J.-P. Vernant, "Aspetti della persona nella religione greca"

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Aspetti della persona nella religione greca di J.-P. Vernant Direttore di studi all’École Pratique des Hautes Études Chiamiamo «dei personali» le grandi divinità del panteon greco. La formula non sembra aver sollevato alcuna obiezione. Tuttavia essa implica che i Greci abbiano conosciuto la persona nel senso in cui la intendiamo oggi e che abbiano organizzato intorno ad essa tutta o parte della loro esperienza religiosa. Uno dei tratti caratteristici della religione greca è di dare alle potenze dell’al-di-là una figura individuale ben disegnata ed un aspetto pienamente umano. Ma esse sono per questo delle «persone» e i legami che nel culto le uniscono ai fedeli hanno preso la forma di rapporti «personali»? Per i Greci è la società divina veramente costituita di soggetti singolari e unici, interamente definiti dalla loro vita spirituale, di individui dalla dimensione esistenziale puramente interiore, e che si manifestano come centri e fonti di atti, agenti responsabili? In breve, dobbiamo domandarci in che misura l’individualizzazione e l’umanizzazione delle potenze sovrannaturali concernono la categoria di persona, quali aspetti dell’io, dell’uomo interiore, la religione greca ha contribuito a definire e a formare, e quali, al contrario, ha ignorato. A livello del culto pubblico e della religione della città, la risposta va da sé. Su questo piano, la vita religiosa appariva integrata alla vita sociale e politica di cui essa costituiva un aspetto. Fra sacerdozio e magistratura vi è meno differenza o opposizione che equivalenza e reciprocità: il sacerdozio è una magistratura, tutte le magistrature comportano un aspetto religioso. Dagli dei alla città, dalle qualificazioni religiose alle virtù civiche, non si trovano né rottura né discontinuità. In questo contesto l’individuo stabilisce il suo rapporto con il divino attraverso la sua partecipazione a una comunità. L’agente religioso opera come rappresentante di un gruppo, a nome di questo gruppo, in e per lui. Il legame del fedele al dio comporta sempre una mediazione sociale. Non mette mai direttamente in commercio dei soggetti personali, esso esprime il rapporto che unisce un dio ad un gruppo umano, a quella casa, a quella città, a quel tipo di attività, a quel punto del territorio. Scacciato dagli altari domestici, escluso dai templi della sua città, bandito dalle terre della sua patria, l’individuo si ritrova tagliato fuori dal mondo divino. Egli perde il suo essere sociale e allo stesso tempo la sua essenza religiosa; non è più nulla. Per ritrovare il suo statuto di uomo, dovrà presentarsi supplicando ad altri altari, sedersi al focolare di altre case, e, integrandosi a nuovi gruppi, ristabilire, attraverso la partecipazione al loro culto, i legami che lo radicavano nella realtà divina. Non si rende necessario insistere su questa forma di religione politica che è troppo conosciuta. Essa non esaurisce l’esperienza religiosa dei Greci. A questo aspetto così fortemente marcato di integrazione sociale di un culto civico la cui funzione è di sacralizzare l’ordine, tanto umano che naturale, e di permettere agli individui di adattarvisi, si oppone un aspetto inverso, complementare al primo, e di cui potremmo dire sommariamente che si esprime nel culto dionisiaco. È significativo che il culto di Dionisio si rivolga di preferenza a coloro che non possono interamente essere inseriti nel quadro dell’organizzazione istituzionale della polis. Il culto di Dionisio è innanzitutto e per predilezione affare di donne1: le donne in quanto tali sono escluse dalla vita politica. La virtù religiosa che le qualifica, in quanto Baccanti [bákchai], facendo loro giocare un ruolo superiore nella religione dionisiaca, è l’inverso di questa inferiorità che le segna su un altro piano e che impedisce loro di partecipare allo stesso livello degli uomini nella direzione degli affari della città. Anche gli schiavi trovano nel culto di Dionisio un posto che normalmente gli è rifiutato2. E infine gli stessi termini di tiasi e orgéoni, che designano i collegi dei fedeli associati nelle orge, mantengono il ricordo dei gruppi campagnoli, in rapporto a quelli del demo primitivo, e che, opponendosi ai genē nobiliari che vivono nella città e che controllano lo Stato, dovranno lottare duramente per farsi ammettere nelle fratrie dell’epoca storica3. La corrente religiosa del dionisismo ha dunque, in età antica, offerto un quadro di raggruppamento a coloro che si trovavano ai margini dell’ordine sociale riconosciuto. Alcuni degli epiteti cultuali del dio, eleutereo e lisio, testimoniano di questa commistione fra sociale e religioso in una medesima aspirazione di libertà e liberazione. Ciò che il culto di Dionisio porta in effetti ai fedeli – anche controllato dallo Stato come lo sarà in età classica – è un’esperienza religiosa inversa rispetto al culto ufficiale: non più la sacralizzazione di un ordine al quale bisogna integrarsi, ma la liberazione da questo ordine, la liberazione dalle costrizioni che sotto certi aspetti esso presuppone. Ricerca di uno spaesamento radicale, lontano dalla vita quotidiana, dalle occupazioni ordinarie, dalle servitù obbligate; sforzi per abolire tutti i limiti, per far cadere tutte le barriere attraverso cui si

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Almeno in uno dei suoi aspetti fondamentali, ci riferiamo qui al menadismo; cfr. JEANMAIRE, Dionysos, pp. 158 sgg.; Louis GERNET, «Dionysos et la religion dionysiaque. Eléments hérités et traits originaux», in Revue des Études Grecques, 1953, pp. 377-95, in particolare p. 383: «Il menadismo è cosa femminile». 2 Cfr. Louis GERNET e André BOULANGER, Le génie grec dans la religion, Paris, 1932, p. 124. 3 Ib., p. 123


