Employer Branding

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SVILUPPO & ORGANIZZAZIONE Giuseppe Scifo

SVILUPPO & ORGANIZZAZIONE

N. 224 Novembre/Dicembre 2007

Cambiamento organizzativo

Arturo Bellucci Riccardo Colombo Risk management negli enti locali

Discussioni Employer branding

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Novembre/Dicembre 2007

Chiara Ghislieri Claudio G. Cortese Simona Ricotta Welfare organizzativo

Frits K. Pil Susan K. Cohen ModularitĂ e vantaggio competitivo

Stefano Denicolai Gabriele Cioccarelli Domenico Bodega Fondazioni di origine bancaria

E.S.T.E. srl - Via Vassallo, 31 - 20125 Milano Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, DCB Milano


Discussioni a cura di Barbara Quacquarelli e Francesco Paoletti

Employer branding Le risorse umane hanno potenziato strumenti di comunicazione per attrarre e trattenere le persone in azienda. Qual è l’impatto a livello organizzativo e individuale? Sugli Autori:

Eugenio Amendola (eugenio@employerbrandinstitute.com) è consulente e Senior Associate dell’Employer Brand Institute. Ha gestito diversi progetti di employer branding per importanti aziende multinazionali. È docente del Master in Marketing e Hr Management diretto da Enzo Spaltro e promosso da Aidp. Andrea Fontana (plessus@tin.it) è esperto di sistemi di formazione manageriale, sviluppo organizzativo comunicazione d’impresa e storytelling management. Insegna all’Università degli Studi di Milano-Bicocca: “Metodologia della formazione nelle organizzazioni” e all’Università di Pavia: “Storytelling e narrazione d’impresa. È autore di testi sulle nuove modalità di training evoluto e comunicazione intergrata con approccio narrativo. È business partner di Corus, società di consulenza Hr del Gruppo Assist. Valeria Pardossi (valeria.pardossi@fiatgroup.com) è Talent Acquisition Manager in Fiat Group. In precedenza ha ricoperto i ruoli di Recruiting Manager e People Development Manager in Vodafone. Laura Viada (laura.viada@fiatgroup.com) è consulente per il Gruppo Fiat per l’area di Talent Acquisition. È dottoranda in Psicodinamica dell’Organizzazione e della Formazione presso l’Università degli Studi di Torino.

L’employer branding è diventato uno dei più importanti processi all’interno della funzione risorse umane delle grandi aziende. Il perché è riportabile a una serie di eventi che hanno coinvolto le organizzazioni negli ultimi anni: fusioni, acquisizioni, fallimenti, downsizing e outsourcing sono tutti fenomeni di revisione dei confini organizzativi che hanno richiesto una ridefinizione delle identità organizzative. L’esplodere dell’employer branding va senz’altro ricollegato alla necessità di trasferire attraverso un brand un senso di sicurezza ai potenziali nuovi assunti, ma anche alle persone che già lavorano all’interno dell’azienda da un lato (in tal caso si parla di corporate branding). Sotto la definizione di employer branding rientrano una serie di attività attribuibili a processi Hr e a processi di comunicazione interna, che si sviluppano per posizionare il brand aziendale all’interno del mercato del reclutamento e delle risorse umane. Il brand aziendale, in questo contesto, diventa l’insieme delle aspettative e dei valori aziendali: in sintesi, esprime l’esperienza che si vive all’interno dell’organizzazione. L’employer branding quindi si presta a essere il miglior modo per reimpostare e migliorare il rapporto di comunicazione tra le persone e l’organizzazione e comporta l’utilizzo delle principali strategie tipiche del marketing: rilevazione del gap possibile tra come l’azienda è vista ed è vissuta all’interno e quello che è possibile percepire dall’esterno da parte di candidati o persone che potrebbero decidere di unirsi. L’employer branding serve quindi a migliorare il processo di reclutamento ma anche, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione dell’identità, diventa uno strumento utile per incoraggiare nei collaboratori la produttività, la lealtà e la retention. Costruire una strategia coerente di employer branding implica sia l’impegno del marketing sia delle risorse umane. Questa partnership può risultare molto vantaggiosa sia in termini di “fertilizzazione incrociata” delle competenze sia per il miglioramento nell’uso delle risorse e dei budget, nelle efficienze di processo, nel processo decisionale, in termini di coerenza d’immagine e di comunicazione. Di tutto questo ci parlano gli autori delle Discussioni: Eugenio Amendola ci offre un ampio scenario di riferimento entro il quale comprendere in modo approfondito il processo; Valeria Pardossi e Laura Viada raccontano il percorso compiuto all’interno di Fiat Group in concomitanza con il grande rilancio dell’azienda. Infine Andrea Fontana ci offre un’analisi dal punto di vista individuale, che parte dalla prospettiva dell’“employer”.

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Employer branding di Eugenio Amendola Da alcuni anni si sente, sempre di più, parlare di employer branding. Nonostante la sua diffusione a livello mondiale, ancora oggi esiste molta confusione su cosa sia realmente questa nuova strategia di matrice anglosassone. Ed è proprio dai fattori o ragioni del suo sviluppo che bisogna partire per comprenderne meglio la sua natura e, in questo modo, avvicinarsi il più possibile al suo significato. Sicuramente le principali motivazioni del suo sviluppo sono da attribuirsi al crescente calo demografico, che ha caratterizzato soprattutto il periodo che va dal 1966 al 1977, ma che si è protratto nel corso degli anni successivi e che si prevede manterrà livelli bassi anche in futuro. Si aggiungono poi i cambiamenti avvenuti nella nostra economia sempre più globale e sempre più economia della conoscenza e/o dell’informazione. Conseguenza di questo fattore è stata da una parte la nascita di nuove figure professionali mai esistite prima e, dall’altra, la necessaria riorganizzazione interna avvenuta in molte aziende per rispondere meglio ai nuovi cambiamenti. Ciò ha, inevitabilmente, portato a nuove fusioni, acquisizioni, ridimensionamento dei livelli gerarchici provocando, in molti casi, una crescente mobilità sul mercato del lavoro. Da queste criticità è emerso un mercato del lavoro estremamente chiuso, e soprattutto caratterizzato da una maggiore competitività, che ha portato molte aziende a porsi il problema di migliorare la propria attrattività e costruirsi un posizionamento più efficace sul mercato del lavoro. L’employer branding rappresenta quindi un approccio innovativo che aiuta l’azienda a raggiungere questi obiettivi. Si può affermare che, attraverso una strategia di employer branding, l’azienda è in grado di individuare/scoprire/costruire la propria employer identity, valutarne la sua attrattività in termini di maggiore differenziazione rispetto ai concorrenti e comunicarla sia all’interno dell’azienda, quindi verso i propri dipendenti, sia all’esterno e cioè verso i potenziali candidati di cui ha bisogno. In realtà non tutte le aziende hanno una visione così “speciale” della strategia. Pertanto sono molti i casi in cui si preferisce sviluppare una semplice campagna pubblicitaria mediante l’uso degli stru52

