lo stesso Mazza, in presenza di Fiorani. Erano disposti a comprare pagando i titoli anche 24 mila lire. Mazza disse: “Quello che spenderemo di più oggi lo ritroveremo tra qualche anno come asset della nuova banca”. Poi però sparirono nel nulla.

Chi sbloccò la partita?

Ricevemmo la visita di un funzionario della Banca Popolare di Novara, con cui avevamo rapporti di lavoro. Il loro amministratore delegato, Piero Bongianino, voleva incontrarmi. L’incontro ci fu anche se nel frattempo, come spesso accade, arrivarono altre novità da parte di un altro istituto di credito: il Banco Lariano.

Fino a quel momento nulla di decisivo, poi addirittura due pretendenti ben intenzionati. Cos’era successo?

Era chiaro che ormai Bellemo era crollato e, in particolare, che la Banca d’Italia aveva preso la decisione di abbandonarlo al suo destino mentre fino a quel momento aveva messo i bastoni tra le

58

Bi-Invest, la prima scalata

ruote a chiunque fosse seriamente interessato.

Mantenne tuttavia un atteggiamento contrario al Banco Lariano. La Popolare di Lecco era una banca privata e Bankitalia, secondo me incredibilmente, riteneva opportuno che restasse in tale ambito, mentre il Lariano faceva parte del San Paolo di Torino, un gruppo pubblico. In realtà il Lariano era una società per azioni esattamente come la Lecco, mentre la Popolare di Novara era una cooperativa. Quindi, a rigor di logica, sarebbe stato più congruente che finisse al Lariano. Ho l’impressione che abbia giocato un periodo decisivo il fatto che la Lecco, che popolare non era, pagasse le quote associative alla Associazione delle Banche Popolari.

Alla fine Banca d’Italia fu decisiva?

Si, come mi annunciò Ferro-Luzzi verso metà giugno 1988. La notizia per me era eclatante: via libera al Creberg perché avesse la possibilità in un certo periodo di tempo breve, al massimo due settimane, di acquistare la nostra quota. Banca d’Italia aveva due preoccupazioni: evitare più trattative contemporaneamente per impedirmi di giocare al rialzo e privilegiare il Credito Bergamasco che aveva chiesto per primo di acquistare il controllo della Lecco.

L’offerta arrivò?

No, e io non avevo dubbi. Ormai la partecipazione era arrivata quasi al 40 per cento e servivano tanti soldi, circa 300 miliardi di lire, troppi per il Credito Bergamasco.

A quel punto fu Bongianino ad avere voce in capitolo?

Sì, ma fu una trattativa durissima, che il presidente della Popolare di Novara condusse assolutamente da solo. Mi impressionò moltissimo. A me capitava spesso di condurre le trattative da solo, ma le controparti si facevano sempre assistere da commercialisti e legali in abbondanza. In particolare mi sembrava impossibile che Bongianino avesse il potere di decidere tutto da solo, in una banca di cui non era proprietario. Nelle cooperative nessuno poteva possedere oltre 30 mila titoli. E lui, di conseguenza, non poteva rappresentare un numero elevato di azioni. Lui, semplicemente, controllava carismaticamente il consiglio di amministrazione e il consiglio controllava l’assemblea.

Bi-Invest, la prima scalata

59

Che tipo era Bongianino?

Un vero leader, ma anche una persona spregiudicata. In seguito ha avuto problemi seri, perché si era fatto prendere la mano. Per esempio finanziando Parretti, il finanziere che tentò una scalata velleitaria all’americana Mgm. Ma l’errore più grave fu di non accorgersi dell’errore e di non fare marcia indietro. Andò avanti fino alle conseguenze estreme e ne finì travolto anche lui.

Come lo spiega? È difficile, molto difficile per la mente umana riconoscere i propri errori di fronte a tutta l’opinione pubblica.

Come andò la trattativa per la Lecco?

Inizialmente offrì 16 mila lire mentre io, dicendomi irremovibile, ne chiedevo 22 mila. In più pose la condizione che, prima della compravendita, l’assemblea della Lecco approvasse la fusione nella Popolare di Novara. Era possibile, ma ero del tutto contrario perché la battaglia assembleare avrebbe richiesto tempo, grandi energie e grandi imbarazzi. Concordammo che fosse prioritario l’accordo sul prezzo.

Quale fu il suo asso nella manica?

Avendo saputo che Bongianino aveva chiamato il professor Roberto Ruozi, allora rettore della Bocconi, per fare una valutazione della Lecco. Lo chiamai io stesso per il medesimo motivo. Il verdetto di Ruozi fu favorevole: 24 mila lire.

Evidentemente Bongianino aveva bisogno di questa valutazione per poter far valutare l’acquisizione dal Consiglio di Amministrazione. Ma la strada verso l’accordo era tutta in salita. Ebbi anche l’impressione che Bongianino volesse prima definire il prezzo, poi affrontare il confronto sul resto dell’accordo con l’intento di arrivare a una mediazione che gli permettesse di ottenere uno sconto.

Così giocai di anticipo e posi come condizione l’accordo complessivo sulla operazione, che non doveva prevedere neanche lontanamente l’assenso di Bellemo né l’assemblea della Lecco per la fusione nella Popolare di Novara. Aggiunsi che, in caso contrario, non ero disponibile a continuare la trattativa.

60

Bi-Invest, la prima scalata

E Bongianino?

Alla fine disse di sì.

Come finì per quanto riguarda il prezzo?

La trattativa fu più breve di quanto avessi immaginato e la variabile Ruozi ebbe la sua importanza. Nell’incontro decisivo, in una frazione di secondo, compresi che potevo concludere intorno alle 21 mila lire, che lui era disposto a pagare. A quel punto diventava decisiva la quantità dei titoli da consegnare e la scaletta dei tempi.

Con mio grande stupore mi disse che il 37% che io gli consegnavo non gli era sufficiente e che avrebbe voluto andare al minimo al 42% per sentirsi tranquillo del controllo dell’Assemblea. Quando sono fortemente sollecitato do il meglio di me stesso e, in una frazione di secondo, capii che potevo risolvere il problema avendo inoltre una grande possibilità di guadagno.

La mia proposta fu di consegnare subito il 37 per cento, e un altro 5 per cento entro 90 giorni. Questo perché? Il titolo in quel momento quotava sul mercato 13.000 lire ed era evidente che sarei stato nelle condizioni di guadagnare moltissimo e senza alcun rischio se avessi potuto acquistare a quei valori i titoli che avevo appena venduto a 21 mila lire.

Ma Bongianino non si insospettì?

All’inizio non capì perché volessi consegnare il 5 per cento nei mesi successivi. Io gli raccontai che avevo una serie di opzioni che avrei potuto far scattare solo in epoca successiva. Lui pretese 10 miliardi in deposito a garanzia della esecuzione completa del contratto. Garanzia che potevo dargli facilmente perché liquidando il 37 per cento sarei tornato molto liquido. Successivamente capì perfettamente che il sottoscritto non aveva il 5 per cento. Tuttavia, essendo un uomo di mondo e soprattutto persona che manteneva la parola data, non tornò più sull’argomento. Ricordo che il suo avvocato si complimentò per la mia velocità di pensiero e mi disse: “Basterebbero gli ultimi 10 mila pezzi che lei consegnerà per giustificare il mio onorario in questa operazione. Vorrei guadagnare nella vita quanto ha incassato lei grazie all’ultima parte dell’accordo.”

Bi-Invest, la prima scalata

61

A quel punto l’operazione era chiusa?

In teoria. Nella pratica furono ancora giorni di passione. Bongianino, che voleva arrivare alla maggioranza assoluta, intendeva comprare anche da Bellemo, che non prendeva decisioni. E io mi preoccupai moltissimo per i ritardi. Allora chiesi a Ferro-Luzzi di sensibilizzare Bankitalia che poi, in effetti, sollecitò Bongianino.

Quale fu l’ultimo atto?

Seppi che il 12 luglio avevano un consiglio di amministrazione. Così gli telefonai e dissi: “Troviamoci in mattinata, saltiamo la colazione e vediamo di metterci d’accordo prima del consiglio.”

Preso un po’ per il collo disse di sì. Nell’incontro discutemmo i particolari e mi cambiò un po’ le carte in tavola sulla consegna dei titoli. Pretese di avere subito, e cioè entro il 27 luglio, il 38 per cento, mentre noi controllavamo solo il 36,9 per cento. Ma alla fine accettammo perché capii che, al massimo, avrei strapagato i titoli mancanti comprandoli sul mercato. Alla fine accettai ottenendo però che i 90 giorni per consegnare l’altro 4 per cento diventassero 120 giorni. E portando il prezzo definitivo a 21.120 lire, grazie al calcolo degli interessi dalla data in cui avevamo raggiunto l’accordo, il 1 luglio. Restava il timore che slittasse ancora tutto per l’ennesima volta. Così mi inventai lì per lì che dovevamo andare a Torino, ma che al ritorno saremmo passati da Novara a riprendere il contratto firmato.

Tutto bene quello che finisce bene?

In realtà tornammo a Milano, passando a ritirare il contratto firmato qualche ora dopo. Restava una fase tecnica: la raccolta delle firme dei clienti che volevano vendere e il relativo deposito dei titoli. Mi sentii tranquillo la mattina del 27 luglio, quando la nostra banca ci disse che entravano sul nostro conto corrente 300 e rotti miliardi della vendita.

Era arrivato il momento del brindisi?

Festeggiai con mia moglie pochi giorni dopo. Andammo a Londra dove le misi a disposizione 100 milioni da spendere per qualunque acquisto, anche il più futile. Non riuscimmo a spenderli tutti.

62

Bi-Invest, la prima scalata

Evidentemente chi non è abituato a buttare via i soldi non ci riesce.

Ne spendemmo 42 in abiti, qualche argento e qualche altro oggetto.

Fu sicuramente un lungo week-end molto, molto speciale.

Attività sospesa?

Tutt’altro, almeno nei giorni in cui il mercato azionario era aperto. Telefonavo ogni giorno in Italia per acquistare 30-40-50 mila titoli della Lecco, che avevo la certezza di vendere a 21.120 lire.

A quanto le comprava?

Prezzo medio circa 13 mila lire. Segnalo che la differenza di 8 mila lire su 50 mila azioni voleva dire guadagnare 400 milioni al giorno. E per dare un termine di paragone ricordo che lo stipendio medio di un impiegato era, all’epoca, di 1 milione di lire al mese.

Profitto totale?

Circa 23 miliardi, esenti da imposte. Una somma importante.

Il mio patrimonio, prima della Lecco, era di 25 miliardi, di cui 15 investiti nella scalata e il resto rappresentato da patrimonio immobiliare.

Fu anche un bel rischio?

Se l’operazione fosse fallita, mi sarei trovato a fare un bel salto indietro.

Bravura o fortuna?

Ammetto che la fortuna ha giocato un certo ruolo. Ma la dote vincente, e questa è la morale della vicenda, non fu l’intelligenza e neppure l’audacia. Fu la tenacia, qualità che oggi è diventata ancora più importante e che è quasi totalmente assente nelle nuove generazioni. Lo ripeto spesso ai miei sette figli. La vita vi metterà in continuazione di fronte alla necessità di assumervi rischi e responsabilità. Farvene carico vi permetterà di superare ogni ostacolo.

Ricordatevi: chi non si arrende mai alla fine ha sempre ragione. E questa competizione è il vero sale della vita.

Altri insegnamenti per i figli?

Ai miei dico che il loro compito sarà di mantenere e consolidare le posizioni. Compito tutt’altro che facile. Quando non si ha, si ambisce ad avere. Quando si ha gli altri puntano ad avere quello che noi possediamo e, con ogni mezzo, leciti o meno leciti, tenteranno

Bi-Invest, la prima scalata

63

di togliervi quello che possedete. Poi aggiungo le parole seguenti.

Ricordate: anche se doveste perdere tutto, il peggio che vi possa capitare è quello di dover fare quello che ha già fatto vostro padre.

Grazie alla Lecco, e non solo, aveva ormai consolidato la fama di scalatore delle ricche banche provinciali…

Invece il bello doveva ancora venire. Vado molto fiero del caso Credito Bergamasco, la terza banca privata italiana, ben più importante della Popolare di Lecco. Come ricorderete, in epoca precedente, avevo analizzato tutte le Banche quotate e la più interessante mi era sembrata il Credito Bergamasco.

Frequentavo Bergamo per via delle mie iniziative immobiliari e conobbi un consigliere di amministrazione del Creberg. Mi spiegò che era un ambiente di stolti, perché era un istituto con grandi potenziali ma senza una visione imprenditoriale. L’azionista di riferimento era la Curia, che peraltro possedeva soltanto il 4 per cento.

Comandava grazie ad una partecipazione così limitata?

Certo, perché al momento di votare nelle assemblee tutti si rivolgevano alla Curia per fare la scelta giusta. Ecco perché finiva per eleggere il consiglio di amministrazione facendo il bello e il cattivo tempo.

Come si mosse?

Convinsi Don Nicoli a far nascere un sindacato di azionisti, cui aderirono i nomi più importanti di Bergamo e ne diventai presidente.

L’obiettivo era una nuova scalata?

Sicuramente sì ma non era confessabile poiché i bergamaschi a parole tenevano molto al controllo della Banca. Conoscendo però quanto sia importante il denaro per i bergamaschi, sapevo che al momento giusto non avrebbero resistito alla tentazione di vendere nel caso di una offerta ben superiore ai prezzi di mercato.

Quanto valeva la partecipazione controllata dal patto?

Puntammo alto. Io, insieme ai miei clienti, arrivai al 21 per cento. I bergamaschi, tra cui le più alte personalità cittadine, ne controllavano un altro 19 per cento. Andavamo d’amore e d’accordo, ma la banca era ferma. E a me non interessava tenere i soldi fermi per anni soltanto per il gusto di poter dire di essere un personaggio

64

Bi-Invest, la prima scalata

di spicco dell’istituto.

Chi era il presidente?

L’avvocato Giavazzi, per intenderci quello che aveva bocciato l’acquisto della Lecco. Giavazzi, quando seppe che ero io l’azionista di riferimento del Bergamasco, diede opportunamente le dimissioni avendo capito che non avrebbe avuto futuro. Al suo posto venne eletto Tancredi Bianchi, gran conoscitore di tecnica bancaria.

Le racconto un aneddoto. Una delle prime volte che partecipai ai consigli di amministrazione rimasi stupito. Ogni tanto, in pieno dibattito sulle scelte da fare, urlava: “McKinsey”.

McKinsey aveva fatto un rapporto sulle strategie future del Credito Bergamasco, rapporto che era costato 500 milioni di lire. Nella realtà McKinsey aveva scritto quello che Tancredi Bianchi voleva e 500 milioni erano stati inutilmente spesi solo per permettere a Tancredi Bianchi di imporre al consiglio le sue idee. Questi atteggiamenti erano per me completamente inaccettabili, per cui in accordo con altri azionisti decidemmo di sostituirlo alla presidenza con una persona sicuramente più ragionevole. Finì che al vertice della banca venne sostituito dal commendator Gnutti.

Erano consigli di amministrazione animati?

Tutt’altro. Mi sembravano una assoluta perdita di tempo. Pensi che nei momenti decisivi, quando si dovevano decidere mutui importanti e finanziamenti, ognuno parlava col vicino senza alcun interesse verso l’argomento trattato. Mi resi conto presto che non era l’ambiente adatto a me, ma non sapevo come uscirne. C’era Corrado Faissola, presidente del bresciano CAB, che bussava alla porta per la fusione della sua banca con il Credito Bergamasco.

Ma chiaramente voleva comandare lui. Era fuori dal mondo. Non aveva capito nulla. Non aveva capito che a me interessava soltanto una cosa: il capital gain.

Fino a quando?

Una sera a cena conobbi Guido Rossi, il professore, e parlammo a lungo. All’inizio in modo amichevole e informale. Poi cominciò a chiedermi del Credito Bergamasco e capii dove voleva arrivare. La conferma arrivò a fine serata, quando mi chiese d’incontrare insie-

Bi-Invest, la prima scalata

65

me persone di una banca importante.

Chi si presentò?

Uomini del Crédit Lyonnais, la seconda banca francese. Avevano le idee chiare: “Il Crédit Agricole (la prima banca francese, ndr) ha acquistato la partecipazione in un’altra banca italiana per entrare sul mercato”, dissero, “e noi non intendiamo essere da meno”.

Finalmente vedevo la via di uscita. Mi rendevo conto che era una grande opportunità.

Come decise di muoversi?

Non volevo entrare in conflitto con gli altri soci che probabilmente (a parole) non avrebbero gradito. Per questo mi mossi con una certa prudenza cominciando a parlarne con don Nicoli, che aveva logicamente delle perplessità. Anche gli altri azionisti avevano delle perplessità, ma io conoscevo i miei polli e quando si cominciò a parlare di prezzi (ben superiori a quelli di mercato) le perplessità cominciarono a diminuire.