definisce un mondo organizzato: fra l’uomo e il dio, il naturale e il soprannaturale, tra l’umano, l’animale e il vegetale, le barriere sociali, le frontiere dell’io. Il culto civico si riallacciava ad un ideale di sophrosyne fatto da controllo, padronanza del sé, ciascun essere si situava nel posto entro i limiti cui era assegnato. Il culto di Dionisio appariva al contrario come una cultura del delirio e della follia: follia divina, che è presa in carico, possessione da parte del dio. Attraverso questa mania, l’uomo si libera dell’ordine che costituiva, dal punto di vista della religione ufficiale, il dominio proprio del sacro, lo hieron. Attraverso l’esperienza dell’estasi e dell’entusiasmo, questo ordine si rivela come una semplice illusione, senza valore religioso; ciò che ormai il fedele cerca di raggiungere con un contatto intimo con il divino, è uno stato altro, di santità e di purezza totale, al quale si applica il termine di hosios, che segna la consacrazione completa, nel senso proprio: la liberazione rispetto al sacro4. Questa fusione con il dio è una comunione personale? Certamente no. Essa non si ottiene nella solitudine, attraverso la meditazione, l’orazione, il dialogo con un dio interiore, ma in gruppo, in e attraverso il tiaso, grazie a delle tecniche di frenesia collettiva che mettono in gioco delle danze, dei salti, dei canti e delle grida, delle corse erranti che gettano l’uomo in piena natura selvaggia. Del resto possessione non è comunione5. Il dio che nell’eccitazione parossistica si impossessa bruscamente di voi, vi spossessa da voi stessi, vi «cavalca», resta, fino a questa presa in carico, inaccessibile ed estraneo. Dionisio non è forse un maestro di magia e di illusione: dio di prestigio, che disorienta e sconcerta, mai lì dove è, né ciò che è, dio propriamente inafferrabile, il solo, si è potuto dire, di tutte le divinità greche, che nessuna forma ha saputo delineare, alcuna definizione circoscrivere, poiché incarna all’interno dell’uomo come entro la natura, ciò che è radicalmente Altro6. Non è dunque nel dionisismo che bisogna cercare una forma di relazione «personale» fra l’uomo e il dio. Invece i culti misterici hanno la possibilità di apportare qualcosa in più alla nostra inchiesta. È qui che la vita religiosa ha potuto individualizzarsi. Un mistero costituisce una comunità, non più sociale ma spirituale, alla quale ciascuno partecipa in suo pieno grado in virtù della sua libera adesione e indipendentemente dal suo statuto civile. Il mistero non fa che rivolgersi all’individuo in quanto tale; esso gli procura un privilegio religioso eccezionale, un’elezione che, strappandolo dalla sorte comune, comporta la certezza di una sorte migliore nell’al-di-là. Non ci si meraviglierà dunque nel vedere la comunione con il dio giocare un ruolo centrale nell’economia dei culti dei misteri. Ma il simbolismo che esprime questa comunione non si riferisce a uno scambio d’amore fra due soggetti, a un’intimità spirituale, ma a delle relazioni di carattere sociale o familiare che fanno dell’iniziato il figlio o il bambino adottivo o la sposa della divinità. Nel vocabolario tradizionale non traducono queste formule altro che un legame in realtà tutto interiore? È difficile crederlo. Adozione, filiazione, unione sessuale con il dio: noi conosciamo questi temi di leggende «regali»; essi servono a giustificare le prerogative sacre di alcune famiglie, per fondare i poteri e i privilegi religiosi, – in particolare l’immortalità beata –, che esse detengono a causa di una speciale familiarità, per dei legami particolari con la divinità. Questo «favore» divino appannaggio dei genē nobiliari, di cui alcuni come gli Eumolpidi e i Cerici a Eleusi manterranno il controllo nell’amministrazione dei misteri, – è questo che i culti iniziatici metteranno a disposizione del pubblico, operando così una sorta di divulgazione o democratizzazione di ciò che all’origine era vantaggio esclusivo di un’aristocrazia religiosa. Di fatto le iniziazioni non sembrano aver comportato esercizi spirituali, tecniche di ascesi proprie a trasformare l’uomo da dentro. Esse agivano in virtù quasi automatica di formule, di riti, di spettacoli. Certamente, il miste doveva sentirsi personalmente coinvolto nel dramma divino di cui alcune parti erano mimate davanti a lui. Ce lo descrivono scosso, passando da uno stato di tensione e di angoscia ad un sentimento di libertà e di gioia7. Ma non percepiamo alcun insegnamento, alcuna dottrina, capaci di dare a questa partecipazione affettiva un momento sufficiente di coesione, di consistenza e di durata per orientarlo verso una religione dell’anima. Del resto, non più del culto di Dionisio, i misteri non dimostrano interesse particolare per l’anima: non si preoccupano di definire né la sua natura, né i suoi poteri8. È in altri contesti che si elaborerà, in relazione ad alcune tecniche spirituali, una dottrina della psyché.

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Ib., p. 125. Per un’analisi del vocabolario greco del sacro, in particolare dei valori di hieros, cfr. Jean RUDHARDT, Notions fondamentales de la pensée religieuse et actes constitutifs du culte dans la Grèce classique, Genève, 1958; sul valore di hosios in opposizione a hieros, con il senso di: libertà dal sacro, desacralizzato, e di conseguenza libero, lecito, profano, cfr. H. JEANMAIRE, «Le substantif Hosia dans le vocabulaire religieux et sa signification comme terme technique», Revue des Études Grecque, 58, 1945, pp. 66-84. Sull’uso dello stesso termine riferito alle baccanti, ai ministri di Dionisio, sull’utilizzo nell’ambito delle sette con il senso, non più di desacralizzato, lecito, ma di consacrato, santificato, cfr. Jane HARRISON, Prolegomena to the study of Greek religion, Cambridge, 1903, IV edizione, New York, 1957, pp. 503 s. La liberazione rispetto allo hieros può farsi, in qualche modo, verso il basso, dal lato del profano, o verso l’alto, nel senso di un’identificazione con il divino. 5 Cfr. E. R. DODDS, The Greeks and the irrational, University of California Press, 1951, pp. 140 s. 6 Cfr. Louis GERNET, «Dionysos et la religion dionysiaque», Revue des Études Grecques, 66, 1953, p. 393. 7 STOBEO, Florilegium, 4, 107. 8 Cfr. Louis GERNET, «L’anthropologie dans la religion grecque», Anthropologie Religieuse, supplemento di Numen, vol. 2, 1955, p. 52: «È degno di nota che lo stesso dionisismo in quanto tale e anche i misteri di Eleusi non abbiano nulla a che vedere con essa (l’anima)», e Le génie grec dans la


Bilancio negativo, dunque, che siamo tentati di attenuare tenendo conto di testimonianze letterarie, più impegnate nel concreto, come quella che ci fornisce l’Ippolito di Euripide9. Nell’esclusiva devozione che il giovane uomo dedica a Artemide, vi è un elemento personale di affezione cui la dea, da parte sua, non manca mai di rispondere. Tra la divinità e il suo adoratore si sono stretti dei legami di amicizia, philia, una intimità appassionata, homilia, un costante commercio, espresso dal verbo sunistēmi. Invisibile come lo sono gli dei, Artemide non è per questo meno presente accanto a Ippolito: egli sente la sua voce, lui le parla, lei gli risponde. Ma il poeta ha cura di sottolineare ciò che, in questo tipo di rapporto con il divino, comporta di strano e di insolito. La sua stessa familiarità nei confronti di una dea fa di Ippolito un caso: «Solo fra i mortali, dichiara egli ad Artemide, ho il privilegio di vivere accanto a te e di conversare con te10». Questo privilegio non è privo di pericoli. Implica nella condotta e nel modo di vita una singolarità orgogliosa che un Greco non saprebbe vedere di buon occhio e che Teseo assimilerà senza sforzo alle eccentricità dei seguaci di Orfeo11. Ippolito si vuole puro, ma di una purezza alla misura di un dio più che quella di un uomo. Virtù troppo elevata e troppo tesa che crede poter rifiutare e disprezzare buona parte di ciò che costituisce la natura umana12. Una nota di Teseo sottolinea la portata del conflitto che oppone la pietà greca ordinaria all’ispirazione religiosa di Ippolito, - non che la prima abbia ignorato la seconda; essa l’ha conosciuta, ma come una tentazione cui essa si è rifiutata, e che non ha potuto soddisfarsi se non nelle sette, o trasporsi nella filosofia. Nel verso 1080, Teseo rimprovera suo figlio di praticare un’askēsis che volta le spalle alla vera pietà, che è sottomissione all’ordine tradizionale dei valori, in special modo per un figlio, il rispetto dei genitori. Nota in quest’occasione che questa eccessiva e forzata ascesi, strumento secondo Ippolito della sua intimità con il divino, non ha in realtà altro oggetto che quello di rendere un culto a se stesso: sauton sebein. Nell’attitudine religiosa di suo figlio, l’aspetto «personale» comporta necessariamente per Teseo un elemento di hybris. Infatti è proprio questo smisurato che punirà13, attraverso il risentimento di Afrodite offesa, lo sdegno divino. Circa la familiarità che Ippolito ha potuto pretendere dalla dea, l’ultima parola della tragedia è per mantenere e proclamare la distanza fra gli dei e gli uomini. Mentre si porta Ippolito morente e sanguinante; egli vede aprirsi davanti a lui le porte di Ade. D’improvviso Artemide appare al suo fianco. Il giovane uomo la riconosce, intrattiene con lei un ultimo dialogo, affettuoso, appassionato: «O mia signora, vedi tu il mio stato miserabile?» Cosa risponde la dea? «Vedo; ma ai miei occhi le lacrime sono bandite14». Ou Themis: sarà contrario all’ordine che degli occhi divini piangano per le miserie dei mortali. Presto la dea lascerà Ippolito; lo abbandona di fronte alla morte: non ha il diritto di macchiare il suo sguardo con lo spettacolo di un moribondo o di un cadavere15. Così, nel momento in cui Ippolito avrà più bisogno che mai di una presenza divina al suo fianco, Artemide si allontana, si ritira in questo universo divino che ignora ogni realtà troppo umana della sofferenza, della malattia e della morte. Se esiste un’intimità, una comunione con il dio, essa non saprà situarsi sul piano di ciò che costituisce per l’individuo il suo destino personale, il suo statuto d’uomo. Nell’ora decisiva, non è Artemide, ma è Teseo – un Teseo pentito, perdonato – che sosterrà la testa di Ippolito e che raccoglierà il suo ultimo sospiro16. L’esempio di Ippolito era privilegiato; portava testimonianza di un legame diretto, d’intimità affettuosa che poteva unire una divinità greca e il suo fedele. Eppure, anche in questo caso, i rapporti dell’uomo e del dio ci sembra si possano iscrivere in un quadro che escluderebbe sin dall’inizio alcune dimensioni essenziali della persona. Siamo così portati a interrogarci sul valore di espressioni come «dei personali» quando si tratta della Grecia arcaica e classica. Il panteon greco si è costituito in un età del pensiero che ignorava l’opposizione fra il soggetto umano e la forza naturale, che non aveva ancora elaborato la nozione di una forma di esistenza puramente spirituale, di una dimensione interiore dell’uomo17. Gli dei ellenici sono delle Potenze, non delle

