Sofia si veste sempre di nero paolo cognetti

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Nichel 57


Paolo Cognetti Sofia si veste sempre di nero © Paolo Cognetti, 2012 © minimum fax, 2012 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax piazzale di Ponte Milvio, 28 – 00135 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 – fax 06.3336385 info@minimumfax.com www.minimumfax.com I edizione cartacea: settembre 2012 I edizione digitale: settembre 2012 ISBN: 978-88-7521-466-1 Progetto grafico di Riccardo Falcinelli


PAOLO COGNETTI SOFIA SI VESTE SEMPRE DI NERO


Morire è un’arte, come tutto il resto. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio sembrare un inferno. Io lo faccio sembrare reale. Ammetterete che ho la vocazione. Sylvia Plath


PRIMA LUCE Una notte l’infermiera si affacciò alla finestra del reparto e vide il furgone di lui fuori dall’ospedale. Gli abbaglianti lampeggiarono tre volte, poi si accesero di nuovo quando lei alzò il braccio per salutare. Chiese il cambio alla sua collega e scese per le scale di servizio fino all’ingresso fornitori, e lì, sotto una pioggia autunnale, l’uomo abbassò il finestrino e le disse di avere preso delle decisioni. L’infermiera lo squadrò, incerta se credergli o meno. Controllò che nessuno li vedesse e lo fece salire al primo piano, dove trovò una stanza vuota in cui potevano parlare in pace. Nei baffi di lui c’era un sapore di vino sotto a quello solito di fumo. In camera la abbracciò e la spinse verso il letto, ma aveva modi che a lei non piacevano e fu respinto. Fece l’offeso. Aprì la finestra, accese una sigaretta e guardò fuori. Dopo un minuto disse: «Se piove ancora per un po’, qui ci spuntano le pinne come ai pesci». «Allora?», chiese l’infermiera. «Mi spieghi cosa sei venuto a fare?» L’uomo non rispose subito, guardò la pioggia e fece un altro paio di boccate. Poi disse che a casa quella notte non ci tornava. Era uscito sbattendo la porta e aveva gridato alla moglie di scordarsi di lui. Non disse che dopo era stato al bar, ma si capiva. Erano le due meno un quarto. Si passò una mano nei capelli umidi e l’infermiera immaginò che avesse tirato


tardi bevendo, parlando di donne con gli altri uomini al banco e facendo la corte alla cameriera, e che per questo alla fine fosse venuto a cercarla. Lui disse: «Se non mi vuoi neanche tu dormo in furgone, per me è uguale». Quando riprovò ad abbracciarla lei lo lasciò fare, chiuse gli occhi e si sforzò di non pensare al cumulo dei suoi imbrogli e delle sue bugie. Più tardi quella notte fu chiamata per un parto d’urgenza. Una ragazza di ventidue anni, incinta al settimo mese. Partorì una femmina minuscola e cianotica insieme a un bel po’ di sangue. L’ostetrica le diede qualche pacca sulla schiena per farla piangere e respirare, ma la bambina non respirava né piangeva e dovette essere rianimata. Al medico qualcosa non quadrava di quel parto prematuro: venne fuori che, senza dire niente a nessuno, la madre aveva preso dei farmaci per l’ulcera vietati in gravidanza, ma adesso era troppo sconvolta per dare spiegazioni. Aveva avuto una forte emorragia. Nel letto urlava e malediceva se stessa. La sedarono, le misero una flebo al braccio e lasciarono che si addormentasse, rimandando le indagini a più tardi. Sull’incubatrice della bambina c’era un cartello con un nome: Sofia Muratore. Il padre veniva a vederla parecchie volte al giorno. Esausto, smarrito, faceva avanti e indietro dalla moglie alla figlia chiedendosi quale delle due fosse colpevole del male dell’altra. Non potendo toccare la bambina la osservava a lungo attraverso il vetro, incerto se affezionarsi a lei e se trovarla bellissima o mostruosa, come succede con i neonati e gli anfibi tropicali.


L’infermiera cominciò a parlare con Sofia di notte, quando nessuno la vedeva. Si sedeva accanto all’incubatrice e raccontava. Era come parlare alle piante del suo balcone: magari non serviva a un bel niente, ma a lei faceva bene e alla bambina non poteva far male. Una notte dopo l’altra raccontò a Sofia tutto quanto: della cascina in cui era cresciuta, della vita che aveva fatto fino ai trent’anni, del prete che l’aveva convinta a trovarsi una vocazione, delle suore crudeli della scuola da infermiera, del giorno in cui era venuta a stare in città e vedendo l’appartamento aveva pianto. Era stato necessario imparare a essere dura. Proprio come con il sangue, il vomito, le feci, le piaghe infette, quello che ti toccava vedere quando un corpo si apriva, quand’era invaso dalla malattia o mutilato da un incidente, e non potevi distogliere lo sguardo. Le disse tutte queste cose con le parole più semplici che conosceva. Una notte, mentre parlava con Sofia, sentì il suono di un clacson, si affacciò alla finestra e vide il furgone dell’uomo nel parcheggio. I fari lampeggiarono ma lei non si mosse. Restò lì in piedi per essere sicura che il messaggio fosse chiaro. Lui scese dal furgone, guardò in su verso la finestra, fumò un’intera sigaretta, poi gettò il mozzicone e lo schiacciò sotto la scarpa come se il mozzicone fosse lei, rimontò sul furgone, fece manovra e se ne andò. «Sofia», disse l’infermiera a voce alta, «lo sai che cos’è la nascita? È una nave che parte per la guerra». Quella mattina il pediatra dichiarò la bambina fuori pericolo, e finalmente la portarono dalla sua vera madre.


UNA STORIA DI PIRATI A un certo punto del loro matrimonio, invece di separarsi, i genitori di Sofia decidono di cambiare casa. Abbandonare Milano e trasferirsi fuori città, in un posto abbastanza diverso e lontano da sentire di ricominciare. Nella primavera del 1985 trovano una villetta appena costruita, in un complesso residenziale circondato da un parco: fanno il giro della casa e del giardino e poi salgono a osservare il panorama da una collinetta spoglia, sopra lo stagno a cui il nome del villaggio è ispirato. Raccontando questa storia, una domenica mattina del futuro, Sofia dirà che a lei, da lassù, Lagobello sembra un paese delle favole. Non può sapere quanto lo odierà crescendo. A otto anni quello che desidera è un cane, una capanna sul;l’albero, il permesso di andare in bicicletta da sola e la pace tra i suoi genitori. Ha già assistito a diversi litigi, e benché la causa dei loro problemi sia un mistero ai suoi occhi ha capito lo scopo di queste gite: qualcosa tra di loro va male, e in una casa nuova si spera che andrà meglio. Sta pensando: per favore, per favore, fai che questa sia la volta buona. Da grande descriverà i tetti e i comignoli, i percorsi che la ghiaia disegna sull’erba dei prati, il modo in cui il sole scintilla sulle saracinesche dei garage. Mentre l’agente immobiliare indica le Alpi all’orizzonte, la madre di Sofia tende una mano verso il padre. Senza essere stato chiamato né


toccato, ma proprio come se avesse ricevuto un altro tipo di segnale, lui allunga la sua e gliela stringe, e Sofia prova il senso di prodigioso potere delle preghiere esaudite. Quell’estate, poco tempo dopo il trasloco, con i muri ancora spogli e i libri negli scatoloni, Roberto torna dall’ufficio con un bambino. Oscar è il figlio di un suo vecchio amico, che gli ha chiesto il favore di ospitarlo per l’aggravarsi delle condizioni della moglie. È anche lei un’amica, ma in un modo un po’ diverso: sta male da così tanto tempo che tutti ormai si sono abituati a vederla senza capelli, con la faccia gonfia e giallastra, e a immaginarla così quando la sentono al telefono o ne parlano tra loro, come se quello fosse il suo aspetto naturale. Nessuno è tanto ingenuo da sperare che guarisca, però si erano illusi che potesse camminare sul filo, ammalata ma viva, se non per sempre almeno per un presente indefinito. Invece adesso le cose sono precipitate. «Eccoli», dice Rossana, vedendo arrivare la macchina dalla finestra della cucina. Dentro la tavola è apparecchiata per quattro, una pentola bolle sul fuoco. Spegne la sigaretta nel lavandino e aggiunge: «Ricordati quello che mi hai promesso». Per dimostrare che si ricorda tutto, Sofia apre la porta e si apposta sulla soglia. Da grande reciterà la scena in altre stanze, interpretando per il pubblico la bambina di stasera. Le spalle appoggiate allo stipite, le mani nascoste dietro la schiena e il petto in fuori, proprio nel modo in cui, da quando sono arrivati a Lagobello, ha cominciato a vedere la madre accogliere il


padre. Una parodia di moglie resa ancora più grottesca dagli occhiali che indossa, con una garza sulla lente destra per correggere lo strabismo. In fondo al vialetto Roberto spinge il cancello con un piede – le mani occupate dalla borsa del lavoro, lo zaino di Oscar, un sacchetto di concime che ha appena comprato al vivaio – bacia sua figlia in fronte ed entra in casa, lasciandole il compito di accogliere l’ospite alle sue spalle. «Ciao», dice Sofia. «Hai fame?» «Dipende», risponde Oscar. «Che cosa c’è?» «Polpette con il purè. Il purè l’ho schiacciato io. E poi il gelato». «Che cos’hai fatto all’occhio?» «Oh, quello lì sta bene. È questo che è un po’ pigro. Devo insegnargli a stare senza l’altro, se no smette di lavorare». «Posso vedere?» «Va bene», dice Sofia, con la stessa disinvoltura con cui si spoglierà tra qualche anno. Alza gli occhiali sulla fronte e cerca di tenere a bada il suo occhio sinistro. Però, un po’ per l’emozione e un po’ per tutto il tempo in cui è rimasta orba, la cosa non le riesce come dovrebbe. «Che figo», dice Oscar. «Ma come fai?» «Io non sto facendo niente». «Sei sicura?» «Mi dispiace per tua mamma», dice Sofia, ricordandosi la frase che si era preparata. Oscar è colto alla sprovvista. Scrolla le spalle e molla un piccolo calcio al gradino


d’ingresso con la punta di una scarpa, poi dalla cucina li chiamano per mettersi a tavola. Quella sera riserva a Oscar altre scoperte interessanti. Alle dieci Rossana si siede accanto a Sofia sul letto, le toglie gli occhiali, li piega nella custodia, le appoggia un dito sulla punta del naso. Allontana il dito lentamente mentre Sofia si sforza di tenerlo a fuoco. Ripetono l’esercizio alcune volte, e alla fine Roberto si unisce a loro per un altro genere di rito: recitano un Padre Nostro, un’Ave Maria e una preghiera improvvisata da Rossana, in cui ringrazia per la giornata trascorsa e per il nuovo amico che è arrivato, e chiede che tutti loro passino una notte altrettanto buona. «Amen», dice Sofia. Rossana si china su di lei e le dà il bacio della buonanotte. Le sembra giusto fare la stessa cosa con Oscar, solo che lui non sa bene come reagire, si imbarazza, si tira le lenzuola fino al mento e chiude gli occhi. Poi finalmente la luce viene spenta e gli adulti abbandonano la stanza. «Fanno sempre così?», chiede, quando loro due sono lontani. «Così come?» «Tutti quei sorrisi e quei baci». «Prima no», dice Sofia. «Prima litigavano sempre. È una promessa che si sono fatti, di provare a volersi di nuovo bene». «Che pacco», dice Oscar, sfregandosi la fronte. Occupano due lettini nuovi, in una cameretta ordinata da un catalogo solo qualche settimana fa. Dovendola pagare per i


prossimi tre anni, Rossana e Roberto hanno pensato al futuro e l’hanno scelta doppia. Da un po’ di tempo parlano di fare un altro figlio. «E quelle cos’erano?», chiede Oscar. «Quelle cosa?» «Quelle poesie che dicevate». «Intendi le preghiere?» «Sì. Le preghiere». Sofia si volta e osserva il suo profilo nel buio. Non ha mai conosciuto nessuno che non sapesse cosa sono le preghiere. Dalla finestra socchiusa arriva la voce di Roberto: dev’essere uscito per innaffiare il prato e ha incontrato un vicino. «Servono a parlare con Dio», risponde, dopo aver scelto con cura le parole. «E cosa gli dite a Dio?» «Prima di tutto grazie. Lo ringraziamo per quello che ci dà e gli chiediamo scusa se abbiamo fatto qualcosa di male. E poi, se abbiamo un desiderio speciale, gli chiediamo per favore di realizzarlo». «E lui lo fa?» «Certo», dice Sofia, e subito sa di aver dato una risposta affrettata. C’è la questione della volontà di Dio. È più complicato di così, però non ha il coraggio di ritrattare. Sente suo padre salutare il vicino e aprire il rubinetto dell’acqua. «Figo», dice Oscar, mentre un buon odore di terra umida sale fino a loro dal giardino.


Il giorno dopo, quando Oscar la trascina giù dal letto e poi fuori di casa, raduna i maschi del vicinato nel parco e assume il comando della compagnia, Sofia scopre in fretta che non ci sarà nessun bisogno di essere gentile con lui, né di sforzarsi di diventare sua amica. Oscar a nove anni è un bambino selvaggio: e la differenza d’età, i capelli sempre scompigliati che risplendono al sole, tutte le storie d’avventura che conosce e sa mettere in scena lo rendono un capo e un compagno ideale. Sofia da grande si innamorerà sempre di uomini così, dalle passioni ossessive benché fluttuanti. E l’ossessione di Oscar nel 1985 batte bandiera nera: un’altra estate toccherà ai guerrieri Apache, e poi ai banditi di Sherwood e ai cercatori d’oro in Alaska, ma questo è l’anno dei pirati e il parco di Lagobello sembra costruito apposta per lui. Sofia traccerà un cerchio nell’aria a questo punto della storia. Disegnerà uno stagno con un’isoletta, collegata alla terraferma da un ponticello di legno. Sull’isola c’è un capanno con il tetto di paglia. Una strada sterrata, interrotta a distanze regolari da una panchina e un lampione, gira intorno allo stagno e risale la collina tra due file di arbusti appena messi a dimora. Questo paesaggio artificiale, anch’esso ordinato da un catalogo di parchi e giardini, progettato per diventare un luogo di contemplazione, nelle mani di Oscar si trasforma nel Mar dei Caraibi all’inizio del Settecento, conteso dalle potenze coloniali europee e infestato da fuorilegge. Sotto la sua guida un gruppo di figli unici ben nutriti, allevati in appartamento, allergici ai pollini e al sole, incapaci di distinguere le vespe


dalle api, viene imbarcato su due navi nemiche: un equipaggio composto da marinai semplici, sottufficiali e ufficiali, contro una ciurma senza gradi militari in cui Oscar distribuisce i ruoli di timoniere, cannoniere, vedetta, nostromo e quartiermastro, ma tiene per sé quello di capitano. Le regole sono elementari. La marina inglese ha il compito di espugnare Tortuga e ripulirla dalla marmaglia, mentre ai pirati tocca resistere, nascondersi, colpire e scappare, e riconquistare l’isola con il sangue nel caso sciagurato in cui l’abbiano perduta. Questa è la parte preferita di Oscar. Si ritira in cima alla collina e da lassù prepara la vendetta. Elabora strategie di contrattacco, manda le sue spie a controllare i movimenti nemici. Passa in rassegna armi e munizioni e tiene agli uomini un’ultima arringa, e solo quando loro non stanno più nella pelle scatena l’arrembaggio. Allora puoi vederlo scaraventarsi giù dalla collina, impugnando un ramo strappato a qualche alberello e gridando «All’assalto canaglie!», oppure «Viva la filibusta!», oppure «Carica, fratelli della costa!» Tranne Sofia, i suoi pirati sono tutti maschi. Le bambine controllano un’altra zona del parco, quella delle altalene. Così una sera loro due hanno una discussione. «Potrei fare altre cose», dice Sofia. «Non so, curare le ferite. Potrei preparare delle pomate da metterci sopra e delle bende. E poi tenere pulita l’isola». «Ma a te piacerebbe?» «Penso di sì». «Ti piacerebbe più questo che la battaglia?»


«Non è che mi piacerebbe di più. È che sarebbe più normale, non pensi?» Allora Oscar accende l’abat-jour sul comodino. Si alza dal letto, apre il suo zaino di scuola e prende un libro. È un tesoro che Sofia non dimenticherà mai più: la copertina nera, rigida, senza figure, le pagine con il bordo dorato, il nastro rosso che fa da segnalibro e quel titolo maestoso. Storia generale delle rapine e dei delitti dei più famosi pirati, del Capitano Charles Johnson. Oscar lo posa sul cuscino e lo accarezza come per togliere la polvere dei secoli. «È molto vecchio», dice. «Guarda». Mentre lui sfoglia lentamente le pagine, Sofia ammira i ritratti a china di quei terribili capitani. Le barbe lunghe e raccolte in trecce, gli sguardi feroci. Ad alcuni di loro manca un occhio o una mano, e tutti portano grandi cappelli e orecchini d’oro. «Ecco», dice Oscar, avvicinando il libro alla luce per mostrarle uno degli ultimi capitoli. Il disegno che compare sotto gli occhi di Sofia è, senza alcuna possibilità di dubbio, il ritratto di due donne pirata. Hanno entrambe la camicia strappata e il seno scoperto, un dettaglio da cui è molto colpita perché le sembra sconcio. Una impugna una pistola e l’altra una sciabola. Hanno un’espressione trionfante, e per via delle armi e delle camicie viene naturale pensare che siano appena uscite vittoriose da una battaglia. Sotto l’illustrazione c’è scritto: Anne Bonny e Mary Read, le due amanti del Capitano Calico Jack Rackham.


«Posso leggerlo?», chiede Sofia, meravigliata. «Solo se sei capace di non dirlo a nessuno». «Perché?» «Come perché? Non si vede?» Sofia fissa il disegno con il suo occhio pigro. Il seno candido delle due donne e la parola amanti. «Promesso», dice, allungando una mano verso quel tesoro. Corsari, bucanieri, filibustieri. A tavola Oscar non parla d’altro. Vite di pirati, nomi mai sentiti prima. Henry Avery, Samuel Bellamy, William Fly, Edward Teach detto Barbanera . Le circostanze in cui scelsero la filibusta. Le imprese sanguinarie con cui costruirono la loro fama. Rossana a volte si sente in dovere di fare una domanda, mentre Roberto non finge nemmeno di ascoltare. Il televisore trasmette il notiziario della sera e lui ha il telecomando accanto al piatto, e con quello alza il volume quando le immagini che passano gli sembrano importanti. La lira è appena precipitata a quota 2200 sul dollaro. Un’ondata di fango uscita da un bacino minerario ha ucciso più di duecento persone in Trentino Alto Adige. Il paese sta andando in pezzi, e intanto un bambino di nove anni gli spiega le regole di bordo delle navi pirata: il razionamento del rum, le quote di spartizione del bottino, le punizioni corporali previste nei casi di vigliaccheria o tradimento. Era una vita dura, dice Oscar. E nonostante questo i marinai dei mercantili si ammutinavano ancora prima di subire l’arrembaggio, perché sulle loro navi erano schiavi mentre da pirati diventavano


padroni di se stessi e tutti uguali, e così la comparsa del Jolly Roger all’orizzonte veniva festeggiata come una liberazione. «Noi però non ce l’abbiamo», dice, con gli occhi bassi sui suoi spaghetti freddi. «È l’unica cosa che ci manca. Che pacco». «Che cos’è che vi manca?», chiede Roberto, cogliendo qualche parola al volo. «Il Jolly Roger». «Che sarebbe che cosa? Un pappagallo?» «Che sarebbe una bandiera. Quella con il teschio e le ossa, hai presente? A volte erano ossa, a volte qualcos’altro. Calico Jack ci aveva messo due sciabole per farsi riconoscere. Ma comunque era sempre lui, il Re Morte». «Il re morte?», chiede Roberto aggrottando la fronte. Lascia perdere il telegiornale. Per qualche motivo, la parola morte in bocca a un bambino gli sembra un’oscenità che merita una sgridata. «Potremmo chiedere in cartoleria», interviene Rossana, anticipandolo. «Magari ce l’hanno». «Il Jolly Roger non è una cosa che si compra», dice Sofia. «I marinai se lo cucivano da soli, dopo che avevano tirato giù la loro bandiera inglese o francese e avevano deciso di diventare pirati». Oscar annuisce solennemente. Sofia guarda sua madre piena di speranza. E così la mattina dopo Rossana va in città: compra un metro di stoffa bianca e due di stoffa nera, e a casa si mette al lavoro sotto gli occhi dei bambini. Non ha mai usato ago e


filo se non per attaccare bottoni, ma ha fatto l’Accademia di Belle Arti e se la cava bene con le mani. Con il pennarello disegna sulla stoffa bianca un teschio e due fulmini, che Oscar ha scelto come stemma personale. Ritaglia il disegno con le forbici e lo cuce sulla stoffa nera. Aggiunge due nastrini agli angoli per poter legare la bandiera a un bastone, e poi la stende sul tavolo perché venga esaminata dai bambini. Mentre loro la osservano dall’alto di una sedia si scopre inaspettatamente ansiosa. Cerca le sigarette nella borsa, non trova l’accendino. Oscar passa un dito lungo le cuciture, tende la stoffa con le mani dove fa qualche piega. «Perfetto», dice, alla fine. Afferra il Jolly Roger, schiocca un bacio sulla guancia di Rossana e corre fuori, inseguito da Sofia, a inventarsi un sistema per issare la bandiera sul tetto del capanno. Così Rossana resta sola in cucina, con la sua sigaretta spenta e il cuore in gola. Non è da lei mettersi in gioco con tanta leggerezza. Roberto ormai lo chiama Effetto Oscar: ha a che fare con l’umore di sua moglie e le sorprese che lo accolgono al ritorno dal lavoro. Una sera ha trovato la tavola apparecchiata come se fosse il compleanno di qualcuno, con i piatti di plastica, i tovaglioli colorati, le bibite e le patatine, e intanto loro tre si rincorrevano in giardino bagnandosi con la canna per i fiori. Ha visto Rossana vestire Oscar al mattino, e baciarlo, accarezzarlo, indagare tra i suoi desideri, come cercando di risarcirlo in anticipo per tutto quello che gli mancherà crescendo senza madre. Non è sicuro che sia un


proposito molto sano. Però nel frattempo si gode l’estate più tranquilla da quando loro due sono sposati. Ma prima com’era? Prima che arrivasse Oscar, la vita com’era? Ci sono scene dell’ultimo inverno che a Sofia sarà impossibile dimenticare. Rossana a letto, con le persiane chiuse in pieno giorno e l’aria satura di fumo, solo la brace della sua sigaretta nella stanza buia. Roberto che si allontana a piedi sulla corsia d’emergenza di un’autostrada, dopo avere inchiodato durante un litigio ed essere sceso per sbollire la rabbia. Immagini impresse nella memoria di Sofia come i cartelli dell’alfabeto in prima elementare: un grappolo d’uva per ricordarsi la u, una farfalla colorata per la f, un punto rosso e pulsante nel buio per la Depressione, le mani nei capelli di suo padre per l’Esasperazione. Quanto a se stessa, racconterà di aver cominciato proprio allora a salvarsi dallo stesso destino. «Perché io ero uguale a lei», dirà. «E stavo imparando a diventare una donna come lei». Racconterà che la sua vita da maschio, la sua vita di fratellanza con i maschi è iniziata lì, nel corso degli assalti all’arma bianca, scaraventandosi dietro a Oscar giù per il fianco della collina, facendo ricorso a tutto il proprio coraggio per conquistarlo e immaginando di essere la sua amante pirata, come Anne Bonny o Mary Read con Calico Jack Rackham. Intorno a loro Lagobello attraversa l’epoca irripetibile della fondazione. Coppie di sposi sono i suoi coloni, gli agenti immobiliari i suoi cantori. L’alba del sabato è annunciata ogni volta dal colpo di clacson di un camion dei traslochi: allora le


mogli del villaggio si affacciano alla finestra, avvolte in un accappatoio e con la tazza della colazione tra le mani, per vedere i nuovi vicini, indovinare che lavoro fanno e da dove vengono, scoprire quale delle ultime villette stanno andando a occupare. I mariti se ne accorgono appena, alle prese coi libretti d’istruzioni degli elettrodomestici o impegnati con la smerigliatrice, la sparachiodi, il flessibile, il seghetto alternativo, attrezzi del cui funzionamento non verranno mai del tutto a capo e che resteranno a fare la polvere in cantina dopo appena un utilizzo o due. Anche i nuovi arrivati, passando, guardano in qua. Osservano i giardini, che qualche mese fa erano tutti uguali e ora cominciano ad assomigliare ai loro proprietari. Ogni fiore piantato, ogni giocattolo dimenticato nell’erba è un pezzetto di una storia più grande e uno può anche provare a ricostruirla partendo da lì – da una sdraio, un’aiuola di lavanda e rosmarino, un tavolo di plastica con quattro sedie pieghevoli, un’amaca, un triciclo, la ciotola di un cane. Di notte i due bambini restano svegli a lungo. Difficile dire quando il discorso passa dalla pirateria alla religione. Secondo quello che ha capito Oscar, anche lì tutto gira intorno alla morte: senza morte non ci sarebbe bisogno di pregare né di andare in chiesa, di obbedire a chiunque sia più grande di te, di non dire parolacce e bugie. Ma siccome bisogna morire, il problema diventa capire dove finirai dopo. Inferno o Paradiso. Questo gli piace molto. Ecco perché è importante il modo in cui ti comporti sulla terra: perché Dio a quel punto fa il conto


delle tue buone e cattive azioni, e decide dove mandarti. «È giusto?», chiede. «Più o meno», dice Sofia. «E poi lì ci resti per sempre?» «Esatto. Quella è la vita eterna». «E questo Paradiso com’è?» Il Paradiso, spiega Sofia, non è un posto uguale per tutti, ma cambia da persona a persona. Se ti piace il mare, allora il tuo Paradiso sarà una spiaggia in cui è sempre estate. Se ti piace mangiare, sarà una tavola in cui i tuoi piatti preferiti continuano a riempirsi da soli. E così via. «Allora so come sarebbe il Paradiso di mia mamma», dice Oscar. «Sarebbe un prato di montagna con un torrente e tanti fiori, e intorno solo chi vuole lei. Non le piacciono molto le persone. Le piacciono di più gli animali e gli alberi». «E quello di mio papà sarebbe una pista di Formula Uno», aggiunge. «Avrebbe una Ferrari tutta per lui e potrebbe correre quanto gli pare». «E il mio sarebbe un’isola tropicale. Anzi no, un atollo in mezzo all’Oceano Pacifico. Dovrebbe avere un vulcano e una giungla, e le scogliere intorno. Ci sarebbero onde alte venti metri». «Anche il mio», dice Sofia. E poi, completato l’affresco del Paradiso, dopo averci messo dentro i coccodrilli e i pitoni, i fiori carnivori, le tarantole e le vedove nere, arrivano al punto più oscuro di tutta la faccenda. E l’Inferno? L’Inferno com’è?


Sofia non è sicura di conoscere la risposta. Dell’Inferno nessuno le ha mai raccontato molto. Ha capito che i diavoli e le fiamme non esistono davvero, ma non cosa c’è al posto loro. Il brutto dell’Inferno le sembra proprio il non sapere com’è. «Secondo me è così», dice Oscar, prendendo l’iniziativa. «Come il Paradiso ma al contrario. Anche l’Inferno dovrebbe cambiare da persona a persona. Dovrebbe essere la cosa che ti fa più paura al mondo. Sai come quando sogni di cadere in un burrone? O di affogare? Ecco, immagina un incubo che non finisce mai». «Forse hai ragione». «Tu di cosa hai paura?» «Io di stare da sola». «Cioè in che senso? In casa da sola?» «Non c’è un posto preciso. Un po’ dappertutto. Come quando da piccola mi sono persa al supermercato. Mi sono girata e mia mamma non c’era più, e ho cominciato a cercarla e non la trovavo. Le cassiere hanno dovuto chiamarla al;l’altoparlante. Quando l’ho vista le ho dato una sberla dalla paura che avevo preso». «Hai dato una sberla a tua mamma?» «Sì». «Allora il tuo Inferno dev’essere così. Un posto dove ti perdi sempre». «Mi sa di sì. E tu di cosa hai paura?» «Io di niente», dice Oscar. Incrocia le mani dietro la nuca e osserva il soffitto della stanza, come se fosse il cielo stellato


visto dal ponte della sua nave. Dice: «Mi sa che lo scoprirò lì. Com’è l’Inferno, lo saprò solo quando ci arrivo». (Sofia ripenserà a questa conversazione tra qualche anno, compilando un elenco di paure infantili per un laboratorio teatrale. Al primo posto, naturalmente, metterà la paura del Divorzio. Al secondo scriverà Rapimento, per via del sequestro di un ragazzino la cui fotografia invaderà i telegiornali nel 1987. Una di quelle foto in cui le persone sorridono, ma poi vengono usate per annunciarne la scomparsa e allora gli stessi sorrisi cominciano a significare tutt’altro. E Roberto la prenderà in giro, le dirà: «Ma cosa vuoi che ti rapiscano, non siamo mica ricchi». E Rossana penserà che sia una scusa per non andare a letto. La terza parola sarà Tumore: non la paura che colpisca te, ma uno dei tuoi genitori. Un’altra declinazione, come il maestro di teatro avrà modo di farle notare appena dopo avere letto l’elenco, di un’unica, gigantesca paura dell’abbandono. E Sofia allora si ricorderà di questa notte. Ricorderà di avere detto a Oscar: «Io di stare da sola». E di quanto fragili le sembrassero, da bambina, le presunte sicurezze della vita: le famiglie erano come sommergibili sotto il tiro di disgrazie casuali, bombe di profondità lasciate partire dall’alto dei cieli in una battaglia navale tra te e l’imperscrutabile volontà di Dio.) Le preghiere sono il loro segreto. Le recitano in ginocchio, ai due lati opposti del letto, in modo che Oscar possa guardare Sofia e imitare i suoi gesti. Impara a farsi il segno della croce e tutte le parole del Padre Nostro a memoria. Poi chiede: «Non


ce ne sono altre?» «Be’, ce ne sono moltissime». «Allora insegnamele». Non è facile convincerlo che non è questo il punto. La potenza delle preghiere, spiega Sofia, non dipende da quante ne sai. Una preghiera non è una formula magica, e da sole le parole non valgono un bel niente. Quello che conta sei tu mentre le dici: se riesci a concentrarti bene, a escludere tutte le distrazioni e pensare soltanto a quello che vuoi chiedere a Dio, allora c’è la possibilità che lui ti ascolti. Anche con una preghiera sola. Altrimenti puoi saperne un milione, ma sarà sempre come parlare a un muro. Così Oscar comincia a praticare l’esercizio della concentrazione. Chiude gli occhi, pianta i gomiti sul bordo del materasso, stringe forte le mani davanti alla fronte. È Sofia che adesso si distrae. Fissa le sue labbra quando dicono: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà». Quando dicono: «Liberaci dal male, amen». E mentre lui supplica un Dio del tutto nuovo con l’ardore del convertito, implorandolo di guarire sua madre dalla malattia, le preghiere di Sofia assomigliano piuttosto alle chiacchierate tra vecchi amici. Sa che i piccoli desideri sono più facili da realizzare, così corregge le richieste di Oscar abbassando il tiro. Per favore, pensa, falla vivere un’altra settimana. Sette giorni per te cosa sono? Non portarmelo via proprio adesso. Se mi vuoi bene, e io sono sicura che mi vuoi bene, fammi stare con lui ancora un po’. C’è un momento della giornata in cui scoprono se le


preghiere hanno funzionato. Arriva verso le cinque, quando Rossana si affaccia alla finestra e chiama Oscar al telefono. E Oscar si ferma nel mezzo della battaglia, sudato e sporco di terra, tira su col naso, guarda Sofia, dice: «Aspettatemi qui» e corre in casa. Allora succede qualcosa tra i bambini. Il gioco si congela. Il capitano Kidd e il capitano Moody, uno esperto scalatore di alberi e l’altro infallibile lanciatore di palle di fango, e il tenente di vascello Maynard, condannato dai propri capelli rossi a fare in eterno l’ufficiale inglese, e il cacciatore di taglie Barnet, inseparabile dal suo cagnolino giallo, e i marinai semplici e i pirati senza nome, combattenti di seconda fila perché troppo goffi, troppo gracili, troppo preoccupati di non rompere gli occhiali: tutti si fermano dove sono, evitano perfino di guardarsi. Per fortuna dura poco. Dopo qualche minuto Oscar ricompare, con gli occhi bassi e trascinando i piedi. È lo sconforto in cui cade quando sente sua madre al telefono. Nel breve tratto da casa allo stagno si trasforma in ferocia: di nuovo al fianco di Sofia raccoglie il bastone, lancia un grido di guerra e riprende il comando, pronto a tutto per riconquistare la sua Tortuga. Avrà ricordi marginali e nitidi come questi. Come le foto di famiglia che non ritraggono niente di particolare, e non si sa bene perché siano state scattate né quando, però anni dopo valgono molto più di interi album dedicati a compleanni e matrimoni. In una c’è Roberto sulla soglia della cucina, mentre


si asciuga le mani in uno straccio e osserva Rossana in corridoio. È al telefono con il padre di Oscar. Una lunga conversazione in cui lei ascolta, più che parlare, con l’accendino e le sigarette a portata di mano sul tavolino. Quello del confidente era il ruolo di Roberto all’inizio: sono loro i vecchi amici. Ma sono amici maschi e hanno un legame fondato sul fare più che sul parlare: hanno bisogno di prestare soldi, prendersi cura del figlio dell’altro, saltare in macchina e correre da qualche parte per dimostrare il proprio affetto. I problemi senza soluzione, quelli che richiedono solo la pazienza di stare lì ad ascoltare, rientrano nelle specialità femminili, e Rossana a un certo punto se li è presi sulle spalle. Ecco perché negli occhi di Roberto c’è un po’ di ammirazione e un po’ di orgoglio. Perché questa moglie che sembrava debole, e si rivela così coraggiosa, è proprio la sua. In un altro ricordo Sofia è con sua madre nella vasca da bagno. È seduta alle sue spalle e le strofina la schiena con il guanto ruvido, e intanto Rossana le racconta della visita di oggi in ospedale. «Cioè», dice Sofia, passando il sapone sul guanto per fare ancora un po’ di schiuma, «non le danno più le medicine?» «Le medicine che le davano prima erano come un veleno», spiega Rossana. «Servivano a colpire il tumore, però intanto facevano male anche a lei. Ora che non le prende più si sente meglio». «Vuol dire che sta guarendo?», chiede Sofia, anche se ha capito benissimo che l’interruzione della chemioterapia vuol


dire tutto il contrario. Ma a volte sfrutta i suoi otto anni per ottenere effetti come questo: vedere le spalle di sua madre irrigidirsi, le costole che si dilatano in un sospiro. È curiosa di sapere come le risponderà. Una notte d’agosto si sveglia sotto un temporale. Non ha mai sentito piovere così forte. A Milano la sua stanza aveva i vetri doppi, un appartamento sopra la testa e un altro sotto i piedi, e anche il temporale era un rumore che si poteva chiudere fuori, come gli allarmi delle automobili e le sirene delle ambulanze. Qui invece i tuoni fanno tremare le finestre. Il vento si infila nei tubi delle grondaie producendo una specie di ululato. La casa intera sembra una barriera che basta appena, e da un momento all’altro potrebbe non bastare più. Eppure Sofia scopre di non avere paura. Appena ci si abitua, il rumore del temporale comincia a tenerle compagnia. A lei non piacciono il buio né il silenzio perché sono vuoti, ed è quel vuoto che la spaventa. Il temporale invece è denso e pieno, fatto di luci e suoni, vivo. Le viene voglia di parlarne con Oscar, così si volta dalla sua parte e accende l’abat-jour. Solo che nel letto lui non c’è. Le lenzuola sono in disordine, il cuscino è stropicciato e spinto via. Sofia osserva i suoi vestiti sulla sedia: una maglietta blu scolorita, un paio di jeans tagliati alle ginocchia e macchiati d’erba. Si chiede se abbia bisogno di lei e si alza per andare a cercarlo. Di sotto controlla la cucina, il soggiorno, il bagno, lo stanzino che fa da lavanderia e quello che dovrebbe diventare


lo studio di suo padre, poi torna su e trova Oscar nell’ultimo posto in cui ha pensato di guardare, la camera dei suoi genitori. È a letto tra loro due. Roberto ne occupa più di metà, russando con la bocca aperta e il petto che va su e giù. Rossana è raggomitolata su un fianco e voltata verso il muro, come se avesse sempre freddo. Oscar dorme accucciato contro la sua schiena. Li avrà svegliati entrando in camera? E loro che cosa gli avranno chiesto? E così, dirà Sofia da grande, tra tutte le fobie possibili, ecco di cosa aveva paura quel vecchio pirata: dei tuoni, dei fulmini e del mare in burrasca. Non è sicura se quello che sta vedendo le piace, se vorrebbe essere in quel letto insieme a loro o richiamarli all’ordine con un grido. Poi si sente un’intrusa, lì sulla porta a spiare la famiglia di qualcun altro, così li lascia dormire e torna in camera sua. Dell’ultimo giorno non racconterà l’addio, ma un momento appena precedente. È la fine della battaglia quotidiana: Oscar sta guidando un manipolo di superstiti nell’estremo assalto al ponte quando Sofia, dal capanno in cui la tengono prigioniera, vede arrivare un uomo che le sembra di conoscere. Forse perché da lontano assomiglia a suo padre. Oscar e i suoi fedelissimi sono stati accerchiati – ormai si tratta solo di scegliere se arrendersi o farsi trucidare – però Sofia in quel momento è attratta più dall’estraneo che dalla battaglia. Ha i capelli radi e spettinati e una faccia molto stanca. Porta un vestito elegante ma sgualcito, come se ci avesse dormito


dentro, e una volta raggiunta la riva dello stagno si toglie la giacca, la piega sullo schienale di una panchina e si siede. Slaccia i polsini della camicia e arrotola le maniche fino ai gomiti, e poi resta lì a guardare i bambini che giocano. Non ha nessuna fretta di interromperli. Anzi vorrebbe poter prolungare questo momento: lasciar giocare Oscar ai pirati, risparmiargli le brutte notizie, riposarsi un po’ al sole. Si accorge della bambina che lo sta osservando, legata a un palo all’ombra del capanno, e riconosce la figlia del suo amico. Porta una benda sull’occhio. È molto cresciuta dall’ultima volta in cui l’ha vista. Perché i bambini fissano le persone? Perché gli adulti insegnano ai bambini che le persone non vanno fissate? Perché non dovremmo fissare tutto quello che ci interessa? Da lontano l’uomo le sorride. Anche Sofia gli sorride. Qualche tempo dopo la partenza di Oscar c’è una festa. Durante l’estate, mentre le ultime villette andavano vendute, la frazione di Lagobello è stata registrata sulle mappe catastali, e dove c’era uno spazio bianco adesso compare un gruppo di case con un nome. Per celebrare l’evento alcuni abitanti hanno proposto un pranzo all’aperto: sarebbe bello, hanno detto, che con gli anni diventasse una tradizione. Così una domenica di settembre gli uomini apparecchiano una lunga tavolata nel parco, mentre le donne preparano molto più cibo di quello che riusciranno a mangiare. Il pranzo riesce abbastanza bene. Benché non sia la festa di paese che qualcuno sognava, diverse persone che non si erano mai parlate prima si stringono la mano, e in molti si


fermano dopo il caffè per proseguire la conversazione. Qualcuno va a casa e torna con una bottiglia di liquore. Una radio viene sintonizzata sulle partite di campionato. Sul prato restano sedie vuote, coppie isolate di giocatori di carte e un unico tavolo rumoroso intorno a cui corrono i bambini. Sofia è nascosta lì sotto, appoggiata con la schiena alle ginocchia di suo padre. Circondata dalle gambe degli adulti – le scarpe scalzate delle donne, le cinture allentate degli uomini – osserva i suoi amici giocare. Un paio di volte dopo la partenza di Oscar hanno provato a rifare i pirati, ma non funzionava. Le grida di guerra suonavano fiacche, nei corpo a corpo mancava l’ardore necessario. Era diventato tutto finto. Qualcuno a un certo punto ha detto: «A chi va di giocare a pallone?», e con sollievo gli altri hanno alzato la mano. Eppure questo pomeriggio, nelle pause della partita, durante il loro turno in porta o mentre il pallone è lontano, tutti quanti prima o poi si fermano, alzano lo sguardo verso il tetto del capanno e danno un’occhiata al vecchio Jolly Roger. Ha cominciato a prendere pioggia e sole, a stracciarsi e scolorire. Passeranno altri giorni prima che un giardiniere decida di ammainarlo: per oggi il Re Morte sventola sulle bottiglie vuote, sul gelato avanzato e sciolto, sui tovaglioli volati nell’erba, sui fondi di caffè nelle tazzine. Poco lontano, nelle case profumate di vernice fresca, certe ultime imperfezioni stanno per diventare definitive. Il filo elettrico scoperto sulle scale, il pezzetto di battiscopa che manca dietro al divano: difetti a cui nessuno penserà più di provvedere, e che resteranno a


testimoniare questi tempi da pionieri. Anche i bambini avranno il loro mausoleo dell’infanzia. Neppure tra molti anni, liberando nello stagno tartarughe domestiche e pesci rossi cresciuti, sfidandosi in tuffi acrobatici nonostante i divieti, o seduti sulle panchine a confessarsi, annoiarsi, dividere sigarette e fantasie sessuali, nemmeno ai tempi di Lagonero, Lagomerda, Lagobucodiculo, potranno guardare la loro isoletta senza pensare a questa prima estate, l’età dell’oro della pirateria. Quella sera Rossana e Roberto ricominciano a litigare. Tutt’e due hanno bevuto troppo e basta una scintilla per far divampare un incendio. Sofia li sente gridare parole mai pronunciate prima. Si affaccia in cucina e vede sua madre e suo padre con le vene gonfie, gli occhi sgranati e la voglia di far male a qualcuno, si spaventa e corre di sopra. Poco dopo, inginocchiata accanto al letto, si interrompe a metà di un Padre Nostro. Le sembra di avere sbagliato qualcosa. Ha detto debitori o genitori? Le loro grida si sentono fin quassù, e lei ripete questa nuova versione per sentire come suona. Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri genitori. Sa che sta bestemmiando, ma non le fa nessun effetto. Sono solo parole, pensa: non hanno funzionato per guarire la madre di Oscar, non hanno funzionato per tenersi Oscar, e adesso non funzioneranno per far tacere quei due. Si alza in piedi. Decide che pregare è inutile e che non lo farà mai più. Poi prende l’abat-jour dal comodino. Estrae da sotto il


materasso il libro che Oscar le ha lasciato, non come un regalo prezioso ma come spazzatura, perché l’ultimo giorno era così arrabbiato che non voleva saperne più niente di Inferno, Paradiso, segreti, e nemmeno del suo tesoro. La Storia generale delle rapine e dei delitti dei più famosi pirati. Sofia spalanca l’armadio, ci butta dentro l’abat-jour, si incastra tra i cassetti della biancheria e i vestiti appesi, usa una pila di maglioni come cuscino. Quando si è sistemata bene accende la lampada e apre il libro. Allunga un piede fuori dall’armadio e si tira dietro un’anta e poi l’altra, e della sua stanza non resta che un luogo disabitato e buio.