Qual era l’offerta?

Il prezzo finale andava ancora stabilito, ma sicuramente sarebbe stato superiore alle 50 mila lire, mentre il titolo quotava 27-28 mila lire. Io consigliai di mettere in concorrenza i francesi con la Popolare di Novara. Per questo, d’accordo con don Nicoli, ne parlai con Bongianino.

Reazione?

Stupefatto. Prima mi aveva conosciuto in possesso del pacchetto di maggioranza della Popolare di Lecco. Poco tempo dopo tornavo da lui come possessore del Credito Bergamasco. Fu però troppo parsimonioso, arrivando a offrire 52 mila lire, non una Lira in più, nonostante la mia insistenza. Il Crédit Lyonnais, al contrario, era disposto a spendere 54 mila lire.

Lei che soluzione preferiva?

Certamente Bongianino. Sia perché contavo di cedergli per la seconda volta anche delle azioni che non possedevo guadagnando la differenza tra il prezzo di mercato e quello a cui vendevo, sia perché sarei probabilmente entrato nel consiglio di amministrazione della Popolare di Novara, acquisendo più lustro.

66

Bi-Invest, la prima scalata

Non finì così..

I bergamaschi, con mio grande stupore, avevano lavorato sotto banco per vendere ai francesi e non alla Popolare di Novara, come mi avevano fatto credere. Io possedevo la maggioranza del patto col 51 per cento ma, in una riunione degli azionisti aderenti al patto, arrivammo a votare e tutti i bergamaschi votarono in favore del Crédit Lyonnais. Io naturalmente votai in favore della Popolare di Novara. Finita la riunione don Nicoli mi disse che avrei potuto oppormi ma che sarebbe stata una guerra all’ultimo sangue. E io non ne avevo nessuna voglia.

Perché vennero preferiti i francesi?

La decisione dei bergamaschi era chiara: volevano vendere a 54 mila lire invece che a 52 mila lire. Ma ciò che fece cambiare idea a don Nicoli resta un mistero. Era un venerdì e la notte tra il venerdì e sabato dormii pochissimo poiché continuavo a pensare quale avrebbe dovuto essere la soluzione migliore: chiamai alcuni azionisti importanti, tra cui Miro Radici, e capii che le due mila lire di differenza erano un ostacolo insormontabile. Chiamai Guido Rossi nel suo ufficio e un’ora dopo eravamo a colloquio con i rappresentanti del Crédit Lyonnais. Erano stupiti perché pensavano di avere perso la battaglia.

Dissi ai signori del Crédit Lyonnais che ero disposto a vendere le mie quote ad una condizione: avevo delle opzioni in scadenza e volevo esercitarle vendendo loro anche quelle. Accettarono immediatamente. Per me fu l’occasione per fare la stessa operazione a scatola chiusa, con guadagni eccezionali, fatta con la Lecco.

Quanto guadagnò?

Tanto ma meno del previsto.

Come mai?

La sfortuna ci mise lo zampino. Paolo Mario Leati, che tra l’altro era molto considerato nel mondo finanziario, si comportò sconsideratamente, danneggiandomi non poco. Forse per invidia si mise in testa, senza possibilità di successo, che fosse possibile entrare nella partita comperando un po’ di azioni del Credito Bergamasco.

Bi-Invest, la prima scalata

67

Operazione senza senso perché ormai i giochi erano già stati fatti. La conseguenza fu che i prezzi presero a salire e il margine tra quanto pagavo acquistando i titoli sul mercato e quanto incassavo rivendendo al Credit Lyonnais diminuiva sensibilmente.

Forse qualcuno aveva informato Leati in modo che potesse cogliere l’attimo?

Forse, ma doveva essere un asino del mercato finanziario.

Chi preparò il contratto?

La stesura fu tutta opera mia e del mio avvocato, Vittorio Galvano, bravissimo. Il compenso fu, per lui, intorno a 110 milioni di lire. Niente a che vedere con la parcella di Guido Rossi, pagata dal Crédit Lyonnais: 4 miliardi e 800 milioni. L’ho perdonato soltanto perché, a noi interisti, ci ha fatto vincere uno scudetto a tavolino mettendo fuori gioco la Juventus.

Bilancio della operazione Creberg?

Circa 300 miliardi di utili per i miei clienti e oltre 40 miliardi per me. Non solo. La scalata, che ebbe grande risonanza mediatica, mi dette notevole forza e cominciai a mettere in cantiere un nuovo rastrellamento di titoli. Obiettivo: il Banco di San Gimignano e San Prospero, che aveva piccole partecipazioni incrociate con il Credito Bergamasco.

A cosa servivano?

Mutuo soccorso, pacchetti di voti da far valere in assemblea per rafforzare il gruppo dirigente che governava le rispettive banche.

Quale fu il trampolino di lancio per il Banco di San Gimignano e San Prospero?

Base di partenza fu il 4-5 per cento del capitale, che comprai a valori mediamente intorno a 90 mila lire, riuscendo a vendere pochi mesi dopo oltre le 200 mila lire. Rastrellai titoli nei borsini di Modena e Reggio Emilia sperando di passare inosservato, ma un giorno Monducci e Franceschini, uomini di punta della Banca, mi invitarono a colazione al ristorante Fini di Modena e con mia grande sorpresa mi fecero delle domande da cui capii immediatamente che erano al corrente del rastrellamento che stavo conducendo.

E cosa avvenne successivamente?

68

Io, Cuccia e le Generali

Come sempre, in quel periodo il titolo era decisamente sottovalutato e le banche cercavano in continuazione di aggregarsi. La Popolare di Verona fece un’Opa a oltre 200 mila Lire e vendemmo con grande soddisfazione. Per me il risultato fu di rilievo: ricca plusvalenza in tempi rapidissimi, senza fatica e senza bisogno di litigare. Cosa potevo sperare di meglio?

Io, Cuccia e le Generali

In pochi anni aveva ottenuto un successo dietro l’altro e accumulato una liquidità davvero significativa. Immagino che la variabile Preatoni non fosse sfuggita a Mediobanca…

Enrico Cuccia era il nume tutelare del capitalismo italiano. Io ero un semplice lupo solitario e, del resto, lo sono rimasto. Credo che Cuccia avesse una gran voglia di conoscermi perché sapeva che avevamo incassato circa 700 miliardi di liquidità dalla vendita del Credito Bergamasco. Venne a trovarmi in ufficio Carlo Ciani, un uomo molto vicino a Cuccia, che aveva acquistato un appartamento da noi. Mi disse che sarebbe stato intelligente da parte mia conoscere il dottor Cuccia. Inutile dire che, molto ingenuamente, mi sentii assai onorato. Molto ingenuamente, poiché la realtà è che Ciani me ne parlò su richiesta dello stesso Cuccia. Era lui a volermi conoscere e furbescamente, da quella volpe qual era, fece in modo che fossi io a cercarlo. E successivamente ne ho avuto conferma.

Ma non ritenne opportuno esporsi direttamente. Lo chiamai e mi ricevette velocemente.

Qual era la sua opinione su di lui?

Era un uomo di grande carisma, famoso poiché era sempre in grado di salvare qualche importante capitalista nostrano facendo pagare gli errori che aveva fatto al mercato. Il metodo era sempre lo stesso, sperimentato negli anni: utilizzare gli sportelli della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano e del Banco di Roma,

70

Io, Cuccia e le Generali

i gruppi bancari più importanti di quel momento, controllate dall’Iri, cioè pubbliche, per la raccolta di capitali da girare agli imprenditori del salotto buono. Il suo potere passava attraverso il controllo di Mediobanca e, soprattutto, delle Assicurazioni Generali, che controllava avendo solo un misero 11 per cento del capitale, il che la rendeva scalabilissima. In realtà Cuccia di imprenditoria capiva poco. Basti pensare quello che ha combinato con la chimica. Un errore dietro l’altro che, peraltro, Mediobanca non ha mai pagato, poiché chi pagava era sempre il mercato. E questo, in fondo, era il vero gioco di prestigio del famoso banchiere.

Come ricorda la sua visita in via Filodrammatici?

Quando lo incontrai mi era ovviamente chiaro che Mediobanca aveva un ruolo determinante. Ciò che non mi era chiaro era il suo potere, all’epoca veramente assoluto, e quanto l’Italia fosse un Paese retrogrado. La visita in Mediobanca durò un’ora e mezza. Cuccia, in buona sostanza, mi disse: “Caro Preatoni, lei ha dimostrato un’abilità straordinaria, ma oggi è arrivato il momento del salto di qualità, di capitalizzare al meglio i suoi sforzi.”

Qual era la proposta che le fece?

A lui interessava che gli mettessi a disposizione la liquidità di cui disponevo: 700 miliardi di lire. L’idea era di mettere il denaro dei miei clienti in una società in cui i miei stessi clienti non potessero avere mai la maggioranza. Poi chiarì: “Ci penserò io, Cuccia, a fare investimenti, a portare gli affari giusti alla società!” In buona sostanza mi offriva di entrare nel “salotto buono”, e quindi sotto la sua protezione.

Una sorta di delega in bianco?

Esatto. Voleva che utilizzassi la credibilità che mi ero conquistato con i clienti per indurli a fare degli investimenti su cui non avrei avuto il controllo. Il contrario del metodo che avevo seguito fino a quel momento. Il mio schema prevedeva di individuare un titolo sottovalutato e scalabile, invitare i clienti ad acquistarlo dando a me un semplice mandato a vendere, lasciare ai clienti il controllo del loro denaro e dei loro titoli. Io volevo che il cliente sapesse perfettamente quanto stavo facendo e che mantenesse il controllo

Io, Cuccia e le Generali

71

dei suoi titoli.

Cosa rispose?

Se fossi stato furbo avrei risposto: “Mi lasci pensare, mi sembra una buona idea, le darò una risposta.” Ma poiché furbo non sono mai stato e rispetto a lui ero anche decisamente inesperto, gli dissi chiaro chiaro che non se ne parlava neanche. E gli spiegai anche il perché, con assoluta sincerità. Gli dissi: “Scusi, dottor Cuccia, ci ho messo 20 anni a costruirmi una credibilità con miei clienti per poi farli investire in una società con lei che decide gli investimenti e io che non conto nulla?” Inoltre io sono un uomo libero che ha dimostrato di essere capace di confrontarsi con il mercato, e non credo di avere bisogno di entrare in alcun “salotto buono”.

E Cuccia?

In apparenza non batté ciglio, ma capì che con me non c’era nulla da fare e ci congedammo in maniera del tutto fredda. Ed io uscii con una convinzione: che il sistema Mediobanca fosse particolarmente debole. Inutile dire che, dopo quella visita in via Filodrammatici, il mio tasso di popolarità in quel mondo certamente non aumentò.

La forza del sistema Mediobanca erano le Generali. Perché lei aveva cominciato ad occuparsene?

Avevo scoperto che il titolo era estremamente sottovalutato. E mi convinsi che potesse rappresentare la grande occasione. Per una ragione molto semplice: la capitalizzazione di Borsa risultava inferiore ai mezzi propri rivalutati. Non solo. Mediobanca e la finanziaria lussemburghese Euralux controllavano una quota piuttosto limitata del capitale, appunto l’11 per cento circa. Le Generali erano il punto debole dell’intero sistema. Così decisi di avviare la campagna acquisti del titolo. Il passaggio successivo era pressoché obbligato: replicare alle Generali lo schema risultato vincente negli altri casi. Così iniziai ad acquistarne e a suggerirne l’acquisto ai miei clienti. Contemporaneamente trovai investitori svizzeri e americani interessati all’operazione, che fecero lo stesso. In pochi mesi raccogliemmo un pacco di titoli intorno al 6 per cento.

Una scalata in piena regola?

72

Io, Cuccia e le Generali

Si e no. Sì perché chiaramente erano acquisti “ostili”. No perché non ho mai pensato di assumere atteggiamenti belligeranti.

In realtà fu come lanciare il guanto di sfida…

Guardi, io non volevo sfidare proprio nessuno. Non avevo mai avuto atteggiamenti ostili nei confronti degli azionisti di controllo.

Né, tantomeno, li avevo verso Mediobanca. Sia chiaro: ripeto ancora una volta, 20 anni dopo, che dietro il mio interesse per le Generali non c’era nessun attacco a Mediobanca e ai suoi alleati. C’era, molto semplicemente, la volontà di far fare ai miei clienti un altro affare eccellente. Tutto qui. Certo, ricordando l’operazione Generali, mi viene da sorridere pensando alla mia ingenuità. Stavo toccando il cuore del capitalismo italiano e mi aspettavo che tutti rispettassero le regole. Una vera follia. Ero veramente un pirla ma, dopo le scalate alle banche, mi ero montato un po’ la testa ed ero realmente convinto che in Italia vincesse il mercato. Per questo ho avuto il coraggio di puntare al controllo delle Generali quando nessuno osava pensare di contrastare Cuccia. Esattamente come in precedenza, e successivamente, mi sono fatto decine di nemici scalando un bel numero di banche e dimostrando al sistema che non c’erano recinti protetti.

Fu una scelta temeraria?

Concordo. La mia immaturità di allora fu che non mi rendevo conto dell’aspetto politico, lo avevo assolutamente sottovalutato.

Non avevo capito che il mercato vince finché le prede sono piccole e medie, mentre il discorso cambia completamente quando la preda diventa più grande.

Cosa pensava di Mediobanca?

Cuccia è stato senz’altro un uomo geniale. E, partendo dai suoi presupposti, era abituato ad avere comportamenti corretti. Questo non toglie che avevamo mentalità molto diverse. Io non ho mai amato il salotto buono di via Filodrammatici, né il capitalismo delle grandi famiglie. Ho avuto, e mantengo, la passione di rompere gli schemi. E, alla fine, ho pagato dazio ma ho avuto fortuna.

Informò qualcuno della scalata?

Ne parlai con l’allora presidente della Consob, Pazzi. La prima volta mi chiese se ero matto. Ma al secondo incontro, che fu nella

Io, Cuccia e le Generali

73

sua bella villa al Circeo, mi disse: “Caro Preatoni, ci ho ripensato.

Non sei tanto matto. Le Generali sono un tesoro e, anche se la scalata finirà male, potrai guadagnarci.”

Cuccia aveva capito quanto stava accadendo?

Naturalmente sapeva quasi tutto poiché per raccogliere denaro dovevo parlare con chiarezza e ovviamente prima o poi qualcuno gliene avrebbe riferito.

Chi fu il primo?

Secondo me Achille Maramotti. Cuccia si spaventò moltissimo.

Per questo cominciò a dire: “Questo Preatoni va fermato.”

Conseguenze?

Iniziò una campagna mediatica contro il sottoscritto e contro la mia Parin Sim. Per tutti diventai il raider di Garbagnate, il predatore per eccellenza. Sui giornali fu una vera tempesta: articoli negativi, che mi mettevano in cattiva luce. Nei miei uffici si presentò perfino la Consob. Hanno visto le carte, fatto i controlli del caso, constatato che tutto era regolare. Contemporaneamente ricevetti segnali precisi che la mia iniziativa non era gradita a personaggi influenti dell’alta finanza.

Ebbe occasione di rivedere Cuccia?

No, ma è un vero peccato che non abbia accettato d’incontrarmi una seconda volta perché, ne sono sicuro, avremmo trovato una via di uscita ragionevole. Non farlo ha nuociuto a entrambi.

Lei continuò a comprare?

Ne dubita?

I suoi clienti non erano intimoriti?

No, nel complesso reagirono bene. Anzi si galvanizzarono. Ad un certo punto mi è toccato tenere a bada il loro entusiasmo di compratori.

Ci fu chi nell’establishment la incoraggiò?

Mi capitò d’incontrare Camillo De Benedetti, persona di grande equilibrio e formidabile conoscitore dei segreti di Generali-Mediobanca. Parlammo anche dell’operazione, dei miei programmi di allora. Ebbene, mi consigliò di non agitarmi. E spiegò: “Acquistando Generali lei va sul sicuro”, disse “perché sono come dei titoli a red-

74

Io, Cuccia e le Generali

dito fisso, solo che sul rendimento non c’è confronto.”

E Mediobanca trovò alleati?

Quello più naturale fu l’Associazione delle Banche Popolari. Infatti, contemporaneamente, stavo cercando di scalare la Popolare di Crema, la più piccola tra quelle quotate di categoria.

C’è chi ha sospettato che anche nella scalata alle Generali ci fosse un rilevatari. Era vero?

Soltanto in parte. C’era e non c’era. Fin dall’inizio mi ero posto il problema del rilevatari. In Italia non c’era nessuno che avesse la forza economica e l’autonomia necessaria dal sistema Mediobanca. Per questo occorreva cercarlo all’estero.

A quale porta bussò?

