Per tutto l oro del mondo

Page 1




Guardo la luna, guardo le stelle, vedo Caino che fa le frittelle. Vedo una tavola apparecchiata, vedo Caino che fa la frittata. Vedo San Pietro con un fiasco di vino, che gioca a carte con Caino. (Filastrocca popolare)


PROLOGO Donna di jazz. Quando avvicinava le labbra rosse al microfono per attaccare Good Morning Kiss trattenevo il fiato per godermi ogni singolo istante. Imitava voce e stile di Carmen Lundy ma bisognava sforzarsi per capirlo. Non avrebbe mai fatto carriera, nemmeno nei locali di provincia. Cantava brani jazz perché erano l’unica cosa in grado di tenerla aggrappata a una vita che faticava a sopportare. Il marito era convinto che avesse un amante. Mi aveva allungato cinquecento euro appena ritirati dal bancomat per scoprirne l’identità. Era un brav’uomo ancora innamorato, non aveva nessuna intenzione di separarsi, voleva solo capire perché l’amore della sua vita si fosse allontanato da lui, dal loro mondo, per un altro. Con ogni probabilità uno sconosciuto. Un caso apparentemente facile per un investigatore senza licenza, che si accontentava di poco per ficcare il naso in affari di coppia che non lo riguardavano e che scordava un attimo dopo il saldo della parcella. Erano stati sufficienti un paio di giorni per scoprire che la donna fingeva di recarsi in ospedale, dove lavorava come infermiera, per un inesistente turno di notte e si infilava invece in uno scantinato noto come il Pico’s Club. Indossava un vestito verde smeraldo corto e scollato e scarpe dello stesso colore, con un tacco vertiginoso, e si perdeva nel suo jazz. Era generosa e cantava fino a sfinirsi. Conoscevo di vista il pianista che l’accompagnava, bravo ma perennemente a secco di soldi, accettava qualunque ingaggio. Mi disse che “Cora” era spuntata dal nulla e gli aveva chiesto un provino. Si esibivano due notti a settimana ma lei non voleva saperne di allargare il giro. Il musicista era convinto che la donna si desse troppe arie e non avesse la minima intenzione di seguire i suoi consigli. Giudizio severo e fuori luogo. Lei aveva bisogno di recitare il ruolo della star in un rifugio dove per qualche ora la realtà non potesse fare irruzione. Avrei potuto chiudere le indagini in quel momento. Ma non lo feci. Violai il patto di fiducia con il cliente. Non avevo intenzione di fregargli l’anticipo ma erano ormai due mesi che non riuscivo a staccarmi dalla donna di jazz. Mi ero innamorato. Mi piaceva. Volevo diventare il suo amante. Ma non sapevo come avvicinarla. Di certo non potevo confessarle che la pedinavo per conto di suo marito, che conoscevo la sua seconda vita. Non volevo spaventarla e tantomeno farla incazzare. Volevo amarla. Quando stava sul palco a volte giocava con l’orlo del vestito e io sognavo di allungare le mani e accarezzarle le cosce. Belle, tornite. Cora era una quarantacinquenne alta, slanciata, il cui fisico mostrava segni evidenti dell’assidua frequentazione di palestre. Le tette ne avevano indubbiamente beneficiato. Una cascata di capelli ricci e neri incorniciava un volto ovale dai tratti delicati. Per evitare di incontrare il consorte, che usciva di casa per andare al lavoro, si fermava in un bar di periferia per la colazione che consumava lentamente. Mi sedevo vicino e la sbirciavo, ammirando le rughe agli angoli di quella bocca che desideravo baciare. Quando la spiavo nel buio del Pico’s Club, con il trucco pesante che i fari ambrati del palco mettevano in risalto, si faceva chiamare Cora. Una volta dismessi i panni della cantante tornava a essere Marilena. Di cognome faceva Dal Corso. Anche quella mattina la osservai mentre mangiava un croissant con appetito leggendo il giornale. Alzò di scatto lo sguardo e piantò i suoi occhi nei miei. Le sorrisi. Lei rimase impassibile. Per un attimo temetti che mi avesse riconosciuto e collegato al locale. Invece tornò alla sua colazione e non mi degnò più della minima attenzione. La seguii fino a casa, una palazzina ai limiti della campagna. Padova era a qualche chilometro di


distanza. Scesi dall’auto e fumai una sigaretta fantasticando di suonare il campanello e infilarmi sotto la doccia con lei. Nella mia vita c’erano stati altri momenti in cui il desiderio dell’amore di una donna mi aveva letteralmente travolto ma questo era particolarmente difficile da gestire. Ne avvertivo l’urgenza perché avevo bisogno di tenere a bada un passato di ferite mai completamente rimarginate che ogni giorno di più rischiava di diventare invadente. E distruttivo. Non avevo nessuna intenzione di fare i conti con quelle vecchie storie, ne sarei uscito sconfitto. Volevo vivere un presente dignitoso. Solo l’amore o la tensione di un’indagine pericolosa erano in grado di garantirmelo. Ma io non avevo intenzione di ficcarmi nei guai. Desideravo dare e ricevere tenerezza, affetto. Baci e carezze. Risalii in auto e guidai fino al grande magazzino di elettrodomestici dove lavorava il marito. Attesi che si liberasse di una cliente che chiedeva informazioni su una lavastoviglie ultimo modello, gli dissi che Marilena non lo tradiva e gli restituii i soldi. Lui finse di rifiutarli ma io tagliai corto ricordandogli quanto guadagnava al mese. «Io però sono sicuro che c’è un altro, mi racconta balle, s’inventa turni in reparto» si inalberò l’uomo, alzando leggermente la voce. Gli appoggiai la mano sul petto per tranquillizzarlo. «Tua moglie canta» spiegai. «In un club del cazzo, frequentato da bevitori solitari e donne mature con la voce roca per le troppe sigarette. È la sua isola di libertà, il suo innocuo segreto. Se le togli anche questo la perderai». «Non capisco» balbettò. «Siamo maschi e certe dinamiche sono al di fuori della nostra capacità di comprensione. Ascolta il mio consiglio: lasciala campare in pace». Gli strinsi la mano e me ne andai sollevato. Il caso era risolto. Forse sarei riuscito a stare lontano da lei come suggeriva il buon senso. Forse. Il mio cuore fuorilegge la pensava diversamente. Frugai tra i cd che tenevo in macchina e trovai subito quello che conteneva il brano che volevo ascoltare: Dengue Woman Blues del grande Jimmie Vaughan, fratello del compianto Stevie Ray. Faticai a trovare parcheggio vicino a casa e trascorsi un buon quarto d’ora a percorrere a passo d’uomo le vie circostanti a caccia di un buco. Poi feci tappa al solito bar tabacchi per la scorta di sigarette. A volte lo usavo come segreteria. Se qualcuno desiderava lasciarmi un messaggio mi sarebbe stato riferito. Un tizio che perdeva euro dopo euro a una delle slot allineate di fronte al bancone abbandonò lo sgabello e si avvicinò. Lo conoscevo bene, nell’ambiente della mala padovana era noto con il nome di Ruspa per la specializzazione nel furto di mezzi pesanti che rivendeva nei paesi dell’Est. «Siro Ballan ti vuole vedere» disse piano. «Se fosse possibile stasera stessa. Cosa gli rispondo?». «Che andrò a fargli visita». Annuì soddisfatto. «Riferirò». «Cosa ti posso offrire?» chiesi per pura cortesia, sperando che rifiutasse. Indicò la macchinetta che gli stava succhiando denaro come un’idrovora. «La devo castigare» spiegò. «Non posso abbandonarla». In ascensore incontrai l’inquilina del piano di sotto, la signorina Suello, energica settantenne. «Ho il sonno leggero e tenete la musica sempre troppo alta» si lamentò rassegnata.


«Marijuana» sussurrai. «La fumi prima di andare a letto e il blues le canterà la ninna nanna». Ridacchiò compiaciuta della mia audace provocazione. Era una scenetta che recitavamo da un pezzo. «Stasera cucino le melanzane alla parmigiana» annunciò. «Al suo amico Max piacciono tanto. Magari se mi capita di essere abbondante nelle dosi…». «Lo spero tanto». Max la Memoria era il mio socio. E un vero amico. Condividevamo un appartamento grande e luminoso, arredato con gusto, nel centro di Padova. Ci era stato donato da una cliente svizzera piena di soldi. Lo aveva acquistato per poter vivere in santa pace una tranquilla e segretissima storia d’amore con un uomo che non era il marito che la manteneva. Un criminale perverso e crudele aveva tentato di sfruttare a suo vantaggio la situazione, chiedendo un sacco di quattrini per non divulgare la notizia della tresca. La faccenda era finita nel peggiore dei modi e la signora si era disfatta del nido con un gesto elegante e generoso. Max come ogni mattina stava leggendo i giornali alla ricerca di informazioni per il suo archivio. Aveva iniziato negli anni Settanta e non aveva più smesso di tenere d’occhio criminali e notabili locali. Dati che aveva sempre elaborato con notevole acume. Qualche tempo prima si era beccato una pallottola nella ciccia per proteggermi. I medici avevano scoperto che le sue condizioni cardiache e metaboliche non erano delle migliori e gli avevano ordinato di evitare gli eccessi. Cibo e alcol secondo tabella. Fumo proibito. Infatti ora Max fumava solo le mie. «Verso sera arriverà una teglia di parmigiana» annunciai mentre gli allungavo pacchetto e accendino. Scosse deciso il testone. «Non se ne parla» ribatté. «Tra un’ora ho appuntamento con la dietologa. Si cambia vita, Marco». Sospirai. Si trattava dell’ennesima specialista da quando era stato dimesso. Avevo perso il conto. «E questa come l’hai trovata?». «In pasticceria. Mi è capitato di origliare un discorso tra due amiche e alla fine ho chiesto lumi». Già, in pasticceria. «Lo sai come finirà, vero?». Tacque, fingendo di concentrarsi sulla lettura. Poi sbottò. «Non è facile trovare il medico giusto che ti aiuti a raggiungere risultati apprezzabili». «Che tradotti in peso equivalgono a venti chili» specificai in tono piatto. «Ti devi fare ricoverare in una clinica per ricconi, dove tra un massaggio e una sauna ti propinano insalate, centrifughe e fettine di ananas trasparenti. E se sgarri ti puniscono con eleganza». Non si degnò di rispondermi. Sfilò un’altra sigaretta dal mio pacchetto e la fumò nervosamente. Gli raccontai della donna di jazz e del colloquio che avevo avuto con il marito. Allargò le braccia, fingendo esasperazione. «Spari giudizi sulle mie scelte per dimagrire e poi ti comporti come un ragazzino». «Ho restituito l’anticipo. Non ho più doveri nei confronti del cliente» chiarii prima di cambiare discorso. «Notizie del vecchio Rossini?». «È andato a Monfalcone a ritirare il nuovo motoscafo. Indovina come ha deciso di chiamarlo?». «Sylvie» risposi sicuro. La donna che più aveva amato nella sua vita e che non era riuscita a guarire dalle sevizie subite durante un lungo sequestro. Si era suicidata sotto i nostri occhi. Non riuscivo a non pensarci tutti i santi giorni. Comprendevo la sua scelta e mi aveva fatto piacere che l’avesse condivisa con noi, i suoi amici. Quello che non sopportavo era che eravamo riusciti a liberarla troppo tardi, quando il peggio era accaduto. I suoi aguzzini avevano pagato con la vita ma a volte non bastava per tenere a bada la tristezza della sua assenza.


Beniamino era un bandito. Contrabbandiere e rapinatore. Lo era sempre stato. Lo avevo conosciuto in galera e non era come gli altri. Il mondo del crimine era fatto di gente priva di qualità umane. Le sue erano straordinarie. Guardandoci le spalle a vicenda eravamo diventati amici e avevamo deciso di affrontare insieme il destino. Max si preparò per l’appuntamento. Indossò una giacca chiara sulla camicia blu e i jeans. Ai piedi portava mocassini marroni. Erano tornati di moda. Disse che maggio marciava deciso verso giugno e quella mattina faceva caldo. Magari il pomeriggio la temperatura si sarebbe abbassata, dato che spesso pioveva e i temporali rinfrescavano l’aria. «Stai traccheggiando» lo stuzzicai. «Rischi di arrivare in ritardo». Uscì sbattendo la porta. Lessi i giornali locali. Le elezioni regionali si giocavano sui migranti, i rom, la sicurezza. Sindaci si facevano fotografare armati di rassicuranti fucili. La pancia del Veneto avrebbe scelto il vincitore. A Padova un gruppo di giovani aveva organizzato un megaraduno alcolico in Prato della Valle chiamato Botellón. Da alcuni anni si divertivano a bere come squinternati per una sera. Lo facevano tutti i giorni nelle piazze consumando ettolitri di spritz ma se si organizzavano diventava illegale. Il sindaco aveva chiuso la piazza con cancelli di ferro, polizia e una miriade di ordinanze, minacciando di segnalare alla polizia postale le persone che osavano condividere l’evento su Facebook. Un vero uomo del dialogo. L’amministrazione della città era perennemente in guerra con qualcuno. Una signora caritatevole, che aveva ospitato alcuni nigeriani fuggiti dalle zone controllate dai jihadisti di Boko Haram e sopravvissuti ai viaggi verso Lampedusa, era stata contestata duramente dal primo cittadino. Un’associazione di commercianti aveva organizzato una fiaccolata di protesta per scongiurare il pericolo di un’epidemia di solidarietà. Magari a sfilare c’erano pure quelli che riciclavano per conto delle mafie, diventate all’improvviso meno pericolose dato che il loro fiume di denaro sporco contribuiva a sostenere l’economia nel momento di crisi. Nulla di cui stupirsi. Il Nordest è un territorio complesso, diviso tra montagne e pianure. E paludi non segnate sulle carte. Erano ovunque. Piene di serpenti pericolosi, mortali. Luoghi dove un alligatore poteva sguazzare, rimestare la melma e tentare di dare filo da torcere. Andai a onorare il rito dell’aperitivo in piazza delle Erbe. Mi sedetti al sole sfoggiando un paio di occhiali vintage con le lenti scurissime che avevo pagato forse più del dovuto in un negozio di modernariato. Chiamai il mio amico sassofonista Maurizio Camardi e gli chiesi notizie di “Cora”. Lui conosceva tutti nell’ambiente del jazz. «Ha studiato canto nella mia scuola ma è un po’ che non la vedo». «Si esibisce al Pico’s». «Non credo possa ambire a qualcosa di meglio» commentò. «Ma non è per le sue doti canore che mi hai chiamato». «Mi piace ma non so come corteggiarla». Maurizio era noto per essere un intenditore di belle donne e di questioni di cuore. «Non la conosco bene ma ho sempre avuto l’impressione che per lei il jazz sia come una sorta di fuga o di terapia». «Ed è proprio così». «Allora segui la sua musica» consigliò. «Quello è l’unico pezzo di mondo dove puoi incontrarla». Ordinai un bicchiere di bianco fermo chiedendomi con sincerità quanto potessi risultare interessante per una donna come lei.


Max la Memoria arrivò qualche minuto più tardi interrompendo il flusso dei miei pensieri. Era furioso. Oltre allo spritz ordinò un panino con salame all’aglio e sottaceti. «Questa è fuori di testa» fu l’esordio del solito sfogo. «E non è nemmeno così magra come ti aspetteresti da una che ti sfila centocinquanta euro per dirti che la dieta è sacrificio, che per dimagrire è necessario rinunciare a tutto, che bisogna tenere la schiena dritta. E mentre sparava questa montagna di cazzate mi agitava davanti al naso un sacchetto di finocchi e carote tagliati a julienne. A me viene a parlare di sacrifici? E con quel tono arrogante? Ho così tanti buchi nell’esistenza che per tapparli dovrei mangiare un continente». Max era paonazzo. Strappò quasi di mano il panino alla cameriera e lo azzannò con voracità. L’ultima volta che aveva avuto a che fare con un professionista del dimagrimento era scomparso per tre giorni e lo avevo ritrovato in un agriturismo della campagna parmense dove producevano un buonissimo gras pist, lardo di maiale battuto e condito, di cui andava particolarmente ghiotto. Anche per Max il problema era il passato. Sogni infranti, latitanza, galera, la sua donna uccisa da una banda di malavitosi. Storie che non si potevano raccontare sul lettino di uno psicanalista. La precarietà dell’esistenza lo braccava. Pagava, come Rossini e il sottoscritto, il prezzo di vivere in un mondo su misura, una nicchia equidistante da una criminalità che ci faceva orrore e da un Paese decadente che non aveva nessuna intenzione di cambiare. «Ho chiuso con queste stronzate» bofonchiò con la bocca piena. «Vada come vada. Non ho le energie per fingere di essere un regolare». Fumammo in silenzio un paio di sigarette osservando la gente che affollava le bancarelle di frutta e verdura. «Stasera vado da Siro Ballan» dissi a un tratto. Max mi fissò rimuginando sulla notizia. Poi il culo di una bella donna lo distrasse e tornò a guardare i passanti.



PRIMA PARTE Siro Ballan come liutaio non valeva un granché. In realtà nemmeno come uomo. Era mediocre come i suoi strumenti. Uno spilungone livoroso e antipatico che viveva tutto solo in una grande casa di campagna che apparteneva da generazioni alla sua famiglia. Dal vecchio granaio aveva ricavato il laboratorio che odorava di essenze, gommalacca e legno di ogni tipo: abete rosso, ciliegio, acero, ebano, palissandro e bosso. Lungo le pareti, senza un ordine preciso, stavano diversi tavoli disseminati di parti di casse armoniche, manici di violini, mandole e contrabbassi, coperti da un leggero strato di polvere. Siro Ballan non campava grazie al denaro dei musicisti. Col tempo si era creato una certa fama nell’ambiente ma non era a quella che aspirava quando si era incaponito a imparare un mestiere per cui non aveva nessuna dote. Se poteva permettersi una vita di un certo agio era per merito della sua casa che affittava a ore. Se un gruppo di rapinatori aveva bisogno di un posticino tranquillo in attesa che le forze dell’ordine decidessero di abbandonare la caccia, il liutaio metteva a disposizione la stalla, che poteva nascondere automobili e furgoni. In genere il luogo più richiesto era il salotto, riservato a incontri tra persone che cercavano discrezione assoluta in territorio neutro. Attendevo il possibile cliente sorseggiando grappa tagliata con la china, accomodato su una delle poltrone di velluto color nocciola, unica nota chiara di un arredamento in cui dominavano mobili di legno scuro. Sentii il rumore di un’auto che frenava sul ghiaino e quello di tre portiere che si richiudevano. “Un sacco di gente” pensai con curiosità. Quando mi trovai di fronte i tre tizi capii che si trattava di una banda o quantomeno di una rappresentanza dei soci più importanti. Il capo fu il primo a presentarsi. «Nicola Spezzafumo» disse allungando la mano. Nella mala era noto come Nick l’orafo per la specializzazione in rapine e furti ai danni di gioiellerie e laboratori. Sapevo che si era sciroppato dignitosamente alcuni anni di galera, referenza che lo rendeva ai miei occhi degno di attenzione. Doveva aver superato la cinquantina da poco e per presentarsi all’appuntamento aveva indossato giacca e cravatta. Gli altri due erano più giovani. Poco più che trentenni. Giacomo e Denis. Pettinature elaborate di coiffeur di paese, tatuaggi sul collo e sul dorso delle mani. Un giro di liquore e sigarette per dare ai nuovi venuti il tempo di osservarmi per bene. Il caso doveva essere particolarmente delicato. Ritenni offensiva quell’indecisione ma la curiosità mi trattenne. Dopo uno scambio di occhiate Spezzafumo si decise ad aprire bocca. «Il 27 novembre di due anni fa tre uomini armati e mascherati hanno fatto irruzione in una villetta dalle parti di Piove di Sacco subito dopo cena e hanno ammazzato il padrone di casa e la governante. La moglie e la figlia si sono salvate perché erano appena uscite per andare a una recita della parrocchia». Annuii. Ricordavo il caso. Aveva occupato a lungo le prime pagine dei quotidiani locali per l’efferatezza degli omicidi. Era già capitato. I rapinatori sapevano dell’esistenza di una cassaforte e avevano bisogno della combinazione per aprirla. Le vittime resistevano ed ecco che si scatenava una violenza insensata. La governante, una quarantenne originaria di Pordenone, aveva avuto la peggio solo perché era una


donna. Gli stronzi si erano divertiti e poi avevano infierito fino a quando il colpo di pistola alla tempia era stato un vero e proprio atto di grazia che aveva messo la parola fine alle sofferenze di quella poveretta. Poi era stata la volta dell’uomo. Un quarantasettenne che con la moglie aveva aperto un modesto laboratorio per la produzione di capi in cachemire. Aveva taciuto fino a quando aveva potuto solo perché sapeva che non lo avrebbero lasciato in vita. L’autopsia aveva evidenziato la presenza di ustioni profonde su buona parte del corpo e un foro di proiettile nel cranio. Le indagini erano state meticolose ma non avevano prodotto risultati apprezzabili, come dicono gli inquirenti nelle conferenze stampa quando non hanno nulla in mano. Una lettera anonima, probabilmente scritta da un vicino, segnalava la presenza di tre uomini vestiti di nero, con il volto coperto da un passamontagna, che erano usciti dalla villa trascinando altrettanti trolley. Dopo pochi metri erano scomparsi in un viottolo di campagna dove con ogni probabilità avevano nascosto l’auto. «Non capisco il nesso con la vostra attività» dissi. «Il proprietario della villetta era un vostro amico?». «Si chiamava Gastone Oddo ed era uno di noi» rispose Nick l’orafo, osservando la mia reazione. Non battei ciglio e lui si decise a continuare. «Custodiva la “merce”, le armi, riciclava i soldi, gestiva i nostri guadagni». Sbirciai i suoi compari. Denis aveva gli occhi lucidi. L’altro si accese una sigaretta con la testa bassa. Il defunto Gastone era ben voluto. «Rivali?» domandai. Scossero la testa tutti e tre. «Abbiamo indagato su tutte le “batterie”» spiegò Spezzafumo, «sia italiane che straniere. Abbiamo tenuto sotto controllo i ricettatori da qui a Belgrado. Non è nel nostro ambiente che vanno cercati quei macellai». «Che idea vi siete fatti?». Il capo lasciò la risposta agli altri. «Una banda anomala» rispose Giacomo. Denis spense la sigaretta. «L’hanno messa in piedi solo per quel colpo e poi l’hanno sciolta». «A quanto ammonta il bottino?» chiesi. «Circa due milioni tra oro, pietre e contanti» rispose Spezzafumo. «Avevamo appena fatto un colpo» si affrettò a spiegare di fronte alla mia espressione stupita. «Hanno portato via anche le armi?». «Tre kalašnikov, pistole, munizioni. Non hanno lasciato nulla». «Forse non volevano che la polizia le ritrovasse» commentai. «Si sono preoccupati di mascherare in ogni modo il vero scopo della rapina». Riflettei sulla faccenda per un paio di minuti mentre i tre bisbigliavano tra di loro senza smettere di lanciarmi occhiate. La loro diffidenza era palpabile. «I rapinatori sapevano che Oddo era il vostro cassiere» dissi con voce chiara e decisa. «E che quella sera avrebbero trovato nella cassaforte anche la refurtiva dell’ultima rapina. Ora, non vorrei risultare offensivo ma mi sembra chiaro che a fottervi è stato qualcuno che vi conosce fin troppo bene». «Lo abbiamo pensato fin dal primo momento» ribatté Denis accalorandosi, «ma non è stato nessuno dei nostri. Abbiamo passato al pettine tutti i contatti di Gastone, non abbiamo tralasciato nulla». «La moglie?» domandai per esclusione. Spezzafumo spazzò l’aria con un gesto stizzito. «Amava Gastone, non l’avrebbe mai tradito».


«La governante?». Denis alzò le spalle. «Era una mezza tonta, e poi non sapeva un cazzo». Nick l’orafo tirò fuori dalla giacca una busta e la gettò sul tavolino ingombro di bicchieri e posacenere. «Sono gli ultimi trentamila euro. Se ci fai recuperare il bottino ti diamo il dieci per cento». Un bel po’ di quattrini che mi avrebbero fatto comodo. «E il resto come andrebbe ripartito?». «Diviso tra noi e Gigliola, la vedova di Gastone». Sbuffai. «Non accetto il caso». «Che cazzo dici?» sbottò Giacomo alzandosi di scatto. «Dovevi metterlo in chiaro prima di farti raccontare i cazzi nostri». Il suo capo gli mise una mano sulla spalla e lo costrinse a sedersi. «Perché?» chiese Spezzafumo. Mi servii un’altra dose di liquore. «Se scoprissi i responsabili voi fareste di tutto per fargliela pagare e non voglio rischiare di finire all’ergastolo per una vendetta che nemmeno mi riguarda. Queste storie finiscono sempre male. Funerali, sbirri e il più furbo che se la canta per primo». Denis strinse i pugni e Giacomo mi guardò di traverso. Nicola invece misurò le parole. «Agiremmo in sicurezza, lo sai che lavoriamo così: non è un caso se non ci hanno mai beccati». Alzai le spalle. «Non è una garanzia e comunque c’è un altro aspetto della vicenda che non mi garba…». Denis mi interruppe rivolgendosi a Nick l’orafo. «Poi mi fai il favore di spiegarmi perché cazzo hai insistito a mettere in mezzo questo stronzo». Ignorai l’insulto e continuai a spiegare le mie ragioni. «Il denaro recuperato andrebbe diviso per tre. La governante è una vittima innocente, non aveva nulla a che vedere con i vostri affari, si trovava in quella casa per lavorare in cambio di un salario ed è stata massacrata». Denis e Giacomo ridacchiarono. Il loro capo scosse la testa. «Se permetti questi sono affari nostri». «Appunto» convenni, alzandomi. Nick l’orafo mi strinse la mano. Conosceva le buone maniere. Gli altri due mi fissarono minacciosi. Erano giovani e ancora ignari del fatto che le strade del crimine sono lastricate di fessi. Li lasciai a Siro Ballan e alle sue chiacchiere. Allietava il momento del pagamento con una sfilza di pettegolezzi inutili che bisognava fingere di ascoltare con interesse. Il liutaio si offendeva facilmente. Misi in moto la mia Škoda Felicia e dalle casse che avevo fatto montare da poco uscì la voce di Susan Tedeschi che cantava It Hurt So Bad. In quel periodo l’ascoltavo spesso. Mi piaceva come cantante e come donna. Mi ero innamorato di lei più o meno nel 2000 guardando un video. Accompagnava Bob Dylan in una versione da brividi di Highway 61. Indossava un vestitino da brava ragazza e un paio di scarpine nere col tacco basso. Nulla a che vedere con quello rosso e corto di Ana Popovi?, altra mia grande passione. Non credevo che una giovane belgradese fosse in grado di misurarsi con il blues e per pura curiosità ero andato a vedere un concerto a Monaco nel 2011. Alla fine dell’assolo di Navajo Moon ero certo di volerla sposare ma l’infatuazione era durata poco, la mia fidanzata del blues era rimasta Susan Tedeschi con cui desideravo trascorrere il resto dei miei giorni. Ora però nel mio cuore c’era la donna di jazz che, a differenza della cantante americana, viveva nella mia stessa città ed era decisamente più abbordabile. Alzai il volume e ingranai la marcia senza smettere di pensare alla storia che avevo appena ascoltato. Avevo rifiutato l’ingaggio della banda Spezzafumo perché come clienti erano pericolosi, stronzi e antipatici. La governante meritava più di tutti giustizia ma a loro non interessava. Mi sarebbe piaciuto seguire il caso: rapinare le ville, irrompere con violenza nella vita delle persone, torturarle, assassinarle


era un reato odioso. Il problema era trovare il cliente giusto. Senza committente non potevo giustificare in nessun modo il mio interesse. Le regole vanno rispettate. Max ronfava sul divano con un libro in bilico sulla pancia. Lo svegliai e lo misi al corrente della vicenda. Ascoltò con estrema attenzione prima di iniziare a ragionare su ogni singolo fatto. «Cautela» disse prima di rimettersi a dormire. «L’unica parola sensata da ripetersi come un mantra è: cautela». Conoscendolo significava che la storia non lo aveva particolarmente colpito. Io, invece, non pensai ad altro fino a quando non crollai addormentato davanti alla televisione. * * * Un piccolo laboratorio, cinque lavoranti, un “outlet” ricavato da una stanzetta a fianco di un ufficio che un tempo doveva essere stato adibito a ripostiglio. Maglificio Gigliola, capi in vero cachemire. L’idea del nome doveva essere venuta al defunto Gastone, la cui foto incorniciata spiccava su una scrivania ingombra di carte. «Qualsiasi cosa venda non mi interessa» mise in chiaro la vedova in tono stanco. Gigliola Pescarotto un tempo doveva essere stata una donna piacente. Ora i suoi lineamenti erano tirati quasi allo spasimo e aveva smesso di curare l’aspetto dal momento in cui aveva ritrovato il cadavere del marito. Era diventata il ritratto della tragedia che stava vivendo. «Mi chiamo Marco Buratti. Mi occupo di investigazioni un po’ particolari». «Che significa particolari?». «Quelle che nessun investigatore munito di licenza si sognerebbe di fare» spiegai. «Ieri sera Nick Spezzafumo mi ha chiesto di indagare sulla rapina e sul duplice omicidio. Ho rifiutato la proposta». La donna impallidì. «Nicola? E cosa le ha raccontato?» domandò sospettosa. «Tutto. O quasi» risposi per mettere in chiaro che poteva fidarsi. Scosse la testa, amareggiata. «A lui interessa solo l’oro e la vendetta e non capisce che, continuando a cercare quei maledetti che hanno ammazzato Gastone e la signora Luigina, finiremo tutti in galera» disse tutto d’un fiato. «E io non voglio perdere la bambina. Lara è l’ultima cosa che mi rimane. È per lei che trovo la forza di alzarmi tutte le mattine e venire qui a spaccarmi la schiena». «Insomma non le interessa scoprire gli assassini». «Mi piacerebbe ma non me lo posso permettere». «La governante è una vittima innocente, ha sofferto più di tutti. Almeno lei meriterebbe giustizia, non crede?». Un singhiozzo le squassò il petto. «Povera Luigina. Era tanto buona, brava. Un po’ strana, forse. Era venuta a servizio perché aveva bisogno di stare per conto suo, per riprendersi e capire cosa fare della sua vita dopo tante delusioni. «Il suo uomo l’aveva messa incinta e poi l’aveva lasciata per una straniera che aveva seguito fino in Slovenia. Aveva affidato Sergio, il figlio, che all’epoca doveva avere otto-nove anni, al fratello ed era arrivata con una vecchia valigia. «Quella sera l’avevo invitata a venire con noi, avevo anche insistito perché si trattava del saggio del corso di danza della parrocchia e per Lara era un’occasione importante. A Gastone queste cose non interessavano e la bambina ci rimaneva male. Invece Luigina disse che aveva ancora da mettere a posto


la cucina e la mattina dopo doveva lavare le tende. «È stata la bambina a trovarla. Nuda, coperta di sangue. Ha urlato così forte che ancora mi si gela il sangue. Poi quando ho trovato il corpo di Gastone è toccato a me gridare». Si portò le mani alle orecchie, toccandole delicatamente con i polpastrelli. «Mi dispiace per quello che le è successo» continuò. «Avrei voluto morire io al posto suo. Luigina è stata ammazzata per colpa nostra, lei non ha idea del rimorso che provo e che mi mangia dentro ma le cose devono rimanere come sono». «Ha parlato al plurale. Anche lei era coinvolta nelle attività criminali di suo marito?». Annuì. «Fin dall’inizio» rispose. «E non perché amavo Gastone e sull’altare avevo giurato di condividere tutto. L’oro è una malattia e mi era entrata nel sangue. Godevo quando Nick e mio marito fondevano i gioielli e li trasformavano in piccoli lingotti che poi provvedevo a pesare. Quello era il mio compito. Ogni grammo significava ricchezza. Avremmo dovuto pazientare ancora qualche anno, tenendo un profilo basso, cercando di barcamenarci con il maglificio, ma poi ci saremmo trasferiti all’estero e quell’oro ci avrebbe garantito la bella vita. Quella che i piccoli imprenditori tartassati da queste sanguisughe del governo possono solo sognare. «Non mi era mai passato per la testa il pensiero che le cose potessero andare male. Eravamo i migliori, i più furbi, i più prudenti. «Ci sbagliavamo. Era tutto sbagliato. Nemmeno per tutto l’oro del mondo bisogna mettersi in mezzo a queste faccende perché poi il destino ti punisce. «Ha capito? Nemmeno per tutto l’oro del mondo». Le offrii una sigaretta. La fumò stringendola tra il pollice e l’indice, come uno scaricatore di porto. «Si è fatta un’idea di come vi abbiano scoperti?». Fissò per qualche attimo la cenere sulla punta della cicca prima di schiacciarla nel posacenere. «Siamo stati traditi. Qualcuno ci ha venduto» disse. «Ma non riesco nemmeno a immaginare chi possa essere stato, anche se è certo che si tratta di qualcuno molto vicino a noi». «Di quante persone stiamo parlando? Tre, quattro, cinque? Non credo sia un grosso problema passarle al setaccio». «Se n’è già occupato Nicola». «Non è il suo mestiere. Ha certamente sottovalutato indizi importanti». Si alzò di scatto. «Questa storia è sepolta insieme ai morti». Rimasi seduto e la fissai a lungo cercando le parole giuste per farle capire che si stava solo illudendo. «Nick Spezzafumo non si accontenterà del mio rifiuto. Prima o poi la pentola verrà scoperchiata. Da certe storie non ci si libera mai». Provincia di Pordenone. Il giorno dopo. La recinzione della nota fabbrica di elettrodomestici in prossimità del grande cancello era coperta di bandiere sindacali sporche e sfilacciate, segno evidente della sconfitta dei lavoratori. Alla fine del turno i pochi operai rimasti uscirono alla spicciolata e si infilarono nelle auto parcheggiate dall’altra parte della strada. Max e io fumavamo appoggiati alla fiancata di una Panda bianca. Un uomo in tuta puntò dritto verso di noi. «Quella è la mia macchina!» chiarì in tono bellicoso. «Lei è Arnaldo Cantarutti?» chiesi allungando la mano.