menti tradizionali dell’advertising senza però dare un impulso strategico ed incisivo all’azione. Oppure ci si limita a mutuare quanto si è sviluppato, in termini di comunicazione istituzionale e di prodotto, sul mercato del consumo. Questo è uno degli errori che, più frequentemente, viene commesso e che può creare enormi danni di immagine a livello employer riducendone la sua attrattività. Data l’importanza di questo aspetto vale la pena approfondirne le sue criticità partendo dalla individuazione di ciò che dovrebbe essere meglio compreso perché una strategia di employer branding possa risultare efficace. In particolare, si può dire che una buona strategia di employer branding dovrebbe rispettare almeno due macro principi. Il primo è che non tutto può essere mutuato dalla corporate branding ossia dalle azioni tradizionali di comunicazione istituzionale e/o di prodotto. Questo principio è utile a comprendere che molte volte l’identità corporate è ben distinta dall’identità employer. Ciò significa che se si vuole raggiungere un buon posizionamento su un determinato segmento del mercato del lavoro (laureati, professional, ecc.) devo capire se l’immagine istituzionale dell’azienda (come operatore del mercato di riferimento) è spendibile o meno anche sul mercato del lavoro. Un esempio. Alcune aziende quali Coca Cola, Vodafone, Tim godono di un particolare apprezzamento della propria immagine sia a livello corporate sia a livello di prodotto. Tuttavia questo non significa che le persone che ne apprezzano l’immagine istituzionale siano poi anche disposte ad andarci a lavorare. In questi casi, infatti, la strategia di employer branding deve necessariamente essere più mirata e sganciarsi dalle forme più tradizionali di comunicazione. In altri casi, come quello di Barilla, il prodotto dell’azienda e la sua comunicazione istituzionale giocano un ruolo decisivo, quindi non “inquinante”, anche nell’attrattività dell’azienda quale luogo di lavoro/employer. A questo principio si collega il secondo e cioè l’importanza del mercato di riferimento dell’azienda. Questo aspetto è interessante soprattutto per quelle aziende che si rivolgono a un mercato del consumo, dove spesso il potenziale e/o attuale cliente corrisponde al potenziale e/o attuale employee. Di nuovo aziende come Vodafone, Tim e anche Fiat sono validi esempi di realtà che rientrano nel caso sopra menzionato. Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007


È molto probabile, infatti, che l’acquirente di un servizio di telefonia mobile, offerto da Vodafone o da Tim, sia anche un potenziale candidato a lavorare presso quelle aziende. Allo stesso modo può capitare che l’acquirente di un’auto Fiat possa anche essere interessato a lavorare per l’azienda stessa. Esistono, comunque, situazioni nelle quali la sinergia tra le due forme di comunicazione è, invece, molto più lieve e meno interrelata. È il caso di aziende come, ad esempio, Abb, Bosch, Accenture, il cui mercato del consumo è costituito, prevalentemente, da imprese ed è ben distinto dal mercato del lavoro target. Questa maggiore differenziazione dei target permette, quindi, all’azienda di definire la propria strategia di employer branding muovendosi su un terreno più “vergine” e cioè non particolarmente intaccato dalle attività di comunicazione corporate e/o di prodotto. Questi due semplici principi possono quindi aiutare l’azienda ad individuare le condizioni preliminari per lo sviluppo efficace di una strategia di empoyer branding. Al fine di comprendere meglio gli aspetti sinora menzionati ci avvarremo di un indicatore semplice ma, allo stesso tempo, molto efficace denominato Bci Index. (Brand Communication Interactive Index). L’indice consente di capire in che modo le due forme di comunicazione (corporate e employer branding) interagiscono tra di loro e, soprattutto, quali sono gli effetti in termiSviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007

Grafico 1 - Bci Index - settore agroalimentare-beveragelargo consumo (Indagine 2006)

ni di posizionamento del brand sul mercato target e rispetto alle aziende concorrenti. Esso è il risultato di due principali analisi: la Corporate Brand Analysis e l’Employer Brand Analysis. Con la prima si ottengono informazioni sul grado di apprezzamento dell’immagine istituzionale dell’azienda. Essa si fonda essenzialmente sulla domanda: “quale tra le aziende del settore ha l’immagine più accattivante?”. Mentre con la seconda si hanno informazioni sul grado di apprezzamento dell’azienda come employer of choice e cioè come datore di lavoro ideale in cui andare a lavorare. Essa scaturisce dalla formulazione della seguente domanda: “in quale azienda del settore vorresti andare a lavorare?”. Il risultato dell’incrocio di queste due analisi è un grafico (esempio riportato sotto) nel quale i valori evidenziati sull’asse delle ordinate si riferiscono al numero dei candidati che hanno espresso il proprio apprezzamento nei confronti dell’immagine istituzionale. Mentre i valori evidenziati sull’asse delle ascisse del grafico si riferiscono, invece, al numero dei candidati che hanno manifestato interesse ad andare a lavorare nelle aziende di riferimento. La posizione delle aziende nei diversi quadranti assume, quindi, un significato ben preciso. Nel quadrante A, ad esempio, sono collocate le cosiddette “Best corporate” e cioè aziende con un basso livello di ap53


peal come employer e un alto livello di gradimento per la propria immagine istituzionale. In questo quadrante troviamo, solitamente, aziende la cui politica di corporate branding risulta molto incisiva, mentre meno efficace risulta la strategia di employer branding. Tale risultato può essere dovuto a un’azione di corporate branding più invasiva nei confronti di forme di comunicazione più mirate (es. employer branding) oppure, può essere, semplicemente, il risultato di una meno incisiva azione di employer branding. Nel quadrante B sono collocate le cosiddette “Strong company” e cioè aziende con un alto livello di gradimento della propria immagine e un alto livello di appeal come employer. In questo quadrante troviamo aziende nelle quali le strategie corporate branding ed employer branding sono molto efficaci, tendenzialmente più integrate e in grado di produrre un effetto di rafforzamento reciproco. Nel quadrante C sono collocate le “Best employer” e cioè aziende con un alto livello di appeal come employer ed un basso livello di gradimento della propria immagine corporate. Si tratta, soprattutto, di aziende con una efficace strategia di employer branding e una politica di corporate branding poco invasiva. Infine nel quadrante D sono collocate le cosiddette “Weak company”. In questo caso si tratta di aziende con un basso livello di appeal come employer e un altrettanto basso livello di gradimento della propria immagine istituzionale. È un risultato solitamente legato a quelle aziende per le quali le strategie di corporate branding ed employer branding, se esistenti, sono poco efficaci o semplicemente perché si tratta di aziende poco conosciute. A titolo di esempio su quanto detto sopra si riporta un grafico riferito al Bci Index scaturito da una indagine svolta nel 2006, in collaborazione con Monster Italia, sui top graduate(1). Il grafico 1 mostra il posizionamento di alcune aziende(2) operanti nel settore agroalimentare-beverage-largo consumo. Dal grafico 1 si può notare come sul quadrante B siano facilmente identificabili le cosiddette “Strong company”. Esse sono Barilla, Procter&Gamble, L’Oreal, Coca Cola Hbc e Heineken. Queste aziende hanno qualcosa di importante in comu-