L’alternativa era tra il colosso assicurativo francese Axa e la tedesca Allianz, entrambe concorrenti di Generali in Europa. Proprio i francesi avevano già un piede in Mediobanca. Per questo la scelta cadde su Bebear, il gran capo di Axa. Lo incontrò personalmente?

Almeno tre, quattro volte. Sempre a Parigi.

Come arrivò a lui?

Tramite un comune amico, massone.

Erano numerosi i massoni nel mondo dell’alta finanza?

Certo non mancavano.

Può fare qualche nome?

Mi viene da dire Eugenio Cefis, Mario Schimberni. Ma lo sapevano tutti, proprio tutti. È la scoperta dell’acqua calda.

Lei non è massone?

Io non sono mai stato iscritto nemmeno al circolo della caccia e della pesca. Come le ho già detto io sono sempre stato un uomo libero.

Quando avvenne il primo incontro tra lei e Bebear?

Quando avevo già raccolto il 6,5 per cento del capitale.

Reazioni?

Era assolutamente interessato. Ma ad un certo punto, senza dare spiegazioni, si ritirò. Fu come se scattasse una molla.

Chi la fece scattare?

Io, Cuccia e le Generali

75

Bebear ha pensato all’inizio all’operazione con grande interesse. Successivamente ai primi incontri ha pensato che era meglio fare la spia per Cuccia che non portare a termine l’operazione.

Francamente trovo un po’ ingenuo che lei avesse potuto immaginare Bebear nel ruolo di rilevatari considerando i rapporti tra lui e Cuccia, nonché gli stretti legami di entrambi con Antoine Bernheim e la banca d’affari Lazard. Non trova?

Lo ammetto. E devo dire che lo avevo messo in conto. Ma gli affari sono affari. E Axa ha sempre guardato con una certa bramosia alle Generali.

Come riuscì a fermarla Cuccia?

S’inventò un grande aumento di capitale delle Generali, pari al 20 per cento delle azioni. L’innovazione, assolutamente clamorosa, è che il denaro doveva essere sborsato dagli azionisti, ma i diritti di voto andavano ad una società Fiduciaria controllata da Mediobanca: la Spafid.

Davvero inusuale Non me ne parli. Al limite dell’incredibile. I miei soci americani nella operazione non volevano crederci. Tanto che quando andai da uno di loro a svelare la trappola commentò: “Ma l’Italia è il Tanganica?” Nessuno di loro, negli Stati Uniti, riteneva possibile che l’aumento di capitale potesse avere via libera.

Reazioni?

Pensi che ci fu una audizione alla Commissione Finanza e Tesoro, presieduta da Mario Usellini, parlamentare della Democrazia cristiana, e anche lui si disse decisamente contrario all’approvazione dell’aumento di capitale. Ma non fu sufficiente.

Perché?

Accadde di tutto. Giorgio La Malfa, fido scudiero di Mediobanca, come del resto il padre, mobilitò tutto il Partito Repubblicano e arrivò a minacciare la caduta del governo. Provi a pensare cosa mi è costato tenere la bocca chiusa. Alla fine, con mia grande sorpresa, Cuccia ottenne l’approvazione. In più, ad un certo punto, cambiò il presidente della Consob e Pazzi lasciò il posto a Enzo Berlanda, un bergamasco di scarsissima moralità.

76

Io, Cuccia e le Generali

Tre azionisti minori fecero ricorso alla Unione Europea. Fu lei il regista?

Sì, sono stato io il regista. Ritenevo, inoltre, che le nostre ragioni fossero completamente fondate. Ma evito di raccontarle il tempo e i soldi sprecati senza riuscire ad ottenere giustizia. Alla fine mi resi conto che, se avessi continuato a mettermi di traverso, ne avrei ricavato rogne a non finire.

Come ne uscì?

Una proposta arrivò da Bernheim. Mi propose una operazione tramite derivati che nel giro di qualche anno mi avrebbe permesso di vendere i titoli Generali guadagnando bene.

Era davvero così?

Mica tanto. Feci i conti con accuratezza e non era conveniente.

Come mai Lei non parlò con alcun giornalista e non cercò di scatenare una campagna di stampa?

Una volta tanto dimostrai dell’intelligenza poiché mi resi conto che mediaticamente parlando ne sarei uscito a pezzettini. Il giornalismo italiano non brillava a quel tempo per indipendenza di giudizio.

E allora?

Dissi ai clienti: liberi tutti. Alcuni vendettero i loro pacchetti un po’ alla volta, guadagnando bene. Altri preferirono tenerli.

Oggi Generali è ancora un buon investimento?

Ritengo di no.

Perché?

Le rispondo raccontando un episodio piccolo ma assolutamente indicativo. Mi è capitato d’incontrare il presidente delle Generali, sia a Milano sia a Trieste. Ebbene, lo sa che ad ogni incontro c’erano sempre sparsi per i corridoi sei, sette, uscieri che discutevano animatamente del campionato di calcio? È stato spesso in visita alle Generali?

No. È gente a cui sono sempre stato antipatico e non li frequentavo. Erano troppo diversi da me.

Però lei stesso ha cominciato la scalata alle Generali attirato

Io, Cuccia e le Generali

77

dal valore della Società..

Erano altri tempi. Il gruppo doveva investire per legge nell’immobiliare in anni in cui l’immobiliare tirava molto e il ramo vita era un autentico furto. Oggi non c’è più nessuna di queste condizioni. Il ramo vita, in particolare, è molto sacrificato. Non è più una gallina dalle uova d’oro.

Obiettivo Popolari

Lei è diventato la bestia nera dei vertici delle banche Popolari. E, in particolare, si è impegnato a fondo sul fronte della Popolare di Crema. Perché è partito da lì?

Sulle Popolari mi ero ingolosito. E pensavo fosse possibile scardinare definitivamente un sistema assolutamente arcaico. In questo senso la piccola Popolare di Crema rappresentava il classico cavallo di Troia. Una volta ottenuto via libera si sarebbe aperto un nuovo orizzonte e la possibilità di scalare altre Popolari quotate, da quella di Milano a quella di Novara.

Stava facendo i conti senza Fiorani…

Era scatenato e utilizzava ogni metodo, compresi quelli illegali.

Per esempio intrallazzando con un mio ex collaboratore di Bergamo, tal Cerea. Alle assemblee della Popolare di Crema si poteva partecipare con una sola delega e intervenivano in prevalenza i dipendenti che a volte, per delega, rappresentavano addirittura dei neonati. Il rifiuto dell’iscrizione a libro soci degli azionisti che portavamo noi era sistematico, le manipolazioni delle assemblee erano clamorose e spregiudicate. Cose mai viste! Ovviamente i dipendenti, i cui stipendi dipendevano dai dirigenti, erano schierati contro di noi. Si tennero assemblee dove noi avevamo magari 500 voti, contro i loro 1500-2000, e quindi non potevamo spuntarla.

E i giornali?

La maggior parte di loro, incredibilmente e con mia grande sor-

80

Obiettivo Popolari

presa, era dalla parte di Fiorani. Lo hanno supportato ed è stata una vergogna. Non riuscivo a rassegnarmi e a trovare una spiegazione. Poi qualche idea in proposito mi è venuta.

Quale?

No comment.

Il suo giudizio su di lui? È una delle persone meno dignitose che io abbia conosciuto.

Io, se mi fossi comportato come lui, avrei vergogna a presentarmi dai miei figli. Compreso, una volta caduto in disgrazia, l’incredibile sceneggiata del karaoke in Sardegna al Bagaglino, con Lele Mora e compagnia cantando.

Il sistema delle Popolari era schierato al suo fianco?

Al gran completo. Ero per loro una minaccia mortale, il nemico numero uno che metteva in discussione quel sistema di governo autoreferenziale che consentiva ai vertici di tenersi stretta la poltrona.

E la Banca d’Italia?

Ha perso un’occasione. Ero perfetto per toglierle le castagne dal fuoco. E invece hanno preferito soprassedere, rendendo possibile alle Popolari fare le barricate. Così la Banca d’Italia è ancora alle prese con una governance che consente di comandare ai dipendenti alla faccia degli azionisti. Banca Popolare di Milano insegna. Auguri a tutti.

Fu una lunga guerra?

Le battaglie durarono circa tre anni, fino al 1995. Nel frattempo si moltiplicarono le cause contro gli amministratori, anche sul piano personale. Quasi tutte, peraltro, finivamo per vincerle. Tanto che, ad un certo punto, erano stufi di lottare. Io invece, che sono estremamente tenace, non mollavo. Non avevo alcuna intenzione di lasciare la presa. In quel contesto arrivò un colpo di scena.

Quale?

Arrivò un giorno una telefonata di Zanetti, presidente della Banca Popolare di Bergamo, che conoscevo bene e al quale avevo fatto un grosso favore inserendo le azioni che possedeva del Credito Bergamasco nel patto di sindacato, permettendogli così di venderle al doppio del prezzo di mercato quando il pacchetto di controllo

Obiettivo Popolari

81

venne venduto al Crédit Lyonnais. Zanetti era un uomo scaltro, di quelli che io chiamo simil-preti. Chiese un appuntamento e si presentò fregandosi le mani, chiedendomi di fare in modo che la Popolare di Crema potesse fondersi con la Popolare di Bergamo, con la scusa che le due banche erano complementari per quanto riguarda la presenza sul territorio.

Risposta?

In pochi giorni concordammo sia il numero di azioni che gli avremmo venduto sia il prezzo. Era però necessario che Zanetti ottenesse il consenso ufficiale da parte del consiglio di amministrazione della Popolare di Crema, dopodiché la vicenda sarebbe stata praticamente conclusa. Io ero pronto a festeggiare, ma il tempo passava e nulla accadeva. Non capivo perché. Ricordo che eravamo in autunno e mi recai anche a Bergamo, trovando Zanetti stranamente freddo nei miei confronti. Mai fidarsi dei simil-preti.

Quando scoprì perché?

Pochi giorni dopo, quando ricevetti una telefonata che diceva: “Guarda che la tua Parin, la commissionaria che utilizzavamo per scalare la Crema, verrà commissariata.” Zanetti, evidentemente, ne era già a conoscenza tramite il suo amico Berlanda, presidente della Consob.

Se lo aspettava?

Per niente. Rimasi stupefatto. Non c’era alcun motivo per commissariarla. Ma il giorno dopo si presentarono in Parin gli ispettori della Consob. Mi parve strano perché erano appena venuti dandoci una piccola multa per irregolarità di scarsa rilevanza. Avevano un atteggiamento strano e controllavano soltanto i titoli della Crema.

Proprio non riuscivo a capire cosa stava accadendo.

Come lo scoprì?

Ne parlai con mio figlio Roberto e, con l’aiuto di un esperto del ramo, installammo un impianto per la registrazione delle loro telefonate.

Cosa saltò fuori?

Feci delle scoperte incredibili. Quei signori non erano venuti per fare una ispezione ma esclusivamente per farci chiudere i bat-

82

Obiettivo Popolari

tenti. Non solo! Collaboravano anche, comportamento gravissimo sul piano penale, con un avvocato che alcune settimane prima aveva fatto sapere di essere intenzionato a farci causa perché, secondo lui, avevamo truffato un suo cliente.

Chi era?

In realtà lo conoscevamo bene: un idiota che si era fatto truffare, ma non da me. Io non c’entravo assolutamente nulla. Meno male che, grazie a Dio, il presidente del Tribunale era una persona di buon senso e capì subito che non c’erano gli estremi per nessuna richiesta contro di me. Rimaneva però lo stupore per i rapporti continui tra gli ispettori della Consob e quello studio legale per ottenere elementi da utilizzare contro di noi. Era un vero scandalo ma, prima di muovermi, chiamai Pazzi, l’ex presidente della Consob, per chiedergli un consiglio.

Risposta?

Gli feci ascoltare le registrazioni e rimase basito, aggiungendo una previsione: il tutto avrebbe fatto saltare la commissione. E io, che al tempo non conoscevo bene il Bel Paese, rimasi impressionato dalla reazione e, al momento, gli credetti.

Lei cita sempre Pazzi, travolto in seguito da accuse pesanti.

Era davvero affidabile?

Guardi, io non l’ho mai corrotto e, per quanto ho potuto constatare personalmente, si è sempre comportato correttamente. Altri, magari con una reputazione di gran lunga migliore, ne hanno combinate di tutti i colori.

Come continuò l’ispezione della Consob?

Ad un certo punto, con delle scuse ridicole, inviarono un commissario che un venerdì ci augurò un buon fine settimana bloccando ogni operazione della Parin. Aggiungo che in seguito il commissario venne sostituito con un altro più ragionevole che, nonostante fosse rimasto per un anno, naturalmente a mie spese, non trovò alcuna irregolarità.

Contenti?

Mica tanto. Quel commissariamento aveva distrutto la mia immagine. Così un mattino incontrai il commissario insieme a mia

Obiettivo Popolari

83

moglie Olga, anche lei azionista della Parin, e parlai chiaro. Gli dissi che avevo capito il loro gioco sporco e che non avevo alcuna voglia di rovinarmi la vita con una guerra dei 100 anni. Ecco perché avrei accettato di mettere la società in liquidazione. Poi gli chiesi: “Ora siete contenti?”. Vuole sapere come rispose?

Ovviamente…

Rispose così: “Sì, è quello che vogliamo!”. E mia moglie, islandese e poco avvezza ai riti italici, non riuscì a trattenersi e, rivolgendosi al commissario, commentò: “Io non so nulla di queste cose, ma per me voi siete la mafia.” Ancora oggi questo ricordo mi fa tenerezza. In quel momento pensai che, una volta messa in liquidazione la Parin, tutto sarebbe finito.

Fu così?

Naturalmente no. Avevo fatto ricorso al Tar, il Tribunale amministrativo regionale, e nei successivi giorni vinsi, riprendendo possesso della Parin. A quel punto convocai una conferenza stampa e feci ascoltare ai giornalisti i passaggi più scabrosi delle telefonate fatte dai commissari della Consob. Alcune di esse avevano grave rilevanza penale. Mi aspettavo che scoppiasse la bomba atomica.

Non accadde nulla…

Esatto. Il mattino dopo i giornali, tutti i giornali, avevano relegato la notizia in spazi non importanti e non se ne parlò più.

Perché non fece denuncia alla magistratura?

Lo presi seriamente in considerazione e dietro consiglio di amici andai a visitare l’avvocato Pecorella, che notoriamente conosceva le cose segrete del “Palazzo”.

E Pecorella cosa le consigliò?

Mi chiese: “Preatoni lei di che banda fa parte?” io rimasi stupito e gli dissi che non capivo. Lui aggiunse: “Preatoni non mi dica che tutto quello che ha fatto lei in questo Paese è stato fatto senza appoggi.” Gli risposi che non avevo mai avuto appoggi politici. Lui terminò dicendo:”Preatoni, se lei mi avesse detto di quale banda faceva parte, io le potevo dire quante probabilità di successo avrebbe avuto in questa vicenda. Se lei dice che non fa parte di nessuna banda lei ha già perso in partenza.” Pecorella evidentemente cono-

84

Obiettivo Popolari

sceva bene il Paese.

Tra l’altro l’autorità giudiziaria avrebbe dovuto intervenire automaticamente. Credo sia stata una decisione equilibrata quella di non ricorrere alla Magistratura.

Perché?

Avrei fatto la classica battaglia contro i mulini a vento, senza alcuna possibilità di spuntarla. Intanto, come volevasi dimostrare, la Consob fece ricorso al Consiglio di Stato, organo molto più politicizzato, e la Parin venne definitivamente commissariata. La caccia alle streghe continuava. Praticamente, in poche settimane, presentarono esposti a ripetizione alla Procura della Repubblica accusandomi un po’ di tutto, tranne le stragi. Io continuavo a non capire. Durante l’ultima ispezione mi sequestrarono assolutamente tutto. Cosa volevano da me?

Dove vuole arrivare?

Era tutto molto semplice e diventò molto chiaro. Avevo grande liquidità, i famosi 700 miliardi, e grande potere per la credibilità che avevo conquistato con tanti risparmiatori. Il tutto mi dava possibilità di manovra eccezionali. La mia capacità d’investimento, unita a quella dei risparmiatori che avevano avuto fiducia in me, mi rendevano pericolosissimo. L’arcano, in fondo, era facile da scoprire.

Qual era?

Avevo toccato il cuore del potere, la Mediobanca di Cuccia.

Ecco spiegato il tentativo di procedere alla distruzione della Parin: il potere che mi dava la credibilità che avevo presso i clienti era troppo grande. E infatti, inventandosi di sana pianta qualche reato, il pubblico ministero faceva contattare dai propri consulenti uno per uno la mia clientela. Lo hanno fatto Guardia di Finanza, ministero dell’Industria e così via. La richiesta era esplicita: “Scusi, lei lavora con Preatoni?”, seguita da una radiografia accurata. Quanto bastava per spaventarli.