DUE RAGAZZE ORIZZONTALI La ragazza piccola si era portata a letto tutte le cartoline. Le chiamava la collezione. Stavano sparpagliate sulle lenzuola e tra i cuscini, dove lei poteva allinearle, incolonnarle, scambiarle di posto, sistemarle in ordine alfabetico o cronologico, distribuirle come se fossero città e paesi e il materasso una carta geografica. La ragazza grande, sdraiata sul pavimento ai piedi del letto, prima le aveva spiegato che non poteva considerarsi una vera collezione, dato che c’era un solo mittente e cioè suo padre, e poi aveva fatto anche di peggio. Con un enorme sforzo di volontà aveva allungato una mano dal livello-;linoleum a cui si trovava fino al livello-letto, e si era fatta passare le prime tre, quattro, cinque cartoline della fila. La stanza in cui si trovavano era dominata dal bianco. Bianchi i muri, bianche le lenzuola e le federe, bianche le tende alle finestre, bianche le garze ai polsi della ragazza piccola. La ragazza grande aveva aperto a stento l’occhio destro, come un naufrago abbagliato da quella distesa di pack, poi aveva controllato i francobolli e i timbri e chiesto alla ragazza piccola perché mai, secondo la sua opinione, le cartoline arrivavano tutte dall’ufficio postale di Verona Est se sopra c’era scritto Amsterdam, Aosta, Atene, Bangkok e Berlino. Era stata perfino sul punto di spiegarle che suo padre non era un archeologo né un esploratore, né un agente dei servizi segreti sempre in giro per il mondo, ma solo un altro marito che aveva


lasciato la moglie per rifarsi una vita, probabilmente con una donna più giovane, dalle parti di Verona o giù di lì. Poi il pensiero della famiglia, di qualsiasi famiglia, le aveva causato un attacco di nausea, e aveva detto solo: «Ma che cazzo me ne frega, per me potete morire tutti quanti. Sto raccogliendo le mie ultime forze per cercare di non vomitare». La ragazza piccola forse aveva capito o forse no, forse sapeva già tutto da sola, forse aveva sentito la parola morire e ne era stata ferita, ed era scoppiata a piangere. Aveva cominciato a singhiozzare e lamentarsi, sdraiata a pancia in giù in mezzo a tutte quelle capitali del mondo, e non si era più fermata. «Ti prego, ti prego, ti prego», aveva detto la ragazza grande, con gli occhi chiusi e gli indici alle tempie. «Ho già un milione di chiodi roventi conficcati nel cervello». Ora la ragazza piccola piangeva sempre più forte. A livello-;linoleum, mentre malediceva il proprio vizio di difendere la verità a qualunque costo, la ragazza grande sentì un rumore cadenzato e a lei ben noto provenire dal corridoio. Zoccoli di gomma in avvicinamento. Percorsero l’intero corridoio e si fermarono a pochi passi dalla sua testa, appena oltre la porta della stanza. La ragazza grande trattenne il respiro. Immaginò l’infermiera considerare i pro e i contro di un possibile intervento, accostando l’orecchio alla porta e chiedendosi se quei singhiozzi costituissero un motivo sufficiente per entrare a controllare, o la terapia non consigliasse piuttosto di lasciare che si spegnessero da soli.


Poi la ragazza piccola prese l’iniziativa, e non riuscendo a contenere il pianto mollò un morso da leone al cuscino. Il buon sapore di biancheria pulita ebbe l’effetto di calmarla. Detersivo più ammorbidente più ferro da stiro: un sedativo provvidenziale grazie a cui smise di singhiozzare nel giro di mezzo minuto. La ragazza grande restò in ascolto. Fuori la pioggia batteva sui vetri, dentro un orologio ticchettava. Un paio di sorveglianti erano state mandate a cercarla con il furgone giù per la strada asfaltata, battendo l’unica via di fuga attraverso il bosco. Sia il reparto che il dormitorio sarebbero stati perlustrati con calma, stanza per stanza, letto per letto, armadio per armadio, se le sorveglianti fossero tornate a mani vuote. Gli zoccoli invertirono la rotta e tornarono da dov’erano venuti. «Cristo di un Dio», disse la ragazza grande, quando l’infermiera era ormai lontana. «Ho bisogno di una sigaretta». Stava distesa sul pavimento come se avesse la schiena spezzata, o un proiettile tra le costole a un millimetro da un polmone. Disse: «Ho un milione, un miliardo di chiodi roventi conficcati nel cervello». «Io non sce l’ho una scigaretta», disse la ragazza piccola, succhiando un angolo del cuscino al suo livello-letto. «Ovvio che non ce l’hai», disse la ragazza grande. Con prudenza, come se si trovasse ancora sotto il fuoco del cecchino, allungò la mano destra verso la tasca dei jeans. Ne estrasse un cilindro di plastica trasparente, che si sarebbe potuto classificare alla prima occhiata come l’involucro


esterno di una penna a sfera, privato del suo serbatoio d’inchiostro e spezzato a metà. Lo portò alle labbra stringendolo tra il pollice e l’indice e aspirò una lunga, solenne boccata d’aria pura. Trattenne il fiato per qualche secondo prima di soffiare fuori quel fumo immaginario. Poi finalmente piegò la testa a destra e a sinistra, facendo scrocchiare le vertebre del collo e rilassando i muscoli cervicali. «Stai fumando una penna biro?», chiese la ragazza piccola. Aveva ancora in bocca un lembo del cuscino ma adesso non lo succhiava più, lo mordicchiava ogni tanto osservando con grande interesse quello che succedeva a livello-linoleum. «Questa non è una penna biro», disse la ragazza grande. «È una sigaretta metafisica». «Che cosa vuol dire metafisica?» «Qualcosa che non si vede ma c’è, lo capisci?» «E perché dovevamo morire tutti quanti?» «Oh, quello è solo un modo di dire. Io parlo sempre così, dico sempre muori, morite, adesso muoio, o anche crepa, ucciditi, ammazzatevi tutti quanti, ma poi alla fine non muore mai nessuno. È soltanto per sfogarsi un po’». La ragazza grande fece un altro tiro dal cilindro. Anche durante la conversazione il suo udito era puntato come un sonar in alcune direzioni chiave. Il cortile, il corridoio, le stanze delle pazienti. Al momento non riceveva nessun rumore anomalo. Disse: «Comunque, tu come ti chiami?» «Margherita», rispose la ragazza piccola.


«Questo l’ho visto sulle cartoline. È un bel nome da brava bambina, ma ha tutta l’aria di essere quello che ti hanno imposto i tuoi genitori». «Non capisco». «Ne sai qualcosa di indiani? Non indiani dell’India, dico gli indiani pellerossa. La tribù dei Sioux, hai presente?» «Più o meno». «Allora ascolta. Cerca di ascoltare bene e di capire tutto, perché non ho voglia di spiegartelo due volte. Quando un Sioux nasceva, i suoi genitori gli davano una specie di nome provvisorio. Tanto per sapere come chiamarlo finché era piccolo, mi segui? Come Margherita. Ma quando diventava grande, e la sua natura si rivelava, lo sciamano della tribù lo osservava per un po’ di tempo e alla fine trovava il nome giusto per lui. Sai cos’è uno sciamano?» «Certo che lo so. Uno stregone». «Brava. Ma non era lo sciamano a scegliere il nome, era il nome a rivelarsi. Lo sciamano era soltanto un bravo osservatore. Capisci la differenza? Lo capisci che nessuno può decidere chi sei?» «Però a me Margherita piace», disse la ragazza piccola. «Cristo. Dovrebbero studiarti all’università. Sei una pazza furiosa che si è appena squarciata le vene dei polsi, però almeno sei contenta di chiamarti Margherita». La ragazza piccola deglutì. Non le era chiaro se pazza furiosa fosse un insulto o un complimento. Poi la curiosità ebbe la meglio.


«E tu come ti chiami?», chiese. «Giona», disse la ragazza grande. «Ma non è un nome da maschio?» «Questo non ha nessuna importanza». «Da quanto tempo ti chiami così?» «Da adesso. Da due secondi fa. Da tre, quattro, cinque secondi fa. Io qui presente, sdraiata sul pavimento nella stanza di Margherita, dichiaro che d’ora in poi il mio nome è Giona, e voglio essere chiamata Giona finché non cambio idea». «E prima come ti chiamavi, si può sapere?» «Non si può sapere, perché quel nome non esiste più». «Peccato», disse la ragazza piccola. Intanto, mentre la ragazza grande parlava, il suo orecchio supersensibile aveva ricevuto un segnale dal cortile. Pneumatici su ghiaia, su pozzanghera, su fango misto erba. Sorveglianti di ritorno dal rastrellamento. Il furgone si arrestò, poi cominciarono a giungere le voci. Adesso non c’era più molto tempo. La ragazza grande fece un altro tiro dal cilindro. Disse: «Comunque, Margherita, ti chiedo scusa per l’invasione. Avevo solo bisogno di cambiare aria». «Come va il mal di testa?», chiese la ragazza piccola. «Meglio». «Posso provare anch’io?» «Che cosa?» «La sigaretta mezzafisica». «Non se ne parla nemmeno». «Muori», disse la ragazza piccola.


La ragazza grande provò a sgranchirsi le articolazioni dei piedi. Comandò alle caviglie un movimento circolare, e le caviglie obbedirono. Andava meglio. Si sentiva pronta ad affrontare le conseguenze del suo procurato allarme. «Lo senti questo rumore?», chiese. A livello-letto, la ragazza piccola si mise in ascolto. C’erano un paio di zoccoli di gomma e un paio di scarpe coi tacchi in fondo al corridoio. Percorrevano qualche metro, bussavano alla porta di una stanza, entravano per l’ispezione. Non aspettavano che qualcuno dicesse avanti. Bussare era solo una forma di cortesia. «Sì», disse. «Lo sento». «Sembrano normali tacchi da otto centimetri, ma in realtà sono strumenti di tortura. Conosci la persona che li porta?» «No». «La conoscerai tra poco. Ti tengono qui da sola per qualche giorno, prima di presentartela. E tu sei così contenta di vedere un essere umano che le dici tutto quello che vuole sapere». «Perché, cosa vuole sapere?» «Secondo te cosa vuole sapere?» «Dimmelo tu». «È affascinata più di tutto dalle piccole fissazioni. La tua passione per le cartoline le piacerà un sacco, te lo giuro». «Sei sicura?» «Ma che cazzo, Margherita», disse la ragazza grande. «Cristo di un Dio. Che cosa vuole sapere secondo te?» La ragazza piccola strinse un lembo di lenzuolo col pugno.


Le veniva di nuovo da piangere, ma non voleva. Cacciò giù i singhiozzi che le erano saliti in gola e disse: «Non lo so. Non so cosa vuole sapere e non so come bisogna rispondere. Vorrei tanto saperlo ma non lo so». La ragazza grande sospirò. Cominciò a dare piccoli colpi con la nuca sul pavimento, in una specie di crisi epilettica al rallentatore. Secondo i suoi calcoli, la dottoressa e l’infermiera si fermavano in ogni stanza per meno di un minuto: adesso erano a due porte da lì. Non c’era tempo. Fece un tiro dal cilindro e provò a essere più buona che poteva. Disse: «Senti, inventati la storia che vuoi. Quella che ti pare, davvero. Non ha nessunissima importanza. Cerca solo di non fare la pazza, prima riesci a sembrare guarita e meglio è». Ora la dottoressa e l’infermiera stavano ispezionando la stanza accanto. Impossibile sbagliarsi. Si sentivano le loro voci oltre la parete. La ragazza grande era pronta ad accoglierle con stile. «Giona», disse di colpo la ragazza piccola. La ragazza grande sussultò. Aprì gli occhi e si ritrovò la faccia della ragazza piccola un palmo sopra la sua, girata all’incontrario a livello-letto. Gli occhi della ragazza grande, ora che li aveva aperti entrambi, si rivelavano leggermente strabici. Quelli della ragazza piccola erano dritti e minacciosi. «Tu sei quasi guarita?», chiese. «Quasi», disse la ragazza grande. Sollevò la mano destra e formò una specie di u alta e stretta con il pollice e l’indice. Disse: «Mi manca tanto così».


Poi la ragazza piccola attaccò. Vorace come il becco di un pulcino, la sua bocca scattò verso il basso e con i denti strappò il cilindro di plastica dai denti della ragazza grande. Senza volerlo le diede un mezzo bacio. La ragazza grande allungò un braccio verso il letto ma tutto quello che afferrò fu aria, e in quel momento bussarono alla porta della stanza. Il 10 settembre del 1994, tre settimane prima dei fatti della clinica, un bambino giocava da solo in un cortile di Lagobello, villaggio residenziale a mezz’ora da Milano. Nel cortile adiacente un cane nero, un bastardo grande e grosso di nome Mozzo, sonnecchiava all’ombra di un ciliegio. Il cane si chiamava così per due motivi: uno, l’orecchio che gli era stato sbranato da cucciolo, nel canile in cui aveva trascorso l’infanzia; due, la passione della sua padrona per le storie di marinai. Erano circa le tre di pomeriggio. Il bambino calciò il suo pallone contro lo steccato divisorio, e il cane drizzò l’orecchio che gli restava. La padrona si affacciò in quel momento alla finestra della sua stanza, al primo piano di una villetta color ruggine e crema. Aveva appena ingerito ventiquattro compresse di Valium e mezza bottiglia di Amaro Montenegro. Prima aveva condotto ricerche approfondite, scoprendo che le benzodiazepine, da sole, non fanno proprio un bel niente, ma combinate con l’alcol sì, e le era sembrato terribilmente giusto essere costretta a mescolare le droghe preferite dei suoi genitori, una sepolta in un cassetto del bagno e l’altra in bella vista nel mobile bar del soggiorno. Aspettando


che il Valium facesse effetto, ma già ubriaca per via del Montenegro, aveva rubato l’ennesimo pacchetto dalla stecca della madre e si era messa a fumare alla finestra, tenendo la sigaretta fuori per una consolidata abitudine al fumo clandestino. Era l’ultimo sabato delle vacanze estive. Dopo un mese d’inferno i coniugi Muratore, come la ragazza amava nominarli, si erano decisi a staccare per un paio di giorni, e quella mattina erano partiti per il mare. E questa volta, Cristo di un Dio, questa volta il piano era di ferro, prevedeva ricerche bibliografiche e puntualità negli orari, dosi calcolate secondo le più recenti scoperte della ricerca scientifica, e perfino un testimone. Nei programmi della ragazza i coniugi Muratore sarebbero tornati la domenica sera dal loro fine settimana di recupero della salute mentale, e notando la terribile tristezza negli occhi del cane Mozzo l’avrebbero seguito al primo piano, fino ai piedi del letto di un’anacronistica cameretta anni Ottanta, estremo custode della sua padrona ormai per sempre tranquillizzata. Coltivando questa fantasia la ragazza contemplò il suo regno ormai in declino. Quel sabato pomeriggio l’unica forma di vita a Lagobello era il figlio dei vicini di casa, un bambino solitario che le era sempre piaciuto, intento a correre avanti e indietro dalla porta di casa al cancelletto d’ingresso, borbottando tra sé e prendendo a calci un pallone di plastica. Osservandolo la ragazza capì che la partita era concepita in questo modo: all’andata, dalla porta al cancelletto, il bambino


faceva gioco di squadra, calciando il pallone contro il muro o lo steccato e ricevendolo indietro come se fosse il passaggio di un compagno. Al ritorno rifaceva il percorso palla al piede, piroettava su se stesso ondeggiando, tracciava tortuose serpentine e infine centrava la porta di casa con un tiro. Ormai invasa dal sonno, come da una schiuma densa e tiepida che le montava dentro, la ragazza intuì di assistere allo scontro tra una squadra molto solida e affiatata e una più debole, ma dotata di un campione eccezionale. Il bambino interpretava allo stesso tempo i giocatori di una squadra, il campione dell’altra, il telecronista concitato e perfino il pubblico in delirio per il gol. In quel momento la ragazza ebbe una dolce, malinconica illuminazione. Pensò che, se avesse potuto tornare indietro, le sarebbe piaciuto diventare un’attrice. Sarebbe stato un modo appassionante per non essere più se stessa. Ma ormai era tardi per tutto, e quella sarebbe rimasta per sempre la sua strada non presa, il suo talento sprecato. Circa mezz’ora più tardi il cane Mozzo avvertì un vento oscuro nell’aria e cominciò ad abbaiare forte. Abbaiò così forte e così a lungo da richiamare l’attenzione degli abitanti di Lagobello. Alcuni di loro uscirono in giardino. Una vicina possedeva le chiavi di casa Muratore, affidatele dai coniugi prima di partire. Questo, la ragazza non lo sapeva. Fu così che il suo sonno venne interrotto, e non da un bacio di uomo. Sette anni dopo, a Roma, in un tardo pomeriggio d’inverno, una giovane attrice rientra nel suo appartamento con una busta che


ha appena ritirato giù nell’atrio. Si toglie i guanti e la sciarpa, appende il cappotto all’ingresso. Nella casa vagano i bagliori mobili degli appartamenti ai piani alti: le insegne dei negozi proiettano macchie di colore sui soffitti, i fari delle automobili perlustrano le pareti. È un effetto acquario che alla ragazza piace, perciò decide di non rovinarlo con luci troppo violente. In cucina accende una lampada e apre la busta, una di quelle che sua madre le manda da quando il padre è morto, con la poca corrispondenza che arriva per lei al vecchio indirizzo. Una volta ci aggiungeva un biglietto scritto a mano, qualche riga vittimista su di sé, il bollettino medico del cane, ma poi anche il cane è andato e loro due hanno interrotto tutte le comunicazioni. Ora la ragazza scopre che dentro la busta ce n’è un’altra, gialla, imbottita, sul cui dorso compaiono due nomi. Sopra, in un corsivo nervoso e tutto a punte, c’è scritto: Sofia Muratore. Sotto, tra parentesi: Giona. Un indirizzo della Svizzera Italiana è stato cancellato con un tratto di penna e una mano diversa ha aggiunto quello di Lagobello, da dove poi sua madre l’ha spedita a Roma. È una busta che ne ha fatta di strada. La ragazza la osserva tenendola vicino alla luce, non come si guarda un semplice involucro di carta gialla, ma una diapositiva o qualcosa del genere. Per uno strabismo appena percepibile l’occhio destro sembra osservare la busta, e il sinistro lo spazio vuoto che sta subito fuori. Ora suona il telefono. La ragazza torna in sé e segue lo squillo fino alla stanza da cui proviene: una camera doppia addobbata con tende arancioni e d’oro, elefanti di legno


allineati su uno scaffale, un profumo d’incenso che non basta a coprire l’odore persistente di canapa indiana. Trova il ricevitore sopra uno dei due letti e sotto un mucchio di gonne e calze a righe, tutta la roba che una delle sue coinquiline ha dovuto escludere dalla valigia partendo per la Sicilia, per passare il Natale con i suoi genitori. Nella ricerca del telefono, la maggior parte di questi vestiti viene scaraventata sul pavimento. «Pronto», dice la ragazza. «Pronto», dice la voce. «Scommetto che non sai chi sono». «Ciurma», dice la ragazza, che invece sperava proprio fosse lui. Si tratta del ragazzo con cui esce da circa un mese. È una relazione che le piace definire di tipo puramente sessuale, benché non sia del tutto vero: la verità è che sta prendendo la mano a entrambi. Il ragazzo chiama la ragazza capitano. Dice: «Capitano, mi sei venuta in mente e ho pensato di sentire come va». «Ti sono venuta in mente solo adesso?», chiede la ragazza. Lei lo chiama ciurma. Nel gioco lui è premuroso e servile, lei sprezzante e autoritaria come in una fantasia navale sadomaso. «Confesso», dice il ragazzo. «Mi sei mancata per tutto il giorno». Tornando in cucina, la ragazza non riesce a evitare di dare un’occhiata alla busta sul tavolo. Non vuole pensarci mentre parla al telefono, ma è difficile pensare ad altro. Il ragazzo le chiede come vanno le prove dello spettacolo. Sta cercando di interessarsi alla vita di lei. «Bene», dice la ragazza. «Le prove


sono la parte migliore». Apre il frigorifero tanto per vedere se le viene voglia di mangiare qualcosa. Nella penombra della cucina, la luce interna del frigo sembra avvolgerla e inghiottirla come i fari delle astronavi aliene nei film di fantascienza. «Di cosa parla?», chiede il ragazzo. «Destino e vendetta», dice la ragazza. «La solita roba greca». Nel frigo tre etichette contrassegnano i ripiani e portano i nomi di Sofia, Irene, Caterina. Sul quarto, dedicato alle provviste che loro tre sono disposte a dividersi, al momento compaiono una crosta di formaggio grana, mezza cipolla avvolta nella pellicola e una vaschetta con la cena cinese avanzata da qualcuno chissà quanto tempo fa, il cui odore basta a togliere alla ragazza qualunque desiderio di cibo, lasciandole in cambio una cara, vecchia sensazione di nausea. Comincia a sistemare i barattoli di yogurt sul ripiano di Irene, allineandoli in fila per due e con il marchio in fuori, e poi le viene voglia di riordinare l’intero frigorifero, così sbatte lo sportello provocando un tintinnio di bottiglie. «Mi fai sentire qualcosa?», chiede il ragazzo. «Qualcosa cosa?» «Non saprei, un monologo? C’è sempre un monologo, no?» Allora alla ragazza tocca spiegare al ragazzo che non solo, nello spettacolo, non c’è un monologo per lei, ma che per quasi tutto il tempo recita da sdraiata. «Bello», dice il ragazzo. «Che cosa?»


«Immaginarti sdraiata». Ora la voce del ragazzo è roca, come si conviene alle battute a sfondo sessuale. La ragazza dovrebbe replicare sullo stesso tono, però nel frattempo le è venuta in mente un’altra cosa. Tornando al tavolo sfiora il bordo della busta gialla e dice: «Per mia madre la vita è una lotta contro la forza di gravità, lo sapevi? La mattina, quando le persone normali si alzano, lei resta a letto per ore, a volte per tutto il giorno. Ha come un peso che la tiene giù. C’è una poesia di Sylvia Plath che mi fa sempre pensare a lei. Dice: “Io sono verticale, ma preferirei essere orizzontale. Stare sdraiata per me è più naturale”». Il ragazzo è preso alla sprovvista. Non è la prima volta che succede. Di colpo si spalancano porte, nella vita della ragazza, davanti alle quali lui è indeciso sul da farsi. Certi altri giorni lei è una stanza chiusa. Così il ragazzo è allo stesso tempo intimorito e lusingato, e in ogni caso non commenta mai. Ha capito che la ragazza non cerca da lui dei consigli, ma solo un po’ di ascolto. Per recuperare leggerezza le chiede che programmi ha per Natale. «Vuoi sapere i miei programmi per Natale?», dice la ragazza. «Farmi molti bagni e dormire molto. Svegliarmi tardi e andare a letto presto. Non rispondere al telefono, rileggere Moby Dick, drogarmi fino agli occhi e cercare di dimenticarmi che è Natale. Ti basta così?» «Ma tutto da sola?», chiede il ragazzo. «Non lo so», dice la ragazza. «È un problema che devo risolvere prima o poi. Vorrei riuscire a stare bene anche da


sola». «Che io sappia», dice il ragazzo, «ci sono soltanto due cose che stanno bene da sole». «Sentiamo». «Una è Dio, l’altra la masturbazione». «Capisco», dice la ragazza. «Preferisco la seconda». «Pure io», dice il ragazzo, e ride. Infine si mettono d’accordo per sentirsi più tardi. Alla ragazza non dispiace l’idea di uscire, ma vuole prendersela comoda. Dice: «Intanto mi faccio un bagno, ti va di chiamarmi verso le nove?» «Agli ordini, capitano», dice il ragazzo. «Punto la sveglia». «Riposo, ciurma», dice la ragazza, e mette giù. Poi si siede a tavola. Ora sa di non avere più scampo. Nella casa ci sono soltanto lei e la busta. Osserva la calligrafia con cui la mano del mittente ha scritto Sofia Muratore, con la S, la f, le gambe della M e la t come altrettante unghiate sulla carta gialla, e più sotto il nome che l’ha colpita prima. Giona. Colpita però non è la parola giusta. Come si è sentita esattamente? Come quando una crepa si apre su una superficie liscia: un vetro, una lastra di ghiaccio, il guscio di un uovo. La parola giusta è incrinata. Ecco come si è sentita. E ora la crepa si sta allargando a vista d’occhio. Fino a un po’ di tempo fa avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe tirato su il telefono e chiamato la zia che, per un certo periodo, ha considerato una maestra. Poi però quel periodo è finito. La ragazza ha sentito il bisogno di rifiutare altri


insegnamenti e cavarsela da sola. Nonostante questa zia le abbia permesso, anzi raccomandato di chiamarla in qualsiasi momento, e nonostante sia l’unica persona sulla terra in grado di aiutarla, la ragazza sa bene che, una volta ucciso un maestro, non è possibile tornare indietro. Allora pensa di prendere la busta e bruciarla sul fornello della cucina. O di stracciarla in piccoli pezzi e buttare i piccoli pezzi dalla finestra, giù nella notte di Roma. Oppure, ancora meglio, pensa di dimenticarla. Appoggiarla da qualche parte e poi scordarsela completamente, lasciando che venga coperta da una rivista o da un libro, e poi nel tempo da una pila di riviste o di libri, mentre intorno, nell’appartamento, le inquiline cambiano una alla volta via via che si laureano, si fidanzano, si ritirano dall’università, tornano a vivere dai loro genitori, trovano un lavoro e guadagnano abbastanza soldi per una stanza singola o un monolocale, litigano per futili motivi e sostituiscono vecchie migliori amiche con nuove migliori amiche. E così la busta gialla perverrà intatta fino a un’epoca molto successiva, un’epoca in cui i nomi di Sofia, Irene e Caterina avranno perso significato, la stanza indiana sarà stata imbiancata, le etichette nel frigo ridotte a vaghe tracce di colla, e la busta riemergerà dal caos domestico come un coccio di anfora dagli scavi della metropolitana, proprio come adesso, nell’appartamento, saltano fuori cose che non appartengono a nessuno – una confezione di pillole nell’armadietto del bagno, scadute quattro anni fa, o il cappello di paglia appeso all’ingresso che ogni tanto qualcuna di loro usa, o il biglietto


trovato nella polvere dietro a un comodino, con su scritto Buongiorno strega! ecco un umile pegno per le tue magie – e nessuno è più in grado di risalire ai proprietari di questi cimeli perché molte generazioni di inquiline sono ormai sprofondate nell’oblio, e anche la busta gialla farà la stessa fine. Verrà disseppellita da una matricola, una sperduta studentessa fuorisede che un sabato pomeriggio si metterà a curiosare in giro, troverà la busta, la sera chiederà spiegazioni alle coinquiline anziane. Le ascolterà sgranare nomi di ragazza risalendo dalle coinquiline incontrate di persona fino a quelle sentite solo nominare, coinquiline leggendarie le cui gesta si tramandano nell’appartamento, ma non arriveranno a niente, non ci sarà proprio nessuna Sofia e tantomeno nessun Giona nella loro memoria, e allora tutt’e tre, o tutt’e quattro o quante saranno quella sera, guarderanno la busta gialla e poi le altre coinquiline negli occhi e sorridendo diranno: «Be’, se non è di nessuno allora chi la apre?», e finalmente tutto sarà compiuto. Infine la ragazza torna dal luogo in cui era precipitata e decide di affrontare la cosa da persona adulta. In bagno si versa venti gocce di Lexotan direttamente sulla lingua. Apre l’acqua calda nella vasca e si concede una dose abbondante di bagnoschiuma. Porta una sedia dalla cucina e appoggia lì sopra le sigarette, l’accendino, il portacenere e la busta gialla. Poi si spoglia ed entra nella vasca. Come ogni volta l’acqua bollente è uno shock, ma appena il Lexotan comincia a fare effetto è come sciogliersi, come se il corpo perdesse la sua durezza e tornasse una cosa morbida dentro una bolla. Quando raggiunge


questo stato di grazia, la ragazza prende la busta gialla e strappa il bordo con un dito, poi estrae la lettera che contiene. Dentro c’è scritto: Cara Sofia (Giona), tra i dodici passi degli Alcolisti Anonimi ce n’è uno che si chiama «fare ammenda». È il nono su dodici, quindi si trova quasi alla fine del percorso. Fare ammenda significa andare in cerca della gente che hai offeso, tradito, derubato e deluso quand’eri ubriaco, e chiedere scusa. Confessare che sei stato una persona meschina, ma ora vuoi diventare una persona degna di fiducia. Hai bisogno del loro perdono per farlo. Il perdono serve a liberarsi del rimorso, che non è un sentimento utile se uno vuole cambiare vita, perché ti ricorda continuamente chi eri. Ma se una persona ti perdona, puoi smettere di provare rimorso e cercare di diventare chi vuoi. È proprio come mi sento io adesso. Anch’io ho tradito la fiducia degli altri, ho ferito i miei amici e raccontato un mucchio di bugie, e ora penso che, se voglio andare avanti, devo prima tornare indietro e rimettere a posto un po’ di cose. Così approfitto di questa lettera per mandarti qualcosa di tuo. Mi è stato molto utile in questi anni, nei momenti di sconforto, però adesso non mi serve più. Non che quei momenti siano finiti del tutto, ma sono io che riesco ad affrontarli meglio. E poi c’è una cosa che ho bisogno di chiederti. Negli


ultimi tempi ho letto la Bibbia da cima a fondo. Non credo in Dio ma mi sembrava un libro importante da leggere, almeno per evitare che qualcun altro lo facesse al posto mio e pretendesse di spiegarmelo. La storia di Giona è una delle mie preferite, sai? È un racconto di poche pagine. Io non so se anche tu l’avessi letto, o magari invece era solo che ti piaceva il nome, o ti piaceva un ragazzo di nome Giona o chi lo sa. Comunque la storia è questa. Un giorno Dio chiama Giona e gli ordina: Vai a Ninive, la grande città, e di’ ai suoi abitanti che il loro peccato è salito fino a me. Va bene, risponde Giona. Mette qualche vestito in una borsa, saluta sua moglie, esce di casa, e poi invece di andare a Ninive prende la strada opposta, e si imbarca per Tarsis. Ma ovviamente disobbedire a Dio non è una grande idea nella Bibbia, così quando Giona è sulla nave si scatena una terribile tempesta. I marinai buttano in acqua tutta la merce che hanno per alleggerirsi. Qualcuno prega, qualcuno piange, Giona invece dorme profondamente. Si vede che è sicuro di essere nel giusto. Ma il capitano della nave lo scuote e gli fa: Come puoi dormire, non vedi che fuori c’è il finimondo? E Giona: Ah sì, è il mio Dio che mi sta cercando. Spiega ai marinai che il suo è un Dio potente e vendicativo, ed è molto arrabbiato con lui. L’unico modo che avete per salvarvi, dice, è di buttarmi fuori dalla nave. E naturalmente i marinai seguono il consiglio. Così Giona precipita in acqua e sta per affogare, ma ecco che


si compie un altro prodigio: «Ora Dio aveva preparato un grande pesce per inghiottire Giona». Un mostro marino, né più né meno. E inghiottendo Giona in realtà lo salva, lo tiene nella pancia per tre giorni e tre notti e lo protegge dal mare. Dalla pancia del pesce Giona parla con Dio. Lo ringrazia per averlo salvato. Chiede scusa per aver disobbedito e gli promette di compiere la sua missione. Infine il pesce lo sputa su una spiaggia: e così, dopo essersi asciugato e ripulito, Giona parte per andare a convertire gli abitanti di Ninive. Allora mi sono chiesta: quando stavi lì, sdraiata sul pavimento della mia stanza, che tipo di Giona eri? Eri Giona che dorme nella stiva della nave? E nonostante il finimondo eri perfettamente calma, perché ti sentivi sicura di essere nel giusto? Oppure eri Giona nella pancia del pesce? E ti sentivi grata per essere stata salvata da quello che c’era fuori, capivi di avere sbagliato e stavi pensando a come rimediare? Oppure eri Giona sulla spiaggia? Quando asciugandosi al sole si rende conto che non c’è il giusto o lo sbagliato, ma solo un uomo da una parte e un dio dall’altra, uno illuso di poter scegliere, l’altro capace di scovarti dovunque ti nascondi, scatenare tempeste per affogarti e mandare mostri a trarti in salvo, per cui è meglio obbedire e basta, perché non è proprio possibile essere liberi in un mondo governato da un dio? Tu ci pensavi a queste cose? Quando parlavi dei nomi, e della libertà di essere chi ti


pare, pensavi a questo? Mi piacerebbe incontrarti in un posto normale, magari in un caffè all’aperto, bere una tazza di tè e mangiare pasticcini alla crema, fumare sigarette sottilissime e chiacchierare come due vecchie amiche. Nel frattempo, spero che tu mi ricordi con lo stesso affetto con cui ti ricordo io. Tua, Margherita (Margot). Dopo averla riletta due volte, la ragazza posa la lettera sulla sedia e riprende la busta gialla. La capovolge e la scuote finché nell’acqua cade un oggetto che prima le era sfuggito. Lo raccoglie e lo pulisce dalla schiuma: è una cannuccia di plastica che lei ricorda perfettamente. Rigirandola tra le dita, la sigaretta metafisica le sembra un po’ più mangiucchiata, e anche un bel po’ più corta dell’ultima volta che l’ha vista. È contenta di riaverla, ma adesso a che cosa potrebbe servire? La ragazza pensa di trovarle nuove mansioni. Tira fuori un piede dall’acqua e lo punta con l’occhio buono, guardando attraverso la cannuccia come se fosse un minuscolo cannocchiale. Ecco un alluce smaltato a dritta, e a tribordo un portasapone a forma di paperella. La ragazza prende la cannuccia tra le labbra per vedere se funziona ancora. Ecco un lupo di mare con la sua pipa d’osso. Basta invertire il ciclo, inspirando con il naso e soffiando con la bocca, ed ecco una balena. Laggiù, soffia! Là, là, là! Soffia! Manca solo il pescatore di perle. La ragazza chiude gli occhi e si tappa il naso con due dita, poi immerge la


testa nell’acqua e usa la cannuccia per respirare l’aria che c’è fuori, come un boccaglio.


SOFIA SI VESTE SEMPRE DI NERO Da un pezzo avevano sentito parlare una dell’altra ma si incontrarono solo all’altare, tra i parenti vestiti a festa e la marcia nuziale che andava, Rossana entrata per ultima a braccetto del padre e Marta in qualità di sorella e testimone dello sposo. Nel 1977 avevano ventidue e ventitré anni. Rossana era cresciuta in collegio, aveva un certo talento nel disegno e nel canto, frequentava l’Accademia di Brera ma ora avrebbe interrotto gli studi per via della cosa in arrivo, e di Marta pensava quello che Roberto le aveva raccontato: che era sempre arrabbiata, vedeva tutto in bianco e nero, fin da piccola era in guerra col mondo. Marta di Rossana non pensava niente, non ne aveva avuto il tempo: studiava Storia all’università Statale, faceva gavetta in una radio di movimento, militava nell’Autonomia Operaia e a quell’ora del sabato pomeriggio non avrebbe dovuto essere lì, complice di un matrimonio riparatore, ma in corteo insieme ai suoi compagni. In centro a Milano, non lontano da quella gelida parrocchia di quartiere, la protesta era già degenerata: Rossana e Roberto si giuravano amore, fedeltà e rispetto fino alla morte, e di là si bruciavano macchine e innalzavano barricate; loro due si scambiavano gli anelli e la polizia sparava lacrimogeni, serrava i ranghi e caricava; gli sposi si baciavano davanti al prete e le forze dell’ordine infierivano sui manifestanti caduti e Marta pregava quel dio crocefisso che ne prendessero uno, almeno uno, per


trascinarlo in un vicolo e rovinarlo di botte. In chiesa qualcuno applaudì. Subito dopo il bacio, mentre l’organo suonava e le suocere piangevano e tutto era compiuto, Rossana alzò gli occhi oltre la spalla di Roberto, guardò Marta e accennò un sorriso. Impossibile sbagliarsi: stava sorridendo proprio a lei. Aveva margherite tra i capelli e una tunica bianca da mistica figlia dei fiori, e quella era la sua offerta di pace e amore per gli anni a venire. Famiglia, famiglia, pensò Marta. Aveva voglia di uscire a fumare, ma fece uno sforzo e ricambiò il sorriso. Rossana sussultò. In quel momento la cosa, nel bagno tiepido in cui si trovava, la navicella che da settimane era un ottovolante di euforia e disperazione, sentì una scarica di adrenalina arrivare dritta dal cordone ombelicale, si svegliò dal sonnellino pomeridiano e diede un calcio a sua madre. Marta imparò a sparare quell’autunno, in montagna, in un corso d’addestramento tenuto da ex partigiani. Mirava a bersagli inchiodati ai tronchi degli alberi, coi colpi dei cacciatori che echeggiavano nei boschi, e diventò pure brava, anche se poi non avrebbe mai sparato a nessuno. Al contrario, in inverno le toccò medicare diverse ferite da arma da fuoco. Usavano casa sua come infermeria e magazzino, finché non accolsero le sue proteste e la lasciarono partecipare a qualche azione. Le capitò di legarsi un fazzoletto al collo e rapinare il supermercato in cui sua madre faceva la spesa due volte alla settimana. Restò in macchina mentre rompevano i denti a un picchiatore fascista, dopo averlo aspettato sotto casa per giorni e scoperto grazie


alla portinaia che entrava e usciva dal palazzo accanto. Avevano parecchi contatti con la gente del quartiere, le donne, gli operai: ai padroni delle piccole fabbriche, che pensavano di poter fare i tiranni impunemente, prima incendiavano la macchina, poi se necessario passavano ai capannoni. Era una vita inebriante e quasi solo notturna. Di giorno Marta tornava nei panni della studentessa lavoratrice, si teneva in piedi con il moto perpetuo e il caffè. Andava a cena da suo fratello quando la invitavano, e misurava il tempo tra una visita e l’altra con i cambiamenti di Sofia: prima aveva tre mesi, mangiava e dormiva e piangeva e nient’altro, poi aveva un anno e stava in piedi da sola, poi di colpo era una persona con cui si poteva perfino parlare. Entrando in casa Marta si abbassava sulle ginocchia, la guardava dritta negli occhi e diceva: «Allora, come stai?», con il risultato di terrorizzarla e spingerla a nascondersi tra le gambe di Rossana. Era molto meglio come rivoluzionaria che come zia. Durante la cena la conversazione era difficile. Roberto, ingegnere meccanico, stava facendo carriera all’Alfa Romeo, e in quel periodo erano cominciati i licenziamenti. Si sforzavano entrambi di parlare d’altro, della salute della madre o dei progressi della bambina, ma presto o tardi arrivavano al lavoro, e da lì alla situazione politica, e attaccavano a litigare. Marta accusava suo fratello di essere un animale da tiro, un bue che sarebbe morto di fatica pur di accontentare il suo padrone. Secondo Roberto lei ragionava da sindacalista, badava troppo alla politica e poco al lavoro: il suo mestiere era quello di


costruire automobili, perché non avrebbe dovuto farlo bene? Rossana serviva la cena in silenzio mentre la discussione degenerava. Certe parole le risultavano incomprensibili, ma anche lei vedeva i telegiornali: cortei, scioperi, morti ammazzati, bombe che ogni tanto esplodevano e processi che non finivano mai. A un certo punto Roberto taceva offeso e Marta si ritrovava a tenere un comizio che nessuno ascoltava, così non le restava che cambiare discorso: come se la vedesse solo ora, si complimentava con Rossana per l’abito o l’acconciatura, per i fiori sulla tavola o il ripieno della crostata. Erano campi in cui non potevano essere più diverse: una indifferente all’aspetto delle cose e quasi austera, l’altra capace di perdere mezza giornata per cucinare, addobbare la tavola e vestirsi. Poi Marta le chiedeva se avesse qualche disegno nuovo. Allora partiva la solita recita di modestia e imbarazzo, Roberto sbuffava e cominciava a sparecchiare, Sofia si rifugiava sotto il tavolo dove aveva il suo fortino. Infine Rossana cedeva, andava a prendere la cartelletta che usava dai tempi della scuola, la apriva sulla tovaglia. I suoi non erano lavori facili, usavano linguaggi e codici che Marta si sforzava di capire: domandava i motivi di alcune scelte, ne misurava gli equilibri immaginando che colori e forme fossero pesi sui piatti di una bilancia. Adoperava mani e dita per inquadrare i suoi punti preferiti, come un mascherino di cartone su una fotografia. Qualunque fosse il valore di quei disegni, le sembrava importante incoraggiare Rossana e intimidire Roberto. «Non mi affibbiare la parte dell’uomo delle caverne»,


diceva lui, quando restavano soli. «Non ho mai chiesto una cuoca né una cameriera né una balia, per me può anche ricominciare a studiare». Però poi la sua indifferenza dimostrava il contrario. Sotto il tavolo Sofia scambiava le scarpe, mettendo a sua zia i sandali di sua madre, e a sua madre i mocassini del padre. Quando la incrociava con lo sguardo, a Marta capitava di chiedersi che tipo di adulta sarebbe diventata: riuscirai a sopravvivere a questa famigliola, ti entrerà qualche idea decente in testa? Oppure sei già marchiata a fuoco, un’altra futura donnina da niente? «Ho bisogno di vederti», disse Rossana al telefono, nel 1980. Non si erano mai incontrate da sole. In quel periodo Marta trasaliva a ogni rumore: alcuni suoi compagni erano già stati arrestati, con gli altri stava perdendo i contatti, era sicura che presto sarebbe toccato a lei. Il telefono non suonava per giorni, e quelle poche volte portava pessime notizie. Invece, era soltanto Rossana. Le diede appuntamento in un bar, vicino al giornale in cui adesso lavorava. Alle sei la trovò già seduta davanti a un Negroni. Aveva le guance lucide e un’euforia sospetta: si alzò dal tavolino, la baciò, le disse di avere seguito tutta la sua inchiesta sull’aggregazione giovanile a Milano, in cui aveva scoperto dei mondi che nemmeno immaginava. Le chiese quante notti in giro per la città le fosse costato un lavoro del genere, e se non si era mai sentita in pericolo. Finì il suo aperitivo e ne


ordinò altri due. «Tu sì che sei una donna libera», disse. «Ti ammiro, sai? Non devi niente a nessuno». Marta non toccava alcol, detestava perdere la lucidità. Bagnò le labbra nel Negroni e disse che non era mica libera come sembrava: aveva anche lei un direttore, un padrone di casa, le rate della macchina, per non parlare degli uomini che tendevano a vederla come un cane randagio, da incatenare a un palo e rieducare a bastonate. Rossana rise in quel suo modo che Marta non aveva mai notato, una risata che spandeva allegria tutt’intorno. Ma intanto aspettava che arrivasse al punto, così pensò: prima cominciamo e prima la finiamo, e le chiese se c’era qualcosa che non andava. Rossana scosse la testa. Fece un breve sorriso al pavimento, come un discorso tra sé più volte interrotto e ripreso. Disse che i suoi problemi erano talmente sciocchi e banali che a parlarne si sarebbe annoiata da sola. «Veramente ti ho chiamata per questo», disse. «Stavo pensando che mi piacerebbe trovare uno studio, e tu magari puoi aiutarmi a cercarlo». Uno studio per dipingere, capì Marta. Le sembrò una buona idea. Mentre Rossana descriveva il posto lei stava già pensando all’affitto, alla distanza da casa, ai giornali di annunci da consultare. La sua testa funzionava così: se le fornivi i dati del problema si adoperava per risolverlo, se invece erano solo chiacchiere si smarriva. Poi scoprì che lo studio che Rossana aveva in mente comprendeva anche un letto, una cucina, un po’ di spazio per Sofia, e assomigliava decisamente a un’abitazione.