religion, p. 287: «Il pensiero dei misteri resta abbastanza confinato, affinché la rappresentazione omerica della sorte delle anime, che si è mantenuta fino ai tempi moderni, predomini: essa perpetua alcune concezioni “impersonali” di più primitivo tipo». 9 Ci si riferirà all’analisi di A.J. FESTUGIÈRE, Personal religion among the Greeks, Sather Classical Lectures, 26, Berkeley and Los Angeles, 1954; cfr. anche André BONNARD, La tragédie et l’homme, Neuchâtel, 1951, pp. 153-187. 10 EURIPIDE, Ippolito, verso 84 11 Ib., v. 953-954 12 Sulla certezza di Ippolito, l’affermazione risoluta della sua superiorità o anche della sua perfezione, cfr. v. 654, s., 995, 1007, 1365. La giovane virtù per eccellenza, l’aidos, che incarna Ippolito, si trasforma in lui, per eccesso, nel suo contrario, la boria: to semnon; cfr. v. 93 e 1064. 13 Cfr. dall’inizio della tragedia, i versi 19-21, pronunciati da Afrodite, e nel punto culminante del dramma, quando Fedro prende la decisione di uccidersi e do perdere Ippolito, i versi 730-731. 14 Ib., v. 1396. 15 Ib., v. 1437 s. 16 Uno degli aspetti del tragico greco è questa solitudine in cui l’uomo si ritrova di fronte alla morte e, in generale, davanti a tutto ciò che segna l’esistenza umana con il sigillo della privazione, del non-essere. Nel cuore di questi fallimenti, di queste prove, sulla soglia della morte, l’uomo si sente sotto lo sguardo di un divino che si definisce per la sua perfetta pienezza d’essere, senza relazione, senza partecipazione possibile con il mondo della «passione». Così l’intero destino umano può essere visto seguendo contemporaneamente due opposte prospettive: dal punto di vista dell’uomo, come dramma, dal punto di vista degli dei, come spettacolo lontano, futile. 17 È sufficiente qui ricordare i lavori di B. SNELL, Die Entdeckung des Geistes, Amburgo, 1948; di R.B. ONIANS, The origins of Europea thought about the body, the mind, the soul, the world, time and fate, Cambridge, 1951; di H. FRÄENKEL, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums,


persone. Il pensiero religioso risponde ai problemi di organizzazione e di classificazione delle Potenze: esso distingue diversi tipi di poteri soprannaturali, con la loro propria dinamica, il loro modo di azione, i loro domini, i loro limiti; esso ne considera il gioco complesso: gerarchia, equilibrio, opposizione, complementarietà. Esso non si interroga sul loro aspetto personale o non personale18. Certo, il mondo divino non è composto da forze vaghe e anonime; fa spazio a delle figure ben delineate, di cui ciascuno ha il suo nome, il suo stato civile, i suoi attributi, le sue avventure caratteristiche. Ma questo non è sufficiente a costituirli in soggetti singolari, in centri autonomi di esistenza e di azione, in unità ontologiche, nel senso che diamo alla parola «persona». Una potenza divina non ha realmente «esistenza pe sé». Essa non ha essere se non attraverso la rete di relazioni che la uniscono al sistema divino nel suo insieme. E in questa rete essa non appare necessariamente come un soggetto singolare, ma anche come plurale: sia pluralità indefinita, sia molteplicità numerata. Fra queste forme per noi esclusive le une dalle altre – una persona non potrebbe essere plurale –, la coscienza religiosa del Greco non pone mai incompatibilità radicale19. Si è spesso notato che per designare una potenza divina, il greco passa senza difficoltà fin nella stessa frase dal singolare al plurale e vice versa20. Allo stesso modo si rappresenterà così anche la Charis, come divinità singolare, che le Charites, come collettività indivisibile, senza che niente distingua l’una dall’altra la pluralità delle potenze, o come raggruppamento di tre divinità in cui ciascuna, fino a un certo punto, si singolarizza e porta un nome particolare. Anche nel caso delle figure le più individualizzate, come Zeus ed Era, la loro unicità non è tale da non poter parlare di uno Zeus, di un’Era doppia o triplice21. Seguendo i momenti e i bisogni la stessa potenza divina sarà considerata nella sua unità, al singolare, nella sua molteplicità di aspetti, al plurale. Le diverse potenze soprannaturali la cui raccolta forma la società divina nel suo insieme possono esse stesse essere colte sotto forma singolare, ho theos, la potenza divina, il dio, senza che si tratti per questo di monoteismo. Del resto il culto non conosce questo Zeus, personaggio unico che la mitologia ci ha reso familiare, ma tutta una serie di Zeus caratterizzati dal loro epiteto cultuale, molto differenti gli uni dagli altri quanto al loro significato religioso, e ciononostante Zeus in un certo modo22. La ragione di questo paradosso, è precisamente che un dio esprime gli aspetti e i modi dell’azione di una potenza, non delle forme personali di esistenza. Dal punto di vista della potenza, non funziona l’opposizione fra il singolare e l’universale, il concreto e l’astratto23. Afrodite è una bellezza, questa dea, ma è anche allo stesso tempo la bellezza – ciò che noi chiameremmo l’essenza della bellezza –, ovvero la potenza che si fa presente in tutte le cose belle e attraverso cui esse sono rese belle. Rohde già notava che i Greci non hanno conosciuto un’unità della persona divina, ma un’unità dell’essenza divina, e L. Schmidt, molto giustamente, scriveva: «Per colui che è nato greco e che sente come un Greco, il pensiero di netta antitesi tra unità e pluralità è scartato quando si tratta di esseri soprannaturali. Egli concepisce senza difficoltà un’unità d’azione senza unità della persona24». L’antropomorfismo del dio, non più che la sua individualità, non deve illudere. Anche esso ha dei limiti molto precisi25. Una potenza divina traduce sempre in maniera correlata degli aspetti cosmici, sociali, umani, non ancora dissociati. Per il Greco, Zeus è un rapporto con le diverse forme della sovranità, del potere sull’altro;