(1)Si tratta di un segmento particolarmente critico del mercato del lavoro definito in base ai seguenti requisiti: aver conseguito la laurea nei tempi previsti (età max 26 anni); aver conseguito la laurea con il massimo dei voti (da 105 a 110 e lode); buona/ottima conoscenza della lingua inglese; aver avuto un’esperienza di lavoro/formativa all’estero; provenienza da facoltà tecnico-scientifiche e/o economico-statistiche. (2) L’indagine ha coinvolto 650 top graduate ai quali sono state mostrate 120 aziende suddivise in 7 macro settori merceologici. 54

ne. Sono realtà molto apprezzate sia sul piano istituzionale (corporate) e sia come luogo di lavoro (employer). Il grado di apprezzamento è, più o meno, marcato a seconda, ovviamente, della posizione dell’azienda all’interno del medesimo quadrante. La posizione di Barilla, ad esempio, è la migliore. Lo scarto tra quanti l’apprezzano come corporate e quanti la desiderano come employer è decisamente più ridotto rispetto alle altra aziende. Questo può dimostrare che le due forme di comunicazione interagiscono bene supportandosi reciprocamente. Le forti connotazioni che caratterizzano il brand Barilla e, in particolare, il suo prodotto sono, probabilmente, le principali ragioni di questa efficace interazione. Barilla è un brand italiano che ha, da sempre, evocato valori importanti quali la famiglia, il rispetto per la natura, la tradizione. Ecco perché il prodotto Barilla non solo è presente nell’alimentazione della maggior parte degli italiani, ma ha sempre rappresentato, anche, un efficace volano promozionale di una forte identità aziendale la cui spendibilità si è dimostrata efficace anche sul mercato del lavoro, diventando perciò un valido strumento di attracting nello sviluppo delle politiche di recruiting aziendale. Questo tipo di valutazioni fatte per Barilla possono, ovviamente, essere fatte, con le opportune differenziazioni, per tutte le altre aziende collocate sia sul quadrante B sia sugli altri quadranti. Va da sé che le aziende raggruppate nel quadrante C mostrano una posizione più delicata e svantaggiata rispetto alle altre del settore di riferimento. Un chiaro segnale di allarme per queste aziende, che devono necessariamente impegnarsi di più nello sviluppo di azioni di comunicazione, più o meno integrate, capaci di provocare spostamenti del proprio brand verso posizioni più positive rispetto ai concorrenti diretti del settore. Il Bci Index, come si è visto, costituisce quindi uno degli strumenti di valutazione preliminare del posizionamento del proprio employer brand in grado di fornire alcune importanti informazioni che consentono di tracciare le prime linee guida per lo sviluppo della strategia. Nonostante l’efficacia di questi strumenti di analisi in Italia solo alcune aziende hanno iniziato a usarli prevalentemente allo scopo di supportare le attività di recruiting e per attrarre soprattutto particolari segmenti del mercato del lavoro ritenuti particolarmente critici quali i neolaureati in materie tecnico-scientifiche ed economico-statistiche e senior manager in possesso di specifiche skill. Si tratta prevalentemente di aziende multinazionali che, per cultura e dimensioni, hanno avuto la possibilità di mutuare prima di altre questo tipo di innovazioni rendendo più efficaci le proprie politiche di campus recruiting e di employer branding. Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007


Negli ultimi anni, ad esempio, c’è stato un radicale cambiamento, in particolare, nella gestione dei rapporti con le università. Si è passati da un da un approccio campus oriented a un approccio più student oriented. Per anni, infatti, le imprese medio-grandi o multinazionali si sono rivolte solo ad alcune università che, per il loro prestigio acquisito, erano in grado di garantire le risorse migliori. Oggi le aziende hanno dovuto allargare il proprio bacino di riferimento anche ad altre università minori al fine di aumentare la disponibilità di risorse necessarie alle mutate esigenze di recruitment. In questa direzione sono andate alcune importanti aziende quali Unilever il cui brand, pur non godendo di una forte notorietà, si è con il tempo affermato soprattutto nei campus grazie a una strategia di employer branding che prevedeva lo sviluppo di un’attività di comunicazione differenziata a seconda del prestigio e della dimensione dei singoli atenei. Ad esempio, su università dove la presenza di altre aziende era maggiore, venivano preferiti interventi più mirati su target selezionati mediante workshop o seminari. Questo permetteva di ottenere una maggiore attenzione da parte dei candidati target e garantiva una più efficace comunicazione del proprio employer brand. Differente è il caso di una partecipazione ad una job fair dove la presenza confusa di un gran numero di potenziali candidati e di aziende in diretta concorrenza tra di loro produce un risultato comunicazionale sicuramente meno efficace e, in certi casi, anche controproducente. Sono stati, poi, individuati nuovi strumenti sicuramente più efficaci ed in grado non solo di aprire il dialogo con le università ma anche di mantenerlo nel tempo. Gli uffici interni alle università stanno rafforzando i loro servizi di orientamento all’uscita, sia per la maggiore autonomia di cui godono attualmente e sia perché le attività cosiddette di placement sono diventate importanti e strategiche per la sopravvivenza stessa delle università. In particolare, sono sempre più frequenti i momenti di incontro con le aziende che prendono la forma di cocktail e/o pranzi di lavoro con tanto di brand aziendale. Oppure veri e propri interventi da parte di manager all’interno della didattica che, oltre a fornire un’applicazione pratica di quanto teoricamente studiato, costituiscono per l’azienda una valida occasione per comunicare e promuovere il proprio employer brand. Quest’ultima strategia, che nei paesi anglosassoni viene chiamata Class Guest Speaking, viene adottata, in Italia, soprattutto da aziende che operano nel settore della consulenza quali McKinsey, Sas, Boston Consulting Group. Ma anche lo sviluppo di politiche di recruitment a livello internazionale sta sempre più facendo emergere il bisogno di allargare l’ambito geografico di riferimento per trovaSviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007

