Non regalatemi una banca. Salvo che...

Ernesto Preatoni

NON regalatemi una banca Prefazione di Paolo Savona

Š 2017 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it

“Va bene, sai una cosa? Sono una persona cattiva e sono incazzato, ma è in corso una tempesta di merda qui tesoro, tu non hai idea di che razza di porcherie stanno facendo e la gente va in giro come se fosse in un cazzo di video di Enyaâ€?.

(Mark Baum, La grande scommessa)

Prefazione Una mia lettura di “NON regalatemi una banca�

Preatoni è un imprenditore. In questo, come in altri libri, considera tale chi ha le caratteristiche del genio indicate dal Perozzi nel celebre film di Mario Monicelli Amici miei: fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione. Per lui, se l’imprenditore ha queste qualità è un genio.

Da alcuni anni ho avuto periodici colloqui con Preatoni durante i quali ci siamo scambiati punti di vista e conoscenze sul funzionamento dell’economia italiana e internazionale. Ho sempre gradito confrontare i miei schemi di analisi teorica con quelli pratici di un imprenditore che si muove con successo nella difficile realtà dei mercati e negli artifici sfuggevoli della politica; egli è ancor più apprezzabile perché è un imprenditore che vuole capire, riconoscendo che non sa tutto, come sovente accade. Poiché sono cosciente che l’economia riguarda i comportamenti dell’uomo come individuo e come membro di una società, i suoi argomenti mi hanno sempre incuriosito e da essi ho tratto insegnamenti per comprendere i tempi in cui viviamo.

Mi auguro che il lettore di questo libro provi le stesse sensazioni. Diciamoci la verità, i tempi sono un po’ brutti, nonostante i continui rasserenamenti che ci propinano quotidianamente, come se fossimo degli ingenui.

Questa volta Preatoni affronta in modo più approfondito di suoi altri lavori un argomento, quello del funzionamento delle banche italiane, che lo ha visto protagonista e che resta per lui uno dei crucci che lo assilla da imprenditore e da cittadino. La sua tesi di fondo è che la crisi del sistema bancario italiano, a lungo negata, non è frutto di una meteorite caduta dal cielo – la si veda nel default dei subprime credit americani del 2008 o nelle 9

malformazioni dell’euro – ma da un’incapacità congenita dei manager delle banche, unita non di rado a una loro vocazione per una gestione distorta dai tratti criminali o da quelli borderline che la letteratura anglosassone chiama nudge economy, economia relazionale che influenza e perfino determina le scelte economiche.

Preatoni così descrive lo scopo del suo nuovo lavoro: «Dopo anni in cui sul tema delle banche abbiamo dovuto sorbirci una quantità irragionevole di panzane – la più esagerata: gli istituti italiani sono solidi – voglio provare a raccontare in maniera onesta come si è arrivati a distruggere il valore di un settore che fino a qualche tempo fa era un patrimonio fondamentale per il Paese».

Prima però di addentrarmi nell’esame del suo scritto desidero premettere che ho un’interpretazione “istituzionale” non “politica o personalizzata”, pur importante e molto presente in questo libro, della crisi del sistema bancario italiano (come anche del funzionamento dell’euro, oggetto del precedente lavoro di Preatoni). Con il termine istituzionale, intendo un’architettura della normativa del settore che permette l’emergere di persone che hanno una visione carente o nulla di come una banca va gestita e rende possibile, quasi implica, il realizzarsi di gestioni che si svolgono sulla frontiera degli atti criminali e che si trovano oltre questa linea quando esplodono le crisi economiche, endemiche al sistema come insegnò il mio maestro Kindleberger in mirabili saggi. Le crisi spostano la linea di demarcazione tra gestioni lecite e illecite delle banche, facendo emergere il virus NPL, i Non Performing Loans. Questa mia interpretazione, unitamente a ciò che andrebbe fatto, è stata presentata in un Rapporto a più mani che ha analizzato alla radice il problema del credito, la rispondenza degli assetti normativi per tutelare il risparmio e garantire la concessione di credito per la crescita reale, i “due padroni” che le banche devono servire, così bene illustrati dagli scritti di Hyman Minsky1.