New York, 1951, e Wege und Formen des frühen Griechischen Denkens, Monaco, 1955; di Cl. RAMNOUX, Vocabulaire et structures de pensée archaïque chez Héraclite, Parigi, 1959. Segnaliamo anche lo studio suggestivo di Louis GRAZ, «L’Iliade et la personne», Esprit, settembre 1960, pp. 1390-1403. 18 Per fare solo un esempio, i problemi di dio, agente responsabile, e della sua libertà interiore non sono mai considerati. L’azione di una divinità non conosce altri limiti che quelli che gli sono imposti dall’esterno da altre Potenze di cui essa deve rispettare i domini e i privilegi. La libertà di un dio ha come misura la stessa estensione del suo stesso potere, il suo «dominio» sugli altri. Walter F. OTTO nota giustamente che, negli dei greci, alcun tratto non richiama l’attenzione su se stesso, nessuno parla di un ego con un suo volere, i suoi sentimenti, il suo destino particolare: Die Götter Griechenlands, Bonn, 1929, trad. inglese intitolata The homeric gods, Londra, 1954, p. 236. 19 «È un fatto, e di grande portata, che il pensiero greco non ha mai distinto fra theos e theoi, fra il dio e gli dei»: A. FESTUGIÈRE, «Remarques sur les dieux grecs», La Vie Intellectuelle, 18, 1932, p. 385. 20 Cfr. Gilbert FRANÇOIS, Le polythéisme et l’emploi au singulier des mots THEOS, DAIMŌN dans la littérature grecque d’Homère à Platon, Parigi, 1957. 21 Che la stessa potenza divina sia allo stesso tempo una e triplice, questo non crea, per il Greco, difficoltà né problema. Se si considera la durezza delle discussioni trinitarie nel cristianesimo, si può misurare l’ampiezza del cambiamento della prospettiva rispetto al divino. 22 La migliore illustrazione ci è forse fornita da Senofonte, in Anabase. Nel corso di tutta la sua campagna, Senofonte si pone sotto la speciale protezione di Zeus-Re, come l’oracolo di Delfi gli ha ordinato (III, I, 6-12; VI, I, 22). Questa divinità manifesta il suo particolare favore attraverso i sogni; in diverse occasioni Senofonte offre lui sacrifici, come lo fa, in altre occasioni, a Zeus-Salvatore. Ma essere nelle buone grazie di Zeus-Re e Zeus-Salvatore non impedisce a Senofonte di essere personalmente in disaccordo con Zeus-Meilichios e di trovarsi, per questa ragione, interamente privo di denaro: lontano da casa ha dimenticato il sacrificio a Zeus Meilichios secondo l’uso domestico, in occasione delle Diasie. Zeus-Re riguarda i problemi di autorità e di comando, Zeus-Salvatore presiede al caso della guerra, ma da Zeus Meilichios dipende la fortuna personale di Senofonte, lo stato delle sue finanze (VII, 8, 1-7). Altro fatto significativo: tra i suoi epiteti cultuali, un dio può avere il nome proprio di un’altra divinità detta «personale»: conosciamo, per esempio, uno Zeus-Ade, un’Era-Afrodite. 23 Cfr. le considerazioni di P. CHANTRAINE sull’assenza di quest’opposizione a livello linguistico, nel suo articolo intitolato «Réflexion sur le noms des dieux helléniques», Antiquité classique, 22, 1952, pp. 65-78. 24 E. ROHDE, «Die Religion der Griechen», Kleine Schriften, 2, Tubinga-Lipzia, 1901, p. 302; L. Schmidt, Die Ethik der alten Griechen, 1, Berlino, 1882, p. 52; citato da Gilbert FRANÇOIS, op. cit., pp. 11 e 14. 25 Cfr. Jean RUDHARDT, op. cit., pp. 85-101.


con particolari attitudini e particolari comportamenti umani; rispetto ai supplicanti e agli stranieri, a un contratto o un giuramento, al matrimonio; lo è anche con il cielo, con la luce, la folgore, la pioggia, le vette, certi alberi. Questi fenomeni, per noi così disparati, si trovano riavvicinati nell’ordinamento che opera il pensiero religioso in quanto esprimono a loro modo gli aspetti di una medesima potenza. La figurazione del dio in una forma pienamente umana non modifica questo dato fondamentale. Essa costituisce un fatto di simbolica religiosa che deve essere esattamente situato e interpretato. L’idolo non è un ritratto del dio: gli dei non hanno corpo. Essi sono, per essenza, gli invisibili, sempre al di là delle forme attraverso le quali si manifestano o attraverso le quali le si rende presenti nel tempio. Il rapporto della divinità con il suo simbolo cultuale –sia esso antropomorfo, zoomorfo o aniconico – non ha nulla a che vedere con la relazione del corpo con l’io. In Grecia, la grande statua cultuale antropomorfa è innanzitutto di genere kouros e korē; essa non figura un soggetto singolare, un’individualità divina o umana, ma un tipo impersonale, il Giovane Uomo, la Giovane Donna. Essa delinea e presenta la Forma del corpo umano in generale. E così, in questa prospettiva, il corpo non appare legato a un io, incarnazione di una persona; esso è caricato di valori religiosi, esprime particolari potenze: bellezza, fascino (charis), splendore, giovinezza, salute, forza, vita, movimento, etc., che appartengono propriamente alla divinità e che il corpo umano, più di un altro, riflette, quando in fiore, è come rischiarato da una luce divina. I problemi che in Grecia pone la figurazione antropomorfa del dio, restano dunque, essenzialmente, esterni al dominio della persona. Oltre agli dei, la devozione del Greco si rivolge verso altre potenze sovrannaturali. In primo luogo, i morti. In che misura il culto funerario concerne la «persona» del defunto? È sua funzione quella di assicurare la permanenza, oltre la morte, di un’individualità umana nella sua singolarità? In nessun modo26. Il suo ruolo è un altro: attraverso di lui si mantiene la continuità del gruppo familiare e della città. Nell’al di là il morto perde il suo volto, i suoi tratti distintivi; fondendosi in una massa indifferenziata che riflette ciò che ciascuno è stato del suo vivente, ma un modo generale di essere, opposto e legato alla vita, la riserva di potenza in cui ciclicamente la vita si alimenta e si perde. Nella ridotta misura in cui il culto funerario si appoggia su un credo nell’immortalità, si tratta di un’immortalità che si dovrebbe chiamare impersonale. In Esiodo, l’aggettivo che caratterizza lo statuto dei morti nell’Ade è nōnumnoi: senza nome27. Resta il caso degli eroi. Essi formano nell’epoca classica, una categoria religiosa abbastanza ben definita che si oppone tanto ai morti quanto agli dei. Contrariamente ai primi, l’eroe conserva nell’al di là il suo nome proprio, una figura singolare; la sua individualità emerge dalla massa anonima dei defunti28. Contrariamente ai secondi, nello spirito del Greco essi si presentano come un uomo un tempo vivente e che, consacrato dalla morte, si trova promosso a uno statuto quasi divino. Individuo «a parte», eccezionale, più che umano, l’eroe deve nondimeno assumere la condizione umana; ne conosce le vicissitudini, le prove, le limitazioni; deve affrontare le sofferenze e la morte. Ciò che lo definisce, anche in seno al suo destino di uomo, sono gli atti che egli ha osato intraprendere e in cui ha potuto riuscire: le sue gesta. Le gesta eroiche condensano tutte le virtù e tutti i pericoli dell’azione umana; figurano in qualche modo l’atto allo stadio esemplare: l’atto che crea, che inaugura, che inizia (eroe civilizzatore, inventore, eroe fondatore di città o di stirpi, eroe iniziatore); l’atto che nelle condizioni critiche, nel momento decisivo, assicura la vittoria nel combattimento, ristabilisce l’ordine minacciato (lotta contro il mostro); l’atto infine che, abolendo i propri limiti, ignora tutte le proibizioni ordinarie, trascende la condizione umana e, come un fiume risale alla sua sorgente, raggiungendo la potenza divina (eroe sacrilego, discesa agli Inferi, vittoria sulla morte). Sembra così che i Greci abbiano espresso, nella forma dell’«eroico», i problemi legati all’azione umana e alla sua inclusione nell’ordine del mondo. Di fatto, quando in Grecia nasce la tragedia e nel breve periodo in cui essa si espande prima della sua sparizione, essa utilizza le leggende degli eroi per presentare alcuni aspetti dell’uomo nella situazione di agire, al bivio della decisione, alle prese con le conseguenze dei suoi atti. Ma la tragedia, anche quando si nutre della tradizione eroica, si situa su un altro piano rispetto al culto e ai miti degli eroi; essa li trasforma in vista della propria ricerca: la messa in questione da parte dell’uomo greco, in un momento della sua storia, dell’uomo stesso, del suo posto di fronte al destino, della sua responsabilità in rapporto agli atti la cui origine e fine lo superano, dell’ambiguità di tutti i valori offerti alla sua scelta, della necessità comunque di una decisione. Ma se si abbandona il dominio del tragico per limitarsi ad un piano propriamente religioso che è l’oggetto del nostro studio, la luce dei fatti storici si rivela molto differente. Nel