re quelle figure professionali che non sono presenti sul mercato del lavoro interno. In alcuni paesi, infatti, non solo è significativa la presenza di risorse qualificate, ma si registra anche una forte disponibilità a cercare lavoro fuori dai propri confini nazionali. È evidente che tali cambiamenti, soprattutto nel modo di fare recruiting, sono stati possibili in Italia anche grazie a un processo di “educazione” alla cultura dell’employer branding sviluppato grazie alla sensibilità di consulenti e/o docenti che, attraverso l’organizzazione di conferenze sul tema, hanno iniziato a promuovere i primi modelli di sviluppo dell’employer branding sottolineando l’importanza delle analisi di posizionamento sul mercato interno ed esterno del lavoro e il valore strategico delle attività di collegamento con le università. Concetti quali positioning, differenziazione, employer value proposition o, ancora, class guest speaking, employer web cast, ecc. stanno oggi diventando, sempre più, presenti nelle documentazioni interne delle aziende fornendo le basi per la costruzione di nuove best practice. Ma si tratta ancora, in alcuni casi, di semplici azioni di “facciata”che, molto spesso, non producono seguito o non hanno molta efficacia. L’esigenza di adottare una strategia di employer branding trova in Italia ancora forti resistenze, per motivi legati alle scarse risorse finanziarie disponibili, allo scarso coinvolgimento delle altre funzioni aziendali sia nella fase di definizione degli obiettivi sia nella fase di implementazione della strategia medesima. Nonostante queste limitazioni esistono tuttavia buone prospettive per il suo futuro sviluppo, soprattutto grazie a una serie di fattori. Innanzitutto il desiderio delle aziende di capirne di più ed il fatto che questo desiderio si stia spostando dagli uffici del Personale ai “piani alti” delle aziende, il che dovrebbe portare ad una maggior sensibilità diffusa verso questa nuova strategia, aumentando così le possibilità di effettiva realizzazione, il riconoscimento che la “risorsa uomo” sia ormai diventata un asset “intangibile” assolutamente critico per la competitività dell’azienda ed, in ultimo, l’esistenza di un collegamento sempre più forte tra la reputazione dell’azienda, la sua immagine istituzionale e la capacità di attrarre i talenti. E sarà proprio questa la grande sfida per il futuro e cioè la capacità dell’azienda di gestire ed integrare al meglio i suoi diversi ruoli: come realizzatore di profitto mediante la produzione di beni e servizi, come realtà “socialmente” responsabile grazie ad un comportamento sempre più etico ed, infine, come “luogo di lavoro” dove i propri dipendenti attuali e potenziali possano trovare il piacere di lavorare. 55


Fiat Group Employer brand r-evolution di Valeria Pardossi e Laura Viada Non si può fare di una esperienza una storia, né di un evento un caso se non si è disposti a far luce sugli elementi costitutivi della trama. Il che non significa dare avvio a una operazione retorica che sappia evidenziare le direttrici del lavoro sin qui compiuto, ma vorrebbe piuttosto risultare un’espressione di riconoscimento (e di riconoscenza) di tutti i costituenti, le voci, le difficoltà e i successi di un “percorso in-corso” che vede il Gruppo Fiat al centro di un’interessante scommessa di immagine (e sostanza). Per fare questo vorremmo simbolicamente invitare chi legge ad abbandonare probabili attese cui anni di letteratura sul management e di breviari di comportamento organizzativo ci hanno abituati. Quanto segue, infatti, non intende essere una semplice ricostruzione di pratiche cui l’esperienza e i risultati hanno dato ragione. Vorremmo sfidare il lettore proponendogli di accogliere la stessa sfida che quotidianamente vale per chi lavora per il Gruppo Fiat: per farlo prendiamo in prestito le parole del nostro Ceo, Sergio Marchionne che invita costantemente il suo team di lavoro a “non seguire linee prevedibili, perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti.”(1) Questo scritto, infatti, racconta un’esperienza che deve il suo carattere sperimentale al coraggio e all’energia che molti di noi hanno messo a servizio di idee e immagini nuove. La trattazione sarà pertanto un esperimento di imprevedibilità, come a dire che non potremmo raccontare alcun cambiamento senza variare di tanto in tanto la struttura stessa della narrazione. Per questo motivo invitiamo il lettore a guardare al crocevia tra ciò che il Gruppo è stato e ciò che intende essere, con una proiezione al futuro quale imprescindibile direzione del lavoro di ogni giorno. La letteratura ci conforta con etichette e definizioni. La ricerca matura e consolida per noi le verità dei fatti. Per employer branding si intende la sommatoria degli investimenti e degli sforzi messi in campo da una azienda con lo scopo di comunicare alle risorse attuali e future la propria attrattività come luogo ideale di lavoro (Lloyd, 2002). I fatti dimostrano che attraverso una strategia di employer branding l’azienda è in grado di focalizzare la propria employer identity, valutarne il grado di attrattività in termini di maggiore differenziazione rispetto ai concorrenti e comunicarla sia all’interno, che all’esterno. La domanda, dunque, necessariamente recita: “che cosa significa employer branding per il Gruppo Fiat?”, nonché più ampiamente “che cosa significa intraprendere azioni di questa natura in un settore produttivo quale quello dell’automotive?” Vorremo celebrare - con sintesi e un po’ di necessaria ri56

dondanza - la risposta per noi più convincente a entrambi i quesiti posti: innovazione, innovazione, innovazione. Che il mercato automotoristico goda della “cattiva fama” di essere statico e destinato a un trend piuttosto stabile è, purtroppo, una percezione ancora ampiamente condivisa. Con soddisfazione ci consentiamo l’azzardo di affermare che la rivoluzione copernicana made in Fiat di ultimo periodo è valida prova per confutare l’ipotesi di un mercato dalle logiche ormai ampiamente svelate e dai trend pressoché confermati. L’innovazione, quale leva di sopravvivenza prima e del cambiamento poi, ha investito le aziende, le funzioni, i livelli organizzativi del Gruppo chiamando tutti a farsi interpreti del non semplice compito di ricostruire e dare voce all’identità del Gruppo. Non solo cambiamento dunque, ma addirittura, come dimostrano le prime pagine di importanti riviste del settore(2), una radicale inversione di rotta. Confortati da risultati economici in costante crescita, abbiamo cominciato a giocare la partita sul fronte della nuova immagine in linea con l’intenzione di ritornare a essere primo attore (funzionale, tecnologico ed emotivo) del mercato. Non è casuale che lo spot pubblicitario andato in onda in concomitanza con il lancio del nuovo modello della 500 chiudesse con l’emblematica affermazione “La nuova Fiat appartiene a tutti noi.” Il lancio sul mercato della 500, riuscitissima sintesi di passato e futuro, da tutti riconosciuta come il Manifesto della nuova Fiat, è stata una sfida tra le altre. È ripercorrendo le principali di queste sfide che vorremo raccontare il percorso di un grande gruppo industriale impegnato a comunicare a interlocutori presenti e futuri le ragioni della sua attrattività rispetto ad altri attori sul mercato. La cornice che andiamo ricostruendo si basa, è chiaro, su elementi (li abbiamo citati) quali l’innovazione, il cambiamento, le sfide di un mercato in evoluzione: vale la pena di circoscrivere ulteriormente il perimetro della riflessione, precisando che il target di popolazione cui ci siamo rivolti è stato quello dei laureandi e dei neolaureati. Partner del percorso sono state, in modo particolare, alcune università che, per ubicazione e area geografica servita, per tipologie di profili e percorsi formativi garantiti, hanno rappresentato

