Foto 4. Soggetti inseriti nel programma di recupero del cane di Akita: esemplare di Matagi Inu (cane da caccia) e di Kuriya Inu (cane da combattimento)
Foto 5. Kongo Go Heiraku Do e Goromaru Go
L’ERA MODERNA Soltanto nel 1931, quando il Ministero della Pubblica Istruzione inviò ad Odate un secondo gruppo di ricerca guidato dal dottor Tokio Kaburagi, fu individuata una decina di cani nativi caratteristici della specie da eleggere a patrimonio naturale, per la prima volta identificati e raggruppati sotto il nome di Akita Inu. Tuttavia fu evidente fin da subito che esistevano notevoli differenze tra gli esemplari di Akita e non fu semplice individuare un modello chiaro; la diatriba tra esperti fu accesa ed aspra per anni. Il primo standard di razza per i cani giapponesi viene rilasciato dalla NIPPO nel 1934. Semplicemente vengono classificati per dimensione (piccola, media e grande), descrivendone alcuni tratti senza riportare particolari caratteristiche distintive, se non quelle relative alla taglia. Come modello per la definizione dello standard NIPPO vennero usati i cani giapponesi di taglia media, perché erano quelli meno alterati da incroci e che presentavano caratteri uniformi rispetto ad altri. È del 1938, invece, il primo standard dell’AKIHO, che identificò e formalizzò i tratti tipici che dovrebbero possedere i cani di razza Akita. Ad esso fece seguito lo standard redatto nel 1948 dall’AKIKYO, altra importante organizzazione nata a tutela della razza. I tre standard sono sostanzialmente simili, se non per qualche differenza minore e per il livello di dettaglio con cui sono stati elaborati. Purtroppo la fase di avvio al restauro del cane Akita subì l’influenza negativa della Seconda Guerra Mondiale; durante gli anni del conflitto, su richiesta delle stesse autorità locali, moltis18
simi cani furono confiscati e uccisi per farne cibo e pellicce per i militari giapponesi. Fu così che la razza Akita, già provata da decenni di imbastardimento e prossima all’estinzione, venne esposta all’ennesimo rischio di scomparsa. Alcuni esemplari scamparono a questa mattanza, perché spediti dai proprietari ad amici o parenti che vivevano in zone remote e poco accessibili, altri si cercò di confonderli e incrociarli coi Pastori Tedeschi, che essendo l’unica razza destinata ad usi militari non era oggetto di questo sterminio autorizzato. Non è possibile stimare il numero di Akita sopravvissuti alla Guerra, ma due furono le linee di sangue che prevalsero sulle altre e da cui si ripartì, con i pochi soggetti rimasti, per fissare i tratti della razza: la linea Dewa, che in Kongo Go trova uno dei suoi migliori rappresentanti, e la linea Ichinoseki principalmente identificata in Goromaru Go. Le linea Dewa si presentava d’aspetto piuttosto pesante rispetto a quella Ichinoseki, spesso con giogaia e labbra cadenti, con evidenti rughe di pelle sulla fronte e ai lati del muso, e di corporatura massiccia. Per questo, nonostante ebbe una certa notorietà nell’immediato dopoguerra, nel giro di pochi anni ad essa furono invece preferiti cani più “leggeri” e più vicini alla linea Ichinoseki che dettarono le prime basi su cui (ri)costruire l’Akita giapponese. Molti Akita della linea Dewa, che mostravano evidentemente il segno degli incroci con molossi, pastori tedeschi e altri cani occidentali, furono importati negli Stati Uniti da membri dell’Esercito Americano dove vennero molto apprezzati e divennero i capostipiti dell’Akita Americano di oggi.
IL CARATTERE Dopo la Seconda guerra mondiale gli Akita furono incrociati con cani giapponesi di taglia media come l’Hokkaido, il Kishu e i pochi Matagi Inu rimasti per cercare di restituire alla razza alcune peculiarità primitive andate perse. In particolare si cercò di fissare quelle che erano le qualità essenziali (Honshitsu) e la sua espressione (Hyogen). Le qualità essenziali e l’espressione tenevano conto anche di aspetti intrinseci e caratteriali del cane, per cui un buon esemplare oltre a presentarsi con un’estetica pura, semplice e non corrotta da ibridazione, doveva dimostrare caratteristiche quali buon temperamento (ryosei), dignità, compostezza e una sorta di spiritualità (kan - I) intesa come forza vitale, un misto di coraggio e calma (kishō). Il processo di recupero di quello che era il cane di Akita è stato lungo e tortuoso e la grande diversità che ancora oggi vediamo nei soggetti presentati in esposizione è un chiaro segnale che si tratta di un percorso ancora in evoluzione. È altresì importante ricordare che la selezione si è rivolta non solo all’aspetto morfologico ma anche caratteriale del cane, e l’Akita è un cane dell’indiscussa fierezza, composto e sicuro di sé, di indole dominante e tempra piuttosto dura, è un cane primitivo e va rispettato e tutelato nella sua diffidenza e apparente indolenza, sebbene troppo spesso sia desiderio comune tra proprietari inesperti quello di snaturarlo per modellarlo e renderlo adatto ad ambienti e contesti urbani a discapito delle sue qualità naturali. Simona Cupelloni Fonti: foto 1 Simona Cupelloni foto 2-3-4-5 elaborati da www.nihonken.org