1. Il lavoro, intitolato Rapporto sulla tutela del risparmio finanziario in Italia e curato da Pietro Alessandrini, Gabriele Barbaresco, Michele Fratianni e

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Senza raggiungere questi due risultati, le banche divengono pure organizzazioni parassitarie.

Possiamo onestamente sostenere che le banche italiane hanno tutelato il risparmio e servito con il credito la crescita del PIL? Se rispondiamo sì, per convincervi dell’esattezza del giudizio, leggete questo nuovo lavoro di Preatoni; se no, troverete conforto.

Si può essere o non essere d’accordo con le “sciabolate” con cui Preatoni affronta lo spinoso argomento, ma chi è disposto a negare la validità delle sue critiche ancor prima di soffermarsi sulla forma in cui le esprime? Ci hanno provato inutilmente taluni banchieri e la loro associazione di categoria; ci provano ancora policy maker e organi vigilanza, dalla Banca d’Italia alla Consob e al Ministero dell’Economia e della Finanza e al Governo al quale si riferiscono o di cui fa parte; ma tutti gli altri che dicono? È pur vero che il banchiere non è una figura molto popolare, ma chi può negare la sostanza dell’affermazione di Preatoni che le più piccole banche e le grandi «erogavano prestiti a casaccio con la sola condizione che il cliente finanziato acquistasse azioni della banca. Erano le cosiddette operazioni baciate. Trattandosi di titoli non quotati in Borsa era facile manovrarli al rialzo».

Oppure, come dargli torto quando spiega che «in occasione delle assemblee per l’approvazione del bilancio o la nomina del consiglio d’amministrazione si ripeteva sempre la stessa procedura: i direttori di filiale chiamavano i clienti azionisti e raccoglievano le deleghe in bianco che poi venivano utilizzate per le votazioni». Poi mette sotto accusa una parte della legislazione vigente: «gli amministratori, spaventati all’idea che si potesse andare alla conta in assemblea, si appellavano alla famosa “clausola di gradimento”. Si trattava di un codicillo nello statuto della banca – un codicillo che è servito per anni alle popolari a tenere lontani tutti gli eventuali soci “scomodi” – secondo il quale i vertici dell’istituto avevano la possibilità di escludere Paolo Savona, con la collaborazione di Marianna Astore, si trova nel sito della Fondazione Cesifin Alberto Predieri, alla voce Colloquia.

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dal diritto al voto eventuali azionisti ritenuti sgraditi». Preciso, come accadde a Preatoni quando tentò di acquistare una banca popolare.

Ancora, come dargli torto quando dice «difficile rifiutare un finanziamento all’amico con cui il presidente è stato a cena la sera prima». Quando sono stato presidente del Credito Industriale Sardo ripetevo che il comportamento ideale di chi ricopre questo incarico fosse quello di vivere in cima a una montagna in luogo ignoto e scendere a valle per il Consiglio di amministrazione. «Attorno alla banca – insiste Preatoni – si è creato un reticolo fatto di complicità, di rapporti di confraternita, ma anche di ricatti che ha annullato qualunque capacità di valutazione del merito di credito… Per anni ha funzionato un circolo vizioso: nei consigli d’amministrazione venivano eletti i compagnucci di merende del blocco di potere che controllava la banca. Poi i finanziamenti venivano concessi agli stessi amministratori o ai loro sodalizi. Le selezioni in base al merito di credito funzionavano solo per gli estranei al circolo».

Posso asseverare il clima e le procedure di concessione del credito per la mia esperienza diretta nella materia e ricordo i ritardi e le reticenze nell’invio di documentazione adeguata da parte di amministratori gelosi della loro autonomia e infastiditi dalla presenza di un presidente capace di valutare le loro prestazioni: «All’ordine del giorno, come in ogni riunione – afferma Preatoni – c’era l’approvazione di una trentina di finanziamenti di grosso importo. Si tratta di pratiche assai complesse, potenzialmente ad alto rischio per l’istituto se il creditore smette di pagare le rate e, per questo motivo, implicavano anche una responsabilità assai significativa per gli amministratori…

Io sinceramente mi chiedevo come facessero quelle persone a prendersi una responsabilità così grande: si trattava, infatti, di decidere su prestiti che avevano richiesto anche sei mesi di lavoro e incartamenti. Come facevano questi signori, nel giro di un pomeriggio ad approvare oppure a respingere operazioni di tanta complessità? Volete la risposta? Semplicemente non se ne occupavano».