(1) Intervista rilasciata a Dario Cresto Dina, La Stampa, 15 ottobre 2007. (2) Fortune, AutoBild, TopGear. Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007


il bacino di riferimento per le azioni di recruitment e selezione degli ultimi 6 mesi di lavoro. L’Eb per Fiat ha dunque significato definire modelli di azione innovativi mediante i quali coinvolgere e raggiungere quel segmento di popolazione che rappresenta oggi il dna aziendale di domani. Il compito è risultato sin da subito tanto urgente quanto di difficile conseguimento. A monte dell’operatività di azioni mediante cui una azienda incontra e comunica con l’universo dei neolaureati, ci siamo confrontati con elementi di complessità legati alla numerosità degli stakeholder interni, alla funzionalità dei processi, alle crescenti esigenze di un business dai tempi accelerati, nonché al radicamento di vissuti e percezioni che portano in direzione opposta e contraria a quella che queste pagine delineano. Sciogliere questi nodi ci ha aiutato a definire, strada facendo, il senso stesso dell’Eb per il Gruppo Fiat. Procediamo con ordine, dunque dal Capitolo 1 che recita e celebra necessariamente Le diverse voci del coro, o meglio del Gruppo. Qualche numero ce ne dà prova: il Gruppo Fiat conta ben cinque settori operativi (Automobili, Macchine per l’agricoltura e la costruzioni, Veicoli commerciali, Componenti e Sistemi di produzione), 15 commercial brand e location distribuite in 190 paesi al mondo. Sono, questi numeri, sufficienti di per sé a fare del caso Fiat un elogio alla complessità. Face complexity e Make it simple sono, nel gergo aziendale, statement “di largo consumo”. Per Fiat sono state e sono, volendo approfittare ancora di una metafora, “pane quotidiano”. Il Capitolo 1 dell’Eb secondo Fiat ha dunque contemplato l’interessante sfida di ricondurre identità tra loro diverse ad un unico brand di Gruppo. Il rischio di operazioni premature o indelicate è stato alto sin da subito: il tempo e la fiducia reciproca tra partner di uno stesso business hanno consentito di trovare le giuste risposte a ineludibili quesiti. Quale ricetta avrebbe garantito la giusta dose di visibilità a ogni singolo brand? Come mantenere in vita le specificità di ciascuna realtà mettendole nel contempo a servizio della logica di Gruppo? Questa sfida, non va dimenticato, è stata accolta ed elaborata dapprima internamente per poi divenire oggetto di un progetto comunicativo che, nel raggiungere i suoi destinatari (i neolaureati), ha dovuto confrontarsi (ancora una volta) con l’esistere e il persistere di pregiudizi, dubbi e scetticismi da parte di molti. Incontrando i neolaureati ci siamo resi conto, infatti, di quanto questa popolazione non solo sia lontana dal mercato del lavoro, ma ne conosca gli elementi per via di canali non sempre strutturati o aggiornati. Così, non di rado, abbiamo dato risposta allo stupore di quanti non avevano recepito il disegno di complessità che risiede nel Gruppo Fiat, disegno celato a lungo dall’immagine (oggi più che mai sorpassata) di una fabbrica di sole automobili con base a Torino. Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007

Nella sezione Learning Lessons ci sentiamo dunque di registrare che l’Eb è di valore se riesce ad essere espressione rappresentativa seppur sintetica delle diverse identità del Gruppo. Attenzione dunque al rischio di stemperare (e liquid-are) troppo entusiasticamente diverse identità in una sola. Fa scuola a questo proposito il monito di quanti citano l’eterogeneità interna come uno degli elementi a garanzia del successo della propria strategia di Eb (Minchington, 2006). Riuscire a dare visibilità in termini di Eb a 15 company brand facendo ricorso a un solo corporate brand significa non solo essere riusciti a stabilire un’identità comune, ma anche aver conseguito un obiettivo di sintesi senza danneggiare la ricchezza e l’articolazione della Employee value proposition. Dal punto di vista operativo questo lavoro di coordinamento e governo dell’immagine ci ha orientati in direzione di una scelta che definiamo di massexclusive presence nelle università. Abbiamo partecipato ad eventi con allestimenti grafici group-speaking anziché company-specific, e abbiamo a lungo concertato e consolidato le informazioni che sarebbero confluite in un unico sito internet dedicato al recruitment per l’intero Gruppo Fiat. Inoltre abbiamo scelto di avviare partnership con le università di nostro interesse nell’ottica di organizzare occasioni di incontro con gli studenti che non fossero una banale ripetizione delle formule già note (career day e job fair). La seconda voce dell’indice di questo manuale d’esperienza andrebbe invece dedicata al tema dei processi, ossia al punto di snodo (e talvolta di detonazione) delle difficoltà di cui al tema precedente. Se concordiamo circa il fatto che nel breve periodo l’obiettivo dell’Eb consiste di un ritorno di immagine, conveniamo anche rispetto all’evidente tensione, nel lungo periodo, a conseguire risultati in termini di acquisition e retention dei migliori talenti presenti sul mercato. A questo proposito possiamo aggiungere un dettaglio ulteriore alla nostra definizione di Eb: l’esperienza di ultimo periodo ha significato dare avvio alla costruzione di un campus recruitment entro il quale ciascuna azienda del Gruppo (a nome del Gruppo) avrebbe potuto intraprendere azioni coordinate di sourcing, recruitment e selection. Raccontare come abbiamo dato forma a questo progetto equivale a ricostruire un piccolo (ma importante) dettaglio del cambiamento che più ampiamente ci ha interessati. Una volta chiarita la natura di ‘rappresentante e portavoce’ del marchio Fiat Group rispetto ai marchi delle diverse aziende del Gruppo, l’impegno è andato in direzione della struttura funzionale che avrebbe fatto da service alle esigenze di recruitment dei diversi stakeholder interni. Tre gli elementi che abbiamo tenuto in considerazione: 1 - la definizione dell’organizzazione del recruiting; 2 - la creazione di una strategia di Gruppo; 57