«Scusa», disse Marta. «Fammi capire. È che sono un po’ tonta, sai com’è. Non è che stai parlando di divorzio?» Rossana scosse la testa energicamente. Non stava parlando di divorzio, non voleva nemmeno sentirlo nominare. Con la voce già impastata dichiarò che il matrimonio era un vincolo indissolubile. Roberto non c’entrava niente: era lei ad avere bisogno di passare del tempo da sola, di leggere, dipingere, ascoltare musica, riconquistare la sua intimità. «Hai letto Una stanza tutta per sé?», domandò. «Certo», rispose Marta, anche se non era vero. Ma sapeva di cosa parlava. Le passò il suo bicchiere e disse: «Bevi anche il mio, per me è troppo forte». Quella sera, a letto, rimise insieme i pezzi della storia e fu incerta se trovarla comica o tragica: c’era una donna che voleva divorziare ma non poteva, e non aveva nessuno con cui confidarsi se non la sorella di suo marito. Cominciarono a telefonarsi, incontrarsi nei fine settimana, visitare appartamenti proprio mentre la vita segreta di Marta precipitava. In estate ci fu un’altra ondata di arresti. I nomi li conosceva tutti. Dei suoi compagni ormai sentiva solo l’uomo con cui era stata fino a un anno prima, ed era lui che la chiamava in redazione dalle cabine del telefono: era convinto che i giornali avessero le notizie in anticipo, insisteva a chiederle che cosa si muoveva. Ma Marta non ne sapeva nulla. Si era abituata a fare tortuosi giri a vuoto per andare da un posto all’altro, controllando compulsivamente lo specchietto retrovisore. Spiava fuori dalla finestra prima di uscire di casa.


Abitava da sola, e sulla sedia accanto al letto aveva preparato gli abiti con cui voleva essere portata via: conosceva i suoi nemici, li aspettava con i mitra spianati alle sei di mattina, sperava che le avrebbero lasciato almeno il tempo di cambiarsi. In attesa di quel momento ogni gesto da nulla, fare la spesa dal fruttivendolo, prendere un gelato con Rossana in un parco, dare l’acqua alle due piantine sul davanzale, sembrava risplendere di una struggente vitalità, come le ultime ore di un condannato a morte, la corsa in moto di Steve McQueen alla fine della Grande fuga. La ricerca dello studio non fu una cosa seria. Rossana non ne aveva nemmeno parlato con Roberto, e di suo non aveva una lira. Però ne visitarono diversi, fino a una mansarda in Brera che sarebbe stata il sogno di qualsiasi pittore degli anni Sessanta: Rossana restò per tutto il tempo alla finestra che si affacciava sull’Accademia, a osservare il viavai degli studenti mentre l’agente immobiliare mostrava il posto a Marta con aria diffidente. Non sembrava per nulla convinto che potessero permettersi uno studio del genere. Il proprietario chiedeva tre mesi di caparra e altri tre di affitto anticipato: era una cifra che Rossana non aveva mai visto tutta insieme, e quando la sentì si risvegliò dal suo torpore. Per lei, disse, i soldi non erano un problema, invece era fondamentale ricevere la luce diretta del sole di primo mattino. Ne sapeva qualcosa, lui, di pittura dal vero? E aveva una vaga idea di dove fosse l’oriente? C’era anche il pavimento che non andava, perché sul marmo faceva freddo a camminare a piedi nudi, e quella specie di


inguardabile carta da parati. Chi aveva scelto il divano di pelle nera? Che cos’era, il pied-à-terre di un assessore socialista? Marta non riusciva a crederci. Rossana lo mise al muro finché l’agente non si scusò, promettendo di trovare qualcosa di più adatto alle loro esigenze. Per strada gli lasciarono un nome falso e corsero via ridendo come due ragazzine. La sua incoscienza la affascinava. Rossana cambiava pettinatura una volta alla settimana, beveva troppo, rubava i soldi a Roberto e gli raccontava bugie al telefono, doveva sempre correre a prendere Sofia da qualche parte, si faceva un ultimo pianto in macchina prima di salutarla e sparire dentro al suo portone. Quando Marta la invitò nella sua tana si arrabbiò. Disse che non era possibile, a ventisette anni, vivere in una cella bianca e vuota. «Qui ci mettiamo dei quadri», dichiarò nel minuscolo ingresso. «E poi tiriamo giù il lampadario della nonna e troviamo qualcosa di un po’ più moderno, eh?» Vide i vestiti in camera da letto e disse che su quella sedia c’era troppo grigio, sembrava l’uniforme di una funzionaria sovietica: tra le proteste di Marta passò in rassegna il guardaroba, ne fu delusa, le fece promettere che sarebbero andate a fare compere insieme. In cucina divisero un pacchetto di ms e una caffettiera da sei. Da un po’ di tempo Marta cercava di convincerla a dare gli esami che le mancavano all’Accademia. «Il diploma ti serve per insegnare», le disse. «Tutto quello che ti rende più libera è prezioso, anche se è solo un pezzo di carta, lo capisci?» Rossana le dava sempre ragione, però poi non muoveva un


dito. «Ma il coraggio è una cosa che si impara?», domandava. «Oppure una ci nasce e basta? È possibile che ho paura di tutto?» Una volta il coraggio lo prese davvero, entrò al giornale con la bambina al collo e le chiese di tenergliela per due ore. Disse che non poteva spiegarle il motivo, ma di fidarsi di lei, le diede un bacio e corse via. Marta ebbe un sospetto di cui poi si sarebbe vergognata, e cioè che dovesse incontrarsi con un uomo. Di Sofia non sapeva cosa fare. Per fortuna una redattrice la prese in custodia per il resto del pomeriggio, ma lei non riuscì ugualmente a mettere insieme due righe: fissava il foglio bianco nella macchina da scrivere, pensava a Rossana in qualche bar o in un letto, guardava sua figlia che giocava coi pennarelli colorati, scuoteva la testa. Al ritorno, venne fuori che Rossana aveva ottenuto un colloquio in uno studio di illustratori pubblicitari. Si era portata i suoi disegni e le sembrava che fossero piaciuti. Aveva addosso un’energia che Marta aveva imparato a riconoscere come il frutto di qualche bicchiere. Non fece in tempo a sapere l’esito del colloquio. Una mattina il direttore del giornale la convocò nel suo ufficio, le chiese di chiudere la porta e di mettersi seduta, poi disse che stava pensando di mandarla come inviata a Parigi. «Io?», domandò Marta. «Ma non so nemmeno il francese». «Imparalo», rispose il direttore. «Il fatto è che ora non puoi restare in Italia. Mi devi credere». Si tormentava la barba e mordicchiava una pipa spenta, con


gli occhi che gli scappavano da tutte le parti. Quarant’anni prima aveva fatto la Resistenza, e nelle riunioni di redazione interrogava spesso i giovani giornalisti sull’universo caotico dell’Autonomia. Chi erano? Com’erano organizzati? Avevano una strategia condivisa? Sembrava incerto sulla posizione da assumere al riguardo, ma adesso non aveva più molta importanza. Marta in vita sua si era allontanata da Milano soltanto per visitare Roma e Venezia, e qualche volta per andare al mare. «Quando parto?», chiese. «Appena sei pronta». «Non devo prima cercarmi una casa?» «A questo ci penso io. Tu fai in fretta, per favore». Come l’avesse saputo, e perché avesse deciso di salvarla, per Marta restò sempre un mistero. Però da allora cominciò a pensare che la gente va aiutata anche senza motivo, anzi soprattutto in quel caso, per il semplice fatto che qualcun altro ha aiutato te al momento giusto, come un debito che si trasmette tra chi allunga la mano e chi affoga, e che non finisci mai di saldare. Partì due giorni dopo. Era sicura che la seguissero e l’ascoltassero, così non telefonò a nessuno, non andò a salutare nessuno. Portò uno scatolone a casa di sua madre con le poche cose a cui teneva e passò la serata con lei. La mattina fece una borsa che non sembrasse una valigia, si vestì come per andare al lavoro, chiuse la porta, e poi fu come tuffarsi da una piattaforma molto alta: trattenne il fiato e chiuse gli occhi e quando li riaprì era in treno, e aveva appena passato la


frontiera. Nello scompartimento c’era un gruppo di ragazzi francesi di ritorno dalle vacanze. Marta chiese una sigaretta a gesti e la fumò guardando le Alpi che si allontanavano nel finestrino. A Parigi abitava in una stanza piena di foto non sue, e si sentiva una studentessa fuorisede: le sembrava di avere di nuovo vent’anni, ma questa volta per davvero, e di scoprire aspetti della giovinezza che aveva solo sentito raccontare. Appena arrivata aveva dormito per una settimana di fila. Insieme a lei, dopo tutto quel sonno, si erano risvegliati i suoi organi di senso: occhi, naso, pelle, bocca, assaliti dai richiami. Prima il corpo era solo un mezzo di trasporto, un’arma d’ordinanza. Adesso era uscito dal letargo e aveva bisogno di sole, aria, cibo, vino, bagni, passeggiate, e Marta non ebbe il coraggio di aggiungere carezze. Fu la lettera che scrisse a Rossana al posto di un mucchio di spiegazioni e scuse. È come quella volta che mi hai truccata, ti ricordi che ho aperto gli occhi e all’improvviso ero un’altra? Ma non la solita me stessa con addosso una maschera: una persona che c’era sempre stata, solo che prima non la conoscevo. Sperava che una scoperta simile capitasse anche a Rossana. Le augurava di trovare il modo di sorprendere se stessa. La salutò scrivendo che le dispiaceva di essere partita all’improvviso, ma non aveva avuto scelta, e la aspettava a Parigi per andarsene a spasso nel Quartiere Latino e visitare il Louvre. Non ricevette risposta né a quella né alla lettera successiva, così smise di scriverle e


visitò il Louvre da sola. Un anno dopo sua madre morì. Fu colpita da un ictus mentre era al mercato, non arrivò nemmeno in ospedale. Per due giorni Marta si chiese se tornare a Milano, ma poi decise che era un rischio inutile e che di certo non avrebbe giovato a sua madre. La tormentava l’immagine di lei distesa sul marciapiede, le gambe in una posa scomposta, i sacchetti della spesa sparsi intorno – una donna che aveva sempre tenuto al contegno e alla discrezione. Varcò il portone di una chiesa dopo anni, non per dire una preghiera né accendere candele, ma perché aveva bisogno di un posto in cui pensare a sua madre in silenzio, consumare quel lutto privato. Dopo qualche giorno le arrivò una lettera di Roberto. Le dava indicazioni per trovare la tomba al cimitero, se mai avesse avuto voglia di andarci, descriveva la fotografia che aveva scelto per la lapide ed elencava i parenti che avevano partecipato al funerale, e che le mandavano le loro condoglianze. C’era ancora la questione della casa, ma avrebbero potuto decidere con calma che cosa farne, e i quattro soldi dell’eredità da dividere dopo avere tolto le spese. Sembrava la lettera di un notaio. E tu come stai?, gli scrisse Marta. Con sua sorpresa Roberto rispose. Disse che si sentiva sperduto e un po’ più vecchio. Gli sembrava che diventare un uomo adulto fosse stato un processo graduale, ma si fosse concluso bruscamente. Scrisse che pensava spesso a lei, ora che la mamma se n’era andata. C’erano dei segreti nella vita di Marta di cui non era a conoscenza, ma a questo punto non gli


interessavano: l’unica cosa importante era restare uniti. Anche se non ti è mai andata giù, concluse, sono sempre il tuo fratello maggiore. Marta gli raccontò della vita che faceva a Parigi. Descrisse la comunità italiana e la casa in cui nel frattempo era andata ad abitare, le lezioni di antropologia che seguiva alla Sorbona, il quotidiano che l’aveva assunta. Faceva ancora un po’ fatica a scrivere in francese, ma una ragazza della redazione le rivedeva tutti gli articoli e giurava che stava migliorando in fretta. In Francia si viveva bene. Non era un paese privo di contraddizioni, ma l’Italia vista da lassù sembrava arcaica, una terra lussureggiante spartita tra mafiosi e preti. Quanto a lei, aveva amici italiani e francesi e non si sentiva sola. E le tue donne?, gli domandò. L’umore di Rossana è un mistero , scrisse Roberto. Ogni sera torno a casa chiedendomi se mi abbraccerà sulla porta o la troverò a piangere al buio. Sofia va in prima elementare, ha una passione per i cani e conosce già più razze di noi due messi insieme. Le lettere erano piene di preoccupazione per una, orgoglio e stupore per l’altra. Rossana faceva fatica a dormire. Durante il giorno era spossata e irascibile. Passava il pomeriggio a letto e non dipingeva da mesi. Cominciò a vedere dei dottori, così in poco tempo l’umore di Rossana diventò il problema di Rossana e poi la malattia di Rossana. Nel 1985 Roberto ottenne una promozione, e con l’aumento di stipendio decise di comprare casa fuori città, dove lei avrebbe avuto il giardino che desiderava tanto, ampie stanze da arredare e


vicine della sua età con cui fare amicizia. Sperava che il cambiamento l’avrebbe aiutata a stare meglio. Fu quando Marta pensò: siete pazzi, avete deciso di precipitare all’inferno. Si ricordò delle lacrime che Rossana versava prima di tornare a casa. Roberto scrisse: È una bella villetta su due piani, si trova in mezzo a un parco, non riusciresti a credere che è appena fuori Milano. Vorrei che prima o poi la vedessi con i tuoi occhi. E Marta non aveva nessuna facoltà d’intervenire, non sarebbe stato nemmeno giusto. Tra sé e sé disse addio a Rossana facendole i suoi migliori auguri, come a un’amica d’infanzia che si ritira dal mondo per diventare monaca di clausura. Tornò a Milano nel 1992, non perché si sentisse fuori pericolo ma per aver capito, in tutti quegli anni, di non avere la stoffa dell’espatriata. Parigi era piena di umanità e bellezza e Marta l’aveva amata sinceramente, ma senza mai smettere di sentirsi un ospite in casa d’altri: i compagni italiani tra loro si chiamavano esuli, a lei invece sembrava di essersi presa una lunga vacanza dalla vita vera. Milano nei primi anni Novanta era solo un po’ più pulita di come la ricordava. Per il resto la trovò sempre uguale: aspra, nevrotica, inospitale, ossessionata dal lavoro, dura con tutti. Anche Marta si sentiva così, un cortile fiorito dentro un palazzo di pietra. Andò a vivere nella casa in cui era nata, l’appartamento di sua madre che nel frattempo avevano dato in affitto, ma passarono settimane prima che si comprasse qualcosa di più delle lenzuola. Era


sicura che i servizi segreti sapessero del suo ritorno. Ma forse sapevano anche che ormai era innocua: ce n’erano tanti, di pesci piccoli come lei, coinvolti in parte, soli, che non sarebbero più stati utili a nessuno. Il non aver ucciso la salvava. Eppure ricordava bene il brivido di puntare la pistola in fronte a un uomo. Aspettò per i primi tre mesi, e a quel punto cominciò a pensare che l’avrebbero lasciata in pace. Accettò la proposta di una radio locale che le offriva una trasmissione tutta sua. Aveva un vero talento per le interviste. Le piaceva sedersi in studio di fronte a una persona, metterla a proprio agio, e poi cercare di scoprire che cosa nascondeva: con qualcuno era come sfogliare un libro, con altri forzare una cassaforte. Ma prima o poi tutti cedevano alla tentazione di svelarsi, tanto era seducente l’interesse che lei dimostrava. Avendo ancora troppo tempo libero, fece domanda per insegnare in una scuola di giornalismo. Era il suo modo di pagare il debito. Affrontò quell’incarico come altri piantano alberi o cercano cure alle malattie. I suoi allievi se ne accorgevano subito: arrivavano quasi tutti da fuori, detestavano Milano, abitavano in stanze sovraffollate, erano senza un soldo e avevano sempre fame. Marta se li portava a casa. Gli riempiva la pancia di cibo e la testa di buon senso. Ascoltava i problemi che avevano con genitori, insegnanti, fidanzati, coinquilini, e consigliava sempre di tenere duro, diplomarsi, rispettare il padre e la madre, non sacrificare niente in nome dell’amore e conquistarsi la libertà con il lavoro, vecchie idee conservatrici che in bocca a Marta suonavano rivoluzionarie.


Le era rimasta l’abitudine di avere poco, sbarazzarsi dell’ingombro delle cose. Così i ragazzi che uscivano da casa sua in piena notte avevano sempre libri e cibo, e le ragazze libri, scarpe, vestiti e cibo, e le vicine mettevano in giro voci perfide su quelle visite e Marta se ne fregava. Era vero che ogni tanto le era toccato ricevere dichiarazioni d’amore, e una volta perfino un assalto da parte di un’allieva nei bagni della scuola, ma aveva sempre respinto i pretendenti con gentilezza e decisione. Sapeva di esercitare un grande potere su di loro, ci voleva poco a usarlo male. Non aveva nessuno da anni e le andava bene così. Ogni tanto per strada qualcuno la sentiva parlare, riconosceva la voce e diceva: «Mi scusi, lei è Marta Muratore? Quella della radio?» Non così spesso da farla sentire una celebrità, ma abbastanza da rassicurarla che parlava a qualcuno, il suo lavoro era per qualcuno. Le facevano i complimenti e poi aggiungevano che, ascoltandola, l’avevano immaginata diversa. Non specificavano come. Più vecchia, pensava Marta. Colpa delle sigarette, e delle cose fuori moda che diceva. Credevano di ascoltare una femminista coi capelli grigi, una Simone de Beauvoir tutta libri e niente famiglia, e spesso Marta non vedeva l’ora di diventarlo, corrispondere una volta per tutte alla sua età ideale. Aveva trentotto anni, allievi di venticinque, nessun amico sotto i cinquanta. Nel 1994 Roberto telefonò, la voce rotta dal tremito della gola, e disse che Sofia era in ospedale dopo aver ingerito un’intera


confezione di Valium. Marta prima pensò che si fosse confuso con i nomi – non era Rossana la maniaca depressiva? – poi la sua macchina da guerra interna si accese, la vecchia macchina salva-persone, la macchina risolvi-;problemi, lasciò a metà quello che stava facendo e corse nella clinica in cui Sofia era ricoverata. Più che un ospedale, sembrava un centro di recupero per adolescenti problematici. «Ma cosa combini?», le chiese, seduta nel salone delle visite. Erano due estranee a quel punto, ma avevano pur sempre lo stesso cognome, e la parentela le consentiva una certa confidenza. «Odio tutti e soprattutto me», disse Sofia. «Ci sono anch’io nella tua lista?» «A te non ti conosco. Ma ti avverto, è meglio che ne resti fuori». Aveva addosso una felpa nera, pantaloni della tuta neri, i capelli rasati da un lato solo e l’orecchio sinistro bucherellato da una scarica di anellini d’argento. Era sottopeso di almeno dieci chili, con le vene che le incidevano il dorso delle mani, ma Marta non era tipo da spaventarsi. Apparteneva a una generazione falciata dalla politica e dall’eroina, ne aveva vista di gente messa male. Decise di non restarne fuori. «Ti serve qualcosa?», chiese. «Sigarette», rispose Sofia, di colpo interessata. Afferrò il pacchetto che Marta le porgeva e se lo mise in tasca. «E un paio di occhiali da sole, molto grandi e molto scuri. Tutto questo bianco mi sta bruciando il cervello».


Per essere un’aspirante suicida si rivelò piena di esigenze. Le chiese anche un walkman, un sapone alla vaniglia, la ceretta perché non le lasciavano usare il rasoio, il libro di Stanislavskij sul lavoro dell’attore e una scatola di preservativi, l’unico articolo su cui Marta andò in crisi. Li scrutò diverse volte alla cassa del supermercato, ma non le sembrava serio comprarli insieme alla verdura e ai biscotti. Così un giorno guidò per mezz’ora, lasciò la macchina in doppia fila, entrò in una farmacia mai vista prima e quando uscì si sentiva come dopo una rapina. Quel pomeriggio passò la scatola a Sofia dentro una bustina di carta. Tanto per dire qualcosa, le chiese se il suo ragazzo venisse a trovarla lì in clinica. «Se avessi un ragazzo mio», rispose Sofia, «allora io dovrei essere sua, giusto? No, grazie. Sto soltanto facendo ballare un po’ di letti qui dentro». A Marta venne da ridere. Da dove era uscita quella seduttrice tutta ossa? Roberto l’aveva avvisata: «Non credere a niente di quello che ti racconta. È una bugiarda patologica». Marta le chiese se l’amore libero non fosse una pratica passata di moda e Sofia non capì che la prendeva in giro: disse che a suo parere buona parte dei mali del mondo veniva da impulsi sessuali frustrati, e che problemi come le guerre, il razzismo e la religione si sarebbero risolti immediatamente se tutti avessero scopato con tutti, dai tredici anni ai novantanove. E aggiunse che la loro società di merda era fondata sulla famiglia, e per proteggere la famiglia era stata inventata


l’istituzione aberrante del matrimonio, perciò che cavolo potevi cambiare senza combattere i diritti di proprietà che le persone vantavano verso altre persone, ancora prima che verso la terra, gli animali e le cose? Bugiarda o no, Marta pensò che il ragionamento non faceva una piega. «Tu con quanti uomini sei stata?», chiese Sofia. «Quattro», rispose Marta, sovrappensiero. Sofia scoppiò a ridere e lei la fissò stupefatta: incredibile quanto assomigliava a sua madre. Era solo nel suono squillante della risata, o nel modo in cui anche Rossana buttava la testa all’indietro? Le chiese cosa c’era da ridere e Sofia rispose di aver sempre pensato, per come ne parlavano i suoi genitori, che lei fosse una mangia-uomini, ne divorasse uno a settimana. Marta si strinse nelle spalle come a dire: e io che cosa posso farci? «È che quando avevo vent’anni l’amore non sembrava una cosa importante. Anzi, credo proprio che fosse visto male. Troppo privato. Avevo amici, questo sì. A volte erano molto amici. Se poi capitava di andarci a letto insieme, lì scoppiava il casino». «Cioè?» «Cioè diventavano possessivi. Se non proprio violenti. Uomini coltissimi, capaci di una violenza che non t’immagini. Io poi attiravo le sberle, sembrava che non potessero fare a meno di pestarmi». «E tu allora li lasciavi?»


«Macché. Di solito li consolavo. Andava avanti finché non ne incontravano un’altra e si innamoravano sul serio. Una femmina vera, questa volta. Allora venivano da me a confidarsi, perché ero pur sempre la loro migliore amica, no?» «Non ci credo, e poi?» Marta era riuscita a fare breccia nella sua curiosità. Ora, dell’amore negli anni Settanta, Sofia voleva sapere tutto. Ne chiacchierarono a lungo, con Marta che descriveva la propria carriera sentimentale come una striscia a fumetti, tra le botte che aveva preso, le bugie a cui aveva creduto e tutti i modi in cui era stata sfruttata, tradita, umiliata e piantata in asso, Sofia che diceva: «Non è possibile», oppure: «E tu? E lui?», oppure: «Ti prego, mi fai morire», e ogni volta che riusciva a farla ridere di nuovo Marta si incantava a guardarla. Dunque a Parigi si era persa qualche novità su sua nipote. «Non ti sembra poi tanto terribile?», chiese Roberto al telefono. «Allora senti qui». A dieci anni, per la prima comunione, Sofia era andata dal parrucchiere con la madre. Al ritorno aveva i capelli a caschetto come quelli di Rossana, ed era in lacrime. A casa si era chiusa in bagno, aveva preso un paio di forbici e se li era tagliati da sola, e quella fu l’ultima volta in cui qualcuno le mise le mani in testa. In prima media aveva convinto i professori che il nome sul registro era sbagliato, perché lei era soltanto in affidamento e non erano state ancora completate le pratiche di adozione. Perciò fino a quel momento avrebbero dovuto chiamarla con il


cognome della sua vera madre. «Che cognome era?», chiese Marta. «E chi se lo ricorda. I genitori adottivi, ti rendi conto? E il bello è che le avevano creduto tutti quanti». A quattordici anni era scappata di casa, dopo che le era stato proibito di uscire per una settimana. Non l’avevano trovata da nessuna parte. La polizia aveva interrogato i vicini e perfino dragato lo stagno del villaggio, perché lei aveva detto in giro che un giorno o l’altro si sarebbe annegata lì dentro. Venne fuori che gli amici la tenevano nascosta in soffitta. Pensavano di proteggerla dai suoi genitori. Erano convinti che Roberto fosse un fascista violento e Rossana una fanatica religiosa. «Be’, è vero che sei un fascista», commentò Marta. «Ma non ero un qualunquista democristiano?» «Ascolta, secondo me esageri. Il suo unico problema è che ha sedici anni. Ero così anch’io». «No», disse Roberto deciso. «Tu non eri così». E allora come?, avrebbe voluto chiedergli. Ma non lo fece. Girava per casa con il telefono tra la spalla e l’orecchio, in modo da avere le mani libere per fare altro. Mentre parlava con suo fratello fumava una sigaretta, svuotava la lavapiatti, passava un panno umido sul tavolo di vetro per togliere le ditate. «Sai cosa penso ogni tanto?», disse. «Che stia pagando per noi». «Pagando cosa, scusa?»


«Non riesco a separare tutti questi problemi che ha da quello che abbiamo fatto noi vent’anni fa». «Ma noi chi, Marta? Io non ho fatto un bel niente. Anzi guarda, credo proprio di avere dato molto di più di quello che ho preso». Capitò questo di buono: parlando di Sofia, cominciò a conoscere meglio Roberto. Suo fratello era molto cambiato dai tempi in cui aveva la media del trenta all’università. Il mito della carriera era stato la seconda, grande fregatura della sua vita, subito dopo un matrimonio che assomigliava più che altro a una punizione. In azienda Roberto si vedeva superare da colleghi più giovani e ambiziosi. Aveva avuto alcune promozioni, ma gli mancavano le qualità per fare il salto decisivo, e ormai si era rassegnato a occupare una posizione subalterna. Ne parlava con molta sincerità. Aveva rivalutato virtù come la mitezza e la tolleranza. Sapeva di non capire sua moglie, fraintendeva i suoi bisogni e ogni volta che discuteva con lei si scontrava con la propria limitata visione del mondo, però almeno la ascoltava. Citò a Marta un proverbio orientale che diceva più o meno: se la tua casa è spazzata da un uragano non chiuderti dentro, ma apri porte e finestre e lascialo passare. Marta ne fu sorpresa. Il suo vecchio fratello-bue che scopriva il buddismo zen. Ma ne sapeva abbastanza di uragani da apprezzare questo nuovo Roberto, sentire che era una persona con cui poteva finalmente parlare. Più tardi telefonava in clinica a Sofia. Intanto guardava una tribuna politica con il volume al minimo, caricava la biancheria


nella lavatrice. «Senti qua», disse Sofia, che stava leggendo Stanislavskij. «Ricordatevi che dello specchio bisogna servirsi con prudenza. Insegna all’attore a guardarsi fuori e non dentro». «Io gli specchi li eliminerei del tutto», commentò Marta, facendo partire il programma del bianco. «Ma cosa fai, la lavatrice? Alle dieci di sera?» «È che di giorno non ho tempo». «Ne ho viste altre di nevrosi, ma la tua è davvero da schizzati». «Non so di cosa parli, Sofia, davvero». «Di cosa parlo? Delle tue mutande, parlo. Se te le togliessi un po’ più spesso, non avresti bisogno di lavartele così tanto. Ricevuto il messaggio? Dovresti provare qualche volta». «Grazie del consiglio. Buonanotte, eh. Ci sentiamo domani». Nel letto si rigirava a lungo senza riuscire a dormire. Non ricordava più come fosse avere sedici anni: se pensava alla sua stagione di lotta, le sembrava di leggere la biografia di qualcun altro. Potevi anche conoscere a memoria i fatti, ma non era come averli vissuti. Soltanto i sogni a volte le ricordavano che era tutto vero, e allora si alzava e cercava qualcos’altro da pulire. Nei suoi pensieri Rossana si confondeva coi tanti amici dispersi. Alcuni avevano pagato molto e altri poco, nessuno ne era uscito indenne. Ma erano stati tutti liberi di scegliere, e padroni del proprio destino. Sofia invece non c’entrava nulla.


«Lo sai qual è il tuo problema?», le aveva detto una sera. «Un altro?» «È che tu sei comunista dentro. Voi siete come i cattolici, vi fate un culo così perché credete nel futuro. Io voglio essere felice adesso». Dalla clinica volevano buttarla fuori. Di notte girava per le stanze, e si era messa contro un paio di infermiere. Creava problemi su ogni regola ed era un pessimo modello per gli altri pazienti. Una mattina avvertirono Marta che quello era l’ultimo richiamo, poi qualcuno avrebbe dovuto pagare il conto e portarsela via. «Che cos’è, stai organizzando una sommossa?», le chiese durante la visita settimanale. «Non ce la fai a passare una giornata senza combinare guai?» Sofia rispose che lei non lo faceva mica apposta. È che con i tranquillanti che le davano, le era venuto il terrore di diventare come sua madre. A volte se la sentiva dentro, l’anima di sua madre, che spingeva per venire fuori, e allora doveva ricacciarla indietro con la forza. Spaccare qualcosa era un buon antidoto, ma anche insultare le infermiere funzionava. «Chissà cos’ha fatto poi di male tua madre», disse Marta. «Non so nemmeno da dove cominciare». «Secondo me ce ne sono tante, di cose che non sai». «Ah sì?», rispose Sofia. «Tipo segreti, cose così? Ti ho mai detto quante volte l’ho vista fare e disfare le valigie? Era la sua minaccia preferita. Gridava: “Io non ne posso più, io me ne


vado, capito?” Una volta doveva aver mischiato le pastiglie, ed è crollata a dormire proprio accanto alla sua valigia aperta. L’aveva appena riempita per scappare. Ma passavano le ore e lei non si svegliava, e a un certo punto ho pensato: è meglio se questa mio padre non la vede. Così ho rimesso via tutto. I vestiti, le scarpe. Avrò avuto dodici anni. Alla fine lui è tornato dal lavoro e lei si è alzata un po’ sconvolta, ma a quel punto si era pure calmata. Non ne abbiamo mai parlato. Tu le sapevi queste cose?» «No», ammise Marta. «Io non voglio diventare così». «Ma tu non sei così. Non c’è nessuna possibilità che lo diventi, credimi». «Lo pensi davvero?» «Certo». «Lo pensi davvero o lo dici solo per farmi stare buona?» «Se sapessi come farti stare buona non farei la giornalista», rispose Marta. «Farei la domatrice». Ne risero molto. Era da tanto tempo che a Marta non capitava di far ridere qualcuno così. Prima di incontrare Sofia, era convinta di non avere alcun senso dell’umorismo. «Ma non hai voglia di uscire di qui?», le chiese, quando le sembrò assurdo continuare a vedersi in quel parlatorio. «Smettere di essere controllata ogni momento, vivere la tua vita? Non c’è qualcosa che ti piacerebbe fare?» «Recitare», rispose Sofia, senza nemmeno pensarci su. «Potremmo cercare una scuola di teatro a Milano. Io


conosco un po’ di registi. Potrei anche ospitarti a casa mia, se mi prometti di non fare la pazza». «Secondo me resisti una settimana, e poi mi sbatti fuori». «Secondo me invece ci divertiamo», disse Marta, che ci pensava già da qualche giorno. Viveva sola da vent’anni e non era per niente sicura che sarebbe riuscita di nuovo a dividere il bagno con qualcuno, ma non vedeva altre soluzioni. Così un sabato prese la macchina e affrontò il viaggio che aveva sempre rimandato: attraversò Milano verso nord, superò il centro, i bastioni di Porta Venezia, corso Buenos Aires e l’infinita periferia dopo piazzale Loreto, varcò il confine della tangenziale e si ritrovò in un’altra città che prima non c’era, o almeno così sembrava a lei. Un’esplosione di palazzine, schegge di capannoni conficcate nei campi e scie di villette a schiera, e ogni tanto il cratere di un centro commerciale. In quell’orizzonte non c’erano punti di riferimento, e Marta si perse, chiese aiuto, tornò indietro e si perse di nuovo. Lagobello era come diceva Roberto, da fuori aveva l’aspetto di un parco recintato. All’ingresso c’erano le telecamere e lei dovette lasciare i documenti al custode, e poi aspettare che suo fratello venisse a prenderla al parcheggio. Seguendolo lungo i vialetti lastricati ripensò ai racconti di Sofia, ai suoi proclami politici contro la famiglia. Era tranquillo, il villaggio in cui era cresciuta, con i giardini curati e un sacco di spazio per i bambini, case dall’aspetto gradevole e nell’aria un buon odore, ma prevedeva una sola esistenza possibile, quella di una coppia sposata con un paio di figli e un cane. Lì non c’era


posto per persone come Marta, e forse nemmeno per quelle come Sofia. Rossana non era in casa. Meglio così, probabilmente. Roberto la fece accomodare in soggiorno e Marta riconobbe la mano che l’aveva arredato: i suoi vecchi colori preferiti – il giallo, il viola, l’arancione – una predilezione per le tinte calde e i materiali freddi come la plastica e il metallo. Il giardino oltre la portafinestra era rigoglioso. Anche l’interno dava la sensazione di una foresta pluviale, come se mobili e soprammobili fossero piante rampicanti e avessero allungato i tentacoli fino a occupare tutto lo spazio disponibile. O forse era Marta che si era abituata a vivere in stanze vuote. Discussero di pochi dettagli, Roberto firmò i documenti per le dimissioni e Marta rifiutò l’assegno che lui le offriva, e intanto fece amicizia con il cane di Sofia, che aveva capito tutto e voleva andarsene con lei. Roberto ogni tanto gettava uno sguardo in corridoio. Marta uscendo si convinse di avere sentito un rumore, e mentre si allontanava non resistette alla tentazione di alzare gli occhi verso il primo piano. Le tapparelle erano abbassate e protette da sbarre d’acciaio. «Ha così tante paure», le aveva detto Sofia, «che l’unico posto in cui si sente al sicuro è il suo letto. Decidere cosa cucinare per cena riesce a gettarla nel panico. Penso che non abbia mai scelto niente in vita sua, neppure di sposarsi o fare un figlio». Non c’erano dubbi che, alla fine, Rossana avesse trovato una stanza tutta per sé.


Quello che restò di loro due, nel paese saccheggiato della sua memoria, tra le carte bruciate, i nomi banditi, i conti dei torti e delle ragioni che non tornavano mai, era la volta in cui Rossana aveva allineato sul tavolo tutte le boccette e i flaconi, l’aveva fatta sedere e aveva detto: «Chiudi gli occhi. Chiudili, ti prego. Fidati di me». Aveva cominciato con il fondotinta, premendo con le dita nei punti in cui andava sfumato. Aveva applicato la cipria con un tampone e il fard con il pennellino, e Marta aveva provato la sensazione di essere uno dei suoi quadri. Sentiva sulla pelle la consistenza variabile dei materiali e la pressione dei polpastrelli, dita esperte, mani da pittrice. Forse si era addormentata, e se non era sonno era quel dormiveglia in cui si cade durante un massaggio, lo stesso tipo di fiducia rilassata. Rossana lavorava canticchiando, e la sua voce era cristallina. «Apri gli occhi», le aveva sussurrato svegliandola. Marta non sapeva quanto tempo era passato. Avrebbe preferito non guardarsi, non voleva rovinare quel momento perfetto. Si era truccata altre volte da sola e sapeva che si sarebbe trovata volgare, i lineamenti forti diventati patetici nel tentativo di addolcirli, come un ragazzo di strada costretto nel vestito buono, una commessa in libera uscita. Ma non aveva potuto evitare lo specchietto. Davanti a lei era comparso un androgino dalla pelle bianchissima, gli occhi un baratro nero, gli zigomi affilati sulle guance esangui. «È così che mi vedi?», aveva chiesto meravigliata. «Dovrei farti anche i capelli», aveva risposto Rossana. «La


prossima volta mi porto la lacca e il phon». Dalla sua borsa era comparsa una Polaroid, e le aveva scattato una fotografia che si era persa poco dopo, lasciata indietro nella fuga. Ma per qualche giorno era esistita. Era rimasta appiccicata allo specchio del bagno, dove ogni mattina mostrava a Marta chi avrebbe potuto essere e chi era, e forse era stata l’esistenza della foto a conservarle quel ricordo nel tempo, a mantenerlo vivido e inviolato. Nell’ottobre del 1994 Marta stava tirando a lucido le piastrelle del bagno quando sentì dei tonfi, come di tamburo, provenire dalle scale. Uscì sul pianerottolo, dove la sua vicina era già in allarme, e si sporse dalla ringhiera: cinque piani sotto, una ragazza vestita di nero dalla testa ai piedi trascinava una valigia più grossa di lei, issandola un gradino dopo l’altro e sbattendola sul successivo. Saliva le scale all’indietro e tirava la valigia con due mani come un rematore. «Sofia», gridò Marta dal pianerottolo. Sorrise e agitò il braccio. «È mia nipote», disse alla vicina, che era un’anziana vedova e tornò in casa brontolando. «Sofia, c’è l’ascensore». Sofia rispose qualcosa che Marta non capì. Era un po’ sorda per tutto il rumore che le era toccato sentire in gioventù. La ragazza mollò la valigia, mise le mani a megafono e gridò: «Non posso prenderlo, ho la claustrofobia». «Pure!», disse Marta. «Aspetta che scendo». «No no», rispose Sofia. «Faccio da sola». Tirò su il cappuccio della felpa, dentro cui il suo corpo


scompariva. Marta pensò che, se uno avesse provato ad acchiapparla, avrebbe stretto aria. Le tornò in mente la bambina che si nascondeva tra le gambe di sua madre. E adesso eccola qui, scossa da un attacco di bronchite, a fare irruzione nella sua vita. «Scale del cazzo», disse tossendo. «Sono in fase terminale». Si rifiutò di mettere le pantofole, ma la casa almeno le piaceva. Pochi mobili, muri spogli. In camera c’era un letto a due piazze, una pila di libri su una sedia. Nello studio, spingendo la scrivania in un angolo, il giorno prima Marta era riuscita a far entrare un divano. «Ti ho fatto spazio nell’armadio di là», le disse. «Ne usiamo uno in due, tanto io ho poca roba». «Tu qui ci lavori?», chiese Sofia. Marta rispose che lavorava un po’ a scuola, un po’ in radio e un po’ a casa, ma si sarebbe organizzata in modo da non disturbarla. «Non è più comodo se io mi metto in camera e tu di qua?» «Te lo scordi», disse Marta. Così Sofia cominciò a esplorare la sua nuova stanza. Osservò le foto di Parigi esposte sulla libreria: un boulevard percorso da un corteo, il lungofiume invaso dalle biciclette, un muro coperto di manifesti strappati, Marta in compagnia di uomini dall’aria francese e importante. Poi vide il quadro appeso sopra al divano. Era una madonna con bambino. Un campo di girasoli gialli le faceva da sfondo come un’esplosione di fuochi artificiali, e la madonna era nuda, con i


capelli lunghi che scendevano a coprirle il seno, una madonna hippy che somigliava parecchio a sua madre. Dunque il bambino era una bambina, e doveva essere lei. Sofia prese una sigaretta dal pacchetto che stava sopra la scrivania e l’accese. «Ti piace il tonno?», chiese Marta, che si sentiva emozionata come a un primo appuntamento. «Possiamo fare un’insalata con le olive, i pomodori e le uova sode». «È pulito da far paura qui dentro», commentò Sofia. «Oppure una frittata con le zucchine, che ne dici?» Questa volta avevano tutto il tempo, nessun inseguitore alle costole, nessun ostacolo alla possibilità di un’amicizia. «Io a pranzo non mangio», rispose Sofia, e spalancò la finestra per vedere che cosa c’era di sotto.


DISEGNATA DAL VENTO Poco prima che Emma lo lasciasse li mandarono a Singapore, il posto più lontano da casa in cui fossero mai stati insieme. Roberto attese quel viaggio per settimane. Mentre lei riposava in albergo lui chiese indicazioni al portiere e uscì a fare un giro, per levarsi di dosso il torpore del volo e vedere l’Oceano Indiano. Da uomo di pianura provava un senso di meraviglia per i porti: discese il lungofiume fino alla foce, oltrepassò il cantiere di un edificio in costruzione e di colpo si ritrovò davanti al mare, come in una città fortificata a cui le acque facevano da mura. Immaginò di essere partito dal 1991 e ripiombato all’epoca delle colonie. Osservò la selva delle gru, i motoscafi ormeggiati ai moli degli alberghi e i mercantili che prendevano il largo oltre l’isola di Sentosa, dove gli scaricatori malesi si spaccavano la schiena per la gloria delle multinazionali. Quella sera andarono a cena con i rivenditori cinesi. Distribuivano l’Alfa Romeo in mezzo continente asiatico. Al ristorante avevano fatto apparecchiare una lunga tavolata, otto italiani da una parte e otto cinesi dall’altra, ognuno di fronte al suo pari grado come in una partita a scacchi. Roberto occupava il posto dell’alfiere destro. Emma giù in fondo faceva la torre sinistra, e nel sedersi lui la vide stringere la mano a un giovane uomo elegante. Siccome le cose tra loro non andavano per niente bene, provò una fitta di gelosia notando il suo sorriso.


«Lei è il progettista della 164?», gli domandò il cinese seduto di fronte a lui. Aveva capelli grigio cenere e anche la pelle tendeva allo stesso colore, come succede ai fumatori incalliti. Senza aspettare il cameriere, aveva già preso lo champagne dal secchiello e riempito due calici fino all’orlo. «Ne ho progettata solo una parte», rispose Roberto. «Che macchina magnifica», commentò il cinese. «Magnifica». Alzò il calice in onore della 164. Roberto si unì al brindisi, assaggiò un sorso di champagne e lo trovò un po’ troppo dolce, rimise giù il bicchiere mentre l’altro vuotava il suo come se fosse acqua. Aveva l’aria di volersi ubriacare in fretta. Lo riempì di nuovo e disse: «Uno, sei, quattro. Ha qualche significato?» «Nessuno», rispose Roberto. «Era solo il codice del progetto». «Come pensavo io», disse il cinese, battendo con la mano sul tavolo. «Lei lo sa che qui abbiamo dovuto usarne un altro, perché non la comprava nessuno?» Roberto non lo sapeva. Bevve un altro sorso di champagne e si mise in ascolto. L’uomo gli spiegò che per i primi tre mesi le ordinazioni erano state un disastro assoluto. Non riuscivano a capire perché. Negli altri mercati la macchina andava bene, e non è che in Malesia mancassero i ricchi: solo che non erano malesi, ma cinesi di Canton. Fece questo commento ridendo, e Roberto vide che aveva anche i denti grigi. Scuri, come devitalizzati. Non poteva essere soltanto il fumo. Poi, proseguì l’uomo, si erano accorti che i pochi acquirenti facevano una


cosa strana: staccavano il numero dalla carrozzeria appena usciti dal concessionario. A Malacca e Kuala Lumpur giravano queste 164 senza nome. Allora avevano indagato e scoperto che cosa c’era sotto. «Che cosa c’era?», chiese Roberto, toccato nel vivo. In segreto considerava quella macchina una sua creatura. Era la cosa più vicina a un figlio che lui ed Emma avessero mai avuto. Ci avevano lavorato insieme per quattro anni, ed era stato il periodo più felice del loro rapporto. «Superstizione», disse il cinese in tono sprezzante, come uno scienziato mandato a lavorare tra i cannibali. «In cantonese ogni cifra corrisponde a un concetto ben preciso. Così un numero di tre cifre può formare una frase, mi segue? L’uno è l’identità, è come dire io. Il sei è il verbo essere. Perciò io sono, giusto?» «E il quattro?», chiese Roberto. «È il numero peggiore di tutti. Provi a indovinare». «Non saprei. Sfortuna?» «Peggio», disse il cinese. «Rovina. Distruzione». «Ancora peggio». «Che cosa c’è di peggio? La morte?» Il cinese annuì vigorosamente. «Io sono morto», mormorò Roberto, e il cinese alzò il calice con entusiasmo. «Io sono morto!», esclamò. «Uno sei quattro!» A gesti lo invitava a brindare. Ora non rideva più: aveva la


fronte sudata e gli occhi ardenti degli ubriachi. Roberto capì che esigeva da lui una prova, la conferma che stavano dalla stessa parte nella lotta tra civiltà e barbarie. Cercò il sostegno di Emma in fondo alla tavolata, ma erano lontani i tempi in cui gli bastava alzare lo sguardo per incrociare il suo: lei stava spiegando qualcosa di tecnico, e per aiutarsi tracciava dei segni con un dito sulla tovaglia. Intanto il cinese era lì con il bicchiere a mezz’aria, l’ennesimo cliente da accontentare: Roberto si rassegnò a sollevare il calice e brindò alla morte in compagnia di quell’uomo grigio. Era entrato in Alfa Romeo nell’inverno del 1975, come uno che arriva a una festa quando la musica è appena finita: l’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili aveva ballato forte negli anni Cinquanta e Sessanta, mentre l’Italia intera veniva asfaltata e motorizzata, ma le proteste sindacali del ’69 erano state le prime note lugubri, e la crisi petrolifera del ’73 aveva sollevato la puntina. Però di questo, a ventisei anni, Roberto Muratore non sapeva molto. Scese dalla corriera davanti allo stabilimento di Arese, il passo rigido e i capelli cortissimi da sottufficiale di artiglieria in congedo, si accodò al flusso di impiegati e operai diretti verso l’ingresso, varcò i cancelli della fabbrica e subito dopo si perse. Lì non c’era nessuno a gridare ordini e smistare la gente a destra e a sinistra. Durante il colloquio, ventimila lavoratori gli erano parsi semplicemente troppi da immaginare. Ora invece quel numero aveva un aspetto ben preciso: era una città dentro una fabbrica.