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Cfr., L. GERNET e A. BOULANGER, Le génie grec dans la religion, p. 287; «Che l’individuo possieda propriamente un’anima immortale: un ateniese coltivato accoglie questa affermazione di Socrate nella Repubblica come estranea novità». Cfr. anche J. RUDHARDT, op. cit., pp. 113 e 125. 27 Esiodo, Le opere e i giorni, v. 154 28 Questa opposizione è messa in evidenza nel mito esioideo delle razze in cui i morti anonimi e gli eroi gloriosi formano, nel loro contrasto, una coppia. I primi spariscono nel mondo della notte, del silenzio, dell’oblio. I secondi appartengono al mondo della luce e della gloria, richiamati nella voce dei poeti, sopravvivono senza fine nella memoria degli uomini.


culto, l’individualità dell’eroe si smorza o si cancella. Si tratta di eroi interamente anonimi e che sono designati, come quello di Maratona, attraverso la terra che conserva le loro ossa e che si suppone debbano proteggere29. Ve ne sono altri – molto numerosi – di cui il culto ignora la personalità individuale per non vedere in essi che la funzione strettamente specializzata cui essi presiedono30. Paradossalmente è nelle categorie di Eroi che Usener trova, in Grecia, la maggior parte degli esempi per illustrare la sua concezione di dei funzionali31: eroe Medico, Portiere, Cuciniere, Scacciamosche, Guardiano delle Chiavi, eroe del pasto, della fava, dello zafferano, eroe del mescolare l’acqua con il vino, del macinare il grano, guardiano delle frontiere, protettore dei tetti, dello spaventare i cavalli… Quanto alla leggenda eroica, essa ha certamente dato agli eroi il loro rilievo di personaggi individuali facendone i soggetti di storie più o meno coerenti, ma le gesta che essi celebrano valgono in se stessi e per se stessi, in qualche modo indipendentemente da colui che li compia. I racconti non si pongono mai nella prospettiva del soggetto per mettere in evidenza il modo in cui si pongono, dal punto di vista dell’agente, i problemi della sua azione: l’eroe non deve proiettare, preparare o prevedere, organizzare un campo temporale in cui si svilupperà una successione ordinata di atti. Anche nel momento in cui le gesta si succedono in serie, non si può nemmeno dire che esse si concatenino o siano dominate seguendo un ordine definito. Ciascuna prova è chiusa in se stessa, senza legami con le precedenti che ripete ma che non rinnova, né senza legami con i successivi di cui essa non è né la preparazione, né la condizione preliminare32. Come sarebbero gli eroi responsabili di un successo che non hanno mai conquistato, ma meritato? Ciò che caratterizza l’impresa eroica è la sua gratuità33. La sorgente e l’origine dell’azione, la ragione del trionfo, non si trovano nell’eroe, ma fuori di lui. Egli non supera l’impossibile perché è un eroe; egli è un eroe perché ha superato l’impossibile. L’impresa non è la messa in opera di una virtù personale, ma il segno di una grazia divina, la manifestazione di un sostegno sovrannaturale. La leggenda eroica non parla di un uomo agente responsabile, al centro dei suoi atti, nell’assunzione del suo destino. Essa definisce dei tipi di gesta, dei modelli, delle prove, in cui sopravvive il ricordo di antiche iniziazioni e che stilizza, sotto forma di atti umani esemplari, le condizioni che permettono di acquisire dei caratteri religiosi, delle prerogative sociali eccezionali. Il tema che i miti dell’eroe illustrano è la possibilità, in certe condizioni, di stabilire un passaggio fra il mondo degli uomini e quello degli dei, di rivelare, nelle prove, la presenza su di sé del divino. I casi di eroizzazione che noi conosciamo in epoca storica sono, sotto questo aspetto, molto significativi. Essi mostrano sempre un individuo percorso dalle potenze, trasfigurato da un valore religioso, che manifesta questo numen sia nelle sue qualità, molto spesso fisiche, sia in certe circostanze della sua vita, sia nelle condizioni della sua morte. Si renderà un uomo eroe per la sua bellezza straordinaria, la sua corporatura gigantesca, la sua forza più che umana, l’ampiezza stessa dei crimini che ha potuto commettere, la sua sparizione misteriosa senza lasciar tracce, i misfatti attribuiti dopo la morte al suo fantasma. Nulla che in tutto questo evochi, nemmeno da lontano, la persona. Al termine di questo studio sarà sufficiente dichiarare una pura e semplice constatazione di mancanza? Questo significherebbe misconoscere un intero aspetto della religione greca che, sebbene sotto certi aspetti aberrante, non ha per questo giocato un ruolo meno decisivo nell’origine stessa della persona e della sua storia per l’uomo Occidentale. In margine alla religione ufficiale, in migliaia di sette, si elabora fra il VI e il V secolo una nuova nozione di anima, che avrà fortuna nel pensiero filosofico e che prevede, riprendendo l’espressione di M. Louis Gernet, delle possibilità inedite di ascensione umana34. L’anima appare all’uomo come un elemento estraneo alla vita terrestre, un essere venuto da un altrove e in esilio, affine al divino. Per prendere corpo l’esperienza di una dimensione puramente interiore ha dovuto prima passare da questa scoperta di una potenza misteriosa e sovrannaturale, l’anima-daimōn nell’interiorità dell’uomo. I Magi, questi personaggi così singolari, di cui si è sottolineato il ruolo all’origine del pensiero filosofico, si vogliono detentori di un potere sull’anima demonica che ne assicura la padronanza e il controllo. Attraverso delle pratiche di ascesi, degli esercizi di concentrazione spirituale, legati può essere a delle tecniche del corpo, in special modo all’interruzione della respirazione,