Si rifiutò di stringerla. «Chi siete?» domandò diffidente. Indicai il mio socio. «Lui si chiama Max e io Marco. Siamo investigatori privati e ci stiamo occupando della rapina in cui è morta sua sorella». «Andatevene» intimò. «Non siete i primi a tentare di spillarci denaro per fingere di indagare». «Non vogliamo il suo denaro» intervenne il ciccione. «Ma solo parlare di Luigina». «Siete dei missionari, lavorate gratis?» ci schernì mentre estraeva dalla tasca le chiavi dell’auto. Decisi di mentire. «Ci ha ingaggiati un avvocato. Un suo cliente si è ritrovato in casa una banda composta da tre uomini. È convinto che si tratti della stessa che ha assaltato la villa di Oddo». «Identificare i responsabili significa anche ottenere risarcimenti» aggiunse Max. «Per evitare l’ergastolo quei criminali sono sempre ben disposti a indennizzare le vittime». «Meriterebbero di morire per quello che hanno fatto a Luigina» borbottò l’uomo. «Ma è anche vero che un po’ di soldi mi farebbero comodo. Da quando Sergio è venuto a vivere con noi i soldi non bastano più. All’inizio provvedeva lei con lo stipendio da cameriera ma dopo il funerale la musica è cambiata. Io gli voglio bene ma mia moglie non è che sia così paziente. Altri parenti non ce ne sono. I nonni sono troppo vecchi e malandati, mantenerlo significa togliere sempre qualcosa ai nostri due bambini. Alla fine dovremo metterlo in qualche istituto». «Motivo in più per accettare il nostro aiuto» dissi guardandolo dritto negli occhi. «Io non firmo niente» ribatté pronto. Max esibì un sorriso da venditore di spazzole. «Non occorre. Abbiamo solo bisogno di fare due chiacchiere su sua sorella». L’operaio sbirciò l’orologio. «C’è ben poco da dire. Era brava, buona ma un po’ lenta. Non so se capite quello che intendo… Era carina e gli uomini se ne approfittavano. Il padre di Sergio se l’è svignata subito, non aveva mai avuto intenzione di riconoscere il bambino. E Luigina non si è più ripresa. Ha cercato un altro che le volesse bene sul serio ma quando Sergio ha compiuto otto anni è andata a servizio per scappare dal paese. Gli Oddo le erano affezionati, la trattavano con rispetto e le facevano credere che fosse la governante mentre non era altro che una semplice cameriera che si occupava anche della cucina». «Era proprio brava, sapete?» aggiunse dopo una breve pausa in cui si era perso in qualche ricordo. «Aveva imparato dalla mamma». La vita di Luigina poteva essere riassunta in poche parole, in buona parte non troppo lusinghiere. Solo come cuoca meritava la sufficienza. Eppure in quella vicenda giustizia e risarcimento toccavano solo a lei. Finalmente avevo capito chi poteva essere il nostro cliente. «Pensa sia possibile incontrare Sergio?» domandai. «Non parla mai di quello che è accaduto a sua madre». «Giusto per la relazione» mentì il ciccione. «Gli avvocati sono sempre pignoli». Cantarutti fece spallucce. «A quest’ora è in oratorio a tirare calci al pallone». L’erba del campo cresceva a ciuffi isolati. Il resto era terra chiara. I ragazzini alzavano nuvole di polvere spessa come talco. Disputavano una partitella gridando e ridendo. Era piacevole osservarli. La nostra presenza non passò inosservata. Un trentenne con un pacco di fotocopie sotto il braccio e una croce d’oro al collo si avvicinò con passo deciso. «Vorremmo conoscere Sergio Cantarutti» disse Max.


«Abbiamo il permesso dello zio» aggiunsi per evitare le solite domande. Il tizio fece segno a un ragazzino biondo di raggiungerlo. «Questi signori sono qui per te» spiegò prima di allontanarsi. Stando all’unica foto che circolava su internet assomigliava alla madre. La fronte, il naso, il taglio delle labbra. Gli occhi invece erano scuri. Non era alto ma aveva le spalle larghe. Era imbarazzato. «Possiamo offrirti un gelato?» chiese Max indicando il bar dell’oratorio. «Vorrei tornare a giocare». «Abbiamo bisogno di cinque minuti del tuo tempo» spiegai. «Perché?» chiese incuriosito. «Siamo investigatori privati» risposi. «Come quelli dei film. Vogliamo scoprire chi ha fatto del male alla tua mamma ma per poter indagare abbiamo bisogno di un cliente che ci ingaggi. Come parente più prossimo tocca a te». Ora era spaventato, a disagio. «Zio Arnaldo dice che ci dobbiamo rassegnare, nessuno mai scoprirà la verità». «Noi siamo i più bravi di tutti e costiamo poco» ribattei allungando la mano. «Basta una moneta e lavoreremo per te». Con scarsa convinzione infilò una mano in tasca, estrasse venti centesimi e li depose sul mio palmo. Gli stringemmo solennemente la mano e lui un attimo dopo stava già correndo per raggiungere i suoi amici. Appena uscimmo dal cancello Max mi toccò un braccio. «Siamo sicuri di quello che stiamo facendo?». «No» risposi sincero. Mostrai la moneta. «Ma abbiamo dei doveri nei confronti del cliente». «Sul serio, Marco» s’impuntò rifiutandosi di proseguire. «Perché ci stai trascinando in questa storia del cazzo? La vedova Oddo ti ha detto chiaro e tondo che non ne vuole sapere e quel ragazzino triste come l’inferno non può essere considerato un cliente». «Forse non sopporto l’idea che la verità rimanga sepolta» ribattei alzando la voce, «oppure che c’è una vittima di troppo che ha un figlio di troppo e che rischiano di rimanere fregati per l’eternità». «Ho capito» sbottò rimettendosi a camminare. «Non ci possiamo voltare dall’altra parte». «Abbiamo le nostre regole» puntualizzai. Max mi scoccò un sorrisetto ironico. «Ricordati con chi stai parlando». «E va bene» mi arresi. «Ho bisogno di un caso. Uno rognoso, difficile, pericoloso. Altrimenti cado a pezzi, sono al limite». «E allora questo mi sembra perfetto» commentò il ciccione. Dopo aver accompagnato Max a casa proseguii verso Vicenza. Edoardo “Catfish” Fassio, grande esperto di blues e unico vero blue jay italiano, quella sera si sarebbe esibito in un locale della provincia. Arrivai in anticipo. Catfish stava mangiando un piatto di pasta. Mi fece segno di raggiungerlo. «Dicono tutti che il blues è morto e invece siamo sempre qua» disse mentre mi versava un bicchiere di rosso. «Non riescono a rassegnarsi». Brindammo alla musica del diavolo e lui ne approfittò per darmi una bella occhiata. «Hai la faccia di uno che ha bisogno di una dose da cavallo di buon blues per tirare avanti».


«Sto facendo una cura a base di Susan Tedeschi». «Brava e carina» commentò infilando la mano in una borsa che teneva di fianco, «ma ti servono iniezioni ben più potenti». Mi mise davanti alcuni cd. Le sue famose compilation. «Inizia con questa» aggiunse indicandone una intitolata Night Stalker, cavallo di battaglia di Missy Andersen. «Grazie, Catfish». Si alzò e andò a piazzarsi alla sua postazione. Qualche minuto più tardi la gente ballava e lui metteva dischi raccontando gustosi aneddoti sui cantanti. Senza smettere di ribadire che i detrattori del blues potevano andare a farsi fottere. Due ore più tardi tornò a sedersi al tavolo ma io ero troppo cotto per sostenere una conversazione. Il proprietario mi conosceva e mi permise di dormire su una panca. Quando mi svegliai il mattino seguente trovai la barista che stava rifornendo il banco. Mi offrì un caffè e riferì un messaggio di Catfish. «Il conto lo ha pagato lui ma la prossima volta tocca a te». «Salato?». Ridacchiò prima di rispondere. «Era un pezzo che non vedevo un bevitore come te». Sperai fosse un complimento e mi accesi la prima sigaretta della giornata. «Puoi togliere l’alcol dal blues ma non il blues dall’alcol» filosofeggiai per darmi un tono mentre raggiungevo l’uscita. Iniziai la terapia suggerita da Catfish ascoltando il primo cd e quando aprii la porta di casa mi sentivo oppresso da un’immotivata tristezza. Con il blues funziona così, si riparte dal basso e poi si cerca di risalire la china. «Una donna?» domandò il ciccione alle prese con la solita lettura dei quotidiani. «Una bottiglia» risposi avviandomi verso il bagno. Avevo bisogno di una doccia. Me la presi con calma rinunciando a tagliarmi la barba dopo un paio di tentativi inconcludenti. Ero ancora abbastanza sbronzo. Quando tornai in salotto venni accolto da un abbraccio di Beniamino. Come al solito era inappuntabile. Indossava un doppiopetto in fresco di lana color nocciola e scarpe bordeaux dall’aria costosa. Il nodo alla cravatta era perfetto. «Soddisfatto della nuova barca?» domandai. Sorrise. «Chiamarla barca è riduttivo, comunque lo sono e mi ha già fatto guadagnare qualche migliaio di euro». «Sei tornato al contrabbando?». «Se capita una buona occasione non mi tiro indietro». Max stappò una bottiglia di bianco. «Ho messo al corrente Beniamino della storia che ti ha raccontato Spezzafumo». Gli scoccai un’occhiata interrogativa. «E allora?». Il vecchio Rossini assaggiò il vino. «Non è granché» commentò. «Esattamente come questo caso. Per quanto mi riguarda sono convinto che non abbiamo titoli per occuparcene, però è anche vero che ho sempre odiato quei pezzi di merda che assaltano le villette, e la governante e suo figlio hanno diritto ad avere la giusta soddisfazione». «Quindi?» insistetti.


«Un tentativo va fatto ma senza troppe speranze. Se in due anni gli sbirri e Spezzafumo non hanno trovato nemmeno un indizio dubito che ci riusciremo noi». Sospirai sollevato. «Da dove iniziamo?». «Conosco un basista che va a caccia di obiettivi nel trevigiano» rispose Beniamino. «Frequenti bella gente» scherzò Max. «Vedrai quanto sarà contento della nostra visita» ridacchiò Rossini. Toni Brugnera non si era mai preoccupato di trovarsi una copertura. Tutti sapevano che era mantenuto dalla moglie, proprietaria di un noto centro estetico. Dalle undici del mattino fino a ora di cena lo potevi trovare nei bar del centro a distribuire e raccogliere pettegolezzi. Quelli che preferiva erano sui redditi, preferibilmente ignoti al fisco, di persone che vivevano in ville isolate. Informazioni che poi riferiva a Nella Povellato, la sua amante di sempre che, a sua volta, le passava al convivente della figlia, il gangster croato Franko Didulica. Franko aveva un gruppo di amici fidati che attraversavano il confine, mettevano a segno il colpo e poi tornavano a casa prima ancora che la rapina venisse scoperta. Toni e Beniamino si erano conosciuti quando il basista era andato a chiedere un passaggio in motoscafo per uno della banda che era rimasto ferito in un conflitto a fuoco con un vigilante. Rossini si era rifiutato perché considerava feccia quei vigliacchi che assaltavano famiglie indifese. Brugnera aveva fatto la voce grossa ed era tornato a casa con la faccia gonfia di pugni. Didulica aveva minacciato ritorsioni, ma aveva rinunciato quando aveva capito che non gli conveniva mettersi contro quell’italiano che vantava amicizie pericolose nell’ambiente del contrabbando croato. Quella mattina Toni sbiancò quando, appena uscito dal cancello di casa, vide Beniamino scendere dalla sua lussuosa berlina e invitarlo a fare un giro. «Io non vengo» disse in dialetto mentre si abbassava per scrutare all’interno della macchina. Lo salutammo agitando amichevolmente la mano. «Dobbiamo solo parlarti» chiarì il vecchio bandito. «Non mi costringere a farti del male». Il basista indicò l’angolo della sua abitazione. «La telecamera ha ripreso tutto, state attenti». «Vedo che hai preso le tue precauzioni» commentò ironico Beniamino. «E fai bene, con tutti quei topi di fogna pronti a saccheggiare le case della gente perbene». L’uomo si accomodò al mio fianco sul sedile posteriore. «Di cosa volete parlare?» domandò aggressivo. «Cosa sai della rapina alla villetta della famiglia Oddo di due anni fa?» chiesi a bruciapelo. «Quella di Piove di Sacco?». «Sì». Alzò le mani. «Io non c’entro niente» disse sempre in dialetto. «Due morti per portare via cinquantamila euro di refurtiva è da pazzi. Ho sempre pensato che fosse opera di una banda di tossici ma il fatto che non li abbiano presi mi ha convinto del contrario. Forse si tratta di una vendetta mascherata. Ho saputo che a Gastone Oddo piacevano le fighe esotiche». «E da chi lo hai sentito?». «È una voce che girava all’epoca». Sbuffai. Quello stronzo non sapeva nulla di utile.


«Quali erano le bande in attività in quel periodo?» domandò Rossini. «Una decina di basisti locali per altrettante bande. Serbi, bulgari, croati, romeni, sinti, napoletani, bergamaschi» rispose. «Ma, credetemi, nessuna ha a che fare con quella storia». Beniamino mise la freccia e fermò la macchina. «Scendi» ordinò. Brugnera non si fece pregare e si allontanò a passo spedito insultandoci sottovoce. «E così adesso abbiamo la certezza che le “batterie” specializzate sono estranee a quella rapina» disse Max. «Ha ragione Spezzafumo. Dobbiamo cercare una banda anomala» aggiunsi aprendo un nuovo pacchetto di sigarette. «E il traditore» specificò il vecchio Rossini. «Bisogna tornare a parlare con Nick l’orafo o con la vedova». «Meglio Gigliola» ribattei. «Spezzafumo e i suoi ragazzi hanno brutte intenzioni e se vengono a sapere che stiamo indagando pretenderanno di sapere cosa abbiamo scoperto». Gigliola Pescarotto vedova Oddo, a pranzo, si accontentava di un’insalata, mezzo litro di acqua minerale e un caffè con due cucchiaini di zucchero. Aveva un tavolino riservato dove consumava il pasto in solitudine in un bar che distava poche centinaia di metri dal maglificio. Grazie ai venti euro che avevo allungato alla cameriera quel giorno lo trovò occupato dal sottoscritto e altri due sconosciuti. La salutai e con un cenno della mano la invitai a unirsi a noi. «Staremo un po’ stretti ma abbiamo bisogno di parlare con lei» spiegai dopo averle presentato Max e Beniamino. «Anche questi signori sono a conoscenza dei retroscena?» chiese a bassa voce. «Sono i miei soci. E i miei migliori amici» risposi cercando di rassicurarla. «Non mi interessa. Le avevo detto che questa storia è chiusa». «Ci sono delle novità» dissi. «Ora abbiamo un cliente che ci ha incaricati di indagare». «E chi sarebbe?». «Sergio, il figlio di Luigina Cantarutti». «Ma è un bambino» esclamò scandalizzata. «Che razza di gente siete?». «Perbene» tagliò corto Beniamino. «E comunque ormai non ha più scelta. Si deve fidare di noi e fornirci tutte le informazioni necessarie». Allontanò il piatto con un gesto rabbioso. «Siete degli irresponsabili, per colpa vostra mi porteranno via la bambina». «Non accadrà» ribattei. «Ma a proposito di bambini, Sergio finirà in un istituto perché lo zio non ha abbastanza soldi per mantenerlo e la zia non lo vuole in casa. Dovrebbe conoscerlo, è un ragazzino simpatico». Dopo il caffè uscimmo a fumare una sigaretta. «Cosa volete sapere?» domandò la donna rassegnata. «Cosa succedeva quando Spezzafumo vi portava i bottini delle rapine?» chiese Rossini. «I gioielli venivano fusi in lingotti da venti e cinquanta grammi». «Tutti?». «Quelli di particolare valore, con le pietre, venivano venduti all’estero a un unico ricettatore, mentre l’oro veniva distribuito tra altri quattro fuori regione».


«Pagavano in contanti?». «Sempre». «E il denaro che fine faceva?». «In parte diviso tra di noi e il resto investito in locali. Eravamo i finanziatori occulti di un giro di bar e ristoranti». «Se ne occupava Gastone?». «No, un nostro vecchio amico. È stato il testimone di nozze di Gastone». «Quindi non siete a secco di soldi». «Siamo stati liquidati con una cifra ridicola» svelò la donna. «Il nostro investitore si è sganciato. Paura e avidità». «Forse è stato lui a tradirvi» sentenziò Rossini. «Perché qualcuno di questi signori lo ha fatto». «Magari la falla è nella banda di Nicola». «Ne dubito» commentai. «Sono in tre e fanno tutto da soli. E poi non avevano nessuna convenienza». Gigliola schiacciò la cicca con il tacco della scarpa. Max le porse un notes. «Ci servono nomi e indirizzi». Fu diligente e il più possibile precisa ma se ne andò senza salutare. Uno dei ricettatori, Tazio Bonetti, era una mia vecchia conoscenza di galera. Come tutti quelli appartenenti alla categoria, c’era ben poco da fidarsi negli affari, ma non aveva mai dato problemi sul piano della sicurezza. Viveva a Brescia e nonostante la sorpresa iniziale finse con garbo di essere ben lieto di invitarci a cena in un’antica locanda dove una targa annoverava Garibaldi tra i clienti illustri. Arrivò in ritardo di cinque minuti. In realtà era arrivato almeno mezz’ora prima e aveva spiato la porta del locale per verificare che non gli avessi riservato qualche brutta sorpresa. I ricettatori non accontentavano mai i propri clienti. A forza di tirare sul prezzo e fingere di non trovare compratori poteva capitare che qualcuno perdesse la pazienza. Era un uomo sulla settantina, non alto, mingherlino, senza un capello. Vestiva elegante, con uno stile diverso da quello del vecchio Rossini, che andò subito a omaggiare. Poi strinse la mano a Max e infine mi venne ad abbracciare. Ci travolse con chiacchiere futili e noiose fino a quando il cameriere non servì il vino, poi andò dritto al punto. «Cosa volete da me?». «Gastone Oddo» risposi secco osservando la sua reazione. Si limitò a un tranquillo movimento delle mani. «Sento la sua mancanza, che la sua anima riposi in pace... Non saprei che altro aggiungere». «Ti sei fatto un’idea di chi possa averlo fregato?». «No. Una delle tante bande dell’Est, immagino. Anche qui da noi assaltano spesso le villette». Beniamino volle usargli una cortesia vecchio stampo. «Possiamo farti vedere una lista di colleghi per avere il tuo parere su ognuno di loro?» domandò con sussiego. «Casomai li conoscessi». «Casomai». «Prima vorrei capire il vostro ruolo nella vicenda e soprattutto perché vi interessano i ricettatori che lavoravano con Oddo».


«Non possiamo rispondere perché non ti vogliamo mancare di rispetto rifilandoti una menzogna» rispose prontamente Max. «Vorremmo però che tu ti fidassi della nostra parola: non hai nulla di cui preoccuparti. Il tuo nome non verrà mai pronunciato». Bonetti abbassò il tono della voce. «Non sono mica scemo» sbottò. «Voi siete convinti che uno di noi abbia fregato Oddo». «Non ne siamo così sicuri, Tazio. Stiamo solo verificando ogni ipotesi». «È già venuto Spezzafumo e ha fatto le stesse domande». «Quello vuole saldare i conti a pistolettate» ribattei. «Noi abbiamo altri obiettivi». Rossini gli allungò la lista. Il ricettatore inforcò gli occhiali e la scorse. «Con Imbriani non perdete tempo. Si è ritirato dagli affari poco dopo la tragedia nella villa di Oddo». Pierpaolo Imbriani, secondo le informazioni fornite da Gigliola, la vedova, aveva lasciato Trieste una trentina d’anni prima e si era trasferito in Belgio per portare all’altare una donna di Liegi. Si occupava di ricettare i gioielli più preziosi, quelli che era un delitto fondere. «E come mai?» chiesi. «Pare che la moglie si sia ammalata e lui abbia deciso di dedicarsi solo a lei». «E degli altri che dici?». Afferrò il foglietto e lo gettò sul tavolo con un gesto piccato. «Nessuno di noi si sarebbe reso complice di una porcata simile». Si alzò. «Mi sono appena ricordato di un impegno urgente che non posso rinviare e tantomeno annullare» spiegò in tono glaciale. Gli sbarrai la strada. «Ti rendi conto che stai garantendo per tutti eccetto Imbriani? In modo contorto non hai fatto altro che metterlo al centro dell’attenzione. Perché?». «La storia della moglie era una balla. Tutto qui. Magari non c’entra nulla». «Questo però non l’hai detto a Spezzafumo». «Non voglio morti sulla coscienza». Tazio si era comportato in modo sensato e corretto e mi dispiaceva che si fosse risentito. Lo invitai a rimanere ma lui non ne aveva nessuna voglia. Appena se ne fu andato arrivò il cameriere con le portate. «Il signore non cena più?» domandò stupito. Max gli indicò il tavolo. «Lasci pure qui. Ci pensiamo noi». Beniamino gli lanciò un’occhiata. «Hai trovato un dietologo che consiglia le doppie porzioni?». Il ciccione iniziò a raccontargli la sua esperienza con l’ultima nutrizionista della lunga serie ma il vecchio Rossini a un certo punto lo interruppe. «Stavo scherzando, Max. Se vuoi dimagrire e vivere più a lungo diminuisci le dosi, altrimenti mangia quanto cazzo vuoi. Ma non venirmi a parlare di buchi dell’esistenza e altre menate anni Settanta. Quelle raccontale a Marco». «Non mettermi in mezzo» protestai. «Taci tu che ci stai ficcando in questo casino per non andare fuori di testa. Avete così tanti problemi di equilibrio che sembrate due funamboli». «E tu sei tutto a posto?» domandai stizzito. «No. Per niente» rispose calmo Rossini. «Però tiro a campare senza rompere i coglioni al prossimo. Voi, invece, siete due lagne insopportabili». Mi venne da ridere. «Converrai però che Max lo è molto più di me».


«Non è vero» si difese il ciccione impadronendosi del risotto ordinato dal ricettatore. * * * Liegi. Uscii dall’hotel poco prima di mezzogiorno e mi diressi in boulevard d’Avroy con un quotidiano italiano sotto il braccio per farmi riconoscere. Beniamino e Max mi avevano preceduto con un’utilitaria presa a noleggio ma in quel momento non riuscivo a localizzarla. Una berlina si fermò al mio fianco e mi accomodai sul sedile posteriore. L’autista era un tizio giovane e silenzioso che iniziò a guidare per il centro senza una meta precisa. Non doveva avere più di venticinque anni ma era già stempiato e il pizzetto che sfoggiava era privo di carattere. Mi sbirciava attraverso lo specchietto retrovisore con un paio di occhi scuri e malvagi. Voleva farmi capire che era più cattivo di me e che la violenza era il suo pane quotidiano. Valutai che non doveva essere particolarmente alto ma sulle braccia guizzavano muscoli da palestrato. Dopo un po’ mi stancai di quella buffonata. «Fammi scendere» ordinai. Per tutta risposta mi scattò una foto col cellulare e la inviò a qualcuno che evidentemente ne aveva bisogno per riconoscermi. Non poteva trattarsi che di Pierpaolo Imbriani. Dopo un paio di minuti si fermò davanti all’entrata del Café Lequet in Quai Sur-Meuse. «Ora puoi andare» disse con accento pugliese. Lo stronzo era italiano. Mi fermai a osservare il fiume. Le acque della Mosa sembravano melassa e scorrevano lentissime. Ne approfittai per guardarmi attorno. La situazione sembrava tranquilla. Appena entrai un cinquantenne seduto a un tavolo alzò la mano per farsi riconoscere. In jeans e polo di marca sembrava più un turista che un affermato gioielliere. Allungai la mano e mi presentai. «Non è stato facile ottenere la sua attenzione». Imbriani rimase impassibile. «Come ho invano tentato di spiegarle non sono più interessato ad acquisire certa merce». Presi il cellulare e gli mostrai foto di bracciali, anelli, spille in oro bianco e zaffiri puro stile Liberty. «Non sono rintracciabili. Sono frutto di un gioco di prestigio in un’eredità controversa» spiegai. In realtà erano appartenuti a Sylvie, la donna di Rossini, e al momento non erano in vendita. Il gioielliere mi restituì il cellulare. «Questo locale è famoso per le boulet e le patate fritte». Diedi un’occhiata. Un vecchio caffè, arredamento anni Sessanta, manifesti alle pareti che ricordavano che Georges Simenon era nato poco lontano. «Vada per la specialità della casa» dissi. Richiamò l’attenzione di una cameriera e ordinò per entrambi. «Potrei essere interessato» borbottò. «Dipende dal prezzo, ovviamente». Era arrivato il momento di gettare la maschera. «Prima di iniziare le trattative è necessario chiarire un’altra faccenda». Diventò guardingo. Iniziava a fiutare la fregatura. «E cioè?». «C’è qualcuno che pensa che sia stato lei a tramare alle spalle di Gastone Oddo». Fu lo sguardo smarrito a tradirlo. Non tentò nemmeno di ricomporsi. Farfugliò una difesa poco convinta. «Si sbaglia. Io non c’entro nulla».