Roberto vagò smarrito tra la Fonderia e le Grandi Presse, l’Abbigliamento Vettura e l’Assemblaggio, e infine conobbe il suo primo collega ai Gruppi Meccanici. Si chiamava Giuseppe Russo. Portava un paio di baffoni neri da bandito siciliano. Spiegò a Roberto che era entrato dalla portineria sbagliata, lo accompagnò davanti al Centro Tecnico e lo affidò alle cure di una segretaria. Lo salutò con una battuta che doveva aver usato altre volte: «Qui puoi vederla in due modi, è una famiglia o una galera. Quelli della galera li riconosci, sono incazzati neri. Io sono un tradizionalista, sono per la famiglia». Disse così, gli mollò una pacca sulla schiena e scoppiò in una risata poderosa, e tornò in reparto poco prima che suonasse la campana d’inizio turno. Due giorni dopo, mentre ancora Roberto cercava di capire quali fossero le sue mansioni, gli uffici furono invasi da un corteo di tute blu. Suonavano fischietti e portavano a tracolla dei bidoni di latta, che percuotevano con le chiavi inglesi facendo un baccano d’inferno. Buttavano giù tutto dalle scrivanie e gridavano crumiri. Roberto era in bagno in quel momento. Raggiunto dal frastuono della sommossa, non trovò di meglio da fare che nascondersi in uno dei gabbiotti. Fu stanato da una specie di vichingo, barba e capelli gialli come la paglia secca, che spalancò la porta e gli gridò in faccia: «Crumiro, perché non scioperi?» Obbedendo a un riflesso condizionato, Roberto batté i tacchi e si mise sull’attenti. Per il vichingo fu peggio che un pugno sul muso. Lo squadrò dalla testa ai piedi e poi lo lasciò lì, sull’attenti nel bagno degli


uomini come un mezzo matto, e andò a raggiungere i compagni che davano l’assalto ai piani alti. Quelle erano le sue razioni di stupore quotidiano. Ogni numero gli sembrava enorme, ogni ambiente smisurato, la fabbrica percorsa da forze ingovernabili. Producevano duecentomila macchine all’anno. Erano fatte di metallo, vetro e materie plastiche, che entravano a tonnellate sui treni merci e uscivano in forma di automobili allineate e lucide nel silos vetture. Il pezzo forte della casa all’epoca era la Giulia: in produzione da dodici anni, un milione di esemplari venduti. Ma in catena di montaggio scorreva il tempo presente, alla progettazione vedevano il futuro. Rispetto alle macchine in circolazione, quelle che nascevano lì dentro sembravano astronavi: le forme tonde si facevano spigolose, il muso si allungava e si abbassava, il vano posteriore era schiacciato fin quasi a scomparire. Stavano preparando una rivoluzione, ed era eccitante farne parte seppure in modo marginale: anche studiando il problema delle vibrazioni ad alti giri, o l’usura del blocco trasmissione e cambio nei nuovi modelli a trazione anteriore. Quando si concentrava su questo, Roberto riusciva a isolarsi completamente. Dai modi dittatoriali del suo capo, dal mormorio di fondo dell’ufficio, dagli scioperi che a giorni alterni agitavano la fabbrica. Osservando un disegno abbastanza a lungo arrivava a vederlo assumere profondità e movimento, e si ritrovava in uno spazio bianco in cui c’erano solo lui e il glorioso bialbero Alfa, ogni parte collegata alle altre, ogni effetto una causa. Come un compositore a cui basta


scorrere il pentagramma per sentire una melodia, lui studiando uno schema meccanico vedeva il motore in azione. «Torna tra noi, Muratore», gli dicevano i suoi colleghi schioccando le dita. «Che cosa fai, vieni a mangiare?» «Finisco qui e arrivo», rispondeva Roberto, strizzando gli occhi su quello stanzone affollato, tra i tecnigrafi e le luci al neon, le ampie finestre affacciate sulla pista di collaudo. I colleghi scuotevano la testa e se ne andavano in mensa. Erano giovani uomini del tutto simili a lui, camicie bianche e grandi ambizioni, con cui Roberto non andò mai al di là dei rapporti professionali. Gli era successa la stessa cosa all’università e al militare. C’erano codici di comportamento e gerarchie, nei gruppi di maschi, da cui preferiva stare alla larga: e il branco, dopo avere provato invano ad assorbirlo, decise di lasciarlo ai suoi sogni di motori. Un amico però ce l’aveva. Quando un problema sembrava resistere a tutti i suoi attacchi, e l’astrazione degli schemi diventava intollerabile, Roberto si alzava dalla scrivania e scendeva ai Gruppi Meccanici. Fu Giuseppe Russo a spingerlo a mettere le mani nei motori. Roberto imparò che nella realtà erano caldi e sporchi, borbottavano e cantavano ognuno con la sua voce, e a volte ascoltando la voce capivi che cosa avevano da dirti. Cominciò ad apprezzare perfino l’odore dell’officina, a ricordarsi i nomi degli operai che incontrava e a decifrare i dialetti. Il pugliese, il siciliano. Era come stare su un transatlantico e scendere dalla seconda alla terza classe. O come diceva Giuseppe, la fabbrica aveva il Nord nel cervello


e il Sud nel cuore: perché la nobile signorina Alfa portava nello stemma il biscione di Milano, ma era stato Nicola Romeo, ingegnere napoletano, a condurla all’altare, e da allora la bellezza delle sue forme aveva fatto scuola tanto quanto l’efficienza del suo motore. Gli raccontava queste cose in mensa, mentre giocavano a carte nella mezz’ora libera dopo pranzo. Lo sapeva, Roberto, che fu il signor Henry Ford in persona a dichiarare: «Io mi tolgo il cappello quando vedo passare un’Alfa Romeo»? Lo sapeva che due piloti erano appena andati da Capo Nord, in Norvegia, fino al Capo di Buona Speranza in Sudafrica, a bordo di un’Alfetta di serie, senza avere la minima noia meccanica ma cambiando solo le gomme ogni tanto? E che quel bialbero a sei valvole inclinate era lo stesso fottutissimo cronometro da quando lui portava i calzoni corti? «Gioca», gli diceva Roberto, dopo aver preso confidenza con le regole del tressette. Ora passava le giornate a smontare motori tedeschi per capire com’erano fatti, e alla favola dell’eccellenza aziendale aveva smesso di credere da un pezzo. Nel maggio del 1977 andò in ferie per una settimana, cosa insolita per uno che avrebbe lavorato anche a Natale. Al suo ritorno appese una cornice accanto alla scrivania: dentro c’era una bella ragazza mora, Rossana, sorriso aperto da adolescente e un gonfiore sospetto sotto il vestito da sposa, e infatti pochi mesi dopo alla prima foto se ne aggiunse un’altra, e quel minuscolo alieno rugoso era Sofia. Dove l’aveva trovata, una


moglie, un tipo come Roberto Muratore? Non lo sapeva nessuno e nessuno fu mai invitato a conoscerla: l’ostinazione con cui Roberto proteggeva la sua vita privata era un muro invalicabile. Marito e padre di famiglia, decise che era giunto il momento di lasciarsi alle spalle treni e corriere e comprare la sua prima automobile, un’Alfetta bianca, usata, trovata tra gli annunci in bacheca, con cui percorreva quotidianamente i quindici chilometri di coda e ritorno tra Milano e Arese. In quel periodo cominciarono i sabotaggi. Succedeva di notte, nonostante la sorveglianza: all’accensione degli impianti un macchinario risultava manomesso, e la produzione si fermava per giorni. Alle Presse, tra gli operai che andavano e venivano come se niente fosse, comparve uno striscione con la scritta La fabbrica ai lavoratori, e al posto della firma la stella a cinque punte. Lo stesso simbolo siglava un volantino in cui si facevano nomi e cognomi di alcuni dirigenti, e richieste ben precise: sospensione dei tagli al personale, abolizione degli straordinari, eliminazione delle strutture di controllo interne. I capi in questione sperarono che fossero minacce campate per aria. E così al primo della lista venne incendiato l’ufficio, al secondo l’automobile. Qualcuno a quel punto prese paura e chiese il trasferimento, qualcun altro cominciò a venire al lavoro con la scorta. Ci furono anche quelli che continuarono a fare i duri, e si ritrovarono con una pistola puntata alle ginocchia. I colleghi di Roberto riuscivano a ignorare la guerra in corso, lui invece ci stava male. Quella era la trincea in cui gli


toccava calarsi ogni mattina, e l’ansia certi giorni gli prendeva lo stomaco fino a fargli vomitare il pranzo. Tornava a casa pallido, sfinito. Se Rossana faceva domande, Roberto cambiava discorso o rispondeva rabbioso. «Leggi i giornali», diceva. «Fatti un giro per Milano, guarda cosa c’è scritto sui muri. Che cos’altro vuoi sapere?» Voleva sapere che un dirigente era stato rapito davanti a casa sua? E che ormai la mattina davanti ai cancelli ci trovavi la polizia? E che, nonostante questo, avevano sparato dieci colpi alle gambe al direttore della Verniciatura, proprio lì, dentro il reparto, e che in mensa avevi visto un gruppo di operai brindare alla notizia? Rossana, esclusa dall’altra metà della vita di suo marito, cominciò a trattare la fabbrica come un nemico personale. Gli telefonava al lavoro con un pretesto, e il tono delle risposte di lui era talmente infastidito che spesso litigavano già per telefono, solo un anticipo di quello che andava in scena più tardi a casa. Roberto la accusava di compiere intrusioni premeditate. Sembrava che le piacesse proprio, il suono della sua voce mentre diceva: «Sono la moglie di Roberto Muratore, posso parlare con mio marito?» Offesa dall’imitazione in falsetto, Rossana gli disse di non dare la cosa troppo per scontata, perché poteva sempre succedergli di tornare, una sera, e non trovare più nessuno, né moglie né figlia né niente. Senza vederlo partire le arrivò un ceffone carico di paura e di rabbia. Fu il primo e l’ultimo del loro matrimonio, perché anche Roberto si spaventò per la forza che ci aveva messo


dentro. Rossana smise di chiamare del tutto. Il numero ce l’aveva sempre lì, appuntato vicino al telefono, ma con il tempo divenne come quello dell’ambulanza, qualcosa che speravi non ti dovesse mai servire. La sua nuova frase preferita era Lascia il lavoro fuori dalla porta. E Roberto non chiedeva di meglio che una porta, massiccia e dotata di un solido chiavistello, a separare due esistenze che non sarebbe mai riuscito a tenere insieme. Il 19 settembre 1980, dopo cena, si alzò da tavola e rimise la giacca, ignorò il silenzio ostile di Rossana che lavava i piatti, diede la buonanotte alla piccola Sofia, prese la macchina e tornò in fabbrica. Aveva un appuntamento con Giuseppe, ma c’era molta più gente di quanto immaginassero e fu impossibile trovarsi. Una gran massa di operai fluiva dentro al capannone 6, dove quella mattina avevano montato un palcoscenico e disposto lunghe file di panche. Entrò anche lui, sentendosi un infiltrato. Nelle due ore successive assistette alla Filumena Marturano interpretata da Eduardo De Filippo, che il Consiglio di Fabbrica aveva invitato a fare un regalo ai lavoratori, colpiti quell’anno da massicci tagli al personale. Una settimana prima, a Torino, la Fiat aveva annunciato quindicimila licenziamenti, e lo sciopero generale era scattato immediato. A Mirafiori squadre di operai picchettavano i cancelli giorno e notte. Ad Arese seguivano il braccio di ferro attraverso i canali interni al sindacato, sapendo bene che dopo sarebbe toccato a loro: come un secondogenito che spia i litigi


tra suo fratello e suo padre, per capire fin dove può spingersi e quali punizioni aspettarsi. Quella sera Roberto si ritrovò a osservare più spesso il pubblico che la commedia. Ogni risata era un boato, ogni applauso faceva tremare il capannone. Erano in diecimila lì dentro. Nemmeno il silenzio era il normale silenzio di un posto vuoto: durante il monologo finale di Filomena, quando nessuno più muoveva un muscolo per la commozione, a Roberto sembrò di sentire intorno a sé come un mantice cavernoso e potente, il gran respiro della fabbrica. Questo sì, avrebbe voluto raccontarlo a Rossana. Era come stare nella pancia di un pachiderma addormentato. Tutto quel buio intorno, e il fiato caldo e umido di diecimila persone che ti sentivi addosso. Alla fine dello spettacolo Eduardo non riusciva più ad andarsene, perché ogni singolo operaio voleva passare a ringraziarlo e stringergli la mano. Roberto invece uscì durante l’ultimo applauso, guidò verso Milano nelle strade vuote, a casa si spogliò in silenzio e si infilò nel letto senza accendere la luce, restando sveglio a lungo accanto a Rossana che dormiva. Il 14 ottobre, dopo trentacinque giorni di sciopero, quarantamila impiegati della Fiat manifestarono per le strade di Torino contro i loro stessi colleghi, reclamando il diritto di tornare al lavoro. Con la fabbrica spaccata in due, il sindacato non poté fare altro che arrendersi. Tre giorni dopo le automobili ricominciarono a uscire dalla catena di montaggio, gli ingegneri a fare calcoli e progetti, gli operai non specializzati a pressare lamiere, i disoccupati a cercarsi un


nuovo impiego, e con qualche mese di ritardo gli anni Settanta erano passati alla storia. Emma Di Lorenzo arrivò insieme ai computer nel 1982. Aveva ventiquattro anni e un cappottino blu che dimenticava sempre sugli schienali delle sedie. Adesso era Roberto a conoscere il labirinto a memoria, indirizzare i nuovi assunti che vagavano per i corridoi. «C’è un modo per uscire da questo posto?», gli chiese lei esasperata, la prima volta che si incontrarono davanti alla macchina del caffè. «Bisogna fare domanda scritta al capo del personale», rispose Roberto, ma non le strappò nemmeno l’ombra di un sorriso, e la voglia di fare lo spiritoso gli passò di colpo. In compenso si rivelò il suo miglior allievo. Gli altri ingegneri non avevano nessuna voglia di abbandonare il tecnigrafo per imparare a disegnare su un monitor, ricominciando dal cerchio e dalla linea come bambini in prima elementare. Roberto invece dopo qualche giorno impugnava il pennarello elettronico con la scioltezza del rapido a china. Emma lo guidò nelle meraviglie tridimensionali del programma di progettazione: c’erano possibilità molto più vaste di quanto avesse sospettato, ed era chiaro che il suo lavoro sarebbe cambiato per sempre. Con tutto quello che aveva da imparare, non si accorse subito di lei. Era una di quelle persone che potresti avere di fronte in treno, e poi, dopo che sono scese, non riuscire più a dire se lì c’era seduto qualcuno o no. Portava scarpe basse, i capelli sempre raccolti e spessi occhiali dalla


montatura nera, da studentessa abituata a passare le notti sui libri. Però aveva una bella voce morbida. E una volta, mentre erano davanti al computer a lavorare, a Roberto cadde un po’ di cenere di sigaretta sulla manica della giacca, Emma la spazzò via con il dorso delle dita e a lui sembrò che si conoscessero da anni. Si accorse che gli piaceva sentire la voce di lei che gli dava istruzioni. La osservava di nascosto nel riflesso dello schermo: quando il programma non obbediva a un comando le spuntavano due rughe contrariate sopra il ponticello degli occhiali. Nei momenti di stanchezza li alzava sulla fronte, si massaggiava le palpebre e poi guardava fuori dalla finestra. «Ma come si fa ad avere una macchina del genere e rinunciare al piacere di guidarla?», si domandò una sera, vedendo un dirigente allontanarsi sulla sua Montreal con autista: e Roberto capì perfettamente che cosa intendeva dire. Dentro quel guscio c’era una perla e lui ne aveva intravisto il bagliore. Quello era il periodo in cui i problemi di Rossana stavano rompendo gli argini del brutto carattere per allagare un terreno più esteso e preoccupante. Un giorno minacciava di lasciarlo e il giorno dopo in lacrime gli chiedeva perdono. Non chiudeva occhio per tre notti di fila e poi dormiva un’intera domenica, proprio quando avrebbero potuto stare un po’ insieme. Diceva di avere solo bisogno di trovarsi un lavoro, o di cambiare casa, o di fare un altro figlio, o di passare più tempo con lui o di passarlo da sola, senza Sofia che da cinque anni era la sua unica compagnia. E poi un sabato si comprava


un vestito, andava dal parrucchiere, riempiva la casa di fiori, gli preparava una cena superba e sembrava dire che era tutto risolto, i problemi soffiati via come nuvole da un cielo di aprile. Roberto si era ormai rassegnato a pensare che fosse quello, l’amore degli adulti: un esercizio di indulgenza e tolleranza, abituarsi ai difetti di un’altra persona e infliggerle i propri, caricarsi sulla schiena il fardello della sua infelicità. Ed ecco che, quando meno se l’aspettava, si ritrovò a svegliarsi prima del tempo la mattina, ad alzarsi dal letto impaziente di andare al lavoro, ad annusare l’aria quando entrava in ufficio per capire se Emma era già arrivata oppure no, e passare un’intera giornata senza vederla, magari, ma sapendo in ogni momento dove lei si trovava, e come incrociarla fingendo un incontro fortuito. La faceva arrossire o cadere in preda agli starnuti, a volte anche dieci di fila. Non fosse stato un tale analfabeta in fatto di linguaggio del corpo, avrebbe capito che il suo sentimento era ricambiato. Invece erano entrambi timidi e senza l’occasione giusta Roberto avrebbe continuato a corteggiarla così, a colpi di piccole cortesie cavalleresche, fino a quando un predatore più rapace non fosse piombato a portargliela via. Per fortuna fu l’azienda a pensare a loro. In autunno li spedì a Napoli per due settimane, per trasferire al computer i progetti dell’Alfa 33 che stava entrando in produzione a Pomigliano d’Arco. Un segno del destino: la città d’origine di Emma era la stessa in cui l’Alfa Romeo aveva il suo secondo stabilimento. Arrivarono che era già buio, affamati dopo il lungo viaggio in


treno. Diedero al tassista l’indirizzo dell’albergo e poi gli chiesero consiglio per la cena: lui li portò a Santa Lucia, tra le mura del vecchio castello e il mare, nel tipico ristorante per turisti. Entrò a parlare con il proprietario e Roberto fu sicuro che li avrebbero spennati, ma quella sera non gliene importava niente. Davanti a un antipasto di pesce, un po’ per la stanchezza e un po’ per il vino, per la prima volta Emma gli raccontò di sé: disse che a Napoli c’era soltanto nata. I suoi genitori si erano trasferiti a Milano quando lei aveva pochi mesi. Stando alle foto del matrimonio, prima della gravidanza il corpo di sua madre era robusto ma tutto sommato normale, dopo invece non era più riuscita a smettere di ingrassare. Suo padre, che per molto tempo aveva fatto l’operaio, si mise in proprio appena ebbe i soldi per comprarsi un camion. Aveva amici camionisti e quello era sempre stato il suo sogno di libertà. Cominciò a battere le strade del Nord Europa intanto che sua moglie metteva su chili e sua figlia scopriva una passione per la matematica. Quando Emma uscì dal liceo a pieni voti, i viaggi del padre duravano ormai settimane. Quando si laureò in ingegneria lui era sparito del tutto, mandava solo un po’ di soldi ogni tanto, e la madre, obesa patologica, faticava perfino a uscire di casa. Adesso era Emma a badare a lei: ed ecco la triste storia della sua vita fino a quel momento. Dicendolo sorrise e insieme si commosse, Roberto le prese la mano e furono di colpo molto vicini. Si abbracciarono, anche se non era esattamente quello che volevano fare. Venne fuori un gesto un po’ goffo per via della tovaglia e dei bicchieri. I camerieri


li tenevano d’occhio: avevano visto la fede al dito di lui, pregustavano la scena. Dopo un abbraccio lungo un minuto Roberto confessò: «Non so bene cosa fare adesso». «Forse potremmo provare a baciarci», propose Emma, «e vedere come va». «D’accordo», disse lui. Abituato alle labbra di Rossana, che erano spesse e carnose e davano baci morbidi, scoprì quella sera i baci dati con muscoli e denti, baci duri. Anche a letto era tutto diverso. Roberto aveva imparato il sesso come un gioco di equilibrismo, un camminare sul filo dell’eccitazione di sua moglie, che saliva, scendeva, raggiungeva l’apice solo quando governava lei e bastava una mossa sbagliata per farla crollare del tutto. Emma invece gli si arrese completamente. Aveva una pelle sciupata, come se fosse stata sempre coperta dai vestiti, e un corpo che non poneva alcuna resistenza. A Roberto sembrò che gli dicesse: fammi quello che vuoi. E prenditi cura di me. Per il resto della trasferta non si staccarono più. Negli anni l’avrebbero ricordata come la loro segreta luna di miele. Di un’altra cena al ristorante, una serata passata insieme o un breve viaggio, di un qualsiasi momento felice avrebbero detto: «Sembra Napoli». Scrissero in quei giorni le scene che avrebbero rivissuto molte volte, raccontandole a se stessi o all’altro in versioni perfezionate. Ci sarebbero state le battute di dialogo: «Signorina, più fresco di così il pesce nuota». E le comparse: il tassista losco, il violinista stonato, il cameriere che agitava il branzino fingendo che fosse vivo, la direttrice


dell’albergo che li guardava male, il collega che non aveva capito niente. Il conto del ristorante aveva provocato a Roberto un attacco di riso. Era un autunno tiepido in città, di sera erano tutti per strada. Loro due avevano sempre sonno ed era dolce vedere l’altro sbadigliare in pieno giorno. E poi c’era il letto della stanza di Emma da disfare per finta ogni sera, la ripresa fulminea dell’Alfa 33 che le fruttò il soprannome di macchina da rapina, e quell’intera domenica trascorsa a Capri e passata alla storia, la loro, come la giornata perfetta. Tutto nitido, scritto nella pietra, pronto per essere usato nei tempi duri. Poi tornarono a Milano. Roberto pensava che il momento più difficile sarebbe stato il primo. Sulla porta di casa Rossana avrebbe assunto un’espressione sospettosa, gli avrebbe preso la testa tra le mani, osservato le pupille da vicino come un oculista e chiesto: «Che cos’hai fatto?» Invece lei era tutta contenta. Quella mattina al mercato aveva trovato i porcini e gli aveva preparato il risotto con la salsiccia e i funghi, uno dei suoi piatti preferiti. Gli mostrò il quadro che aveva dipinto mentre lui non c’era e gli raccontò della festa che aveva organizzato per i compagni di classe di Sofia. In cambio un giorno l’aveva lasciata da una delle altre madri e se n’era andata a una mostra, e Roberto capì che era fiera di sé per essere riuscita a fare queste cose, stare due settimane da sola e stare bene. «Mi sa che vivi meglio senza di me», le disse, fingendo che


fosse una battuta. Come in effetti lei la prese, perché gli buttò le braccia al collo e lo riempì di baci dicendo: «Ma quanto sei bello? Come ho fatto a trovare un marito così bello? Mi sopporti ancora un po’ se mi impegno a migliorare?» Quella sera Roberto rimase a lungo davanti allo specchio del bagno, ma non per valutare la propria bellezza. Si accorse che, se respirava profondamente e si rilassava, il suo volto raggiungeva una specie di grado zero dell’espressività, in cui potevi leggere niente o qualunque cosa. Aveva temuto di avere la verità scritta in fronte, invece l’uomo nello specchio era un tranquillo trentaquattrenne borghese, senza grandi passioni né terribili segreti, di certo incapace di mentire, e decise che se gli altri lo vedevano così a lui andava più che bene. Con Emma cominciarono la vita degli amanti clandestini. In ufficio lavoravano ai progetti della 164, ed erano seduti fianco a fianco per tutto il giorno. Il problema era incontrarsi altrove. Vedersi la sera, o addirittura passare una notte insieme, era fuori discussione per entrambi. Solo una volta presero mezza giornata di permesso e se ne andarono in un motel, ma non piacque a nessuno dei due e non ci tornarono più: la donna all’accettazione, l’arredo della stanza, l’aria logora che avevano e la consuetudine verso i vizi degli ospiti, rendevano sordido anche il loro rapporto, lo mortificavano. Così quell’inverno fecero spesso l’amore in macchina, nascosti nei campi intorno ad Arese come due adolescenti, quando uscivano dall’ufficio ed era già buio. Poi, passata la smania iniziale e giunta la primavera, preferirono non rischiare. Si baciavano in


ascensore, e per il resto aspettavano una trasferta. Ma soprattutto si amavano con la testa: Roberto non aveva mai immaginato che si potesse pensare in due, però era proprio questo che gli succedeva con Emma. Discutevano di progetti anche in mensa. Uno esponeva un’idea ad alta voce e l’altro ne smascherava i punti deboli, ribaltava la prospettiva, alzava il tiro del ragionamento ottenendo quasi sempre un’idea migliore. Erano questi i loro momenti d’intimità, e pazienza se non avvenivano dentro un letto. In due anni depositarono diversi brevetti e cominciarono a farsi strada in azienda. Furono mandati ad Atene nell’83 e a Johannesburg nell’84: tre settimane in tutto, una ventina di giorni che riuscirono a passare come una coppia vera. Nel 1985, indebitandosi fino al collo, Roberto comprò una villetta in un complesso residenziale poco lontano da Arese, e così accontentò Rossana che era cresciuta in campagna e non ne poteva più della città. Prima di spendere tutti i suoi risparmi, però, mise da parte un milione di lire e aprì un conto in un’altra banca, e quello nella sua testa era il fondo di emergenza per Emma, in caso che lei o sua madre ne avessero avuto bisogno. Continuò ad alimentarlo con una piccola cifra ogni mese. Quei soldi sottratti all’economia domestica soddisfacevano la sua idea di giustizia: se all’inizio della relazione con Emma aveva temuto di andare in crisi, e non riuscire a reggere la doppia vita, con il tempo scoprì invece che la bigamia gli era congeniale. Non si sentiva un adultero, piuttosto un uomo devoto a due mogli. Amarne due gli veniva naturale come


andare ogni giorno dalla casa alla fabbrica, senza che un amore pretendesse per forza la fine dell’altro. Non gli venne mai in mente la possibilità opposta, cioè che avere due donne fosse come non averne neanche una. Emma del resto non gli chiedeva molto. Non pensava a un marito, né a fare dei figli, né tantomeno a una villetta con giardino. Fuori dall’ufficio la sua vita era occupata dalla mole di sua madre. «Ti ricordi», gli disse, «di quando mi hai raccontato della tua bambina? Quando lei stava nell’incubatrice e tu lì fuori a guardarla, e la cosa più difficile era stata pensare a te stesso come padre? Come se fosse cambiato il tuo posto nel mondo, l’ordine delle cose che avevi sempre conosciuto. Hai detto che hai dovuto riscrivere la mappa da zero. Io ho capito che cosa intendevi, sai? Perché non posso pensare a me stessa in nessun altro modo che come figlia. Finché c’è lei, io devo occuparmi di mia madre. È quello il mio posto. Uno può viverlo come una condanna, oppure provare a essere contento di farlo. È così anche il mestiere di padre, no?» Lo spaventò, quella volta, accorgersi di quanto Emma lo sopravvalutava. Lui il mestiere di padre l’aveva semplicemente delegato alla madre. Sapeva di non meritarsi la sua ammirazione, era come Rossana quando gli diceva che era bello: le donne si costruivano un’immagine di te ed era quella che amavano, finché non si stancavano dell’immagine oppure l’immagine si discostava tanto dalla realtà da non essere più credibile ai loro occhi, ma quello era un momento a cui Roberto preferiva non pensare.


Nel 1986 lo Stato italiano decise di liquidare alcune partecipazioni industriali, e dopo mesi di trattative, ingerenze politiche, accordi sindacali preventivi, l’Alfa Romeo venne acquistata a prezzo di favore dai concorrenti storici della Fiat. Era Roma, che svendeva Milano a Torino. O secondo Giuseppe Russo, fu come cedere un ristorante francese a una catena di pizzerie. Lui temeva che l’avrebbero messo a costruire utilitarie, la Panda, la Uno e altre baracche del genere, ma il progetto era molto più crudele di così: bruciare i mobili, licenziare cuochi e camerieri, speculare con la cessione dei locali e portarsi via l’insegna come trofeo. Solo che non lo potevano fare subito. Ma si capì in fretta che aria tirava: nel 1987 furono tagliati seimila dipendenti, per la maggior parte operai, tutti con l’anzianità sufficiente per la pensione, e Giuseppe era nella lista. Aveva quarantanove anni, di cui trentacinque passati lì dentro. C’era arrivato da ragazzino attraverso la scuola aziendale. Trascorse l’ultima settimana svolgendo le solite mansioni, ma voltandosi spesso a controllare l’ingresso del reparto. Sembrava che aspettasse qualcuno. Il venerdì sera, alla consegna del cartellino, non gli venne risparmiata la prassi della perquisizione, visto che l’ultimo giorno di lavoro gli operai rubavano di tutto, dai cacciaviti alle forchette della mensa. Il guardiano gli controllò le tasche e la borsa, poi lo cancellò da un elenco e avanti il prossimo. «Ma cosa mi credevo?», disse Giuseppe, quando Roberto andò a trovarlo a casa. «Che mi dicessero grazie? Stavo lì a


contare i giorni che mancavano e mi pareva impossibile che finisse in niente, alle cinque di un cazzo di venerdì. Magari mi aspettavo una sorpresa. Sai come le feste dove tutti si nascondono nell’altra stanza? Ecco, una cosa così. Io che apro la porta e saltano fuori il presidente, l’amministratore delegato, e giù tutti fino al capo del personale, a dirmi Russo, ti ringraziamo, è stato un onore lavorare con te per tutti questi anni. È una bella fantasia, no? Che coglione». Erano seduti in salotto, al settimo piano di un palazzone del Gallaratese. Divani ricoperti di tessuto a fiori, muri tappezzati dalle foto dei figli. La moglie di Giuseppe servì il caffè su un vassoio d’argento, intimorita dalla presenza dell’ingegnere, e tornò in cucina subito dopo. Tra le dita enormi di Giuseppe tutto sembrava come quei servizi delle bambine: la tazzina, il piattino, il cucchiaino. Era fuori misura per fare il pensionato. «Hanno ragione quelli di adesso», aggiunse, porgendo lo zucchero a Roberto. «Quelli che cambiano lavoro ogni cinque anni, e vanno da chi paga di più. Che cazzo ti credi, che è tua la fabbrica? Non è mica tua. È tutta roba loro, non te lo dimenticare». Si sentirono ancora una volta, per telefono, pochi mesi dopo. Giuseppe adesso lavorava nell’officina di suo cognato, e sembrava aver recuperato l’antica allegria. Roberto gli promise di andare a salutarlo, però non lo fece mai. Non trovava il coraggio di dirgli che nel frattempo, grazie al successo della 164, era stato promosso a dirigente. E che mentre seimila suoi ex colleghi affondavano nei loro divani a


fiori, portavano a spasso il cane e si rincoglionivano coi programmi del mattino, a lui avevano raddoppiato lo stipendio e concesso l’auto aziendale, la segretaria e un ufficio tutto per sé. Non che fosse una colpa, però come poteva raccontarlo a Giuseppe? Lo pensò felice, steso sotto il pianale di una macchina a controllare sospensioni e freni, e non lo vide più. Quando uscirono a cena per festeggiare la promozione, Rossana gli fece un giuramento solenne. Era come se la sua vita si fosse fermata al 1977, disse, ma ora voleva ricominciare da dove aveva smesso. Prendere la patente, prima di tutto. Rendersi autonoma e meno legata a quella benedetta casa. Dare gli esami che le mancavano all’Accademia, e poi cercarsi un lavoretto di mezza giornata. Una sua amica stava aprendo un negozio di fiori e forse avrebbe avuto bisogno di una mano. Disse che vedere lui, Roberto, che lavorava tanto, e vederlo raccogliere i frutti di tutto quel lavoro, le aveva dato una scossa. Prima si era sentita un po’ invidiosa, ma adesso era piena di energia e buoni propositi, e di questo lo ringraziava. «Grazie per essere il marito che sei», gli disse. Roberto sorrise, le versò altro vino, dichiarò che era contento di sentirla parlare in questo modo, le promise che l’avrebbe appoggiata in tutti i suoi progetti. Tra sé e sé non credeva a una parola. In autunno lo mandarono con Emma a Francoforte, per il Salone dell’Automobile. Pensavano di trovare una città fredda e ostile, invece girando a caso capitarono in Berger Strasse, nel cuore di un quartiere pieno di immigrati italiani, ristoranti


tipici e studenti che affollavano i bar. Roberto scelse la bottiglia più costosa per annunciare a Emma che gli avevano affidato lo sviluppo di un motore a doppia accensione: due candele per cilindro al posto di una. Sarebbe servito alla Fiat, alla Lancia e all’Alfa Romeo. Doveva selezionare una decina di persone e formare un gruppo di lavoro, ed era sottinteso che lei sarebbe stata il suo braccio destro, ma non ne fu entusiasta come lui si aspettava. «Penseranno che sono una raccomandata», disse. «No, penseranno che sei brava. E comunque chi se ne importa, mi hanno dato il potere di farlo». «Allora non devo ringraziarti, giusto? È solo merito mio». «Certo», disse Roberto, deluso per il suo regalo non apprezzato. Si sarebbe abituato presto alla scarsa riconoscenza, parte di quel sentimento più vasto che lui chiamava solitudine del capo. Non si trattava tanto di arrivare prima, andarsene dopo e lavorare più di tutti quanti. Significava attirarsi un bel po’ di sentimenti negativi. Era necessario mostrare sicurezza anche quando eri tormentato dai dubbi; e se ancora ti capitava di vomitare, riuscire a mantenere un contegno impeccabile mentre ti avviavi verso il bagno, e avere le mentine sempre in tasca. Una volta, se c’era qualcosa che non capivi, bastava chiedere spiegazioni a un collega più alto in grado; adesso era molto meglio non dire niente. Nel 1988 a Sofia, undici anni, fu assegnato un tema in classe dal titolo: Parla di tuo padre. Scrisse che lei suo padre non lo conosceva, perciò non era in grado di svolgere il


compito, ma se andava bene lo stesso le sarebbe piaciuto parlare del suo cane, cosa che poi fece di propria iniziativa. Alla maestra non risultava che la bambina fosse figlia di divorziati, così inviò il tema a casa perché i genitori lo vedessero. Quel foglio passò per le mani di Rossana e poi, la sera, finì in quelle di Roberto, colpendolo in pieno petto. Se ne andò in camera amareggiato e scuro in volto. Il giorno dopo in ufficio chiese un permesso visitatori e il lunedì successivo portò Sofia in fabbrica, perché vedesse che lavoro faceva e dove trascorreva il suo tempo, e in questo modo, sperava, sentisse di cominciare a conoscerlo almeno un po’. Partirono dal Centro Stile. Lì c’erano artigiani che modellavano in legno, creta e gesso ogni pezzo dell’abitacolo e della carrozzeria. Era un reparto che faceva sempre colpo e funzionò anche con Sofia. All’Abbigliamento e Montaggio la ragazzina scoprì l’esistenza delle operaie: fissavano i sedili e gli elementi del cruscotto, ed erano così abituate a quel lavoro che lo facevano chiacchierando, con le mani che andavano senza bisogno di guardare. Una di loro gridò a Roberto: «Che bella figlia, ingegnere! Ha preso dalla madre o dal padre?» Tutte risero e lui scacciò la battuta con un cenno, come se fosse un vecchio scherzo tra di loro. Rispetto ai grandi macchinari della catena di montaggio, gli uffici furono per Sofia una mezza delusione: bianchi, spogli, simili a tante sale d’attesa. Però adesso poteva almeno immaginarsi suo padre in un luogo ben preciso. «E questa chi è?», chiese, notando la sua foto appesa al


muro. Era lusingata di trovarla lì, in mezzo ai premi per i brevetti e ai manifesti delle auto d’epoca. «Una bambina che avevo una volta», rispose Roberto. «E com’era questa bambina?» «Mi faceva sempre disperare». «Ho una fame», disse lei, «che mi mangerei una casa». E così per il momento avevano fatto la pace. Pranzarono in mensa, seduti al solito tavolo. C’era anche Emma tra i giovani ingegneri del gruppo, e Sofia le prese subito le misure. Le piacevano i cani? Sì. Preferiva quelli di razza o i bastardi? Senza dubbio i bastardi. Grossa taglia o piccola taglia? Grossa taglia tutta la vita. Sofia annuì soddisfatta. Parlarono ancora un po’ di cani e poi del fratello che entrambe avrebbero voluto, del problema di essere figlie uniche e avere sempre il fiato dei genitori sul collo. Infine Sofia le chiese come si trovava a lavorare in mezzo a tanti uomini, ed Emma rispose che lei andava molto più d’accordo coi maschi che con le femmine. «Pure io», disse Sofia. Felice che qualcuno la trattasse alla pari e tenesse in considerazione le sue opinioni, si alzò a prendere una fetta di torta per tutt’e due. Roberto avrebbe preferito evitare quell’incontro. Emma stava per compiere trent’anni. Il ruolo di figlia di sua madre e di amante del suo capo cominciava ad andarle stretto. «Com’è cresciuta», gli disse, guardando Sofia da lontano, perché nella foto in ufficio lei aveva tre anni ed Emma si era abituata a pensarla così, eternamente in costume rosso e con la pancia


sporgente dei bambini. Non fu l’unico effetto collaterale della visita. Da qualche parte alle orecchie di Sofia arrivò quella maledetta parola. Capo. Forse proprio a tavola, pronunciata da uno dei giovani ingegneri. Se la sarebbe ricordata meglio di tutto il resto. L’avrebbe usata come un’arma impropria durante l’adolescenza, l’insulto estremo da gridare in faccia a suo padre: tu non sei il mio capo, l’hai capito? L’hai capito, ingegner Muratore, che qui non comandi un cazzo di niente? A Singapore nel ’91 passarono l’ultima notte insieme. La stanza sapeva di candeggina e cenere di sigaretta, ed era uguale a ogni altra camera d’albergo in cui erano stati. Prima di andare a letto, mentre Roberto telefonava a casa, Emma si fece una lunga doccia: scartò la saponetta dalla confezione, aprì una bustina di shampoo e restò a farsi massaggiare il collo dal getto d’acqua bollente. Quando uscì dal bagno Roberto era ancora al telefono, ma adesso parlava in inglese. Discuteva con qualcuno a proposito di scadenze e ritardi. Con l’idea di dare un’occhiata al panorama, Emma scostò la tenda e si trovò di fronte a un’altra facciata d’albergo. Pensò che l’effetto di rispecchiamento sarebbe stato completo se avesse visto una donna che la guardava, con un asciugamano avvolto intorno al corpo, pochissima allegria negli occhi, trentatré anni portati male. Camere d’albergo, uffici, aerei e ristoranti erano i soli spazi che avessero mai condiviso. C’era una cosa che le piaceva ancora, ed era parlargli di


notte. Molto tardi, quasi di mattina, quando si ritrovavano entrambi a rivoltarsi nel letto per l’insonnia. Allora si rassegnavano a restare svegli e aspettare l’alba chiacchierando. Il telefono li lasciava in pace. Dalla finestra dopo un po’ cominciava a filtrare la luce. A volte uno dei due chiudeva gli occhi per qualche minuto: ne uscivano conversazioni sconnesse, frasi sognate mischiate a frasi dette per davvero, discorsi di cui più tardi non ricordavano quasi niente. «Mio padre aveva una sedia», gli disse quella notte. «Larga, imbottita, con i braccioli pure imbottiti. Sedersi comodo era un piacere che gli veniva dal camion. Quando avevo quattordici o quindici anni lui stava via tutta la settimana, tornava solo il venerdì sera. Io e mia madre facevamo una vita nostra, e poi c’era quella che dividevamo con lui. Durante la settimana la nostra vita era la scuola, le medicine, il dottore, i litigi per uscire la sera, più tutti i problemi suoi con il cibo. Ma c’erano anche i momenti belli. Momenti in cui riuscivamo a parlarci da amiche. Quel mondo finiva il venerdì sera, e per due giorni la vita gravitava tutta intorno a mio padre, al suo camion, al suo umore buono o cattivo. Poi lui ripartiva. Al suo posto rimaneva la sedia. Anche se non lo vedevo mai, non era come essere senza padre. Era come avere un padre che non c’era». E più tardi gli disse: «Vuoi sapere che cosa ho provato quando ha smesso di tornare? Un’enorme liberazione. Prima la sua assenza era qualcosa che vedevi e toccavi, come quella sedia vuota. Poi la sedia l’abbiamo buttata, e mi sono sentita


meglio». E più tardi ancora, ma ormai era già mattina, disse o immaginò di dire: «Se adesso volessi un figlio, non mi interesserebbe farlo con un uomo molto intelligente. O un uomo forte, o un grande lavoratore. Vorrei solo un uomo che c’è. Sapere che, quando ne avremo bisogno, lui non sarà da un’altra parte. Non mi sembra di chiedere molto, no?» Alla fine non gli disse che lo lasciava, ma che aveva accettato la proposta di trasferimento. Via via che smantellavano la fabbrica di Arese, ai quadri intermedi come Emma offrivano aumenti e scatti di carriera se andavano a lavorare a Torino o a Napoli, e a un certo punto lei si chiese: che cosa ci faccio ancora qui? Scelse Napoli. Pensò che a sua madre avrebbe fatto bene tornare a casa. Quando informò Roberto della decisione, lui ne fu addolorato ma non cercò in nessun modo di farle cambiare idea. Sapeva fin dall’inizio che sarebbe finita così: con Emma che diventava grande e lo salutava, proprio come una figlia quando va a stare per conto suo. Questo era il tipo di amore che provava per lei. Dopo lo spumante, i pasticcini e gli auguri dei colleghi, rimasero soli in quell’ora che conoscevano bene, perché spesso avevano tirato tardi nell’ufficio deserto. «Ci mancherai», le disse lui, usando il plurale con cui adesso parlava. Poi se ne accorse e aggiunse: «A me, soprattutto». «Ti telefono quando mi sono sistemata», disse Emma. «Ci


vorrà qualche giorno, porta pazienza». «Proviamo a baciarci e vediamo come va?», propose Roberto. Era la formula magica che in tutti quegli anni aveva risolto le loro incomprensioni: uno la pronunciava e l’altro dimenticava di colpo il motivo per cui si sentiva offeso. «Adesso no», disse Emma. «Scusa. Però ti chiamo». Roberto le aveva preso un regalo al Museo Storico, ma all’ultimo momento gli sembrò un pensiero stupido e non ebbe il coraggio di darglielo. Era un modellino della leggendaria 24hp detta Torpedo, la prima automobile Alfa prodotta negli anni Dieci. Restò nel cassetto di Roberto e poi sulla sua scrivania, a fermare le carte e ricordargli tutto quello che avrebbe voluto darle e invece si era tenuto. Gli restavano anche i soldi messi da parte per Emma. Sul conto adesso c’era un piccolo capitale. Si chiese per un po’ che cosa farne, considerò alcuni investimenti e infine decise di lasciarli lì, pensando che sarebbero serviti a Sofia un giorno o l’altro. Così era questa, la fine del secolo di cui tutti parlavano da un pezzo. La fabbrica era in dismissione. L’intera città di Milano gli sembrava in dismissione. Qualcuno diceva che anche il motore a scoppio sarebbe diventato presto un pezzo d’antiquariato, ma a questa profezia Roberto si rifiutava di prestare fede. In fabbrica avviarono una ricerca sui veicoli ecologici che lui sapeva essere soltanto un diversivo: per tenere buoni i sindacati, ricevere un po’ di denaro pubblico e fingere che l’Alfa di Arese avesse ancora un futuro. Dedicarono al progetto l’intero capannone 10. Tra gli operai


girava una barzelletta secondo cui lì dentro lavoravano soltanto due persone: una scriveva i comunicati stampa, l’altra faceva il giro ad accendere e spegnere le luci. Roberto continuava a scendere nei reparti di tanto in tanto, per sgranchirsi le gambe e vedere coi suoi occhi i motori che progettava. Gli operai adesso erano più giovani di lui, lavoravano senza passione e senza rabbia, erano solo rassegnati a tenersi il posto fino a quando sarebbe durato. Lui insisteva a salutarli tutti. Se qualcuno di loro si imbarazzava nel porgergli la mano, mostrando i palmi macchiati d’olio come giustificazione, rispolverava una battuta che andava forte negli anni Settanta: «È un onore stringere una mano sporca di lavoro». E quando se ne andava quelli si guardavano chiedendosi: che cosa avrà voluto dire? Faceva sul serio o ci pigliava per il culo? Poi cominciò a sognare la macchina di Singapore. Aveva la forma della 164 e il colore delle vetture che uscivano per il collaudo, un nero opaco che non esisteva nei modelli di serie, il nero delle cose bruciate. Questa macchina si aggirava per i sogni di Roberto, ma non era l’oggetto del sogno. Il luogo e la situazione variavano: poteva essere nel giardino di casa o in una città straniera, con Emma, Rossana o più spesso una donna che era l’una e l’altra. Magari uscivano da un negozio, o pranzavano in un ristorante all’aperto, quando la 164 compariva. Il numero era stato rimosso dalla carrozzeria, e quel nero opaco risaltava tra i bagliori del traffico come risalterebbe un buco in un lago ghiacciato, o un posto vuoto in una fila di persone. Ostacolato dai passanti, Roberto allungava


il collo ma non riusciva a leggere il numero di targa, né a capire chi la guidava. «Che cosa c’è?», gli chiedeva la donna che era Emma e Rossana, la donna delle sue due donne. «Hai visto qualcosa?» E Roberto avrebbe voluto rispondere: non è tanto quello che ho visto, è piuttosto quello che non ho visto. Sai quando sei fuori al sole e senti un’ombra passarti addosso? E allora guardi in su per vedere se era un uccello, una nuvola o cosa, ma ormai è troppo tardi, e qualunque cosa fosse è già passata? Ma questo non era il tipo di discorso che la gente si aspettava da uno come Roberto. «Niente», rispondeva. «Solo una macchina». E si teneva per sé quella breve visione, pensando che fosse più saggio non dire quello che non riusciva a capire.