3 - la definizione di una piattaforma tecnologica. Dinnanzi alle alternative della centralizzazione e della decentralizzazione, la scelta è ricaduta su di un modello ibrido che fa perno su uno staff dedicato di persone, risorse e strumenti che compongono il Recruiting Center (1). Questa la struttura owner delle azioni di recruitment e selection di neolaureati per l’intero Gruppo Fiat e garante dell’omogeneità della selezione e dei principi a questa applicati. Sul fronte strategico la risposta risiede nuovamente nel nostro Recruiting Center: è a partire da qui che intendiamo mantenere i contatti con le università partner, è questa la prima interfaccia attraverso cui gli studenti conoscono le aziende del Gruppo, è questo lo staff di persone dedicate a presenziare eventi e garantire il flusso continuo della selezione. Anche la costruzione di una piattaforma tecnologica è parte del processo di razionalizzazione e ristrutturazione della struttura che governa le azioni volte ai neolaureati: il front-end costituito da un sito web(3) che vale quale unica interfaccia per tutte le società del Gruppo e il sistema di back-end che consente la gestione condivisa delle candidature. Questi, molto in sintesi, gli elementi di un sistema sinergico, proattivo e non ridondante di gestione delle candidature a garanzia sia della visibilità del profilo del candidato sia dell’accesso da parte di questo a tutte le proposte al momento attive in tutte le aziende del Gruppo. Le scelte operate (1, 2, 3) costituiscono la prova tangibile di una filosofia di gestione che potremo definire sempre più network-oriented. Crediamo infatti che un organo centrale quale quello del Recruiting Center possa essere non solo interlocutore ideale dei diversi need delle aziende del Gruppo, ma anche riferimento unico per la rete di rapporti che abbiamo avviato con le università italiane ed estere. Ambiziosamente e coraggiosamente guardiamo e pensiamo il network come alternativa al workforce planning. Solo coltivando una partnership nel tempo potremo infatti predisporre azioni e iniziative innovative targettizzate in funzione sia del business sia dell’offerta del mercato del lavoro. Questo ultimo dato ci consente di proseguire e scrivere di un ipotetico Capitolo 3 dell’Eb. La letteratura non manca di riferimenti in tema di modalità di attrazione, selezione e fidelizzazione dei giovani talenti (Ryan, Horvath, Kirska, 2005; Reeve, Schultz, 2004): meno assiduamente però si interroga sulle modalità (se ce ne sono) di pensare ai processi di recruitment e selection avendo come elemento di partenza e di arrivo le esigenze del business. Ciò che idealmente ci siamo impegnati a realizzare è una sorta di business loop closure. Il tem-

(3) www.fiat-careers.com. 58

po, vincolo e opportunità del vivere in organizzazione, è oggi più che mai dettato dall’economia del mercato. Non si tratta banalmente di accelerare i processi, ma di pensare ai processi in funzione della massima fruibilità del risultato. Che cosa si aspetta il Gruppo Fiat dal suo Recruiting Center? Che le attività di sourcing e selection siano sempre attive, pronte cioè a rispondere all’insorgere di una nuova esigenza del business. Altrettanto vale per quelle azioni di Eb che dovrebbero riportare alla mente e nelle quotidiane esperienze di tutti il suono, la materialità e l’eco emotivo dei brand del Gruppo. Altra Learning Lessons: l’Eb per Fiat si profila come insieme di riflessioni e azioni che nascono intorno alla coniugazione di esigenze di Return On Image e di più efficace processo di attrazione e recruitment dei giovani talenti. Un segmento giovane impone modalità giovani: è per questo che la nuova 500 è pensata come il Manifesto di un Gruppo che ha saputo cambiare. Il Quarto capitolo di questa saga si scrive da sé: in esso incontriamo i pregiudizi e la disinformazione (o non buona comunicazione) che hanno costruito e consolidato nella memoria collettiva un’immagine statica e stereotipata delle nostre aziende. Ci avevano abituati (i media, la storia e i passaparola) ad una Fiat Torinocentrica, in un’opera di riduzionismo estremo a volte hanno indebitamente sintetizzato (e ridotto per l’appunto) una grande realtà a molto meno, a molto poco. Confrontarsi con il pregiudizio, sfatare il mito e dare visibilità al vero e all’attuale ha significato raccontare in prima persona il nostro lavoro e quello dei colleghi. Ci siamo convinti dell’esigenza di raccontare le nostre aziende attraverso le Persone e le Storie che nelle aziende del Gruppo ogni giorno si compiono. Tutto questo è stato possibile grazie a tre ulteriori ingredienti che vorremo aggiungere a quanto sin qui detto, quali vero e proprio carburante dell’Eb innovativo. Primo tra questi citiamo la percezione a livello collettivo del cambiamento in corso: molti studenti (e non solo loro) ci hanno avvicinato incuriositi quasi a voler ricevere conferma e prove dirette della rivoluzione in atto. All’attenzione rinnovata del pubblico si è aggiunta la prova del risultato economico: un secondo elemento di forza che ci ha sostenuti e ha reso possibile (oltre che agevolato) il nostro re-ingresso nei contesti universitari. Last but not least, il lancio della 500: un prodotto giovane capace di raccontare una azienda matura e al tempo stesso giovane. Avvantaggiati da questa positiva congiuntura, abbiamo potuto giocare la sfida di incontrare i giovani universitari per raccontare loro non solo di open position, on-boarding program e training activity, ma per condividere e costruire uno spazio simbolico, mentale ed emotivo di vicinanza ai nostri brand. Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007


Se l’intenzione di queste pagine fosse quella di rassicurare il lettore in cerca di formule, il tenace implementatore di processi o lo studioso formalizzatore di modelli, potremmo dire che la sfida del Gruppo si è compiuta grazie a una strategia di marketing innovativa, a un processo strutturato e all’osservanza delle scadenze. Ma non è questo che avevamo in mente quando abbiamo accolto con entusiasmo la proposta di raccontarci in queste pagine. Siamo convinti del fatto che il riscatto di immagine del Gruppo sia stato possibile per il fatto stesso di aver creduto alla formula dell’Eb come ad una occasione per una promessa da rivolgere ai neolaureati più che non come a una tecnica per convincerli a riconoscere nelle nostre aziende dei cosiddetti best employer. Concepire l’Eb come espressione di una promessa significa anche impegnarsi a garantirlo nel tempo. È nell’esperienza di molte aziende (anche di Fiat, nel passato) l’aver gestito l’Eb secondo un modello del tipo on-off sintomatico di un esistere funzionale alle esigenze della selezione. La sfida di domani sarà garantire ai nostri brand identica eco e visibilità a prescindere dai trend del mercato e dalle esigenze di nuovi ingressi in azienda. Rinunciare a mantenere in vita tutto questo, aderire in altre parole al modello on-off, significherebbe scoprire in futuro di essere già in ritardo. Non una ‘promessa con scadenza’ dunque, ma una promessa che intende avere vita lunga nei pensieri e nei cuori di quanti sapremo raggiungere. Il nostro mercato, e i prodotti delle nostre aziende, ci offrono infatti un vantaggio non da poco che risiede nella emozionalità delle cose cui ci dedichiamo. Le persone riconoscono elementi di sé nei nostri prodotti: questo ci impone di proseguire nella direzione di un Eb che sia sempre più capace di toccare le leve emotive. La direzione che abbiamo intrapreso è quella dell’Eb come promessa di emozionalità da vivere come consumatore, come parte della squadra di lavoro, come futuro aspirante membro dell’organizzazione. Tra gli obiettivi del Gruppo potremmo quindi aggiungere la sfida di creare un marchio che sappia resistere non solo al tempo, ma anche ai trend del business; che sia, in altre parole, così radicato nelle menti e nei cuori delle persone da non necessitare del conforto dei risultati economici. Questa crediamo potrebbe essere in un futuro non lontano la formula per un vero Default Employer Branding: motori sempre accesi, nessuna sosta consentita, perché a guidarci è l’emozione di far parte della squadra. L’emozione infatti sa diffondersi senza bisogno di reiterazione, il dato razionale necessita invece di continue conferme. È ormai chiaro come sia la leva emozionale il driver della nostra argomentazione intorno alla promessa dell’Eb. I nostri brand oggi, possiamo raccontarlo con soddisfazione, raccontano di un assetto valoriale prima che non di una economia di scala. Alcuni mesi fa tutto questo era un progetto. Non abbiamo perso tempo. Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007