«Subito dopo l’assalto e gli omicidi lei però ha finto di ritirarsi dagli affari». «Mia moglie si è ammalata». «Questa è una menzogna. Abbiamo verificato». «Avevo comunque i miei motivi». Fummo interrotti dall’arrivo delle bevande. Imbriani trangugiò una lunga sorsata di birra. «Lei ha un grosso problema» iniziai a spiegare con calma. «Se non mi racconta la verità o non mi convince della sua totale estraneità io torno in Italia e faccio il suo nome ai soci di Oddo. «E un giorno sarà costretto ad affrontarli. Con lei e sua moglie useranno lo stesso trattamento riservato a Gastone e alla governante. Torture e morte. Se pensa che quello scagnozzo che usa come autista sia in grado di difenderla commette l’ennesimo errore». «Sono pronto a correre il rischio» sibilò alzandosi. «State accusando la persona sbagliata». Lo guardai uscire. In quei giorni nessuno gradiva stare a tavola con il sottoscritto. Mangiai con calma, soddisfatto di aver individuato il traditore. Polpette e patate fritte erano all’altezza della loro fama. Ordinai un’altra birra prima di pagare il conto e uscire. Il tempo di accendere la sigaretta e mi ritrovai di fronte il pugliese. «Pierpaolo non ti vuole qui, vattene e non tornare più». «Sembri un attore. Quante volte hai provato questa battuta davanti allo specchio?». Mi colpì al mento con un gancio che non avevo nemmeno visto partire e mi ritrovai steso a terra. Fece in tempo a tirarmi un calcio sulle costole prima che il gomito di Beniamino gli fracassasse il naso. Il giovane era certamente più forte e più veloce del vecchio bandito, ma non aveva l’esperienza necessaria per confrontarsi con un professionista che si era fatto le ossa nelle strade e poi aveva affinato l’arte della rissa in galera. Rossini aveva il ritmo del martello di un fabbro e non si fermò fino a quando non fu certo che la lezione non sarebbe stata dimenticata facilmente. Il gorilla di Imbriani aveva osato colpire un suo amico e ne aveva pagato il prezzo. Max mi aiutò ad alzarmi. «Sto bene» mentii. Il dolore si faceva sentire ma non era il contesto giusto per lamentarsi. Quando ci allontanammo un esiguo gruppetto di persone si era radunato per assistere allo spettacolo nonostante fosse durato non più di un minuto. Il più furbo cercò di fotografarci ma il suo cellulare volò dritto nella Mosa. Raggiungemmo l’auto a noleggio e trovammo rifugio nel Giardino botanico mescolandoci ai visitatori. Uno dei luoghi dove gli sbirri non vanno mai a controllare. Beniamino aveva le nocche della mano destra gonfie, la mise per alcuni minuti sotto il getto di una fontana. «Sei arrivato giusto in tempo» dissi. Era il mio modo di ringraziarlo. «Ma ho smesso troppo presto di suonargliele». Max sbottò esterrefatto. «Volevi ammazzarlo?». «Ovviamente no» rispose. «Ma i picchiatori di mestiere sono persone tarate, vanno castigate e fermate prima che diventino pericolose sul serio. Prima o poi superano il confine dell’omicidio e ci prendono gusto». Fummo gli ultimi a uscire. Cenammo in un ristorante defilato e poi andammo al cinema a vedere un film italiano che aveva partecipato al Festival di Cannes. Solo dopo il bicchiere della staffa ci avvicinammo all’hotel. Max chiamò la portineria chiedendo di noi e osservammo la reazione dell’addetto dall’altra parte della strada. Non si era guardato attorno, non aveva alzato lo sguardo. Era tornato a concentrarsi sulla partita in televisione. Alla fine Imbriani e il suo scagnozzo non se l’erano cantata con


gli sbirri. Finalmente potei buttarmi sul letto e seguire su un canale della Rai un noiosissimo dibattito sulle elezioni regionali che si erano tenute il giorno prima in Italia. Il dato più significativo era quello del Veneto dove aveva stravinto la difesa di presunti privilegi del territorio. Una vittoria che pregiudicava il futuro. Chiamai Max che mi ringraziò. «Avevo bisogno di qualcuno con cui condividere alcune riflessioni». «Mi accontento di una sintesi». Tacque alla ricerca delle parole giuste. «Il privilegio della nostra sconfitta generazionale è di non essere stati costretti a partecipare a questa farsa». «Il popolo è sovrano» ricordai. «E noi al momento non ne facciamo più parte. Una distanza siderale ormai ci separa e percorriamo strade che vanno in direzioni opposte». Gli augurai la buona notte e cambiai canale. Trovai un programma che pubblicizzava rivoluzionari attrezzi ginnici che, usati un’ora la settimana, erano in grado di rassodare e scolpire ogni singolo muscolo. Soprattutto addominale. Mi addormentai dopo pochi minuti. Alloggiavamo in un hotel di catena non lontano dalla cattedrale. Le camere erano razionali, studiate in ogni minimo particolare per fornire un comfort equivalente al prezzo e nulla di più. Concepite per accogliere i clienti la sera e liberarsene al mattino, dopo una rapida doccia e una colazione frugale. Stavo intingendo un croissant nel caffellatte, in sottofondo Johnny Cash cantava A Boy Named Sue, un celebre talking blues registrato nel carcere di San Quintino. Beniamino era già uscito per andare a restituire l’auto e noleggiarne un’altra dalla concorrenza e Max stava ancora ronfando, quando vidi entrare Pierpaolo Imbriani. Gli indicai la sedia di fronte e continuai nel rito mattutino della zuppa. Del cibo non mi è mai fregato granché, ho sempre preferito l’alcol, ma quel modo di fare colazione era in grado di allietarmi la giornata. Mi passai il tovagliolo sui baffi. «Noto con piacere che è una persona influente in città» finsi di complimentarmi. «Non ci ha messo molto a trovarmi». Sospirò. «I gioiellieri fanno molti favori e raramente chiedono che vengano resi. Così è più facile ottenere quelli più difficili». Il ricettatore recitava la parte del saggio in modo troppo fastidioso per permettergli di continuare. «Sono stupito della sua visita. Io e i miei amici ci stavamo già organizzando per convincerla a continuare quel certo discorso». «Ne ero certo. Per questo sono qui» disse. Si guardò attorno prima di continuare. «Non sopporto la violenza» sibilò a bassa voce. «Mi fa orrore. Non riesco a gestirla. Quello che è successo ieri mi ha fatto capire che devo uscire da questa vicenda al più presto e per sempre». Nemmeno io ero in grado di fare i conti con la violenza ma con il tempo avevo imparato ad approvarne la necessità. Mi ero anche abituato a osservarla da vicino senza esserne più sconvolto. Però mai e poi mai sarei stato in grado di alzare un dito o usarlo per tirare un grilletto. Max era come me. Per fortuna c’era Beniamino che sapeva essere micidiale e ci proteggeva, spazzando via i nemici. Senza di lui saremmo morti da un pezzo. «Sono un tranquillo professionista che ha sempre posto come condizione che i gioielli non fossero macchiati di sangue» continuò Imbriani. «Anche con Gastone ero stato molto chiaro. «Poi una mattina in negozio, in un momento in cui non c’erano clienti e io e mia moglie stavamo sistemando una nuova collezione, si è presentato un tizio, un veneto. Parlava un misto di italiano e


dialetto, e mi ha mostrato un braccialetto di pregevolissima fattura. Capisce qualcosa di gioielli, signor Buratti?». «No». «Allora eviterò di annoiarla con i dettagli. Comunque era una vera bellezza e lo conoscevo bene perché me lo aveva venduto Gastone Oddo e io a mia volta lo avevo ceduto a un collega olandese che secondo gli accordi doveva piazzarlo a Dubai. Invece non sempre rispettava gli impegni e aveva commesso l’imprudenza di esporlo in vetrina». «Il tizio lo ha riconosciuto e ha costretto l’olandese a fare il suo nome» riassunsi. Avevo fretta di capire e Imbriani era un po’ lento nell’esposizione. «Sembrava una bomba pronta a esplodere. Covava una rabbia così repressa che faticava a parlare». «E cosa le ha detto?». «Che suo fratello era morto per colpa di quel braccialetto» rispose guardandomi negli occhi. «E che se non gli avessi fatto il nome di chi me lo aveva venduto mi avrebbe ucciso in quel preciso momento. «Cercai di farlo ragionare ma lui afferrò mia moglie per il collo e iniziò a stringere intimandomi di parlare. Ero certo che l’avrebbe ammazzata». «Si è accontentato del nome?» domandai. «Sì, ha aperto la porta ed è scomparso». «Perché non ha avvertito il povero Oddo?». Abbassò lo sguardo. Era arrivato il momento della vergogna. «Paura. Mia moglie ha fatto fatica a riprendersi. E risentimento. Gastone non aveva rispettato l’accordo e ci aveva messi in pericolo». Cazzate. Tra soci d’affari non ci si comporta in quel modo. Il suo silenzio era costato la vita a una donna innocente. «Come si chiama questo tizio?». «Non lo so». «Allora ho bisogno delle immagini delle telecamere del negozio». «Siamo a Liegi, signor Buratti, qui la discrezione conta più della sicurezza». «È almeno in grado di descrivermelo?». «Quarant’anni, altezza media, capelli castano chiaro, un volto non brutto ma segnato». «Tutto qui?». «Le mani» aggiunse Imbriani. «Erano callose e rovinate». Lo fissai per un attimo negli occhi per capire se mi stesse turlupinando di proposito con quelle cazzate ma sembrava soddisfatto del suo acume. Tornai a occuparmi della tazza di caffellatte senza rivolgergli più la parola. Evitai anche di guardarlo. Dopo un po’ il ricettatore si alzò, lasciò sul tavolo una foto del bracciale e si allontanò biascicando un saluto. Johnny Cash aveva appena attaccato Bonanza, dedicata alla famosa serie televisiva. Famosa per me e per quelli della mia generazione, s’intende. Non avevo perso una puntata e solo dopo un bel po’ avevo capito che quei cowboy dai sani principi non avevano nulla del fascino dei pionieri, erano solo membri di un clan alla perenne difesa del patrimonio. Chissà se anche il tizio che aveva estorto il nome di Oddo a quel fesso di Imbriani faceva parte di un clan.


* * * Padova. Eravamo rientrati la sera prima dal Belgio con una traccia decisamente labile, suggerita da un uomo infido e inaffidabile. Se ne sarebbe occupato Max. Beniamino era tornato al suo motoscafo e io mi ero alzato presto per incontrare Cora. La donna di jazz stava leggendo il giornale, ogni tanto sbirciava il cellulare a caccia di messaggi o per controllare l’ora. Mi avvicinai al suo tavolino sfoggiando un sorriso. «Qual è la prima cosa che fa una cantante di jazz quando si sveglia?» domandai. La donna sospirò. «Si alza, si veste e torna a casa sua». Mi accomodai al suo fianco senza essere invitato. «Ti chiedo scusa per questa squallida battuta da musicisti ma non sapevo come attaccare discorso». «Non ti sembra presto per importunare una signora?». «Una bella signora» sottolineai. «Comunque sì, l’ora non è adatta ma ieri sera non sono potuto venire al Pico’s. Altrimenti mi sarei dichiarato al momento giusto». Mi guardò con attenzione. «In effetti non sei una faccia nuova». «Ci siamo visti anche qui, seduti a tavoli vicini». Mi porse la mano. «Piacere, Cora» si presentò sbrigativa. «E ora vorrei continuare a leggere il giornale». Ignorai le sue parole. Ero deciso a giocare la partita fino in fondo. «So che hai studiato canto alla scuola del mio amico Maurizio Camardi e conosco anche il tuo vero nome: Marilena». «E quale preferisci?». «Cora. Tu per me sei solo Cora, vestito e scarpe verdi. Donna di jazz». Sembrò gradire ma il suo silenzio smorzò ogni entusiasmo. Mi alzai per evitare ulteriori imbarazzi. «Credo che ci incontreremo nuovamente in questo bar. Se ti viene voglia di condividere il tavolo io sono sempre disponibile». «Ti piaccio sul serio o credi che valga la pena provarci perché sono “facile” come tutte le cantanti jazz?» domandò all’improvviso accarezzandosi una guancia. «Mi piaci molto, moltissimo» dissi convinto. «Era da un pezzo che una donna non mi faceva girare la testa in questo modo». «Addirittura» rispose in tono ambiguo, prima di tornare alla lettura. Rimasi alcuni secondi a osservarla in silenzio. Certo che Cora sapeva come spiazzare un uomo. Uscii dal locale perplesso ma decisamente più innamorato. Passai per casa. Max era di fronte al pc e mi fece segno che non aveva ancora scoperto nulla. Mi infilai le cuffie per continuare la cura che mi aveva prescritto Catfish. Il secondo cd si intitolava I’m In Deep dal brano degli Altered Five Blues. La musica mi rese particolarmente lucido e in grado di analizzare l’incontro con la mia Cora. Impiegai poco a comprendere che la situazione era complicata. Da un lato non potevo raccontarle la verità per non tradire il patto con il marito. Dall’altro non era corretto iniziare una relazione basata sulla menzogna. Per fortuna al momento la possibilità era decisamente remota e avevo tutto il tempo di lambiccarmi il cervello per trovare una soluzione. Per l’ennesima volta


le circostanze mi erano sfavorevoli. E non poteva trattarsi di un caso. Stavo inesorabilmente scivolando in un momento di autocommiserazione quando vidi arrivare il ciccione con una smorfia preoccupata. «Ho voglia di mangiare pesce» annunciò. «Ho già parlato con Beniamino. Andiamo a Punta Sabbioni, saltiamo sul suo motoscafo e ci dirigiamo in quel certo ristorantino di San Pietro in Volta». «Non hai la faccia di uno che vuole festeggiare». Scosse deciso la testa. «No. Abbiamo sempre avuto a che fare con faccende contorte ma questa è la peggiore». «Ovviamente durante il viaggio mi racconterai…». «No» tagliò corto. «Quando si racconta due volte la stessa cosa si rischia di perdere dettagli importanti. E poi devo pensare». Max fu di parola. Mi dimezzò un pacchetto di sigarette ma non spiccicò parola se non per lamentarsi che non aveva senso spendere un patrimonio per l’impianto stereo di un’automobile così vecchia da non avere l’aria condizionata. Giugno era arrivato trascinando con sé una cappa di caldo opprimente. Promisi che avrei parlato con il meccanico anche se conoscevo già la risposta. Beniamino era reduce da una notte in mare. Aveva trasportato un vecchio latitante che dopo tanti anni trascorsi in Bulgaria aveva deciso di consegnarsi agli sbirri non prima però di aver incontrato le due figlie. «Mi ha fatto pena» disse Rossini. «Sembrava un barbone. Ha fatto male i calcoli sulla pensione e la fuga ha i suoi costi». «E da dove li ha tirati fuori i soldi per pagarti?» domandai conoscendo le tariffe del mio amico. Il vecchio Rossini sgranò gli occhi, sorpreso. «Il passeggero ha viaggiato gratis, Marco». Certo. Avrei dovuto immaginarlo. Il nostro cuore fuorilegge e le sue regole. Chiesi scusa, avevo aperto bocca senza riflettere. Per alleggerire il momento Max infierì con la faccenda dell’aria condizionata. «Questa passione per le vecchie Škoda è un vezzo da zitellone radical chic» rincarò Beniamino accendendo i potenti motori del Sylvie. Evitai di rispondere. Eravamo stanchi, nervosi e preoccupati di ciò che ci avrebbe raccontato il ciccione. Il viaggio fortunatamente fu breve e piacevole. L’acqua era calma e il venticello di ponente era perfetto per contrastare il caldo. Andavo sempre volentieri a San Pietro in Volta, graziosa località dell’isola di Pellestrina, una delle più grandi che circondavano Venezia. Mi piaceva oziare sulle panchine o passeggiare lungo il litorale. Lì il tempo aveva un altro passo. Quel giorno dopo aver attraccato ci infilammo subito in un noto ristorante. In silenzio mangiammo gli antipasti accompagnati da un pinot bianco quasi gelato. Quando il cameriere portò via i piatti, annunciando l’arrivo del risotto agli scampi in cinque minuti, Beniamino rivolse a Max un cenno spazientito. «E allora cos’hai scoperto?». «L’uomo che ha strapazzato Imbriani e consorte a Liegi per ottenere il nome di Oddo si chiama Kevin Fecchio, di anni quarantatré e di professione orafo. «La ditta del vicentino dove tutt’ora lavora è stata fondata da Maicol, versione veneta di Michael, il fratello maggiore. Era considerato un vero artista e fu lui a ideare una linea di successo a partire dal


bracciale finito nelle mani di Imbriani. Gli affari andavano bene, anzi benissimo, fino a quando un gruppo di tre rapinatori fece irruzione nel laboratorio e lo ripulì per bene. Prima della fuga vi fu una colluttazione e Maicol si beccò un proiettile di grosso calibro nello stomaco. Kevin e gli altri dipendenti erano legati e non riuscirono a soccorrerlo in tempo, morì dopo una lunga e dolorosa agonia». «Spezzafumo e i suoi ragazzi hanno ucciso Maicol e così il fratellino si è vendicato ammazzando Oddo, la governante e portandosi via due milioni» riassunsi. «Pare proprio che sia andata così» confermò Max la Memoria. Cercai lo sguardo di Beniamino. Era esterrefatto quanto me. Dietro la mattanza nella villetta poteva esserci lo zampino di un orafo, un imprenditore. Era difficile da credere. «Non è finita qui» anticipò Max. «Kevin ora è un uomo in vista. Non solo ha rimesso in piedi l’azienda ma è un attivista di quel movimento più o meno spontaneo che protesta per l’assenza di sicurezza. È in prima fila nella difesa del salumiere che ha steso il rapinatore di origine sinti qualche mese fa». Il ciccione accese il tablet e ci mostrò la pagina Facebook di Fecchio. Era molto seguita. Sbirciai i commenti. A esprimersi senza filtri era la pancia del Veneto. Quella che finiva in televisione e sulle prime pagine dei giornali. Sindaci osannati per aver dichiarato che i rom non avevano diritto di sosta nel loro paese. Commercianti che reagivano aprendo il fuoco, uccidevano i cattivi e diventavano eroi. Fiaccolate, magliette. Paura, esasperazione, odio. Umori giustizialisti. E voti: così tanti da chiudere la partita. «Punta a qualche carica politica?» domandai. «Al momento no. Ma è davvero instancabile come organizzatore». «Un’ottima copertura se è davvero coinvolto nella rapina a casa Oddo» commentò Rossini. «Hai dubbi?» chiese Max stupito. «Qualcuno» rispose. «Perché non si è rivolto alla polizia? E poi è un regolare e il suo nome non è mai girato nell’ambiente delle bande di rapinatori. Nicola Spezzafumo l’avrebbe scoperto». Il vecchio gangster non aveva tutti i torti. «Possiamo sempre chiederglielo» suggerii a mezza voce anticipando il vero motivo di quella riunione: capire il nostro ruolo e decidere il da farsi. Rossini alzò le spalle. «Mi sembra che non abbiamo altra scelta se vogliamo arrivare alla verità». «Kevin Fecchio è un personaggio pubblico. Dobbiamo stare molto attenti» intervenne il ciccione. «Allora dobbiamo saperne di più e questo è compito tuo» ribattei. Il ciccione stirò le labbra in un sorriso. Non vedeva l’ora di mettersi al lavoro. Il vecchio Rossini ci versò da bere con aria pensosa. «Spezzafumo e i suoi scagnozzi sono proprio brutta gente. Quel Maicol è morto dissanguato, molto probabilmente poteva essere salvato. Non c’è bisogno di ammazzare per portare via un po’ di oro. «E poi se arrivi a sparare a un poveraccio nelle trippe perché non sai gestire la situazione significa che non sei così bravo e ti devi ritirare». Sentii un brivido lungo la schiena. «Hai intenzione di fargli presente il tuo punto di vista?». «Alla prima occasione» rispose sdegnato. «Devono cambiare mestiere prima che combinino altri guai». Lanciai un’occhiata a Max. In quel momento avevamo la certezza che la vicenda non sarebbe stata indolore e qualcuno si sarebbe fatto male. Non toccammo più l’argomento e, quando fu il momento di tornare, Beniamino fece un giro lunghissimo. Il Sylvie sembrava vagare tra le onde. Distesi a prua ci godemmo un tramonto da cartolina


cazzeggiando come ragazzini. A notte fonda mi ritrovai in un night club a parlare della mia Cora con una entraîneuse colombiana. Eravamo in vena di confidenze. Io le raccontai le mie pene d’amore, lei mi confidò che stava facendo arrivare una cugina vergine da piazzare sul mercato delle spose. Era indecisa sulla percentuale della mediazione. Rossini beveva vodka in silenzio in compagnia di un’altra “ragazza” che presto avrebbero mandato in pensione. Era stata amica di Sylvie ai tempi in cui si esibiva come danzatrice proprio in quel locale, sul palco che il vecchio gangster ora guardava perso nei suoi pensieri. Max ovviamente concionava di diete con altre ragazze prive di clienti da spupazzare. Erano divertite e ridevano. Il ciccione, quando voleva, sfoggiava un’autoironia con picchi comici degni di un attore. Se fossimo stati giovani e con un pizzico di fantasia avremmo potuto assomigliare a soldati pronti a tornare al fronte o marinai in procinto di salpare per i mari della Cina. Invece eravamo solo in attesa di attraversare il buio del crimine e della menzogna perché la verità ci aiutasse a mettere a posto le cose. Max la Memoria impiegò poco a trovare qualcuno con cui scambiare due chiacchiere su Kevin Fecchio. Si trattava di un sindacalista che aveva conosciuto bene anche Maicol. Il ciccione lo aveva incrociato nel movimento, quando la politica era fatta in buona parte di sogni, poi si erano persi di vista ma la stima era rimasta intatta. Lo incontrammo di prima mattina in una pasticceria di Creazzo, in provincia di Vicenza, nota per la bontà, e la grandezza, delle brioche. Magro, stanco di non riuscire più a rappresentare lavoratori sempre più precari e scontenti, Enzo fu molto utile nell’introdurci nel mondo dei fratelli Fecchio. Maicol era un imprenditore nel vero senso della parola, aveva creato l’azienda con un progetto preciso che aveva felicemente sviluppato fino alla morte. Aveva una decina di dipendenti in regola e quando era sotto pressione con le commesse ricorreva come tutti al lavoro nero. Kevin, secondo il sindacalista, era un gran lavoratore e persona di grande simpatia, cresciuto all’ombra del fratello maggiore. La sua perdita lo aveva completamente trasformato. Era diventato aggressivo, un ragionamento pacato con lui era impossibile. Per un paio d’anni l’azienda era stata sull’orlo del fallimento, non tanto per i problemi derivati dalla morte di Maicol ma per l’incapacità del fratello di reagire. A parte due amici d’infanzia di Kevin tutti gli altri erano stati licenziati. E la vita privata non era andata meglio, la moglie lo aveva abbandonato portandosi via i bambini. Poi all’improvviso era arrivata la svolta. Fecchio era riuscito a rimettersi in piedi e a ridare vita al laboratorio. Max, con tatto, insistette nella ricostruzione temporale e il sindacalista poté essere abbastanza preciso: il vento favorevole aveva iniziato a soffiare tre mesi dopo la rapina a casa di Gastone Oddo. Kevin diventava sempre più interessante a mano a mano che gli indizi si accumulavano. In realtà che fosse coinvolto c’erano pochi dubbi, ma noi non eravamo né sbirri né magistrati. A noi servivano le prove per presentare il conto. «Ho sentito dire che gli piace fare lo sceriffo» buttai lì, fingendo di voler conversare. Enzo abbassò la voce «Ha visto morire il fratello senza poter intervenire e il dolore gli ha prosciugato tutto quello che aveva di buono». Il sindacalista aveva intuito che il nostro interesse per Fecchio andava al di là dell’azienda e ci chiese se avevamo bisogno di sapere qualcosa in particolare. «Dobbiamo agganciarlo» rispose Max. «Ma non sappiamo come. Dovremmo conoscere a fondo la sua


vita privata ma non ne abbiamo il tempo». L’uomo fece una smorfia perplessa. «Vive per il lavoro e la “causa”. Nel tempo libero frequenta sempre e solo due amici, Sante Zanella e Vasco Merlin. Però in tutta sincerità non posso aggiungere altro. D’altronde gli ambienti che frequentiamo sono molto diversi». «Gli altri due sono sposati?» domandai seguendo una intuizione. «Coniugati con figli, vita di paese, parrocchia, calcetto, bar. Persone normali». Quando rimanemmo soli e uscimmo a fumare una sigaretta avevo una mezza idea sul prosieguo delle nostre indagini. «Un giovane uomo, che lavora tutto il santo giorno e frequenta un giro di brava gente appena sopra le righe, che si vorrebbe fare giustizia da solo e non ha più una vita coniugale, con chi scopa? Magari frequenta qualche giro particolare». «Ci interessa davvero saperlo?». «Ritengo di sì. Kevin Fecchio è il nodo di tutta questa vicenda, uno scambio di opinioni è inevitabile e urgente. E forse questa è la strada che ci può condurre a trovare la situazione adatta». Il ciccione aprì la mano dove depositai il pacchetto di sigarette. «Spiegati meglio». «Non ha ancora quarantacinque anni e non credo che abbia rinunciato al sesso. Ma al contempo è un uomo pubblico e deve fare attenzione, secondo me deve aver trovato una situazione tranquilla e sicura. A pagamento». «Magari si è trovato una fidanzata» obiettò Max. «La notizia sarebbe di dominio pubblico». Il mio socio non era del tutto convinto. «Hai in mente qualcuno che ci può aiutare?». «Sì, ma vado solo». Mi rivolse un sorriso malizioso. «E come mai?». «Non sei il suo tipo. Con te non parlerebbe». La prostituzione è un mondo complesso, in grado di adattarsi alle esigenze del mercato. Ci sono la strada e il giro dei locali notturni. Poi le cinesi in appartamento, giorno e notte sempre a disposizione. Lavorano con gli stessi ritmi dei laboratori clandestini da dove sono state prelevate. Ma ci sono anche quei maschi che hanno difficoltà a uscire la sera, l’organizzazione della loro vita familiare glielo impedisce e devono necessariamente ricavarsi un’ora al mattino o al pomeriggio, magari nella pausa pranzo. Per questo specifico settore della clientela Cinzia Donato aveva ideato e organizzato tra Vicenza e i paesi immediatamente limitrofi un giro di casalinghe desiderose di guadagnare bei quattrini, molto spesso tenendo all’oscuro i legittimi consorti. Due donne, mai troppo giovani, per appartamento, turni di sei/otto ore al massimo. Discrezione, clientela italiana selezionata, prezzi non esagerati. Quelle che potevano avere problemi di gestione del proprio tempo e del denaro risultavano assunte in negozi, sartorie, modisterie. Cinzia aveva una concezione manageriale e moderna del mestiere. Le donne che lavoravano per lei erano trattate come professioniste e faceva di tutto per farle sentire a loro agio. Oltre a un discreto sistema di videosorveglianza, alla sicurezza provvedevano un paio di membri esperti di una società di security che potevano contare su diverse conoscenze tra le forze dell’ordine. I rapporti con i pezzi grossi erano di esclusiva competenza della titolare dell’impresa. Politici,


industriali, la solita compagnia di giro che conta nelle città di provincia e che in Veneto rappresentava una vera e propria istituzione. Avevo conosciuto Cinzia Donato quando mi aveva ingaggiato per ritrovare un nipote che si era cacciato in un brutto giro. Una storia a lieto fine, il ragazzo adesso frequentava con successo non so quale università straniera. La maîtresse mi ricevette nell’ufficio ricavato nel retro di una boutique al piano terra di un antico palazzo nel cuore del centro storico di Vicenza. Da una portafinestra si accedeva a un giardino interno, grande e curato. Sorseggiava una bibita all’ombra di un grande ombrellone di tela grezza. Viaggiava ormai verso i sessanta, non aveva mai avuto un bel viso, tratti grossolani e labbra sottili, ma aveva degli occhi di un azzurro intenso che la rendevano interessante. Come sempre era abbigliata in modo molto ricercato. Quella mattina indossava un vestito bianco a righe orizzontali azzurre e sandali dello stesso colore. Poteva sembrare una ricca signora francese. «Fa caldo» disse non appena mi vide. «E adesso che abbiamo esaurito l’argomento tempo mi dici cosa sei venuto a fare?». «Conosci Kevin Fecchio?». «Sì». «È un tuo cliente?». «No» rispose. Poi sorrise e piegò la testa. «Vuoi un chinotto?». «Sono anni che non ne bevo». «Questo è particolare, sbagli a non assaggiarlo». Mi arresi, pur ribadendo che non andavo pazzo per le bibite. Si alzò e aprì un piccolo frigorifero. La bottiglia era freddissima e la marca sconosciuta. Doveva trattarsi di qualcosa di molto ricercato. «Come mai t’interessa quel tizio?» domandò la donna. «Te lo chiedo perché a me Fecchio piace. Mi piace quello che dice. C’è un sacco di marmaglia armata in giro e i cittadini devono potersi difendere senza problemi». «E poi gli affari ne risentono» aggiunsi con l’intenzione evidente ma inutile di essere ironico. «Più tranquilla è la zona e più si lavora meglio» ribatté convinta. «E sarebbe anche il caso di ripulire un po’ il centro dagli zingari. Sono insopportabili. Danno solo fastidio e non servono a nulla. Ma tornando a Fecchio, cosa vuoi da lui?». «Devo riuscire a convincerlo a parlare con me di una certa faccenda ma non posso suonare il campanello di casa e annunciarmi». Si accese una sigaretta. Già alla prima boccata il filtro era macchiato di rossetto. «Mi posso informare». «Te ne sarei grato». «Al punto che ricambieresti il favore?». «Ovvio». «E il chinotto, ti piace?». «Avevi ragione, è buono». «È bio» spiegò prima di congedarmi con un cenno della mano. Ero certo che se ci fosse stato qualcosa da scoprire Cinzia ci sarebbe riuscita. Informai Max e mi


sedetti in un bar a bere un long drink “bello carico”, come avevo raccomandato al cameriere. Ricevetti una telefonata di Maurizio Camardi. Era in treno e si stava recando a Roma per suonare al bar Ergo sul Lungotevere. Mi disse che la donna di jazz era andata a trovarlo alla scuola di musica per chiedere informazioni sul sottoscritto. «Le ho detto la verità» disse il sassofonista. «E cioè?». Ghignò. «Che sei un poco di buono». «E tu sì che sei un vero amico». Cambiò tono. «È decisamente interessata ma mi è sembrata un po’ sottosopra, fragile». «Starò attento». «Non sei il tipo». «Hai ragione» ammisi senza difficoltà. «Tra l’altro sono stato costretto a tacere un dettaglio importante che rischia di rovinare tutto». «La prossima settimana suono con Marco Ponchiroli e Francesco Garolfi. Cora ha promesso che verrà ad ascoltarci. Potresti fare un salto» mi invitò Camardi. «Non credo che aspetterò così tanto» ribattei sbirciando l’ora. Fui il primo cliente a entrare al Pico’s. Mi piazzai al bar e mi preparai all’incontro con la donna di jazz con un paio di gin tonic. Non c’era pericolo di ubriacarsi. Il barman aveva l’ordine di essere parco nelle dosi dei liquori per non mettere subito al tappeto i clienti. Arrivò il pianista. Era assetato e gli pagai da bere. Mi confidò che Cora si stava preparando e che avrebbero iniziato non prima di un’ora. Gli allungai discretamente una banconota da cinquanta. «Andresti a dirle che l’aspetto qui per offrirle un drink?». «Vacci tu» rispose fingendo di essere offeso. «Non sono il fattorino di nessuno». «Lo so bene. Infatti questi soldi sono per chiederti di suonare un paio di brani al di fuori del tuo repertorio». Afferrò la banconota. «Scusa, non avevo capito». «Sei tu che mi devi scusare. Mi ero spiegato male» dissi per concludere quella stupida scenetta. Il musicista tornò qualche minuto più tardi. «Le andrebbe di bere un Singapore Sling» spiegò strizzandomi l’occhio, «in camerino. Con te». Lo ringraziai e provvidi alle ordinazioni. Il pianista mi osservava perplesso. «Cosa c’è?». «Ci ho provato così tante volte con lei che alla fine mi sono convinto che fosse totalmente disinteressata al sesso. Sono curioso di vedere se riesci a portartela a letto». «Ti assicuro che al momento ha solo voglia di chiacchierare». Scosse la testa. «Conosco le cantanti jazz, ne sono stato vittima tutta la vita e sono pronto a scommettere». Cora era già pronta per il palco, mancavano giusto un paio di dettagli al trucco. Bevve in silenzio il suo drink. Ogni tanto mi fissava. Sembrava indecisa e feci di tutto per metterla a suo agio. «Camardi ha detto che sei un tipo a posto e che sai ascoltare» disse a un tratto.