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L. GERNET e A. BOULANGER, op. cit., p. 255 Cfr. P. FOUCART, Le cutle des héros chez les Grecs, Parigi, 1918, pp. 22 s; Marie DELCOURT, Légendes et cultes de héros en Grèce, Parigi, 1942, pp. 62 s. 31 H. USENER, Götternamne. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, Bonn, 1896. Sugli eroi greci come Sondergötter, Cfr. pp. 247273. 32 Si pensi alla serie di «lavori» di Eraclito. Il mito di Perseo sembra fornire un esempio di organizzazione già più complesso e sistematico degli atti. Per trionfare Perseo deve innanzitutto costringere le Graie a rivelare il segreto del luogo in cui risiedono le Ninfe, ottenere dalle Ninfe gli strumenti magici della vittoria, uccidere Medusa con l’aiuto di Atena, sfuggire infine all’inseguimento di due Gorgoni sopravvissute. Ma ciascuna fase è, in realtà, la ripetizione di uno stesso tema mitico, che traduce la stessa prova iniziatica: vedere senza essere visto, rendersi invisibile all’avversario vigile. Si tratta di uccidere Medusa, questo occhio di morte, vedendola senza incrociare il suo sguardo; di sfuggire alle Gorgoni con gli strumenti magici dell’invisibilità, sorprendere le Graie nel rubarsi il loro unico occhio nel momento preciso in cui, trasmesso di mano in mano come nel jeu du furet [gioco del furetto], quest’occhio non è ancora in possesso di nessuno di loro. 33 L. GERNET, L’anthropologie dans la religion grecque, p. 53. 34 Ib., p. 58. 30


pretendono ri-assemblare e unificare delle potenze psichiche sparse attraverso tutto l’individuo, di separare a piacere dal corpo l’anima così isolata e riorientata, renderla per un momento alla sua patria originale affinché essa vi riscopra la sua natura divina prima di farla ridiscendere a ri-incatenarsi di nuovo nei legami con la carne35. La psyché non è allora più, come in Omero, questo fumo inconsistente, fantasma senza rivilevo e senza forza che esala dall’uomo nel suo ultimo respiro, è una potenza installata nel cuore dell’uomo vivente, su cui egli ha presa, che ha per compito di sviluppare, di purificare, di liberare. Dvenuta nell’uomo questo centro demoniaco con cui il soggetto cerca di coincidere, la psyché presenta tutta la consistenza di un oggetto, di un essere reale che può esistere al di fuori, di un «doppio»; ma essa fa allo stesso tempo parte dell’uomo stesso, definisce in lui la nuova dimensione che egli deve conquistare e approfondire senza sosta imponendosi una dura disciplina spirituale. Allo stesso tempo realtà oggettiva ed esperienza vissuta nell’intimità del soggetto, la psyché costituisce la prima cornice che permette al mondo interiore di oggettivarsi e di prendere forma, un punto di partenza per l’edificazione progressiva delle strutture dell’io36. Ma questa origine religiosa della categoria della persona avrà, nella civilizzazione greca, una doppia conseguenza. Da un lato è nell’opposizione al corpo, nell’esclusione dal corpo che l’anima conquista la sua oggettività e la sua forma propria di esistenza. La scoperta dell’interiorità va di pari passo con l’affermazione del dualismo somato-psicologico. L’anima si definisce come il contrario del corpo; essa è incatenata qui come in una prigione, seppellita come in una tomba. Il corpo si trova dunque fin dall’inizio escluso dalla persona, senza legami con l’individualità del soggetto37. In secondo luogo, l’anima, essendo divina, non saprà esprimere la singolarità dei soggetti umani; per destinazione essa deborda, supera l’individuale. È molto significativo a questo riguardo, che essa appartenga alla categoria del «demonico», vale a dire, paradossalmente, a ciò che vi è nel divino di meno individualizzato, di meno «personale». Aristotele potrà dire, per esempio, che la natura, la phusis, non è divina ma demonica38. Ciò che definisce il soggetto nella sua dimensione interiore è, agli occhi del Greco, affine a questa misteriosa potenza della vita che anima e mette in movimento la natura intera. Vediamo che in questo stadio del suo sviluppo la persona non concerne più l’individuo singolare, in ciò che ha di insostituibile e di unico, e neppure l’uomo in ciò che lo distingue dal resto della natura, in ciò che comporta di specificamente umano; essa è al contrario orientata verso la ricerca di una coincidenza, di una fusione dei particolari con il tutto. Sin nella corrente che si afferma in maniera più opposta alla religione della città e al suo spirito, ritroviamo in definitiva questo stesso sforzo di inserire l’individuo umano nell’ordine. Quando il soggetto non si iscrive direttamente nell’ordine sociale sacralizzato, quando ne evade, non è per affermarsi come valore singolare, è per fare ritorno a quell’ordine attraverso un’altra via, identificandosi, per quanto possibile, con il divino.

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Sugli esercizi di concentrazione spirituale, come quello dello yoga, e il loro rapporto con una disciplina della memoria, come nelle sette filosofiche delle confraternite pitagoriche, cfr. J.-P. VERNANT, «Aspects mysthiques de la mémoire en Grèce», Journal de Psychologie, 1959, pp. 1-30, e «Le fleuve Amélès et la mélétè thanatou», Revue philosophique, 1960, pp.163-179. 36 Questa conquista del soggetto attraverso se stesso, questa elaborazione progressiva del mondo dell’esperienza interna di fronte all’universo esteriore, si sviluppa attraverso diverse strade in cui la poesia lirica, la riflessione morale, la tragedia, la medicina, la filosofia giocano il loro ruolo. Sui valori della psyché e degli altri termini psicologici, sull’evoluzione semantica nei diversi settori del pensiero greco, cfr. l’eccellente studio di T.B.L. WEBSTER, «Some psychological terms in Greek tragedy», Journal of Hellenic studies, 77, 1957, pp. 149-154. 37 Sarà dunque necessario ancor di più recuperare il corpo, integrarlo all’io, per fondere la persona sia nella sua singolarità che come espressione dell’intero uomo. 38 Aristotele, De la divination par le songes, 463 B 12-15.