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A questo proposito ricordo che le privatizzazioni delle banche in Italia (come delle imprese a partecipazione statale) furono decise non per il rifiuto dell’utilità di una presenza pubblica in esse (come nell’economia produttiva), ma per recidere questi legami e stimolare maggiore efficienze nella speranza che “l’occhio del padrone ingrassasse il vitello”. Con il senno di poi, quella fu una pia illusione, perché l’occhio del padrone guardava in altra direzione, ancora quella della politica.

Preatoni muove infine l’affondo conclusivo su quella che ho chiamato la “linea di frontiera” della legalità: «Fino a quando l’economia ha tirato, gli utili dell’intermediazione hanno coperto le perdite. Quando il grasso è scomparso sono rimasti solo i bilanci in rosso... La storia delle banche italiane dimostra una sola cosa: la caduta della moralità – e badate bene che qui non si sta parlando delle Catilinarie di Cicerone, qui parliamo di una moralità vera, pragmatica, tastabile – del nostro Paese. La caduta e il fallimento delle banche italiane, in definitiva, dimostrano una sola cosa: che la moralità cattiva, quella di chi 30 anni fa già costellava di puntini neri lo studio che avevo fatto realizzare, scaccia quella buona, come la moneta… Ma il tema della moralità non basta, da sola, a spiegare la crisi del settore bancario. Ci dev’essere qualche altra causa.

Qualcos’altro deve aver contribuito a minare le fondamenta del sistema». Egli la individua nell’«avidità personale di molti banchieri. Basterà un dato: nei consigli d’amministrazione in carica per l’esercizio 2017 figurano ventiquattro membri con una retribuzione superiore a 850 milioni, nonostante il sistema sia gravato da 360 miliardi di sofferenze lorde e migliaia di dipendenti abbiano perso il posto o sono in procinto di farlo».

E aggiunge: «Ovviamente questo gioco di relazione coinvolgeva anche le autorità di controllo a cominciare da Banca d’ Italia e da Consob. Qualche punzecchiatura ogni tanto ma niente di veramente decisivo. Non a caso è capitato con qualche frequenza di trovare alti funzionari delle due istituzioni transitare verso posizioni apicali delle banche popolari. Chi alzava il sopracciglio veniva subito messo a tacere. L’assunzione veniva 13

giustificata come riconoscimento alle capacità professionali del prescelto cui faceva seguito il solito ammiccamento: il nuovo arrivato serviva a tenere i rapporti con l’ente di vigilanza di provenienza».

A quel punto Preatoni si pone il quesito: quando gli effetti devastanti di questa situazione si sono incontrati con la crisi economica globale «non sarebbe stato meglio che lo Stato intervenisse prima e di più nel capitale delle banche italiane?

Che ci fosse stata risparmiata la panzana degli istituti solidi e che si avesse finalmente il coraggio di intervenire. Ci saremmo evitati perdite enormi a carico degli investitori e anche diversi suicidi… Poi sono arrivate le regole europee del bail in che mette a carico dei risparmiatori il costo del fallimento della banca». E aggiungo io “degli errori di politica economica commessi dalle autorità nazionali ed europee”, che considero una vera vergogna che fa da pendant a quella dei lauti compensi concessi ai banchieri che sono sfuggiti in un modo o nell’altro alle loro responsabilità lasciando l’incarico prima dell’evidenziazione del fallimento. Questa storia sarebbe tutta da riscrivere e non sarà certo la Commissione di indagine parlamentare che lo farà.