«È un amico» ribattei pensando che proprio con lei mi stavo comportando malissimo. «Tu mi piaci ma non ho voglia di imbarcarmi in avventure con il solito uomo insulso che incontri quando stai vivendo momenti un po’ particolari, capisci?». «Penso di sì» risposi cauto. «E allora mi devi ascoltare perché ho delle cose da dire, prima». «Va bene». Si accese una sigaretta. «Lo sai perché una donna come me canta il jazz due volte la settimana in questo buco?». «Non riesco proprio a immaginarlo» risposi sincero. «Sono infermiera al Centro grandi ustionati e ho bisogno di staccare» spiegò. «Io amo il mio lavoro ma non sono fatta d’acciaio e alla sofferenza non ci si abitua mai». «Capisco». «Non ho mai tradito mio marito e ora sono pronta a farlo. Non so se è giusto o sbagliato ma voglio che accada. Il nostro matrimonio non è in crisi e io lo amo come un tempo ma sono irresistibilmente attratta da te perché mi hai corteggiata. Mi hai fatto sentire importante. Ti è tutto chiaro?». «Sì». «Allora vai al bar a prendere un altro cocktail. Mi è venuta sete». «Di me non vuoi sapere nulla?». «No. Mi è stato detto che in fondo sei affidabile ma temo che approfondire sarebbe un errore». Non aveva tutti i torti e mi precipitai al bar. Il barman era lento, per preparare i drink era costretto a leggere ingredienti e dosi da un manuale decisamente vissuto. Intercettò la perplessità sul mio volto e cercò di giustificarsi. «Tutti chiedono sempre gli stessi intrugli. Poi arriva la cliente che ordina un Singapore Sling, finezze da corso specializzato e io ho sempre lavorato, non ho mai avuto tempo per quelle stronzate». «È già il secondo questa sera, magari ti viene anche bene». Il sorriso mise in mostra denti macchiati di nicotina. Pensai che era una rarità, un tempo era più facile incontrare fumatori che curavano poco l’aspetto della loro bocca. La riflessione mi fece perdere la battuta del barista ma non gli chiesi di ripetermela. Avevo di meglio da fare. «Sai baciare?» mi domandò Cora dopo una lunga sorsata. «Baciare sul serio, intendo». «Bacio benissimo. Ovunque». «Ti dai un sacco di arie, ragazzo». Non perdemmo tempo a esplorarci con cautela. Le nostre lingue si intrecciarono con passione e urgenza. Le leccai i capezzoli con una lentezza quasi esasperante prima di afferrarla e metterla seduta sul tavolino del trucco. La mia mano si fece strada sotto la gonna come desideravo fin dalla prima volta che l’avevo vista. Mi spinse giù per le spalle e mi ritrovai in ginocchio, il volto affondato tra le sue cosce. Me la presi comoda come se il tempo fosse solo nostro. Fare l’amore su quel tavolino traballante non fu affatto semplice ma quando il pianista bussò alla porta annunciando l’inizio del concerto, eravamo abbracciati, esausti e felici. «Ho il vestito stropicciato» ridacchiò Cora. «Non se ne accorgerà nessuno».


«Ora vattene, devo tentare di sistemare il trucco». Invece per un po’ rimasi a osservarla. Non riuscivo a staccarmi da lei. Donna di jazz. Incasinata, impaurita, fragile, ma che la mattina si alzava e affrontava un lavoro duro, in un luogo dove il dolore dominava senza soluzione di continuità. «Mi piaci» dissi mentre uscivo dal camerino. Lei mi guardò attraverso lo specchio e sorrise. Cinzia Donato tornò a farsi viva insieme al maltempo. Chiamò a metà pomeriggio mentre gli affaticati tergicristalli della mia Škoda Felicia si battevano con orgoglio contro un temporale violento. Mi diede appuntamento in una casa di Castelgomberto, non lontano da Vicenza, per le 19.45 in punto. La maîtresse era sempre stata una maniaca della puntualità. Sbuffai. Erano trascorse poco più di ventiquattr’ore e stavo già tirando il primo pacco alla mia nuova fidanzata. Era al lavoro e non potevo chiamarla. Le inviai un sms in cui la parola scusa era ripetuta tre volte. Cambiai direzione e dato che ero decisamente in anticipo uscii dall’autostrada e guidai fino a una multisala. Non avevo idea di che film vedere e basandomi più che altro sull’orario scelsi la pellicola di un regista italiano. Uno famoso, pluripremiato. Per il cinema d’autore avevo sempre provato un forte senso di gratitudine perché riusciva a mettermi in contatto con aspetti dell’esistenza che non mi appartenevano. Spesso uscivo dalle sale turbato, a volte meravigliato. Il cinema mi nutriva di storie del mondo dei regolari, come li chiamavamo noi, e mi aiutava a comprenderli. Non provavo alcuna invidia però. Il loro mondo continuava a non piacermi. A differenza di Max la Memoria non avevo mai coltivato il proposito di cambiarlo. Preferivo restare ai margini. Quel pomeriggio fui risucchiato in una vicenda di vecchiaia e morte raccontata con delicatezza. Rimasi seduto mentre scorrevano i titoli di coda e fui l’ultimo a uscire. Fumai un paio di sigarette appoggiato all’auto, immerso in ricordi della mia prima vita, quella che era terminata il giorno in cui ero finito in galera. Per l’ennesima volta arrivai alla conclusione che le famiglie sono complicate e che tutto diventa chiaro quando è troppo tardi. Rimane poi il tempo inutile del rammarico. «Il passato non si cambia» borbottai a mezza voce, aprendo la portiera dell’auto e precipitandomi a infilare nel lettore il terzo cd della cura Catfish: El diablo, dal brano omonimo della Low Society Band. Mandy Lemons aveva una voce da brivido. Erano anni che volevo ascoltarla dal vivo. Gli altri diciannove pezzi erano altrettanto indiavolati e tonici, dallo zydeco dei Creole United al blues barbaricino di River of Gennargentu. I ricordi scivolarono via dalla mente. El diablo era riuscito a convincere il passato ad accordarmi una tregua. La via che mi aveva indicato Cinzia Donato si trovava alle spalle della piazza principale del paese, il numero civico corrispondeva a una piccola casa a due piani incastrata tra un panificio e una cartoleria. Venni accolto da una donna sui trentacinque anni, carina, in jeans e maglietta bianca, senza un filo di trucco. Disse di chiamarsi Marika ma si affrettò a specificare di essere nata e cresciuta in Veneto. Mi fece strada fino a un salotto arredato di recente, eccetto il lampadario in cristallo stile veneziano che andava di moda negli anni Sessanta. Stonava. Sembrava che qualcuno si fosse scordato di staccarlo dal soffitto. Cinzia Donato era accomodata sul divano. Mi salutò con un mezzo sorriso. «Tesoro» disse rivolta alla padrona di casa, «racconta al mio amico di Fecchio». Marika non si fece pregare. «Kevin viene a trovarmi tre, quattro volte al mese, sempre la sera tardi.


Mentre lo facciamo mi chiama Sabina, come la moglie, poi scoppia a piangere, la insulta perché gli ha portato via i figli e mi tiene stretta tra le braccia fino a quando non si addormenta». Un uomo disperato. Il mondo ne era pieno. Lanciai un’occhiata alla maîtresse. «E allora?». «Se hai problemi seri ti devi rivolgere a uno specialista» ribatté Cinzia, «non a una puttana che non è, con tutta evidenza, una terapeuta ma una professionista del sesso a pagamento, che può essere inteso solo come divertimento. Il fatto è che voi maschietti cercate sempre la mamma». Pensai che effettivamente non puoi dormire abbracciato al tuo strizzacervelli ma preferii non avventurarmi in discorsi inutili. «Quando verrà la prossima volta?». «Ha preso appuntamento per giovedì sera alle ventidue» rispose Marika. «Preferirei che trovasse me al posto suo» le dissi. «Così riesco a parlargli con un po’ di tranquillità». «Non prima di aver sganciato mille euro comprensivi del mancato guadagno e dell’affitto temporaneo della casa, con la garanzia che non accadrà nulla di spiacevole» chiarì la Donato in tono deciso. «Non vogliamo finire sui giornali. La pubblicità negativa nuoce agli affari». «Ora lavora per te?» domandai. «Appena ci siamo parlate si è stabilita un’intesa» rispose Cinzia. «E poi non vedi quanto è bella? È perfetta per la mia clientela». Marika era raggiante. Alla fine eravamo tutti contenti, ognuno di noi aveva raggiunto il suo scopo. La maîtresse mi congedò ricordandomi che le dovevo un grosso favore. Era vero. Finalmente potevamo affrontare Kevin Fecchio. La mattina seguente trovai uno sbirro ad attendermi all’uscita del solito bar tabacchi. Apprezzai la delicatezza di non aver preteso di essere ricevuto in casa. Riconobbi prima di tutto la sua immancabile camicia hawaiana. Era l’unico poliziotto che evitava di passare inosservato. Si chiamava Giulio Campagna, ispettore alla sezione antirapine della questura di Padova. Aveva un modo di fare stravagante come il suo abbigliamento che gli aveva negato ogni possibilità di fare carriera. In realtà si trattava di una specie di corazza per celare il suo essere perennemente tormentato. Dalla vita, dal mestiere. Era una brava persona che voleva rispettare le proprie regole senza barare. Ero certo che anche lui, a suo modo, mi stimasse anche se in passato aveva messo bene in chiaro che avrebbe preferito vedermi dietro le sbarre. Il fatto era che l’avevo costretto a mettere in discussione il suo concetto di verità e non me l’aveva mai perdonato. «Buratti, cercavo proprio te» esordì con un marcato accento veneto. «Ho un dubbio che mi tormenta da stamattina». Iniziai a scartare un pacchetto di sigarette, rassegnato a sciropparmi uno dei suoi discorsi strampalati. «Mi sono svegliato pensando a come sono completamente scomparse le pubblicità della crioterapia per eliminare le emorroidi. Anni fa i giornali erano invasi dagli annunci di cliniche che promettevano miracoli infilandoti un pezzo di Siberia nel culo. Ho rivoltato i quotidiani locali e non ho trovato una sola riga in proposito. Cos’è successo? Nessuno soffre più di questa fastidiosissima patologia? O si sono accorti che il metodo non valeva un cazzo e adesso l’Italia intera pullula di poveracci con il deretano rosso come quello dei babbuini?». Era arrivato il momento di interromperlo. «E così hai pensato che sarebbe stato interessante venire a discutere della faccenda con il sottoscritto». Sorrise e accettò una delle mie cicche. «E con chi sennò? Sei l’unico che conosco che avrà presto bisogno di qualche cura miracolosa per evitare di marcire in galera, cosa che del resto meriteresti».


Finsi di non essere allarmato. «Ti confesso che faccio fatica a seguirti». «Continua a confessare, Buratti, perché mi devi spiegare qual è il motivo che ti spinge ad andare in giro con altri pregiudicati a fare domande su una certa rapina». Tirai a indovinare. Con Campagna era inutile negare l’evidenza, qualcuno se l’era cantata. Molto probabilmente era il basista di Treviso. «Toni Brugnera?». Scosse la testa. «I miei informatori non sono affar tuo». Una conferma indiretta. D’altronde Toni non era fatto per sopportare la durezza della galera che aveva accuratamente evitato fino a quel momento. Alla fine avrebbe tradito anche il genero. Un gangster come Franko Didulica valeva l’impunità. Aspirai un paio di boccate cercando di mettere in piedi una storiella sufficientemente credibile per togliermi di torno l’ispettore ma non mi venne in mente nulla. «Lo so che state combinando qualcosa» disse toccando con la punta dell’indice il cellulare che tenevo nel taschino. «Le vostre utenze sono silenziose come pesciolini, il che mi suggerisce l’idea maliziosa di numeri clonati o criptati». Il sospetto dello sbirro era più che fondato, avevamo imparato da un pezzo a proteggerci dalle intercettazioni e spendevamo un sacco di soldi per assicurarci il meglio che poteva offrire il mercato clandestino. «Ho un cliente» svelai scegliendo di muovermi sul terreno infido delle mezze verità. «Chi?». «Lo sai che non posso dirtelo». «Essendo un pregiudicato sprovvisto di licenza non hai il diritto di indagare, nemmeno sul furto di una mela da una bancarella della piazza». Sbuffai. «Non cominciare con la solita solfa». «Ho il dovere di metterti sull’avviso: stai commettendo reati che ti costeranno cari». Sbuffai ancora più forte. «Ci avete provato per due anni e non avete scoperto nulla. Magari noi abbiamo più fortuna». Mi gettò il filtro tra i piedi con un gesto stizzoso. «Conosco i tuoi modi di chiudere i casi». «Allora stanne lontano». «Ho dato un’occhiata al fascicolo. All’epoca stavo ancora all’antidroga» spiegò. «È una di quelle indagini che ti fanno incazzare, e io ho una montagna di incazzature da smaltire, capisci? Se c’è anche un minimo spiraglio per arrivare a scoprire i bastardi che hanno combinato quel macello, io voglio essere il primo a saperlo». Gli offrii un’altra sigaretta. La rifiutò con un gesto sbrigativo. «Sono io quindi a non volerti tra i piedi» sbottai. «Cosa?». «Questo è un caso che non può essere risolto rispettando la tua legge». «Al momento è l’unica in vigore». «Ascolta Campagna» attaccai in tono ragionevole. «Ti devi fidare. Se abbiamo visto giusto questa è una faccenda che in mano vostra finirebbe insabbiata alla velocità della luce». «E con voi, invece?» chiese sprezzante. «Ha qualche possibilità di essere chiusa in modo dignitoso per le vittime».


Mi fissò pensoso. «E voi che ci guadagnate? Nessuno dei parenti è così danaroso da potersi permettere dei gaglioffi di lusso come voi». «L’anticipo è stato di venti centesimi» risposi ignorando l’insulto. Campagna tendeva sempre a provocare quando era a disagio. «Avete deciso di fare del volontariato?». «Non capiresti» risposi. «Ma stiamo agendo nel giusto». «Ti rendi conto che tu non hai nessun diritto di farmi discorsi del genere e che io non posso stare qui ad ascoltarli?». «Allora vattene e lasciami in pace». «Dovrei portarti in questura e torchiarti per bene». Alzai le spalle. «Sei tu lo sbirro. Decidi cosa vuoi fare». Lo avevo messo in difficoltà un’altra volta ed era furibondo. Però ero certo che avesse colto l’onestà delle mie parole. Si sfilò con una classica battuta da poliziotto. «Per ora accantono questo piacevole incontro in un angolino della memoria, tanto so dove trovarti». Girò sui tacchi e fece per andarsene. Poi ci ripensò. «Se mi arrivano altre soffiate sulla vostra indagine illegale andrò dritto dai miei capi e racconterò ogni parola di questo colloquio». Annuii. E l’ispettore finalmente si mescolò ai passanti camminando a passo svelto con la testa incassata tra le spalle. Campagna non si sarebbe messo di traverso, a meno che non vi fosse stato costretto. Ne ero certo, e continuai a esserlo per il resto della mattinata, quando mi convinsi che non era il caso di mettere al corrente i miei amici dello scambio di opinioni con lo sbirro. Si sarebbero inutilmente allarmati. Max lo odiava e Beniamino non lo conosceva. Ero l’unico in grado di giudicare con serenità. E poi non potevamo permetterci di perdere tempo prezioso mentre attendevamo di incontrare Kevin Fecchio. * * * Edoardo “Catfish” Fassio aveva ragione: il blues sopravviveva a tutto. Le mode passavano ma la musica del diavolo continuava a essere suonata ovunque e da grandi musicisti. In attesa di dare una svolta all’inchiesta andai a sentire Fabrizio Poggi e i suoi Chicken Mambo. La serata era calda, si sudava al minimo movimento e la birra usciva dai pori insieme al sudore ma nessuno riusciva a resistere al ritmo di The Blues Is Alright. Il prato di fronte al palco pullulava di gente allegra e spensierata. Io non potevo rilassarmi, ballavo per assorbire energia e diventare forte per affrontare mostri e fantasmi e pericolose incognite come Kevin Fecchio. Acquistai il cd e alla fine del concerto mi misi diligentemente in coda per una dedica. Si intitolava Spaghetti Juke Joint ed era dedicato a quegli emigranti italiani che, vittime di un gigantesco imbroglio, si ritrovarono nei campi di cotone della zona di Greenville, Mississippi alla fine dell’Ottocento a condividere le terribili condizioni di vita degli afroamericani. La schiavitù era stata abolita ma il Ku Klux Klan dettava legge e lo sfruttamento e le malattie non erano scomparsi. Secondo Poggi noi italiani eravamo nel posto giusto quando il blues era stato “inventato”. La leggenda narra di un locale appena fuori Tribbet Road, alla Dean Plantation, dove il sabato sera neri e italiani si ritrovavano a suonare e a ballare per curare le ferite del cuore e della mente. Anch’io, come loro,


centoventi anni dopo. Attaccai discorso con Poggi, rammentando un festival dalle parti di Nizza dove avevo ascoltato il suono della sua armonica per la prima volta. A quel tempo stavo con Ninon, una donna fantastica che però detestava il blues. Anche Cora non lo apprezzava. Perché le mie donne non amavano la musica della mia vita? Poggi rispose che forse il problema ero io. Non ero capace di trasmettere le emozioni giuste. Il musicista aveva ragione ma era una questione di volontà. Ero sempre stato geloso della mia relazione con il blues. C’erano assoli di chitarra in grado di sconquassarmi la mente e il corpo e farmi raggiungere livelli di piacere inimmaginabili. Un segreto che mi sarei portato nella tomba. * * * Castelgomberto, provincia di Vicenza. Il campanello suonò con qualche minuto d’anticipo. Beniamino aprì la porta di scatto, afferrò Fecchio per il bavero e lo trascinò all’interno. L’uomo impiegò solo qualche istante a riprendersi dalla sorpresa ma, quando tentò di reagire, la pistola che Rossini gli puntava alla testa lo convinse a calmarsi. L’orafo si ritrovò seduto sullo stesso divano che aveva ospitato la maîtresse Cinzia Donato. Si guardò attorno e notò che gli uomini mascherati erano tre. Non sembrava che avesse paura ma piuttosto che fosse preparato ad affrontare una situazione del genere. Deglutì un paio di volte prima di chiedere se Marika stesse bene. Lo tranquillizzai. «È andata a trovare un’amica». «Allora l’avete pagata e mi ha tradito» constatò deluso. Poi cambiò tono. «Puoi spararmi a viso scoperto Spezzafumo» sbottò in dialetto. «E conosco anche il vostro nome» aggiunse indicando il ciccione e il sottoscritto. A quel punto rimase in silenzio studiando le nostre reazioni. Ovviamente restammo impassibili. Aveva iniziato a fornirci le conferme che cercavamo e sarebbe stato un peccato zittirlo. «Eh già. Il vostro caro amico Gastone ha cantato come un canarino da concorso e io ho registrato ogni parola» continuò tronfio. «Mi volete ammazzare? Sparatemi e finirete all’ergastolo in compagnia di quella troia di Gigliola Pescarotto, la vedova inconsolabile». Mentre parlava stringeva i pugni, sembrava pronto a scagliarsi contro di noi. La voce resa rauca dalla tensione sembrava provenire dal fondo di una caverna. «Come sapevi che quella sera avresti trovato oro e contanti?» domandai. «Tenevamo d’occhio la villetta in attesa che organizzaste un’altra rapina» rispose. «Quando ho saputo che tre rapinatori avevano assaltato un laboratorio nel trevigiano ho parlato con il proprietario e mi sono fatto raccontare i particolari. Ho capito subito che eravate stati voi e abbiamo deciso di agire la sera seguente, ma non eravamo certi di trovare il bottino. Ci speravamo». «Non riusciamo a capire perché, una volta scoperto che Oddo era coinvolto nell’uccisione di tuo fratello Maicol, non ti sei rivolto alla polizia» disse Max in tono pacato. «Già. Perché sei diventato una bestia?» chiese Rossini. «Perché mio fratello ha sofferto come una bestia quando gli avete sparato» ribatté alzando la voce. «Ha impiegato più di due ore a morire senza mai smettere di lamentarsi. “Kevin aiutami, ti prego” diceva e io ero lì, legato mani e piedi che non potevo fare nulla. Oddo è stato ripagato con la stessa moneta.


“Mamma, mamma” gridava lo stronzo». «E Luigina, la povera governante? Quanto ha urlato?» chiese ancora il vecchio Rossini. «Lei non c’entrava nulla, eppure l’avete violentata e torturata». Fecchio alzò le spalle strafottente. «Doveva per forza sapere qualcosa. E comunque, se non era una complice è una vittima di guerra. Cazzi suoi se si trovava in quella casa. Se quella sera la moglie non fosse uscita i cadaveri sarebbero stati tre». «Quattro, con la bambina» lo provocai. Agitò le mani. «La bambina no. L’avrei lasciata stare». Dunque anche Kevin aveva un cuore. «Non c’è nessuna guerra in corso» disse Beniamino. «La morte di tuo fratello ti ha annebbiato la mente oppure sei nato marcio e ti mancava solo l’occasione giusta per dare sfogo alla violenza che ti è sempre piaciuta tanto». «Secondo me è un sadico del cazzo» rincarò la dose il ciccione. «Tutta quella violenza gratuita dimostra che è tarato». La reazione dell’orafo ci spiazzò. «Allora siamo uguali» ribatté freddo come il ghiaccio. «Perché lasciare morire un uomo con un proiettile nella pancia è violenza gratuita. Vivere come parassiti senza lavorare un giorno e rapinare la gente perbene è da tarati». Ci fissò con disprezzo prima di continuare. «Ma io prima non ero come voi. Non avevo mai commesso un crimine. Ero una persona normale: lavoro, famiglia, qualche amico. Siete voi che siete venuti nella mia azienda a minacciare, ad ammazzare, a portare via tutto quello per cui mio fratello e io avevamo sudato tanto. «Voi non sapete cos’è il lavoro. Voi non avete idea della fatica, delle preoccupazioni di noi piccoli imprenditori che cerchiamo di sopravvivere con questa crisi. «Come zecche siete venuti a succhiarci il sangue e in un attimo avete spazzato via anche i sogni, le speranze. Avete portato la morte nella mia famiglia, la rovina. Io avevo perso tutto, sono andato a riprendermi quello che mi apparteneva. «Non tutto in realtà, perché molte cose non si aggiustano. Mia moglie e i miei figli non torneranno a vivere con me perché non sono più lo stesso marito e lo stesso padre». Si prese una pausa. Tastò la giacca di lino alla ricerca delle sigarette e borbottò che doveva averle dimenticate in macchina. Anch’io avevo voglia di fumare ma non era il momento giusto. «Ho fatto quello che dovevo» continuò l’orafo. «Era mio diritto, di fronte a uno stato che protegge i delinquenti come voi e non i cittadini e che pensa solo a spolparti con le tasse, impedire che gli assassini restassero impuniti. Ed era altrettanto giusto salvare l’azienda recuperando l’oro. «E voi pensate, dopo tutto quello che ho passato, che dovrei sentirmi in colpa perché ho rotto il culo alla cameriera di Oddo e poi le ho sparato un colpo in testa? «Voi non ve ne rendete conto ma la musica è cambiata. La gente non è più disposta a subire, vuole avere la possibilità di farvi fuori se osate presentarvi per rubare o rapinare. «Vi tengo d’occhio da un pezzo e non avete più assaltato laboratori. Ma se solo ci provate io e i miei amici veniamo a riempirvi di buchi con le vostre stesse armi, che vi abbiamo portato via e conserviamo con cura in attesa dell’occasione giusta. «Non vorrei che pensaste che abbiamo pareggiato i conti. Pagherete con la vita o con la galera quando lo riterrò opportuno. E questo vale anche per la vedova».


Ci fissò con aria di sfida. Kevin Fecchio aveva superato la soglia della ragione e del buon senso. Aveva imboccato una strada senza uscita. Quella storia non sarebbe finita bene per nessuno. Mi tolsi il passamontagna, subito imitato dai miei amici. «Noi non abbiamo nulla a che fare con Oddo, sua moglie e la banda di Spezzafumo» spiegai scandendo le parole. «Noi rappresentiamo gli interessi di Sergio Cantarutti, anni dodici, figlio di Luigina, la governante. Anche lei merita giustizia e il ragazzino un risarcimento equo. Questo è un discorso che dovresti capire». L’orafo ci fissò esterrefatto. E così sollevato che non fossimo venuti ad assassinarlo da concedersi dello spirito. «E voi chi sareste? I giustizieri delle colf?». «Devi pensare a come sistemare questa faccenda» intervenne Beniamino. «Innanzitutto occupati del futuro di Sergio e poi concentrati anche sull’aspetto più difficile e complesso: come pagare per quel delitto». «Che significa?». «Non lo hai capito?». Incredulo, scoppiò a ridere. «Forse vi è sfuggito il senso di quanto ho detto finora». Max gli mostrò un minuscolo registratore. «Se qualche parola ci è sfuggita, possiamo sempre riascoltarla». Kevin schiuse le labbra e mostrò i denti come un cane feroce. «Pensate di ricattarmi con una registrazione? Posso sempre affermare che me l’avete estorta, la gente mi crederebbe perché sono Kevin Fecchio. E comunque ficcatevi in testa che io non ho paura di morire o di finire in galera perché, qualsiasi cosa accada, coloro che mi hanno fatto del male verranno puniti. E questo vale anche per voi». «Anche i tuoi complici la pensano così?» domandai. «Sei certo che Sante e Vasco siano disposti a sacrificarsi?». L’orafo scattò in piedi e iniziò a tirare pugni e calci alla cieca. Rossini lo colpì alla bocca dello stomaco con la canna della pistola e l’uomo si ritrovò seduto, boccheggiante. «Loro sono solo i miei amici più cari. Non sanno nulla di questa storia» sibilò appena riprese fiato. «Lasciateli stare». «E allora chi c’era con te a casa Oddo?» domandò il ciccione. «Galantuomini» rispose Kevin con orgoglio. «Non vi dirò mai i loro nomi». Era arrivato il momento di andarcene. Beniamino appoggiò una mano sulla spalla di Fecchio. «Tu pensi di avere già vinto questa partita ma se metti con le spalle al muro Spezzafumo e i suoi amici loro reagiranno nel modo peggiore e non mi stupirei se si vendicassero sui tuoi affetti più cari. Scorrerà altro sangue». «Nessuno toccherà più la mia famiglia» ringhiò. «Ci rifaremo vivi» annunciai. «Non ve lo consiglio». Ignorai la minaccia. «Il ragazzino rischia di finire in un istituto mentre merita di rimanere con gente che lo ama, di andare all’università. I calcoli non sono difficili». Kevin ridacchiò. «Non so nemmeno se riuscirò a far laureare i miei figli e dovrei provvedere a pagare gli studi del bastardo di quella sfigata?». Il vecchio Rossini gli diede uno schiaffo. Duro, cattivo. «Si chiamava Luigina Cantarutti» ricordò. «Devi imparare a portarle rispetto dopo quello che le hai fatto. Il bastardo, invece, si chiama Sergio e gli devi un sacco di quattrini».