Ci riuscivano?

Perfettamente. In poco tempo la maggior parte dei clienti non voleva più lavorare con me, per paura delle ispezioni fiscali. Aveva-

Obiettivo Popolari

85

no ragione loro. Conoscevano il Paese meglio di me.

Che evoluzione ebbe l’inchiesta?

Mesi e mesi di accuse e indagini, che purtroppo finivano sui giornali anche se alla fine non erano sostenibili. La svolta arrivò nella primavera 1996.

Cosa accadde?

Il mio legale, dopo avere incontrato piuttosto casualmente un consulente della Procura, mi avvisò: “Preatoni, mi dispiace ma devo darle una brutta notizia: stanno chiedendo l’ordine per la sua carcerazione.” Naturalmente sono sbiancato, ho mollato tutto quello che stavo facendo e ho cercato di capire quanto stava accadendo, quali reati potessero avere ipotizzato. Passai il week end sul Lago di Como, insieme a mia moglie Olga e a tutti i miei figli.

Cercavo d’immaginarmi cosa sarebbe accaduto realmente. Uno dei miei avvocati mi aveva consigliato la fuga, ma decisi di tergiversare ancora un po’.

Di quali accuse si trattava?

Me lo spiegò l’avvocato il lunedì successivo, dopo l’incontro con il Procuratore della Repubblica. I reati erano due: truffa ai danni dello Stato per non avere pagato i bolli sui fissati bollati delle operazioni di Borsa e truffa ai danni di un cliente. Il caso volle che mi chiamò proprio quel mattino. Era un cliente facoltoso, di cui gestivamo un paio di miliardi. Era convinto che gli avessimo rubato 200 milioni. Gli chiesi perché e ricordo bene la risposta: “La Procura della Repubblica mi ha fatto vedere chiaramente che voi, nell’ottobre 1989, avete sfilato al sottoscritto 200 milioni.” Non era così e, in pochi minuti, il capo contabile lo verificò. Era semplicemente un cosiddetto riporto staccato.

Cioè?

Semplice. In settembre il cliente aveva voluto acquistare un importo maggiore di quanto aveva depositato e, quindi, gli avevamo prestato 200 milioni. Poi, alla fine del mese borsistico lui aveva venduto i titoli e noi eravamo rientrati incassando i 200 milioni.

Ci credette?

Gli mostrammo la documentazione e i suoi consulenti concor-

86

Obiettivo Popolari

darono che non vi era nulla di truffaldino.

E l’evasione per il mancato pagamento dei bolli?

La Procura l’aveva stimata in ben 700 milioni di lire. Non capivo cosa poteva essere accaduto, perché noi li avevamo sempre pagati.

Riusciste a scoprirlo?

Chiamai il capo contabile e ci scervellammo non poco, ma alla fine il rebus fu risolto: noi non dovevamo pagare il bollo perché i titoli venivano depositati dai clienti presso l’allora Banca commerciale italiana, che eseguiva i fissati bollati. E naturalmente la stessa Comit aveva provveduto a farlo.

Bilancio finale?

Nel Bel Paese tutto può accadere, anche finire in galera per i motivi più futili.

Ma vi furono altri processi…

No. Tutte le accuse erano insostenibili e finirono nel nulla. D’altra parte Cuccia e le Popolari avevano ottenuto quanto volevano, cioè la neutralizzazione del pericolo Preatoni. Del resto, a posteriori, lo capisco: avevo messo sotto attacco le Generali, crocevia di tutte le sue operazioni. Cuccia si era spaventato a tal punto che fece approvare alcune leggi proprio contro di me.

Quali?

Per esempio la legge sul concerto, secondo cui l’obbligo di denuncia alla Consob delle partecipazioni superiori al 2 per cento scatta anche in caso di acquisto concertati, anche se non risultano sullo stesso conto, presso la stessa banca o la stessa Sim, società d’intermediazione mobiliare. È una legge che, se rispettata, rende di fatto pressoché impossibile ogni scalata di Borsa, congelando lo status quo. Mi è di consolazione il fatto che, proprio per questa legge, Fiorani è stato incriminato per la scalata Antonveneta ed è finito in galera. Buffo, no?

Aveva altri nemici oltre Cuccia e Fiorani?

Il nemico principale, a parte Mediobanca, erano le banche Popolari. Ai loro occhi rappresentavo una minaccia. E in effetti lo ero, perché le mie scalate minavano alle radici quel sistema di governo autoreferenziale che permetteva ai vertici di tenersi ben strette le

Obiettivo Popolari

87

rispettive poltrone e poltroncine.

E la Banca d’Italia?

Certamente non poteva uscire allo scoperto e appoggiare un outsider come il sottoscritto. Ma in quel mondo Cuccia non ha mai entusiasmato entrambi i filoni, diciamo così, storici. Né per quanto riguarda la cordata dei Paolo Baffi e dei Carlo Azeglio Ciampi, né in quella dei Lamberto Dini e degli Antonio Fazio. Ancora più basso l’indice di gradimento delle Popolari. Sono sicuro che nella saga della Crema era dalla mia parte, perché ero quello che toglieva le castagne dal fuoco. Lo conferma il fatto che, dopo molti anni, è ancora lì a dibattere sulla governance delle Popolari, dove continuano a comandare i dipendenti e non i soci.

Come è finita la scalata alla Crema?

Ad un certo punto ho capito che la partita era persa. E in questi casi vale una battuta che amava ripetere l’Aldo Ravelli in casi del genere: “Soldato che fugge combatte ancora.” Tradotto significa: meglio prendere atto dei rapporti di forza sfavorevoli, disimpegnarsi al meglio e volgere la rotta verso altri lidi. Nel caso della Popolare di Crema risultò chiaro che Fiorani era pronto a comprare le nostre azioni. Così, adagio adagio, le vendemmo sul mercato.

A quanto?

Circa 70 mila lire, contro valori di carico che per i miei clienti erano intorno a 45 mila lire. Quindi abbiamo comunque guadagnato.

Fiorani ne fu felice?

Si, anche se ha funzionato il detto “ride bene chi ride ultimo”. È stato contento soprattutto perché lui, che ad un certo punto era diventato proprietario occulto della Crema acquistando titoli dalla Svizzera, ci ha piazzato sopra un carico da novanta: una offerta pubblica fatta dalla Lodi per l’acquisto a 210 mila lire sulle azioni che erano già state acquistate dalla Lodi a 65.000-70.000 lire. Questo fiume di danaro dove è andato a finire? Nessuno se ne è mai interessato. Né la Consob, né la Banca d’Italia, né la magistratura. Vede la differenza con il trattamento di cui sono stato oggetto?

Eppure sarebbe bastato poco per scoprire cosa stava accadendo.

Un’altra beffa è che il capo degli ispettori Consob, Tedeschi, che

88

Obiettivo Popolari

mi aveva tanto interrogato e inquisito su questa vicenda, è stato successivamente allontanato dalla Consob poiché aveva scoperto quello che io ho appena riferito. E cioè che la Lodi di Fiorani aveva comperato a prezzi tripli e per la seconda volta azioni Crema che erano già di proprietà della Lodi.

Però, come ho appena ricordato, “ride bene chi ride ultimo”. E alla fine Fiorani è finito male, incastrato da quella legge sul concerto nelle scalate di Borsa che era stata approvata per bloccare le mie iniziative.

Quale fu la sua reazione?

Istintivamente ero spinto verso la vendetta. Poi arrivai alla conclusione che era meglio levarsi di torno e decisi di concentrarmi sugli investimenti all’estero. A partire da Sharm El Sheikh, in Egitto, e soprattutto nei Paesi Baltici. Avevo deciso di mollare un Paese, l’Italia, dove i disonesti condizionavano il mercato. Raccontarsi che il Paese è marcio capita spesso, ma per capirlo veramente occorre provarlo sulla propria pelle. Parliamo male di Paesi come l’Egitto, ma la verità è che l’Italia è allo stesso livello.

Sharm, l’investimento perfetto

Egitto significa Sharm El Sheikh, che è il fiore all’occhiello dei suoi investimenti immobiliari. Qual è stato il punto di partenza?

Nulla, nella vita, accade mai per caso. Non ero mai stato da quelle parti, ma da tempo mi chiedevo: qual è il posto più vicino all’Europa con le condizioni ideali per accogliere turisti? Condizione necessaria era una stagionalità che durasse tutto l’anno. Già negli anni Sessanta avevo un po’ questa mania. Frequentavo il Club Mediterranée e studiavo le varie location dal punto di vista climatico e geografico per capire quali fossero le migliori. Fino a quando nel novembre 1989 organizzai un viaggio in Medio Oriente. E, in particolare, in Giordania e Israele. All’epoca erano terre inospitali, conosciute per il forte vento, dove si alloggiava quasi esclusivamente in tenda. Così visitai Eilat, me ne avevano parlato ed ero curioso di vederla. Certamente aveva caratteristiche interessanti: il clima era gradevole, il mare pulito, i fondali molto belli. La zona era convincente, molto convincente, anche se non ero del tutto. In più Israele resta un Paese complicato. Difficile convincere un investitore a comprare una villa o un appartamento in Israele. Ne ricavai l’impressione che il Mar Rosso andasse preso in considerazione, ma non Israele.

Quando scattò l’operazione Sharm?

Nel novembre 1991. Come accade spesso nella vita, dalle diffi-

90

Sharm, l’investimento perfetto

coltà nascono le occasioni. Avevo investito in una impresa chimica vicino al Cairo. È stata una delle iniziative più disastrose della mia vita d’imprenditore. Vi avevo investito dopo aver conosciuto e dato fiducia a un italiano con passaporto egiziano. Ma, dopo l’ennesimo consiglio di amministrazione decisamente deludente, mi portarono a vedere una località del Mar Rosso, all’epoca del tutto sconosciuta: Hurghada.

Che effetto le fece?

Non c’era nulla. Ma sole e mare erano fantastici, meravigliosi, con una temperatura media di quattro gradi superiore a quella di Eilat. Rimasi impressionato, direi stupefatto e restai a Hurghada tre giorni. Avevo capito subito che si trattava di un grande business per via del clima e del mare eccezionali, con una stagionalità di 12 mesi all’anno, la vicinanza con l’Europa, il costo del lavoro molto basso e la grande apertura delle autorità locali, apparentemente disposte a concedere qualsiasi cosa. Entrai subito in fibrillazione. C’era un solo albergo su centinaia di km di costa e cominciai a visitare le isole vicine in barca. La mia curiosità era a mille e continuavo a fare domande. La scintilla era scattata. Ripartii con l’idea che si trattasse di un posto dove valeva la pena investire e apportare qualcosa di veramente innovativo.

Nelle settimane successive tornai più volte in zona, che cominciai a battere in jeep, elicottero, barca. Arrivarci era un lungo viaggio, da Milano a Roma, poi al Cairo e il giorno dopo in Sinai.

Alla fine trovai un posto non male, poco più a Sud di Hurghada.

Ma non era perfetto. E io volevo la perfezione. In Mar Rosso, che all’epoca era vergine, continuai a cercare. Non c’era quasi nulla.

Ricordo uno scassatissimo aeroporto, in realtà un capannone a lato di una pista costruita dagli israeliani a fini militari, durante l’occupazione del Sinai.

Come capitò a Sharm?

Ci arrivai dopo una lunga trafila di appuntamenti e dopo avere capito che era assai difficile trovare gente affidabile. Un giorno eravamo usciti in barca, all’inizio di dicembre, e rientrando in porto, poco prima che diventasse buio, notai la baia dove ora sorge il Co-

Sharm, l’investimento perfetto

91

ral Bay. Avevo davanti a me la perfezione. Immediatamente pensai che era la baia dei miei sogni, quella fatta per me. Vi era, e vi è, una barriera corallina da tutte le parti, due spiagge sterminate, era terrazzata in modo da avere vista mare da ogni angolo di osservazione. Allora chiesi al capitano, che parlava tedesco, se conosceva il proprietario. Rispose che lo conosceva e così cominciò un balletto, con il sottoscritto e la sua determinazione messa a dura prova dalla lentezza dell’interlocutore nel passare dalle promesse ai fatti. Alla fine riuscii a rintracciare uno dei cinque azionisti che controllavano i terreni della baia.

Chi erano?

Incontrai uno di loro al Cairo. Erano un gruppetto senza arte né parte e non avevano la più pallida idea di come sviluppare l’area in questione. Pensavano di mettere in piedi un’iniziativa con il Club Mediterranée ma, dato che non erano imprenditori, non sapevano da che parte girarsi.

Iniziammo le trattative, ma poiché gli egiziani sono degli ottimi traders i tempi non potevano che essere lunghissimi. Avevo saputo che avevano comprato il terreno a prezzi veramente ridicoli e quindi sapevo che la trattativa aveva buone probabilità di andare in porto. Anche perché io ero certo che gli europei sarebbero stati interessati ad acquistare ville e appartamenti, mentre a tutti sembrava una cosa folle. Mi mancava un solo dato per avere un prodotto perfetto: i costi di costruzione. Anche perché tutti dicevano che erano molto elevati.

Era così?

In effetti in Egitto non si trovavano alcuni materiali, pertanto bisognava importarli con tasse elevatissime. Chiamai due miei tecnici dall’Italia e dopo una settimana di ricerche erano pronti a rendicontarmi. Confesso che ero emozionato; temevo che rovinassero il mio sogno. Invece, per fortuna, i costi di costruzione erano inferiori a quelli italiani del 30-40%. A quel punto ripresi con determinazione ancora maggiore la trattativa.

Come finì?

Un po’ alla volta riuscii a fare breccia. In fondo si trattava di

92

Sharm, l’investimento perfetto

sbandati e, ad un certo punto, decisero di vendere. Prima entrai nella società con più del 75 per cento. Successivamente acquistai il restante 22 per cento e ne rimase soltanto uno, con il 3 per cento, forse perché lui credeva realmente nel progetto. Si chiama Fathy e con me è diventato ricco e ha smesso di fare il professore. Anche gli altri venditori fecero un buon affare: avevano comprato pagando una Lira egiziana al metro quadrato e venduto, dopo relativamente poco tempo, a tre lire. Certo che oggi, in aree della zona meno belle di Coral bay, i terreni vengono valutati mille sterline al metro quadrato.

Avete avuto vita facile?

In parte sì e in parte no. All’inizio passò tutto liscio. Non c’erano concorrenti e le autorità locali erano molto comprensive. Andai dal governatore del Sud Sinai, presentato da un famoso giornalista egiziano. Mi rispose: “Fate quello che volete. Tanto è deserto.”

Cominciò l’avventura, con investimenti importanti. Non avevamo debiti con le banche ma i soldi finirono presto. E, a fine 1993, la mia liquidità scarseggiava. Ricordo che un mattino maledissi il momento in cui mi era venuto in mente l’idea di creare Sharm El Sheikh.

Stavo rischiando di rinunciare all’investimento perfetto solo per mancanza di denaro fresco. I miei collaboratori chiedevano continuamente quattrini. Era terribile rischiare di dover rinunciare all’investimento perfetto!

Come ne uscì?

In un modo o nell’altro, e con molti patemi d’animo, riuscii a resistere. E questa è un’altra lezione di vita che lascio ai miei sette figli. Proprio nei momenti difficili, anche quando tutto sembra perso, occorre reagire, tenere botta. Mai arrendersi. Fu così che arrivammo al 27 maggio 1994, data in cui consegnammo la prima fase del progetto.

Strada in discesa?

Tutt’altro. E per colpa mia. All’inizio commisi grandi errori perché avevo in mente solo l’immobiliare e non la gestione. Inoltre scoprii che sul posto uno dei responsabili, in combutta con gli spagnoli che lui stesso aveva inserito, rubava. Fu un altro brutto colpo.

Sharm, l’investimento perfetto

93

Riuscii a fargli passare dei brutti momenti e si fece anche qualche giorno di galera. Il tutto risultò molto stressante.

Come reagì il mercato alla novità Sharm?

Le vendite andarono subito bene e questo ci procurava i flussi di cassa per completare l’investimento. La carta vincente furono Alba Parietti e Omar Sharif.

Cosa c’entrano la Parietti e Omar Sharif?

Al tempo erano al top della carriera e decisi di puntare su di loro come testimonial. Ricordo la Parietti, in particolare, che ho avuto modo di apprezzare come una vera professionista. Con lei l’accordo fu velocissimo, come sempre, dopo una cena nel mio albergo a Cortina. In cambio le diedi a metà prezzo una villa in prima fila a Sharm. Poi cominciai a organizzare qualche aereo di giornalisti e possibili acquirenti degli immobili, portandoli sul posto.

Quali furono le loro reazioni?