QUANDO L’ANARCHIA VERRÀ Alla fine del seminario Leo assegna a ciascun allievo la scena di un film. A te tocca, tanto per cambiare, una bambina innamorata di un uomo adulto. Sei un’orfana di dodici anni senza nessun amico al mondo, tranne il sicario che ti ha presa con sé dopo lo sterminio della tua famiglia. In piedi sul palcoscenico, hai appena pronunciato una dichiarazione. «Come fai a sapere che è amore, se non l’hai mai provato?», chiede Leo, declamando la battuta nel buio. «Perché lo sento», rispondi. «E dove?» «Nello stomaco». Chiudi gli occhi e ti porti le mani sulla pancia. Immagini di essere a letto con una boule d’acqua bollente. «È tutto caldo», dici. «Ho sempre avuto un nodo qui, e adesso non c’è più». Leo tace. È un uomo rigoroso, irrequieto. Nella vita ha fatto molti mestieri, ha lavorato in cantieri e officine tanto quanto a teatro, è stato picchiato e arrestato per le sue idee. Il tuo più grande desiderio in questi giorni è che almeno una volta, una volta sola, alla fine di un esercizio lui ti guardi, la sua fronte tormentata si distenda, tra le sopracciglia scompaia quella ruga scavata da vent’anni di politica e pastiglie per il mal di testa, e dica sì, è così che va fatto, così va bene. Non succede mai. Ancora prima che tu riapra gli occhi lui ti è addosso: ti prende alle spalle e ti comprime lo stomaco con le mani. Sono le mani


forti di un artigiano. «Lo senti qui?», dice. «È qui che lo senti? Oppure qui?» Preme l’osso dello sterno dove fa più male. Scende fino all’addome, già attorcigliato dall’ansia e da tutto il caffè che hai bevuto stasera. Mentre cerchi di divincolarti fa un altro tentativo, risale di qualche centimetro e lo trova. Quel punto preciso che ti piega le ginocchia e ti lascia senza fiato. «Eccolo», dice. «È qui, giusto? Vicino alla paura e alla rabbia. Cercalo qui quando ne hai bisogno». Poi molla la presa e ti senti crollare a terra come un burattino senza fili. L’amore è nella pancia, l’amore è un vecchio cane cieco che ti manca da quando sei andata via di casa. La domenica torni a Lagobello per lui. Prendi la metropolitana alle dieci, attraversi Milano nelle viscere, entri nel ruolo di figlia solo quando il treno esce in superficie e la città è svanita. Tuo padre ti aspetta al capolinea, sembra quasi farne parte: alto e magro, in piedi al di là dei tornelli, con il cane al guinzaglio e un giaccone invernale di una taglia che non è più la sua, per la carne che la malattia gli sta mangiando dal corpo. Ma poi Mozzo sente il tuo odore e comincia ad agitarsi, e i suoi trenta chili di muscoli e felicità prendono il sopravvento. Abbracci tuo padre tra guaiti, leccate e zampe in faccia, il guinzaglio che si attorciglia intorno a voi. Il quarto d’ora di macchina per arrivare a Lagobello ti sembra il momento giusto per parlargli della scuola in cui vorresti entrare, a Roma, il prossimo autunno.


«Un’altra scuola?», chiede lui. E aggiunge: «Roma», come per sentire il suono esotico che ha, come se fosse Rio de Janeiro o Bombay. Tuo padre ha sempre sognato di girare il mondo, ma l’ha fatto poco e solo per lavoro. «Questa è una scuola di cinema, è diverso», dici. Cerchi di spiegargli la differenza. Fai i nomi degli attori importanti che ci insegnano, gli parli delle otto ore di lezione al giorno e dell’esame d’ingresso che dura un’intera settimana. «È una cosa seria», dice tuo padre, guidando assorto. Non fa domande, ma ora che per lui è una cosa seria sai che non la dimenticherà. Ci penserà sopra, raccoglierà informazioni per conto suo. Riprenderà il discorso quando sarà pronto ad affrontarlo. In casa grava il maleficio che governa i rapporti con tua madre. Lei è appena emersa dalla sua stanza, dove passa le giornate a dormire, impasticcarsi, scrivere lettere ai bambini brasiliani che ha adottato al posto tuo, dipingere cartoncini di auguri per la parrocchia. «Adesso fumi anche la mattina?», chiede. «Non è che fumo la mattina», rispondi. «Per la precisione, fumo un po’ quando cazzo mi pare». «Avrai imparato da tua zia a parlare così». «Per favore», dice tuo padre. «Per favore». «Ho imparato da sola, come tutto il resto», fai tu. «Cresci», conclude tua madre. «Vuoi che ti trattiamo da persona adulta? Allora lo devi dimostrare, di non essere più una bambina».


Invece lo sei, questo è il problema. Ha ragione tua madre. Sei una bambina ogni volta che rimetti piede in questa casa. A mezzogiorno, mentre lei apparecchia la tavola, indossi sciarpa e berretto e vai a fare un giro al parco con Mozzo. Tu e lui da soli, come ai bei tempi. Allo stagno del villaggio accetti due tiri d’erba dai vecchi amici, quelli rimasti, reduci da un’adolescenza chimica e un poco memorabile sabato sera. «Il tuo cane è innamorato», dice uno, quando Mozzo comincia a leccarti il palmo della mano. «Guarda come fa». Rientrando in casa trovi i tuoi genitori a tavola. Scaldi un pentolino d’acqua, ti prepari una tazza di caffè solubile e ti siedi con loro. Riso bollito e verdure al vapore: il pranzo della domenica ridotto ai minimi termini. Ma tuo padre non rie;sce a tener giù nemmeno quello, e dopo un paio di bocconi si alza per andare in bagno. Tua madre lo guarda, sospira, aspetta di sentire lo sciacquone e si rassegna a sparecchiare. «Cos’è, avete litigato?», chiedi. Non sopporti che lo facciano senza di te. «Avete litigato per colpa mia? Non era il caso». Lei si ferma con il piatto in mano, resistendo all’impulso di lanciartelo in faccia. Ma si trattiene, lo mette via insieme agli altri e sbatte lo sportello della lavastoviglie con tutto il suo disprezzo. Verso le cinque tuo padre ti riaccompagna al treno, e nonostante la mezz’ora spesa a parlare con Mozzo, grattargli la pancia e le orecchie e promettergli che torni presto, alla fine ti tocca chiuderlo in giardino e sopportare i suoi lamenti mentre


te ne vai. «Magari per lui sarebbe meglio non vedermi», dici, quando siete ormai lontani. «Gli faccio male e basta». «Però io sono contento di vederti», risponde tuo padre, con una smorfia di dolore che dall’ora di pranzo non l’ha più abbandonato. «Ti abbiamo rovinato lo stomaco, eh papà? Scusa. Ho un carattere di merda, scusami». «A me piacciono le donne difficili», dice lui, sforzandosi di sorridere. Nel film della tua vita questa è la parte in cui hai vent’anni e osservi la città con occhi nuovi. Ami la folla. Attraversi la strada passando tra le automobili, te ne vai in giro senza biglietto sui mezzi pubblici. Vieni avvistata a una fermata d’autobus, e mentre osservi la pioggia sulle rotaie dal finestrino di coda di un tram. Emergi dalla metropolitana sulla scala mobile, una mattina gelida di gennaio, leggendo Hakim Bey, Zone Temporaneamente Autonome. Sorridi trovandoci dentro la storia di Libertalia, la colonia pirata che il Capitano Misson fondò in Madagascar. In una tavola calda indiana compri una porzione di pollo al curry e una di riso, pane morbido, una birra in lattina, succo di mango. Paghi con un mucchietto di monete messe insieme a fatica. Ti piacciono gli indiani e la loro calma, l’aria mite che conservano di fronte alle tue tasche vuote. Una strada più in là oltrepassi la scritta Officina Occupata ed entri in una vecchia corte di laboratori:


ora un edificio è stato adibito a bar, e in cortile c’è il palco su cui hai recitato la scorsa estate, ma l’aspetto del luogo non è molto diverso da come doveva essere trent’anni fa. Grandi finestre protette da reti metalliche, macchie d’olio che impregnano il cemento, muri scrostati e tetti sfondati dagli inverni, rattoppati in qualche modo. Nel laboratorio di Leo il motore della combinata copre ogni altro suono. Lo sorprendi di spalle, con la tuta verde da meccanico e i capelli pieni di segatura: lo baci sul collo, lui si spaventa e poi ride. Spegne le macchine per salutarti. «Che cosa fai?», chiedi. «Tavole da pavimento». «Per chi?» «Una mia amica che ha comprato casa. Io gliela metto un po’ a posto, lei in cambio mi dà lezioni di informatica». «Fammi vedere», dici, sapendo quanto gli piace spiegarti il suo lavoro. Sul teatro ti ha insegnato soprattutto questo: che sono più importanti le persone, i viaggi, le storie dei luoghi, gli oggetti che si possono annusare, assaggiare e toccare con le mani, e quello che un attore fa sul palcoscenico viene solo alla fine, ed è bene non parlarne troppo. Così ti mostra il legname che recupera in discarica, tavole annerite dall’umidità e dal fango, e come diventano dopo che le ha pulite, piallate e ridipinte. Usa soltanto materiale di riciclo: gli oggetti nuovi lo terrorizzano come corsie d’ospedale. Sul lato opposto del laboratorio c’è un banco da lavoro, il bagno adattato a camera oscura, il soppalco su cui tiene un materasso, una macchina da


scrivere, i libri. Non gli piacciono le cose se non hanno almeno due funzioni, le persone che fanno un mestiere solo. Questa è la sua zona di autonomia temporanea, su cui pende un’ordinanza di sgombero che scade fra tre mesi. «Ti ho riportato il libro di Hakim Bey», dici. «Kropotkin lo sto ancora leggendo». «Ma tu non mangi mai?», ti chiede, raccogliendo una manciata di pollo con il pane morbido, buttando giù un sorso di birra. Così così, rispondi con la mano, la cannuccia del succo di frutta stretta tra le labbra. «E niente bere, giusto?» «Ho bevuto una volta e mi è bastato», dici, con la battuta che usi sempre in queste occasioni. «Chissà com’era buono», commenta Leo, divertito. Più tardi andate di sopra. Vuoi essere tu a spogliarlo, scoprire il suo corpo come togliendo il panno a una scultura. È il primo uomo di quarant’anni che vedi nudo, e la sua pelle ha una consistenza tutta diversa da quella dei tuoi coetanei. Gli massaggi a lungo la schiena, dopo. Lo senti rilassarsi sotto le tue mani e quasi cedere al sonno. «Voglio farti delle foto», dice, tu seduta sopra di lui mentre ti percorre la faccia con le dita, i pollici che risalgono gli zigomi e le sopracciglia e poi corrono giù per il naso, modellando il tuo profilo nell’aria. Non è vero che non mangi mai. Mangi solo quando non ti vede nessuno. C’è un’unica eccezione a questa regola, ed è tua zia


Marta. Tra di voi funziona così: ogni sera Marta prepara la cena per sé, mettendo in tavola un piatto, un bicchiere, un paio di posate. Si siede e comincia per conto suo. Dopo non molto tu capiti in cucina come se avessi voglia di compagnia. Ti versi un bicchiere d’acqua. Fumi una sigaretta. Lei ti domanda della scuola, tu del suo lavoro in radio. Chiacchierate da buone amiche. Ed è allora, quando la conversazione è avviata, che senza badarci, quasi sovrappensiero, tu allunghi una mano e prendi un pezzo di pane. O una patata lessa, o uno spicchio di mela che Marta ha lasciato davanti al piatto. Lei distrattamente ti nutre, tu distrattamente accetti di essere nutrita. Altre volte si accorge che manca qualcosa dal frigo, e provvede a ricomprare le tue mozzarelle, le tue banane, il tuo gelato industriale. Va avanti così da quattro anni. «C’è una parte di corsi teorici», dici, scorrendo il programma di studi. «Storia del cinema, teoria del linguaggio cinematografico. Elementi di fotografia e di tecnica del suono. Centoventi ore». «Cultura generale», dice Marta. «Mi pare giusto». «Metodo Stanislavskij, sessanta ore. Educazione della voce, sessanta ore». «Un po’ di educazione ti farà benissimo», commenta lei. Tu alzi gli occhi dal foglio e le fai la linguaccia. Addenti una carota cruda. Se ti vedesse tua madre non crederebbe ai suoi occhi. A sedici anni sei andata via di casa per due motivi: quello ufficiale, per studiare teatro in città; quello reale, per stare il più lontano possibile da lei. Prima avevate


sperimentato altre tecniche, comprese le sberle e la psicanalisi, senza ottenere risultati. Quando Marta ha suggerito di dividervi, è sembrata la classica soluzione lampante che nessuno aveva ancora trovato. «Danza», dici. «Che palle. A cosa mi serve imparare a ballare?» «Hai mai visto come cammina un ballerino?» «Perché, come cammina?» «Io ho visto Nureyev una volta, a Parigi. Su Boulevard Saint-Germain, mi pare. Passeggiava in questo viale pieno di gente ma sembrava del tutto solo. O sospeso su un filo a dieci metri da terra. Ti dava quella sensazione di equilibrio, hai presente? Come i gatti, che sembra non possano mai cadere. Era come se in quel camminare ci fosse una consapevolezza assoluta, dovevi vederlo per capire il significato della parola grazia. O armonia». «O sesso», dici tu, cogliendo il punto. «Non parlavo di quello», dice Marta, imbarazzata e vagamente offesa dalla tua semplificazione. «Sì, parlavi proprio di quello». Rubi una delle sue sigarette e l’accendino. «Va bene, allora mettiamola così. Imparare a ballare serve a scopare meglio. Grazie della dritta, zia». Lei si alza sbuffando perché, oltre a scopare, l’altra parola che non sopporta è zia. Ti passa un portacenere pulito, poi voltandosi le viene da ridere. Di solito a questo punto dici: «Come faresti senza di me?» E lei risponde: «Come facevo prima». Ma ora che la possibilità è concreta, temi che nessuna


delle due lo troverebbe divertente. «E poi?», chiedi. «Quella volta con Nureyev com’è andata?» «Poi è caduto pure lui», dice Marta. «Era sieropositivo, è morto a cinquant’anni che sembrava un vecchio di novanta. Che peccato». Di notte Leo ti porta a esplorare la periferia. Traccia percorsi tra orti abusivi, depositi di tram, scali ferroviari, cascine e fabbriche abbandonate. Da quando ha scoperto che sei cresciuta in un villaggio residenziale, si è autoproclamato la tua Guida alla Città del Novecento. Il centro non gli interessa, palazzi e chiese per lui sono solo mucchi di sassi senza vita. La città vera si nasconde fuori, oltre il confine della circonvallazione. Girare tra la Bovisa e Niguarda di notte, in motorino, le mani nelle sue tasche e la guancia appoggiata alla sua schiena, l’aria di gennaio che ti fischia nelle orecchie, è uno dei piaceri più puri che tu abbia mai provato. Visitate i monumenti locali come in un pellegrinaggio. Le lapidi dei partigiani, la scarpata in cui Visconti girò una scena di Rocco e i suoi fratelli, la trattoria in cui si dice che una volta cenò Buffalo Bill, l’albero di albicocche cresciuto in mezzo a un marciapiede e innaffiato, accudito e difeso da tutti i propositi di abbattimento. A metà di una strada buia Leo lega il motorino a un lampione, ti prende per mano e ti conduce dentro la vecchia Fabbrica del Gas, attraverso un buco nel muro scavato dai ladri di rame. È qui che viene a cercare i suoi pezzi di


recupero. Gli chiedi a che cosa servisse quell’enorme scheletro di ruggine e lui, invece di rispondere, ti domanda con aria di sfida se sei capace di arrampicarti. Il vecchio anarchico di città non ha ancora capito di avere incontrato la ragazza dei platani, degli olmi e degli ippocastani, sovrana incontrastata di tutti gli alberi di Lagobello. Da lassù, a quaranta metri dal suolo, ti accorgi per la prima volta che la periferia nord di Milano è un groviglio di ferrovie: binari corrono sopra i viadotti e accanto alle fabbriche, luccicano sotto i lampioni prima di diramarsi nel buio. «Qui sotto ammucchiavano il carbone», dice Leo, indicando il fondo del gasometro. «Quando reagisce con certi acidi, il carbone sprigiona gas naturale. È il motivo per cui i terreni qui intorno sono tutti inquinati. C’era un grande pallone dentro questa gabbia, che si gonfiava come una mongolfiera. Si riempiva di gas e lo teneva in pressione per poi immetterlo negli impianti, e con quello rifornivano tutta la zona. Te lo immagini?» Una mongolfiera dentro una gabbia: è come ti senti tu da quando sei nata. Leo ti cinge le spalle con un braccio, due ;paia di gambe penzolano nel vuoto. Il gasometro è una ruota panoramica e Milano il vostro luna park. In macchina, nel parcheggio della metropolitana, tuo padre dice: «Ti ricordi quando avevi dieci anni e ti sei rapata i capelli?» «Certo che mi ricordo», rispondi. Non volevi fare la prima


comunione e quello fu il tuo atto di protesta. A scuola poi tutti pensarono che avessi avuto i pidocchi, ma ne valse la pena: dopo una serie di colloqui tra tua madre, il parroco e la maestra, la tua carriera cattolica fu dichiarata sospesa fino a data da destinarsi. «Be’, l’ho fatto anch’io», dice tuo padre. Si leva il cappello e si china verso di te, mostrandoti il suo cranio nudo. «Papà», dici, con un groppo che ti sale in gola. Ma lui sta lì, bloccato in quel mezzo inchino cavalleresco come se si aspettasse un’investitura, e tu allunghi una mano e la appoggi, aperta, sulla sua testa nuda. È liscia e morbida. È la testa di tuo padre. «Come sto?», chiede lui. «Hai una voglia sulla nuca». «Hai visto? Ma ti pare che uno deve arrivare alla mia età per scoprire che ha una voglia in testa?» «Io l’ho sempre pensato, che eri pieno di segreti». Eppure, capelli a parte, la chemioterapia sembra averlo rimesso in forma. Ha ricominciato a mangiare e si è comprato una pila di riviste sulle case di campagna, ha studiato le fotografie e i progetti e poi ha deciso di costruire una veranda nuova, con i pilastri di mattoni e le tegole di terracotta, al posto della tettoia in lamiera che c’è in giardino. Quella non è mai servita a molto. Col tempo vi siete abituati a pensarla così, una tettoia che fa acqua quando piove e si arroventa sotto il sole, un difetto congenito della casa fino al pomeriggio in cui tuo padre si decide a demolirla. Tu ti siedi in giardino per guardarlo


lavorare. Sei sicura che anche tua madre stia osservando, dalla sua finestra al primo piano. Insieme alla lamiera e al legno marcio cade nell’erba altra roba, fughe notturne di una ragazzina, un pranzo all’aperto apparecchiato con cura da una giovane donna, frammenti che voi due siete in grado di vedere e tuo padre no. Lui guarda sempre avanti. Più tardi impasta acqua e sabbia in un secchio di plastica. «Papà», dici. «Ma quando hai imparato a fare queste cose?» «Stamattina», risponde, scrollando le spalle. «Secondo te ci vuole tanto a costruire una veranda?» «Non saprei. L’altra volta non ti era venuta tanto bene». «Prove ed errori», dice lui. «L’intelligenza non è saper fare, è saper imparare. Non sei d’accordo?» Poi impallidisce. Si morde le labbra in una smorfia che ormai conosci bene. Ti chiede scusa, posa la spatola e si affretta a entrare in casa, cercando di non correre né di sbattere le porte. Anche in questo stato la prima preoccupazione di tuo padre è mantenere il contegno. Tu tiri su il secchio che si è rovesciato e non alzi lo sguardo, per paura di incrociare quello di tua madre. Quella sera in Officina cedi allo sconforto. Non sei il tipo di ragazza che sta lì a singhiozzare con un fazzoletto in mano, soffiandosi il naso e inumidendo tutto quello che ha intorno, ma le volte in cui ti capita è come la macchina della pioggia nei film, le lacrime vengono giù a secchiate. Scopri una cosa nuova


di Leo: non gli piacciono le persone che piangono. Quando la voce ti si spezza lui si alza e va ad arrotolarsi una sigaretta al banco da lavoro. Ti scruta da laggiù, strano esemplare di ragazza in lacrime. Aspetta che ti sia calmata, poi accende la sigaretta e dice: «E ora cosa dovrei fare secondo te? Venire lì ad abbracciarti?» «Scusa?», chiedi, asciugandoti gli occhi con le dita. «C’è un unico modo sincero di piangere, ed è piangere da soli. Infatti non lo facciamo quasi mai». «Cioè che cosa mi stai dicendo? Che piango per finta?» «No, piangi per me. Hai bisogno della mia compassione. E il modo più facile per ottenerla è quello, lo impari appena nata». «Ma scusa, non posso essere solo triste?» «Fai l’attrice, Sofia. Sai benissimo cosa voglio dire». Sta appoggiato con la schiena al banco e fuma tenendo le braccia conserte. Non sei sicura di sapere cosa vuole dire, ma detesti sentirti sotto processo. «Capito», dici, tirando su il muro più in fretta che puoi. «Così ho avuto una lezione anche stasera. Che culo». «Se vuoi parlare parliamo», dice Leo, indifferente pure al tuo sarcasmo. È irremovibile come quando andò in galera per non fare il militare: sulle libertà fondamentali non accetta discussioni. E qui è in gioco la sua libertà di commuoversi quando gli pare. Dice: «Altrimenti tu piangi, io mi metto a spaccare le cose e vediamo chi dei due è più forte a farsi voler bene dall’altro».


Così per la prima volta intravedi un finale. È un gioco che facevi spesso da ragazzina. All’inizio di ogni relazione ti sforzavi di immaginare la scena: mentre un ragazzo ti baciava tu ti chiedevi se quella era una storia da scusa, o una storia da allora ciao, o una storia da vaffanculo, o una storia da restiamo amici. Se sarebbe successo in un letto o in mezzo alla strada e la faccia che avrebbe fatto lui, se era un tipo da insultarti o implorarti o non parlare più, tirare un pugno al muro e odiarti e basta. Dopo ti sentivi più tranquilla. Era come conoscere già l’ultima pagina di un libro, per poi immergerti nella trama senza nessuna angoscia. Di notte ti volti verso Leo addormentato e nudo, sotto il cielo arancione di Milano che spiove dal lucernario. La sua pancia sale e scende piano, morbida, senza alcuna tensione. Solo a quest’ora puoi osservarlo così, prima che il giorno se lo riprenda, che l’ansia di fare te lo porti via. Cedi alla tentazione di accarezzarlo lì, intorno all’ombelico. Lo svegli senza volerlo. Aprendo gli occhi lui ci mette un momento a ricordarsi chi sei, che cosa ci fai nel suo letto. «Ma tua zia non si preoccupa che non torni a dormire?» «Ma no», dici. «Poi la chiamo». Quella sera controlli con Marta il materiale da portare all’esame. Scegliete due foto, una figura intera e un primo piano, dalla serie che Leo ti ha scattato in giro per le ferrovie. Nella figura intera sei in piedi su una banchina. Nel primo piano guardi in macchina, il bavero del cappotto alzato per il


freddo, i capelli scompigliati dal viaggio in motorino. Dietro corrono i binari fuori fuoco, il groviglio dei cavi elettrici. «Sei proprio tu», dice Marta, osservandola. «Proprio stupida?», chiedi. «Proprio brutta?» Provi un certo fastidio per la tua faccia in questi giorni. «Doppia», dice Marta. «Vedi qui? Non solo l’occhio ma anche le sopracciglia, gli angoli della bocca, questa piccola cicatrice che hai sulla guancia. La tua faccia è tutta asimmetrica». «Ed è così che sono? Asimmetrica?» «Aspetta», dice lei. Prende un foglio di carta e con quello copre il lato destro della fotografia. La metà sinistra della tua faccia ha l’aria ironica, spavalda. Sorride. Possiede l’aggressività delle donne capaci di farsi strada da sole. «Questa sei tu da fuori», dice Marta. «Vedi? È come sei con gli altri, come hai imparato a stare in pubblico. Non dico che sia una maschera, ma è come un bel vestito, come la dizione con cui hai cancellato l’accento che avevi. È il modo in cui ti vesti per uscire, no? Questo invece è l’abito per stare in casa». Sposta il foglio a sinistra e la ragazza della foto si trasforma di colpo. Il sorriso scompare. È diffidente, quasi minacciosa. Sembra anche stanca: stanca di trovarsi lì, stanca di essere guardata. Cerchi di ricordare quel giorno con Leo, se le cose tra voi avevano già cominciato a cambiare. «Lo vedi?», dice Marta. Quando solleva il foglio ti sembra impossibile che due persone tanto diverse possano stare insieme.


Così porti in giro le tue identità come sorelline litigiose, una che tira per correre avanti e l’altra che punta i piedi. Il naso per aria, una sciarpa avvolta fino alla bocca e il tuo colbacco siberiano in testa, dal centro del corteo contempli i palazzi del Ticinese. È un’immagine nuova per te, quella della città chiusa al traffico: in mezzo alla strada, mentre i tuoi compagni cantano, tu ti perdi tra i balconi, le finestre, i cornicioni e i tetti. In via Torino il corteo si blocca. Leo raggiunge il furgone di testa per vedere che cosa succede. Gli occupanti dell’Officina discutono con due uomini della polizia, cercano di accordarsi sul percorso da seguire. L’idea è quella di raggiungere il Comune, ma loro vogliono farvi deviare prima. Uno dei ragazzi alza la voce. Un poliziotto allarga le braccia sconsolato. Mentre loro contrattano, la coda del corteo continua a spingere e la densità intorno a te aumenta, ora la senti: la pressione dei corpi infuriati, il suo potenziale esplosivo. I canti ammutoliscono. Ti accorgi di dettagli che prima non notavi: le tasche gonfie, i caschi, i bastoni delle bandiere. È così che comincia?, ti chiedi, ma non hai il coraggio di domandarlo a Leo. E tu sei pronta? Poi la marcia riprende. Là davanti devono aver trovato un accordo. Qualcuno dal furgone grida nel megafono, invita a stare compatti e a non perdere la testa. Camminate più piano adesso, più vicini uno all’altro e in silenzio, tra serrande di negozi che hanno chiuso in fretta poco fa. Agenzie immobiliari, oreficerie, boutique, filiali di assicurazioni e banche. Alzando gli occhi incontri lo sguardo degli impiegati che vi osservano


dalle finestre: non come una minaccia ma come un carnevale, una parata in costume d’epoca, gli anni Settanta messi in scena per allietare la pausa pranzo. Questo è il loro tempo e la loro città, siete voi gli alieni. Due piani più giù, i vicoli laterali del corso sono presidiati dalla polizia, e tu ti accorgi che da qui al Duomo non ci sono vie di fuga, se partisse una carica sarebbe una strage. «Una strage per chi?», chiede Leo quando glielo fai notare, con un tono minaccioso e triste allo stesso tempo. Sai quale tormento gli provochi il pensiero della violenza. Cerchi la sua mano e la stringi. Lui ne è infastidito, si divincola subito. Arrivati all’imbocco di piazza del Duomo fronteggiate la schiera di agenti in tenuta antisommossa, gli scudi alzati, i manganelli stretti in pugno. Dalla coda del corteo partono insulti e qualche sasso. State calmi, grida il megafono, calmi. Riparte un coro che serve almeno a sfogare un po’ di rabbia. Poi il furgone svolta a sinistra lungo il percorso concordato e lentamente il corteo lo segue. Due ore dopo riempi la vasca di Leo fino all’orlo ma non trovi nessun bagnoschiuma, così alla fine ti rassegni a immergerti nell’acqua trasparente. Hai una classifica segreta dei bagni degli amici, valutati per forma e dimensioni della vasca, essenza del sapone, qualità della spugna, morbidezza degli asciugamani. Quello di Leo si piazza ultimo in tutte le categorie. L’unica finestrella è chiusa da un pannello di legno, la lampadina manda una luce rossa e dalla vasca hai dovuto


togliere le bacinelle dello sviluppo. Nonostante questo, l’acqua bollente ha il potere di farti stare subito meglio, sciogliere la tensione accumulata: da quando sei senza fissa dimora, la vasca da bagno è l’unico luogo in cui, dovunque ti trovi, puoi chiudere gli occhi e sentirti a casa. Poi la maniglia della porta va su e giù nervosa. «Perché ti sei chiusa dentro?», chiede Leo. «Avevo freddo», dici. «Avevo voglia di fare un bagno». «Sì, ma c’era bisogno di chiudersi a chiave?» «Tu vuoi buttarmi fuori, io mi chiudo dentro», spieghi, con una logica elementare. Non è lui l’occupante di una casa occupata? «Che profondo concetto politico», dice Leo. «Però non credo che così arriviamo da qualche parte». La vasca è di quelle corte, ma se stringi ancora un po’ le ginocchia al petto riesci a scivolare sulla schiena, e a immergerti fino al collo, al mento, alla bocca. Stai con le orecchie dentro e il naso fuori. Scopri il mondo acustico che c’è di sotto: un tubo che sgocciola, la musica di una radio. Da qualche parte un cane abbaia. Squilla un telefono e il volume della radio si abbassa, qualcuno attraversa una stanza. «È che sembri piccolina», sta dicendo Leo quando riemergi, «ma io l’ho capito come sei. Sei come un gas, ti espandi appena puoi farlo. È per questo che ho bisogno di tracciare un confine, lo capisci? Uno lo impara, a stare da solo. È una cosa che si può imparare, e si riesce perfino a stare bene. Ma se adesso ti lascio entrare tu invadi tutto lo spazio che c’è».


Bel monologo, pensi, com’è che ha cominciato? Lo immagini lì fuori, a parlare contro la porta, con la sua mezza sigaretta spenta tra le labbra, le mani nere e la maschera da saldatore che lo fa assomigliare a un palombaro. «Sofia, mi hai sentito?», chiede. «Certo che ho sentito». «E mi faresti sapere che cosa ne pensi?» «Posso stare ancora un po’ nella vasca prima di andarmene?» «Come?» «Solo finché l’acqua è bella calda», dici. «Poi mi levo dalle palle, giuro. Vado a espandermi da un’altra parte». «Sofia», dice lui, esausto. Conosci bene quel modo di esalare il tuo nome. Senti un colpetto sulla porta che dev’essere la sua fronte, poi un altro, poi più nulla. Poco dopo il motore della combinata riparte, e tu allunghi un braccio per prendere l’asciugamano. «E questo ragazzo com’è, che cosa fa?», chiede tuo padre, mentre passeggiate nel parco di Lagobello. «Lavora il legno e il ferro», rispondi, sorvolando sulla parola ragazzo. «Costruisce scenografie per il teatro, ma fa anche delle bellissime foto in bianco e nero. È un artista, anche se non gli piace essere chiamato così». «Non gli piace la parola artista?» «No». «E come mai?»


«Non gli piace nemmeno la parola falegname se è per questo. O fabbro, o scenografo. O attore. Non gli va di essere identificato con un mestiere. Dice sempre che lui f a queste cose, ma è una persona, punto». «Capisco», dice tuo padre. E chissà cosa capisce, lui, che per tutti è sempre stato l’ingegnere. Quando l’anarchia verrà, dovresti dirgli, la distinzione tra lavoro intellettuale e manuale scomparirà del tutto, e si potranno costruire case, coltivare campi, battere il ferro e poi scrivere libri senza nemmeno lavarsi le mani. «E a te come mai piace?» «Perché mi insegna le cose», rispondi. Poi ti correggi. «No, perché mi aiuta a capirle. Non è che me le spiega, più che altro mi aiuta a pensarci. Se c’è qualcosa che mi confonde e ne parlo con lui, poi mi sembra di vederci più chiaro». «E ti vuole bene?», chiede tuo padre. «Ecco, questo è un punto delicato». Vi sedete su una panchina sulla riva dello stagno. Hai voglia di una sigaretta ma negli ultimi tempi ci stai attenta, a fumare vicino a lui, come se a questo punto potesse cambiare qualcosa. Gratti Mozzo sulla testa mentre punta senza veder-le le anatre al centro dello stagno. Le percepisce con altri sensi, e il suo cuore di cacciatore freme e scalpita. «Secondo me», dice tuo padre, «il problema è che ti aspetti troppo dalle relazioni». «Come troppo? Un po’ di amore ti pare troppo?» «Non mi pare troppo l’amore, mi pare troppo come lo


intendi tu». «Cioè come lo intendo, scusa?» Tuo padre sospira. «A una persona puoi chiedere un po’ di compagnia. Ma non di fondersi con te, affidarti la sua vita e farne una cosa sola con la tua. Se chiedi questo all’amore, finisce che ti deludono tutti». «Papà, ma è una cosa tristissima». «Non direi». «Un po’ di compagnia? Sei sposato da vent’anni ed è tutto lì?» «Senti», dice lui. «Io sto bene con tua madre. E sto bene quando sono con te, sono contento adesso che parliamo. Ma l’amore arriva fino a un certo punto, più in là non ci può andare. Io non posso fare molto per la tua vita, se non darti una mano in quello che ti serve, aiutarti coi soldi, dirti studia, vai, vai a Roma, trovati la tua strada. Ma lì mi fermo. E tu non puoi prenderti la mia malattia. Anche con tutto l’amore del mondo, qui dentro ci sono solo io». Dice qui dentro battendosi un pugno sul petto, e sai qual è la cosa più strana? Che proprio mentre tuo padre ti rivela le sue terribili verità, tu senti come un sollievo. E che questa panchina non è una fine, ma l’inizio di qualcosa. «Che ore sono?», chiede, dopo che per un minuto nessuno dei due ha detto più nulla. «Torniamo?» «Stiamo ancora un po’ qui, ti va?» «Sì che mi va», risponde, sfregando le mani una contro l’altra e soffiandoci dentro per il freddo.


Se tu fossi Hakim Bey scriveresti questo in fondo al libro, che l’amore è la zona di autonomia più temporanea che ci sia. La fine dell’amore è una casa occupata il giorno prima dello sgombero. Innalzare barricate, incatenarsi mani e piedi ai cancelli, issare munizioni e viveri sui tetti, quella è roba d’altri tempi e non è adatta alla tua epoca veloce. Oggi il principio è: attacca di sorpresa e nasconditi subito dopo. Non affezionarti a niente. Piuttosto che rimetterci la pelle, è molto meglio prendere le tue idee, il tuo amore e i tuoi quattro stracci e portare tutto quanto altrove. È quello che succede all’Officina l’ultima volta che ci vai. Il pomeriggio viene speso a liberare il cortile, riempire i frigoriferi di birra e montare l’impianto audio per una lunga nottata danzante, in cui verrà gioiosamente distrutto tutto quello che è possibile distruggere, in modo che, al loro arrivo, le forze dell’ordine non trovino altro che un mucchio di macerie fumanti. Ma né tu né Leo avete voglia di assistere alla demolizione. Seduta sul banco da lavoro, accendi una sigaretta mentre lui trasloca: carica le sue cose sul furgone di un amico da cui si trasferirà per qualche tempo. «E quello non lo smonti?», chiedi, accennando al soppalco. «Troppa roba», dice lui. «E niente spazio. E poi fare un po’ di pulizia ogni tanto non è male». Anche tu stai imparando a viaggiare leggera. Finisci la sigaretta. La lasci cadere sul pavimento e salti giù dal tavolo. «Io vado», dici. «Domani parto presto». «Si dice ancora in bocca al lupo?», chiede Leo, la voce strozzata dallo sforzo mentre solleva una cassa di attrezzi.


«Crepi il lupo», rispondi, schiacciando la sigaretta con la punta di un anfibio. L’altra cosa che hai imparato è questa: un attore non è che un viaggiatore del tempo. Come tutti, forse, ma loro vengono sballottati su e giù da un autista misterioso, tu al contrario sai pilotare. Ridi di gioia e hai di nuovo nove anni, stai giocando con Mozzo in giardino; piangi di solitudine e ti ritrovi nel tuo letto di quindicenne. La rabbia invece ha vent’anni: l’hai appena imparata e messa via, per quando ti servirà ancora. Sei la maestra e l’allieva della tua vita. Impari dalla te stessa del passato, insegni alla te stessa del futuro: le persone normali si smarriscono lì dentro, tu ti ci muovi danzando. E visto che tutti ti regalavano qualcosa, perle di saggezza, baci pieni d’affetto, tua zia non ha voluto essere da meno e ti ha lasciato una mela per il viaggio. Nello scompartimento la strofini sulla manica del maglione, estrai il ripiano di metallo e la posi lì, per dopo. Incroci il tuo riflesso nel finestrino buio. Alzi la mano destra e ti copri un lato della faccia, in modo da fissare la ragazzina nel suo unico occhio torvo. Tu non ti preoccupare, le dici. Ci penso io a te. Poi alzi la mano sinistra e scambi un mezzo sorriso con quella giovane attrice temeraria, che sta andando a costruirsi una carriera a centinaia di chilometri da qui. Il gioco viene interrotto sul più bello, quando il treno esce dalla stazione e un cielo lattiginoso invade il finestrino. Sbattendo gli occhi osservi scorrere i treni in sosta, gli edifici


ferroviari, i palazzi di edilizia popolare tra Greco e viale Monza. Non ti eri mai accorta che, dalla Stazione Centrale, i binari puntano verso nord, e per andare a sud bisogna fare il giro di mezza Milano. Per te era solo l’attraversamento di una palude urbana, la faticosa rincorsa necessaria prima di prendere velocità in campo aperto. Adesso invece riconosci i luoghi. Il ponte di via Padova, Lambrate, l’Ortica. Le torri di periferia logorate dal tempo, il giallo e il rosso sbiaditi verso un’uniforme tinta militare. I balconi incolonnati uno sull’altro, addobbati per la tua partenza, da cui ti dicono addio eroici scaldabagni e lavatrici, stendibiancheria sgangherati, piante d’appartamento rosicchiate dai parassiti, gabbie di criceti e canarini che ora corrono a vuoto e cinguettano nell’altro mondo, bambole zoppe o decapitate o rasate a zero, accantonate da bambine cresciute, armadietti stracolmi di federe nuziali e lenzuola ridotte a stracci, elettrodomestici che ai loro tempi avevano varcato la soglia di casa come prodigi della tecnologia, e ora sono soltanto un ingombro che nessuno sa dove buttare. Poi la vista ti si appanna o è il tuo fiato che fa condensa sul finestrino. E solo quando te ne vai ti accorgi che le vuoi bene, a questa morsa nello stomaco che è la tua città d’inverno.