Appena salimmo in auto chiamai Siro Ballan e mi informai se il suo salotto era libero per la sera seguente. Il liutaio caricò la tariffa del dieci per cento per la brevità del preavviso. «Passerò l’aspirapolvere» sghignazzò convinto di essere spiritoso. «Devo avvertire qualcuno?». «Ci penso io». Si risentì. «Di solito mi occupo io degli inviti a casa mia». «Stavolta no» tagliai corto e riattaccai. Discutere con Siro Ballan poteva essere faticoso. Spezzafumo, nonostante la sorpresa, accettò subito. Gigliola Pescarotto, vedova Oddo, non aveva la minima intenzione di partecipare all’incontro e fui costretto a spaventarla. Tornammo a Padova e andammo a mangiare una pizza in un locale che restava aperto tutta la notte. A quell’ora era sufficientemente deserto per poter parlare in pace. Eravamo scossi e per nulla soddisfatti di come erano andate le cose. «Kevin ci ha fatto capire in tutti i modi che non ha intenzione di chiudere la faccenda» dissi, pulendomi i baffi dalla schiuma della birra. «Non è detto. Credeva di parlare con Spezzafumo e i suoi soci» ribatté Max. «Ora degli sconosciuti sono in possesso di una registrazione che lo fotte alla grande». «Fotte tutti, nessuno escluso» sottolineò Beniamino. «Ma sono d’accordo. Ora la situazione non è più la stessa». «Se avesse voluto, in questi due anni avrebbe potuto eliminare la banda Spezzafumo senza troppi problemi» ragionai. «Ma forse aspettava che organizzassero un’altra rapina per farli fuori e soffiargli il bottino. In fondo lo ha ammesso lui stesso quando ha svelato di controllarli». «Fecchio credeva di trovarsi di fronte ai suoi assassini. Per convincerli a non farsi ammazzare ha parlato troppo ed è stato costretto a recitare la parte dell’eroe pronto a immolarsi» aggiunse Rossini. «In parte è sicuramente vero ma bisogna verificare cosa ne pensano i due complici. Come abbiamo affrontato l’argomento è andato su tutte le furie». Sospirai. «Ero convinto che gli altri due complici fossero i suoi inseparabili amichetti ma la sua reazione mi è parsa sincera». «Dovremo scoprire la loro identità in fretta» ribatté Rossini. «Anche perché abbiamo bisogno di accertare i diversi livelli di responsabilità nelle violenze e nell’omicidio di Luigina». In altre parole dovevamo capire con esattezza chi di loro meritava di più di morire. Uno, due o tutti e tre. Bevvi un altro sorso di birra e lanciai un’occhiata a Max. «Forse potremmo accontentarci di assicurare un futuro a Sergio». Il ciccione si limitò a scuotere la testa lasciando ancora la parola a Beniamino. «Sei stato tu a trascinarci in questo caso» disse il vecchio bandito. «Ti sei spinto al limite pur di trovare un cliente e ora è tardi per tornare indietro». Max la Memoria si allungò sul tavolo. «Provo una pena infinita per Luigina» confidò con gli occhi umidi. «Tutta la sua vita è stata una fregatura e ha fatto una fine così orribile che noi stessi fingiamo di ignorarne i particolari. Nemmeno da morta viene trattata con la giusta considerazione. Qualcuno deve pagare, Marco. E pagherà». Non ero del tutto d’accordo. «Il rischio è che un atto di giustizia provochi reazioni a catena». «Noi dobbiamo pensare solo a tutelare gli interessi del cliente» mi ricordò Beniamino. Annuii. E mi dedicai a mangiare la pizza. Mi pentii al secondo boccone di averla ordinata ai quattro formaggi perché ho sempre avuto difficoltà a digerirla. Ma quella notte nulla sarebbe stato abbastanza


leggero per il mio stomaco. I miei amici avevano ragione ma quel caso si stava rivelando una trappola infernale. Non ero pentito di aver truccato le carte per ottenere l’incarico. Però avevo una paura fottuta che la situazione potesse sfuggirci di mano. Quella notte Cora si esibiva al Pico’s Club. Quando arrivai c’erano pochissimi clienti e il pianista assonnato arrancava sui tasti. La mia donna di jazz non si accorgeva di nulla. Passava da una canzone all’altra persa nei suoi sogni. Ogni tanto si asciugava il sudore sul collo con un piccolo asciugamano bianco. Il locale non era particolarmente attrezzato per le notti di giugno. Fui l’unico ad applaudire una versione piuttosto azzardata di Old Devil Moon. Lei mi mandò un bacio ed era pronta ad attaccare un altro brano quando il proprietario ordinò al musicista di smettere. La raggiunsi in camerino. «Il padrone vuole chiudere per l’estate» disse delusa. Le feci notare che la gente preferiva giustamente stare all’aperto e che buona parte dei locali si erano organizzati per offrire quel tipo di servizio. «Non il Pico’s» commentò. Sorrisi. «Questo è un club con una clientela decisamente particolare. Dubito che frequenti i bar estivi, chiassosi e strapieni di gente». «E ora questa clientela dove si rintanerà?». Allargai le braccia. «Non ne ho idea. Cercherà di sopravvivere fino all’autunno e poi tornerà». Cora sospirò mentre iniziava a struccarsi. «Quest’estate rischia di diventare un incubo. Mio marito vuole addirittura andare al mare in Croazia». Ogni volta che nominava il coniuge mi sentivo travolgere dal senso di colpa. «E non sei contenta?». «Siamo sempre andati a Jesolo. Stesso appartamento, stesso stabilimento, stesso ombrellone» rispose. «Questo cambiamento improvviso sembra il tentativo di riaccendere fiamme nei cuori e nel basso ventre. Non che mi dispiaccia, temo solo che sia molto impegnativo mentre vorrei tanto rilassarmi». Mi avvicinai e iniziai a massaggiarle le spalle. Lei mi sbirciava dallo specchio mentre si passava il latte detergente sul viso. «Tu non sei un uomo con cui progettare un futuro, vero?» domandò a bruciapelo. «Non mi sembri in grado di sostituire un marito dal punto di vista della quotidianità e delle sicurezze». «Ho vissuto oltre due anni con una donna. Un’ex diva del porno» raccontai. «Gestiva un bar dalle parti di Nizza. Andava tutto alla perfezione, la vita girava che era una bellezza». «E perché ora sei qui con me e non tra le sue braccia?». «Un giorno ho ricevuto la telefonata di un amico e sono partito». «E non sei più tornato». «No. Uscivo da un periodo difficile, non ero più lo stesso uomo di cui si era innamorata». «La ami ancora?». «Amo tutte le donne con cui sono stato» risposi. In realtà non era del tutto vero. Una delle mie fidanzate, che si faceva chiamare Gina Manes, aveva tentato di ammazzarmi e non la ricordavo più con tanto affetto. «Sei un tipo complicato» commentò. «Vado bene solo per una vita parallela» ribattei piccato. «È vero» ammise. «Il fatto è che mi piacerebbe innamorarmi, lasciarmi andare, vedere come va a


finire, capisci?». «Hai un marito e un amante che ti amano follemente. Se fossi in te non mi metterei a sfidare la sorte». «Era proprio quello che volevo sentirmi dire» sospirò. L’avevo capito. Cora aveva bisogno di conferme sul fatto che non ero pericoloso per il suo matrimonio. Mi fissò a lungo. «Cosa aspetti a riempirmi di baci il collo?». «Solo?». «Hai altre idee?». «Un paio che potrebbero piacerti». «E allora datti da fare». «Posso suggerire un altro luogo per le nostre effusioni?». «No» rispose decisa. «Qualsiasi altro posto renderebbe tutto squallido». Iniziai a baciarla. Poi la portai a fare colazione anche se avrei preferito dormire con lei in un letto vero, con le lenzuola intrise del suo profumo. «Cosa aspetti a dirle la verità?» protestò Max quando feci ritorno a casa. «Quando scoprirà che l’hai spiata per conto del marito ti odierà per sempre». «Posso amarla solo omettendo la verità» ribattei. «Non è carino, non è giusto, ma non ho alternative». Mi ero convinto che non fosse poi così grave. Ero un amante discreto, da due notti la settimana, privo di velleità di coppia, felice se la storia fosse durata il più a lungo possibile. * * * Entrammo nel salotto di Siro Ballan con una buona ora di anticipo. Il liutaio ci fece notare che sarebbe stata conteggiata. Beniamino spostò la poltrona su cui aveva deciso di sedersi per avere una posizione dominante nel caso fosse stato necessario ricorrere alle pistole. Di solito non erano ammesse tra persone perbene ma gli assassini come Spezzafumo non erano considerate tali. Il capo della banda dei rapinatori si presentò accompagnato dalla vedova di Gastone Oddo. Eravamo certi però che Denis e Giacomo, i suoi scagnozzi, non fossero lontani. L’uomo capì subito che non eravamo ben disposti nei suoi confronti e si fece guardingo quando notò il gonfiore sotto la giacca di Rossini. Gigliola era più pallida del solito. «Cos’è successo?» mi domandò. «Al telefono mi ha spaventata». «E non ho esagerato» dissi invitandoli a sedersi. «Abbiamo scoperto che Gastone è stato torturato non solo per svelare la combinazione della cassaforte ma anche o forse soprattutto per raccontare tutti i vostri affari. I vostri nemici sostengono di aver registrato ogni parola». «E chi sono questi infami?» sbottò Spezzafumo. «Ne conosciamo solo uno» rispose il vecchio bandito. «Kevin Fecchio». Nick l’orafo non fu l’unico a impallidire. Anche la donna sbiancò. Dunque pure lei sapeva dell’omicidio di Maicol Fecchio. Complice fino in fondo. «“Per tutto l’oro del


mondo non ne valeva la pena”» la canzonai citando una frase che aveva ripetuto spesso. «È questo che mi ha detto con tono contrito a proposito delle vostre attività. Solo che dopo l’omicidio di quel poveraccio non vi siete fermati affatto perché non ve ne frega un cazzo di sparare alla gente». «Ed è stato un errore» ribatté lei con la voce che tremava. Spezzafumo era di tutt’altro parere. «Questi sono cazzi nostri». «No» si oppose Beniamino. «E per due motivi. Il primo è che siete dei pericolosi dilettanti, arroganti e stupidi, che si credono dei professionisti, ed è necessario fermarvi». «Che intendi?» domandò l’uomo che credeva di aver capito male. «Che da questo momento la banda è sciolta. Tra l’altro Kevin Fecchio aspetta che organizziate la prossima rapina per sterminarvi o farvi sbattere all’ergastolo e noi siamo decisi a impedirvi di agire». «Continuo a essere convinto che non avete nessun diritto di intromettervi» balbettò Nick che faticava a controllarsi. «Ti sbagli ancora una volta» continuò Rossini, «perché noi siamo coinvolti a pieno titolo in questa storia dato che siamo stati ingaggiati da Sergio, il figlio di Luigina». Spezzafumo spazzò l’aria con un gesto infastidito. «Gigliola mi ha raccontato questa buffonata» sbottò. «Voi state usando il ragazzino per mettere le mani sull’oro». «È un’accusa grave» feci notare. «Ma forse ti sei espresso male e ora hai la possibilità di rimediare». «Non sono disposto a farmi insultare da una chiavica come te» mise in chiaro Rossini. «Chiedi scusa». Spezzafumo alzò le braccia in segno di resa. «Una parola tira l’altra, non volevo offendere nessuno». «Vi conviene fuggire il più lontano possibile» intervenne Max. «Comunque vadano le cose siete fottuti». Nicola Spezzafumo si versò da bere. «Da come la raccontate abbiamo le spalle al muro e non ho nessuna difficoltà a credervi, ma vi assicuro che nessuno di noi è disposto a fuggire o ad aspettare che Kevin Fecchio faccia la sua mossa, per il semplice motivo che non ce lo possiamo permettere. Anche noi abbiamo una famiglia e siamo troppo a corto di soldi per inventarci un nuovo futuro all’estero». «E allora?» lo incalzai. «Forse è il caso di trovare una soluzione che accontenti tutti» rispose fissando dritto negli occhi Beniamino. Il quale comprese al volo il ragionamento del rapinatore. «Insomma dovremmo aiutarvi a uscire indenni da questa situazione». «Se volete che Fecchio risarcisca il figlio della povera Luigina» s’intromise Gigliola, «dovete comunque renderlo inoffensivo in qualche modo». «C’è un piccolo problema di cui non state tenendo conto» disse Rossini. «Fecchio e i suoi complici devono pagare per l’omicidio della governante. Qualcuno morirà. E se è vero, come sostiene Kevin, che esiste una registrazione della confessione di Gastone, c’è il rischio che salti fuori e che gli sbirri vi diano la caccia». Spezzafumo scattò in piedi. «Voi siete tre pazzi furiosi» gridò. «Credete di essere la legge e non siete proprio nessuno». «Siediti!» ordinò la vedova. Nick l’orafo obbedì senza fiatare. Max e io ci scambiammo un’occhiata. La donna non aveva un ruolo così secondario come credevamo. Gigliola mi chiese una sigaretta e tirò un paio di boccate prima di parlare come una malavitosa consumata in un summit con altri colleghi dello stesso rango. «Kevin Fecchio ha torturato e ucciso mio


marito. Se si voleva vendicare della morte del fratello doveva prendersela con Nicola e i suoi ragazzi che l’hanno materialmente ammazzato, non con Gastone. Quindi anch’io ho diritto di rivalermi su di lui e sui suoi complici. Ma io rinuncio a ogni forma di soddisfazione perché ritengo che il presente e il futuro di Lara siano più importanti. E sono pronta ad accogliere Sergio nella mia casa e allevarlo come se fosse il figlio maschio che ho sempre desiderato. «Inoltre Nicola Spezzafumo vi darà la sua parola che uscirà dal giro insieme a Denis e a Giacomo. «In cambio della nostra buona volontà voi convincerete Fecchio a rinunciare a ogni ulteriore azione contro di noi. D’altronde anche lui rischia l’ergastolo. «Dal punto di vista economico possiamo contribuire con quello che mi è rimasto della vendita della villa e Nicola con qualche decina di migliaia di euro. Più o meno centottantamila». Nel salotto di Siro Ballan calò il silenzio. La vedova inconsolabile aveva mostrato il suo vero volto. Aveva addirittura cambiato tono di voce, postura, sguardo. «Sei sempre stata tu il capo» constatai ammirato. «Ma ora non ne vado fiera» ammise. «Abbiamo fatto un errore che ci ha distrutto la vita e trascinato sull’orlo del baratro». «Perché hai tentato di coinvolgerci attraverso Spezzafumo fingendo di essere contraria a ogni indagine?». La donna fece una smorfia. «Semplicemente non volevo espormi come sono stata costretta a fare oggi» spiegò. «Sono stati due anni di inferno vissuti nel dolore, nell’incertezza e nel pentimento. Gastone voleva chiudere l’attività dopo l’omicidio di Maicol Fecchio. Sono stata io a impormi. L’oro è maledetto». Cazzate. Quella donna era una discreta manipolatrice, la sua tecnica era quella di fingere sincerità nel dolersi dei suoi errori. C’ero cascato ma ora le sue chiacchiere non mi impressionavano più. Mi rimaneva solo una grande curiosità. «Eri sincera quando hai detto di volerti occupare di Sergio?». «Allora siete interessati alla proposta?». Scossi la testa deluso. «Volevo capire se per una volta dalla tua bocca fosse uscita un po’ di verità o se facesse parte della solita recita». «Io non recito, cerco solo di sopravvivere». Nick l’orafo si spazientì. «E allora cosa avete deciso?». Max s’incaponì a vedere il bluff. «Noi pensiamo solo al ragazzino. Sarà la dinamica degli eventi a decretare la vostra sorte». Fu la vedova a mostrare le carte. «Non capisco la vostra testardaggine» disse. «È evidente che se succede qualcosa a noi succede qualcosa anche a voi». Ci mostrammo sorpresi. «In che senso?». «Se ci arrestano tenteremo di evitare l’ergastolo alleggerendo in ogni modo la nostra posizione e fare i vostri nomi sarà necessario. Non è una novità che le forze dell’ordine da lungo tempo ormai cerchino di mettere in galera il signor Rossini. «Se invece Fecchio vorrà farsi giustizia da solo e ci procurerà dei danni, noi vi riterremo responsabili». «Ha tutta l’aria di una minaccia» dissi ai miei amici. «Caspita» aggiunse il ciccione. «Non me lo sarei mai aspettato ma abbiamo di fronte due menti criminali di tutto rispetto».


Beniamino non era in vena d’ironie. «Vi abbiamo fatto la cortesia di mettervi al corrente della situazione anche se non vi eravamo tenuti visto che non siete nostri clienti. Nel corso di questo incontro ci avete insultati e minacciati. «Secondo le nostre regole in questo momento dovrei estrarre la pistola e farvi rimangiare ogni parola. Però noi siamo persone di buon cuore e vi diamo una seconda possibilità perché vi abbiamo portato cattive notizie, vi siete spaventati e tutte le cazzate che avete detto sono frutto di improvvisazione. Vi invitiamo quindi a riflettere perché non ci sarà una terza occasione». «L’improvvisazione ha senso solo nel jazz» borbottai senza un motivo preciso. Forse perché avrei preferito trascorrere quel tempo con Cora piuttosto che seduto nel salotto di Siro Ballan. Spezzafumo e la vedova se ne andarono e noi rimanemmo in silenzio a riflettere tra sigarette e bicchierini di liquore. I regolari ignorano che le dinamiche interne alla criminalità sono spesso così contorte che il ricorso alla violenza può essere a volte l’unico modo per trovare una soluzione semplice. Soprattutto per cervelli come quello di Nick l’orafo. Anche Gigliola Pescarotto non era una mente sopraffina, pur essendo senz’altro più furba. Non doveva essere stato complicato mettere in piedi la banda e dominare quel gruppo di maschi. Il problema era che i perdenti avrebbero trascinato nella propria rovina anche i vincitori. Era tutto apparentemente assurdo ma nelle logiche che avevano portato allo scontro tra quelle due bande di rapinatori in realtà un senso c’era, anche se orrendamente perverso. Avidità e disprezzo della vita umana da un lato, dall’altro un’idea esasperata e folle della giustizia e della proprietà. Una miscela esplosiva di cui avevamo riacceso la miccia. «Forse non sarebbe stata una cattiva idea togliere di mezzo Spezzafumo» bofonchiò Max. Il vecchio Rossini si passò una mano sulla fronte. «Mossa pessima invece a mio avviso, anche se sperare che Spezzafumo si levi dalle palle è escluso. È uno di quei falliti che campano perché non hanno paura della galera e si credono troppo furbi per farsi ammazzare. Un gregario. Non a caso si fa comandare a bacchetta da quella strega della vedova Oddo». «Che facciamo?» domandai. «Quello che ci ripromettiamo da un po’: dare la caccia ai complici di Fecchio» rispose Beniamino. «Dobbiamo conoscere tutte le pedine in campo per capire se esiste una soluzione». «E se non la troviamo?». «Ci imbarchiamo sul Sylvie e abbandoniamo la festa. E ogni mese mandiamo un po’ di soldi al ragazzino». Già. Eravamo gli unici a non avere nulla da perdere. Ed eravamo i soli che a tutti i costi avrebbero mantenuto la parola e si sarebbero occupati di Sergio. Qualcuno si doveva salvare da quello schifo di storia. Scovare i misteriosi sodali di Kevin non sarebbe stato facile. Si trattava di persone estranee alla malavita, senza precedenti penali. Per unirsi all’orafo in quell’impresa dovevano aver vissuto la stessa esperienza. Una rapina, un morto ammazzato tra i parenti. Credevano di essere nel giusto e avrebbero dato del filo da torcere fino alla fine.



SECONDA PARTE Un contadino notò la macchina con la portiera aperta sul bordo del canale e diede l’allarme. I sub dei vigili del fuoco impiegarono un paio d’ore a individuare il corpo impigliato tra la vegetazione sul fondo. La notizia della morte di Kevin Fecchio dilagò a livello regionale. Tutti i media ne parlarono, in particolare la fitta rete delle emittenti locali che sposarono quasi immediatamente l’ipotesi del suicidio. Il ritratto che venne proposto all’opinione pubblica era quello di un sano ragazzo di campagna dalle salde radici venete, che era stato travolto dal destino e si era ritrovato a sopportare il peso di una tragedia terribile. La molla andava individuata nella totale assenza di giustizia per l’omicidio di Maicol. Nessuno era stato arrestato, processato e condannato. E Kevin, che tanto si era battuto per il diritto alla difesa dei cittadini, non aveva saputo arginare il dolore e l’amarezza che a poco a poco lo avevano divorato. I giornalisti locali non ebbero mezze misure con le istituzioni e nemmeno con la moglie, colpevole di averlo abbandonato strappandogli l’affetto dei figli. Le diedero della puttana senza possibilità di appello. L’autopsia non rilevò nulla di anomalo che potesse suggerire altre ipotesi. La notevole quantità di alcol rinvenuta nel suo stomaco non aveva nessuna spiegazione scientifica ma cronisti e opinionisti non ebbero dubbi che fosse stato d’aiuto per trovare il coraggio necessario. Eravamo gli unici a essere convinti che Kevin Fecchio non fosse caduto di proposito in quel fiumiciattolo. A dire il vero anche Nicola Spezzafumo condivideva il nostro pensiero dato che si precipitò da noi a dichiararsi estraneo all’accaduto, annunciando un’improvvisa vacanza all’estero. Ai funerali partecipò una moltitudine di cittadini. La chiesa, che per voce del vescovo si era detta certa che il caro estinto fosse stato vittima di un tragico incidente, aveva organizzato una funzione degna di un membro importante della comunità. Una gigantesca menzogna era diventata verità ufficiale e benedetta. Ci eravamo mescolati tra i dolenti e scrutavamo i maschi alla ricerca di un indizio qualsiasi che ci indicasse la pista giusta. Mi infilai nel gruppo dei cittadini dell’ordine, orfani di uno dei leader più in vista, e ascoltai inutili commenti a mezza voce. Un applauso liberatorio accolse il feretro all’uscita. «Io non voglio vedere gente che batte le mani al mio funerale» borbottò Max. «Non accadrà» lo rassicurai. «Sei stato chiaro nelle tue volontà». Ognuno di noi conosceva le disposizioni degli altri visto che non si poteva determinare l’ordine di dipartita. Rispecchiavano fedelmente quello che eravamo, e avevano in comune l’assenza di ogni tipo di funzione e la cremazione. Uscire di scena in punta di piedi leggeri come cenere. Anche perché non c’è nulla di peggio di una sepoltura semideserta. La folla si disperse e i bar si riempirono. Era quasi mezzogiorno e bianchi e spritz furono i più gettonati. Max chiese al cameriere di miscelare Aperol e Campari in parti uguali per il suo spritz. L’uomo annuì con la smorfia tipica di chi nella vita ne ha viste di tutti i colori e pensa che una in più non peggiorerà le cose. Beniamino ordinò un Sauvignon di marca. «Mi sono rotto di questo rito dello spritz » disse. «Francamente non mi sembra così buono da perderci la testa».


Max era d’accordo. «C’è di meglio, è vero. E poi bisognerebbe tornare alla classica “ombra” o ad aperitivi più seri anche dal punto di vista alcolico». Rossini indicò il bicchiere del ciccione. «E allora perché lo bevi?». «È un’altra battaglia persa e ho scelto di normalizzarmi» rispose serio. «Così ho un punto di contatto con tutta questa brava gente». Il vecchio bandito mi guardò. «Quando teorizza anche sulle cose più stupide non lo sopporto». «Non riesce ad ammettere che non ne può fare a meno» spiegai. «Capita anche a me, comunque. È fresco, leggero, e poco importa se è di moda». «Non mi avrete mai» ribadì Beniamino. Avremmo continuato ancora per un bel pezzo a disquisire su un argomento così attuale e importante se non fossimo stati distratti da una lite scoppiata tra un gruppo di avventori. Sante Zanella, amico fraterno di Kevin, era pronto a modificare i connotati di un paesano che aveva definito “dedito all’alcol” lo scomparso. Intervennero in parecchi a calmare gli animi e noi ne approfittammo per osservare Sante da vicino. Lo avevamo già escluso come complice nella rapina a casa Oddo ma era una delle due persone più vicine a Fecchio ed era difficile credere che fosse all’oscuro di tutto. L’altro chiese scusa, si difese usando la vecchia teoria che ai veneti può capitare di bere un bicchiere di troppo. E fu in quel momento che Sante ci fornì una notizia interessante: la “disgrazia” era accaduta di mercoledì. Kevin invece si concedeva qualche bicchiere il venerdì e il sabato sera, dato che la mattina seguente non si sarebbe dovuto recare al laboratorio. Mai e poi mai si sarebbe fatto vedere dai dipendenti mentre smaltiva i postumi di una sbronza. Era una delle regole imposte da Maicol e lui non avrebbe tradito la sua memoria. E per Sante questa era la prova del suicidio dell’amico, la lettera che Kevin non era riuscito a scrivere. Gli intervenuti ammutolirono e in quel momento mi sarebbe piaciuto spiegare che invece l’abbondanza di alcol nello stomaco di Fecchio era la prova che era stato assassinato dai suoi complici. Quelli con cui aveva organizzato e portato a termine una rapina in una villa con l’aggravante di un duplice omicidio. Kevin Fecchio si era bruciato e loro non avevano voluto rischiare di scottarsi. I soci si erano disfatti di lui in modo furbo ed elegante dopo che avevano saputo che tre ceffi gli avevano teso un agguato nella casa di una prostituta e che lui aveva parlato troppo nella convinzione di avere a che fare con la banda Spezzafumo. Ucciderlo si era reso necessario per tagliare i ponti con i loro delitti, per impedire che qualcuno potesse risalire alla loro identità. Fin dal primo momento avevamo scommesso che la famosa registrazione della confessione di Oddo, vera o falsa che fosse, non sarebbe saltata fuori. Gli assassini di Fecchio non avevano nessuna convenienza a mettere in mezzo gli sbirri. La faccenda avrebbe fatto così clamore che il ministro stesso avrebbe garantito uomini e mezzi per assicurarli alla giustizia. Un caso che sembrava destinato a esplodere distruggendo tutte le persone coinvolte era stato disinnescato con un semplice omicidio. Tutto veniva messo a tacere e i complici di Kevin e la vedova Oddo potevano contare sull’impunità. Noi però non potevamo adeguarci a questa linea di condotta. Il nostro cliente non aveva ricevuto alcuna soddisfazione e per quanto ci riguardava l’inchiesta continuava.


Beniamino tornò a Punta Sabbioni e alle sue scorribande sul Sylvie. Non aveva la minima intenzione di sorbirsi il grande caldo che era stato annunciato da tempo e che ora arrostiva lentamente la pianura padana. Padova sembrava un fiammifero acceso e il vecchio bandito ci abbandonò al destino di una lunga e complicata fase investigativa: selezionare dalla cronaca tutti i casi che potevano avere a che fare con l’esperienza vissuta da Kevin Fecchio e verificare se qualcuna delle vittime lo avesse incrociato successivamente. Eravamo convinti che per arrivare a un affiatamento così forte da decidere di riunirsi in una banda non dovevano vivere lontani. Avevano dovuto frequentarsi e diventare intimi, un percorso punteggiato da una lunga serie di incontri intrisi di odio, rancore, amarezza. Il dolore per quello che avevano subìto li aveva sprofondati all’inferno, dove avevano deciso di rimanere. Iniziammo quindi a selezionare gli atti criminosi più efferati perpetrati nella provincia di Vicenza. Max alzò la testa dalla cartella di ritagli di giornale che stava esaminando. «La prima volta che ho preso in seria considerazione la vendetta è stata quando hanno ammazzato la mia Marielita». Provai come sempre una fitta al petto. Anche per me si trattava di un ricordo particolarmente doloroso. Era morta tra le mie braccia, colpita dalle pallottole della mafia locale che all’epoca dominava il Veneto prima che il suo capo, Tristano Castelli, svendesse allo Stato la sua banda come un’azienda fallita. «E la morte dei suoi assassini mi ha fatto stare meglio» aggiunse dopo una piccola pausa. «La vendetta è sempre fonte di una buona dose di soddisfazione e conforto, anche se i suoi limiti sono evidenti dato che non è in grado di restituire quello che ti è stato tolto» commentai convinto. «E comunque deve essere sempre un atto di giustizia. L’esatto contrario della barbarie di Fecchio e soci». «Ancora non sono riuscito a spiegarmi perché si siano comportati come macellai di un film horror. Se si fossero limitati a eliminare Spezzafumo e a riprendersi l’oro nessuno avrebbe avuto da ridire». Mi battei il petto. «Perché non hanno un cuore fuorilegge» ribattei. «Se i regolari decidono di agire al di fuori delle loro leggi perdono il senso della misura. Anche quando rubano semplicemente del denaro pubblico. Diventano squali, predatori». «Non è così semplice, Marco». «Io invece penso di sì. Quei tre si sono lasciati andare alle peggiori nefandezze perché convinti di averne il diritto. Sono entrati in quella villa certi dell’assoluzione da ogni peccato perché ritenevano le loro vittime colpevoli, che come tali meritavano solo disprezzo». «E quando ci siamo messi in mezzo Kevin è stato sacrificato perché metteva in pericolo l’impunità degli altri due». «Un omicidio preventivo» sottolineai. «Questi non sono degli sprovveduti». «E sono certo che ci riserveranno altre sorprese» aggiunse il ciccione rimettendosi al lavoro. Tra internet e gli archivi di Max riuscimmo a ricostruire una mappa insanguinata di colpi messi a segno ai danni di ville, laboratori orafi e gioiellerie. La malavita aveva abbandonato le rapine in grande stile negli istituti di credito e aveva scelto di dedicarsi ai privati, che avevano meno possibilità di difendersi. Terrore e brutali violenze. L’assalto a casa Oddo era annoverato tra i più spietati di un lungo elenco di tragedie. E per gli sbirri non era mai facile risalire agli autori. Il Nordest era terra di confine e le bande attaccavano e si ritiravano con grande facilità. Il disprezzo per la vita umana di questa nuova criminalità globalizzata metteva i brividi. Del resto rispecchiava le logiche che dominavano il mondo. E non c’era il minimo segnale che le cose potessero migliorare.