Rimanevano tutti colpiti. C’era un sentimento particolare anche se come fornitura di servizi non era la Sharm di oggi. Per esempio non c’erano ristoranti e mi ero organizzato con pescatori locali: cucina naturale, pesce fresco e aragoste appena pescate. Poi le cene nelle tende dei beduini, che erano diventati amici. Funzionò: le prime 15 ville vennero vendute subito e l’investimento decollò.

Fino a quando siamo riusciti a vendere su un solo mercato, quello italiano, fino a 500 milioni di dollari.

Missione compiuta?

Per la verità solo in parte. Certo avevo centrato l’obiettivo, ottenendo soddisfazioni economiche adeguate. Ma avrei potuto fare di più.

Chi fermò la spirale virtuosa?

Purtroppo ho avuto problemi con le autorità egiziane locali.

All’inizio era andato tutto veramente bene. Forse perché ci avevano considerato dei sognatori con scarse possibilità di successo che, tra l’altro, spendevano un sacco di denaro e non avevano concorrenti. Poi, con il successo dell’iniziativa, i riflettori si accesero su di noi e si creò anche un clima di invidia, di gelosia nei confronti di chi aveva realizzato un grande progetto.

94

Sharm, l’investimento perfetto

Con quali conseguenze?

Boicottaggio a tutto campo, che mi ha impedito di ingrandire l’opera con una serie di iniziative per fare di Coral Bay un centro ancora più importante. Da un certo momento in poi ogni mia richiesta veniva bloccata sistematicamente. E difendersi non è stato facile. L’Egitto è un Paese dove i contatti personali contano più della legge e dove la legge parlata è sicuramente più importante di quella scritta, con quanto ne consegue. Va tenuto presente che io ero l’unico straniero che ha sviluppato un progetto a Sharm. Gli altri sono tutti di nazionalità egiziana o, comunque, araba. È stata dura?

Certamente sono visto come un alieno. L’unica salvezza è stata fare le cose meglio di come le potessero fare gli altri e in particolare meglio di un certo Hussein Salem, uomo molto vicino a Mubarak che voleva comperare a poco prezzo il Coral Bay. Quale è stata la difficoltà più grande?

Una legge approvata nel 2005 vietò gli acquisti d’immobili in proprietà piena, permettendo solo le cessioni in usufrutto. Fu un cambiamento grave, ma ci adeguammo. I problemi si ingigantirono quando il governo decise di annullare tutte le registrazioni fatte in precedenza, con legge retroattiva. Insomma, l’Egitto si è dimostrato un Paese ancora più pasticcione dell’Italia.

Per voi è stato un bel problema…

Ho parlato con tante autorità e anche con il Primo Ministro per far loro capire che alla lunga le scelte fatte sarebbero state pregiudizievoli per il loro stesso Paese. Niente da fare. Per tutta risposta hanno arrestato il nostro direttore generale trattenendolo in galera nove mesi con accuse ridicole, del tipo che la Sicot, società capofila degli investimenti a Sharm, e il sottoscritto eravamo il braccio destro di Israele nell’operazione di conquista delle terre del Sinai.

C’è un fondo di verità nelle accuse? Lei ha avuto rapporti con gli israeliani?

Niente di vero. Assolutamente niente. Non abbiamo mai neanche pensato di vendere delle proprietà agli israeliani. Nonostante

Sharm, l’investimento perfetto

95

ciò ho dovuto fare i conti con sentenze assurde emesse dai tribunali egiziani. Peccato. Ma, a parte queste difficoltà, ci sono altri investimenti che avrei voluto realizzare ma che non ci sono stati permessi.

Può citarne qualcuno?

Per esempio la creazione di studi cinematografici che avrebbero avuto un grande successo, come ha dimostrato il caso di Bolliwood in India, e anche il grande centro realizzato in Bulgaria, sul Mar Nero. L’idea di creare degli studi cinematografici era ottima perché avrebbero potuto essere utilizzati anche come attrazione, esattamente come per gli Universal Studios a Los Angeles. Due variabili giocano a favore di Sharm: il costo del lavoro e il clima. Il progetto era appetibile ma, anche in questo caso, il governo l’ha bocciato con la scusa che c’era una società governativa del Cairo che produceva film e di conseguenza saremmo stati in concorrenza.

Altri esempi?

Un progetto a cui tenevo molto è la creazione di un Lago di Como in miniatura alle spalle di Coral bay.

Il progetto sponsorizzato dall’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi?

Sì, proprio quello. Berlusconi prese a cuore l’iniziativa e andò perfino da Mubarak.

Con quale risultato?

Tornò e mi disse: “Tutto a posto. Vada tranquillo e vedrà che non ci saranno problemi.” Purtroppo non accadde nulla.

Come aveva conosciuto l’allora premier?

Berlusconi venne a Sharm due volte per i Summit internazionali che là si svolgevano e naturalmente lo ospitammo noi al Coral Bay. Tra l’altro tra i più assidui frequentatori del Coral Bay vi erano Schifani e Buonaiuti.

In politica, oltre a Berlusconi, ha avuto altri contatti?

Urbani è diventato un amico. E anche il presidente del Senato, Renato Schifani del centro destra, uno che non mi ha mai chiesto niente.

Solo esponenti del centro destra?

96

Sharm, l’investimento perfetto

Guardi, al Coral bay sono venuti, peraltro senza chiedere nulla, anche Emma Bonino e Romano Prodi.

Immaginare il Lago di Como nel Sinai appare stravagante.

Di cosa si tratta? È un investimento sinergico con quelli realizzati, che può triplicare le presenze attuali. Ma che è stato bocciato. Così come è stata bocciata l’idea del delfinario in mare, che sarebbe stato meraviglioso. Idem l’albergo a otto stelle con 70-80 camere, che volevo costruire scavato nella roccia, di fronte alle barriere coralline. È un progetto splendido, con passaggi sopra le barriere coralline e il ristorante sotto il livello del mare. A tutto hanno risposto con una raffica di no. E io ne ho tratto le conseguenze: ho capito che per quell’area abbiamo già realizzato il massimo. Non ho però ancora rinunciato a clonare il Lago di Como. Sono convinto che ci riuscirò.

Naturalmente sarà balneabile, navigabile, con acqua salata. Senza barriere coralline, ma pazienza, non importa. Così la gente potrà avere quello che vuole: la villa in prima fila, sull’acqua. E dietro al lago le colline. È un grande progetto, da 2 miliardi di investimenti in sei anni.

La caduta di Mubarak aiuterà?

In effetti l’atteggiamento del nuovo governo è cambiato. Anche perché sono disperatamente alla ricerca d’investitori.

Il loro tasso d’integralismo è molto superiore…

Storie che si leggono sui giornali. Vengono scritte una volta e poi si continua a ripeterle. Sa cosa mi hanno detto rappresentanti del nuovo governo? Le auguriamo ancora più successo e anche di vedere tante donne a seno nudo sulle sue spiagge.

Che effetto ha avuto la rivoluzione di primavera su Sharm?

Inizialmente si è bloccato tutto. Poi però ha ripreso.

Lei ha conosciuto Mubarak?

L’ho incontrato un paio di volte, sempre in delegazione. E devo dire che non è servito a nulla. I legami con il mio rivale Hussein Salem, evidentemente, erano troppo forti. L’unica difesa è stata togliermi qualche piccola soddisfazione facendo qualche scherzetto a chi era dietro i boicottaggi.

Sharm, l’investimento perfetto

97

Per esempio?

Avevo preso in considerazione la costruzione di un campo da golf proprio dietro al Coral Bay. Ne avevo parlato con il governatore del Sinai ma successivamente mi resi conto che era un progetto di scarso valore economico. Certo avrebbe contribuito a valorizzare il Coral Bay. Incontrai per altri motivi il governatore del Sinai e lui mi disse che ci sarebbero stati due campi da Golf a Sharm. Capii all’istante che il governatore ne aveva parlato con Hussein Salem, il quale aveva pensato: “se lo fa Preatoni deve essere business”.

Organizzai per incontrare il suo migliore amico e nel mezzo della conversazione dissi: “Dovrebbe convincere Hussein Salem a costruire il campo da golf in società con me al 50% poiché c’è un ottimo mercato per un campo da golf ma non sono sicuro che ci sia mercato per due campi.” La risposta, come prevedevo, fu secca e un po’ arrogante: “Il golf lo faccio tutto io, da solo.” Detto e fatto, con il risultato che, come prevedevo, l’hanno costruito a fianco dei miei terreni e perde un sacco di soldi. Alla fine credo che abbia capito il piccolo tranello e, anche per questo, mi ha odiato ancora di più.

Qual è il bilancio della operazione Sharm? È stato un ottimo investimento che avrebbe potuto però essere ben più importante.

Paesi Baltici sotto tiro

Nessuno è profeta in Patria, ma lei non lo è stato neppure in Egitto. Il terzo investimento importante è stato nei Paesi Baltici.

Come è maturata la sua scelta?

Casualmente, come spesso accade nella vita. Un amico, dirigente di una società chimica che aveva il sottoscritto come azionista di riferimento, era in cerca di nuovi mercati. E decise di puntare sull’Estonia, dove cominciò a recarsi con una certa frequenza. Per questo cercò di convincermi ad accompagnarlo nei suoi viaggi, peraltro con motivazioni che non avevano nulla a che vedere con il lavoro.

Scusi?

Sto parlando di gonne.

Lei ha una discreta fama di appassionato del genere…

Non smentisco. Eravamo a metà degli anni Novanta e il fuoco di sbarramento contro il sottoscritto era in corso. La situazione volgeva al peggio ed ero alquanto depresso. Quindi fu facile convincermi a trascorrere con lui un fine settimana a Tallinn.

Come andò?

Devo riconoscere che l’ambiente risultò piacevole.

E le donne?

In effetti erano molto belle e forse anche disponibili, ma la cosa che mi interessò di più fu scoprire un Paese dalle mille opportunità. A partire dal mercato immobiliare. Il perché era facile da capire.

100 Paesi Baltici sotto tiro

Il Paese doveva uscire dal comunismo e le privatizzazioni erano un passaggio obbligato, ma non c’era ricchezza e neppure credibilità presso gli investitori internazionali. Per questo era fin troppo facile immaginare che avrebbero venduto a prezzi bassissimi.

La realtà fu pari alle aspettative?

In effetti l’ambiente era piacevole. La gente era assolutamente onesta, musoni come nessun altro al mondo, ma affidabili e grandi lavoratori, che erano stati coinvolti nel Comunismo assolutamente per caso. Si trattava di un regime che non c’entrava nulla con il loro modo di essere. La stragrande maggioranza di loro era sempre stata contraria. Così cominciai a valutare le diverse opportunità d’investimento.

Da solo oppure con altri partner?

In quel momento avevo, caso raro, una buona liquidità. Nonostante ciò, per qualche tempo, pensai di coinvolgere un altro importante immobiliarista.

Di chi si tratta?

Ne parlai con Salvatore Ligresti e sembrava disponibile. Ma Cuccia disse: “No, con Preatoni non si fanno affari.”.

Glielo riferì lo stesso Ligresti?

Ovviamente no. Mi spiegò che aveva già fatto un salto dalla Sicilia a Milano e non era il caso di farne un altro ancora più impegnativo, da Milano ai Baltici. Ma, diversi anni dopo, mi confermò lui stesso il niet di Cuccia.

In quali settori decise d’investire?

Iniziai dalle banche, cercandone una che avesse caratteristiche simili a quelle che avevo scalato in Italia. Alla fine ne trovai una molto interessante: la Uhispank, che aveva bisogno di essere ricapitalizzata. Da otto mesi la EBRD, controllata dalla Unione europea, stava facendo una due diligence per sottoscrivere un aumento di capitale pari al 10 per cento. Io incontrai i capi della Uhispank due sole volte, capii la situazione e decisi di sottoscrivere seduta stante l’aumento di capitale. Il Presidente e l’amministratore della banca, due giovani ragazzotti, rimasero impressionati dalla mia velocità di decisione. E lo stesso giorno, un venerdì, diedi l’ordine di

Paesi Baltici sotto tiro 101

trasferire circa 10 miliardi di lire. Tornai in Italia sabato e domenica pomeriggio ricevetti una telefonata dall’intermediario che mi aveva presentato i vertici della banca: la proposta fu di riservarmi un aumento di capitale pari al 30 per cento.

Il prezzo era conveniente?

Sì, molto basso. Il lunedì mattina alle 7 ero in aereo per Tallinn, via Copenaghen. L’affare era fatto, ma chiesi tempo per raccogliere i capitali necessari. Lo ottenni e tornai in Italia, scatenandomi alla ricerca dei quattrini.

Dove li trovò?

Organizzai due voli charter e portai alcuni possibili investitori in Estonia. Furono viaggi di successo.

Perché?

Il Paese piaceva, le donne ancora di più e la gente locale si dimostrava affidabile.

Grande successo?

Raccogliemmo la liquidità necessaria e diventammo gli azionisti di riferimento della seconda banca dei Baltici. Il secondo azionista, dopo di noi, era un fondo norvegese che aveva il 9 per cento, rappresentato da un certo Signor Nessuno, di origine norvegese.

Che anno era?

La primavera 1996, pochi mesi prima che partisse il mercato azionario di Tallinn. Nel Paese vi era una certa euforia poiché, dopo anni di sofferenza, tutti pensavano di potersi arricchire. Intanto la banca aveva cominciato a crescere. Il presidente era un certo Schmidt, che aveva il grave limite di parlare molto male l’inglese.

Com’erano i vostri rapporti?

Nel complesso buoni, ma avevo l’impressione di parlare con persone che avevano una scarsa visione imprenditoriale. Non solo.

Dopo qualche tempo scoprii che la stessa banca spingeva i clienti ad acquistare azioni Uhispank prospettando capital gain mirabolanti. Il prezzo di conseguenza saliva ma, secondo me, senza motivazioni economiche reali.

Con quali effetti?

In pochi mesi le quotazioni passarono da 12 corone a 30 corone.

102 Paesi Baltici sotto tiro

A quel punto cominciai a venderne, realizzando un utile intorno al 150 per cento in un anno.

Tutto bene quindi?

Sì sul piano finanziario, ma nel frattempo avevo scoperto una cosa gravissima, almeno sul piano imprenditoriale: Schmidt utilizzava i depositi bancari per partecipare alle frequenti privatizzazioni industriali che vi erano sul mercato, arrivando così ad acquisire partecipazioni che gli permettevano di allargare il suo potere. Non si rendeva conto però che era facile acquistare con i soldi della banca, ma molto più difficile gestire le varie attività, soprattutto in mancanza d’imprenditori. Era una politica suicida. Per me l’alternativa era tra dichiarargli guerra oppure smobilitare adagio adagio il pacchetto azionario che controllavo.

Di chi erano i titoli?

Un terzo di mia proprietà e due terzi di altri clienti.

A quanto vendeste?

Mediamente tra le 40 e le 50 corone, incassando una plusvalenza intorno al 300 per cento. Le ultime vendite le feci a 70 corone.

Un bel guadagno…

Non male ma se il denaro fosse stato tutto mio avrei resistito di più. Al contrario, trattandosi di denaro di terzi, la prudenza era d’obbligo. Comunque un solo azionista importante rimase più a lungo: la Banca Agricola Mantovana.

Come mai era azionista di una banca estone?

Li avevo convinti io. E quando spiegai loro cosa stava avvenendo furono molto lenti nel prendere la decisione di vendere. Fu così che riuscirono a vendere per 125 corone, con una plusvalenza che quell’anno contribuì in misura notevole a far quadrare i conti della banca.

E Schmidt?

Quando ci incontravamo, e il titolo continuava incredibilmente a salire, mi guardava come se fossi un neofita della finanza e lui un grande esperto, nonostante la giovane età, non più di 33 anni. In particolare un giorno dell’ottobre 1997 il titolo toccò il prezzo di 170 corone e Schmidt mi fece alcuni commenti canzonatori.

Paesi Baltici sotto tiro 103

Lei ci rimase male?

Un po’ sì, non lo nascondo, ma per poche ore. Il giorno dopo giunsero notizie del crollo dei mercati del Far East e il titolo Uhispank imboccò la strada del grande ribasso, aggravato dalle indiscrezioni sulle difficoltà che c’erano nell’amministrare le società che Schmidt aveva comprato.

Come finì?

In poche settimane il titolo andò a zero, la banca rischiò il fallimento e venne salvata soltanto grazie all’intervento di un grande gruppo bancario svedese, la Seb. Era arrivato il tempo di passare agli immobili…

I presupposti per operazioni importanti c’erano tutti. Il Paese doveva essere privatizzato. E subito. Ma passare dalle parole ai fatti non è mai facile. Per privatizzare un Paese occorre darsi delle regole, approvare leggi adeguate. Gli estoni non ne avevano avuto il tempo. Questa è la verità, semplicemente questa. Molti pensavano, sbagliando, che volessero approfittare della mancanza di norme per fare i furbi. Non era così. Io avevo ben chiaro che non vi era alcun disegno perverso nei confronti degli investitori stranieri. Al contrario, la maggioranza degli estoni era fortemente favorevole agli investitori internazionali che però non si fidavano, poiché come spesso succede i non-imprenditori fanno le cose come le fanno tutti. L’innovazione è una caratteristica tipica degli imprenditori. E questo mi è stato di grande aiuto, perché non avevo concorrenti seri.