LE ATTRICI Se questa casa fosse un palcoscenico il sipario si alzerebbe su una mattina di ottobre, l’autunno radioso di Roma alle finestre, il disordine di una cucina da studentesse. Caterina, l’attrice saggia e allegra, prepara la colazione cantando: mette in tavola latte, burro, marmellata, succo d’arancia, muesli all’uvetta e tre tipi di biscotti diversi. Un trionfo di zuccheri dispiegato sotto gli occhi di Sofia, l’attrice con il brutto carattere, che appena sveglia detesta mangiare, sentire odore di cibo, fare conversazione ed essere guardata, e viene a patti con il suo stare al mondo soltanto dopo una robusta dose di tabacco e caffè nero. Il posto a tavola di Caterina è il più vicino ai fornelli. Sofia dà le spalle al muro: è in maglietta e mutande e tiene i piedi sul bordo della sedia, le ginocchia strette al petto come ulteriore forma di protezione. Da figlia unica della piccola borghesia lombarda, ascolta con stupore storie piene di zie, sorelle, nipoti e cugine, tutte stipate nello stesso quartiere napoletano. «Noi in famiglia siamo come le api», dice Caterina, che prima di darsi al cinema ha studiato scienze naturali. «Anzi come le pecore, le elefantesse. Le femmine dei mammiferi stanno in branco, si proteggono a vicenda. Ti ho mai raccontato di quando mia zia Fiorella lasciò suo marito e venne a nascondersi da noi? E quello piombò giù come una furia minacciando di sfondare la porta? Non ti dico lo spavento,


Sofì. E le risate. Io non posso pensare di vivere in una casa senza donne, credo proprio che morirei di tristezza». Sofia, la cui casa ideale è uno spazio interstellare dove nemmeno un frammento di asteroide entri in collisione con lei, prende nota di quest’ennesima zia, accende un’altra sigaretta, tace. Quando riacquista il dono della parola dice: «Io di zia ne ho una sola, ma basta e avanza». Oppure: «Che ore sono? Vai tu a chiamare la regina di Bollywood?» Poco prima di uscire c’è da svegliare Irene, l’attrice bella e pigra: si perderà sempre dei pezzi della loro amicizia per questo suo bisogno di dormire fino all’ultimo momento. Attraversa la cucina sotto forma di una matassa di capelli arruffati su una vestaglia floreale, si chiude in bagno, ci resta fino a quando Caterina bussa ripetendole che bisogna proprio andare. Allora dalla stessa porta esce una giovane donna tutta riccioli di rame e occhi verdi incorniciati dal kajal, bella di una bellezza selvatica, zingaresca. «Mangia qualcosa», dice Caterina. «Se no poi ti viene fame». «Ma ci fai anche sesso con lo specchio?», chiede Sofia. «O gli dai solo i baci con la lingua?» Irene le mostra il dito medio agguantando un biscotto al volo, buttando giù mezzo bicchiere di succo di frutta. «La sciarpa», dice Caterina. «La tessera dell’autobus. Avete tutte un mazzo di chiavi?» Si lasciano dietro capelli impigliati nelle spazzole e tazze nel lavandino, biancheria abbandonata sul pavimento del


bagno, mozziconi schiacciati nei portacenere, non più ragazze ma scie di ragazze, ed escono per andare a scuola. Litigiose, fruscianti, ridacchianti, di sera irrompono in questa casa indossando parrucche e abiti di scena. Parlano come i mafiosi italoamericani, o con la erre moscia alla francese. Una delle tre spalanca la porta e crolla colpita a morte, le altre due si disperano con l’enfasi del cinema muto. Ridono tenendosi la pancia, costantemente sopra le righe. Si trascinano in cucina imitando stati di alterazione: ubriaca, fumata, sovreccitata, allucinata, priva di sensi. Fanno la gara dell’orgasmo finto più travolgente. Un giorno portano in questa casa un regista dell’ultimo anno, carico di borse e nozioni imparate a scuola. Monta una vecchia videocamera analogica su un treppiede da fotografo, piazza uno sgabello davanti al muro. Poi dice: «Allora, chi comincia?» Accende il televisore a cui la videocamera è collegata, e quando Irene si siede sullo sgabello il suo volto compare nello schermo. È tagliato dal mento alla fronte: un doppione ingrandito, sgranato dal teleobiettivo, che Irene studia inclinando la testa a destra e a sinistra, affascinata da quel nuovo riflesso di sé. Il regista dice: «Esercizi di micromimica. Irene». «Che cosa devo fare?» «Cominciamo dal sorriso». «A chi sorrido?»


«Prima fammi un sorriso neutro. Come se fossi in una cabina per le fototessere. Stai aspettando lo scatto, hai presente?» «Clic», dice Caterina, dal divano. «Bene», fa il regista. «Ora sorridi a un bambino di due anni». «Che tenera», commenta Sofia. «Hai un futuro da babysitter». «Adesso tira fuori le unghie. Fammi vedere come sorridi a un uomo che vuoi sedurre». «Se voglio sedurlo non gli sorrido», protesta Irene. «Giusto», dice lui, grattandosi la nuca. Poco dopo è il turno di Sofia. Si fa pregare prima di concedersi. Sospira, si alza dal divano. Quando si siede davanti all’obiettivo lo schermo del televisore sembra accendersi di una luce più vivida. «Però», dice il regista. «Che cosa c’è?» «Hai qualcosa. Sei molto fotogenica». «Sì, va be’». «No, credimi. Di un’attrice non puoi dir nulla finché non la guardi lì dentro. Prova a farmi vedere come piangi». «Per cosa piango?» «Non importa. Piangi e basta». «Non posso piangere e basta. Chi sono? Che cosa mi è successo? Ho bisogno di sapere la mia storia». Allora il regista fa una pausa e tiene a tutt’e tre un discorso


serio. Qui non siamo più a teatro, dice, calcando il tono di disprezzo nella voce. Qui l’immedesimazione è un’altra cosa. Qualcosa che devi riuscire a fare davanti a una squadra di macchinisti, con le luci che ti abbagliano e un microfono sopra la testa, magari per venti volte di fila; e devi essere pronta a rifarlo appena senti la parola azione. «Non mi interessa dove vai a prendere il pianto», conclude. «Quelli sono affari tuoi. Ma devi averlo in un cassetto e saperlo ritrovare ogni volta che ti serve. Hai capito?» «Più o meno», risponde Sofia. «Allora proviamo», dice il regista. «Ti va?» «Ma sì». «Azione». Nello schermo Sofia chiude gli occhi. Li strizza forte trattenendo il respiro. Poi sbuffa, li riapre più asciutti di prima. Salta giù dallo sgabello e dice: «Non ce la faccio. Che cazzo, non sono mica un rubinetto. Trovane un’altra che piange a comando». Attraversa la cucina e si chiude in camera sua. «Ma che cos’ha?», chiede il regista, che ci è rimasto male. «Niente», dice Caterina, sventolando una mano per rassicurarlo. «Non ce l’ha con te. Fa sempre così, poi le passa». «Però almeno è fotogenica», aggiunge Irene, punta dalla gelosia. Il venerdì in questa casa è giorno di separazioni. Dopo cena


Sofia indossa un maglione di lana, butta lo spazzolino da denti e un libro nella borsa e va in stazione a prendere l’ultimo treno per Milano. «Mi manca la città», dice, come se Roma fosse aperta campagna, quando le chiedono perché ogni settimana si sobbarchi la fatica e il costo di quel viaggio. Irene sospetta che ci sia di mezzo un fidanzato, su al Nord. Lei a Palermo ce l’ha, benché ormai lo tradisca senza alcun senso di colpa. Nel fine settimana lascia la stanza doppia che divide con Caterina e si impossessa della singola di Sofia, cambia le lenzuola, accende coni d’incenso, poi chiama uno dei suoi amanti e lo invita a trasferirsi qui. Caterina si sente non solo esclusa, ma defraudata del ruolo che ha pazientemente conquistato. Nella bilancia di questa casa lei è il fulcro necessario a tenere in equilibrio i pesi di Irene e Sofia, ora invece non è altro che l’amica grassa della ragazza bella. La domenica fa colazione da sola. Spalma la marmellata sui biscotti e pensa alla sua Sofì. Prova a indovinare che cosa direbbe lei, sentendo le risate amorose di Irene o i suoi gemiti mattutini: una battuta affilata di sarcasmo per salvarsi dalla desolazione della scena. Più tardi a Caterina toccherà pure fare il caffè per l’ospite, mostrandosi cortese mentre in realtà lo odia – per la tavoletta alzata in bagno, per gli schizzi giallastri che avrà lasciato sul bordo della tazza, per la sua compiaciuta sazietà sessuale, per la spontanea tendenza a sedersi a tavola e farsi servire. Caterina pensa alla natura femminile di questa casa come ad acqua di fonte: si sente la custode di quella purezza, la protettrice di quella fragilità.


È immersa nelle sue fantasie quando suona il telefono. Controlla sul tavolino basso, ma come sempre il ricevitore non è nel posto in cui dovrebbe stare. Lo trova tra i cuscini del divano, li scosta, si siede a rispondere. «Cate», dice la voce di Sofia. «Sono io». «Sofì», dice Caterina. «Pensavo proprio a te». Sta per aggiungere qualcosa a proposito della telepatia, ma Sofia non è in vena di chiacchierare. Parla con tono pratico, impaziente. Dice a Caterina che stasera non torna, e può darsi si debba fermare a Milano per tutta la settimana. «Come mai?» «Hanno ricoverato mio padre in ospedale». «Oh. Niente di grave, spero». Dall’altra parte del filo Sofia esita. Tira su col naso per il raffreddore. Poi decide di fidarsi, o solo di liberarsi di un peso, e tutto d’un fiato dice: «Cate, mio padre ha un tumore da tanto tempo. Stanotte ha perso conoscenza, non so quanto resiste ancora». «Cosa?», chiede Caterina. Ma è un labiale senza suono, non c’è aria nei suoi polmoni. Trova un filo di voce, ripete: «Come?» «Adesso non posso stare qui a raccontarti. Scusa. Poi ne parliamo meglio se vuoi. Mi fai il favore di avvisare tu a scuola?» «Certo», dice Caterina, come un automa. «Ti chiamo io in questi giorni, va bene?» «Va bene. No, aspetta».


«Devo andare adesso, ciao». «Sofia», dice Caterina, ma a quel punto Sofia ha messo giù. È successo tutto in meno di un minuto. Un intervallo insignificante per i bioritmi di questa casa: il frigorifero non ha smesso di ronzare, la goccia d’acqua è rimasta in bilico sul bordo del rubinetto. Con il telefono in mano Caterina fissa la parete e le viene in mente di chiedere: dove sei? O anche: dove ti posso chiamare? E poi, quando il cervello ricomincia a fare il suo lavoro: hai bisogno di qualcosa? C’è qualcuno con te? Vuoi che venga lì? E poi ancora, dopo che ha riavvolto il nastro della conversazione: da tanto quanto? Anni? Un tumore da tanto tempo? Com’è possibile che viviamo insieme da quattro mesi, ci scambiamo perfino le mutande e di questa storia non hai mai parlato? E infine la goccia cade nel lavandino, il frigorifero si arresta con uno scossone, e dolorosamente Caterina arriva al punto. Com’è che non l’ho capito da sola? Che stupida, pensa. Che stupida cicciona. Non vedi più in là del tuo naso. Inutile mezza donna. È la tecnica che Caterina usa quando brucia una torta o rompe un bicchiere: dopo essersi insultata per bene si sente rigenerata come da una scarica di pugni al sacco. Posa il telefono dove deve stare, poi va a svegliare Irene e a organizzare insieme a lei le operazioni di soccorso. Sofia torna il sabato successivo, due giorni dopo il funerale di suo padre. Viene accolta dal profumo di un ragù che è stato


tutto il pomeriggio sul fuoco. Apre la porta e si ferma sulla soglia: i capelli le cadono sulle spalle, il maglione è lo stesso con cui è partita. Puzza di lana umida, di sudore, di scompartimento fumatori. Osserva questa casa come se fosse stata via non una settimana ma sette anni; Irene e Caterina non sanno se abbracciarla lì all’ingresso o aspettare che sia entrata. «Vi prego, datemi una vasca da bagno», dice, lasciando cadere la borsa sul pavimento. Poi cede alla tentazione di stendersi per cinque minuti, in attesa che la vasca si riempia, e si addormenta profondamente; la lasciano dormire fino alla mattina dopo. Così la natura di questa casa cambia. Ora è una casa che contiene un lutto, il che rende i suoi muri più spessi dei normali muri di mattoni. Per proteggere Sofia dal dolore Irene e Caterina si comportano come quei genitori di bambini irrequieti, che coprono gli spigoli dei mobili con la gommapiuma. La gommapiuma di Caterina è la sua attenzione, il suo tiramisù all’amaretto, il suo stesso corpo morbido e accogliente. La gommapiuma di Irene è composta da strati su strati di frivolezza: secondo la sua filosofia lo stato fisico della disperazione è il silenzio, e non puoi essere veramente a terra se hai ancora qualcosa di cui chiacchierare. Passano a casa molto più tempo di prima. Se propongono a Sofia di uscire lei risponde che è stanca, o che ha freddo, o che non se la sente di vedere nessuno. Sta bene qui con loro. Ha perfino cominciato ad avere appetito. «Io mangio solo quello che prepara Caterina», ripete, senza immaginare la gioia che le


dà. Racconta di sé cose come questa: che ha sempre avuto un rapporto difficile col cibo, perché era il campo di battaglia tra lei e sua madre. Ora invece i sapori che la nauseavano le sembrano diversi e strani, le fanno venir voglia di assaggiare tutto. È un piacere altrettanto intenso quello che Caterina sperimenta più tardi, quando si spostano tutt’e tre sul divano e Sofia le appoggia la nuca alle cosce, chiude gli occhi, si lascia accarezzare. Irene provvede all’intrattenimento. Racconta del;l’uomo con cui sta uscendo, un autore televisivo conosciuto a un provino, e si lamenta del suo fidanzato siciliano: lui ha comprato due biglietti per l’India senza dirle niente, e lei anziché saltellare per la felicità si è sentita chiusa in gabbia, gli ha fatto una scenata. «Ma perché non lo molli, scusa?», chiede Sofia. «Perché stiamo insieme da così tanto», dice Irene, aspirando una boccata di fumo da una pipa di terracotta. «Mi sembrerebbe, che ne so, di lasciare mio fratello. Si può lasciare un fratello?» «Che stronza», commenta Sofia. «Ma tu cosa sei, non ho capito? La mia guida spirituale?» «Hai ragione, hai ragione. Non lasciare tuo fratello, anzi sposalo e facci un paio di bambini. Posso fumare anch’io, scusa tanto, dato che l’erba è mia?» «Mia, mia, mia», risponde Irene, facendo l’ultimo tiro veloce e passandole la pipa. «Eccola la tua anarchia». Caterina ride, divertita dai loro litigi come dai battibecchi


di due vecchie zie. Massaggia le tempie di Sofia con le dita, cercando di ammorbidire i pensieri duri che la affliggono. «Che meraviglia», dice lei, sotto l’effetto combinato di Caterina, della marijuana e delle gocce che sta prendendo per l’ansia. «Dovresti farlo di mestiere, altro che recitare. Nelle tue mani mi sento di pastafrolla anch’io». Rimane lì sdraiata fino a perdere i sensi. Lascia un discorso a metà, la sigaretta le cade dalle dita. Irene e Caterina allora si guardano e sorridono. Pensano che sia meglio così, che ci siano periodi nella vita in cui la lucidità non serve a niente. Mentre Irene va a lavarsi i denti Caterina accompagna Sofia in camera, la spoglia, la aiuta a mettersi a letto. Si siede accanto a lei e la accarezza finché non si addormenta. Questa casa è imburrata e infarinata; è imbottita, ovattata, trapuntata, è un nido intessuto di paglia e di piume; è una casa a tenuta stagna, corazzata col piombo e sigillata col silicone: niente del bene che contiene può disperdersi, niente del male che c’è fuori può insinuarsi al suo interno. Poi una mattina scocca la primavera. Succede durante una colazione tardiva, mentre Irene assaggia uno yogurt scaduto da due giorni e Sofia spreme un’arancia che richiede tutte le sue forze: all’improvviso il sole si alza sul palazzo di fronte e una lama di luce taglia in due la cucina. Caterina ha l’istinto di andare a chiudere le tende, come nelle stanze dei malati, Sofia invece corre ad aprirle. Spalanca anche la finestra, e in questa casa satura di odori invernali torna a soffiare il profumo dei


pini marittimi, degli scarichi dei motorini, della frutta dei mercati di quartiere, delle strade lavate durante la notte che si asciugano al sole. Sofia ne è come risvegliata. Il lunedì si mette in cerca di una compagnia teatrale. Sente il bisogno del palcoscenico, dopo tutto quell’agitarsi nelle aule scolastiche. Fa il giro dei piccoli teatri di Roma, appende al frigorifero i volantini delle rassegne. Insieme alla voglia di recitare recupera lo spirito combattivo. Di sera Irene e Caterina la sentono litigare al telefono: discute con sua zia a proposito di sua madre. Non è difficile intuire la natura del problema, dato che non torna a Milano dai tempi del funerale. «E io chi ho invece?», grida, dietro la porta della sua stanza, conficcando nel cuore di Caterina gli spilli dell’ingratitudine. «Credi che ci sia qualcuno qui a tenermi compagnia?» «Macché egoista. Perché cercare di stare bene è egoismo secondo te? Allora anche respirare. Anche bere un sorso d’acqua quando hai sete, no? Vuoi sempre salvare tutti, vai a salvarla tu». «Ecco, brava. Tanti auguri», grida, buttando giù il telefono. Poi viene a sedersi in cucina, si calma, un po’ si pente di averla trattata così. È una zia che a Caterina suscita un’istintiva simpatia. Certe volte è tentata di telefonarle, presentarsi e chiederle un consulto su quella strana creatura di sua nipote. «Io le devo moltissimo», dice Sofia. «Però su certe


questioni è intrattabile, ha una testa che potresti piantarci i chiodi». «Che male», dice Irene, limandosi le unghie. «È che lei una famiglia non l’ha voluta, anzi ha sempre fatto la matta per non lasciarsi ingabbiare da nessuno. Invece gli altri devono stare al posto loro e volersi bene. Sai come il cane pastore, no? Uno fa un passo di lato e lui si mette a correre in cerchio e abbaiare finché quello non torna in gruppo. Mia zia Marta è così. Voi fate le famigliole felici, o infelici, non importa, tanto ci sono già io come scheggia impazzita». «Magari è perché sotto sotto le manca», propone Caterina. «Che cosa?» «Una famiglia». «A mia zia? Certo, come no. Specialmente un marito. Magari un guerrigliero zapatista, col passamontagna e tutto». Poi Sofia scopre il teatro di strada e se ne appassiona. Entra in una compagnia che si ritrova in un centro sociale dall’altra parte di Roma. Mentre lei torna in questa casa solo per mangiare e dormire, Caterina spende un intero fine settimana nelle grandi pulizie: mette via i maglioni, le sciarpe e i berretti, usando pastiglie di canfora per proteggere la lana dalle tarme. Sfodera il divano, tira giù le tende e porta tutto in lavanderia. Le viene pure voglia di sbrinare il freezer. Sofia nemmeno si accorge dei cambiamenti. Ricompare la domenica sera, dopo due giorni di assenza: è rimasta fuori a dormire e non si è preoccupata di telefonare. «Sapete qual è il contrario della strada?», chiede a tavola,


sbocconcellando spaghetti riscaldati in padella. È tutta presa dallo spettacolo a cui sta lavorando con la compagnia. «Non so, la piazza?», propone Irene. «No, la casa. Pensaci. Una casa divide il mondo in due soli spazi, un dentro e un fuori. Se sei dentro non sei fuori, e viceversa. Ma è possibile che non riusciamo a farne a meno? Che dobbiamo passare la vita a rinchiuderci in una scatola dopo l’altra?» «Be’, mica devi per forza rinchiuderti», interviene Caterina, con un moto d’insofferenza. «Ci puoi anche solo abitare, o sbaglio?» «Certo, certo. Abitare, abito, abitudine. È tutta roba che ci mettiamo addosso, tutti i nostri strati protettivi». Caterina sbuffa. «Quelli non li finisci?», chiede, arrendendosi. «Sono strapiena», dice Sofia. «Era buonissimo, Cate, davvero». Solo quando sparecchia la tavola Caterina si accorge del trucco: Sofia non ha fatto che sminuzzare gli spaghetti e spostarli qua e là per mezz’ora. Pensa al lungo esercizio che dev’esserle costata questa tecnica, alla recita quotidiana dei pasti. È ferita non tanto per il cibo quanto per l’inganno, per essere finita anche lei dalla parte del nemico. Si chiede che cosa abbia fatto per meritarselo. Questa è l’ultima volta che ti preparo da mangiare, giura, gettando la cena di Sofia nel secchio dell’immondizia.


Per celebrare la fine dell’inverno organizzano una festa a tema marinaresco. Passano un pomeriggio a truccarsi e vestirsi da figlia di Sandokan (Irene), Balena Bianca (Caterina), Robinson sull’isola deserta (Sofia). Appendono lanterne alle pareti, incollano pesci di carta e rigogliose piante acquatiche. Poi uno alla volta arrivano gli ospiti: marinai, sirene, un Braccio di Ferro, un sommozzatore con pinne e boccaglio, una Medusa, due reduci del Titanic. Bevono mojito fatto con la menta del balcone. Ballano reggae e musica cubana. Durante la sera Caterina cerca spesso lo sguardo di Sofia. Anche da punti lontani della festa, parlando con qualcun altro, versandosi da bere. Gli occhi di Caterina dicono: tutto bene? Io sono qui se hai bisogno di me. Ma quelli di Sofia rispondono malvolentieri. Mantiene un’aria assente fin quando arrivano i suoi amici del teatro, e allora si dedica a loro e comincia a sorridere un po’. Uno è vestito da bagnante hippy: ha i capelli lunghi, l’accappatoio, le ciabatte di gomma, una collana di perline al collo. Verso mezzanotte Caterina li vede molto vicini sul divano. È sufficiente un’occhiata per capire: lui le passa da fumare, lei ride, lui le circonda le spalle con un braccio. E così, pensa Caterina, ecco il motivo di tanta passione per il teatro. Com’è tutto scontato e prevedibile, Sofia, non è da te. Non le va di continuare a guardare, così raccoglie i bicchieri vuoti e li porta via. Poi pensa: magari ho visto male. Si volta, scruta tra i corpi dei ballerini e scopre che adesso Sofia e il ragazzo si stanno baciando appassionatamente. Sono finiti sdraiati sul divano. Lui tiene il bicchiere a mezz’aria per


non versare il mojito, lei gli sta sopra come se l’avesse steso con una mossa di lotta libera. Ha le guance dipinte con un tappo di sughero bruciato, una camicia sbrindellata, i jeans tagliati al ginocchio e i piedi nudi – i piedi di Sofia, magri e con le dita lunghe e le vene più blu che si siano mai viste, insofferenti a calze e scarpe, ordine e disciplina. Le dita dei suoi piedi che si arricciano nel trasporto di quel bacio sono l’ultima cosa che Caterina nota, poi si siede a tavola a fissare uno scolapasta di stagno. Gliel’ha regalato sua nonna quando è venuta a stare a Roma. Ecco quello che ti è rimasto, pensa: un amore che non serve a niente, come uno di questi attrezzi resi inutili dal progresso. Lo puoi appendere al muro se vuoi. È tutto quello che ci puoi fare. Poi una canzone finisce, ne comincia una nuova e Caterina si sente tirare per un braccio. Di colpo Sofia è davanti a lei e le dice: «Cate, questa dobbiamo proprio ballarla insieme». È «I Can’t Help Falling in Love with You» di Elvis, in una versione reggae di qualche anno fa. Caterina non balla mai, ma stasera come potrebbe dirle di no? È il loro ultimo giro di valzer. Lei è avvolta da un lenzuolo e una decina di forchette la trafiggono come arpioni. Sono un naufrago e una balena bianca dispersi nel bel mezzo dell’oceano. Caterina alza le mani sopra la testa, finge che intorno a loro non ci sia più nessuno e canta: «I saggi dicono che solo un pazzo ci cascherebbe, ma non posso evitare di innamorarmi di te». Quella notte, dopo che la festa è finita, Sofia riemerge dalla sua


stanza. Scavalca i cuscini seminati per terra, sfiora l’ubriaco che è svenuto sul divano. Prende un bicchiere dalla cucina. Non accende la luce. Sembra a suo agio nell’oscurità, in grado di attraversare questa casa muovendosi a memoria. In bagno apre il cassetto delle medicine e pesca una boccetta, svita il contagocce, ne versa alcune nel bicchiere e lo riempie d’acqua. Lo beve tutto d’un fiato. Lo sciacqua sotto il rubinetto e poi lo lascia lì. Sta per uscire quando incrocia un movimento nello specchio, e solo allora ha un’esitazione. Allunga una mano verso l’interruttore. Lo preme. Il passaggio dal buio alla luce è violento e le sue pupille si ritirano di scatto, come due animali selvatici sorpresi fuori dalla tana. «Piangi», ordina al proprio riflesso. «E dai, piangi». «Che attrice sei se non sai piangere ogni volta che vuoi?» Ma la ragazza nello specchio non versa nemmeno una lacrima. Sta lì e la guarda e tutto quello che ha negli occhi è siccità. «E allora crepa», dice Sofia, poi spegne la luce e torna nel suo elemento.


SULLA STREGONERIA Al lago in settembre non c’era più nessuno, tranne i turisti tedeschi e i camerieri e i pescatori di persici e lavarelli. Le barche a vela incrociavano verso la sponda svizzera. Seduto su uno scoglio, otto anni e qualche mese prima di morire, Roberto Muratore scrutava sua figlia fingendo di leggere il giornale. Sofia ruppe la superficie dell’acqua con la punta di un piede, come per sentire la temperatura, ma aveva freddo, si vedeva anche di spalle: teneva le braccia rigide lungo i fianchi e stringeva le maniche della felpa nei pugni. Gli orli erano tutti rovinati per quel suo vizio di stropicciarli e mordicchiarli. Con l’alluce tracciò un segno sull’acqua, qualcosa che subito si dissolse. Disse: «Cos’è, vi siete lasciati?» «Non ti sento», rispose Roberto. In bocca gli stava salendo il sapore della gastrite. Era nervoso per il litigio di prima – la valigia di Rossana rifatta in fretta e furia e la corsa alla stazione – e per la telefonata che da due giorni rimandava. «E poi non parlo con chi non mi guarda in faccia». Sofia si voltò verso di lui. Si avvicinò con passi cauti per non ferirsi sulle pietre della riva. Aveva gambe molto magre e bianche, le ginocchia come nodi in un giunco di bambù. «Che cosa leggi?», chiese. «Politica», disse Roberto. «Niente di che». Incredibilmente, l’Unione Sovietica era sull’orlo del collasso. Le repubbliche baltiche se ne andavano una per una,


dichiarando l’indipendenza senza che Mosca muovesse un dito. Con un simile slancio eversivo, quella mattina, nella mucosa interna dello stomaco di Roberto una cellula si era ribellata, aveva assunto la forma anomala di un anello con castone e ora resisteva agli attacchi del sistema immunitario. Roberto stava pensando ai carri armati, che solo pochi anni prima avrebbero riportato l’ordine a Vilnius e Tallinn, quando la faccia di Sofia spuntò da sopra il bordo del giornale. Lo guardava cercando di capire se fosse arrabbiato o cosa. Lui si sforzò di addolcire il proprio tono di voce. «Non volevi fare il bagno?», chiese. Invece di rispondere, Sofia allungò una mano verso il suo torace. I peli erano morbidi e folti. Prima di quella vacanza Roberto non ricordava di essersi mai mostrato nudo ai suoi occhi, e nemmeno mezzo nudo. L’indice di lei che gli arricciava i peli lo metteva in imbarazzo, ma tutto era imbarazzante in una figlia di tredici anni: un momento era una bambina, che non riusciva a trattenersi dal toccare quello che la incuriosiva, e il momento dopo era una donna consapevole del proprio potere. «Dai», disse, scostandole la mano. «Allora, vi siete lasciati?» «Ma va’ là», rispose Roberto. «Non essere sempre catastrofica». «Io sono catastrofica?», domandò Sofia. Roberto sbuffò. Posò a terra il giornale senza ripiegarlo. Disse: «Per te ogni nuvola porta tempesta. Se non hai la tua felpa non puoi uscire di casa, perché ti protegge da chissà cosa.


E se fai un brutto sogno non è come i brutti sogni che fanno tutti, è una premonizione del cielo». «Non ho detto che era del cielo», rispose Sofia. Intanto aveva fatto una nuova scoperta sul corpo del padre. Il primo giorno la pelle era bianco latte, come la sua: ora invece era tutta rossa, ma se premevi un punto con un dito tornava bianco per un po’. «In ogni caso», disse Roberto, «tua madre era stanca morta. Che vacanza è se uno si stanca invece di riposarsi? E poi ti sembra così brutto stare con me per un paio di giorni?» Mai stati soli, loro due, da quando lei era nata. «No che non mi sembra brutto», disse Sofia. «Anzi, mi sembra bellissimo». Gli fece un mezzo sorriso, gli sfiorò la clavicola con il dorso delle dita e di colpo aveva venticinque anni. Erano partiti per il lago due sere prima. L’idea era stata di Roberto. Era appena tornato da un viaggio di lavoro con Emma e tendeva a vedere i rapporti affettivi come un sistema di leve, pesi e contrappesi: se ora avesse portato in vacanza la sua famiglia, il baricentro sentimentale si sarebbe spostato di nuovo verso un ragionevole equilibrio. In macchina aveva spiegato a moglie e figlia la differenza tra laghi vulcanici e laghi alpini, senza accorgersi che non lo ascoltava nessuno. Sofia nascondeva le cuffie del walkman sotto il cappuccio della felpa. Rossana guardava fuori dal finestrino e cercava di immaginare il paesaggio durante l’era glaciale: per via delle


correnti, delle pressioni, della pianura giù in fondo e della montagna su in cima, di quelle grandi masse di acqua fredda e di qualcos’altro che non aveva capito, sul lago tirava sempre vento. C’erano le barche a vela. Una cosa era certa, i costumi sarebbero rimasti in valigia, e fu il motivo numero tre o quattro per cui odiava quel posto ancora prima di vederlo. Il motivo numero cinque fu la casa. Non la casetta bianca con il terrazzo e i fiori che Roberto le aveva lasciato sperare, ma l’appartamento di un’anziana donna morta sei mesi prima. Il figlio di lei, uno scapolo di sessant’anni con l’aria da vedovo inconsolabile, li condusse lungo il corridoio affacciandosi appena nei vani delle porte, per mostrare la cucina, la sala da pranzo, la camera matrimoniale e quella degli ospiti. Più avanti c’era un’altra stanza, ma quando ci arrivarono l’uomo disse: «Questa è molto in disordine, chiedo scusa». Chiuse la porta a chiave, si infilò la chiave in tasca e proseguì verso il bagno. In coda al gruppo, Sofia notò una foto ingiallita appesa in corridoio: una famiglia al completo, con il padre e la madre seduti in prima fila e sei ragazzi in piedi intorno a loro. La vecchia signora doveva essere stata la madre. Ma poteva anche trattarsi di una generazione precedente, visti i cappelli e gli abiti e la qualità della stampa: in quel caso la vecchia signora era una delle figlie accanto ai genitori. Le sarebbe piaciuto sapere quale. «Perfetto», sentì dire a suo padre. Roberto firmò un assegno all’uomo e prese in consegna le chiavi dell’appartamento. Quella notte Rossana non riuscì a dormire. A una certa ora


si convinse che fosse colpa della tappezzeria. Spessa, umida e ammuffita, impregnata dell’odore tipico delle case degli anziani. Si alzò ad annusarla e ritrovò in quell’odore tutte le minestre di cavolo e cipolla, l’urina rancida nei vasi da notte, i vecchi corpi non lavati della sua infanzia. Tornando a letto ebbe la certezza che la donna fosse morta proprio lì, tra quelle lenzuola, e che la sua fosse stata una lunga agonia. Decise di non parlarne con Roberto. Lui avrebbe detto che erano pensieri macabri, e che stavano rendendo macabra anche Sofia. E infatti la mattina dopo Sofia si alzò, si sedette al tavolo della colazione, fece un largo sbadiglio sguaiato e dichiarò che la casa era infestata dai fantasmi. Lei però non li chiamava così. Preferiva dire anime senza pace. «Come?», chiese Rossana, stravolta dalla notte in bianco. «Ho fatto un sogno. Ho ricevuto dei segnali». In quel periodo Sofia era fissata con le streghe. Leggeva romanzi storici e saggi sull’Inquisizione. Parlava di magia bianca e magia nera, di ragazze bruciate sul rogo e altre atrocità della Chiesa nel Medioevo. Roberto si limitava ad assecondarla. Le comprava i libri che chiedeva. Un sabato l’aveva accompagnata a Milano a vedere il Museo della Tortura. Gli sembrava che tutta la faccenda avesse un risvolto vagamente femminista: streghe contro preti, giovani ragazze bruciate contro vecchi maniaci sessuali. Era un altro passaggio necessario se avevi una figlia adolescente. «Perché non ci racconti questo sogno?», chiese. «Perché non me lo ricordo. Io non sogno delle storie con un


inizio e una fine. Assomigliano di più a delle sensazioni». «Se cerchi di ricordartelo è meglio», disse Roberto. «Quando racconti un incubo, poi fa meno paura». «Ma a me non fa mica paura», disse Sofia. Aveva assunto questa posa da medium professionista: comunicare con i morti era un dono e una condanna, con cui era rassegnata a convivere per il resto dei suoi giorni. «Che cosa vuol dire che è meglio?», insorse Rossana, dal pozzo buio in cui si trovava. «Adesso hai anche una laurea in psichiatria? Hai il potere di fare svanire gli incubi e renderci tutti felici?» Roberto si voltò sorpreso. Non si era accorto di quanto fosse scossa. Aveva gli occhi rossi e gonfi e un principio di cervicale che più tardi peggiorò: ritornò a letto, indossò la mascherina che usava per dormire di giorno, lo spedì in farmacia a comprare degli analgesici. In paese Roberto scoprì che molti negozi erano chiusi per ferie. Solo i tedeschi si ostinavano a fare il bagno, ma sembrava più che altro una questione di principio. All’azienda di soggiorno si informò sugli orari degli aliscafi e le isole da visitare. Quanto alla situazione domestica, era convinto di non essere lui il problema. Tra sua moglie e sua figlia stava succedendo qualcosa. Una volta era stato geloso della loro intimità, adesso ringraziava il cielo di esserne rimasto fuori. Da complici erano diventate rivali, e sapevano ferirsi nel modo crudele di chi conosce tutti i punti deboli dell’altra. Per brevi momenti tornavano amiche, e allora non sembravano nemmeno


madre e figlia, ma sorelle gemelle. Avevano le stesse parole preferite, lo stesso modo di gesticolare. Una volta Rossana gli aveva detto che lei e Sofia erano in connessione, e lui si era ricordato dei discorsi che faceva quand’era incinta, gli era venuto un brivido al pensiero di quei tempi e aveva deciso di non approfondire. La seconda notte fu uguale alla prima. Rossana non chiuse occhio. La mattina dopo Sofia ricominciò con la storia dei fantasmi. «Ma piantala», disse Roberto. «Porca miseria, ma voi non ci parlate con i vostri santi? Con le preghiere e tutto il resto? Non parlate con i morti anche voi?» «Sofia, guarda che mi arrabbio», disse Roberto. Rossana scuoteva la testa. Aveva una mano sugli occhi e l’altra stretta intorno alla tazza di tè che cercava di mandare giù. La cervicale le aveva fatto venire pure la nausea. Per la seconda volta chiese a Roberto di riportarla a casa, e lui rispose di avere pazienza e riposarsi, e che nessuna medicina era migliore di un buon letto caldo. Niente, sapeva tutto lui. Rossana perse il controllo, gettò il suo tè nel lavandino, gridò che quel posto le faceva schifo e non ci sarebbe rimasta un minuto di più, preparò la valigia e gli intimò di accompagnarla in stazione. «Scappare non serve a niente», commentò Sofia, trionfatrice della battaglia quotidiana.


Quella sera Roberto fece una visita in rosticceria. Comprò una bottiglia di prosecco e due porzioni di filetti di persico con patate al forno, e chiamò Emma dal telefono pubblico. Per le ben note leggi fisiche dell’adulterio, era su tutte le furie anche lei. Quando una era allegra e disponibile, era allegra e disponibile anche l’altra; quando le cose andavano male ti arrivavano raffiche da tutti i fronti. Emma era furibonda per il modo in cui lui era sparito: aveva preso le ferie senza avvisarla e da due giorni non si faceva sentire. Cercare di spiegarsi fu inutile. Lei aveva già giurato di fargliela pagare. C’era un nocciolo nelle donne che era duro come la pietra, e nessun torto reclamava vendetta ai loro occhi quanto l’orgoglio ferito. Roberto raccolse il sacchetto della spesa, uscì dalla cabina e si avviò verso l’appartamento. Passando dal lungolago invidiò i pescatori che sapevano stare fermi per ore, indifferenti perfino al pesce. Aprì la porta e trovò Sofia in corridoio, al buio, che spiava nella stanza chiusa dal buco della serratura. «Che cosa fai?», chiese. «Guarda qui», disse lei. «Vuoi sapere una cosa, Sofia? Io sono veramente stanco». «Per favore, per favore. Giuro che lo devi vedere». Roberto sbuffò, appoggiò le mani alle ginocchia e si chinò, chiudendo l’occhio destro per guardare col sinistro. Dopo non molto, premette la fronte contro la serratura per cercare di vedere meglio. In effetti c’era qualcosa. Sofia l’aveva scoperto


la prima notte: si era alzata per andare in bagno, e dalla stanza chiusa era arrivato un rumore. «E quelli sarebbero fantasmi?», disse Roberto, rialzandosi. «Perché, se no che cosa sono?» «Possono essere tante cose. C’è di sicuro una spiegazione». Però non gli veniva. Si chinò di nuovo a guardare: delle forme chiare, morbide, si muovevano nella stanza in modo appena percepibile. Erano illuminate da un pallido bagliore giallo. Ricordò il padrone di casa e l’espressione che aveva quando si era affacciato lì dentro. E quando parlava di sua madre, poco prima, e Roberto aveva pensato che non sembrava un figlio ma un marito. Andò in cucina e tornò indietro con un coltello a punta tonda. Riuscì a svitare la maniglia della porta, e poi svitò pure la placca della serratura. Quando ebbe svitato tutto, si accorse che non serviva a nulla. Naturalmente l’ingranaggio era all’interno. Era capace di tracciare a occhi chiusi lo schema meccanico di un motore d’automobile, ma non di aprire una stupida serratura. «Hai bisogno di una forcina?», domandò Sofia. Roberto ci ragionò con calma, poi infilò un paio di quei coltelli tra la porta e il pavimento. Ora c’era uno spessore di qualche millimetro, abbastanza per fare leva. Ancora un po’ e ci passarono le dita. Adorava i lavori in cui la forza bruta viene in soccorso dell’intelligenza: ficcò le mani lì sotto, tirò verso l’alto come un sollevatore di pesi, i cardini scricchiolarono e la porta andò giù di schianto.


«Porca miseria», disse Sofia. Tastò il muro della stanza e trovò un interruttore. Fu come accendere la luce in un cinema, con la gente che strizza gli occhi e l’incantesimo che svanisce di colpo: i suoi fantasmi erano solo mobili coperti da lenzuola. Le persiane delle finestre erano chiuse ma i vetri aperti, probabilmente per far girare l’aria. E l’aria in effetti girava: la brezza muoveva le lenzuola e la luce di un lampione le illuminava di sbieco, filtrando attraverso le persiane. Tutto lì. Sofia c’era rimasta male. Roberto invece stava pensando a come rimettere su la porta. Temeva di avere rotto qualcosa, ma se i cardini erano a posto avrebbe potuto accostarla e sperare che il padrone di casa non si accorgesse di nulla. Era un po’ stanco di problemi quel giorno. Ma gli dispiaceva anche per Sofia, lo rattristava vederla delusa, così prese un lembo di lenzuolo, lo tirò verso di sé ed ecco, esclamò, con un tono da banditore d’asta, un prezioso divanetto anni Sessanta. Sofia rise. Via un lenzuolo e poi un altro, ed ecco le due poltroncine che andavano col divano. Un pezzo alla volta svelarono l’intero salotto: un tavolino basso di mogano, la vetrina della cristalleria, l’angoliera con i liquori, un giradischi affiancato da due grandi casse in radica. C’era un’intera collezione di vecchie glorie: Edith Piaf, Domenico Modugno, Frank Sinatra, Duke Ellington ed Ella Fitzgerald. Nell’angoliera languivano alcuni fondi di bottiglia. Uno era di un rosso amaranto, una specie di sciroppo denso. «È succo di lampone», disse Sofia, annusandolo. «È ribes», la corresse Roberto. «Crème de cassis».


Scelse un disco e lo mise sul piatto. Andò in cucina e stappò la bottiglia di prosecco che aveva comprato. Preparò un bicchiere con un goccio di cassis e molta acqua, l’altro con cassis e prosecco. Lui non poteva saperlo, ma non gli restavano tante feste a cui brindare: giù nello stomaco la cellula ribelle era riuscita a riprodursi, così adesso da una ce n’erano due; due congiurate che si stavano organizzando per diventare quattro. «Mademoiselle, et voilà votre Kir Royal», disse, anche se il Kir Royal era per lui. Scostò una poltroncina come se fosse il maître di un grande albergo e fece accomodare sua figlia. Sofia si sedette tutta fiera. Edith Piaf cominciò a cantare «Les amants d’un jour». Dalla finestra entrava un buon profumo di boschi, il vino era freddo al punto giusto e la dolcezza corposa del cassis si combinava bene con l’acidità del prosecco, ne smussava gli spigoli e gli dava spessore. Roberto, che aveva appena cominciato a morire, si convinse di essere un uomo semplice in mezzo a donne complicate: a lui bastava davvero poco per stare bene. Appoggiando il bicchiere accarezzò la superficie del tavolino. Il mogano era liscio e lucido, come appena passato con la cera.


LE COSE DA SALVARE Quando ormai più nessuno pensava a lei, Rossana Muratore allagò la cantina di casa. L’autopompa dei vigili del fuoco attraversò il villaggio a sirene spente, tetra e solenne tra i giardini di giugno, attirando le madri di Lagobello alle finestre e lasciando due solchi profondi come brutti ricordi sull’erba nuova. Rossana aspettava davanti al suo cancello. Da molto tempo non si mostrava alla luce del sole, ma non aveva l’aria di una pazza. Portava i capelli lunghi, legati in una coda, gli stivali di gomma e la camicia a scacchi che usava una volta per lavorare in giardino. Per via degli abiti maschili, dei fianchi magri e del castano luminoso dei capelli, sembrava una donna che aveva smesso di invecchiare. Il caposquadra la seguì all’interno, e altri quattro pompieri scesero dall’autocarro per osservare quella villetta diroccata: con le persiane chiuse, l’erba rada e giallastra, la cuccia disabitata del cane, le ciliegie cadute dall’albero che restavano a marcire sul terreno. Fecero mezzo giro della casa e si radunarono intorno a una finestrella del seminterrato. Uno di loro tornò indietro a srotolare il bocchettone di aspirazione. Lo calarono giù, e dopo non molto dall’autopompa sgorgò un torrentello che percorreva il vialetto e defluiva nei prati, intasando i tombini e formando una pozza che si allargava a vista d’occhio. La madre di Bruno si riaffacciò alla finestra quando sentì i pompieri andare via. Ora Rossana Muratore si era rimboccata


le maniche della camicia, e faceva avanti e indietro dalla cantina al giardino portando fuori la sua roba perché si asciugasse al sole. A Lagobello gli adulti la chiamavano signora Muratore, benché il signor Muratore fosse morto da anni per un cancro allo stomaco, e i ragazzi la madre di Sofia, anche se Sofia se n’era andata di casa molto tempo prima del padre. Niente di strano che fossero capitate tutte a lei. Nemmeno le poche persone che l’avevano chiamata Rossana le perdonavano due colpe: era stata incapace di educare sua figlia, così come di prendersi cura di suo marito. Anche adesso, c’era una specie di rassegnazione nel modo in cui affrontava i danni dell’allagamento. Trascinò fuori due poltroncine imbottite e un materasso di lana che, zuppo d’acqua, doveva pesare un quintale. Uno scatolone a metà strada si sfondò, riversando sul prato un mucchio di libri fradici e ormai inservibili. Rossana li fissò sopraffatta. La madre di Bruno aveva insegnato italiano alle medie: davanti a quello scempio non ebbe più l’animo di restare a guardare, e decise di chiamare suo figlio perché andasse a darle una mano. Bruno era ancora a letto, ma non dormiva. Se ne stava sotto le lenzuola a pensare a Gael, la sua ragazza francese, e agli amici della Croix Rousse. Aveva studiato per un anno a Lione, dove gli sembrava di aver imparato diverse cose e che diverse cose fossero cambiate nella sua vita, però adesso la scuola era finita, lui era tornato in quel buco di Lagobello e la sensazione stava svanendo rapidamente. Il giorno in cui era sceso dal treno, con i jeans ficcati negli anfibi e l’odore di ;Gael addosso


e l’italiano che usciva dagli altoparlanti come una lingua straniera, non credeva che avrebbe impiegato così poco a riabituarsi. Lei invece l’aveva previsto. Gael lo aveva messo in guardia dai pericoli del ritorno. Ora Lione, le scalinate del vecchio quartiere, il corpo della ragazza e il se stesso che aveva scoperto insieme a lei sembravano già gli elementi di un sogno, e servivano riti laboriosi per renderli di nuovo reali: la sera prima Bruno si era chiuso nella macchina del padre, in garage, ad ascoltare i Noir Désir all’autoradio, fumare sigarette francesi e lanciare occhiate torve allo specchietto. Sotto il logo delle Gauloises c’era scritto: Liberté Toujours. Era come cercare di trattenere una sabbia finissima nel palmo delle mani, e vederla scivolare via un granello dopo l’altro. La maniglia della porta si abbassò. La testa di sua madre spuntò dentro e disse: «Buongiorno. Sei sveglio?» Aveva cominciato a trattarlo con una specie di cortesia guardinga. Due settimane prima, in stazione, vedendolo si era spaventata, e ora cercava di capire chi fosse tornato al posto di suo figlio. «Ti spiace bussare?», disse Bruno. «Sai com’è». Sua madre ignorò la questione della riservatezza. Si accorse che sotto le lenzuola era nudo: un’altra delle cattive abitudini che aveva preso a Lione. Ogni giorno le toccava scoprire una novità. «Sono le nove», disse. «Che bella notizia», rispose Bruno. «C’è il caffè. E se ti alzi avrei da chiederti un favore. Lo fai ancora un favore alla tua mamma, vero?»