Al terzo giorno individuammo un possibile candidato. Era domenica e in Grecia il popolo decideva con un referendum il proprio futuro economico. Il resto d’Europa applaudiva la democrazia con il fucile puntato. Il nostro uomo poteva essere un tale Ferdinando Patanè, cinquantaquattro anni. Era arrivato dal Sud alla fine degli anni Settanta e aveva aperto una gioielleria nel centro di Dolo, uno dei paesi più importanti della riviera del Brenta. Nell’inverno del 2009 due distinti signori dall’accento “slavo” erano entrati e avevano estratto le pistole. Il figlio di Patanè, Lorenzo, di ventun anni, promettente studente alla facoltà di ingegneria di Padova, si trovava nel retrobottega. I rapinatori gli avevano sparato alla schiena mentre stava faccia al muro perché, secondo il loro insindacabile giudizio, il padre era stato troppo lento a fornire alcune risposte. Il giovane si era salvato per miracolo ma era rimasto paralizzato dal collo in giù. La madre Geraldina aveva raccontato la loro tragedia con grande dignità e coraggio. Stanava i giornalisti locali e li costringeva a tenere informata la gente sul suo ragazzo senza futuro. Patanè invece aveva parlato sempre poco. Pare fosse dilaniato dal senso di colpa per non essere riuscito a raggiungere la pistola che teneva in un cassetto. Aveva chiuso l’attività in sordina e si era dedicato al figlio. Voci di paese sussurravano che la gioielleria fosse assicurata per una cifra ridicola e che la merce rapinata valesse un vero patrimonio. Errori che si pagano. Maicol e Kevin Fecchio erano stati tra i pochi a manifestare la loro solidarietà, immortalata da un fotografo all’uscita dell’ospedale dove era ricoverato Lorenzo. Patanè era un loro affezionato cliente, come avevano spiegato i due fratelli ai cronisti, e «il calvario che stavano vivendo costituiva un’ingiustizia senza fine per colpa di uno Stato che aveva rinunciato da tempo a proteggere commercianti e imprenditori permettendo alle bande criminali dell’Est di scorrazzare nel territorio». La frase era stata evidentemente aggiustata dall’estensore dell’articolo ma il concetto era chiaro. Il gioielliere aveva ricambiato la cortesia partecipando ai funerali di Maicol Fecchio. I due dovevano aver coltivato una discreta amicizia dato che Patanè teneva Kevin a braccetto. Alla fine della funzione Patanè, riconosciuto dai giornalisti, aveva rilasciato brevissime dichiarazioni tutte dello stesso tenore: pena di morte, diritto alla difesa, Stato assente e imbelle. Avevamo trovato immagini, notizie della loro amicizia fino a qualche mese prima della rapina nella villa di Oddo. Poi più nulla. L’ex gioielliere non si era fatto vedere nemmeno al funerale di Kevin Fecchio, probabilmente accampando qualche scusa credibile dato che nessuno aveva commentato la sua assenza. L’istinto e l’esperienza ci suggerivano che avevamo individuato uno dei complici di Kevin. Ma c’era un argomento molto convincente nel ritenerlo estraneo alle torture e agli omicidi. Mentre Kevin era un uomo vigoroso, in piena salute, perfettamente in grado di calarsi un passamontagna sul volto e portare a termine un crimine violento, Ferdinando Patanè era un omino basso, esile, dall’aria gracile. Di certo non era un uomo d’azione e potevamo tranquillamente escludere che avesse messo piede nella villa. Fino a quel momento avevamo ipotizzato che il gruppo fosse formato da tre uomini. Ma se Patanè faceva parte della cricca come sospettavamo significava che c’era un quarto uomo. Almeno. Un investigatore senza licenza come il sottoscritto non poteva rivolgersi alle divise per ottenere informazioni. Al contrario dei colleghi autorizzati doveva tenersi ben lontano dagli sbirri, che potevano solo portare guai.


In vent’anni di attività ero riuscito a risolvere il problema costruendo una fitta rete di informatori nel peggior sottobosco della società veneta. Tutte persone che spesso erano archivi viventi o in grado di raccogliere informazioni di buona qualità nel giro di poco tempo. Tra loro spiccava la categoria dei truffatori. Il Veneto vantava una lunga tradizione nell’arte di raggirare il prossimo. Max una volta mi aveva mostrato un nutrito elenco di ditte locali che producevano gli articoli più disparati, in particolare nel campo elettromedicale, che puntualmente venivano denunciate dalle associazioni dei consumatori. I miracolosi manufatti non erano altro che ignobili patacche, ma ammalianti pubblicità televisive convincevano centinaia di ingenui a firmare contratti capestro, confezionati da alcuni spregiudicati studi legali padovani. Mirko Zanca, il mio informatore della zona di Dolo, era un affermato professionista della truffa. Lo avevamo conosciuto quando si spacciava per seguace del medico tedesco Hamer. Aveva aperto tre studi in altrettante province e vi curava i pazienti sfiduciati dalla medicina tradizionale con farmaci naturali di propria invenzione, propinando loro la storiella della correlazione tra infelicità e patologie. Non era esoso, si faceva pagare tra gli ottanta e i cento euro perché si sentiva investito da una missione. La realtà era ben diversa: Zanca non provava alcuna pietà ed era insensibile alle sofferenze e al decesso delle persone che fingeva di assistere. Caratteristica tipica della categoria, quella di non guardare in faccia nessuno. Il truffatore rovina chiunque gli capiti tra le grinfie. Parenti compresi. Ne avevo conosciuti diversi e con il tempo avevo maturato la convinzione che quel reato dovesse essere seriamente indagato dalla psichiatria, non solo sanzionato dal codice penale. Eravamo stati ingaggiati dalla moglie di un malato di cancro, esasperata dalla decisione del coniuge di rinunciare alla radioterapia perché le cure del “dottor” Mirko erano indubbiamente più efficaci. Avevamo parlato con l’oncologo che lo seguiva, che ci aveva confermato la necessità assoluta per il paziente di tornare a essere curato in ospedale. Il giorno seguente ci eravamo presentati senza appuntamento da Zanca e il vecchio Rossini, dopo avergli puntato una pistola alla tempia, gli aveva spiegato che lui avrebbe tirato il grilletto più che volentieri ma che i suoi amici, lì presenti, gli avevano chiesto di non farlo. E lui non ne capiva il motivo: per quanto lo riguardava coloro che ingannano e derubano i malati meritano la morte. «Non uccidetemi» aveva urlato terrorizzato il finto medico. «Giuro che sparisco. Non sentirete più parlare di me». Aveva mantenuto la promessa. Si era salvato la vita ma non era sfuggito ai rigori della legge. L’improvviso abbandono dell’attività aveva insospettito alcuni pazienti che lo avevano denunciato. Era finito in galera per truffa aggravata e abuso della professione medica. Una volta fuori si era riciclato come Sensitivo Mirko, esperto conoscitore di magia bianca, rossa e nera, in grado di risolvere problemi di amore, sesso e lavoro. Il Sensitivo Mirko riceveva tutti i giorni previo appuntamento, in un appartamentino non lontano dal centro di Dolo. Impallidì quando ci riconobbe ma l’assenza di Beniamino lo tranquillizzò al punto da renderlo particolarmente ciarliero nel tentativo di giustificarsi. «Non faccio niente di male» esordì Zanca. «Racconto alle persone quello che vogliono sentirsi dire, nulla di più. E vi giuro sulla mia stessa vita che non accetto malati tra i clienti. Basta un’unghia incarnita e li rimando a casa senza pretendere nulla. Come sapete bene, mi sono costati uno spavento da infarto con il vostro amico e tre anni di galera». «Toglimi una curiosità» lo interruppe il ciccione. «Ma quando viene un disoccupato così disperato da rivolgersi a un veggente per trovare lavoro quanto tempo e denaro butta prima di scoprire che sei un


pezzo di merda?». «Veramente sono un sensitivo» chiarì per nulla offeso. «E poi da me vengono soprattutto le madri, le fidanzate, le mogli. Diciamo che per una valutazione completa del caso si può arrivare ai trecento euro. Ma non vado oltre perché io tolgo solo il malocchio che sbarra la strada alla fortuna. Che dopo può arrivare oppure restarsene nascosta. Non dipende dalla mia magia». Max mi guardò. «Ma lo senti?». Alzai le spalle. «Il nostro Mirko non cambierà mai. Comunque non siamo venuti a parlare delle sue doti di mago del cazzo ma a chiedergli delle informazioni. Qualora non le volesse fornire, ci troveremmo costretti a chiamare il nostro amico, quello cattivo». «Conosco tutti in paese» sbottò gioviale e disponibile. «Sarò ben lieto di aiutarvi». «La famiglia Patanè» pronunciai a mezza voce. Il volto del truffatore si incupì. «Posso riferire solo chiacchiere» bofonchiò. «Di loro si parlava più un tempo, quando la tragica storia del ragazzo era sulla bocca di tutti, ma ora conducono una vita ritirata, frequentano pochissime persone e non si fanno più vedere nemmeno in chiesa». Max allungò la mano per chiedermi una sigaretta. Il sensitivo storse il naso, probabilmente accarezzando per un attimo l’idea di chiederci di non fumare, ma capì che non era il caso. «Situazione economica?». «In giro si dice che se la siano vista brutta per qualche anno» rispose Zanca. «I genitori sono stati costretti a battere cassa un po’ ovunque. Ore le cose vanno meglio. Altre voci sostengono che dei donatori anonimi offrono il denaro necessario per le cure e il mantenimento». Ma guarda un po’. Sarebbe stato pericoloso ricostruire i tempi di quelle insperate donazioni con un topo di fogna come il sensitivo, ma ero certo che fossero successive alla rapina nella villa di Oddo. Max spense la cicca sull’angolo della scrivania che aveva l’aria di costare parecchio. Zanca distolse lo sguardo. «Altro da riferire?». «Una domanda specifica potrebbe essere d’aiuto» fece notare il truffatore che non vedeva l’ora che ce ne andassimo. «Vorremmo sapere chi frequenta Patanè. Gli amici più stretti, ovviamente». Zanca alzò le braccia in segno di resa. «Non lo so e non saprei nemmeno a chi chiedere» disse. «Incontro spesso il signor Ferdinando che spinge la carrozzina del figlio, ma sono sempre soli». Era quasi ora di cena quando uscimmo dallo studio del sensitivo ma il caldo non era calato di un grado. Ci sedemmo al tavolino di un bar a due passi dalla statale intasata di auto che procedevano a passo d’uomo. «Lo odio» sbuffò all’improvviso Max riferendosi al truffatore. «Ti assicuro che mi sono dovuto trattenere dal mettergli le mani al collo». Tolsi la cannuccia dal bicchiere. Odiavo succhiare gli aperitivi. «È uno dei tanti» obiettai. «Il mondo ne è pieno e non è nemmeno tra i più pericolosi. Paragonato a quelli che ti fanno mangiare cibi frutto di sofisticazioni alimentari o ti rifilano un farmaco dannoso, il nostro Mirko fa un po’ la figura del dilettante. In comune con gli altri ha solo la lunghezza del pelo sullo stomaco». Il ciccione cambiò atteggiamento. «Come mai ci siamo imbarcati in discorsi così scontati?». «Perché stiamo girando intorno a una faccenda che ci procurerà un sacco di mal di testa e giramenti di coglioni se Patanè è coinvolto».


Max sospirò e prese tempo sorseggiando lo spritz. «Anche se è il più colpevole di tutti, è comunque intoccabile». «Proprio così. Il giorno in cui i genitori non ci saranno più, Lorenzo vivrà la tragedia di un’assistenza affidata a terzi, ma fino a quel momento avrà bisogno della loro presenza». «Le esigenze del ragazzo hanno la priorità assoluta» commentò il ciccione. «Dovremo essere abili nel fargli credere di doversi meritare l’impunità altrimenti non tradirà i complici». Non eravamo affatto contenti di ritrovarci in una situazione così complicata da obbligarci a scelte difficili da accettare. Max fece subito capire quanto era infastidito. Quando pagai il conto e lasciai una mancia più generosa del solito alla cameriera il mio amico ebbe da ridire. «Solo perché è carina» protestò. «Molto carina» sottolineai. «Mi sembra poco corretto e sessista». «Hai ragione ma non me ne sbatte un cazzo». «Non ti accorgi quanto è sbagliato comportarsi in questo modo?». Mi saltò la mosca al naso. «Siamo qui che stiamo spaccando il capello in quattro per decidere se un tizio debba o meno essere abbattuto a pistolettate e mi rompi i coglioni per queste minchiate?». Rimase in silenzio per qualche istante rimuginando la risposta. «In effetti dovrei aver capito da un pezzo che la tua immaturità politica è sempre stata di impedimento alla correttezza della pratica quotidiana» disse d’un fiato. «Per questo ritengo opportuno ritirare la critica e offrirti una cena riparatrice. Di pesce, s’intende. Conosco un paio di ristoranti in zona da leccarsi i baffi». Scoppiai a ridere e gli diedi una manata sulle spalle. Sapevo che gli dava tremendamente fastidio. Trascorremmo il giorno seguente a cercare Rossini e a tentare di abbozzare una strategia per stanare Patanè e ottenere le prove che ci servivano. Tempo sprecato in un senso e nell’altro: Beniamino doveva essere in navigazione o infrattato in qualche insenatura della costa dalmata, e mettere spalle al muro l’ex gioielliere di Dolo presupponeva un’idea vincente che restava ben lontana dalle nostre menti. Uscii di casa verso mezzanotte diretto al Pico’s. Cora mi dedicò All Day, All Night, un successo di Carmen Lundy del 2001. Durante una pausa, mentre la donna di jazz era andata a rifarsi il trucco, il pianista mi disse che c’era qualcosa che non andava nel suo modo di cantare. Una tensione inspiegabile che toglieva leggerezza ai brani. «Non me ne sono accorto» dissi. «Per forza. Tu pensi solo a chiavartela in quel camerino puzzolente». «Modera i termini». «Ma come cazzo fai a non capire che andando avanti così andrà in pezzi? Hai presente un vecchio settantotto giri quando cade? Farà la stessa fine». Lo fissai sorpreso. «Sei geloso. Avrai senz’altro ragione perché sei uno del mestiere, ma è evidente che ti piace». Si passò una mano sulla testa con un gesto lento. «A forza di starle vicino mi è entrata dentro» disse


prima di rifugiarsi al bar. Avrei voluto parlare con Cora della sua interpretazione ma appena richiusi la porta alle mie spalle lei mi ficcò la lingua in bocca e mi slacciò la cintura dei pantaloni. Tra un bacio e uno sguardo infilò la mano nei miei slip e iniziò a sfiorarmi le palle con le unghie. «Funziona?» domandò. «Alla grande». Poi le sue mani si impadronirono del mio cazzo, accarezzandolo. «Fermati» implorai. «No». «Ti prego». «No». Più tardi al solito bar le parlai delle preoccupazioni del pianista, evitando di metterla al corrente della cotta che aveva per lei. Non erano fatti miei e poi ero certo che se ne fosse già accorta. «Sono alla ricerca del “centro” del mio jazz» ribatté seccata. «Ho bisogno di spaziare, di scavare nell’interpretazione». Avrei voluto dirle che stava sparando cazzate di una certa consistenza ma mi tappai la bocca, resistendo però solo qualche secondo. «Cosa c’è che non va?». Fece spallucce. «Nulla». Terminò la sua brioche e aggiunse: «Non è stata una scelta non avere figli». «E questo che c’entra?». «Così, tanto per dire. Volevo che lo sapessi». «D’accordo. Ti ringrazio di avermelo detto» tagliai corto. «Ma non te ne frega un cazzo». «No. E nemmeno mi sento autorizzato a conoscerne i motivi». «Già, tu sei l’amante». «Proprio così» ribattei. «Hai voglia di litigare, Cora? In questo caso ti avverto che non sono affatto bravo». «Che significa?». «Sono lento a ribattere» spiegai. «Le risposte migliori mi vengono in mente con una decina di minuti di ritardo». Le venne da ridere. Lentamente. Le rughe leggere che tanto mi piacevano iniziarono a distendersi per poi riprendere forma una dopo l’altra senza la minima urgenza. «Vai a casa a riposarti, stanca donna di jazz» sussurrai. Mentre attendevo l’ascensore giunse la signorina Suello, la nostra vicina preferita. «Non siete venuti alla riunione di condominio» disse con un leggero tono di rimprovero. «E mai ci verremo» le confidai. «Lei e il suo amico siete omosessuali?» chiese a bruciapelo. «Sono affari nostri, non crede?».


«Mi scusi ma qui ne sono convinti tutti. Vuole sapere come vi chiamano?». «Non mi interessa, grazie». «Comunque per me siete i più simpatici». Ringraziai la signorina e tirai fuori il mazzo di chiavi. Quando entrai in salotto trovai Beniamino in boxer a righe bianche e rosse che leggeva il giornale. Era pure di cattivo umore. «Mi avete tempestato di telefonate e messaggi costringendomi a correre in questo forno di città» brontolò. «Spero ci sia un buon motivo». «Max?» domandai abbassando di un grado la temperatura dell’aria condizionata. «Sotto la doccia e comunque non serve a nulla». «Cosa?». «Giocare con il telecomando. Più di tanto quel trabiccolo non riesce a raffreddare». Andai in cucina a prepararmi un caffè e scoprii che il ciccione aveva comprato un’altra macchina che prometteva di prepararlo come al bar, ma che io ovviamente non sapevo usare. D’altronde pentole e fornelli erano il suo regno e giocare con quelle diavolerie era suo pieno diritto. Mi accontentai di un bicchiere di latte freddo che lasciò una traccia evidente sui miei baffi. Li avevo trascurati da un po’ e si erano infoltiti in modo disordinato. Ricacciai l’idea di andare dal barbiere, faceva troppo caldo per farsi avvolgere un lenzuolo intorno al collo. Max, nel progetto di restyling della sua esistenza, aveva deciso di cambiare profumo e si ostinò a farcelo annusare sulla sua pelle. Il mio parere era neutro mentre Rossini era nettamente contrario. «Non ti sta bene» sentenziò. «Devi orientarti su quelli a base di patchouli. Sono i più adatti a voi grassi. Vi rendono più simpatici». Il ciccione si offese. «Stai parlando sul serio?». «No» rispose secco Beniamino. «Ma mi stai importunando con ’sto odoraccio di cui non me ne frega nulla mentre vorrei essere in mare aperto». Finalmente trovammo la concentrazione giusta per affrontare le difficoltà nelle indagini su Ferdinando Patanè. Solo nei film e nelle serie televisive gli investigatori sono in grado di pedinare i sospetti anche in piccoli centri. A Dolo saremmo stati scoperti nel giro di mezza giornata. Di intercettare telefoni o piazzare cimici nell’auto o in salotto era inutile discutere. Avrei saputo a chi rivolgermi ma in quella situazione non aveva senso. L’ex gioielliere andava affrontato a muso duro e costretto alla collaborazione se colpevole, altrimenti tante sentite scuse. «Avete scoperto altro?» chiese Rossini. «Patanè al momento è l’unica traccia da seguire» risposi. «Se si rivela priva di fondamento siamo nei guai» spiegò Max. «I presupposti e il metodo di ricerca sono senz’altro validi ma necessitano di tempi e verifiche più lunghi». «Secondo me è coinvolto» dissi ostentando sicurezza. «C’è una foto in cui Fecchio e Patanè sono ritratti insieme. Si fissano come se si stessero stringendo la mano per suggellare un patto. Come se condividessero qualcosa di importante. Capite quello che voglio dire?». «Sì e adesso ci è pure chiaro chi tra noi andrà a fare quattro chiacchiere con questo tizio» disse il vecchio Rossini. Non protestai per il semplice motivo che non vedevo l’ora.


La calura costrinse padre e figlio a ritardare la solita passeggiata. Da quando Lorenzo era tornato a casa dall’ospedale Ferdinando Patanè sceglieva l’ora migliore per spingere la carrozzella lungo un percorso che comprendeva entrambe le sponde del naviglio del Brenta. In autunno e d’inverno verso mezzogiorno, o anche prima se si trattava di una giornata di sole, in primavera nel primo pomeriggio e in estate qualche ora più tardi. Il giorno precedente li avevamo seguiti da lontano giusto per accertarci del tragitto e decidere il luogo in cui agganciarlo. Era stato scelto un ponte. Mi sarei giocato tutto nel tempo necessario per attraversarlo, poco più di un minuto. In sessanta secondi se ne dicono di cose. La televisione ce lo aveva insegnato da tempo. Il problema erano le prime parole. Tecnica da vendite di call center. Se le sbagli hai perduto per sempre il cliente. Uscirono di casa poco dopo le 19.30. La madre li accompagnò fino al cancello della casa, così squadrata, bianca e anonima che sembrava essere stata disegnata da un bambino. Li attesi nel punto prestabilito. Lorenzo portava un cappellino da baseball celeste sui capelli radi e il volto smunto. Guardava dritto di fronte a sé, lo sguardo accigliato ma lucido. Il genitore non smetteva di parlare. Dalla mimica facciale pensai che stesse raccontando qualcosa di divertente. Al momento giusto li affiancai. L’ex gioielliere, allarmato, girò la testa di scatto. «La morte di Fecchio è stata una mossa geniale ma non è servita a nulla» attaccai disinvolto. «Per riuscire a stare lontano dalla galera o dalla fossa e spingere questa carrozzina fino alla fine dei suoi giorni deve tradire, signor Patanè. Tutti». L’uomo mi fissava terrorizzato e procedeva come un automa. «Fermati papà» ordinò Lorenzo. A me, con un cenno del capo, fece segno di mettermi davanti a lui. «Lo so che hai un registratore in tasca» continuò. «Ma voglio comunque essere chiaro: vai a farti fottere insieme ai tuoi amici che immagino siano qui intorno». Ero travolto dalla sorpresa. «Pensi di riuscire a cavartela con queste minchiate?» sparai a caso. Sul suo volto apparve una smorfia sarcastica. «Fate quello che dovete» sibilò. «Lorenzo, ti prego» frignò Patanè. Ne approfittai per giocarmi la carta della famiglia. «E ai tuoi genitori non pensi?». «Sono una presenza costante delle mie infinite giornate e mi fate solo un piacere se me li togliete di torno» ghignò. «Il giorno della rapina mia madre mi ha obbligato ad andare in gioielleria a mettere a posto il laboratorio mentre io volevo rimanere a casa a studiare. E papà ha pensato bene di farmi sparare. Invece di afferrare quella cazzo di pistola e giocarsi la vita per difendere il figlio e il negozio si è messo a piagnucolare, esattamente come sta facendo adesso, e non è riuscito a ricordare subito la combinazione della cassaforte». Spostai lo sguardo su Ferdinando Patanè. Stava aggrappato alla carrozzella per non crollare. Era un ometto spezzato dal dolore e dal rimorso. Doveva essere terribile affrontare ogni giorno l’odio implacabile del figlio, ma non provavo pena per nessuno dei due. Erano pur sempre complici di crimini orrendi. Cambiai strategia. «Come ben sai, dato che avevamo informato Kevin Fecchio, noi rappresentiamo il figlio della governante assassinata insieme a Gastone Oddo». «Non so di cosa tu stia parlando» mi interruppe Lorenzo. «Certo che se è come dici magari anche quel tipo qualche pericolo lo corre». Ignorai la minaccia. L’obiettivo del giovane Patanè era di farmi perdere le staffe. «Vi staremo addosso finché non otterremo i nomi dei vostri complici che hanno partecipato alla


mattanza» scandii in tono duro. «Continuo a non capire a cosa ti riferisci» ribatté ironico il ragazzo. «Ma se hai terminato di importunarci, io avrei bisogno di tornare a casa per farmi cambiare il pannolone dalla mamma». Il padre girò la carrozzella e iniziò a spingere. La schiena curva, il passo incerto. Kevin e Lorenzo: odio al calor bianco. Puro, letale. L’idea di punire e derubare i criminali era nata dal loro incontro, maturando nelle loro menti offuscate dal dolore. Ferdinando: un bottegaio tranquillo, un uomo debole che i sensi di colpa avevano trasformato in complice. Gli altri due erano arrivati dopo con il compito di partecipare all’assalto alla villa di Oddo insieme a Fecchio. La selezione non poteva essere avvenuta solo sulla volontà di punire i criminali con le proprie mani. Era certamente una condizione necessaria ma non sufficiente, i due dovevano essere dotati di precise capacità operative e di una particolare propensione alla violenza. Non tutti sono in grado di trasformarsi su due piedi in rapinatori, violentatori, assassini. Lorenzo aveva vinto il primo round. Si era liberato di noi, per un po’ non saremmo più andati a disturbarlo. Mi bruciava il modo in cui mi aveva chiuso la porta in faccia. Per avere ventisette anni ci sapeva fare con le parole. Ma non era solo quello. Avevo dato per scontato i ruoli solo perché stava su una sedia a rotelle. Uno stupido pregiudizio. Dopo la batosta del fallimento con i Patanè eravamo andati a leccarci le ferite sul Sylvie. Beniamino aveva organizzato uno spuntino a base di Stilton, Sauternes e altre leccornie. Mentre curavamo il nostre ego ferito riempiendoci lo stomaco avevamo iniziato a ripercorrere in ogni dettaglio il caso, che come aveva giustamente sottolineato il ciccione non era altro che una matrioska del cazzo. A tarda notte, mentre mi concedevo una dose generosa di calvados prima di distendermi sulla cuccetta per cercare di dormire qualche ora, Beniamino disse: «In questo caso abbiamo commesso un errore di valutazione dietro l’altro. Cerchiamo di non scordare chi siamo e da dove veniamo». Poi alzò il bicchiere. «A Marius Jacob, e agli uomini liberi con il cuore fuorilegge». Max e io ci unimmo al brindisi. Il marsigliese Jacob aveva ispirato la figura di Arsène Lupin. Artista del furto e libertario convinto, agli inizi del Novecento aveva derubato i ricchi per aiutare utopie e persone in difficoltà. Una volta era penetrato per errore nella casa di un medico e oltre a non toccare nulla aveva lasciato un biglietto di scuse. I suoi obiettivi erano i parassiti. Si erano liberati di lui imbarcandolo su un piroscafo diretto alla Caienna. Se n’era andato di sua volontà nel ’54 lasciando un biglietto e due litri di vino a chi lo avrebbe trovato. La storia della criminalità europea degli ultimi centocinquant’anni raccontava vita e gesta di numerosi banditi perbene. La loro esperienza aveva costruito nel tempo un codice di comportamento a cui noi ci attenevamo scrupolosamente. Ladri, contrabbandieri, rapinatori, donne e uomini refrattari alle logiche della malavita organizzata e delle mafie, in perenne scontro con i corrotti. Una storia praticamente sconosciuta ma di cui noi facevamo orgogliosamente parte. Una storia di sconfitti che avevano vissuto il loro tempo con la testa alta e la dignità integra. Appoggiai sul tavolo il bicchiere vuoto. «Non è facile questa volta» dissi prima di alzarmi e augurare la buona notte.


* * * Dolo. Studio del Sensitivo Mirko. Il truffatore si spaventò quando riconobbe Rossini. «Cosa ho fatto di male stavolta?» balbettò. «Tranquillo Zanca» dissi. «Vogliamo solo farti qualche altra domanda, non su Ferdinando ma su Lorenzo Patanè». Il truffatore si tormentò il mento sbirciando Beniamino. Aveva tutta l’aria di aver combinato qualche cazzata. «Che c’è?» chiesi in tono duro. «Il colloquio che abbiamo avuto tre giorni fa mi ha incuriosito e ho fatto un po’ di domande ai miei clienti» rispose l’uomo senza perdere di vista il vecchio bandito. «Ti avevamo detto di tenere la bocca chiusa» gli ricordò Max. «Magari potevo esservi utile» mentì il sensitivo. «Magari potevi ricavarci dei quattrini» sbottai. «Non hai resistito alla tentazione di tentare di intrufolarti in casa Patanè per vendere le tue doti magiche, vero?». «Ho pensato che avrebbero potuto portare conforto». «E io continuo a pensare che dovresti morire per liberare l’umanità della tua dannosa presenza» disse Rossini, che stava esaminando gli amuleti sparsi per la stanza. «Forse ho trovato la persona che vi può fornire le informazioni che cercate» piagnucolò il truffatore. «E chi sarebbe?». «Un’infermiera che si è licenziata l’anno scorso. Da quanto mi è stato detto non ne poteva più delle prepotenze del giovane Patanè». «Sei in grado di contattarla?». «Ho il suo numero di cellulare». «Chiamala e falla venire qui». Il sensitivo pescò un foglietto da un vassoio, afferrò la cornetta e diede prova della sua abilità nel raggirare il prossimo. «Verrà alle 15. Prima non ce la fa» ci informò, asciugandosi il sudore sul collo. Per ingannare il tempo nell’attesa comprammo costumi, asciugamani e infradito e ci rifugiammo nella piscina comunale del paese più vicino. Non eravamo gli unici ad avere avuto quella magnifica idea, bambini e mamme facevano sentire la loro presenza urlando spesso senza motivo. Mi guardai bene dal lamentarmi con i miei amici, per esperienza sapevo come sarebbe andata a finire. Il vecchio Rossini mi avrebbe rampognato accusandomi di comportarmi come il solito radical-chic che sostiene di amare il popolo ma non ne sopporta i comportamenti. Lui in quel momento stava conversando piacevolmente con due badanti ucraine in libera uscita mentre Max con il tablet frugava internet alla ricerca di notizie. «La commissione giustizia del Senato sta facendo i soliti giochetti per impedire l’introduzione del reato di tortura nel codice penale» mi informò indignato il ciccione. Alzai le spalle. «Non passerà mai e se anche dovesse accadere sarà così annacquato che impedirà di perseguire chicchessia». «Vale la pena provarci» ribatté deciso Max. «Ormai la lista dei casi e dei morti si allunga». Ogni tanto il ciccione, in tema di diritti civili e umani, ragionava da regolare benpensante scordandosi