Non mi stupisco che siano intercorse telefonate “cortesi, ma fastidiose” dell’ABI a Giancarlo Mazzucca e poi contatti diretti con lo stesso Preatoni quando mandò a dire che se avevano qualcosa da contestare ai suoi scritti dovevano farlo di persona. È stato fortunato, perché in genere colpiscono in silenzio e senza volto, alle spalle. Ciò che mi indigna è quando leggo le dichiarazioni critiche di coloro che hanno tutte le “virtù” descritte da Preatoni, comprese quelle d’aver lasciato la loro banca nel disastro; uno di questi outing è apparso recentemente sul più importante quotidiano nazionale, in cui l’autore, invece di stare zitto e benedire la fortuna che lo aveva assistito, si ergeva a difensore della moralità del banchiere e criticava taluni colleghi, dopo aver contribuito a perdere due volte il capitale dei suoi azionisti. Oppure quando banchieri che hanno portato le loro banche alle soglie del fallimento vengono nominati a prestigiosi incarichi in imprese o in altre 14

banche. Questi fatti, di per sĂŠ, giustificano eventuali eccessi o errori di valutazione, anche su singole persone, del libro di Preatoni. Ammesso che non siano invece sottovalutazioni di una realtĂ ben peggiore.

Paolo Savona Professore Emerito di Politica economica

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Capitolo Primo Serviva un altro libro sulle banche?

Confesso che inizialmente avevo avuto più di una perplessità sull’opportunità di scrivere questo libro. Erano in molti a consigliarmi di non farlo, perché un testo del genere mi avrebbe sicuramente attirato l’ostilità di tutta la potente corporazione dei banchieri.

Gli istituti che questi signori gestiscono non valgono più nulla se non la licenza per esercitare l’attività creditizia. Loro però sono ancora molto potenti e molto influenti perché solo di recente, e con molta difficoltà, è emerso il bluff sulla presunta solidità delle banche italiane. Sul loro conto economico pende una valanga composta da 200 miliardi di crediti inesigibili che non riescono a smaltire. Nonostante tante belle parole, nonostante tutte le rassicurazioni verbali fornite dalle cosiddette autorità competenti (ma lo saranno davvero?).

Hanno provato a risolvere il problema ricorrendo a strumenti fantasiosi come i famosi Gacs (Garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze). Si tratta di veicoli finanziari nei quali raggruppare i crediti migliori sui quali poi lo Stato appone il suo timbro.

I Gacs emettono delle obbligazioni da collocare poi sul mercato. Secondo i progetti grazie alla garanzia dello Stato i rischi di insolvenza sono ridotti al minimo e quindi gli investitori sono invogliati a sottoscrivere liberando le banche da un po’ di crediti deteriorati. I Gacs sono nati dopo una lunghissima trattativa tra il ministro Pier Carlo Padoan e Marghrete Vestager, Commissaria europea alla Concorrenza sempre preoccupata che dietro i piani di salvataggio del credito si nascondano aiuti di Stato.

L’accordo è stato salutato dal governo italiano come una grande vittoria che avrebbe finalmente dato una soluzione al 19

problema dei crediti incagliati. Dichiarazioni solenni cui, alla fine, non hanno fatto seguito fatti concreti. Come mai? Semplice.

Poche banche utilizzano i Gacs e quelle che lo fanno dimostrano a tutti di essere con l’acqua alla gola. I Gacs possono accogliere solo i crediti migliori. Quelli cioè assistiti da ipoteche immobiliari oppure da altre garanzie messe a disposizione dal debitore.

Tutte le banche, tranne quelle in condizioni quasi disperate (per esempio Carige) non hanno nessun interesse a cartolarizzare sofferenze di questo tipo. Sanno bene che prima o poi, seppure con qualche fatica, riusciranno a rientrare del credito. Quindi si guardano bene da utilizzare i Gacs. Perché dovrebbero arricchire i cosiddetti fondi-avvoltoio, in genere stranieri, specializzati in operazioni di recupero crediti “distressed”?

Per non parlare di Atlante. Era il fondo che, già dal nome, doveva sostenere il sistema bancario italiano così come il titano della mitologia greca sosteneva la Terra. Anche qui un battesimo accompagnato dal suono delle fanfare e da grandi titoli di giornali perché finalmente era arrivato il grande salvataggio.

Atlante ha raccolto 4,25 miliardi tra banche, assicurazioni e Cdp cui aveva garantito un rendimento annuo del 6% stando alle promesse di Alessandro Penati, bocconiano doc, cui era stata affidata l’amministrazione. Atlante ha perso tutto nel tentativo di salvare Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca e adesso sembra un relitto perso nel mare della finanza che cerca un porto. È per questo scenario disastroso e per quelle che considero le vere vittime del dissesto del sistema finanziario – ovvero i risparmiatori rimasti truffati dalle banche italiane fallite – che ho deciso di continuare a scrivere e pubblicare questo libro.