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Post galilean employer branding Il sociale d’impresa visto dall’individuo (oltre il “mal di scrivania”) di Andrea Fontana 1 - Employer branding post-galileiano Che volto assume l’employer branding se osservato con gli occhi dell’employer o, ancora meglio, del professionista e persona che ne subisce o fruisce le attività/iniziative? La domanda nasce dalla vita reale di chi scrive. Molto spesso infatti, in questi ultimi nostri anni di lavoro e ricerca, ci siamo sentiti rivolgere, dal personale interno di diverse aziende, domande sul senso di alcune iniziative di coinvolgimento e marketing dedicato al sociale d’impresa. In effetti gran parte della letteratura di riferimento sull’employer branding assume il punto di vista “galileiano” per cui basta cercare di costruire un certo tipo di immagine aziendale o organizzativa, attivare alcune iniziative coerenti con l’immagine definita su pubblici esterni (di solito giovani) e su quelli interni (decisamente più maturi e quindi meno motivati) per raggiungere la quadratura del cerchio. Questo approccio, che non intendiamo per nulla criticare perché è l’unico che ad oggi davvero possediamo, mette però in luce alcune lacune che non tengono conto dell’identità storica degli individui che vivono e lavorano nelle organizzazioni e del contesto socioculturale in cui l’organizzazione stessa opera. Gli individui entrano a far parte di una organizzazione perché quell’organizzazione organizza career day accattivanti? Forse. Vi rimangono perché l’organizzazione in questione organizza un corporate portal utile alla comunicazione interna? Può darsi. Si sentono umanamente coinvolti perché l’organizzazione mette in piedi dei family day? Ammettiamolo pure. Ma tutto questo è intrattenimento sofisticato che sebbene utile - non credo ci permetta di capire - con gli occhi dell’employer - l’employer branding. Per questo vogliamo provare a ipotizzare un employer branding postgalileiano.

(1) In Eros e Civiltà, Marcuse spiega che il principio di prestazione è la forma storica prevalente del principio di realtà, che è a sua volta la trasformazione del principio del piacere. Il principio di realtà si configura quindi come il modo di rinunciare a un piacere momentaneo in favore di un piacere costretto, controllato e differito. 60

2 - Employer branding e turbolenze critiche Chi lavora oggi in una organizzazione e cerca di prendere in mano il suo ciclo di vita aziendale (con tutti i suoi diversi recruiting, le tante nuove induction, le diverse carriere sviluppate, interrotte e riprese, i diversi sistemi di rewarding e performance management) in realtà si trova sottoposto a una turbolenza esistenziale molto critica. La vita organizzativa è oggi costituita - nel tempo dell’incertezza rischiosa e della complessità compiuta - da gravi difficoltà. Essere “employer” e professionisti in questo periodo storico è molto più difficile, preoccupante, affaticante di un tempo. Non a caso le ultime ricerche internazionali (Harvard Business Review Italia, gennaio/febbraio 2007) parlano di dimensioni organizzative sempre più workaholiche, caratterizzate da: Flussi di lavoro imprevedibili, Ritmi di lavoro intensi (oltre le 12 ore); Reperibilità totale (24 ore su 24); Viaggi di lavoro continui; Elevato stress fisico e psichico. In questo scenario estremamente turbolento del lavoro, che supera di solito le 70 ore settimanali, le responsabilità discrezionali - che un professionista deve assumersi - sono enormi non solo per le diverse variabili della cultura del nuovo capitalismo (Sennet, 2006) ma anche e soprattutto per l’intensificarsi del potere imperante del principio di prestazione(1). Le carriere lineari, “stadiali” o “scalari”, lasciano spazio a percorsi di carriera “reticolari”, “spiraliformi” e “sincopati”, su cui ci si muove in orizzontale e in diagonale. Chi resta in azienda non è per forza chi è più “fedele” alla propria organizzazione. Non esiste più la regola del “lavora sodo e sarai ricompensato”. Non vi sono garanzie per coloro che lavorano sodo e svolgono bene il loro lavoro. Talora si viene ricompensati, altre volte si perde il lavoro in seguito a un ridimensionamento aziendale. Certamente vale il criterio della performance: “Quale valore porti a questa azienda? Quali i risultati immediatamente osservabili?” All’interno di una dimensione sempre più ossimorica, in cui piacere e prestazione si rincorrono a vicenda. Il “dover essere” dell’employer, infatti, si configura come: dominio sottomesso: bisogno di amministrare ma non sopraffare; Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007


morbida rigidità: l’essere flessibili ma non cedevoli; piacere doloroso: consumare lo spreco del proprio lavoro, lavorando così tanto da finire in un paradosso in cui lo stress della propria attività professionale diventa fonte di piacere e felice identità; umiliazione nobilitante: sottomettersi a situazioni deprimenti che vengono proposte e raccontate (vendute, si dice) come opportunità di crescita e auto-sviluppo; scottante freddezza: sottoporsi a pressioni psicobiografiche fortissime, ma dimostrando sempre concreta impassibilità di fronte agli eventi critici dell’organizzazione; distanza avvicinante: le relazioni nella vita organizzativa sono fondamentali, a volte sono addirittura determinati rispetto ai compiti che si svolgono, ma ogni relazione richiede al management la capacità di dosare presenza e lontananza per evitare sia la fusionalità del gruppo sia il solipsismo dell’individuo. Lavorare e svilupparsi, professionalmente e personalmente, in un’organizzazione significa oggi imparare a includere l’angoscia del proprio contrario. Questa affermazione, che potrebbe sembrare da terapeuta da settimanale rosa, in realtà è una delle più importanti competenze da sviluppare in ambienti organizzativi dove tutta una serie di eventi, tematiche, dinamiche portano a vivere mutamenti molto marcati lontani dalla propria personalità di base e dalla propria storia di vita. Mettendoci continuamente in difficoltà.