Altre madri avevano avuto la stessa idea e c’era stato un giro di telefonate, così si presentarono in sei a casa Muratore. Tutti maschi tra i quattordici e i diciott’anni: il fiore della gioventù di Lagobello in vacanza da scuola. Davanti al cancello imprecavano a bassa voce, smuovevano la ghiaia con la suola delle scarpe. «Che gentili», disse la madre di Sofia. «Ho combinato un disastro, entrate, entrate». La casa all’interno era fresca e buia. L’acqua era venuta giù dal primo piano, allagando il soggiorno e facendosi strada verso il seminterrato. C’erano stracci e giornali stesi sul pavimento, ma il vero disastro si trovava di sotto: niente di quello che stava in cantina era scampato all’onda di piena. A metà di una pila di scatoloni, una linea scura alta più di un metro segnava il livello raggiunto dall’acqua durante la notte. Per terra riviste di arredamento e giardinaggio galleggiavano su due dita di fanghiglia. Bisognava portare via tutto. I ragazzi discussero tra loro e poi decisero di formare una catena umana. A Bruno, che abitava lì accanto e avrebbe dovuto conoscerla almeno un po’, toccò il posto peggiore della fila, il primo, spalla a spalla con la madre di Sofia. «Usa questi», disse lei, passandogli un paio di guanti da lavoro gialli. «Tu sei Riccardo, no?» «No signora, sono Bruno. Si confonde con mio fratello». «Oddio, è vero. Vi somigliate moltissimo». «Già», disse lui. Osservò un mucchio di tavole accatastate in un angolo, ante e ripiani di un armadio smontato. Nonostante


le prese d’aria c’era un odore opprimente di muffa e legno marcio. «E tua madre cosa fa, insegna ancora?» «È in pensione da due anni», rispose Bruno, sistemandosi per bene i guanti tra le dita. «Ma tutti la chiamano sempre professoressa. Ho visto uomini adulti scappare quando la incontrano, tornano di colpo in prima media». Era una battuta che Bruno usava spesso, ma la madre di Sofia non rise. La sua attenzione era volata via. Quando si misero al lavoro sembrava, allo stesso tempo, assorta e distratta: sceglieva un oggetto e ne valutava i danni con uno sguardo intenso – non importava che fosse un pezzo d’antiquariato o un rottame – e poi lo indicava a Bruno dicendo: «Questo vorrei tenerlo», oppure: «Questo possiamo anche buttarlo via». Bruno allora se lo caricava sulle braccia, saliva fino a metà delle scale e lo passava al secondo ragazzo della fila, che faceva lo stesso con quello dopo di lui. Nel percorso l’ordine si riduceva all’essenziale: tenere o buttare. Tenere, tenere, tenere, si sentiva lungo la fila. Buttare, buttare, buttare. Un passeggino da neonato: buttare. Uno di quei vecchissimi computer in cui schermo e tastiera formavano un pezzo unico: tenere. Non c’era nessuna logica. Alla fine del percorso, in giardino, l’ultimo ragazzo disponeva le cose da tenere al sole, lungo il muro della casa, e ammucchiava quelle da buttare vicino al cancello, dove sarebbero state portate via dalla nettezza urbana. Per gli altri ragazzi era un gioco, a Bruno invece sembrava


di sgomberare una chiesa. «Avrei dovuto farlo tanto tempo fa questo lavoro», disse la madre di Sofia. «Ma non mi sono mai decisa. È per colpa di chi non c’è più, mi capisci? Anche le cose più stupide, anche quella sedia lì, prendono un valore che prima non avevano». «Certo che capisco», disse Bruno, sollevando una poltrona da giardino in vimini. «Tu dici? Non credo. Quella teniamola, è ancora buona». Bruno si fermò a metà strada. «Lei pensa che non posso capire perché sono troppo giovane», disse. «Ma lo so anch’io come ci si sente quando ti manca qualcuno». «Ah sì?», chiese la madre di Sofia. Lo scrutò incuriosita. Poi afferrò il punto della questione. «Oh», disse. «Scusa. Sei innamorato. È bello essere innamorati. E chi è la fortunata?» «Si chiama Gael», disse Bruno, salendo le scale. «È di Lione». Quando tornò giù, la madre di Sofia lo stava guardando con le mani piantate nei fianchi e gli occhi pieni di allegria. «Gael», disse. «È un nome bellissimo, caspita. Dev’essere anche difficile da portare». «In che senso?» «Nel senso, devi essere molto bella per poterti permettere un nome così. Oppure avere una forte personalità. La tua ragazza è più bella o più forte?» Bruno ci pensò su. La qualità principale di Gael non si poteva chiamare bellezza né forza. Lei vedeva più avanti e più chiaramente di lui. Riusciva a spiegare sentimenti complicati, e


a mostrargli cose di se stesso che lui aveva solo intuito. A volte erano verità umilianti. «È bella», rispose. «Ma è soprattutto saggia». «Sei diplomatico», disse la madre di Sofia, inginocchiata a terra. Nel tempo che lui aveva impiegato a rifletterci, lei aveva perso interesse per la conversazione. Aprì un baule pieno di giocattoli. «Oddio», disse. «E voi da dove saltate fuori?» Di sopra andavano veloci e avevano parecchi tempi morti. A metà della catena umana c’era Andrea Carestia, il nuovo capo della compagnia del laghetto: cominciò ad annoiarsi del lavoro e provò a movimentarlo un po’. Gli capitò per le mani un completo da indiani e cowboy, con la stella da sceriffo, le frecce a ventosa e tutto il resto. L’ordine era di tenerlo, ma lui gli diede un’occhiata da esperto collezionista di giocattoli, scosse la testa e disse: «Buttare». Gli altri ragazzi scoppiarono a ridere. Decisero di alleggerire la madre di Sofia di un bel po’ di peso inutile. Buttarono via i binari del trenino elettrico, il veliero telecomandato, due dinosauri di gomma mezzi carbonizzati, un robot con un braccio solo che implorava una dignitosa sepoltura. Di bambole non ce n’era neanche una. Tutti sapevano che Sofia era stata un maschiaccio: la conoscevano dai racconti dei loro fratelli maggiori, diventati leggenda dopo che, a sedici anni, Sofia aveva tentato il suicidio con i sonniferi e ottenuto un’uscita trionfale, andandosene da Lagobello su un’ambulanza a sirene spiegate. Non era più tornata indietro. Dieci anni dopo, anche per chi non l’aveva mai incontrata quella casa era la casa di Sofia, e chiunque avrebbe potuto


indicare l’albero di Sofia sulla collina che dominava lo stagno. Tra i rami c’era la capanna più celebre del villaggio. Quando non litigava con qualcuno, si diceva che Sofia andasse a letto con tutti. Poi i giocattoli finirono e cominciarono i quadri, e il divertimento si esaurì. Erano grandi tele senza cornice, danneggiate in modo irreparabile. Difficile dire cosa avessero raffigurato. Ormai restavano solo macchie di tempera sbavate dall’acqua, che lasciavano il colore sulle mani. Ne passarono a decine e l’ordine era sempre lo stesso. Buttare, buttare, buttare. «Ma chi li ha dipinti tutti questi quadri?», chiese Bruno, giù nella pancia della casa. «Ce l’hai davanti», disse la madre di Sofia. «Proprio lei, signora Muratore?» «Oh, no. Non la signora Muratore. Non questa signora triste che vedi adesso. Una ragazza molto più allegra. Butta via anche questi, Riccardo, grazie». Bruno in realtà la ricordava bene. Era un’immagine della sua infanzia: la madre di Sofia in giardino, con un cappello di paglia e una tela sul cavalletto. Aveva i piedi nudi e macchie di colore sulle guance. Allora sembrava solo una donna eccentrica, dalla risata troppo squillante, fissata con il giardinaggio: anni dopo aveva preso una tanica di gasolio e l’aveva versata sulle sue famose rose, sterminandole per sempre. «Posso chiederle una cosa, signora Muratore?» «Certo».


«Questa casa non è un po’ grande per lei sola?» «Un po’ sì. Ma non uso mica tutte le stanze». «Voglio dire, non ha mai pensato di venderla? E magari andare a vivere da un’altra parte?» La madre di Sofia lo fissò di nuovo, in quel modo che lo faceva sentire trasparente. Però non capiva se gli leggeva dentro, oppure gli passava attraverso e guardava chissà dove. «Ci ho pensato sì», rispose. «Però mi sono detta: e se lei torna e non mi trova, come facciamo?» «Scusi?», disse Bruno. «Ci vuole qualcuno che resta, no?» Bruno non sapeva cosa dire. Pensò che fosse meglio assecondarla e basta. Vedendolo così perplesso, la madre di Sofia scoppiò a ridere. «Ma sì», disse. «Hai ragione tu. Basterebbe un po’ più di coraggio». Il lavoro era quasi finito quando di sopra saltò un anello della catena. Andrea Carestia aveva abbandonato il suo posto per fare un giro al primo piano. Visitò il bagno, lo sgabuzzino, la camera da letto della madre di Sofia, infine aprì l’ultima porta del corridoio e accese la luce. E così, il giorno dopo, tutti i ragazzi a Lagobello avrebbero potuto descrivere la stanza di Sofia, come se l’avessero vista coi loro occhi. Era una cameretta simile alle loro, acquistata tutta intera in qualche catena d’arredamento: il blocco in legno laminato comprendeva l’armadio, la scrivania, il cassettone, la libreria e due letti gemelli, benché Sofia fosse figlia unica e nessuno riu;scisse a immaginare a chi serviva il secondo. Solo l’ordine e la pulizia


provavano che la stanza era disabitata. Per il resto era ferma nel tempo a un giorno di dieci anni prima: i quaderni di scuola erano impilati sul tavolo, le penne stavano in una tazza da caffè, il cestino della carta era vuoto. Adesivi di gruppi metal e punk rivestivano le ante dell’armadio. Accanto allo stereo c’era un’ampia discografia di genere, dai classici dei Deep Purple, i Black Sabbath, i Cream, gli Scorpions, i Sex Pistols, i Clash, fino a una serie di nomi che Andrea Carestia non aveva mai sentito. Tra i poster riconobbe quello di Sid Vicious: con il lucchetto al collo, i capelli sparati in testa, il suo malinconico ghigno tossico. Non gli venne in mente di dare un’occhiata ai libri. Però frugò nei cassetti, e ai ragazzi poté confermare quell’altra storia che girava sul conto di Sofia: indossava soltanto biancheria nera. Poi si sedette su uno dei due letti per osservare le fotografie. Erano fissate con le calamite a una lastra di metallo appesa al muro, in mezzo ai biglietti dei concerti e ai volantini. In quei ritratti Sofia assomigliava a una Natalie Portman scheletrica e incazzata: portava una giacca di pelle sopra una canottiera, il collare con le borchie, la sigaretta incollata a un angolo della bocca, le orecchie piene di piercing, la a cerchiata disegnata a pennarello sulle guance. I capelli cambiavano sempre. Erano biondi ossigenati, rosso fuoco, tirati su a punte. A parte il cane che compariva qua e là, non c’era mai nessuno con lei. Niente amiche, amici, cugini, compagni di classe, vicini di casa, fidanzati. Qualcuno doveva pur averla guardata attraverso l’obiettivo, ma dentro le foto Sofia era sempre sola.


Andrea Carestia sentì che da sotto lo chiamavano. Prima di andarsene si sdraiò sul letto, le mani dietro la nuca, per vedere che effetto faceva essere una ragazza di sedici anni. Scoprì qualcosa che nessuno avrebbe sospettato: il soffitto della stanza era punteggiato di stelle fosforescenti. Erano adesivi disposti in modo da formare galassie e costellazioni. Si chiese se fosse una mappa della volta celeste o un cielo inventato, ma non ne sapeva nulla di astronomia. Gli sarebbe piaciuto vedere quel soffitto di notte. Tornò giù mentre gli altri uscivano e li seguì in giardino. Se ne andarono di fretta, rifiutando gli inviti della madre di Sofia che voleva fare gli spaghetti per tutti. «Riccardo», disse. «Torna a trovarmi se ti va». «Va bene», rispose Bruno, sapendo di mentire. «Non volete bere qualcosa? Dovrei avere del tè in frigorifero». «Non c’è bisogno, signora, grazie». «Corri, corri», disse la madre di Sofia, agitando la mano davanti alla faccia come per scacciare una farfalla. Quella sera, quando suo padre tornò a casa, Bruno stava finendo di scrivere una lettera a Gael. Le aveva raccontato ogni cosa delle ore trascorse là sotto. Aveva descritto la cantina e l’odore che aveva, i suoi piedi a mollo nell’acqua sporca, la luce che scendeva di taglio dalla finestrella, gli oggetti che erano appartenuti a Sofia e quelli del signor Muratore e il modo in cui la madre di Sofia li osservava, come leggendo la


storia che contenevano. Sentiva di aver assistito a qualcosa di importante per loro due, però faceva fatica a definirlo. Come tante altre volte le parole non gli bastavano. Pensò che Gael al suo posto ne avrebbe tratto un insegnamento, invece lui non poteva far altro che riportare i fatti nel modo più fedele. Rileggendo gli sembrò di avere compilato soltanto un elenco interminabile. «Bruno?», chiamò suo padre attraverso la porta. «Ci sei?» «Ciao papà». «È vero che sei barricato lì dentro da stamattina?» «Può essere. Non me ne sono accorto». «Ricordati che il nemico ti vede. Segue tutte le tue mosse. Tra poco finirai l’ossigeno, ti conviene arrenderti». «Ma no», disse Bruno, lasciandosi scappare un sorriso. «Resisto ancora per un po’, stai tranquillo». Posò la penna sul foglio e guardò fuori dalla finestra. Dall’alto il giardino della madre di Sofia sembrava un mercatino dell’usato. Le cose da tenere erano allineate lungo il perimetro della casa, come se fossero traboccate dall’interno. La madre di Sofia era ancora lì: rovistava nel mucchio della roba da buttare, e all’inizio Bruno pensò che si fosse pentita e volesse riprendersi tutto, invece poi vide che stava recuperando i quadri. Ne pescava uno a caso, lo osservava ruotandolo in tutti i versi, poi andava a posarlo in un punto ben preciso del giardino. Alcuni stesi a faccia in su in mezzo all’erba, altri in piedi, appoggiati al tronco del ciliegio o allo steccato. Le macchie di colore risaltavano sul prato secco.


«Senti», disse il padre di Bruno. «Ti va se usciamo io e te? Ci beviamo una birra e poi andiamo a mangiare da qualche parte?» Gli parlava con dolcezza, ma Bruno apprezzava soprattutto il fatto che restasse fuori dalla porta. «Sì che mi va», rispose. «Potresti guidare tu, così fai un po’ di pratica». «Grazie. Va bene». «Ti aspetto giù, d’accordo?» «Arrivo», disse Bruno. Però non si mosse da lì. Anche suo padre indugiava in corridoio: forse aveva accostato l’orecchio alla porta, forse c’era qualche altra domanda che voleva fare. Poi ci rinunciò e i suoi passi si allontanarono verso le scale, e Bruno restò a guardare le rose della madre di Sofia che tornavano a fiorire.


BROOKLYN SAILOR BLUES Quanto a me, la prima volta che ho visto Sofia Muratore non era una ragazza ma un pugno di colori esplosi, dentro il televisore che il nostro padrone di casa, a Brooklyn, ci aveva appena procurato per sostituire quello guasto. Juri e io lo chiamavamo televisore psichedelico. Il video era stato girato nel tipico bar post-industriale newyorkese: un capannone di Chelsea, Williamsburg o chissĂ dove. La telecamera di Juri vagava tra volti e corpi elettrici, bidoni di gasolio usati come tavolini, eliche larghe due metri appese al muro e passerelle di ferro, poi incrociava una cameriera e si fermava su di lei. Un corpo esile, una faccia che potevi aver visto da qualche altra parte. Aveva un grembiule nero e un berretto da mari;naio in testa. Juri la seguiva mentre andava e veniva dai tavoli al bancone, si faceva largo in mezzo al pubblico del concerto, spariva dietro a un pilastro di cemento e ricompariva dalle cucine, finchĂŠ non sembrava piĂš che lei si muovesse attraverso la folla, ma il contrario: la cameriera era una tavola di legno nel mare mosso, andava su e giĂš con le onde, affondava e riemergeva, del tutto indifferente alla burrasca che aveva intorno. Nella scena successiva la stessa ragazza era da sola sul retro del locale. Era inquadrata dalla finestrella del bagno e fumava una sigaretta. Il basso e la batteria picchiavano in sottofondo, e adesso era chiaro che stavamo in riva al fiume


dalla parte di Brooklyn: di qua c’erano le ciminiere dello zuccherificio, di là i grattacieli di Midtown Manhattan. Il cortile era uno spiazzo chiuso da una recinzione, con i sacchi dell’immondizia ammucchiati in un angolo e chiazze di neve sporca, e lei fumava appoggiata al muro, il volto alla luce della porta di servizio. Ora non sembrava più una semplice cameriera. Stava lì tutta sola a fissare il fiume, con quel berretto da marinaio e le braccia strette al corpo per il freddo, come se fosse l’ultima ragazza sulla terra. Poi dalle cucine usciva un inserviente messicano: lui diceva qualcosa e lei infilava una mano sotto il grembiule, prendeva una sigaretta dal pacchetto, gli porgeva la sua per accendere. Questa improvvisa intimità sorprendeva il ragazzo, che cominciava a parlare fitto, mimava chissà quale storia e riusciva a far ridere la cameriera finché la porta di servizio si apriva di nuovo, e qualcuno da dentro la chiamava. Lei faceva un ultimo tiro e passava la sigaretta al ragazzo. Lui restava lì un po’ deluso con i due mozziconi in mano, poi ne spegneva uno sulla suola della scarpa e lo metteva in tasca per dopo. Nella terza scena la cameriera era in primo piano, guardava in macchina ed era molto tardi. Si capiva per il silenzio e perché lei non aveva più la divisa, ma un giaccone e una specie di colbacco di pelo. Stava in piedi sotto un lampione, sospettosa e allo stesso tempo attratta dalla persona che aveva di fronte. Juri domandava, lei rispondeva. C’era qualcosa di strano nel modo in cui fissava l’obiettivo. Dopo un po’ ti accorgevi che l’occhio sinistro divergeva dal destro di un


niente, e non riuscivi più a smettere di guardarlo. Disse: «Sofia Muratore». «Ventisette. Però mi sembra di averne mille». «Da un anno, più o meno. Ho fatto un anno da poco. Ero arrivata per stare una settimana, poi ho pensato di fermarmi finché durava il visto, e poi eccomi qui». «La cameriera. O l’attrice. Avrei voluto suonare la chitarra e cantare, ma sono stonata da far paura. E poi che domanda è, scusa? Io faccio il marinaio». A quel punto il televisore psichedelico saltò come una vecchia radio che perde la sintonia, diventò grigio e infine tutto verde. Juri cominciò a prendere a pugni un cuscino per la felicità. Disse: «L’hai vista? L’hai vista, Pietro? L’hai vista?» Noi due eravamo arrivati a New York da tre mesi. L’anno prima, mentre Sofia Muratore sbarcava nel nuovo mondo, Juri Ferrario frugava tra i ruderi di quello vecchio, cercando la casa in cui era nato in Jugoslavia e qualche traccia del passaggio terreno dei suoi genitori. Non aveva trovato niente. Di ritorno a Milano si era chiuso in camera senza degnare di attenzione le domande sul suo viaggio. Passava il tempo guardando film in bianco e nero, fumando quello che riusciva a procurarsi per telefono, mangiando una pasta scondita ogni tanto. Quando alla fine uscì, era smunto e allucinato ma aveva un progetto grandioso per il suo futuro prossimo: voleva andare a New York. Voleva fare la New York Film Academy. E siccome io e lui eravamo cresciuti insieme, avevamo studiato


cinema e condiviso case, progetti e l’attuale condizione da niente, voleva che andassi con lui e usassi il mio anno a New York per scrivere un romanzo. Detto così suonava bene, c’era solo il problema dei soldi. Juri fece il conto di quello che ci serviva e poi andò a bussare alla porta dei suoi genitori adottivi, con cui aveva un credito affettivo convertibile in denaro contante. Il signor Ferrario fu generoso. Quanto a me, dicevo sempre di voler scrivere ma non avevo più scritto niente da anni, traducevo i dialoghi delle serie americane e non c’era nessuna ragazza in vista, perciò che cos’avevo da perdere? A Brooklyn trovammo un appartamento in affitto al secondo e ultimo piano di una palazzina su Columbia Street, al confine del quartiere portuale di Red Hook. Da lì Juri partiva ogni mattina per andare a Manhattan, sulla Quattordicesima, dove seguiva lezioni e seminari mentre io esploravo i dintorni e senza fretta mi cercavo un lavoro. Era il settembre del 2004. La via in cui abitavamo separava il quartiere italiano di Carroll Gardens dal porto vero e proprio, il primo affollato di case, persone e negozi, il secondo un mausoleo del secolo trascorso, con le fabbriche chiuse, le banchine corrose dalla salsedine e infestate d’alghe, i topi a regnare sulle vie deserte. In fondo ai moli i messicani ascoltavano radio latine, tenevano le birre in fresco dentro a secchielli di acqua e ghiaccio, pescavano razze grigiastre davanti alla Statua della Libertà, abbandonata in mezzo alla baia come una vecchia promessa dimenticata. Fu una scoperta inaspettata e commovente. La città possedeva ai


miei occhi la luce vivida dei canti di lotta, delle storie d’amore appena finite, di quei ruderi di bombardamenti in cui resiste solo un quadro appeso alla parete, una foto di famiglia dove tutto è crollato. Nei buchi dell’asfalto di Columbia Street pulsavano rotaie di tram, vene sotto pelle. A nord la strada si arrampicava fino alla collina nobile di Brooklyn Heights, diventava una terrazza panoramica sui grattacieli di Wall Street e poi precipitava ai piedi di granito del ponte. A sud si perdeva tra le case popolari, verso i quartieri senza nome dei messicani, domenicani e portoricani, l’immensa pancia di Brooklyn che si estendeva fino a Coney Island. Il nostro padrone di casa abitava laggiù. Era un ebreo ucraino che commerciava in tutto, purché fosse abbastanza usato da essere comprato a niente e rivenduto a un po’ di più: portava in testa la kippah ma sabato o non sabato ogni primo del mese era lì, a riscuotere l’affitto e trafugare una poltrona in cambio di due seggiole traballanti, lasciare in custodia un baule chiuso da un lucchetto, regalarci una macchina del caffè incrostata di calcare come se fosse un premio per i suoi ragazzi italiani. All’inizio il nome di Juri gli aveva acceso un moto di diffidenza, brutti ricordi di Russia che lo spinsero a chiedere spiegazioni. Juri non amava raccontare la sua storia e usò una bugia ben rodata: disse che aveva i genitori comunisti e si chiamava così per via di Gagarin, l’astronauta sovietico. Il padrone di casa ne fu molto divertito. «Comunisti?», disse ridacchiando, come se fosse una parola che non sentiva da una vita. Ci ribattezzò Piotr e Gagarin e ogni volta che ci vedeva gli tornava l’allegria.


I nomi a New York riacquistavano il loro valore originario, quando indicavano il mestiere che facevi, il paese da cui arrivavi o chi era tuo padre. Provocavano alzate di sopracciglia, deduzioni sommarie. Dopo non molto trovai un lavoro da quattro ore al giorno in una libreria di Court Street: il proprietario si chiamava Salvatore Battaglia – Sal o Sally per i negozianti della via, ma io lo chiamai sempre Signor Battaglia. Era un italoamericano di terza generazione. I suoi nonni erano sbarcati a New York da un transatlantico, coperti solo di bambini e stracci; i suoi genitori avevano estirpato il dialetto dalla propria memoria e aperto un ristorante a Brooklyn; lui si era messo in testa di reimparare l’italiano leggendo i classici. Pirandello, Sciascia e Moravia. Pochi mesi prima aveva venduto al fratello la sua metà del ristorante di famiglia, risolvendo una volta per tutte i propri problemi economici e perdendo ogni interesse per gli affari della libreria, un labirinto di scatoloni e scaffali stracolmi. Restituire un ordine a quel caos diventò il mio lavoro. Sapevo di non avere speranze: sfogliando libri d’epoca per quattro ore al giorno, cercando i prezzi nei cataloghi antiquari, separando i volumi da vendere e quelli da buttare avrei impiegato anni a finire, e mi andava bene così. Mi sentivo al mio posto in quella tana, con New York appena fuori dalla porta. Seduto a un tavolo ingombro di carte il signor Battaglia leggeva romanzi di un secolo prima e ritrovava le parole della sua infanzia. Sfogliava il dizionario e gioiva di continue piccole scoperte: piroscafo, sposalizio, ferrovia. Le pronunciava a bassa voce, rigirandosele in bocca


come se avessero un sapore, e poi le declamava affinché gli correggessi la pronuncia. Sospettavo che fosse il vero motivo per cui mi aveva assunto. Alla scadenza del visto turistico mi mise in regola, facendomene ottenere uno di due anni: celebrammo il primo contratto della mia vita con gli spaghetti e polpette di suo fratello Vincenzo. In dicembre Juri terminò i corsi teorici e cominciò a preparare il suo film-saggio. In casa non parlava d’altro. Durante quelle lunghe serate buie, bevendo il vino californiano che trovavamo in quartiere, discuteva con me della trama e dei dialoghi, ma soprattutto di libri, dischi, fotografie, fumetti, tutto il materiale che aveva in testa e che sarebbe finito nel film. «Voglio usare la musica balcanica», disse. «A New York?» «Perché no? Il jazz l’hanno usato tutti». Secondo Juri la città in cui ci trovavamo era un contenitore universale. Non aveva niente a che fare con l’America, né con il nostro tempo. Era come il palcoscenico di un teatro, che diventava un giardino se solo disegnavi dei fiori, un cielo se appendevi delle nuvole di cartone. Allora, se si potevano prendere l’Amleto o l’Odissea, la Divina Commedia o il Don Chisciotte e girarli a New York, lui avrebbe girato a New York un film sull’assedio di Sarajevo. Mi ricordavo bene di quei tempi. Nel 1992 eravamo in terza superiore. Rividi le foto dei palazzi in fiamme e il giornalista che venne a parlarci durante un’occupazione. Nemmeno Juri era stato sotto le bombe – l’avevano portato in Italia da bambino – ma aveva vissuto


quella guerra in un modo che non poteva condividere con me. Io non sapevo che cosa si prova vedendo la tua terra d’origine disintegrarsi, i membri del tuo popolo ammazzarsi tra loro. «Che cosa ne pensi?», chiese. «Ma con le bombe come fai? E con i carri armati?» «Per quello basta il suono, no? E poi non mi interessa la guerra che c’è fuori, ma la vita che c’è dentro. Come a Troia, a Leningrado. Mi interessa la sostanza dell’assedio». «Penso che sia un film assurdo», dissi. «E che lo devi fare». Festeggiammo il Natale in un ristorante vietnamita del Lower East Side. Pensando ai miei genitori a Milano e alla cena della vigilia ordinai più di quanto sarei riuscito a consumare; Juri invece odiava le tradizioni, e per lui mangiare o non mangiare era lo stesso. Ragionava ad alta voce. Dunque avevamo un tempo di guerra e una città accerchiata dal nemico, e in mezzo alla città una ragazza. La ragazza era fondamentale. Sarebbe stata inseguita. Sarebbe uscita soltanto di notte. Sarebbe stata nei guai fino al collo. Eppure avrebbe conservato una sua forma di fiducia verso il genere umano, perfino di dolcezza. Sarebbe stata una donna della nostra generazione: realista, per nulla sognatrice, determinata a credere nelle persone più che nelle idee. «Rispondi al volo, che libro ti viene in mente?», chiese Juri, indicandomi con le bacchette. «Colazione da Tiffany», dissi io d’istinto. «Bravo», disse lui. «Io invece pensavo a Dostoevskij».


Scoppiammo a ridere, ordinammo altra birra ghiacciata e sakè bollente e Juri riprese a raccontare. Voleva usare la macchina a mano. Il sedici millimetri in bianco e nero. Voleva riprendere Brooklyn, anzi la costa desolata di Brooklyn che era un porto dismesso lungo decine di chilometri: Williamsburg, Dumbo, Red Hook. Ci sarebbe stata tanta acqua nel film, e ci sarebbe stata anche Manhattan ma vista sempre e solo attraverso il fiume. Ci sarebbero stati i ponti ma nessuno li avrebbe mai attraversati, e moli di traghetti e banchine di treni, non punti di partenza ma solo luoghi da cui dire addio agli amici. E così Brooklyn sarebbe diventata una grande prigione claustrofobica e autosufficiente. Sarebbe stata la notte se Manhattan era il giorno, la femmina se Manhattan era il maschio, e delle mille luci di New York sarebbe rimasto soltanto un miraggio, il riflesso tremolante nell’acqua. «Riesci a immaginarlo?», chiese. Pensai che misteriosamente, da dentro un’aula scolastica, aveva intuito la stessa città che io stavo scoprendo per strada. «Mi sembra già di vederlo», risposi. Il sorriso di Juri durò troppo poco. Disse che aveva la storia ben chiara in testa, ma gli mancava lei. La ragazza di Sarajevo. A scuola aveva fatto diversi provini, senza che nessuna attrice avesse acceso in lui la minima scintilla d’interesse. Avevano studiato molto e vissuto poco, e si vedeva: piangevano, ridevano, recitavano tutte in un brutto film americano. Ora qualcuno gli aveva parlato di un’attrice italiana, e lui sarebbe andato a cercarla nel bar in cui lavorava.


Sperava che fosse la volta buona. «Come si chiama la tua ragazza?», chiesi, versando il sakè bollente nelle tazzine. Era il nostro brindisi di Natale. «Laila», rispose Juri. «Laila di Sarajevo». In transito, pensai, ricordando il biglietto sul campanello di Holly Golightly. Sollevai la tazzina e toccai quella del mio amico. «A Laila», dissi. «Vedrai che la trovi». Poi Laila fu trovata, le riprese ebbero inizio e Juri sparì del tutto. Era l’inizio di febbraio. Girava dalle sei di sera alle quattro di mattina, tornava a casa all’alba e si buttava a letto, appena sveglio andava a scuola a preparare le riprese successive. Oppure non tornava per niente. Le mie serate diventarono di colpo silenziose, ma ero contento per lui: se soffrivo di solitudine mi sforzavo di ricordarlo un anno prima, chiuso in camera sua a Milano, gli occhi gialli da tossico e gli stessi vestiti addosso per giorni. E poi c’era la città da esplorare. Occupavo la mattina con lunghe passeggiate, qualche sosta nei caffè per ripararmi dal gelo, i libri di storia locale che il signor Battaglia mi passava. Pranzavo spesso con lui. Di New York sapeva tutto e adorava raccontare: aneddoti di famiglia o episodi leggendari del quartiere, dei tempi d’oro dei Brooklyn Dodgers, di quando Al Capone aveva diciott’anni e bazzicava quelle strade, del giorno in cui Frank Sinatra era venuto a mangiare al ristorante, e sembrava che fosse arrivato il papa. Il nonno del signor Battaglia aveva lavorato come


cuoco al cinquantesimo piano dell’Empire State Building, pochi anni dopo la sua costruzione. Arrivando dall’Appennino, tutte le ricette che conosceva erano a base di castagne o funghi; nei ristoranti di New York invece si friggevano costolette d’agnello. Per questo nessuno di loro aveva mai ceduto alla nostalgia, e anche l’affetto che il signor Battaglia professava per l’Italia era tutto nei miti, non avrebbe mai pensato di tornare indietro. Io restavo ad ascoltarlo per ore. In un pomeriggio in libreria entravano due o tre persone, collezionisti che perlustravano gli scaffali e raramente compravano qualcosa. A volte immaginavo Juri con la macchina a spalla in giro per Brooklyn, come Truffaut a Parigi o un giovane Scorsese agguerrito, e io lì fermo, in compagnia dei ricordi di un vecchio e nella polvere dei libri usati. Una mattina ci incrociammo per caso. Era la seconda settimana di riprese e fuori era ancora buio: in cucina lui aprì una birra, io feci il caffè. Aveva bisogno di parlare. Ci sedemmo a tavola e cominciò a raccontarmi dei problemi che aveva con la troupe, dei soldi che non bastavano, della difficoltà di girare sempre di notte, di quel freddo maledetto che complicava tutto. Per fortuna gli esterni erano quasi finiti. Nominava i personaggi del film come se fossero suoi amici: il tassista pakistano, il bigliettaio del cinema, la vecchia signora col cagnolino, il pittore olandese, la bambina ricca e le sue bambole. Per due volte gli chiesi dell’attrice. Avevo pensato spesso a quella scena rubata, lei che fumava osservando il fiume travestita da marinaio, e mi era sembrata l’essenza della


solitudine e della femminilità. Ma Juri cambiava discorso. Un mese prima immaginava la storia a voce alta e non faceva che ripetere: «Laila sul ponte», «Laila seduta sulla scala antincendio», «Laila sul taxi la prima volta che arriva in città», ora invece sembrava che Laila fosse scomparsa nel nulla. Glielo chiesi per la terza volta: «E l’attrice com’è?» Lui accese una sigaretta e mi guardò spazientito, come un adulto alle prese con un bambino insistente. Disse che preferiva non parlarne. Sentiva che parlandone avrebbe rischiato di perdere qualcosa: perché il processo che si stava compiendo era misterioso, e le parole facevano chiarezza, e quello non era il momento della chiarezza ma di immergersi nel mistero fino al collo. «Lo capisci?», chiese. «Ma sì, certo che lo capisco». Era entrato nel personaggio del regista tormentato, il meno sopportabile del suo repertorio. «E tu?», domandò. «Stai bene? Che cosa fai, scrivi?» Gli risposi che stavo bene e che non scrivevo. Camminavo, leggevo, lavoravo in libreria, parlavo con il signor Battaglia, scoprivo tante cose di New York che prima non sapevo, cucinavo molto e guardavo molto fuori dalla finestra, ma non scrivevo. Riuscivo a fissare il cortile per ore. Mi sentivo in uno stato di attesa, sapevo che le parole sarebbero arrivate e intanto potevo solo coltivare la pazienza e la concentrazione. Avevo fiducia, stavo bene. Ascoltavo la mia voce mentre lo dicevo, per sentire come suonava. Fuori il cielo impallidiva e Juri finì la sua seconda birra.


Sbadigliò. Poi si alzò e mi mise una mano sulla spalla. «Sei sempre così tranquillo», disse. «Mai capito come fai». Gettò il mozzicone nella bottiglia vuota, la agitò per spegnerlo e se ne andò a dormire. Qualche notte più tardi me li ritrovai tutti quanti in casa. Stavano girando nel quartiere e fuori nevicava, così Juri li invitò a salire a scaldarsi da noi. Nella troupe erano in nove: si tolsero le giacche e le misero ad asciugare vicino ai caloriferi, aprirono qualche birra intanto che lui e il suo aiuto regista si chiudevano in camera a fare il piano per il giorno dopo. Io mi sedetti con loro, intontito per essere stato svegliato di soprassalto. «Tu sei Pietro?», mi chiese il ragazzo che doveva essere il fonico. Aveva un accento spagnolo, la barba e i capelli lunghi. Annuii sbadigliando, dissi che ero contento di conoscerlo e lui rispose: «Tra una settimana non sarai più così contento. Ci odierai e non vedrai l’ora di buttarci fuori». Non capii che cosa intendesse dire finché Juri non uscì dalla sua stanza. L’aiuto regista annunciò che avevano fissato una visione del girato a scuola, perciò avrebbero avuto la giornata libera. La notizia fu accolta da fischi di esultanza. Poi aggiunse la convocazione per il giorno ancora successivo, alle otto precise, lì da noi, dove avrebbero cominciato gli interni. Concluse il discorso dicendo: «E adesso possiamo rilassarci un po’». Qualcuno scese a comprare altre birre, qualcuno fece girare


del fumo. Juri si avvicinò all’attrice, le disse qualcosa e si sedette sul pavimento ai suoi piedi. Lei stava in un angolo del divano sfondato che il nostro padrone di casa prometteva sempre di cambiare, ma non lo faceva mai: sorrise, gli accarezzò i capelli e lasciò che si accomodasse tra le sue ginocchia, e allora mi fu chiaro quello che avrei dovuto capire fin dall’inizio. Non ci voleva molta fantasia. Per i ragazzi della troupe era scontato che stessero insieme, l’avevano visto succedere chissà quante volte: venivano dallo stesso paese, avevano la stessa età, erano il regista e l’attrice protagonista. Il film era una cosa tra loro due. La rivelazione mi svegliò del tutto. Era la prima volta che vedevo Sofia Muratore in carne e ossa e la osservai per un po’. Rifiutava la birra, parlava poco, era andata a sedersi nel punto più appartato della casa. Non sembrava una persona abituata ad avere gli occhi addosso. Ma avevo conosciuto altri attori e sapevo che ne esistono di due tipi: quelli che continuano a recitare anche dopo, e gesticolano, parlano con un tono di voce più alto del necessario, occupano il centro delle stanze in cui si trovano e hanno bisogno dell’attenzione altrui come dell’aria da respirare, e quelli che invece si rintanano, e per essere stati troppo guardati chiedono soltanto di sparire. Poi i ragazzi risero per una battuta. Anche Juri rise. In quel momento lei si voltò verso di me. Io la stavo osservando dal tavolo della cucina ormai da qualche minuto: la osservavo perché era la ragazza del mio migliore amico, e l’avevo appena scoperto; perché non riuscivo a decidere se


trovarla bella oppure no; perché mi ricordavo di quella cameriera in riva al fiume ed era come conoscere un suo segreto, averla già incontrata prima. Sofia se ne accorse e mi fissò. Era uno sguardo che significava: ti ho visto, che cosa vuoi da me? Incrociai per un secondo quegli occhi e fu come un varco su un mondo di cui non sapevo niente. Per l’imbarazzo presi un sorso di birra e mi voltai, finsi di ridere anch’io, quando tornai su di lei non mi guardava più. Mi aveva già mandato il suo messaggio. Dopo non molto andai in camera mia. Quella notte tirai fuori un quaderno che aveva aspettato in valigia per quattro mesi. Lo aprii alla prima pagina e lo appoggiai sul davanzale: la mia finestra dava su Columbia Street, di fronte al deli in cui compravamo birra e sigarette. Aveva smesso di nevicare. Sul marciapiede davanti alla vetrina ghiacciava una fila di impronte, e riuscivo a vedere il commesso indiano addormentato con la testa sul bancone. Appoggiai la penna al foglio e scrissi: La ragazza aveva gli occhi strabici. E questo modo di guardarti la bocca mentre parlavi, come se intorno ci fosse un rumore d’inferno e lei dovesse leggerti le labbra per distinguere le parole. Aveva l’aria di una persona in pericolo. Guardava allo stesso tempo te e dietro di te. Ecco che cosa colpiva al cuore gli uomini, la prima volta che la incontravano: tu le parlavi e lei ti fissava le labbra come se da un momento all’altro potesse saltarti al collo e morderle, e quel morso salvarle la vita. Mi alzai e rilessi quello che avevo scritto. Non era niente,


però era l’inizio di qualcosa. Sapevo che non avrei più dormito, così uscii dalla mia stanza per fare il caffè: di là non c’era nessuno, solo cuscini sparsi e bottiglie vuote e il fumo che si diradava. Vidi le scarpe di Sofia e il suo giaccone ancora sul calorifero. La stanza di Juri era chiusa. Pensai a casa nostra a Milano e a quando uno dei due si portava una ragazza in camera, e lasciava un calzino sulla maniglia per dire all’altro di non disturbare. Preparai la caffettiera e mi sedetti ad ascoltarla gorgogliare davanti alla finestra sul retro, osservando le cucine buie e i cortili coperti di neve. Da quella notte Sofia si trasferì da noi. Lavoravano per dodici ore al giorno, era illogico che andasse a dormire altrove. Dopo un po’ telefonò all’amico con cui viveva e gli chiese di svuotare i suoi cassetti e mettere tutto in una valigia, e io che coglievo ogni occasione per levarmi dai piedi mi offrii di andare a prenderla. Fu così che cominciai a conoscere la sua storia. Nel film di Juri la ragazza odiava stare da sola. Laila era una di quelle persone per cui il senso della vita non sta nelle cose che fai, ma negli esseri umani che incontri. Se le chiedevano dove abitasse a Brooklyn, lei rispondeva: «Un po’ di qua e un po’ di là»: nello studio di un pittore a Bushwick, in una casa di studentesse a Fort Greene, nella villetta di una coppia di Park Slope a cui ogni tanto teneva i bambini. Quando si spostava aveva con sé soltanto quello che poteva stare in una borsa. Il resto lo lasciava indietro, nei cassetti e negli armadi


che saltuariamente occupava. Dalla coppia, dove c’era molto spazio, teneva tutto l’abbigliamento invernale. Dalle ragazze i libri. Dal pittore un paio di stivali, i cappelli con cui aveva posato per lui, un abito da sera e così via. Perciò buona parte del suo tempo era dedicata a tornare indietro, a recuperare oggetti e indirizzi, dipanare fili aggrovigliati in giro per la città. Questa era Laila. A un certo punto aveva preso un cucciolo in un canile, ma poi l’aveva regalato a una vecchia signora irlandese perché le tenesse compagnia, e certe domeniche andava fino a Bay Ridge per salutarli tutt’e due. Aveva il numero di un tassista pakistano che accettava di portarla dove gli altri non volevano andare. Se finiva i soldi c’erano almeno un paio di bar disposti a farle fare la serata, oltre al lavoro di modella per artisti e di custode per bambini e cani. La sua vita era affollata di gente, e gli oggetti nelle case altrui costituivano la parte tangibile di questo legame, un vincolo e una promessa. Appena fuori dai confini di Brooklyn infuriava una guerra che non si vedeva mai: ma l’assedio stava nell’urgenza con cui le persone si cercavano, nell’intensità con cui si salutavano separandosi. Poteva sempre essere l’ultima volta. Era una bella storia, quella che il mio amico Juri aveva scritto. Sembrava uscita dal cinema francese che piaceva a lui. Senza motivo, se non la suggestione del film, sul treno per Williamsburg avevo immaginato così anche la vita di Sofia: non ero pronto a trovarmi di fronte un fidanzato piantato in asso. Si chiamava Nathan. Abitava in una traversa di Bedford Avenue. Era alto e grosso e portava una camicia a scacchi,


secondo la moda da boscaiolo che imperversava nel suo quartiere. Non c’è un uomo più pericoloso di un innamorato ferito, nemmeno nella libera città di Brooklyn. «Tu stai con lei?», mi chiese, passandomi la valigia. «No», dissi. «Allora sei un suo amico dell’Italia?» «Più o meno», improvvisai. Pensai che il ruolo dell’amico d’infanzia fosse un buon rifugio. Dissi: «Eravamo molto amici da bambini. Non ci siamo più visti per vent’anni, e con tutti i posti che c’erano ci siamo ritrovati proprio a Brooklyn». «Tutti si ritrovano a Brooklyn», commentò lui con un’aria triste. Mi sbagliavo, era un ragazzo mansueto. Arrivava dall’Oregon. Lì in piedi all’ingresso fece in tempo a raccontarmi che stava pensando di tornarci: era venuto a New York per fare il musicista ma adesso stava insegnando in una scuola d’inglese per stranieri, e tutto il suo stipendio se ne andava per pagare l’affitto. Conosceva Sofia da quasi un anno. Ancora non capiva come mai fosse finita. «Sai se sta con un altro?», mi chiese. «Non mi pare», risposi. Ero uno specialista nel dire alla gente quello che voleva sentirsi dire. «Dille che può tornare quando vuole. E di chiamarmi, capito?» «Va bene», dissi io, e poi scappai giù per le scale con lui che mi guardava dal pianerottolo. C’è qualcosa di incomunicabile in quel tipo di dolore. Più tardi Sofia mi chiese


com’era andata e io risposi che era andata proprio come aveva detto lei: avevo trovato la valigia all’ingresso, avevo lasciato le chiavi sul tavolo e mi ero chiuso la porta alle spalle senza incontrare nessuno. Le spuntò una ruga in mezzo agli occhi immaginando la scena, e dopo due secondi si dissolse. Era il tempo che le serviva per dire addio. «Meglio così», commentò, mettendo una croce sopra a Nathan il boscaiolo e a quella parte della sua vita. Cominciammo a vivere in tre, come in una vecchia canzone: due ragazzi e una ragazza. Chiunque avrebbe potuto prevedere una fine disastrosa. Ma tutti noi, di disastroso, avevamo avuto le famiglie, normali famiglie composte da un uomo una donna e un bambino, dunque perché non provare la novità? Sofia aveva le idee chiare riguardo alla convivenza. Disse che, nelle navi pirata, per prima cosa venivano abbattute le paratie interne, in modo da liberarsi subito da cabine, proprietà private e gerarchie. Dichiarò che avrebbe dormito sul divano, e non voleva essere considerata la fidanzata di nessuno. Appiccicò allo sportello del frigorifero il regolamento di bordo del capitano Roberts, filibustiere del diciottesimo secolo, che diceva: Ogni uomo ha diritto di attingere alle provviste a suo piacimento, a meno che, per il bene comune, non si renda necessario razionarle. In tal caso, se un uomo commette furto ai danni dei suoi compagni, sarà punito con il taglio di naso e orecchie, e l’abbandono su un’isola deserta.