Perché sono un uomo libero e la mia attività non dipende dai finanziamenti delle banche italiane. Ritengo, invece, di poter svolgere una funzione a favore del risparmio degli italiani raccontando quello che ho visto e capito negli anni sui meccanismi di funzionamento del sistema bancario italiano.

Ma soprattutto l’ho scritto perché vedo che della crisi del credito esploso nell’autunno del 2014 è stata data una lettura molto parziale quando non addirittura falsa.

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Il racconto più gettonato dice che tutto quello che è successo al credito in Italia è colpa di Lehman e della grande recessione iniziata dopo il suo fallimento avvenuto nel settembre 2008.

Insomma sembra che un gigantesco meteorite staccatosi da Wall Street abbia colpito l’Italia sconvolgendo un’ecologia finanziaria composta da banche solide e ben piantate sul terreno. Secondo questa narrazione, divulgata dai banchieri e avallata dalle solite autorità competenti, eravamo passati dalla foresta pietrificata da cui era scaturita la Riforma Amato del ’92 a un bosco di piante solide e ben ordinate. In trasparenza si leggeva una chiara sentenza di auto-assoluzione.

La colpa della crisi delle banche è sempre degli Usa. Oggi come nel ’29. Che cosa ci possono fare i poveri banchieri italiani se sono costretti a stare sulla stessa barca che ospita il sistema bancario Usa (ma anche francese, tedesco spagnolo e di tutto il resto d’Europa)? Poverini. Ma come poverini? Avendoli frequentati per molti anni ai massimi livelli ho capito che sono semplici burocrati incaricati di gestire macchine spesso gigantesche, senza sapere da che parte cominciare. Quello che conta per loro è il potere: sanno bene che imprenditori, uomini politici, semplici cittadini nutrono un timore reverenziale verso i banchieri. Dalle loro decisioni molto spesso dipende il futuro.

Non solo per gli imprenditori che hanno bisogno di un finanziamento per l’impresa, o di politici alla ricerca di sponsorizzazioni, ma anche di gente comune. Basti pensare a Luigi D’Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si è suicidato a 68 anni perché aveva perso 100mila euro investiti in Banca Etruria. Oppure ad Antonio Bedin, 67 anni, che la sera del 15 giugno 2016 si è tolto la vita nella sua casa di Montebello Vicentino perché tutti i suoi risparmi accumulati mese dopo mese da 400mila euro si erano ridotti a 640 euro perché le azioni della Banca Popolare di Vicenza, che aveva cominciato a comprare metodicamente dall’inizio degli anni ’90, erano crollate da 62,5 euro a dieci centesimi.

Oltre a essere incapaci i banchieri sono spesso anche corrotti come stanno dimostrando le indagini giudiziarie di questi anni a carico degli amministratori di Mps, Banca Popolare di 21

Vicenza, Veneto Banca. Cariferrara, Carichieti, Banca Marche, Banca dell’Etruria.

Infine ho scritto questo libro per spiegare che a colpire le banche italiane non è stato un meteorite arrivato dagli Stati Uniti ma solo l’esplosione di una questione morale che ho visto crescere all’interno del sistema bancario italiano. Una chiave di lettura che ho visto poco messa in luce nella pubblicistica che affrontava il problema. Un calo di moralità che si è trasmesso dai banchieri agli imprenditori. La crisi economica è servita solo a mettere in luce queste debolezze e non credo proprio che serviranno le nuove regole di “governance” a mettere ordine. Mi sembra che si stia diffondendo una generalizzata ipocrisia. I burocrati che guidano le banche centrali hanno imposto ad altri burocrati che stanno nei consigli d’amministrazione delle banche e tra l’alta dirigenza una serie di norme che non servono assolutamente a nulla. Sono molto costose e servono a lucidare la facciata. Nella sostanza non incidono sui comportamenti reali. Mi riferisco all’obbligo delle quote rosa nei consigli come se ci fosse tra le donne un tasso di moralità maggiore che non tra gli uomini. Per non dire che, se fossi una donna, sarei molto irritata da questa legge. Certi posti vanno raggiunti per meritocrazia e non per diversità di genere. Per non parlare dei membri indipendenti nei consigli d’amministrazione. Sono stati definiti dei “financial gigolo” per indicare che il loro compito non può essere ostile agli interessi dell’azionista di maggioranza che li fa eleggere nei consigli d’amministrazione.