Come vi siete mossi?

In alcuni casi partecipando direttamente alle aste. In altri supportavamo un intermediario locale che trafficava in modo da ottenere la privatizzazione ai prezzi più bassi possibile.

Trafficava?

Si, proprio così. I giochi infatti erano molto spesso abbastanza sporchi. A noi questo interessava relativamente perché acquistavamo a prezzi ufficiali e se qualcuno faceva delle creste non erano affari nostri.

104 Paesi Baltici sotto tiro

Quale fu il primo acquisto?

Un’area che era perfetta per la costruzione di uno shopping center. Il venditore pensava di avere spuntato un ottimo prezzo e probabilmente per i prezzi dell’epoca era vero. Il fatto è che lui non aveva alcuna idea di come utilizzare quel terreno. Io, invece, avevo capito che era un terreno perfetto per un centro commerciale. E così feci.

Come andò?

Fu un grande successo. Ebbi momenti di tensione finanziaria poiché era praticamente impossibile trovare finanziamenti bancari. E di conseguenza dovevo fare affidamento soltanto sulle mie forze. Gli estoni erano particolarmente invidiosi per i successi che avevo avuto investendo nella Uhispank e forse anche incazzati perché avevano perso il 100 per cento degli investimenti fatti. Va tenuto presente che quando io vendevo moltiplicando l’investimento chi comperava erano estoni, che poi quando il titolo è crollato si sono trovati con carta straccia in mano. Anche per questo facevano il tifo contro, convinti che in Estonia la gente non avesse il denaro per comprare nei negozi del centro commerciale che andammo a costruire (Kristiine Shopping Center). Io ero convinto esattamente del contrario. Anche perché nel mondo era ormai dimostrato che il modo più conveniente per la distribuzione dei prodotti era proprio il centro commerciale.

Andò tutto bene fin dall’inizio?

Aprimmo il primo giorno con qualche patema d’animo. In realtà la fila per entrare era talmente numerosa che abbiamo dovuto chiamare la polizia. Ancora oggi posso dire che è stato uno degli investimenti migliori fatti. E ne seguirono altri analoghi.

Furono tutti degli affari?

Non proprio tutti. Per esempio acquistammo un immobile nel centro di Tallinn facendo il grave errore di aprire negozi in tutti i piani e fu un insuccesso. I negozi dei piani superiori, infatti, non hanno funzionato. La consolazione sono stati gli investimenti avviati nel frattempo negli altri due Paesi Baltici, Lettonia e Lituania,

Paesi Baltici sotto tiro 105

ed in particolare a Riga, con la realizzazione del Domina Shopping.

Per dare un’idea, il Kriistine venne venduto 12 anni dopo con una plusvalenza netta del 620% e il Domina Shopping dopo 5 anni con una plusvalenza del 210%.

La Capofila del gruppo era Pro Kapital?

Sì, quotata alla Borsa di Tallinn, anche se con scarsa soddisfazione perché i volumi trattati erano assai modesti.

Proprio la Pro Kapital le provocò guai seri…

Non per mia responsabilità. L’errore vero fu l’assunzione come financial manager di una collaboratrice che ne combinò di tutti i colori. E poté farlo perché avevo fatto un errore: darle potere di firma in banca, scelta che avevo fatto perché non vivevo costantemente a Tallinn.

Cosa combinò?

Diciamo che la combinò grossa, molto grossa. L’oggetto del contendere fu un’area immobiliare in Logi Street, in pieno centro di Tallinn, che veniva privatizzata a un prezzo base di asta intorno a 51 milioni di corone. Il prezzo era interessante, ma la nostra situazione di liquidità ci consigliava di non procedere all’acquisto.

La sorpresa fu che un lunedì mattina ricevetti la telefonata della manager che mi informava del grande business: l’acquisto dell’area a 65 milioni di corone! Ci misi veramente poco a scoprire quanto era successo: lei stessa aveva partecipato alla privatizzazione acquistando l’area al mattino pagandola 51 milioni, per poi rivenderla alla Pro Kapital il pomeriggio a 14 milioni in più. Rubati. E oltre al danno la beffa, perché l’operazione aveva prosciugato la liquidità della società.

Come reagì?

Mi precipitai a Tallinn, ebbi con lei un colloquio burrascoso e la minacciai di portarla in tribunale. Per tutta risposta si vendicò recandosi al Tallinn Stock Exchange per denunciare le irregolarità formali commesse da Pro Kapital. Il ridicolo è che la responsabile di tali comunicazioni era proprio lei. Non solo. Poche settimane dopo cominciò ad operare in Estonia la Tax police, contro l’evasione fiscale. E la manager fu puntuale all’appuntamento denuncian-

106 Paesi Baltici sotto tiro

do supposte irregolarità fiscali del gruppo.

Risultato?

Cominciò una girandola vorticosa di ispezioni, sequestri e quant’altro, alla ricerca di prove che non esistevano. Un vero disastro.

E la manager?

L’unica consolazione è che in breve tempo finì messa peggio di me. Così per evitare la galera fuggì all’estero. In particolare se ne andò in Croazia, dove non c’era l’estradizione con l’Estonia.

Qual è stato l’epilogo?

Un lungo processo per evasione fiscale nei miei confronti e nei confronti di una società offshore.

Venne condannato?

Per quanto riguarda il sottoscritto vinsi la causa, mentre per la società offshore arrivammo ad un compromesso onorevole.

Ha continuato ad investire nei Baltici?

Fino al 2007 sì, perché è stato un ottimo mercato. Poi però, a causa della recessione mondiale, si è inceppato. Da due anni a questa parte il mercato ha ripreso a salire.

Contemporaneamente avevate aperto anche un fronte in Russia?

L’esordio è stato nel 1997, con una prima iniziativa a San Pietroburgo. La tecnica è stata la stessa dei Baltici: acquisto d’immobili a basso prezzo, sviluppo, rivendita a prezzi più elevati.

Grandi opportunità da cogliere anche in Russia?

In realtà all’inizio è stato più difficile perché il mercato non era vergine come nei Baltici, dove praticamente avevamo lavorato senza concorrenza. In Russia, al contrario, abbiamo dovuto fare i conti con investitori locali, tra l’altro molto determinati. In più si tratta di un Paese dove bisogna essere sempre amici degli amici. Nonostante ciò abbiamo investito e ottenuto risultati interessanti, comprese le operazioni fatte in Siberia.

La Siberia è una zona impegnativa Confermo. Ho dovuto andarci spesso, viaggiando su aerei tenuti insieme con la colla e dormendo in luoghi da incubo. Oggi le

Paesi Baltici sotto tiro 107

cose sono già molto cambiate sia sul piano dei voli che sul piano alberghiero. Ricordo di aver fatto tanti viaggi con un aereo privato (uno Yak40 che era stato l’aereo di Brezniev) poiché allora non si trovavano voli di linea.

Ma la campagna di Russia è già finita?

Al contrario, se io avessi liquidità investirei sicuramente nelle iniziative immobiliari in Russia. Non a Mosca o San Pietroburgo ma certamente a Ekaterinburg, Novosibirsk, Lipetsk, Tomsk, Tyumen, Kaliningrad e così via, per costruire edilizia residenziale di alto livello e shopping center.

Per vincere occorre sapere

È tempo di bilanci. Qual è quello della sua vita?

Certo ho commesso errori, anche gravi. Soprattutto all’inizio, raccoglievo liquidità e la affidavo ad altri. Ma a quel punto ho pagato il prezzo della disonestà di molti e non avevo scampo perché, nonostante avessi voglia d’imparare, non avevo la maturità per amministrare i fondi personalmente. Ma ho anche ottenuto una lunga serie di successi, scegliendo i tempi giusti degli investimenti in Borsa, con la scalata alla Bi-Invest e alle banche e con gli investimenti di Sharm El Sheikh, dei Baltici, della Russia e di altre cose minori che non abbiamo potuto trattare nel libro..

Chi deve ringraziare?

La capacità di vedere lontano. Dicono che dietro le grandi fortune c’è sempre un crimine. Nel mio caso non è così. Mia mamma, e anche la mia ex segretaria Liliana, che in precedenza aveva lavorato 17 anni in un ospedale per matti, a Berna (e che pertanto aveva facilità a capirmi), me lo hanno sempre riconosciuto: riesco a prevedere come va il mondo, a volte in anticipo di quattro, cinque anni. L’unica attenzione è non esagerare nell’anticipare gli eventi, perché il rischio diventa quello di essere troppo avanti.

Può fare un esempio?

Sono convinto che migliorerà moltissimo il modo di vendere la vacanza. Ho investito parecchio in questa direzione ma non sono ancora riuscito ad avere ragione poiché sono troppo in anticipo sui tempi.

110 Per vincere occorre sapere

Per contro, attualmente viene celebrato il successo degli investimenti immobiliari in Estonia, Lettonia, Russia. Sono tra i pochi mercati che nel 2012 sono andati in controtendenza. Io sono stato tra i pochissimi a capirlo diversi anni fa. E le dico di più: in quei paesi il bello deve ancora venire.

Perché?

L’Estonia in particolare non ha debito pubblico, la Lettonia molto poco, la Russia soltanto il 7 per cento. Hanno, di conseguenza, grandi margini per indebitarsi. Prima o poi andranno al potere governi di centrosinistra, che decideranno una politica espansiva finanziata dal debito. Un sistema classico, che per quei Paesi sarà un volano eccezionale di sviluppo.

Che l’Italia non si può più permettere…

Esattamente. Nei Paesi baltici, invece, noi arrivammo puntuali all’appuntamento: i terreni più interessanti li abbiamo acquistati noi comprando il più possibile, fino a quando non avevamo più soldi da investire. In quei Paesi, dopo la caduta del comunismo, c’era una voglia matta di privatizzare. Ma privatizzare imprese è relativamente facile perché i possibili compratori nel mondo possono essere numerosi, mentre privatizzare gli immobili in un Paese senza ricchezza e con scarsa credibilità internazionale è molto più problematico.

Non c’erano quasi compratori e noi abbiamo pagato i pezzi più belli quattro cocomeri e un peperone. In Russia abbiamo fatto poco perché avevamo speso tutto in Estonia, Lettonia e Lituania. Qualche tempo fa ero a Tallin, capitale dell’Estonia, accompagnato dalla figlia più piccola e abbiamo incontrato un gruppo di turisti italiani, con la guida che descriveva il centro cittadino e raccontava le proprietà di un imprenditore italiano, un certo Preatoni. Avrei dovuto esserne fiero ma ha prevalso lo sconforto per non essere riuscito a fare di più.

Mi veniva da piangere quando ho dovuto rinunciare a immobili d’epoca eccezionali nel centro di Pietroburgo, fatiscenti ma bellissimi.

Nella carriera d’imprenditore ha ammesso però anche errori gravi. A cosa sono stati dovuti?

Certamente, nella fase iniziale, ha contribuito l’inesperienza.

Successivamente una certa presunzione, abbinata all’avere punta-

Per vincere occorre sapere 111

to su collaboratori sbagliati, non sempre all’altezza e a volte disonesti. Chi ha avuto troppo successo è sicuramente a rischio errore.

Ci sono stati momenti in cui dentro di me scattava una molla: la convinzione che tutto quello di cui mi occupavo diventasse oro.

Come si può riuscire a fare operazioni finanziarie o immobiliari di successo? È decisivo fare previsioni adeguate per poi ricavarne le politiche d’investimento. In più occorre essere flessibili perché le previsioni possono rivelarsi parzialmente o anche totalmente errate.

Qui c’è bisogno di una ulteriore abilità: essere capaci di adattarsi ai cambiamenti senza cadere in trappole mentali come la difesa dogmatica di quanto era stato previsto.

Aldo Ravelli sosteneva di essere aiutato dalla capacità di essere al corrente d’informazioni riservate…

Chi può negarlo? Sia per i legami con esponenti di spicco del mondo ebraico originati dalla prigionia in un campo di concentramento nazista sia per i legami con personaggi influenti della sinistra, comunista e non. Per quanto mi riguarda sono convinto che occorra studiare, analizzare la realtà senza pregiudizi. L’unico obiettivo è capire il modo migliore per investire il denaro in futuro. Ecco perché, da quando è esplosa la grande crisi, posso dire di avere letto di tutto e di più. Un grande economista, il premio Nobel per l’economia Krugman, mi ha chiesto perché m’interesso così tanto di economia. Gli ho risposto: questo mi da un grande vantaggio come imprenditore.

Aiuta a vedere lontano in una società che vive solo per il presente.

La verità è che non si studia il passato perché non si crede nel futuro. Certo, nel mio mondo, sono una mosca bianca. Leggere, studiare serve anche a capire quando si è osato troppo ed è il caso di fermarsi. Ligresti, per esempio, è senz’altro uno che non ha mai studiato economia. E non ha avuto la capacità di fermarsi. Pensava che l’investimento nel mattone in Italia avrebbe comunque continuato a dare frutti adeguati. Così ha continuato a investire, indebitandosi nel momento sbagliato e, alla fine, è saltato.

Per lei il denaro è così importante?

Potrebbe sembrare strano ma il denaro non è la molla più im-

112 Per vincere occorre sapere

portante che mi spinge in continuazione. È probabile che la spinta mi derivi dalla voglia di lasciare un segno del mio passaggio in questo mondo. Non essendo credente mi sono creato questa illusione; certamente aiuta a vivere ed inoltre avere sette figli incrementa la voglia di questa illusione.

Molti ritengono che i sacrifici siano una parte fondamentale del successo.

Concordo poiché la tenacia premia quasi sempre. È evidente che commentatori e giornalisti sono molto spesso tutt’altro che oggettivi. Hanno le loro idee, le espongono a volte con efficacia perfino quando sono chiaramente inadeguate o sbagliate, ma si distinguono per la testardaggine nel ribadire le loro posizioni ignorando ogni verifica dei fatti. Come accade spesso alla mente umana, queste persone finiscono per cogliere soltanto gli elementi che confermano le loro teorie, limitando così la capacità di pensiero e di previsione del futuro.

In una visone di lungo periodo qual è il problema più importante?

Il problema potrebbe essere il debito pubblico, ma soprattutto il modo sbagliato in cui in Europa si cerca di risolverlo ed in particolare quello che ha fatto il governo Monti.

Può spiegare il perché?

Molto semplice, la matematica non è un’opinione. Attualmente noi paghiamo intorno al 4,4 per cento d’interessi su un debito pubblico di 2 mila miliardi, che significano un costo annuale intorno a 88 miliardi di Euro. L’avanzo primario (l’avanzo prima del pagamento degli interessi sul debito pubblico) sarà di circa 50 miliardi.

Quindi è corretto sottrarre dagli 88 miliardi i 50 miliardi, con il risultato che ne restano 38 da trovare nel 2013.

Il fiscal compact firmato da Monti prevede la riduzione del debito pubblico del 3% l’anno per i prossimi 20 anni. Il 3% di 2000 miliardi vuol dire 60 miliardi. Significa che lo Stato italiano dovrebbe trovare, nel 2013, 60 miliardi più 38 miliardi cioé 98 miliardi in totale. È assolutamente impossibile, visto che la manovra tanto odiata di Monti è stata di 21 miliardi. Ecco perché i numeri, e

Per vincere occorre sapere 113

non affermazioni ideologiche, dicono senza timore di smentite che la missione è impossibile.

Come si esce dalla grande crisi?

Tutti dovrebbero studiare di più. In particolare dovrebbero capire come si è usciti dalla drammatica crisi del 1929. La svolta definitiva è stata quando è scoppiata la guerra e il sistema ha cominciato a produrre beni completamente inutili come gli armamenti, che certo non migliorano la qualità della vita. Questo è stato il segnale definitivo che Keynes, perlomeno nei momenti di depressione, aveva assolutamente ragione. Ma questa lezione è stata dimenticata.

Ed è proprio questo che Monti non ha capito nella presunzione, molto professorale, che il rigore possa essere coniugato con la crescita. Non è così, come i risultati di chi ha tentato di farlo dimostrano. In democrazia le sacche di inefficienza e gli sprechi vanno eliminati in tempi lunghi e facendolo quando l’economia va bene, non quando crolla. Siamo sicuri che la ricetta migliore sia quella di ridurre ampi strati della popolazione sul lastrico? Siamo sicuri che seminare disperazione sia la strada migliore da seguire? L’errore è grave. Anche perché in democrazia ci sarà sempre un partito che si candida a rappresentare gli scontenti, con risultati destabilizzanti.

A chi si riferisce? A Beppe Grillo?

Esattamente.