di conoscere fin troppo bene la realtà, e cioè che la nostra democrazia blindata concepiva la tortura come una risorsa. Le giustificazioni e le scuse arrivavano sempre con molto ritardo, dopo averla sfruttata fino alla fine. Che gli sbirri avessero carta bianca per controllare le piazze ed estorcere informazioni era strategico per i piani dei governi. Certo non dovevano esagerare e soprattutto non dovevano farsi beccare in flagrante. I procedimenti penali che faticosamente riuscivano ad approdare in un’aula di tribunale si trasformavano in teatrini indecenti. Le vittime venivano attaccate e derise da una ben oliata macchina mediatica in grado di accaparrarsi il consenso della maggioranza dell’opinione pubblica. I pochi che si opponevano erano i soliti intellettuali, artisti e professori che se lo potevano permettere e che comunque contavano sempre meno. La gente spesso è pronta a rinunciare ai diritti altrui pur di campare tranquilla. Nulla di nuovo, del resto. L’ordine pubblico, le indagini, l’esercizio stesso della giustizia, il carcere erano basati sulla violenza. Fisica, psicologica. Minacce e ricatti erano pratiche comuni. Anni prima avevo accompagnato Max a un dibattito pubblico sulla mafia di una noia mortale. Ero rimasto colpito però dallo spietato realismo di un gesuita palermitano che aveva sostenuto che il sospetto era l’anticamera della verità. Non a caso i preti avevano alle spalle la lunga tradizione dell’Inquisizione. Alla fine il metodo non era mai cambiato, era stato semplicemente perfezionato e adattato ai tempi e alle esigenze. Raramente la scoperta della verità avveniva senza l’uso di una delle infinite declinazioni della violenza. Noi lo sapevamo bene. Ci eravamo adeguati senza il minimo problema morale perché in tutta la storia della malavita non c’erano mai state ambiguità. E anche in quella vicenda, affrontata con logiche criminali da tutte le persone coinvolte, non c’era spazio per dubbi e ipocrisie. Nemmeno da parte nostra. Il nostro cuore fuorilegge evidenziava però una differenza fondamentale: tortura e violenze sessuali non facevano parte del nostro agire. Anzi. Investigare significava porre delle domande e ottenere risposte veritiere. A qualsiasi costo. «Questa è grossa!» sbottò Max interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Il nuovo sindaco di Venezia ha messo al bando quarantanove testi scolastici per bambini colpevoli di mettere in discussione la famiglia tradizionale. Teme che la lobby gay speculi sugli interessi dei bambini». Il primo cittadino di una delle più belle città del mondo era un industriale. Aveva promesso benessere e battuto facilmente il suo avversario, un giudice che prometteva invece legalità e non aveva mai avuto serie possibilità di vittoria. Venezia coniava moneta sonante alla velocità del flusso turistico. Il problema era se darla completamente in pasto al business o cercare di proteggerla dall’invasione incontrollata. I cittadini avevano scelto. Mi alzai dalla sdraio. Avevo bisogno di un goccio. «E ti preoccupi che al Senato non siano così sensibili sulla tortura?». «Mi preoccupo di tutto, Marco» rispose in tono ambiguo. Mi dissetai con un paio di bicchieri di vino bianco e tornai a sdraiarmi, deciso a dormire per recuperare un po’ di sonno. Sognai una donna del passato che riappariva all’improvviso e voleva sposarmi. Se fosse accaduto veramente mi sarei buttato ai suoi piedi. «Il sole non perdona» esclamò Max serio qualche ora più tardi, mentre ci avviavamo verso lo studio del sensitivo. «Effetto serra e buco dell’ozono lo hanno reso potenzialmente pericoloso ed è necessario


proteggersi». «A chi stai rifilando questo pistolotto?» domandai. «A te» rispose serafico. «Beniamino non ha avuto bisogno di spalmarsi la crema perché si è abbronzato navigando, mentre tu che sei bianco come un cencio te ne sei dimenticato e ora sei rosso come un pomodoro maturo». Abbassai il parasole dell’auto e mi guardai allo specchio. Il ciccione aveva ragione. Mi passai una mano sulla parte posteriore del collo e sentii che doleva al tatto. «Mi sono proprio scottato. Ho bisogno di una pomata altrimenti stanotte sarà un inferno». Max mi porse un tubetto. «Per fortuna che sono andato in farmacia a fare rifornimento». «Sei proprio uno attento alla salute tu» lo punzecchiò Rossini. «Se è alla dieta che ti riferisci, vorrei farti notare che non sono ingrassato di un grammo» si giustificò il ciccione ghignando di gusto. «Sto conservando la mia ciccia come fosse protetta dall’Unesco». Quando Zanca fece entrare l’infermiera nella stanza destinata ai consulti e alle pratiche magiche ci trovammo di fronte una quarantenne molto carina. Bel viso, gambe lunghe. Stonavano solo i capelli corti, il tailleur color nocciola in lino grezzo dal taglio antiquato e i sandali. Erano identici a quelli che indossava una mia vecchia professoressa del liceo. Rossini era seduto sulla poltrona, Max e io ai lati della scrivania. Un’immagine da giuria televisiva, quando gli stronzi di turno esaminano i concorrenti e devono convincerli di possedere autorevolezza e competenze necessarie. «Si sieda» esordì Beniamino indicandole una sedia piazzata a un paio di metri di distanza. Sensitivo Mirko le strinse un braccio. «Ascolti questi signori Serenella, hanno una proposta interessante da farle» disse prima di uscire come gli era stato ordinato. Lei obbedì docilmente ma il volto suggeriva ben altro. Non capiva quello che stava accadendo e la nostra presenza la metteva a disagio. «Chi siete e cosa volete?». «Giornalisti, poliziotti, assicuratori, circensi» risposi. «Qualunque cosa stia immaginando va bene perché non è importante. Lo è invece il fatto che noi vogliamo offrirle del denaro in cambio di alcune informazioni su Lorenzo Patanè». Serenella era una donna pratica. «Di che tipo?». «Vogliamo sapere chi sono le persone che frequentava quando lei lo assisteva». «E quanto mi offrite?». Rossini tirò fuori un fascio di banconote dal taschino della giacca. «Cinquecento». «Duemila» rilanciò la donna. Fingemmo di consultarci. «D’accordo» disse Beniamino. «E cinque sedute gratuite con Sensitivo Mirko». Max ne approfittò per divertirsi. «Se le informazioni sono di qualità gliene offriamo dieci». L’infermiera annuì soddisfatta, intascò il denaro e iniziò a raccontare. «All’inizio la casa era sempre piena di gente, poi a poco a poco si è svuotata. Lorenzo non ha mai accettato la sua condizione e con il tempo è diventato sempre più sgradevole. Io sono stata costretta ad andarmene perché mi tormentava con domande molto personali, voleva che gli raccontassi della mia vita privata e se non lo accontentavo diventava crudele. Mi insultava in modo tremendo. Ho saputo che hanno


assunto un infermiere ma che nemmeno lui è contento». Non stava raccontando quello che ci interessava e con garbo glielo feci notare. Andò dritta al punto. «Fino a quando ho lavorato in quella casa ho visto qualche volta Kevin Fecchio, l’imprenditore che si è suicidato da poco, e Vick Bellomo, il migliore amico di Lorenzo. Lui veniva molto spesso quando era in Italia. Però mi è capitato di incontrarli solo quando staccavo in ritardo, altrimenti arrivavano quando non c’ero. Mi accorgevo che erano passati a trovarlo dalla puzza di fumo e dai bicchieri sporchi». «Bellomo andava spesso all’estero?». «Sì, stava via alcuni mesi ma ora ha smesso. Circa due anni fa ha aperto una birreria qui vicino, con un altro tizio che lavorava con lui». «E di cosa si occupava?». «Da quello che ho capito dai discorsi tra i Patanè, era una specie di poliziotto e faceva la guardia del corpo per dei pezzi grossi». «Anche il suo socio della birreria?» chiesi. «Così ho sentito dire». Ci scambiammo occhiate soddisfatte. Quei due tizi avevano tutta l’aria di avere un passato da contractor, mercenari che svolgevano servizi di sicurezza in zone di guerra. Cinquemila euro al mese e licenza di sparare. Dei connazionali arruolati in queste società con fatturati da capogiro si parlava poco, pochissimo. Italiani brava gente. La signora Serenella se ne andò soddisfatta. Non aveva detto nulla di compromettente e aveva guadagnato un bel gruzzoletto, oltre alla potenza della magia di Sensitivo Mirko, che rischiò uno svenimento alla notizia che avrebbe dovuto truffare gratuitamente la donna. «Non è giusto» protestò. «Dieci sedute sono troppe». «Fattene una ragione». «Voi non capite. Serenella ha problemi d’amore, è separata e vuole tornare con il marito che nel frattempo si è messo con un’altra, ovviamente più giovane». «E allora?». «Queste sono faccende che si liquidano in due, tre incontri al massimo perché non c’è soluzione, se la tiro avanti così a lungo significa che sono proprio scarso e Serenella lo andrà a dire a tutti». Beniamino gli appoggiò una mano sulla spalla. «Hai tutta la nostra solidarietà». Il sensitivo rimase sorpreso della bonarietà del tono del vecchio gangster, dovuta unicamente al fatto che per la prima volta potevamo arrischiarci a essere ottimisti. Max accese il tablet per frugare su internet. «Bad Boys Pub» scandì, «di Ludovico Bellomo e Salvatore Adinolfi». Qualche secondo più tardi stavamo ammirando le loro foto pubblicate sulla pagina Facebook del locale. Grandi, grossi, palestrati, capelli rasati e folte basette scolpite. Se non fosse stato per la differenza di carnagione e alcuni tratti del volto potevano essere scambiati per fratelli. Ludovico, “Vick”, era giovane, doveva avere ventisette, ventotto anni, l’età di Lorenzo Patanè. Adinolfi viaggiava tra i trentacinque e i trentotto. «Forse le bamboline della matrioska sono finite» dissi. «Raccogliamo un po’ di informazioni e domani sera andiamo a bere una birra da questi signori» propose Rossini.


Non mettemmo mai piede al Bad Boys Pub. In vent’anni di attività investigativa non era mai accaduto di dover considerare gli eventi atmosferici tra le variabili di un caso criminale. Ed era dal 1930 che un tornado così distruttivo non si abbatteva sul territorio italiano. Poche ore dopo l’incontro con l’infermiera, la zona di Dolo venne devastata dalla furia di una tromba d’aria che viaggiava a oltre trecento chilometri all’ora. Di un’antica villa non rimasero che le fotografie a testimoniarne l’esistenza e la bellezza. Centinaia di case furono scoperchiate, i mobili volarono via come fogli di carta. Volontari, giornalisti e politici a caccia di voti accorsero in gran numero. La situazione era più grave di quello che era sembrato in un primo momento. Un trafiletto del quotidiano locale ci informò che anche l’abitazione dei Patanè aveva subìto danni seri. A quanto pare al Bad Boys Pub era andata peggio. I proprietari avevano diffuso la notizia che il locale sarebbe rimasto chiuso per un mese. Il vecchio Rossini decise di andare a verificare e scoprì che erano stati danneggiati il tetto e parte della cucina. Un paio di settimane, non un giorno di più, aveva garantito il geometra incaricato dei lavori. Un giovanotto simpatico e ciarliero, che invidiava Vick e Salvatore perché avevano approfittato della situazione per concedersi una vacanza. «Sono operativi» annunciò Beniamino quando risposi al telefono. «Hanno deciso di muoversi per primi».



TERZA PARTE Il tavolo sottocoperta del Sylvie era disseminato di parti di armi che Rossini puliva e oliava con cura meticolosa. «Hanno approfittato del tornado per sparire» dissi cercando di mettere insieme i fatti, «ma non riesco a credere che siano già risaliti alle nostre identità e siano pronti a eliminarci». «Dimentichi che il primo ad avere a che fare con noi è stato Fecchio. Hanno avuto tutto il tempo per indagare su di noi» obiettò Max. «Cosa sanno di certo?» chiese Rossini. «Che rappresentiamo il figlio della governante» risposi. «Lo abbiamo detto sia a Kevin che ai Patanè». «E poi tutto quello che hanno estorto a Gastone Oddo» aggiunse Max la Memoria. «I loro obiettivi più probabili possono quindi essere il ragazzino, la vedova e la banda Spezzafumo» riassunse Beniamino passando lo scovolino nella canna di una calibro .45. «Sergio ha dodici anni, non sa nulla, non credo lo vogliano colpire per arrivare a noi. Si tratterebbe di una mossa insensata» ribattei. «Ora che abbiamo identificato Lorenzo Patanè si sentono vulnerabili ed è logico pensare che si vogliano proteggere facendo piazza pulita». «Sono d’accordo» disse Beniamino. «Bisogna avvertire quell’arpia di Gigliola». «Ci penso io» dissi. «E io mi occupo di raccogliere informazioni sui due ex contractor» aggiunse Max. «Conosco una giornalista che sta monitorando l’arruolamento a livello locale da parecchio tempo». «D’accordo. Io vado a dare un’occhiata al ragazzino, casomai ci fossimo sbagliati» concluse Rossini. Mentre guidavo verso Piove di Sacco a bordo della mia amata Škoda Felicia, ascoltando a tutto volume Papadon Washington che cantava The Blues Is My Story, ricevetti una telefonata dal marito di Cora. «Ha un altro, ne sono certo» sbraitò. Lo ero anch’io e, sollevato del fatto che non avesse ancora capito che si trattava del sottoscritto, finsi un atteggiamento disinteressato e professionale. «E come lo hai scoperto?». Rimase in silenzio, indeciso se rispondere. «La cesta della biancheria» borbottò. «Scusa?». «L’ho aperta per infilarci una camicia e la zaffata dell’odore di “sesso” di un uomo mi è entrata dritta nelle narici». Mi era capitato altre volte di incontrare coniugi che scoprivano tresche grazie a un olfatto particolarmente sviluppato e diffidente. «Tutto qui?» risposi a casaccio. «Non mi sembra una prova affidabile». «Senti, non voglio fare la figura del marito morboso che arriva ad annusare le mutandine di sua moglie, ma non voglio passare per un coglione. Ho bisogno di chiarezza». «Capisco, cosa intendi fare?». «Deve trattarsi di qualcuno del giro di quel locale dove canta». «E allora?». «Voglio andarci di persona. Ho bisogno del nome, l’altra volta ti sei scordato di dirmelo». Non era stata una dimenticanza. «Se fossi al tuo posto non mi farei vedere mentre canta. Non te lo


perdonerebbe mai». «E tu che cazzo ne sai? Che non sei stato nemmeno in grado di scoprire che andava a letto con un altro». «Non puoi esserne sicuro». «Questo lascialo decidere a me. Come si chiama quel maledetto posto?». Sbuffai. «Pico’s Club». «Sono contento che tu mi abbia restituito l’anticipo» disse in tono bellicoso. «Così non sono costretto a chiederti di ridarmi i soldi». Riattaccò prima che potessi ribattere. Avrei voluto chiamare la donna di jazz e avvertirla ma non potevo per il semplice motivo che lei era convinta che io non conoscessi il marito. Una situazione del cazzo. Potevo solo attendere e sperare che nell’inevitabile scontro tra marito e moglie non saltasse fuori il mio nome. La ricrescita dei capelli bianchi al centro della testa era così evidente che per un attimo fui tentato di farglielo notare. Ma me ne guardai bene non appena mi ricordai chi avevo di fronte. Anche quel dettaglio faceva parte del personaggio che Gigliola Pescarotto interpretava: la donna travolta dal destino cinico e baro che sopravviveva contando esclusivamente sulle proprie forze. «Sono sorpresa di questa visita» disse in tono annoiato. «Pensavo che dopo il suicidio di Kevin Fecchio la faccenda fosse definitivamente chiusa». «Dimentichi che abbiamo un cliente». «Smettila con questa stronzata, dimmi che vuoi e togliti dalle palle». Mi piaceva di più nella versione capobanda. «Non essere maleducata, sono venuto per un puro atto di cortesia, potevo anche risparmiarmi la fatica». «E forse era meglio». Mi seccai. E ci andai giù pesante. «Sono qui solo per tua figlia, per evitare che faccia una brutta fine». Cambiò atteggiamento. «Che succede?». «Abbiamo identificato il resto della banda che ha ammazzato tuo marito e la povera Luigina. Pensavano di essersi messi al sicuro dopo aver eliminato Kevin ma siamo riusciti a stanarli». «Chi sono? Dimmi i nomi di quelle bestie». Tutti quel giorno pretendevano di avere informazioni dal sottoscritto. Agitai deciso l’indice. «No» dissi e non riuscii a trattenermi dal farle il verso. «Nemmeno per tutto l’oro del mondo». «Ho il diritto di saperlo». «Dimentichi però che io non ho nessun dovere nei tuoi confronti» ribattei. «Quello che posso dirti è che in questo momento sono in giro, armati e pericolosi. Hanno senz’altro qualcosa in mente, magari farti visita o fare piazza pulita della banda Spezzafumo». Afferrò delle forbici da sarto. «Dimmi chi sono. Altrimenti come cazzo faccio a difendermi?». «Non minacciarmi» sibilai. «Fatti proteggere da Nicola e dai suoi scagnozzi, anche se credo che gli altri siano più forti. Un buon consiglio è quello di anticipare le vacanze». Perse il lume della ragione, balzò in piedi e cercò di infilzarmi con quelle cesoie. Per fortuna era magra come un chiodo e dopo una breve colluttazione riuscii a disarmarla e a buttarla a terra con una spinta.


«Fai le valigie e scappa» le ribadii mentre uscivo dall’ufficio. Le sue grida mi inseguirono. «E dove? Per quanto? Così ci farai solo ammazzare, bastardo». Mi fermai in un bar poco lontano. Ero scosso. Quella mano armata di acciaio affilato che cercava di farsi strada per squarciarmi il petto mi aveva fatto paura. Ordinai un caffè e una grappa. Qualche minuto più tardi chiamò Nick l’orafo. «Dobbiamo incontrarci». «Non abbiamo nulla da dirci». «Ci stai mettendo in una situazione pericolosa che provocherà solo problemi. Anche tra di noi». Ero stanco di essere minacciato da esseri ignobili. «Non vi meritavate nemmeno di essere messi sull’avviso. Noi ci siamo comportati correttamente e tu non ti devi permettere di farmi certi discorsi». Spezzafumo non era uno sprovveduto, capì di essere partito con il piede sbagliato. «Potremmo unire le forze» propose. «Con voi non verremmo a bere neanche un caffè, figurarsi stringere un’alleanza». «Converrebbe a tutti». «È vero» concordai. «Ma noi non vogliamo avere a che fare con gente come voi». «Mi stai insultando». «Mi fa piacere che tu lo abbia capito». Lo sentii sospirare. «Hai chiuso ogni spazio di trattativa». «Esisteva solo nella tua fantasia». «Aspettatevi delle conseguenze». «A questo punto devo ricordarti le parole di Rossini sulle vostre minacce e chiederti di fare marcia indietro. Lo sai come funziona». «Non farmi ridere. Siete in tre ma solo il vecchio vale qualcosa, tu e il grassone siete capaci solo di far prendere aria ai denti. O mi passi in questo istante tutte le informazioni su quei tizi o la pagherete cara». Riattaccai e ordinai un’altra grappa. Nicola Spezzafumo era un povero idiota e non c’era modo di sistemare il guaio che aveva appena combinato. Tornai a Padova. Trovai Max in fila in una gelateria non lontano da casa. Era indeciso sui gusti e fu impossibile convincerlo ad ascoltarmi fino a quando non scelse tra tre tipi di crema e quattro di cioccolato. Poi divorò il gelato in fretta, cono compreso, per impedire che il caldo lo riducesse in poltiglia. Un caffè e una sigaretta e si dichiarò pronto ad ascoltarmi. «Abbi pazienza» si scusò. «Ma a volte se non soddisfo la mia fame nervosa vado in confusione». Mi insospettii. «Cos’è successo?». «La giornalista, sai quella che si occupa di contractor». «Non ti ha passato le informazioni». «No, è stata molto carina e molto utile». Capii subito cos’era accaduto. «Così carina che ci hai provato e lei ti ha fatto correre». Il mio amico aveva lo sguardo afflitto. «Mi ha esplicitamente detto che non le piacciono le persone obese, maschi o femmine che siano. Ritiene che l’adipe sia sintomo di sciatteria e di debolezza».


«E tu?». «L’ho ringraziata del favore e me ne sono andato con la coda tra le gambe». «Non le hai detto nulla? È stata inutilmente sgradevole». Max sbuffò. «Lo so ma sul momento mi ha steso come se mi avesse dato un calcio sui coglioni. Per fortuna che nel freezer c’era la solita teglia di melanzane alla parmigiana di quella santa donna della signorina Suello». «Ben quattro porzioni abbondanti». Mi prese sottobraccio. «Appunto. E poi il gelato, il caffè, la sigaretta, adesso a casa mi bevo un liquorino per digerire e sono pronto ad affrontare il nostro caso senza essere distratto dal mio ego ferito». «Era carina, almeno?». «Sì, ha un culo che, nonostante tutto, continua a godere della mia più sconfinata ammirazione». Ludovico “Vick” Bellomo e Salvatore Adinolfi si erano conosciuti in Libia proteggendo uomini d’affari italiani per conto di una società belga. Provenivano da esperienze diverse. Bellomo aveva svolto servizio per un breve periodo anche in Afghanistan mentre Adinolfi era stato un paio d’anni in Iraq. Non erano personaggi di rilievo e non avevano mai frequentato ambienti politicamente schierati. Sembrava fossero interessati solo ai soldi. Infatti erano stati licenziati in tronco perché, secondo l’informatrice di Max, i due avevano tentato di saccheggiare la casa di un loro cliente. «Mercenari del cazzo, insomma» commentai. «Senza di loro Fecchio e Patanè non avrebbero mai avuto il coraggio di organizzare la rapina in villa». A mia volta misi al corrente il mio socio dei simpatici colloqui intercorsi con Gigliola Pescarotto e Nicola Spezzafumo. «Una ha tentato di accopparti e l’altro ci ha minacciati per la terza volta» commentò il ciccione. «Sai cosa accadrà quando Beniamino lo verrà a sapere. Le regole sono chiare, la vedova si salverà perché ha una bambina ma Spezzafumo è morto». «Lo so» dissi. «E dato che questo è un punto assodato della faccenda, perché non si può lasciare in vita uno che da un momento all’altro può riempirti di piombo o assoldare qualcuno che lo faccia al posto suo, ti propongo una possibile soluzione del caso a partire da questo triste evento». Mi era venuta in mente sorseggiando la seconda grappa nel bar dove mi aveva raggiunto la telefonata di Nick l’orafo. Le parti in causa avevano sempre ragionato secondo precisi schemi criminali e poco importava che vi fossero coinvolti dei regolari come Fecchio e Patanè che adducevano moventi più nobili del vil denaro. Per mettere la parola fine a quella vicenda era necessario che rimanessimo all’interno di quelle logiche contorte. Nella malavita quando si prospettano situazioni in cui si rischia una mattanza, se possibile, si cerca di instaurare una trattativa per limitare il numero dei cadaveri. La morte di Spezzafumo nel mio piano sarebbe dovuta essere l’unica di quel gruppo, e Gigliola, Denis e Giacomo si sarebbero ritirati a vita privata come, del resto, gli era stato ordinato. Ora si trattava di contenere i danni anche sul fronte opposto e l’unico modo era creare le condizioni del dialogo. A differenza di quello che pensa la gente comune, le bande rivali che hanno un problema serio da risolvere parlano e parecchio prima di passare all’opzione ammazzamenti. Convinsi Max senza grandi sforzi e telefonai a Rossini, che vegliava sull’incolumità del ragazzino.


«Come va?» domandai. «Non si è visto nessuno». «Vorrei tornare a fare due chiacchiere con padre e figlio, ma ho bisogno che anche tu sia d’accordo». «Puoi dirmi qualcosa di più?». «No». «Max che dice?». «È d’accordo». «E allora lo sono anch’io. Cerca di tornare tutto intero». La casa dei Patanè era stata scoperchiata dalla tromba d’aria. Grandi teloni di plastica coprivano il tetto privo di tegole in attesa dell’intervento dei muratori. Da un vicino seppi che si erano trasferiti in una casetta messa a disposizione dal comune di Dolo. Non era distante e impiegai solo qualche minuto a localizzarla. Un giardinetto e una costruzione a un piano pensata per ospitare disabili. Avvicinandomi alla siepe di ligustro che fungeva da recinzione sbirciai nella cucina dove la signora Patanè stava preparando la cena. Feci il giro della casa ma sembrava che la donna in quel momento fosse sola. Immaginai che padre e figlio fossero impegnati nella solita passeggiata e li attesi seduto in macchina, continuando la terapia consigliata da Catfish con il blues contaminato della Funky Butt Brass Band. Controllai il cellulare alla ricerca di messaggi di Cora. Anche se mi trovavo alle prese con quella storia in cui si cominciava a compilare la lista dei morituri, la donna di jazz era un pensiero costante. Volevo vederla, amarla, stringerla tra le braccia e baciarla. Mi ero innamorato perdutamente. Ma non avevo mai pronunciato parole chiare per dirglielo. Temevo che si allontanasse. Lei era sempre stata attenta a non lasciarsi sfuggire nulla che non rientrasse nei codici degli amanti. Una perfezione da manuale anche se ero certo di piacerle sul serio, e che le capitasse di pensarmi e desiderarmi. Ma entrambi eravamo consapevoli che non avevo nulla da offrirle. Ero l’amante a cui dire addio un giorno. Premetti il tasto off dello stereo quando vidi sbucare la carrozzella da una stradina laterale. Padre e figlio stavano in silenzio, i volti tirati per la tensione. Tra la casa danneggiata e i due ex mercenari alla macchia non dovevano certo passarsela bene. Scesi dall’auto e mi avviai verso di loro, ostentando una tranquillità che non possedevo affatto. Ferdinando appena mi vide smise di spingere. Entrambi mi fissavano con espressioni differenti. Paura e disprezzo. Lorenzo era un osso duro. Era convinto di non avere nulla da perdere e forse era vero. «Vi conviene ascoltarmi» dissi, mostrando che non nascondevo registratori. «Vogliamo offrirvi la possibilità di trovare una via d’uscita». «E come mai tanta magnanimità?» ghignò il giovane. «Per contenere il numero dei morti e in generale i danni di una guerra tra bande» spiegai come se fossi un broker che spiega al cliente perché è conveniente investire nelle azioni di una tale azienda. «Bellomo e Adinolfi possono eliminare un certo numero di nemici, ma poi cosa faranno? Torneranno a spinare birra in attesa che qualcuno entri al Bad Boys Pub e li ammazzi?». Puntai l’indice contro Lorenzo, che era rimasto pesantemente colpito dal fatto che conoscessi i nomi dei suoi complici. «Dei tuoi genitori non te ne frega un cazzo. Sei stato chiaro su questo punto ma dopo di


loro toccherà a te. E ti sbagli se pensi che non troveranno un modo orribile per farti schiattare. Una volta c’era un albanese nelle tue condizioni che faceva il gradasso perché convinto di non avere nulla da perdere. è stato così coglione da permettersi di infangare la memoria del padre di un boss locale. Lo sai che hanno fatto? Lo hanno chiuso in una cantina piena di topi affamati. Lo hanno sentito gridare per due giorni». Ferdinando Patanè cedette alla tensione e si sedette sul bordo di un muretto. «Lo avevo sempre detto che sarebbe finita male» balbettò con voce rotta. «Zitto!» ordinò il figlio. «Non ti sopporto quando ti comporti così». «Non avete nessuna possibilità di cavarvela» insistetti. «È arrivato il momento di parlare e trovare una soluzione». «E quale sarebbe?» si decise a chiedere Lorenzo annunciando di fatto la resa. «Bellomo e Adinolfi hanno violentato, torturato e assassinato Luigina Cantarutti insieme a Kevin Fecchio. Uno dei due deve morire» risposi in tono piatto. «Dopodiché dovete risarcire Sergio, il figlio di Luigina, con trecentomila euro». Ero abbastanza sicuro che non fossero in possesso di una cifra così importante ma non era il momento di mercanteggiare. I due mi fissarono come se fossi pazzo. Ferdinando addirittura con la bocca aperta. «Ci chiedete l’impossibile» borbottò Lorenzo. Finalmente la paura lo obbligava a ragionare. «Niente affatto» ribattei. «Dovete solo scendere un altro gradino della bassezza criminale, finora avete dimostrato una spiccata attitudine al riguardo». «Forse dovremmo confessare tutto ai carabinieri» intervenne il padre che faticava a respirare. «È un’opzione dignitosa» riconobbi. «A noi non piace perché perderemmo il denaro destinato al piccolo Sergio, ma servirebbe certamente a impedire ulteriori eventi luttuosi. E poi sarebbe il processo del secolo, con al centro la mente criminale di suo figlio che pianifica assalti e omicidi ed è pronto a tradire un uomo come Kevin Fecchio. Il vostro avvocato avrà certamente qualche difficoltà a convincere la corte a non fargli trascorrere il resto della vita a succhiare cazzi in un centro clinico penitenziario». Ferdinando Patanè scoppiò a piangere. Il figlio qualche ragione l’aveva: quel vecchio era una vera lagna. Gli passai un foglietto su cui era annotato il numero di un cellulare. «Vogliamo un incontro anche con Bellomo e Adinolfi» dissi. «Dovrete essere presenti. Chiamatemi quando siete pronti». «Ma lei non ha proprio pietà!» singhiozzò rabbioso il padre. «La pietà è morta con Luigina» ricordai. «In queste storie non c’è mai spazio per i buoni sentimenti. Avete dimostrato di saper ragionare come mafiosetti di basso rango. Continuate così e ve la caverete». Girai i tacchi e me ne andai, abbandonandoli a una disperazione cupa da cui non si sarebbero più liberati. Per quanto mi riguardava ero invece più che soddisfatto. Lorenzo aveva rinunciato subito alla spavalderia, dimostrando che i due ex mercenari non erano affatto in grado di risolvere la situazione. Si dovevano nascondere da qualche parte in attesa di capire come agire. E poi si prospettava la possibilità di risolvere la faccenda non proprio in sordina, come avremmo sperato, ma quantomeno senza richiamare l’attenzione di sbirri e stampa, che avevano senz’altro di meglio da fare che occuparsi di un caso che mai avrebbero voluto scoperchiare. In galera, per sopravvivere e per impedire che diventasse un luogo ancora più invivibile, mi ero


inventato il ruolo di pacificatore tra le diverse fazioni della malavita. Un mestiere duro, difficile e pericoloso, che però mi aveva insegnato a conoscere mentalità e comportamenti e soprattutto a capire che più una porta sembra chiusa, più bisogna insistere a bussare. Per questo, dopo aver informato brevemente i miei soci, mi diressi a Piove di Sacco per riprendere il discorso con Gigliola Pescarotto. A quell’ora il maglificio era chiuso e studiai la mappa del navigatore per potermi avvicinare a casa sua senza rischiare sorprese. Ero certo che non avesse seguito il mio consiglio di fuggire per un po’ di tempo. Parcheggiai a due traverse di distanza e avanzai cauto, rasentando le siepi delle villette. I cani mi fiutarono subito ma non mi preoccupai più di tanto, d’estate abbaiano per qualsiasi motivo e i padroni non si allarmano. La casa della vedova era immersa nel buio, dalle tapparelle chiuse filtravano rare lame di luce. Rimasi a osservarla al riparo di un albero. Dopo una decina di minuti notai la fiammata di un accendino e poi il puntino della brace di una sigaretta che diventava rossa a ogni boccata. Doveva trattarsi di Giacomo o di Denis. Probabilmente uno stava dentro e l’altro fuori, nascosto nel buio. E così la vedova aveva scelto di dare battaglia, aveva messo al sicuro la figlia ed era rimasta ad attendere i macellai che le avevano scannato il marito. Non era una strategia intelligente, sempre che non avesse escogitato qualche altra diavoleria. Tornai all’auto e la chiamai. «Non è stato carino cercare di farmi fuori» dissi. «Non esagerare. Volevo farti un ricamino sulla faccia per convincerti a essere più collaborativo». «Balle. Avevi perso il controllo» ribattei. «Comunque ti pensavo sulla Costa Azzurra e invece sei barricata in casa con un gorilla di guardia che non passerebbe inosservato nemmeno a un cieco». Rimase in silenzio una decina di secondi, il tempo di realizzare che non ero distante. «Dove ti trovi?». «Vicino, se è questo che ti interessa, ma non ho mai pensato di farti visita» risposi. «Per ora mi accontento di parlarti. Nicola Spezzafumo potrebbe essere un argomento di interesse comune». «E perché?». «Ieri ha oltrepassato il confine. E non farà più ritorno». «Questo lo dici tu». «Lo sai che andrà così». «E anche se fosse?». «L’evento potrebbe suggellare un patto. O tu e i suoi orfani vi dedicate a un’onesta vita di lavoro in patria oppure emigrate nelle Americhe come veneti dell’Ottocento, e anche il più piccolo screzio finisce dimenticato». Altro silenzio. Questa volta più lungo. «Mi sembra un’offerta da prendere in considerazione». Chiusi gli occhi per concentrarmi su ogni singola parola. «Allora possiamo parlarne» confermai. «Ma certo! Prima chiudiamo questa storia e meglio è per tutti». «Nick è un tuo vecchio amico» rilanciai. «E lo ricorderò con grande affetto per tutta la vita» disse Gigliola. Stava mentendo. Ne ero certo. Ormai era un libro aperto. Dopo l’omicidio di Kevin Fecchio aveva capito che poteva rimettere in attività la banda, continuare il vecchio progetto di portare a segno alcuni colpi, trasferirsi all’estero. E lì rifiorire. Strapparsi di dosso la maschera della donna tragica e diventare quello che aveva sempre sognato.