Per quanto riguarda le banche ho trovato che il top del costoso formalismo è stato raggiunto con le procedure della cosiddetta “compliance”. Burocrazie dispendiose e poco efficaci.

Verificare che il cliente di una banca sia “compliant” in modo generico significa verificare che le risultanze del suo patrimonio siano “conformi” alle leggi esistenti. Il sistema, pensato in una lodevole ottica antiriciclaggio, è letteralmente sfuggito di mano agli istituti bancari, i quali, messi sempre più sotto pressione dalle autorità di vigilanza, di fatto hanno istituito dei presìdi di controllo, che nulla hanno da invidiare ai servizi statali di intelligence. È sufficiente pensare al fatto che una buona metà 22

del personale di una banca è dedicato ai controlli in senso largo (compliance, risk management, ecc.) e questo esercito di persone obbliga sovente il cliente che vuole svolgere normalissime operazioni bancarie ad assurdi esercizi dedicati alla produzione di cosiddetti “basic documents”. Nella maggior parte dei casi si tratta di procedure assolutamente inutili che dilatano ed esasperano i tempi di transazioni finanziarie. Anche le più semplici.

Posso citare decine di esempi di richieste assurde che mi sono state formulate in operazioni che mi riguardano personalmente. Per esempio la necessità di avere un contratto che giustifichi un bonifico in uscita da una società di sede non operativa dichiaratamente mia a favore del mio conto personale. Oppure ancora la necessità di giustificare alla mia banca il pagamento da un mio conto personale a favore del conto personale di una terza persona. Oppure ancora il rifiuto immotivato di eseguire pagamenti dal mio conto verso la Russia (perché considerato dalla banca genericamente un Paese “a rischio”).

Lavorando con diversi istituti bancari (anche di Paesi diversi), ci si rende conto che quello che è “compliant” per un istituto non lo è affatto per un altro (anche dello stesso Paese). Una difformità del genere produce grande incertezza. La compliance, infatti, non si limita a un’analisi di conformità alla legge sul riciclaggio del Paese in cui ha sede la banca, ma estende l’analisi a tutta la normativa applicabile all’operazione economica sottostante, la quale, sovente, soprattutto nei rapporti internazionali, coinvolge più ordinamenti giuridici. E questa estensione dell’analisi di conformità sembra non avere fine: si è passati dalla lotta al riciclaggio di denaro all’analisi generale di conformità legale fino alla prevenzione di rischi anche solo reputazionali. L’ultima tendenza che ho notato è l’analisi dell’opportunità della transazione economica, come farebbe il tutore con il proprio pupillo.

Il sistema ha così creato un differenziale enorme tra le tempistiche richieste dai mercati e quelle imposte dalle banche: la compliance è così diventata la burocrazia dell’economia.

Ma quel che è peggio è che la criminalità continua a utilizzare il sistema bancario per i suoi loschi affari. Lo conferma il fatto che per ogni inchiesta importante vi è uno o più sequestri 23

delle disponibilità presso istituti bancari: questo dimostra che il denaro sporco non fatica a entrare nel circuito bancario malgrado i controlli di compliance.

Sovente gli addetti al controllo sono persone che non hanno mai ricoperto ruoli operativi nel mondo del business. Pertanto si limitano ad analisi formali e di facciata: poche volte mi sono confrontato con domande pertinenti a capire veramente quello che viene chiamato “il retroscena economico dell’operazione”.

Che il sistema vada rivisto è opinione di molti: pochi però osano esternare una voce critica al riguardo, con la paura di essere indicati come complici di chissà quali operazioni illecite. In realtà il problema è che queste ultime, come visto, continuano a essere svolte, mentre quelle assolutamente lecite vengono sempre più paralizzate. Tutti dicono che il settore sia “overregulated” ma nessuno fa nulla per diminuire gli eccessi del sistema: sarebbe sufficiente a mio parere garantire l’identificazione dell’avente diritto economico e la tracciabilità dell’operazione.

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