Molti esperti erano d’accordo con Monti…

Sono proprio quelli che successivamente, quando è apparso chiaro il fallimento dell’operazione, si sono rifugiati in corner dicendo: il rigore era giusto, ma c’è stato un eccesso di rigore. Lo hanno detto i Giavazzi, gli Alesina, i Quadrio Curzio, i Boeri, i Bruni lo stesso Monti. Troppo comodo. Manovre che tagliano 20 miliardi su un debito pubblico di 2 mila miliardi fanno solo il solletico, mentre hanno effetti devastanti sui consumi. La verità è che economisti e professori non sperimentano mai sulla propria pelle i risultati delle loro teorie.

E gli imprenditori, quelli che Keynes chiamava gli uomini di azione, si illudono di prescindere dalla teoria. Sbagliano. Ogni teoria economica ha effetti sugli uomini di azione. E quando queste teorie relativamente al periodo sono sbagliate producono effetti devastanti.

114 Per vincere occorre sapere

Ma anche Lei è un uomo d’azione?

Io sono un caso particolare. Sono sicuramente un imprenditore ma ho il gusto e la passione dell’economia e questo mi ha impedito di fare errori mortali come sarebbe stato quello di fare investimenti nuovi negli ultimi 5 anni.

Può fare un esempio di come i tagli non servono e, anzi, rischiano perfino di essere controproducenti?

Prendiamo le guardie forestali nel Mezzogiorno d’Italia. È chiaro che il loro numero va ridotto, che rappresentano uno scandalo.

Ma è altrettanto evidente che licenziarle in tronco ha un effetto sicuro: devastare le loro vite e quelle delle loro famiglie. Solo qualche bontempone può pensare di mandare in rovina la gente e poi sorprendersi se smettono di consumare innescando una spirale di crisi sempre più drammatica.

Come uscirne?

La risposta americana è chiara: immettere liquidità nel sistema, senza troppo timore d’innescare fenomeni d’inflazione. Non farlo, in momenti come questo, è da masochisti. Sono stato tra i primi a dirlo ed ero isolato. Poi ha cominciato a teorizzarlo gente di livello, come il premio Nobel per l’economia Krugman.

E in Italia?

Carlo De Benedetti è stato tra i primi a capire il rischio vero: la deflazione, anche se forse non ha potuto parlare chiaro fino in fondo essendo pienamente coinvolto nelle vicende del Paese Italia.

Qual è la via di uscita?

L’unica strada è l’inflazione, naturalmente controllata. So che non è popolare dirlo, ma è così.

Ma negli Stati Uniti l’immissione di liquidità non ha significato inflazione. Continuerà così?

L’inflazione parte quando parte la domanda di consumi. Ma di essa, almeno per il momento, non c’è traccia. La crisi è veramente drammatica. Certo aumenta il potenziale inflazionistico.

Perché occorre una inflazione controllata?

Oggi agire sulla crescita non è sufficiente. Al contrario l’inflazio-

Per vincere occorre sapere 115

ne programmata permetterebbe di uscire dalla crisi in modo meno doloroso.

Cosa intende per inflazione controllata?

Una inflazione tra il 5 e il 10 per cento.

Ma questo ridurrebbe il potere di acquisto dei consumatori… È chiaro che la cura resta dolorosa, ma è la meno dolorosa. E, soprattutto, è quella che impatta meno a livello psicologico. Un conto è il taglio secco degli stipendi del 5 per cento e un conto è la riduzione del potere di acquisto. Naturalmente l’inflazione programmata necessita la tutela dei più deboli, che rischiano di precipitare sotto il livello della sussistenza.

Come?

Per esempio rivalutando le pensioni sotto i 1000 euro. Il sistema dell’inflazione programmata darebbe anche maggior elasticità: il potere di acquisto colpirebbe tutti ma gli imprenditori, e anche lo Stato, avrebbero la possibilità di premiare chi merita aumentando i loro stipendi.

L’inflazione controllata è l’alternativa alla riduzione del debito pubblico con i sacrifici? È sicuramente più agevole diminuirlo creando inflazione. Il solo modo per risolvere efficacemente il problema dei problemi, cioè l’ammontare enorme del debito pubblico, così come nella maggior parte dei Paesi occidentali, è quello di provocare inflazione. Così, in buona sostanza, il costo del riequilibrio del debito pubblico verrebbe fatto pagare ai sottoscrittori del debito pubblico stesso. Certo non è una soluzione che va sbandierata ai quattro venti, anche se io non riesco a immaginare manifestazioni pubbliche di risparmiatori a reddito fisso.

Come funzionerebbe?

Il debito pubblico costa mediamente il 4,4 per cento. Se per sette anni accettassimo una inflazione al 10 per cento, il debito pubblico italiano potrebbe ridursi del 4.6 per cento ogni anno. Il risultato è che in pochi anni il debito pubblico italiano potrebbe essere riportato sotto la soglia del 100 per cento del prodotto interno lordo, livello sicuramente accettabile dai mercati.

116 Per vincere occorre sapere

La struttura del debito pubblico italiano lo consente?

Direi proprio di si. Intanto il debito pubblico già emesso ad un tasso d’interesse prefissato non subirebbe alcuna variazione di rendimento. Poi il debito pubblico italiano è solo per il 17 per cento circa indicizzato. Tutti gli altri titoli non sono indicizzati e la vita media del debito si aggira intorno a 7 anni. Non solo. Questo significa che ai politici è stata servita su un piatto d’oro la possibile soluzione del gravissimo problema del debito pubblico. Certo ciò passa innanzitutto dall’accettazione da parte della BCE di immettere fortemente liquidità nel sistema.

Si insiste molto sulla vendita del patrimonio dello Stato. Lei cosa ne pensa?

Tempo perso, o quasi. Oggi, almeno in Italia, mancano i compratori. Il cavallo non beve.

La discesa dello spread aiuta?

L’impatto non è risolutivo, anche se da qualche tempo la parola è diventata di moda. Facciamo quattro conti immaginandolo a quota 80 punti, molto meno dei quasi 290 punti che sono stati l’obiettivo del governo Monti. Insomma, lo spread a 80 punti è il massimo della vita. Prendiamo come titolo di riferimento i titoli decennali emessi dallo Stato italiano. Gli interessi del debito pubblico scenderebbero al 2,4 per cento invece del 4,4 per cento, cioè due punti in meno, pari a un risparmio di circa 8 miliardi. Risultato: la manovra per trovare il danaro necessario scenderebbe da 98 a 90 miliardi. E allora? È chiaro che il famigerato spread a 80 punti non risulterebbe risolutivo. Senza contare altre zone oscure dei conti dello Stato, a cominciare dai debiti nei confronti dei fornitori che non vengono incredibilmente conteggiati nel debito pubblico.

E allora? Cosa conviene fare?

Occorre trovare altre strade. D’altra parte un po’ tutti, dopo la sbornia iniziale, stanno prendendo le distanze dall’eccesso di rigore. In realtà, secondo il mio modesto parere, molti si sono resi conto dell’errore ma non hanno il coraggio di ammetterlo e oggi, anziché riconoscere che la crescita economica non si coniuga con

Per vincere occorre sapere 117

il rigore, si sono inventati l’eccesso di rigore.

Ho impressione che ciò farà perdere inutilmente tempo. La verità è che il debito pubblico italiano non potrà mai essere pagato.

Per questo la politica del taglio dei costi, da sola, non risolve nulla e porta soltanto alla recessione, a una dura recessione. Così come non serve aumentare le tasse. Sostenere che a tutti i costi va raggiunto il pareggio di bilancio è semplicemente osceno e forse anche criminale.

Perché criminale?

Perché è impossibile che loro non sappiano che questo tipo di politica porta la gente a perdere posti di lavoro e a perdere fiducia nel futuro.

Il riferimento di Monti è l’Europa, l’unione di una Europa della politica. È fattibile?

Io non ci credo. Guardi, io conosco bene finlandesi e siciliani, islandesi e greci. Troppo diversi per essere messi assieme. Inoltre non posso condividere aprioristicamente che l’Unione Europea sia necessariamente un bene per il mondo. Io, per esempio sono convinto, con Soros, che avremmo bisogno di un governo del mondo.

La cura Monti è condivisa dalla Germania della Merkel… È una politica lacrime e sangue, che l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha accettato per primo. Teoricamente ridurre il debito tagliando la spesa è possibile ma, a mio avviso, è praticamente impossibile se non si vuole rischiare la pace sociale.

Il pareggio di bilancio è un falso mito, un mito tedesco e, per di più, un po’ masochista. È l’altare su cui vengono sacrificati lavoratori e giovani, magari dicendogli contemporaneamente che non trovano lavoro perché sono schizzinosi. Keynes, del resto, lo ha spiegato molto bene. E, dopo la crisi del 1929, l’economia internazionale è ripartita veramente soltanto con la seconda guerra mondiale.

Quando si è cominciato a produrre beni di nessuna utilità.

Funziona esattamente come su una barca: se tutti remano l’imbarcazione va rapida. Il pareggio di bilancio va conseguito quando l’economia va bene e ci sono spazi per farlo. Non quando tutto va male. A quel punto la missione diventa impossibile, come i fatti

118 Per vincere occorre sapere

stanno dimostrando, e la spirale negativa diventa inarrestabile.

Il governo Monti ha fatto proprio così…

E ha sbagliato. Altro che governo dei tecnici, è stato un governo di ragionieri, peraltro con una propensione elevata a sbagliare i conti. Ne hanno combinate di tutti i colori.

Può fare un esempio?

L’imposta sui natanti è un classico: dovevano incassare 155 milioni e ne hanno ottenuti 24, affossando i porti italiani. Era così difficile immaginare che alzando le tasse a livelli elevati i proprietari delle barche le avrebbero trasferite all’estero?

Che giudizio dà sul governo Monti?

Non è vero che ha salvato l’Italia. Anzi, il rigore montiano ha peggiorato la situazione. E non poteva essere diversamente, perché rigore e crescita, contrariamente a quanto sostiene Monti, non sono coniugabili.

Nel frattempo gli Stati Uniti continueranno a immettere liquidità sul mercato creando così una inflazione potenziale?

Certamente sì. La Federal Reserve americana ha sposato le teorie di Krugman, che condivido in pieno. Il suo slogan è di una chiarezza e semplicità esemplari: “La mia spesa è il tuo reddito”.

Un fatto è certo: la crisi nasce dalla mancanza di consumi adeguati.

La ricetta di Krugman crea una inflazione potenziale e una riduzione del debito pubblico certa. Numeri alla mano, ritengo che gli Stati Uniti non corrano il rischio d’insolvenza per la possibilità che hanno, e che stanno esercitando, di immettere liquidità nel sistema, rimborsando il proprio debito pubblico in moneta svalutata. La priorità, anzi la necessità, è che si rimetta in moto l’economia reale.

E l’Europa?

L’atteggiamento degli Stati europei mi lascia perplesso. L’impressione è che la classe dei burocrati europei miri a difendere la moneta unica e il livello dei cambi, evitando ad ogni costo l’inflazione. A condizionare questa scelta è certamente la Germania, stretta nella morsa del proprio passato storico, non così lontano, in cui l’inflazione aveva raggiunto livelli parossistici, mettendo in ginocchio il Paese e facendolo scivolare velocemente nella disperazione,

Per vincere occorre sapere 119

terreno fertile per la propaganda nazista. Ecco perché i tedeschi preferiscono imporre a tutti gli altri Stati europei una politica di sacrifici severi, caratterizzata dalla volontà di imporre la riduzione della spesa pubblica con ripercussioni gravi sulla pace sociale.

Qual è il rischio?

La possibilità è che la crisi possa sfociare nel dramma, con conseguenze sociali imprevedibili o, sul piano economico, con un’uscita di alcuni Paesi dall’euro, oppure con la creazione di un euro a due velocità.

Conseguenze?

Nel caso di rivolte sociali è chiaro che tutti gli investimenti ne risulterebbero penalizzati e, a parte il periodo iniziale, anche la liquidità. Nel caso invece di un’uscita dall’euro verrebbe punita la liquidità e gli investimenti a reddito fisso e verrebbero premiati gli investimenti reali.

Ma lei ritiene davvero possibile un’uscita dall’euro?

Guardi, nel 1971 il marco quotava 150 lire, mentre nel 1999 risultava equivalente a 990 lire. Questo significa che l’Italia, a intervalli più o meno regolari, era costretta a prendere atto di un mutato rapporto di forza con la Germania. Dal 2001 in poi gli italiani e i tedeschi sono rimasti gli stessi, è cambiato il rapporto di forza ma non è cambiato il rapporto di cambio. Più chiaro di così..

Molti esponenti politici, e parte dei commentatori, ritengono che la ricchezza accumulata nei paesi occidentali permetta d’intervenire in situazioni di emergenza applicando patrimoniali di carattere straordinario. Lei è d’accordo?

Chi sostiene questo non sa far di conto. La situazione del debito pubblico italiano, per esempio, è ben diversa dal 1992, quando l’allora presidente del consiglio, Giuliano Amato, decise un prelievo dello 0,6 per cento su tutti i depositi bancari. Attualmente il debito pubblico ha superato i 2 mila miliardi di euro. Per riportarlo al 60 per cento, come previsto dal Trattato di Maastricht, andrebbe ridotto di oltre 1000 miliardi. Questo significa che se il 30 percento degli italiani potesse pagare la patrimoniale (so di essere ottimista), ciascun nucleo famigliare dovrebbe pagare oltre 200 mila

120 Per vincere occorre sapere

euro. Se a ciò aggiungiamo che gran parte degli italiani ha investito in immobili e magari nella prima casa è facile rendersi conto che siamo nel mondo dei sogni.

A tutto questo si aggiunga anche il costo che una manovra del genere potrebbe avere sul prodotto interno lordo.

Quali sarebbero le conseguenze sugli investimenti se le autorità monetarie accettassero uno scenario d’inflazione?

Partiamo dalle valute, che peraltro considero un veicolo per fare investimenti e non un investimento fine a se stesso, e come tale di scarso interesse. Detto ciò, se dovessi scommettere, direi che in futuro sia il dollaro che l’Euro sono destinati a perdere valore nei confronti di valute come il rublo russo, il real brasiliano, lo yuan cinese. Per quanto riguarda gli altri investimenti, il reddito fisso risulterebbe un investimento assolutamente penalizzato, mentre tendenzialmente le Borse dovrebbero trarne beneficio. Rimango invece perplesso sui fondi d’investimento, perché a volte compiono operazioni poco chiare utilizzando i soldi raccolti nell’interesse di altri e non dei sottoscrittori. Un capitolo a parte rappresenta l’oro di cui io sono sempre stato sostenitore, ma a questi prezzi non ne ho più il coraggio.

E gli immobili?

In Italia e negli altri Paesi sviluppati sono sicuramente destinati a rivalutarsi, ma in misura inferiore alle rivalutazioni che avranno in Paesi con un debito pubblico contenuto, pace sociale, stabilità politica, prezzi ancora relativamente bassi. Nei Paesi con un debito pubblico elevato, inoltre, è prevedibile una pressione fiscale in deciso aumento.

Quali sono i paesi più interessanti?

Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Bielorussia. Un Paese, quest’ultimo, che va tenuto d’occhio: ordinato, senza criminalità.

Oggi sono all’autarchia ma la loro economia è destinata ad aprirsi.

Poi ce ne sono almeno due che mi piacerebbe conoscere meglio, perché li ritengo molto interessanti: Myammar e Mongolia. Myammar mi piace molto: è uscito da una situazione drammatica, è avviato verso la democratizzazione sotto il segno degli Stati Uniti, il

Per vincere occorre sapere 121

debito pubblico è praticamente zero, il Paese è molto bello e la gente è formidabile, serena, tranquilla. Caratteristiche analoghe ha la Mongolia, un Paese grande, selvaggio, con soli 20 milioni di abitanti e prezzi degli immobili stracciati. Gente fiera, non dimentichiamo che il loro condottiero era Gengis Khan.

Lei è un grande proprietario immobiliare. Non è in conflitto d’interessi?

Guardi, a me cambia proprio poco.

La grande crisi cambierà i comportamenti dei risparmiatori?

Penso proprio di sì. In futuro sarà sempre più importante tenere personalmente sotto controllo i risparmi oppure avere rapporti diretti con chi li gestisce. Sul piano sociale i veri danni del tentativo di contenere l’espansione del debito pubblico non si sono ancora visti pienamente.

Come finirà l’alternativa tra inflazione e sacrifici?

Rimango convinto che, al di là dei vari tentativi che ci sono stati e che verranno fatti, l’unica possibilità per le banche centrali e i governi sarà di accettare l’inflazione. Si tratta solo di stabilire quanto resisterà la Banca Centrale Europea nella difesa delle posizioni attuali. Io credo che non durerà molto perché in gioco c’è la sopravvivenza stessa degli Stati e dei loro sistemi politici, ben più importante del controllo a tutti i costi dell’inflazione. L’alternativa è tra gestire una inflazione controllata oppure cedere di schianto ad una situazione totalmente fuori controllo.