Quello fu il nostro unico terreno di scontro. Juri si nutriva quasi solo di pasta, così da quando abitavamo insieme ero sempre stato io il cuoco di casa, e il padrone del frigorifero. E sull’organizzazione del frigo all’epoca ero intransigente: odiavo gli avanzi, la muffa sui formaggi, la frutta e la verdura appassite, le confezioni aperte e lasciate a metà. Se stappavo una bottiglia di vino la bevevo tutta, se cucinavo un pollo con patate lo mangiavo tutto. Sofia era il contrario di me: il cibo le piaceva, e sperimentava con slancio piatti sconosciuti, però poi mangiare, l’atto vero e proprio del masticare e inghiottire, le costava fatica, come se per lei non fosse naturale. Avanzava ogni volta qualcosa. Tornava a casa con mezzo panino o la vaschetta di un ristorante, apriva il frigorifero e restava impietrita a fissarlo. Era pulito e in ordine come piaceva a me. Diceva: «Questo frigo mi fa paura. Tu devi stare attento, Pietro, questo è il frigo di una mente pericolosa». Per due settimane la casa fu trasformata in un set. La mattina presto arrivavano i macchinisti, spostavano mobili e scardinavano porte, stendevano carrelli attraverso il soggiorno, maledicevano i pavimenti storti o l’elettricità che saltava o i due piani di scale da salire a piedi. Juri intanto riscriveva le scene della giornata. Io non capivo che cosa ci fosse ancora da scrivere; lui disse che il film aveva preso la sua strada e sarebbe stato assurdo costringerlo in quella originaria, bisognava piuttosto seguirlo e vedere dove andava. In pieno inseguimento chiese di montare un ponteggio da cantiere sul mio letto, per fare un primo piano dall’alto di Sofia che


dormiva. Restò in mutande e si immerse con lei nella vasca per girare la scena del bagno. Salì sul tetto della casa di fronte, con i vicini messicani radunati lì intorno, e riprese in campo lungo Sofia che fumava sulla scala antincendio. Più il finale si avvicinava, più discutevano di come sarebbe stato. Altre attrici facevano storie a girare scene di nudo, Sofia a spogliarsi non aveva problemi; però si rifiutava di morire. Era il destino che Juri aveva previsto per Laila: colpita da un cecchino mentre correva in mezzo alla strada, come Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro. Ma Sofia disse che era un modo falso e autoritario di chiudere una storia. Un vivo non poteva sapere com’è morire, e una volta che lo sapeva era già morto: perciò nessun attore rispettabile avrebbe accettato di interpretare quella scena. «Qualsiasi attore ha fatto il morto prima o poi», obiettò Juri. «Non me ne frega niente. Io la morta non la faccio. Posso partire, sparire. Addormentarmi. Inventiamoci qualcos’altro». Juri accettò di cambiare il finale. Ma non fu per amore che la lasciò impadronirsi del film. Bastava guardare nel monitor per capire che cosa l’avesse conquistato, tanto da fargli buttare all’aria il suo copione e decidere di improvvisare. Davanti all’obiettivo Sofia tornava la cameriera in riva al fiume: si muoveva lì dentro come se quella fosse la vita, e il resto un’imitazione. Quando il motore si fermava lei si sedeva in un angolo e chiudeva gli occhi. Quando riprendeva a girare, il suo corpo si accendeva come se fosse percorso da una scarica


elettrica. Era un corpo nervoso, segnato, che Juri non aveva bisogno di dirigere ma solo di spiare. A volte la tensione erotica di quelle scene era talmente forte che salutavo tutti e me ne andavo a fare un giro. La sera uscivamo insieme. Camminavamo fino ai moli, ci fermavamo in un barcone trasformato in pub. Per la musica c’era un altro posto, proprio accanto ai caselli d’ingresso del tunnel per Manhattan: si chiamava Red Hook Folk Theatre. Un piccolo bar all’ingresso, una tenda di velluto rosso che dava accesso al teatro vero e proprio. Muri di mattoni a cui stavano appesi violini, banjo e ukulele, panche trafugate alle chiese del quartiere e un tavolato di legno su cui il pubblico batteva il tempo con i piedi. I musicisti erano gli stessi che di giorno suonavano in metropolitana. Bevevano birra nei barattoli della marmellata. Avevano tute di jeans e giacche militari, barbe bionde o rosse e cappelli di tutti i tipi. Erano ragazzi della nostra età: avresti potuto abitarci insieme, essere servito da qualcuno di loro in un locale o viceversa, assistere alla loro fulminea fortuna o vederli sparire da un giorno all’altro, obbedendo allo spirito del luogo. Prima di scendere dal palco ripetevano il loro nome, salutavano il pubblico dicendo: «Ricordatevi di me». Stavano tutti lì da poco, come noi. C’era una data a fare da spartiacque. Quelli che stavano lì da tanto erano in lutto per l’Undici Settembre, e potevano chiamarsi newyorkesi. Dai tetti e dalle colline, da qualsiasi punto panoramico lungo la costa i loro sguardi correvano ancora lì, verso quel pezzo di cielo che


prima non c’era. Chi aveva vissuto quei giorni ne parlava con commozione. Perfino il signor Battaglia, che non deviava mai dal percorso tra casa, libreria e ristorante, mi raccontava di come avesse sentito il bisogno di uscire per strada dopo il disastro, di parlare con qualcuno e guardarlo negli occhi, stabilire un contatto fisico con gli estranei che aveva intorno. Si stringevano le mani, le braccia. Sembrava che il crollo delle torri avesse rivelato qualcosa di New York, prodotto un’improvvisa consapevolezza della sua natura mortale. La città dei sogni aveva scoperto di avere un corpo: ed era un corpo di carne e sangue proprio come tutti gli altri. I suoi abitanti dicevano che dopo non sarebbe stata più la stessa. In quel dopo eravamo arrivati noi. «Tu scrivi?», mi chiese Sofia una volta. «E cosa scrivi?» Io risposi che avevo un progetto simile a quello di Juri. Volevo raccontare la storia di una ragazza a New York. Ma ero diverso da lui, e avrei dovuto farlo a modo mio. «Come si chiama questa ragazza?», chiese Sofia. Per qualche motivo, i nomi ci interessavano sempre molto. «Non lo so», dissi. «Per il momento solo ragazza». «Allora scrivi così», disse lei. «Questa ragazza è arrivata a New York con un uomo. Si sono conosciuti a una festa, sono andati a letto insieme, hanno deciso di celebrare l’incontro con una pazzia. La ragazza ha da parte dei soldi che le ha lasciato suo padre. Li sta sperperando metodicamente. Così una mattina lei e l’uomo entrano in un’agenzia di viaggi e prendono due


biglietti per New York. In volo sull’oceano bevono champagne. La ragazza non regge l’alcol, si addormenta come un sasso e al risveglio pensa: e questo chi è?» «Bell’inizio», dissi. «Vai avanti». «Tieniti», disse Sofia, che raccontava storie come se fosse al timone di una nave. «Qui si balla. «Quando arrivano a New York piove. È novembre. Piove senza interruzione per due giorni, durante i quali la ragazza e l’uomo litigano furiosamente. Lui non capisce dove sia finita la persona che ha conosciuto: quest’altra brucia di rabbia in un modo che non credeva possibile. La prima sera dormono separati. La seconda lui le dice che il viaggio – anzi non dice il viaggio, dice la vita – che la vita è diventata un inferno. Una frase che la ragazza ha sentito già in altre occasioni. Ridurre gli uomini in quello stato è la sua specialità: lei li tende, li pressa, li torce e li flette, finché raggiungono il punto di rottura. La mattina del terzo giorno decidono di separarsi per il bene di entrambi: se la ragazza tornerà in sé, e avrà voglia di rivedere l’uomo, potranno passare insieme gli ultimi giorni di viaggio. Altrimenti si incontreranno in aeroporto, e una volta in Italia amici come prima». «Chi se ne va?», chiesi. «Come?» «Chi si tiene la stanza e chi va via?» «Se ne va la ragazza. Quell’albergo di Manhattan le fa schifo. Porta le sue cose nell’ostello di Greenpoint, il quartiere polacco di Brooklyn. Passa un’intera giornata a letto, con la


febbre, ad ascoltare le sirene dei pompieri. La sera successiva smette di piovere e la ragazza è affamata, così prende coraggio ed esce da sola: mangia un piatto di gulasch in una tavola calda del quartiere, beve un caffè nel bar accanto, compra le sigarette. Il giorno dopo si avventura un po’ più in là: scende per Bedford Avenue fino a Williamsburg, entra in una libreria e in un negozio di dischi, assaggia una ciambella in una pasticceria. Per caso imboccando una strada raggiunge un molo abbandonato sul fiume. Scopre in quel momento che New York è un porto. Non lo sapeva, o non se lo ricordava, o non ci aveva mai pensato, ma le storie di marinai fanno parte della sua infanzia, così quel giorno resta a lungo sul molo e per la prima volta riesce a pensare a suo padre». «Cos’è successo a suo padre?», chiesi. «È morto qualche anno prima». «E non ci ha mai pensato in tutti questi anni?» «No», disse Sofia. «Non ci ha mai pensato. «La sera in ostello straccia il biglietto di ritorno. Non incontrerà più l’uomo della festa, ma gli sarà riconoscente come a un tramite, qualcuno che ti ha presentato a qualcun altro, una di quelle persone che ti aprono una porta e poi levano il disturbo. Sai cosa intendo?» «Credo di sì», dissi. «E lui?» «Non saprei, e lui?» «E lui», risposi, «la sera della partenza aspetta finché non lo minacciano di lasciarlo a terra. Poi si rassegna a imbarcarsi da solo. Quando l’aereo decolla l’uomo osserva le luci di New


York dal finestrino, sospira, ordina un gin tonic e questo è tutto». «Bravo», disse Sofia. «Hai colto lo spirito della storia». «Vai avanti», dissi io. A metà marzo le riprese terminarono e Juri cominciò a lavorare al montaggio del film. Ora stava tutto il giorno a scuola, chiuso in uno studio nel seminterrato. Quando tornava aveva gli occhi rossi e una certa stanchezza anche nel modo di parlare, di troncare i discorsi e formulare giudizi sommari. Dopo una settimana litigò con il montatore e chiese di averne un altro, che resse appena qualche giorno alle sue sfuriate e se ne andò sbattendo la porta. Juri decise di proseguire da solo. Non sapeva fare quasi niente, tranne tagliare le scene al computer e metterle una dopo l’altra, ma questa era la sostanza del lavoro, disse, e con il tempo avrebbe imparato anche il resto. Aveva circa venti ore di girato tra scene con Sofia e immagini di case, nuvole, gabbiani, treni sopraelevati e cisterne dell’acqua, e poco più di un mese per trasformare questa roba in un film. Chiese alla scuola il permesso di lavorare anche di notte. Fece amicizia con il custode, con cui divideva caffè e sigarette quando usciva dallo studio per schiarirsi le idee. Ricominciò a sembrare quello dell’anno prima: la pelle grigia, gli occhi segnati dalle rughe, la tosse cronica, un’ostinazione cieca che non prometteva niente di buono. Sofia era rimasta da noi. Aveva trovato lavoro in un bar del quartiere e sembrò naturale che si tenesse il suo divano. Ora


passavamo molto tempo da soli. Più parlavamo, più scoprivamo di assomigliarci. «Non è che ti ho conosciuto a sette anni», diceva, «e non me lo ricordo più?» La scena della vasca, Juri l’aveva rubata alla realtà così com’era: Sofia faceva il bagno tutte le sere. Io stavo fuori dalla porta a parlarle, lei dopo un po’ mi disse: «E piantala, dai, vieni dentro, è tutta la vita che aspetto di avere un fratello. E poi è inutile che ti imbarazzi, non ho nemmeno le tette da guardare». Questa era una tipica battuta da Sofia. Mi raccontò di essere cresciuta in una stanza con due letti, perché al momento di comprare i mobili i suoi genitori progettavano un secondo figlio, ma poi il figlio non era arrivato e il letto invece era rimasto. Lei si era abituata a convivere con questo fratello fantasma, sua madre no: la descrisse come una donna sofferente, una sonnambula che vagava per casa cercando di cogliere un senso che le sfuggiva. Aveva quest’unico sollievo quotidiano: verso sera riempiva la vasca d’acqua calda, versava sali profumati e chiamava Sofia per il bagno. Lì dentro chiacchieravano, lavandosi a vicenda i capelli e la schiena, finché il padre tornava dal lavoro e bussava per sapere a che ora avessero intenzione di uscire. La madre ridendo diceva: «Hai fame? Se vuoi qui fuori è pieno di ristoranti». Poi a tavola riprendeva la solita espressione afflitta. Di che altro parlava tutto il tempo? Mischiava ricordi e teorie fantasiose. Li chiamavamo i monologhi della vasca da bagno. L’importante, diceva, è abituarsi a una faccia: non la


bellezza ma l’abitudine. La bellezza in fondo che cos’è, una stupida questione geometrica, solo un incastro fortunato nel campionario di bocche, nasi e orecchie disponibili. Ma se una faccia hai imparato a conoscerla, e l’hai vista quando ha sonno, quando ha il raffreddore, quando è distrutta da una giornata nera, se ti sei abituato a quella faccia, allora hai superato la questione della bellezza, non sei d’accordo? Intanto fumava due, tre, quattro sigarette, la cui cenere solo in minima parte finiva nel piattino da caffè che teneva sul bordo della vasca. Anche il discorso le scappava da tutte le parti. Io pensavo che i fumatori potrebbero dividersi in due categorie, quelli che fanno attenzione al destino della loro cenere e quelli che non ci badano per niente. I secondi di solito hanno il vizio di gesticolare. I primi tendono a rovinarsi la vita preoccupandosi troppo delle opinioni altrui, e delle conseguenze delle proprie azioni. Conoscevo bene questa categoria di persone: non solo danno ragione a tutti, ma se litigano con qualcuno finiscono col dire più di quello che dopo, ripensandoci, vorrebbero avere detto, e nel chiedere scusa cedono a toni sentimentali. Questa categoria di persone schiaccia i propri mozziconi e anche quelli degli altri, quando restano a languire nei piattini da caffè, e poi mette i piattini a lavare. Gli sbadati, invece, con il tempo mostrano altri segni di trascuratezza. Scarsa cura di sé, che pure è una forma di distrazione. Sbattono contro i mobili, si fanno male da soli. Questa era Sofia. «Comunque», disse, «dov’eravamo? Ah sì, quella sera sul molo.


«Dunque la ragazza ha deciso di fermarsi a New York, ma i suoi soldi non dureranno in eterno. Come tutti gli italiani in America, scopre che la soluzione più semplice è chiedere aiuto ad altri italiani, e dopo un giro dei ristoranti del Village viene assunta come cameriera in una pizzeria di Bleecker Street». «Però», dissi io. «È partita forte». «Ha carattere», disse Sofia. «Quando vuole, con le persone ci sa fare. Quando non vuole litiga pure con Gandhi, ma comunque. «A Williamsburg scova un negozio di vestiti usati e comincia a uscire con il commesso, un musicista dell’Oregon. Grazie a lui lascia l’ostello per un monolocale e scambia i suoi eleganti vestiti italiani con un giaccone imbottito, guanti e berretto di lana, scarponi da neve, informe e caldo abbigliamento americano adatto all’inverno newyorkese». «Mi piace», dissi. «Questa cosa degli abiti». «Già. È gennaio e alla ragazza sembra di cambiare pelle». «Ma con il musicista com’è? Stanno insieme?» «Non proprio. Diciamo che sono coinquilini molto affettuosi. «Lei afferma di non volere, né di potergli dare più di così. Lui giura di non innamorarsi. La sera la porta ai concerti, oppure, se rimangono a casa, le racconta di Vancouver e di Seattle, dei boschi sconfinati della costa occidentale, dei pescatori di granchi giganti e delle petroliere che vengono giù dall’Alaska. Sono le immagini che mette nelle sue canzoni. Una notte ne scrivono una insieme: parla di loro due e di tutti i


ragazzi sbarcati a New York in cerca di fortuna». «Come si intitola?», chiesi. «Per adesso soltanto canzone», disse Sofia, con una faccia imbronciata che doveva essere un’imitazione della mia. «Ma che brava attrice», dissi, spingendole la testa dentro l’acqua. «Che brava». Sofia rise, mi sputò addosso la schiuma e poi mi rivelò il titolo della canzone. Era il «Blues dei marinai di Brooklyn». «E come fa?», chiesi. «Scordatelo. Non canto neanche se mi affoghi». «Dimmi almeno che musica è». «È una canzone per ragazza con chitarra. Ma viene bene anche cantata da un vecchio bevitore di whisky. È quella musica lì». Il primo di aprile, nonostante avessimo nascosto le cose di Sofia in un armadio, il padrone di casa venne a riscuotere l’affitto e si accorse della presenza di un intruso. Aveva l’occhio buono, era difficile ingannarlo. Arrivò la mattina presto eppure sembrava già sveglio da ore. Appena entrato si guardò intorno, notò i cambiamenti e chiese se avevamo un nuovo inquilino. Disse: «È una ragazza, vero?» Poi aggiunse: «E di chi è questa ragazza? È tua, Piotr? O è di Gagarin?» Juri e io non ci guardammo nemmeno. Il padrone di casa rise, prese la busta con i soldi e se ne andò via tutto allegro. Sapevamo entrambi cosa stava succedendo, ma non ne


parlavamo. Eravamo fatti così, da quindici anni eravamo amici senza parlare. Una volta fummo picchiati insieme dai ragazzi di un’altra scuola, lui perché li aveva provocati e io per prendere le sue difese. Una volta una ragazza era gelosa e mi diede un ultimatum: «O me o lui», io dissi a Juri che era meglio non vedersi per un po’ e lui mi compianse come un povero idiota per come mi ero sottomesso a quel ricatto. Una volta, quando già abitavamo insieme, gli dissi che non poteva usare la sua infanzia per giustificarsi in eterno, era una scusa uguale a tutte le altre scuse: lui uscì di casa con mezza bottiglia di vodka, tornò ubriaco e in lacrime molte ore dopo. Non è che ci raccontassimo mai queste cose, ma ce le ricordavamo, erano lì una dopo l’altra e formavano una fila che adesso era arrivata in Columbia Street, e in un modo o nell’altro sarebbe proseguita. Poche certezze erano solide come questa nelle nostre vite. Tra Juri e Sofia cominciarono i problemi. Eravamo in cucina quando lui raccontò che il montaggio era arrivato a un punto morto, gli pareva che non ne sarebbe più venuto a capo. «Perché non lasci perdere?», disse lei. «Se una cosa non viene, tanto vale piantarla lì e farne un’altra». Ma per l’anima balcanica di Juri la vita era una lotta contro il destino avverso. Non sono le tue azioni, sosteneva, ma le tue reazioni a definire chi sei. Guerre, malattie, persone che muoiono, case che ti crollano in testa, e pure film che non ne vogliono sapere di stare insieme. «Quando le cose vanno bene sono buoni tutti», disse. «È quando vanno male che si vede di che pasta sei fatto».


Parlava stravaccato sulla sedia, come se fosse troppo piccola per la sua debordante personalità. Le gambe allungate sotto il tavolo, un braccio sullo schienale e l’altro che pendeva a terra. Io guardai fuori per non guardare lui. Uno dei vicini messicani stava gonfiando la piscina per l’estate: il berretto degli Yankees in testa, la pompa della bicicletta in mano. Il suo cane si era sdraiato proprio al centro del telo di plastica, e lui cercava di convincerlo a spostarsi. Sofia disse che lei, quando le cose andavano male, non faceva altro che prendere la sua roba e tagliare la corda. «Quindi che cosa sono?», chiese. «Un’artista della fuga?» «Ma che ne sai», disse Juri, insofferente. «Siete tutti figli di brave persone. Gente civile che non vi ha mai toccati con un dito. Vi costruite un’intera filosofia del rancore su traumi immaginari». Sofia non rispose. Le piaceva parlare di tante cose, ma non confrontare i rispettivi traumi per vedere chi si era fatto più male. Aveva il turno al bar. Era ora di andare. «Io esco», disse. «Ecco la cazzo di artista della fuga», commentò Juri. «Come?», chiese Sofia. «Non ho sentito». «Niente», disse lui. «Lascia perdere». Poi si pentì e aggiunse «Buonanotte», ma Sofia era già sulle scale. Quando usciva di casa non salutava mai. Non salutava la mattina appena sveglia, non salutava la sera andando a letto, e non avrebbe salutato nemmeno prima di sparire. Juri e io restammo da soli. Aspettai di sentire la porta di


sotto, poi gli chiesi che problemi aveva il film. «Problemi?», disse. Mi spiegò che ormai il suo film era un unico, enorme problema lungo due ore. Aveva passato gli ultimi giorni a spostare scene avanti e indietro, provando ad anticipare la fine e posticipare l’inizio e scombinare i tempi interni, poi aveva buttato via tutto e rimesso le cose come stavano una settimana prima. Aveva tolto le parole e lasciato la musica, poi aveva tolto anche la musica e inserito i rumori della città come se fossero una partitura, ma se ci pensava adesso lo sapeva che era una cazzata, e oltretutto una cazzata vecchia. Si incantava a guardare sequenze già viste decine di volte, riprendeva il girato e confrontava le versioni di una stessa inquadratura per vedere se aveva davvero scelto quella migliore, le scopriva tutte diverse e tutte buone. E poi c’era un effetto collaterale: non sopportava più Sofia. La osservava nei panni di Laila per tanto di quel tempo che quando tornava a casa e la vedeva in carne e ossa gli veniva la nausea. «Sono pazzo?», chiese. Gli avrei detto volentieri che non era pazzo: era arrogante e crudele. Invece dissi che era molto stanco e molto solo. Rinunciare al montatore, lavorare di notte, farne un’impresa epica non era servito di certo a guardare le cose con chiarezza. «Posso darti una mano?», chiesi. «Sì, vieni a vederlo. Mi fido più di te che di me. Se no uno di questi giorni vado giù e brucio tutto». Fissammo la proiezione per il lunedì successivo. La domenica


sera, quando già si stava cercando un’altra stanza, Sofia venne a prendermi in libreria all’ora di chiusura. Il signor Battaglia la adorava. Le fece un gran sorriso e la accolse dicendo: «Buonasera signorina, parliamo un poco d’italiano?» «Volentieri», disse Sofia. «Che cosa mi racconta?» Cenammo insieme, parlando il nostro solito miscuglio di italiano e inglese, e il signor Battaglia ci raccontò di quando, da bambino, l’avevano portato a trovare suo nonno al cinquantesimo piano dell’Empire. Erano gli anni Quaranta, subito dopo la guerra. Il ristorante era frequentato da uomini d’affari di Manhattan: grassi americani benestanti che mangiavano carne e fumavano sigari della Virginia. Il nonno gli aveva preparato una coppa di gelato, e si era seduto con lui in un angolo della sala. A sei anni il signor Battaglia si era stupito di tutto: del panorama di New York dall’alto, del lusso con cui il ristorante era arredato, dei vestiti di quei signori e della cortesia con cui salutavano suo nonno. Era soltanto un cuoco, ma uscendo gli stringevano la mano come se fosse il proprietario. Quello era l’orgoglio maggiore del vecchio emigrante: il rispetto conquistato col lavoro. Era nato in montagna nel Sud Italia e ora offriva un gelato al suo primo nipote americano, mentre uomini più ricchi di lui gli dimostravano la loro stima. Le nostre storie non finivano così. Quella sera al Folk Thea;tre un ragazzo cantò una canzone: Every time you light a cigarette with a candle’s flame, a Brooklyn sailor’s body will fly from sea to sky. Sofia mi diede una gomitata nelle costole.


«Pietro», disse. «Apri le orecchie. Questa l’ho scritta io». Il «Blues dei marinai di Brooklyn» esisteva davvero: era una canzone semplice e triste, e parlava di gente che conoscevamo. C’era Nathan di Portland, Oregon, arrivato a New York per suonare la sua chitarra nei locali del Village. C’era Maud del Kansas che faceva su e giù per Broadway, e voleva soltanto cantare e ballare. C’era Julio, salito dal Messico a bordo di un camion, e Olga scesa dal Canada con l’autostop. E c’era anche Sofia, l’attrice italiana. Tutti partiti con le vele spiegate, e tutti naufragati sugli scogli che circondano l’isola di Manhattan. Uno adesso arrostiva spiedini su una piastra d’acciaio, una si spogliava in un locale di Times Square, uno faceva qualunque cosa in cambio di un biglietto da venti. L’attrice era passata dalle audizioni in teatro agli interrogatori dell’ufficio immigrazione. Uno aveva preferito darci un taglio, e si era buttato dal ponte di Verrazzano. Tutte le volte che accendi la sigaretta con una candela, il corpo di un marinaio di Brooklyn vola dal mare al cielo. «Che bella canzone», dissi alla fine. Ero ammirato. «Magari farà fortuna e io nemmeno lo saprò». «Mi piace Julio degli spiedini. E l’attrice fuorilegge». «Oh», disse Sofia. «Quella l’ho messa perché ai tempi mi era appena scaduto il visto». «E poi come hai fatto?» «Come ho fatto, Pietro, niente. È ancora scaduto». La guardai. Spesso mi prendeva in giro perché credevo a tutto, però quando raccontava una bugia poi scoppiava a ridere,


non resisteva molto. Questa volta invece era seria. «Ma scusa, e se ti trovano?» «Se mi trovano mi mandano a casa. E addio all’America per dieci anni. Però mi pagano l’aereo, almeno quello non è male, no?» Il giorno dopo raccolsi la mia buona volontà e uscii di casa per prendere la metropolitana. Era un pezzo che non andavo a Manhattan, così ritrovarmi in Union Square all’ora di punta fu come entrare in un centro commerciale nel periodo dei saldi, con le luci, la musica, la gente che entrava e usciva dai negozi e dai bar. Raggiunsi la scuola di Juri più in fretta che potevo, trovai la portineria e chiesi di lui. Il custode mi accolse come un vecchio amico. Mi guidò per i corridoi fino allo studio di montaggio in cui Juri lavorava: era uno stanzino con un computer e due schermi, un paio di sedie, muri di cartongesso che davano su celle simili, una finestrella a cui lui restò attaccato tutto il tempo per fumare. Su una parete c’erano dei biglietti gialli ormai sgualciti, con i titoli delle scene scritti a pennarello: Laila suona la chitarra, Laila fa il bagno, Laila dorme. I mozziconi giacevano nei bicchierini da caffè. Erano state lunghe le notti lì dentro. Juri mi passò una sedia, spense la luce e fece partire il film. L’assedio di Sarajevo era sparito, e così pure le bombe e la musica balcanica. Di tutta la storia che lui mi aveva raccontato a Natale non era rimasto granché. Mancavano diversi personaggi, i dialoghi erano ridotti all’osso e in nessun punto si


poteva dire che qualcosa accadesse davvero. Oppure era la vita di Laila che accadeva. Il suo corpo, il suo andare e fermarsi, quello che lei faceva con le mani. Non c’era molto altro. Due ore dopo strizzai gli occhi cercando di pensare in fretta. Per tutta la proiezione Juri era stato in piedi dall’altra parte dello schermo, così non mi era sembrato solo di guardare un film, ma di essere guardato mentre lo guardavo. Ora avevo poco tempo per decidere cosa dire. La verità o un mucchio di parole inutili, commentando le scene qua e là, il suono, la fotografia, le inquadrature. Non era un gran momento tra noi due. In altri tempi non avrei dubitato di dovergli un’opinione onesta. Mi sentivo come un cieco sul ciglio della strada: poi presi il respiro e decisi di attraversare. «Secondo me è incomprensibile», dissi. «Come?», chiese Juri. «Non si capisce, è incomprensibile». «Tutto il film?» «No, certo, non tutto». «E che cosa non hai capito?», chiese. Aveva in bocca una sigaretta, ma non l’accese. Incrociò le braccia al petto e mi fissò. Io cercai le parole più giuste per dire quello che volevo dire. Dissi che molte immagini erano belle: anzi non solo erano belle, erano vere. C’era una verità che mi colpiva in certi angoli della strada, in certi primi piani di Laila. Ma stavano dentro al film come un mucchio di fotografie in una scatola:


potevi fermarti a guardarne una e ignorare le altre, o sparpagliarle per terra inventando una trama tua, tanto una trama non c’era, c’erano solo la bellezza e il caso. «È un lavoro pieno di idee», dissi. «Di gusto estetico, di pensiero. E soprattutto di vita. Ma non va da nessuna parte. E questa cosa all’inizio ti affascina, poi ti disturba, alla fine ti annoia e ti fa incazzare. Al cinema la gente uscirebbe a metà del film». Respirai. Juri mi fissava ancora. Non sembrava sorpreso né ferito. Non gli avevo detto niente che non sapesse già. Accese la sigaretta e soffiò il fumo fuori dalla finestrella. «E quindi?», disse. «Che cosa posso fare?» Io mi strinsi nelle spalle. Non credevo che rimontarlo sarebbe stato utile. C’erano troppi buchi. Gli dissi che doveva sforzarsi di vedere il lato buono: aveva frequentato un’ottima scuola e quella era un’esercitazione, giusto? Secondo me, sulla regia aveva imparato di più in quei tre mesi che negli ultimi cinque anni. Juri annuì. Ci stavamo accordando sulla versione ufficiale con cui saremmo usciti da lì, ma sapevamo entrambi di cosa si trattava: di un film fallito che era meglio far sparire. Nessun produttore, vedendolo, gliene avrebbe finanziato un altro. Avrebbe investito più volentieri su un esordiente assoluto. A quel punto lui poteva attraversare lo studio, incassare un abbraccio di consolazione, svuotare i portacenere e staccare i biglietti gialli dal muro, spegnere tutto e venire via con me, invece decise di dire ancora qualcosa.


Disse: «Tu stai scrivendo?» «Ho cominciato», risposi. «Stai scrivendo di Sofia, vero?» «Più o meno». Juri annuì soddisfatto. Fece un rumore con la lingua tra i denti, come per sputare un pezzetto di tabacco. «E bravo Pietro», disse. «Prima mi freghi la donna, e ora pure la storia». «Ti frego la donna?», chiesi incredulo, con l’assurda sensazione di essere stato smascherato. «Già. E siccome sei così buono, neppure te la scopi». Fu l’inizio di un’invettiva. Ne avevo già ascoltate di simili: quando Juri si sentiva tradito dal mondo io diventavo l’ipocrita numero uno. Ero un codardo e uno stratega, lo lasciavo andare avanti per primo, ero quello che passava col cappello dopo che lui si era esibito nei suoi numeri di eroico fallimento. Lui invece era un puro e perciò destinato a perdere in eterno con quelli come me. Me lo spiegò per l’ennesima volta quel giorno a Manhattan. Forse avremmo dovuto fare a botte, ma era finita l’epoca in cui i nostri problemi si risolvevano rotolandoci per terra. Aspettai che finisse di parlare, poi mi alzai dalla sedia e me ne andai. Lo lasciai nel suo buco e corsi verso la metropolitana, sentendomi in apnea fino a quando non fui di nuovo a Brooklyn. Vidi Sofia per l’ultima volta sul terrazzo di Columbia Street. Un tetto piatto e rivestito di pece a cui si arrivava spingendo una botola dal pianerottolo. Ci andavamo al tramonto, adesso


che le giornate si allungavano. Da lassù le case del quartiere sembravano addossate una all’altra senza interruzione: se uno si fosse messo a correre sarebbe arrivato fino al mare. Sofia disse: «Immagina com’è, a quattordici anni, andartene in giro con questo cane più grosso di te. Aveva un orecchio mutilato e sei dita nelle zampe posteriori, il che impressionava la gente. Ora immagina di essere una ragazzina, Pietro, e che il tuo primo fidanzato decida di lasciarti, un sabato pomeriggio davanti a scuola. C’è questa scena a tre: lui che ti fa il suo discorsetto vigliacco, tu che trattieni le lacrime e il cane che guarda te, guarda lui, e nella sua logica semplificata coglie perfettamente il punto della questione. Questo stronzo ti sta facendo male. Comincia a ringhiare in quel modo dei grossi cani, sai quella frequenza bassissima da motore di camion, e il tipo non è più tanto sicuro di quello che sta dicendo, si corregge, balbetta, diventa pallido». Io la guardavo senza ascoltarla davvero. Era troppo tardi per le storie. Sofia se ne accorse, lasciò a metà il racconto e disse: «Ehi, marinaio. Che cos’è quel muso lungo? Un po’ di nostalgia di casa?» Restammo a osservare la baia scintillante e le gru sulla costa del New Jersey. Sapevo che il porto era stato trasferito laggiù a partire dagli anni Sessanta, perché i grandi cargo moderni avevano bisogno di spazio per manovrare. Ora li vedevamo partire da Newark e Jersey City, scendere maestosi verso il ponte di Verrazzano per uscire in mare aperto. «Adesso dove vai?», chiesi.


«Sono indecisa tra Seattle e San Francisco. Mi piacerebbe vedere l’Oceano Pacifico. Oppure vado a dare un’occhiata a come sta mia madre. Tu però scrivi, mi raccomando». «Ci sono ancora tante storie che non so». «Oh be’, Pietro, inventale. Non sono mica le sacre scritture. Ti do il permesso, usa la fantasia». Una volta mi aveva detto di avere un unico vero talento, quello di riconoscere la fine delle cose. Più tardi ripensai a quella frase e immaginai che mi avesse salutato come facevano i suoi amici musicisti. Posando la chitarra, avvicinandosi al microfono, guardandoti negli occhi e dicendo: «Ricordati di me». Juri e io continuammo a evitarci per qualche giorno, dopo che Sofia fu partita. Lui si alzava e faceva il caffè, si vestiva e se ne andava a scuola a preparare gli esami. Io mi alzavo un’ora più tardi, finivo il caffè che lui aveva lasciato, andavo a leggere al parco. Ci incrociavamo di nuovo la sera: io preparavo la cena e lui ordinava spaghetti dal cinese lì accanto, e per non correre rischi ognuno dei due mangiava in camera sua. Una domenica feci un giro a Williamsburg. Nell’appartamento di Nathan abitavano altri ragazzi adesso, e di lui non sapevano niente. Pensai che magari era tornato nell’Ovest con Sofia. Quella sera decisi di parlarne con Juri. «Secondo te dov’è?», chiesi.


«In manicomio», disse lui. «Oppure è morta». «Allora poi l’hai letto». «Certo che l’ho letto. Bel libro». Un po’ alla volta si poteva di nuovo bere una birra insieme, andare al bar o giocare a scacchi. Ma di lei non parlammo più. Alla fine di Colazione da Tiffany una statua in legno di Holly Golightly veniva trovata in Africa, modella di uno scultore indigeno, divinità pagana. Forse anche Sofia Muratore a quel punto era già l’ossessione di qualcun altro. Riguardai spesso il film di Juri durante l’estate. Il ragazzo che abitava con me era un greco di vent’anni, e non ci capiva niente. Avevamo le finestre aperte per il caldo, il frigo di casa non teneva la temperatura, bevevamo birra tiepida mentre dai cortili salivano i fumi delle grigliate e le grida dei ragazzini. Nel film invece era inverno, c’era la neve ai bordi delle strade e Sofia che ballava in un bar in quel suo modo furioso, con gli occhi chiusi e scuotendo la testa come una punk strafatta di anfetamina. Non era più Laila adesso. Quel nome non significava niente. C’era Sofia che parlava a quattr’occhi con il suo cane, quello che aveva affidato alla vecchia signora, cercando di fargli un discorso serio, ma il cane le leccava la faccia a tradimento e lei cadeva per terra di schiena, e rideva e rideva. C’era la scena in cui attraversava la strada e correva lungo un molo di cemento finché il molo finiva, e Sofia si fermava a un passo dall’acqua come se stesse inseguendo qualcosa e l’avesse perso per un nonnulla, sfiorato con un dito. C’era il finale lunghissimo in cui si rotolava nel letto, ficcava


la testa sotto il cuscino per ripararsi dalla luce, si ostinava a cercare di riaddormentarsi e infine si arrendeva e apriva gli occhi, solo i suoi occhi strabici che guardavano in macchina e basta. Il mio coinquilino studiava il film con un interesse turistico, chiedeva continuamente: «Qui dov’è? E qui?» Io lo guardavo come se fosse un vecchio super8 di famiglia. Sapevo dov’erano i posti e che giorno era. Sapevo chi c’era dall’altra parte della macchina da presa: conoscevo i suoi peggiori difetti e gli volevo bene. E sapevo della porta che Sofia chiudeva senza salutare perché odiava quel momento, i saluti andando via, gli abbracci, la cerimonia di ogni separazione: preferiva pensare che fosse sempre come andare di là, nell’altra stanza, assentarsi per poco. Poi quando tornava non faceva altro che proseguire il discorso del giorno prima. Per quello le bastava il suo comunque. Diceva: «Comunque, Pietro, sulle navi pirata le donne non erano ammesse, e nemmeno i ragazzini se è per questo, e sai perché? Perché mettevano gli uomini uno contro l’altro». Oppure: «Comunque, gli occhi sono dei bugiardi schifosi. È il frigo lo specchio dell’anima». Erano passati mesi. A maggio, finita la scuola, Juri non vedeva l’ora di partire. Non si tenne nemmeno una settimana dopo gli esami. Se durante quell’anno aveva coltivato l’idea di restare, adesso era chiaro che in New York, nella sua New York di cartone c’era qualcosa di esaurito, e che i prossimi passi avrebbe dovuto farli altrove. Per ora in Italia, poi chissà. Con il diploma gli consegnarono anche una copia del film, che


lui lasciò sotto il letto quando partì. Non voleva saperne più niente. Per me era diverso. La mia New York era appena cominciata. Avevo davanti l’estate e la scrittura. Così un sabato di maggio camminai insieme a Juri verso la sopraelevata tra Smith e la Nona Strada, dove i binari del treno si alzano fino ai tetti dei palazzi. Io l’avrei accompagnato anche in aeroporto, lui non voleva nemmeno che uscissi di casa. Quando la metropolitana emerse dal sottosuolo ci abbracciammo un po’ rigidi, con un affetto messo a dura prova e bisognoso di distacco. Ci guardammo attraverso il vetro mentre le porte si chiudevano, poi il mio amico scomparve e io restai sulla banchina. La città era distesa al sole sotto di me. Giù in fondo, nel controluce della baia, vidi una petroliera salpare: erano i marinai di Brooklyn che se ne andavano per il mondo. Mi accodai al flusso dei passeggeri e tornai verso casa, per cominciare a scrivere questa storia.


«Prima luce» è per Nadia, fai buon viaggio mia ballerina. «Una storia di pirati» per la Scighera tutta: che il vento possa soffiare a lungo sulla bandiera nera. «Due ragazze orizzontali» per Sara e la sua ombra. «Sofia si veste sempre di nero» per Marina e per Bo, allevatrici di bambini usati. «Disegnata dal vento» per Carlo che tornava dalla fabbrica. «Quando l’anarchia verrà» per Dino, oste, maestro, compagno di bevute. «Le attrici» per Viola che non si dà pace. «Sulla stregoneria» per Federica, che conosce i fantasmi e spalanca le porte chiuse. «Le cose da salvare» per Marta e quel bacio nel fango. «Brooklyn Sailor Blues» per Gabbole: amico, la vita sarebbe una cosa triste senza di te.


LEZIONI DI STREGONERIA Minimum fax mette a disposizione, soltanto per chi ha acquistato il nuovo libro di Paolo Cognetti in versione eBook, un contenuto extra realizzato ad hoc per l'uscita del suo ultimo lavoro. Si tratta di un video in cui l'autore di Sofia si veste sempre di nero si racconta e ci apre le porte del suo mondo creativo e narrativo. Potete accedere al video andando sul nostro canale privato di Vimeo e digitando la seguente password: sofia2012.


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