DISCUSSIONE

M. LOMBARD. ⎯ M. Vernant ha parlato dell’aspetto simbolico di alcune figurazioni religiose: non vi sono stati nell’antica Grecia degli uomini per cui questi simboli erano delle realtà? M. VERNANT. ⎯ Certamente. E attestato da dichiarazioni come quelle di Senofonte, che diceva: se i leoni avessero degli dei, essi li immaginerebbero con delle teste di leone. Si possono trovare delle attitudini di questo tipo in tutte le religioni, compreso il cristianesimo. Ma mi sembra sia importante guardare a una religione nel livello più alto, laddove si vedano i suoi apporti spirituali. M. LOMBARD. ⎯ Per uno storico, le attitudini che si trovano ai livelli inferiori non mancano di interesse! M. VERNANT. ⎯ Sì, senza dubbio. Ma queste non sono delle credenze formatrici. M. LOMBARD. ⎯ Esse possono orientare le condotte quotidiane. Si trovano anche nella magia, in diverse narrazioni. M. VERNANT. ⎯ Prendiamo Omero. Troviamo in lui dell’antropomorfismo: dipende dalla sua materia poetica. Ma Omero è anche una sorta di maestro in teologia. Ci avvisa che, quando gli dei appaiono in forma umana, questa è certo un’apparenza: parlate a una persona che pensate essere un vecchio compagno e, d’improvviso, vi rendete conto che è un dio. Avete capito che era un dio poiché si è trasformato in uccello e se n’è andato senza lasciar traccia sulla terra. Ciò che qui è interessante è questo, che il dio non abbia lasciato traccia, che non pesa, che è tutto leggerezza. Ma quando sale su un carro, questo scatena un rumore spaventoso, poiché è massiccio e potente. Questo dio è allo stesso tempo leggerezza ed enorme peso: vale a dire sottolineare che la sua apparenza corporea è tutta simbolica. M. SAINTE-FARE GARNOT. ⎯ Una delle caratteristiche del pensiero egiziano antico è che essa lascia ampio spazio alla nozione di partecipazione. Essa ammette come cosa del tutto naturale che si possa essere sé e altra cosa da sé. Questo modo di pensare porta a una nozione di persona ben differente dalla nostra rappresentazione attuale. Uno stesso essere può essere manifesto in diversi individui. Horus è dio, ma è anche il re in cui si incarna. Gli dei sono anche immanenti alla natura, essi possono manifestarsi in un fenomeno naturale, in un animale, in un vegetale. Come gli dei greci, i grandi dei egizi sono invisibili: il dio Ammone, sebbene il suo nome sia derivato da un nome animale, quello che ha la forma dell’ariete, per un gioco verbale esso è stato reinterpretato dai pensatori egizi come «nascosto». Vedete fino a che punto, sino ad oggi, siamo lontani dalla nozione di persona. Tuttavia ci sono dei dati che vanno in una diversa direzione. Non dobbiamo esserne sorpresi. Su più di una questione si trovano negli Egizi dei modi di vedere che secondo la nostra logica occidentale si escludono, ma che, secondo loro, celano una parte di verità, ciascuno sul suo piano e in un contesto dato. Non è dunque sorprendente trovare delle opposizioni come le due che vi segnalerò. La prima concerne l’essere umano. Qui un fatto colpisce: la nozione di famiglia non esiste, non vi sono che nomi di persona. La concessione del nome – ho insistito su questo punto nell’articolo che M. Meyerson ha avuto la compiacenza di chiedermi per il Journal de Psychologie – si effettua in condizioni molto misteriose. Questo nome sembrava molto individuale, poiché accanto al nome sociale c’è un nome nascosto. Ma d’altro canto, l’onomastica antica egizia ci presenta il caso della riapparizione di un individuo: abbiamo dei nomi del tipo «un altro un tale». In questo caso si tratta qualche volta di una morte prematura che non ha potuto avere il suo sviluppo e che si compie ora. La seconda opposizione riguarda la divinità. Accanto agli aspetti immanenti e polivalenti degli esseri divini, abbiamo degli aspetti fortemente individualizzati. A differenza degli dei greci, gli dei egizi lasciano delle tracce sulla terra e anche sottoterra: sono le loro reliquie. Gli dei egizi hanno così tanto partecipato all’esistenza individuale delle creature dotate di ragione che un certo numero di esse sono morte, sono state fatte a pezzi, e che i templi conservano con cura le loro reliquie, quando queste reliquie non sono affidate alle necropoli. D’altra parte, questi dei che hanno conosciuto tutte le passioni dell’uomo, così come ne testimonia la loro leggenda, sono degli dei costantemente piegati sull’uomo. C’è un commercio diretto e personale fra gli dei e gli uomini. Restando immortali e padroni del mondo, gli dei sono i padri e le madri degli uomini. È il caso particolare di Ammone, che di sesso maschile, è padre e madre degli uomini, e che si comporta rispetto agli uomini allo stesso tempo come padre e come madre. Lo si constata bene nell’onomastica in cui si trovano


spesso professioni di fede ed esposizioni dogmatiche di forma lapidaria, rese possibili per il fatto che il nome proprio in egiziano può essere una frase. Si vede un nome proprio come «Ammone è per me una montagna». Questa sorta di unione personale appare anche e soprattutto nei libri sapienziali in cui si dice che Dio (dico Dio poiché vi è nel pensiero religioso una corrente monoteista che qui si manifesta) si occupa non solamente dell’universo ma dell’individuo. La letteratura sapienziale dà ugualmente un posto appropriato alla meditazione sulla volontà divina: qui il testo di una tomba: «Tutta la notte lo spirito di Dio era nella mia anima e all’alba facevo ciò che lui amava». Ultimo punto. Il ruolo dell’anima, di cui si è pure parlato, è importante nell’Egitto antico. Aggiungo subito che, se uso la parola «anima», è in mancanza di meglio: ci sarebbe molto da dire su questa nozione. L’anima, per gli Egizi, è una specie di «proiezione»: essa non è semplicemente un motore, una forza, essa è come una proiezione immateriale dell’essere completo. Dualismo dell’anima e del corpo da un lato, ma dualismo che fa spazio agli dei. La miglior prova sono le cure straordinarie che gli Egizi hanno contribuito a dare alla conservazione dei corpi. M. ZAZZO. ⎯ Opponendo il pensiero e la religione egizie al pensiero greco, M. Sainte-Fare Garnot ha sottolineato come per gli Egizi l’anima apparisse come una proiezione immateriale dell’essere completo. C’è qui veramente opposizione con la religione ed il pensiero greco? Non si dovrebbe dire che il netto dualismo è un’attitudine abbastanza recente e che, per i Greci antichi come per gli Egizi, come del resto può essere anche per uomini del nostro tempo, l’anima è la proiezione materiale dell’essere completo? Daltra parte essa può apparire come una forma corporale. Bisogna allora dire che vi è, su questo punto, opposizione fra il pensiero greco e quello egizio? M. SAINTE-FARE GARNOT. ⎯ Ho forse un po’ forzato. Sapete quanto è difficile in dibattiti come questo introdurre tutte le necessarie sfumature; ma ero stato così colpito dalla quantità di opposizioni che può essere, in effetti, che mi sono spinto troppo in là su questo punto. M. VERNANT. ⎯ Credo che Zazzo abbia ragione. Si può notare in particolare che la psyché greca arcaica – ma interferisco qui con quello che M. Detienne dirà a breve – è anche un doppio, essa ha dunque la forma di un corpo; tuttavia vi è affermazione di un dualismo, il dualismo appare in una tradizione religiosa greca. Un aspetto differenziale notevole si evidenzia nell’importanza che gli Egizi danno alla conservazione del corpo nella sua forma: è una preoccupazione che i Greci non hanno, poiché praticano la cremazione. M. BERQUE. ⎯ M. Lombard in apertura a questo colloquio ha giustamente parlato dell’uomo del sistema economico urbano opposto a quello degli spazi; Ma bisognerebbe parlare anche dell’uomo del deserto; egli gioca nella cultura islamica, direi nella cultura araba, un ruolo eminente, in particolare in ciò che concerne la formazione e il gioco della persona. La storia della persona, in effetti, mi pare passare, in Islam come altrove, attraverso il bandito [bandi de grand chemin], o diciamo il poeta – è d’altronde per gli Arabi la stessa cosa: conosciamo casi di poeti banditi: come Antara [ibn Shaddad]. Egli è un uomo che abbandona l’ordine tribale e patriarcale per essere se stesso, e viene dal deserto, non dalla città. So che l’Islam si situa in un contesto relativo alla Mecca e che anch’esso diviene abbastanza presto individualista: arriva fino ad una sorta di gusto per l’individualizzazione del comportamento. Si può dunque dire che in un certo momento ci sono due specie di correnti individualiste in questa porzione di mondo: quella del poeta più o meno beduino o che riconosce i valori del deserto, i valori di erranza; quello del legista, del fedele giurista della città, che si rifà ai valori della città. Il giurista è a tal punto segnato dai valori urbani che arriva a codificarli, e li codifica in un senso individualista. Il diritto musulmano concreto, sebbene postuli molte nozioni collettive e comunitarie, si interessa all’individuo. Ci siamo comunque avvicinati al problema della persona? E non ci siamo accontentati di parlare di cultura e di civilizzazione? So bene che queste nozioni diverse sono molto legate le une alle altre. Ma approfondendo un po’, con l’aiuto di quello che abbiamo qui appreso e dei fatti che il passato islamico ci ha apportato, sarei tentato di definire la creazione della persona come una ricerca dell’uomo integrale. L’uomo si recupera, e recupera cosa? Innanzitutto il suo proprio corpo, e non è così facile in una società comunitaria. Recupera il suo sesso, e non è così facile e non possiamo dire che questa rivoluzione sia stata ancora interamente compiuta dall’umanità. Recupera la sua vita economica, è ancora meno facile. Recupera infine la sua indipendenza nella fede e può diventare eretico. È un modo di essere personale. In questo momento, la creazione della persona si definisce come un dialogo con gli uomini, con Dio, con l’al di là.