Far pagare la crisi ai possessori di titoli del debito pubblico significa mettere nei guai le banche. Non c’è il rischio che possano saltare?

Per la verità la maggior parte di loro dovrebbe già essere saltata. Le grandi banche italiane, per esempio, valgono secondo me solo la licenza bancaria. Non un euro in più. Il loro capitale è zero.

L’unica possibilità è che vengano ricapitalizzate dallo Stato. D’altra parte qualcuno deve pagare. Non si sfugge. Questo è il capitalismo: è giusto, se siamo capitalisti, che gli azionisti delle banche italiane perdano tutto. Altrimenti è troppo facile.

L’inflazione colpirà soprattutto ceto medio e lavoratori…

122 Per vincere occorre sapere

Non è così. Possono essere fatte scelte politiche per evitarlo.

Per esempio indicizzando le pensioni e gli stipendi al di sotto di una certa cifra. Occorre premiare i produttori di reddito (a partire dai lavoratori) e punire i “parassiti”. Gli interventi correttivi devono diventare anche un modo per premiare il merito. L’inflazione, mi creda, è di sinistra. Non è neppure possibile pensare di punto in bianco di lasciare a casa “i parassiti”. Un’inflazione al 10 per cento e salari che non si adeguano all’inflazione costringerebbe lentamente i “parassiti” a rientrare nel circolo produttivo.

Lei è l’estensore di un manifesto per punti che chiede una svolta. Ha forse deciso di salire in politica?

Io vengo dal niente e ho costruito iniziative di successo. Sono un imprenditore e intendo restare tale. Oggi scendere, o salire, in politica è una scelta disperata. Scelta per gente che non sa fare altro.

Qual è la definizione migliore d’imprenditore? È colui che riesce ad immaginare con una certa approssimazione come sarà il futuro. Ma è anche quello che riesce ad esprimere un giudizio vicino alla realtà sulle persone che gli vengono presentate.

Lei lo è sempre stato?

In realtà ho fatto di tutto. Da venditore di fondi a responsabile della rete commerciale di venditori, da finanziere a immobiliarista e a imprenditore. Sono stato un uomo di finanza per necessità, per raccogliere il denaro necessario agli investimenti che volevo realizzare. Avevo buone idee ma non i soldi per realizzarle. Sono più di 15 anni che non tocco un titolo azionario e sono soltanto un imprenditore, forse con la mania dell’economia. Anche perché attualmente i soldi necessari da investire li ho. Ho chiuso con la Borsa quando per bloccarmi hanno approvato alcune leggi e imposto regole che di fatto hanno blindato il capitalismo italiano. Solo Fiorani poteva cascarci. Detto ciò, è difficile fare distinzioni nette.

Prenda il caso dell’americano Warren Buffett. Che cos’è? Un finanziere oppure un imprenditore? Io credo che abbia le caratteristiche per essere considerato un imprenditore vero, perché nella sua vita ha saputo prevedere avvenimenti e circostanze che poi si sono realizzate. Eppure viene considerato un finanziere.

Per vincere occorre sapere 123

Quali sono le caratteristiche che deve avere un investimento per essere convincente?

Direi cinque: stabilità politica del Paese, pace sociale, scarso debito pubblico, tassazione moderata, salari ragionevoli. In più, quando si tratta d’immobili, i prezzi di acquisto devono essere contenuti. È un’utopia?

Me lo dicono tutti. Ma non hanno la passione che ho io per la geografia e per l’uomo. Vado personalmente a visitare in lungo e in largo i Paesi che mi paiono interessanti, mi interesso delle persone, di quello che fanno, di come si comportano. E poi ne traggo le conseguenze. Tutto ciò mi fa ritenere che ci siano Paesi su cui è il momento di puntare scartando la vecchia Europa e, più in generale, i Paesi già sviluppati. Meglio scommettere su Paesi con forti potenzialità di crescita.

Investirà nella ex Birmania e in Mongolia?

Le risponderei di sì ma c’è un ostacolo: l’anagrafe. Gli anni passano anche per me. Poi c’è il problema dei mezzi disponibili, che non mancano ma che abbiamo già utilizzato ampiamente.

C’è sempre la possibilità di finanziamenti bancari…

Sono abituato a contare soltanto sulle mie forze. Molto meglio l’autofinanziamento oppure la gestione di capitali degli amici che mi seguono da anni.

Perché tanta diffidenza verso le banche?

Fanno la fila per finanziarti quando non ne hai bisogno, ma spariscono quando servono. Ho controllato e posseduto diverse banche e posso garantirlo con certezza: c’è una contraddizione netta tra i loro interessi e quelli degli imprenditori ed investitori.

Altri non la pensavano così…

Ligresti, per esempio. Mi diceva che ero matto a far tanta fatica rinunciando ai soldi delle banche. Molto meglio comprare terreni facendoli fruttare grazie agli amici politici e ai banchieri. Alla faccia del mercato.

E perché no ai fondi?

124 Per vincere occorre sapere

Non credo nella intermediazione tra imprenditori e investimenti.

I fondi costano e quando arrivano si perde il controllo delle operazioni. I fondi in Italia nascono a metà degli anni 80, quando le banche si sono rese conto che era meglio fare quattrini gestendo i soldi degli altri piuttosto che rischiare in proprio. Io ho preferito altre scelte.

Eccezioni?

Si, sono advisor del fondo Brickstone e il mio ruolo è di scegliere gli investimenti da realizzare.

Perché ha citato la Russia?

In questo momento per chi vuole investire è il Paese più interessante al mondo.

Da quanto scrivono i giornali non si direbbe. Qual è la situazione reale?

Tutte storie: meglio non farsi impressionare dai titoli dei giornali. Tanto rumore per 30 mila manifestanti contro Putin quando in Italia ne scendono in piazza milioni.

Perché la Russia è così interessante?

Per sette motivi, tutti di rilievo: stabilità, debito pubblico pressoché irrilevante, tassazione contenuta, abbondanza di materie prime, quantità rilevanti d’immobili ancora da privatizzare, forte spinta alla crescita e pregiudizi persistenti degli occidentali, che hanno il vantaggio di ridurre il numero dei concorrenti.

Spieghiamoli meglio punto per punto…

La grande stabilità è caratteristica di tutti i Paesi che escono da un dramma. Troppo forte è il ricordo del passato. Ecco un esempio: quando nell’ottobre 2008 è arrivata la crisi, i nostri dipendenti in Estonia si sono offerti di tagliarsi lo stipendio del 20 per cento pur di non perdere il posto di lavoro. E lo abbiamo fatto. Avevano ben presente il ricordo di quando stavano male. In Italia, al contrario, è svanito il ricordo di quando si stava male. La seconda ragione è il debito pubblico al 7 per cento. Paesi occidentali come Stati Uniti, Italia, Spagna, Giappone si sono già bruciati il futuro, devono lavorare per pagare i debiti del passato. In Russia, invece, possono lavorare per il futuro e possono farlo pagando tasse ragionevoli: si paga il 24 per cento, ma con ampi margini di manovra. Esattamente

Per vincere occorre sapere 125

come accadeva in Italia negli anni 60.

Insomma, Russia uguale Paese del Bengodi?

La Russia è un’isola: l’86 per cento delle esportazioni sono materie prime. E lo spazio per chi fa impresa è elevato. Ci sono praterie da conquistare perché una classe d’imprenditori vera non si è mai sviluppata: lo hanno impedito prima lo zar e poi il comunismo. Basta pensare all’immobiliare, con metà delle proprietà ancora da privatizzare. Mosca e Pietroburgo a parte, si possono acquistare aree immobiliari in città molto importanti in zone centrali a prezzi molto bassi.

Ma la differenza fondamentale è che in Italia tira aria di depressione psicologica, mentre in Russia la gente guarda al futuro.

La convinzione più diffusa è che si faccia business con la pistola sul tavolo. È davvero così?

Stupidaggini. La Russia è un Paese normale, come tanti altri.

Ancora più a Est c’è la Cina. Molti la ritengono una nuova frontiera. Lei è d’accordo?

Qualche mese fa ho incontrato in aereo un imprenditore bresciano proprietario di una fabbrica in Cina, avviata a fine anni ‘80.

Adesso sta scappando: salari elevati, contraddizioni drammatiche, bolla immobiliare ormai evidente. E non poteva andare diversamente. Come credere al libero mercato in un Paese non democratico? Non si è mai visto al mondo. Io in Cina avrei dovuto investire in seguito ad un mio viaggio nel 1985. Non avendolo fatto allora non mi pare di poterlo fare adesso.

Il Far East significa anche India e Vietnam. Li giudica Paesi interessanti?

Il Vietnam lo è certamente, nonostante la permanenza di una componente comunista. La proprietà immobiliare, per esempio, non è piena ma in usufrutto per un massimo di 60 anni. Vietnam significa terra del Sud, in contrapposizione continua con la Cina.

I vietnamiti sono 90 milioni, mica uno scherzo. E sono molto fieri della loro nazionalità. La musica è diversa con gli indiani, di cui non mi sono mai fidato fino in fondo. Nonostante ciò vi ho investito tempo e danaro.

Perché tanta diffidenza?

126 Per vincere occorre sapere

Non sempre sono sinceri. Mi è capitato di chiedere a un inglese come mai raccontano tante storie pur essendo stati dominati a lungo da loro. Mi ha risposto: “Siamo stati in India quasi 200 anni.

Pensi cosa sarebbero se non fossimo sbarcati noi.”

Continuiamo a fotografare le opportunità offerte dagli altri Paesi del mondo: Cuba… È molto interessante e ha grandi potenzialità ma, purtroppo, il castrismo domina ancora. Ho fatto una decina di viaggi a Cuba, ma non sono mai riuscito a cavare un ragno da un buco. Il loro è un trucco vecchio come il mondo: vai a Cuba, ti innamori di una bella cubana, decidi di investire e poi ti fregano. Con me, però, non funziona. Resta il fatto che a Cuba tutto è illegale, a partire dalla vendita di uova al mercato. Sono convinto però che, prima o poi, Cuba cambierà. E purtroppo ci saranno eventi traumatici, anche se spero davvero di no.

A Cuba c’è la nuova Sharm?

Potenzialmente si. Ho trovato lì il posto più bello al mondo: un’isola di 80-100 chilometri quadrati, con intorno un centinaio di altre isole. E, tra un’isola e l’altra, grandi piscine di mare profonde uno o due metri. Il tutto totalmente vergine. Un sogno.

Una nuova Cayo largo?

Niente a che vedere. Cayo largo ha fatto innamorare soltanto i dilettanti. Tanti investimenti fatti e tutti a perdere.

Come mai?

Costa piatta e spiagge mobili, che cambiano secondo le maree.

Proseguiamo il giro del mondo. Il Brasile?

Per i miei gusti è già troppo sviluppato, con tutto quanto significa. E infatti il Brasile si sta già sgonfiando: il ritmo di crescita non è più quello di una volta.

C’è anche un problema grave di criminalità…

Così dicono.

Lei è un grande conoscitore dell’Egitto. L’instabilità politica è un ostacolo che ne compromette le potenzialità?

Gli egiziani sono capaci di complicarsi la vita come nessun altro popolo al mondo. Ma sono fiducioso: il risultato finale sarà un gover-

Per vincere occorre sapere 127

no più democratico, anche se con il 60 per cento di analfabeti non è facile. Per il momento resta un Paese dove è possibile tutto e il contrario di tutto, dai mille volti contradditori. Prima viene approvata una legge e qualche tempo dopo un’altra che sostiene il contrario.

Può fare un esempio?

Prima è stato stabilito che è possibile per gli stranieri comprare proprietà immobiliari a pieno titolo. Poi che è possibile solo l’usufrutto e che la regola ha valore retroattivo. Insomma, gli egiziani fanno di tutto per complicarsi la vita ma, nonostante l’impegno, non riescono a rovinare un Paese che ha come punti di forza il mare, il sole e la vicinanza con l’Europa. Qualunque cosa possa accadere questi tre vantaggi continueranno a rimanere.

Oltre a Sharm ha in programma altri investimenti?

Sì, ma a condizione che venga chiarito bene cosa gli egiziani intendono per concetto di proprietà: per il 99 per cento degli egiziani vale il concetto di possesso e non quello di proprietà. Esattamente il contrario di quanto accade nei Paesi occidentali.

Appendice Visti da vicino

Come ricorda Enrico Cuccia?

Un genio nella gestione del potere ma con grosse lacune.

Quali?

La più importante era l’incapacità di scegliere gli uomini che dovevano gestire le imprese finite sotto l’ala di Mediobanca.

Forse perché a Cuccia interessavano i bilanci della banca e non quelli delle imprese…

Può essere, ma immagino quante notti insonni avrà passato per inventarsi come tappare i buchi procurati da gente come l’allora giovane Gianni Varasi in Montedison. Come può avere immaginato di puntare su uno come lui?

E Cesare Geronzi, il banchiere del potere romano?

Non l’ho conosciuto abbastanza.

Aldo Ravelli.

Il genio del trading.

L’immobiliarista Luigi Zunino.

Una meteora. La sua storia è del tutto incomprensibile. Non capisco come le banche abbiano potuto finanziarlo fino al totale record di ben 5 miliardi. Un giorno, durante una cena, gli ho chiesto: “Non ti tremavano le gambe a gestire una tal massa di denaro in prestito?”. Rispose prima la moglie: “Figurati! Lui giocava a Monopoli con i soldi degli altri.”

130 Visti da vicino

Silvio Berlusconi.

Una mente superiore con una volontà di ferro. Peccato che non abbia messo completamente a disposizione del Paese queste qualità. Le vorrei portare un esempio: nel 1994, prima delle elezioni, ero a colazione con Vittorio Feltri e Urbano Cairo. Feltri ed io scommettemmo contro Cairo che Berlusconi avrebbe abbandonato le sue aziende per passare alla storia come il salvatore del Paese. Purtroppo aveva ragione Cairo.

Il finanziere Francesco Micheli.

Un grande, intelligente furbacchione. Aggiungo: impenetrabile, come la Gioconda.

Salvatore Ligresti.

Uno che non si è quasi mai confrontato col mercato.

Randone, gran capo delle Generali negli anni 80 e 90.

Senza il permesso di Cuccia non andava neppure in bagno.

Tancredi Bianchi.

Un episodio dice tutto di lui. Nei consigli di amministrazione del Creberg, di fronte a resistenze interne su scelte che intendeva fare, interrompeva la controparte e tirando fuori un documento diceva semplicemente una parola: “Mc Kinsey”, intendendo dire che si trattava di scelte non discutibili perché frutto delle indicazioni date dalla famosa società di consulenza strategica. Poi scoprii che Mc Kinsey aveva scritto il documento sotto dettatura, scrivendo esattamente quanto voleva lui.

Piero Bongianino, presidente della Popolare di Novara.

Il padre padrone di una banca che non era sua.

Pazzi.

Un praticone di primo livello che aveva il merito di giocare a carte con Giulio Andreotti.

Il banchiere francese Haberer, numero uno del Crédit Lyonnais, rivale storica del Crédit Agricole.

Gli vendetti il Credito bergamasco. Quando venne a cena da me capii che lo voleva per controbattere al Crédit agricole, che aveva comprato Cariparma. Voleva mettere una bandierina sull’Italia ed

Visti da vicino 131

era disposto a spendere qualsiasi cifra. Ed è finita cosÏ: ha pagato una somma esorbitante.

Antoine Bernheim.

Un gran maestro del galleggiamento grazie ad una rete di relazioni formidabile.

Iconografia

1. Veduta aerea del Domina Coral Bay oggi

2. Origini del Coral Bay – costruzione portale di ingresso nell’aprile del 1993

3. Origini del Coral Bay – veduta aerea del cantiere nell’aprile del 1993

4. Origini del Coral Bay – cantiere nel 1994

5. Origini del Coral Bay – la scoperta della baia nel 1991

6. Preatoni con Omar Sharif testimonial del Coral Bay nell’aprile del 1993

7. Compleanno di Preatoni con moglie, figli e nipoti

8. Preatoni nel 1960 atletica leggera studentesca Liceo scientifico di Saronno

9. Preatoni nel 1967

10. Preatoni con il papĂ Domenico nel 1946 11. Prima Comunione di Preatoni con la sorella Marina nel 1950

12. Preatoni con la mamma Pinuccia e la so- 13. Mamma Pinuccia davanti al forno di famiglia nel 1956 rella Marina nel 1946

14. Preatoni nel 1949

15. Preatoni con Omar Sharif testimonial del 16. Preatoni con Omar Sharif alla conferenza stampa di presentazione del Coral Bay al Coral Bay nell’aprile del 1993 Principe di Savoia di Milano