3 - Employer branding e “apicalità” individuali In questa “nuova” etica del lavoro contemporaneo, in cui si richiede una esitenzialità ossimorica per imprese che vivono sotto costante turbolenza critica (Bauman, 2004), ognuno si confronta più che mai con le proprie apicalità esistenziali, i momenti dell’età adulta in cui si produce il più intenso e critico apprendimento sia in termini quantitativi sia qualitativi. In particolare, il dibattito adragogico sottolinea che le apicalità esistenziali sono quelle esperienze riconducibili quattro dinamiche fondamentali: amore, inteso come legame professionale di efficacia (networking), passione progettuale, affettività relazionale; Sviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007

Biografie individuali

Storie d’impresa

Set sociali in divenire

Biografie prodotti

Figura 1 gioco, inteso come relax, divertimento, diversione dal-

la fatica e dall’affare affaccendato (che altrimenti non sa più guardare altrove); lavoro, inteso come impegno, sforzo per il raggiungimento di una meta/obiettivo; morte, intesa come “termine” e “fine” (di attività, progetti, lavori, carriere, business) e come tale interpretabile anche come elaborazione di questo luttuoso venir meno. Tali apicalità permangono in ogni storia di vita e a seconda dei modi e dei tempi in cui si manifestano danno vita a situazioni ed eventi più o meno apprenditivi.(2) Oggi tutti sono chiamati a gestire e governare nel proprio progetto personale/professionale queste apicalità - in un non semplice processo di governance interna. È come se biografie individuali, storie d’impresa, cicli di vita dei prodotti e dei mercati si fossero fusi in un unico sistema(figura 1). In questo senso si ha un duplice capovolgimento delle responsabilità strategiche individuali e organizzative: da una parte, l’immagine e l’identità di una azienda non è solo affare aziendale, ma diventa una costruzione identitaria condivisa con le persone che operano in essa, perché altrimenti l’organizzazione non può esprimersi in tutto il suo potenziale (si ha qui la fatesharing organization, dove l’employer branding diventa condivisione di destini; dall’altra, il progetto individuale (personale e professionale) si può compiere solo là dove i singoli pro-

(2) Per un approfondimento rimando a: D. Demetrio, Manuale di educazione degli adulti, Laterza, Bari, 1997. 61


APICALITÀ

LEVE (cartacee, relazionali, digitali)

Amore (inteso come legame di efficacia e passione vitale)

Attività-strumenti che esaltino i legami personali e professionali, i diversi modi di stare insieme e lavorare in azienda, i diversi tipi di efficacia relazionale interna

Ovvero: Relationiship management

In questo senso alcuni strumenti interni dai booklet ai corporate portal, dalle Convention alle Famiglie professionali, al social networking possono diventare occasioni per allargare le dinamiche di utilità sociale e socializzazione affettiva

Lavoro (inteso come impegno ordinario e straordinario)

Attività di ingaggio che possano aiutare e supportare i diversi professionisti nelle loro differenti e molteplici esigenze professionali

Ovvero: Organizational development

In questo senso, diventa importante creare servizi/strumenti/gadget utili e preziosi ai professionisti interni: dal servizio di lavanderia per i dipendenti che non possono uscire per troppo lavoro alle esperienze di “maggiordomo in azienda” (per combattere il “mal di scrivania”) fino ad arrivare alla corretta progettazione delle intranet interne dove inserire le “pagine gialle” virtuali (attraverso cui trovare i colleghi e le maggiori esperienze aziendali)

Gioco (inteso come divertimento, relax e diversione)

Attività di relax e divertimento, che diventano vere e proprie forme di divergenza professionale/ personale per non rimanere chiusi nelle anguste pareti d’ufficio e quindi schiacciati da un lavoro solo e unicamente teso alla performance

Ovvero: Edutainment

In questo senso, oggi ci sarebbe da fare molto, non perché i vari “bimbo day”, i tanti “Family day”, le molte iniziative aziendali, non siano occasioni di di-vergenza e divertimento ma per il fatto che tutte rientrano in azienda, mentre bisognerebbe iniziare a pensare che la vita è anche “fuori” dal recinto aziendale. Così le stesse iniziative e molte altre potrebbero essere progettate e vissute al di là delle quattro mura organizzative senza per questo dover investire in viaggi esotici o pagare kilometraggi esorbitanti. Un esempio che ritengo interessante: alcune esperienze di outdoor urbano dove gruppi di persone interne escono per visitare e osservare città/ambienti ad alto valore simbolico (learning city) per “catturare” e “tesaurizzare” esperienze, pensare nuovi prodotti-servizi, guardare i diversi comportamenti di consumo.

Morte (intesa come fine e compimento)

Attività che possano preparare a gestire meglio le diverse e ricorrenti crisi che caratterizzano la vita organizzativa contemporanea. La fine è sempre stata un tabù per le organizzazioni. Una sorta di demone da esorcizzare, ma in una fase come quella che stiamo attraversando - caratterizzata da turbolenza critica e alta aggressività dei mercati - credo che “svegliare” il sociale d’impresa dal sogno di una vita comoda ormai passata sia un dovere organizzativo

Ovvero: extreme management

In questo senso vedo una importante assunzione di responsabilità strategica da parte dell’impresa nei confronti dell’individuo (ormai smagato e consapevole delle criticità) nel dichiarare i modi in cui l’azienda stessa assumerà le governance delle diverse exit strategy (i famosi Piani B e Piani C). Operativamente si potrebbe pensare a un “extreme management” che si occupi nei diversi booklet aziendali, nelle diverse convention che declamano gli strategic statement, nei portali interni, nella formazione, nella comunicazione interna, di creare appositi “spazi” (cartacei, relazionali, digitali) dove dare voce e motivazione di come verranno gestite per es. eventuali acquisizioni, vendite, cessioni aziendali, crisi del mercato ricorrenti, problemi finanziari, esuberi)

Tabella 1 62

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fessionisti decidono più o meno consapevolmente di aderire a questa dimensione problematica delle organizzazioni, ne sono “addestrati” a sopportare i “traumi” e anzi ne ricevono adrenalinico stimolo. In altre parole, individui e organizzazioni devono diventare capaci di dare governance alle diverse apicalità espresse tutte contemporaneamente nel lavoro.

gno della istituzione aziendale (adulta) per crescere; ma individuo maturo adulto (con le sue crisi, i suoi difetti, le sue speranze) che si confronta con l’organizzazione altrettanto matura e adulta (densamente critica soprattutto se operante nei mercati occidentali ormai saturi) inserita in dinamiche finanziarie, progettuali e di business ricorrentemente distorte.

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4 - Employer branding e adultità organizzativa Se employer può essere letto come individuo e osservato dal suo angolo visuale visto come soggetto che vive tutte le esperienze di apicalità sottolineate precedentemente, forse le attività e le iniziative di employer branding potrebbero essere ampliate. In questo senso, lato individuo, è possibile dire che l’employer branding non si configuri più come un semplice sistema di marketing per attrarre talenti o mezzo per “ben intrattenere” i professionisti interni, ma un dispositivo di governance culturale complessa e ingaggio operativo dell’impresa che, sfruttando le classiche leve strumentali (cartacee, relazionali, ditigiali???) possa espandere la sensibilità interna del sociale d’impresa, andando ben oltre il dominio del principio di prestazione; che sappiamo non può essere l’unico senso del fare organizzativo. L’employer branding come dispositivo di questo tipo, potrebbe far vivere strumenti che abbiano una logica di fondo descritta in modo sintetico dalla tabella 1. Considerare l’employer branding come dispositivo postgalileiano per fare governance culturale e contemporaneamente: gestione relazionale organizational development edutainment extreme management; è un modo per generare trasparenza etica e gestire un nuovo patto tra individuo e azienda basato su quello che potremmo definire adultità organizzativa. Non più individuo immaturo (bambino) che ha bisoSviluppo & Organizzazione N.224 Novembre/Dicembre 2007

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