La civilizzazione musulmana ci dà delle nozioni precise: essa distingue in particolare nei doveri religiosi ciò che spetta a tutti gli individui e ciò che spetta alla collettività. La preghiera non è mai individualizzante né personalizzante. È un rito comunitario molto spesso associato alla città e quando abbiamo l’orazione personale, entriamo nel dominio dell’invocazione, dell’augurio, del voto e deviamo dall’Islam legale per andare verso quello dei mistici. Poiché ecco un altro personaggio che emerge. Ad un certo momento della concentrazione urbana, in una grande città come Bagdad percepiamo il poeta che va a cercare delle parole e delle avventure nel deserto: il letterato, il lessicografo che sfrutta la sua avventura; l’emiro guerriero; l’uomo di cuore; il giurista; il mercante avventuriere. E abbiamo anche il contrario: il miscredente, il filosofo, l’individuo in rottura contro tutti. M. CHASTAING. ⎯ Due osservazioni di natura differente. La pima è una testimonianza infantile a proposito degli eroi. Un adolescente di quattordici anni legge l’Iliade, dopo aver letto dei western, e mi dice: «non è per niente interessante, non fanno nulla!» E aggiunge a proposito di Achille: «Sono tutti fortunati». Piccolo aspetto vissuto della differenza fra il mondo greco e il nostro. La mia seconda osservazione può essere vada un po’ più a fondo. Mi sembra che ci sia una linea di sviluppo in cui la persona si fabbrica non attraverso l’altro ma in rottura con l’altro: l’uomo che viene rifiutato, il bandito, così come il capro espiatorio. Potremmo chiamare questa via il cammino dello scomunicato. Quest’uomo che si separa dalla città e dalla famiglia sarà forse reintegrato in un altro gruppo o famiglia, ma resta per un momento fra due gruppi: là è un individuo. Può essere che all’«uno di noi» e «altro da me» si debba aggiungere l’«altro da noi» come cammino della persona. M. VERNANT. ⎯ Sì. Ci sono nella società omerica degli individui in rottura [en rupture de bans] che, poiché sono degli «stranieri», assumono nella città in cui arrivano un particolare prestigio. Un eroe qualche volta viene dall’estero. Ha lasciato il suo paese dopo un dramma familiare e il fatto di non essersi integrato nel sistema delle relazioni sociale normali dà a lui, se non un’individualità nel senso di «persona», almeno una preminenza tale da fargli sposare la figlia del re. M. DUMONT. ⎯ Mi sembra che si possano trovare nel pensiero antico greco delle prospettive aristocratiche sulla persona. Se ne trovano in Omero. Lo si percepisce anche nel frontone di Olimpia in cui si vede: al centro Zeus, ai suoi lati Pelope e Enomao che si preparano per una corsa delle quadrighe e poi delle donne e dei servitori. M. VERNANT. ⎯ Sono assolutamente d’accordo. Possiamo trovare analoghe indicazioni in Pindaro: quelli che diventeranno daimones o eroi vengono da categorie sociali superiori: principi, vincitori di giochi, poeti, veggenti. M. MEYERSON. ⎯ M. Vernant ci ha mostrato in maniera evidente i differenti cammini attraverso cui il pensiero religioso greco potrebbe avvicinarsi al nostro concetto di persona: lo storico oggi potrebbe avere l’impressione che essa si sia effettivamente avvicinata, per allontanarsi subito dopo. In effetti i Greci non hanno cercato di costruire la nozione di persona, il loro sistema di idee e di valori era orientato diversamente. È perché dava poco spazio alla nozione di peccato, come si è detto in alcuni casi? Ho interrogato diverse volte Louis Gernet su questa questione. Ho ritrovato recentemente nelle mie carte una sua lettera del maggio del 1947 in cui ne parla. Scrive a questo proposito: «È possibile che la nozione di daimōn personale sia stata, in una tradizione da cui procederebbe Empedocle, assimilata a quella del dio reincarnato che è un dio peccatore (…): ora, questo dio peccatore, per Empedocle, obbedisce all’«Odio», vale a dire al principio di molteplicità e di individuazione». Ma questa idea, continua Gernet, che ha potuto mantenere un posto importante in una corrente del pensiero filosofico, non ha senza dubbio avuto in Grecia un ruolo importante. Un altro tema dell’esposizione di M. Vernant ha un grande interesse: è quello che riguarda i rapporti con l’azione, con l’agente e con la persona. Per noi è naturale che l’azione supponga l’agente, e che l’agente implichi la persona; l’agente è in qualche modo esterno all’azione; la qualità dell’agente è un attributo importante della persona e viceversa. Il pensiero antico greco, come anche il pensiero antico indiano, non vedeva sempre in questo modo l’azione e l’agente; è l’azione che interessa loro, la sua giustificazione morale e metafisica; non hanno tendenza a individualizzare l’agente, esso è «interiore» all’azione. Ultimo punto, che ha toccato soprattutto M. Sainte-Fare Garnot nel suo intervento: l’identificazione e le sue forme antiche. C’è una storia del principio di identità, molto complessa; la partecipazione di Lévy-Bruhl è un aspetto di questa storia; ve ne sono altri di grande interesse.


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