Con Nicola Spezzafumo al posto di Gastone Oddo. Probabilmente avevano già in mente una rapina, nonostante il vecchio Rossini fosse stato molto chiaro nel diffidarli dal continuare ogni attività criminale. Con lei e Spezzafumo non c’erano margini per una trattativa, però andare fino in fondo sarebbe stata una sconfitta per tutti. Per i morti e per i vivi. Ero certo che lei avesse fatto bene i suoi calcoli e che avesse messo in conto che le nostre regole non prevedevano che una madre, con una figlia orfana di padre, finisse sottoterra, nemmeno se si trattava di una criminale del calibro di Gigliola Pescarotto. Le leggi non scritte che dominavano l’illegalità erano complesse e di non facile interpretazione. Appartenevano a un mondo in via di estinzione di cui noi facevamo pervicacemente parte. La criminalità globalizzata che rappresentava la modernità le aveva eliminate tutte, l’unico elemento regolatore tra le organizzazioni erano i rapporti di forza. Noi eravamo rimasti tra i pochi uomini liberi a osservare scrupolosamente le regole. Era l’unico modo per tutelare i deboli e le vittime. E le coscienze. Ritornai a Padova e feci un salto al Pico’s. Non era la serata giusta per incontrare Cora ma volevo fare due chiacchiere con il pianista. Quando la donna di jazz era di riposo suonava in trio con un chitarrista e un clarinettista. Attesi la prima pausa per intercettarlo al bar. «Posso offrirti qualcosa?». Mi guardò male. «È a lui che devi pagare da bere» rispose indicando il barman che annuì sorridendo. «D’accordo, ma posso sapere perché?». «Ieri sera il marito di Cora mi ha allungato dieci euro per sapere se c’è qualcuno che le ronza attorno» sghignazzò mentre preparava un gin tonic. Mi si gelò il sangue. «E tu cosa hai risposto?». «Che non sapevo nulla. Per dieci euro non mi sporco le mani, ma per cinquanta...». Tirai fuori il portafogli e sbattei sul tavolo due banconote da cinquanta. «Una per te e l’altra per le consumazioni dei musicisti». Le fece sparire con l’abilità di un prestigiatore. «Che ha fatto poi il marito?» domandai. «Nulla. Ha ascoltato e se n’è andato prima della fine». «Lei lo ha visto?». «Altroché! Non l’ho mai vista così incazzata». E poi a casa sarà esplosa la lite. Mi dispiaceva per Cora. Non voleva che il marito scoprisse la sua isola di libertà ma io non potevo tacere, altrimenti lo avrei insospettito. “Che cazzo di casino” pensai mentre decidevo di fermarmi a bere un paio di bicchieri. Tornai a casa leggermente ebbro e feci la conoscenza di Antun e Dalibor, due dalmati taciturni che il vecchio Rossini aveva chiamato in aiuto casomai fosse stato necessario sparare. Avevano più o meno l’età di Beniamino e un aspetto così truce che decisi di non chiedere informazioni sul loro passato. Nella ex Jugoslavia la criminalità non era rimasta neutrale e in molte occasioni era stata decisiva nelle operazioni di pulizia etnica. «Rossini sta tornando» mi informò Max. «Intorno al ragazzino c’è il deserto». Indicai i nostri ospiti con un cenno del capo. «Anche noi abbiamo i nostri mercenari» sussurrai. «Ti sbagli» ribatté il ciccione. «Sono qui per amicizia. Rossini è il padrino dei loro nipoti ma ciò non toglie che non siano “micidiali eliminatori”. Così li ha definiti il nostro amico». «Vado a letto» annunciai. Per addormentarmi cercai un canale particolarmente soporifero. Mi


concentrai su una televendita di prodotti da toilette per la terza età. Crollai senza avere la forza di spegnere il televisore. Ognuno ha le sue piccole manie, innocue stravaganze che con l’età diventano consuetudini. Io per esempio mi stanco facilmente dei saponi da barba. Dopo un paio di mesi li butto perché non li sopporto più. Avere un appuntamento mattutino con la stessa miscela di essenze, la stessa consistenza della schiuma mi infastidisce e allo stesso tempo mi suggerisce il sospetto che quel prodotto sia di scarsa qualità o quantomeno non adatto alla mia pelle. Fu così che diedi l’addio a una crema portoghese apprezzata dai barbieri di tutto il mondo dagli inizi del Novecento, gettando il tubetto nel cestino. Mi ripromisi di recarmi quella mattina stessa in una nota profumeria del centro dove una commessa, peraltro molto carina, mi convinceva senza nessuna fatica ad acquistare costosi prodotti di nicchia che dalle confezioni sembravano invece vetusti avanzi di magazzino. Il tavolo della cucina era apparecchiato come per un banchetto di nozze e non certo per la colazione. I due amici di Beniamino si erano portati anche diverse bottiglie di grappa di prugna, oltre a formaggi di pecora. Bevvi un paio di bicchierini prima di inzuppare un croissant nel caffellatte. Alla seconda sigaretta fumata in santa pace, immerso nella lettura di uno dei tanti quotidiani comprati dal ciccione, squillò il cellulare di cui solo i Patanè conoscevano il numero. «Pronto». «Accettiamo l’incontro» balbettò Ferdinando. «Alle 22 sull’argine del canale dove si è “suicidato” il povero Kevin. Il posto lo conoscete bene». Tornai in cucina, dove Max teneva banco sulla situazione greca che occupava ancora le prime pagine dei giornali. «Stanotte tocca ai Patanè» annunciai. «Bene!» esclamò Beniamino. «Finalmente succede qualcosa. Nel frattempo però non dobbiamo perdere di vista Spezzafumo». «Ci penso io» dissi e andai a vestirmi. Prima di uscire presi da un nascondiglio ricavato in una credenza da un geniale falegname alcuni rotoli di banconote. Ce n’erano un altro paio sparsi per la casa. Noi usavamo solo contanti. Non eravamo titolari di conti bancari e non sapevamo cosa fossero carte di credito e bancomat. Lasciare tracce di movimenti di denaro era pericoloso per individui che vivono di “espedienti”, come era scritto a chiare lettere nei nostri fascicoli conservati nell’archivio della questura. Per prima cosa mi recai dalla mia commessa preferita nel campo degli articoli da barba. Superò ogni record stabilito in passato rifilandomi un’intera linea di una sconosciuta maison inglese. Non riuscì invece a convincermi ad acquistare l’eau de toilette che esaltava la fragranza della lozione dopobarba. Usavo la stessa da tanti anni. Mi era stata regalata da una donna che non avevo dimenticato e portava il nome della spada dei cavalieri ottomani. Con il tempo avevo imparato a distinguere le note di testa, coda e cuore, e quando si entra così in sintonia con un profumo non bisogna commettere l’errore di abbandonarlo. Reggendo un elegante sacchetto di carta con il logo del negozio mi recai in un grattacielo ai confini del centro. Al quinto piano c’era la sede di una compagnia assicurativa. La segretaria mi conosceva di vista, riteneva a torto che fossi un cliente e, tra un sorriso e una raffica di commenti sulla nuova ondata di caldo chiamata Caronte, mi confinò in un’angusta sala d’attesa dove sfogliai riviste del settore che garantivano esistenze tranquille.


Una ventina di minuti più tardi venni accompagnato nello studio del “dottore”. Si chiamava molto banalmente Mario Bianchi ma era un principe del sottobosco veneto. La facciata era quella di specchiato assicuratore ma l’attività che lo aveva arricchito era quella delle investigazioni clandestine. Qualche volta avevo lavorato per lui. Disponeva di mezzi, professionisti, coperture. E non aveva limiti. Era marcio fino al midollo ma se facevi parte del giro potevi contare su una certa discrezione. Con me si comportava sempre bene perché sapeva che fino a quando fossi stato protetto da Beniamino Rossini ero intoccabile. Né alto né basso, rotondetto, occhiali di tartaruga e un’eterna espressione ottimista stampata sulla faccia. «Che ti serve?» domandò. «Controllo di quattro soggetti» risposi passandogli la lista dei nomi e l’indirizzo di casa Pescarotto. «Una donna e tre maschi. Lei si sposta tra l’abitazione e una piccola azienda. In questo periodo è protetta a turno dai tre. Sospetto che siano alle prese con la preparazione di un atto criminale, una rapina. Qualche giorno. Ti avverto quando non mi serve più». Annuì. «La tariffa la conosci». Tirai fuori dalla tasca dodicimila euro di anticipo e li appoggiai sulla scrivania. A millecinquecento per persona equivalevano a due giorni di sorveglianza. Mario Bianchi si faceva pagare bene, ma nel caso che Spezzafumo fosse passato a miglior vita nessuno avrebbe collegato il mio interesse per la sua persona a quell’omicidio. Decisi di rimanere fuori. Aperitivo nelle piazze, pranzo all’Anfora da Alberto e poi un multisala per guardare un paio di film. Perché la programmazione estiva privilegiasse gli horror di serie B sarebbe rimasto sempre un mistero. Ne guardai due giusto per trascorrere il pomeriggio in una sala buia semideserta con l’aria condizionata, ma le storie erano fiacche e scontate. Mi feci vedere all’ora dell’aperitivo. Max lo aveva organizzato a casa con scelte enogastronomiche in grado di soddisfare il palato di Antun e Dalibor. A un certo punto Rossini si alzò. «È ora». Giungemmo con due auto sul luogo dell’appuntamento con una buona mezz’ora d’anticipo. I Patanè e i due ex mercenari erano già arrivati. Ferdinando era in piedi dietro la carrozzina di Lorenzo. Bellomo e Adinolfi interpretarono alla perfezione il loro ruolo. Scesero da un SUV abbigliati e armati come se dovessero sostenere un conflitto a fuoco con un commando di terroristi. Tutta scena. Avevo visto giusto nel ritenerli manovalanza di basso livello. Sbirciai i due dalmati. Ghignavano per nulla impressionati, le canne dei loro fucili d’assalto rivolte verso terra. Rossini imbracciava il suo fucile a pompa come un cacciatore di cinghiali. Gli occhi puntati sulle mani dei due stronzi. Al primo movimento sospetto avrebbe fatto partire una scarica di pallettoni. Mi avvicinai di qualche passo, illuminato dai fari delle auto. Mi trovavo a circa una ventina di metri dalle loro armi. «Sono contento che abbiate accettato questo incontro» dissi con un tono di voce sufficientemente alto per farmi sentire. «In queste situazioni parlare è sempre un passo necessario per poter trovare una soluzione. Spero che abbiate apprezzato anche la scelta del luogo. Noi ve lo abbiamo proposto per farvi capire che finora ogni vostra scelta è stata sbagliata. Anche quella di eliminare Kevin Fecchio. Eravate tanto amici eppure non avete esitato ad attirarlo qui e affogarlo. Scommetto che lo avete ubriacato al Bad Boys Pub e poi l’avete caricato in macchina». Adinolfi agitò il kalašnikov. «Non siamo venuti qui per ascoltare queste stronzate» gridò con uno


spiccato accento romanesco. «D’accordo. Vi ascoltiamo» ribattei accomodante. «La vostra proposta potete ficcarvela nel culo» continuò l’ex mercenario bellicoso. «Voi non siete nella condizione di dettare legge. Se volete possiamo giocarcela qui, adesso. Noi non abbiamo paura. Altrimenti ve ne andate e non vi fate più vedere». Sospirai. Si metteva male e io ero proprio in mezzo alla linea di tiro. Avrei voluto buttarmi a terra e coprirmi la testa con le mani in attesa del rumore degli spari. Invece ce ne fu uno solo. Bellomo, che si era tenuto alle spalle del suo socio, aveva estratto una pistola e gli aveva sparato alla nuca. Un colpo a tradimento e il romano coglione che non aveva capito di essere l’unico sacrificabile era crollato a terra, morto stecchito. Il suo assassino buttò a terra l’arma e poi il mitragliatore che teneva a tracolla. Da una tasca del gilet tattico prese una busta gialla e me la lanciò. «Sono ventiseimila euro» spiegò con la voce che tremava leggermente. «Non possiamo darvi altro. Né ora né mai. Vi chiediamo di apprezzare la buona volontà». Finsi di consultarmi con i miei soci. Probabilmente sui soldi stavano imbrogliando ma l’importante era che qualcuno avesse pagato per la morte di Luigina Cantarutti. Ci ritirammo in silenzio abbandonandoli al loro destino, che non era poi così difficile da immaginare. Ferdinando, il padre, non avrebbe retto a lungo il peso di quell’orrore di cui si era reso complice. Un infarto, un ictus, un cancro veloce lo avrebbero liberato dal destino di essere stato rapinato il giorno sbagliato. Lorenzo, paralizzato dal collo in giù, avrebbe avuto tutto il tempo di coltivare il suo odio, ma avrebbe continuato a pagare il conto minuto dopo minuto. Tra i pezzi di merda di quella storia era il più sfigato, ma non riuscivo a provare pietà. Ludovico “Vick” Bellomo. Il traditore che non aveva esitato a eliminare il socio era il più immondo ma come tutti quelli della sua razza era destinato a cavarsela. Avrebbe fatto sparire il cadavere di Adinolfi, seminato le menzogne giuste e poi si sarebbe comportato da padrone al Bad Boys Pub. In attesa del prossimo amico da tradire. «Ora tocca a Spezzafumo e alla vedova» commentò Beniamino. Ero stanco e schifato. «Prendiamoci un paio di giorni di pausa» proposi. «Tanto sono sotto controllo». «Sono d’accordo» disse Rossini. «Ne approfitto per accompagnare i miei amici a casa». «Sei sicuro che non ti possano servire ancora?» chiese Max. «No» rispose. «Con quelli me la vedo da solo». Chiamai la vedova. «Puoi stare tranquilla, abbiamo messo a posto le cose». Dall’altra parte sentii un lungo sospiro. «Spero in maniera definitiva». «Questo non ti riguarda» dissi prima di riattaccare. Non mi fidai ad andare al Pico’s Club per il timore di incontrare il marito di Cora. Così l’attesi al solito bar dove faceva colazione. Si sedette al mio fianco e sorrise. «Ho la mattina libera» disse piano. «Hai un posto dove portarmi che non sia una squallida stanza d’hotel?». Alla mia donna di jazz proprio non piaceva amoreggiare tra le lenzuola. «Certo» risposi. «Era da un po’ che volevo proportelo».


Feci una telefonata e la portai in una sala d’incisione tra Mestre e Treviso. Bella oltre che avanzatissima sul piano tecnologico. Cora pareva una bambina in un negozio di giocattoli. «Posso incidere?». «Non ci sono musicisti» dissi. «Ma puoi accontentarti delle basi». Mi diede un bacio e iniziò a parlare fitto con il tecnico del suono. C’era il tempo per registrare un solo brano e lei scelse un altro cavallo di battaglia di Carmen Lundy, la cantante a cui si ispirava: Old Friend. «La dedico a te» mi disse prima di chiudersi nella saletta insonorizzata. «Spero che tu non stia investendo soldi su di lei» borbottò il fonico. «Tecnicamente forse è passabile ma osa troppo per essere una dilettante. A tratti è ridicola». Feci spallucce. «Ognuno ha il suo jazz» ribattei storpiando una massima sul blues. Due ore più tardi Cora stringeva tra le dita un cd con la sua interpretazione. Era felice. La trascinai nella saletta usata dai musicisti nelle pause. In quel momento era deserta. Chiusi la porta a chiave e la baciai sul collo. Lei canticchiava e mi lasciò fare. Quando ci distendemmo su un divano disse: «Piano, pianissimo, ragazzo». Nessun affanno, nessuna urgenza. Solo tenera lentezza, baci, carezze. Una meraviglia. Quando salimmo in macchina lei mi raggelò con due parole che avevo temuto fin dall’inizio della nostra relazione. «So tutto». Accesi una sigaretta e mi preparai al peggio. «È bastato che chiedessi a mio marito da chi avesse saputo del Pico’s e lui ha fatto il tuo nome. Mi ha raccontato la storia di un investigatore privato senza licenza così tonto da non accorgersi che mi scopavo il pianista». «Il pianista?». «Ieri notte hanno fatto a pugni. Il mio consorte mi ha fatto una scenata e lui gli è saltato addosso». «Si è innamorato di te». «L’avevo capito». Infilò il suo disco nel lettore e ascoltammo il brano. Pensai che la scelta non era stata casuale. «Tu mi hai mentito» disse Cora con amarezza. «Io ho tradito mio marito. Per qualche istante di libertà dalle nostre vite, per fare l’amore con la testa leggera, siamo stati costretti a costruire castelli di menzogne. Non sono pentita però non so se troverò ancora la forza per continuare a indossare il vestito verde smeraldo di Cora». «Non voglio essere patetico e giustificarmi, ma avrei alcune cose da dire». «Non mi interessano. Sono certa delle tue buone intenzioni». Sospirai. Non era così che doveva finire. Ci rifugiammo nel silenzio fino a quando non parcheggiai l’auto accanto alla sua. Mi accarezzò la guancia. «Ciao, ragazzo». Mi fermai in un’enoteca ben fornita e comprai una bottiglia di calvados invecchiato. Tornato a casa mi chiusi in camera ad ascoltare blues che narravano struggenti storie d’amore, arrovellandomi sul significato di quel saluto. Si era trattato di un addio o di un arrivederci? Prima di cena sentii bussare alla porta. «Ti vuoi degnare di unirti a noi?» gridò infuriato Max la Memoria. «Il caso non è chiuso e tu ti comporti come un liceale del cazzo». Mi misi a sedere sul letto e la camera iniziò a girare. «Arrivo» biascicai.


Dalla dispensa della cucina tirai fuori una bottiglia che conteneva un liquido giallo. Una soluzione depurativa a base di erbe particolarmente adatta per riprendersi da una sbronza. Trangugiai un paio di sorsate e raggiunsi i miei amici. Beniamino mi cinse le spalle con il braccio. «Ti ha lasciato?». «Non ne sono così sicuro» risposi. «Però ha scoperto le mie bugie». «Succede sempre» commentò Max. «Non avevo altra scelta se volevo corteggiarla» mi giustificai. «Le storie che nascono complicate finiscono nello stesso modo» sentenziò Rossini. Poi passò ad altro. «Ora mangiamo un bel piatto di spaghetti e ci concentriamo su Spezzafumo, va bene?». Il mattino seguente, dopo aver sconfitto un mal di testa feroce con un paio di compresse di antidolorifico, mi recai da Mario Bianchi. «Ci sono alcuni extra da pagare» mise subito in chiaro, leggendo i rapporti. «Si è reso necessario pedinare i soggetti». «Non c’è problema». «I tre maschi si sono recati una volta per ciascuno, ma a orari diversi, nello stesso luogo: nei pressi di un laboratorio orafo del vicentino» continuò passandomi un foglio con le informazioni. «La sorveglianza della donna non ha rilevato nulla di anomalo». Saldai il conto e me ne andai. Ci avevo visto giusto: credendosi al sicuro la banda si era rimessa al lavoro. La scorta di quattrini doveva essere agli sgoccioli e un colpo si rendeva necessario. Avevano avuto a disposizione il tempo per scegliere con cura l’obiettivo e il fatto che lo controllassero con quell’assiduità significava che mancava poco al giorno della rapina. Avrebbero rubato un’auto, indossato guanti e passamontagna, e avrebbero fatto irruzione armati e pronti a sparare. La stessa identica dinamica che aveva portato all’agonia e alla morte di Maicol Fecchio. Le leggi non scritte valevano anche per i crimini che comportavano l’uso delle armi come pure violenze sulle vittime: assalti nelle case e sequestri di persona erano reati da infami. La regola base della rapina era garantire la sicurezza dei rapinati. Mettere in conto di tirare il grilletto significava che il piano era pessimo e andava abbandonato. Il vecchio Rossini la considerava un’arte, non si era mai presentato a quegli appuntamenti con il colpo in canna ed era riuscito a svuotare anche furgoni blindati protetti da guardie armate senza che nessuno si facesse male. A me non erano mai piaciute le rapine perché le armi, in generale, mi facevano paura, ma in quegli anni ero vissuto con i proventi di quelle messe a segno da Beniamino e non mi ero mai permesso di dire una parola in proposito. «Stronzi! Stupidi stronzi!» sibilò Rossini esterrefatto. «Io non voglio prendermela anche con quei due ragazzotti, Denis e Giacomo, o come cazzo si chiamano. Ero stato chiaro, molto chiaro, ma se questi se ne sbattono degli avvertimenti poi si passa ai fatti e le mamme piangono sulle tombe dei figli». «Non possiamo permetterci di eliminare tutta la banda» intervenni. «La vedova cercherebbe in tutti i modi di farcela pagare e non vogliamo di certo trovarci nella condizione di dover eliminare anche lei». «Hai un’idea migliore?» chiese Beniamino. «Non so se è buona ma ritengo che valga la pena tentare: Tazio Bonetti».


«Vuoi rivolgerti ai ricettatori?» domandò Max sorpreso. «Sì». «È una mossa azzardata» commentò il vecchio gangster. «Se la trattativa non va in porto ci troveremo in guerra anche con loro». «Non commetteremo questa imprudenza» ribattei, «e ci accontenteremo di Spezzafumo. Sono propenso a credere che senza il loro capo i due giovani scagnozzi si dedicheranno ad altro». «Sei ottimista» disse Max. «Ma vale la pena tentare». «Se non vi dispiace preferirei andare solo questa volta» dichiarai. I miei amici scoppiarono a ridere. «Speravamo ci risparmiassi un altro incontro con quel vecchiaccio malefico». Finsi di essere sorpreso. «Tazio non è così male per essere un ricettatore». Montai in macchina diretto a Brescia con l’interno della Felicia che vibrava tanto era alto il volume della musica. Ascoltavo i Pork Chop Willie cercando di scacciare il pensiero di Cora. Ero tentato di invertire la marcia e correre da lei ma sapevo che non l’avrei mai fatto. Ben altre erano le priorità in quel momento e comunque il rischio di una porta sbattuta in faccia era decisamente reale. Oltre a essere l’ultima cosa di cui avessi bisogno. Il caldo era insopportabile e per una volta ebbi di che lamentarmi della mia Škoda priva di aria condizionata. Arrivai a Brescia all’ora di pranzo e andai subito a casa del ricettatore. Non l’avevo avvertito e si sarebbe seccato moltissimo di venire disturbato a pranzo. Abitava in una villetta immersa nel verde di un quartiere residenziale. Era circondata da un piccolo giardino ben curato ma le finestre del piano terra erano protette da sbarre e quelle del piano superiore da vetri antisfondamento. Ormai anche un pezzo grosso della malavita locale era costretto a difendersi dai ladri. Mi aprì la nipote. «Siamo a tavola» mi fece educatamente notare. «Non può tornare più tardi? Magari dopo che il nonno ha fatto il riposino?». «Purtroppo no. Digli che c’è Buratti e che si tratta di un’emergenza». Attesi un paio di minuti e venni fatto accomodare in un salottino minuscolo che dalle riviste sparse sul tavolo doveva essere lo spazio prediletto della moglie di Bonetti. Tazio si presentò in ciabatte e canottiera. «Ma cazzo, stavo mangiando» protestò. «Siediti, Tazio» tagliai corto. «Questa è casa mia» ribatté bellicoso. Andai dritto al punto. «Se la vedova Oddo e Spezzafumo dovessero rimettere in piedi la banda e preparare un colpo a chi si rivolgerebbero per piazzare l’oro?». Rimase per qualche istante immobile a fissarmi prima di chiudere la porta. «Perché me lo chiedi? La risposta la conosci già». «Voglio essere sincero» dissi. «Noi abbiamo ordinato a Spezzafumo e ai suoi due giovani soci di ritirarsi dagli affari e loro non ci hanno dato ascolto. Inoltre Nicola ci ha minacciati e la situazione è compromessa. Lo scontro è inevitabile. Siete sicuri di voler essere coinvolti?». Bonetti tentò di farmi ragionare. «Il piano risale almeno a un anno fa, ma non si sentivano al sicuro e lo hanno rinviato fino a oggi. Si sono rivolti a me, io ne ho parlato con gli altri e ora siamo pronti ad assorbire la merce. Ci sono in ballo un sacco di soldi, non potete scannarvi dopo?».


Ignorai la domanda per non essere costretto a interrompere il dialogo. Tirai fuori il pacchetto di sigarette. «Qui non si fuma» mi informò mentre allungavo la mano verso un pesante posacenere di cristallo che aveva tutta l’aria di non essere usato da anni. Ignorai pure quella richiesta. Il ricettatore mi aveva indispettito. «Noi vogliamo salvare i due ragazzi, Denis e Giacomo, ma l’unico modo è che non partecipino a rapine». «Non sono problemi nostri, Marco» sbottò. «Siamo in quattro coinvolti in questo affare ed è impossibile ora rimettere tutto in discussione. So già cosa direbbero gli altri, vi inviterebbero ad attendere una settimana dopo la rapina». «E se non accettassimo l’invito?». «Ci obblighereste a schierarci con Spezzafumo» rispose. «Ma non fateci arrivare a tanto per una stupida questione di principio». Tirai le ultime boccate e schiacciai il filtro. «Siete troppo forti per noi» constatai. «Potreste mettere in campo una ventina di uomini armati e tra noi c’è solo Rossini che tira il grilletto». Il volto del vecchio ricettatore si illuminò. «Noto che finalmente inizi a ragionare. Messi insieme siamo in grado di spazzarvi via senza troppa fatica. Ma noi siamo persone ragionevoli e vi lasciamo carta bianca dopo la chiusura dell’affare». Alzai una mano per interromperlo. Non aveva capito nulla. «Se succedesse qualcosa di spiacevole al sottoscritto o a Max la Memoria nessuno si preoccuperebbe» spiegai, «ma se Rossini dovesse beccarsi un proiettile i suoi amici d’oltre confine arriverebbero per vendicarlo. Certamente dei francesi e dei dalmati. Questi ultimi li ho conosciuti da poco, sono eliminatori di professione. Nessuno di voi si salverebbe». Mi rise in faccia. «Stai bluffando». «No. Tu invece sì perché siete gli ultimi a voler essere coinvolti in una guerra tra bande. Nuocerebbe agli affari. In questo Paese nemmeno le mafie ammazzano più lasciando i cadaveri per le strade. Volete ricominciare proprio voi, quattro ricettatori imbolsiti? Te lo ripeto: fate saltare l’affare». Sospirò. «È troppo tardi e poi ribadisco: è il colpo più grosso degli ultimi dieci anni». La banda di Spezzafumo stava per entrare in azione. Questione di ore o di giorni. Un paio al massimo. «Peggio per voi» salutai, aprendo la porta. Tornai a Padova e informai i miei amici. «Ho aspettato anche troppo» disse Rossini. Si procurò una motocicletta rubata e armato di due pistole raggiunse la casa di Nick l’orafo nelle campagne della bassa padovana, ai confini con la provincia di Rovigo. Trovò la giovane convivente polacca con un bambino biondo in braccio, la quale lo informò che Nicola non sarebbe tornato prima di un paio di giorni. Beniamino le chiese se era figlio di Nicola e lei rispose di sì con un grande sorriso. «È il mio uomo e diventerà presto mio marito». Il nostro amico tornò a casa scosso. «Chi penserà a loro, dopo che avrò ammazzato Spezzafumo?». Non mi lasciai sfuggire l’occasione. «Possiamo sempre riconsiderare la necessità dell’evento». «E tu te la senti di vivere guardandoti sempre alle spalle?» chiese Max. «Non ha torto» intervenne Rossini. «Ma ora non possiamo che attendere gli eventi. Quei tre sono nascosti da qualche parte in attesa di mettere a segno la rapina. Alla fine ha avuto ragione quel coglione


di Tazio Bonetti: regoleremo dopo i nostri conti». «Siro Ballan» sbottai all’improvviso. «Scommetto che si sono rintanati dal liutaio». Ci guardammo per qualche istante, accarezzando l’idea di chiudere la partita, ma il vecchio Rossini ci ricordò: «Quel posto è intoccabile». Ci spostammo a Punta Sabbioni con l’intenzione di restarci fino a quando non avremmo avuto le idee chiare sul da farsi. Discutemmo fino a sfinirci per trovare una soluzione che ci sottraesse alle nostre stesse regole. Il vecchio Rossini da un lato era inamovibile sulla loro applicazione, dall’altro sperava di non essere costretto a sparare. «Non riesco a togliermi dalla testa il bambino di Spezzafumo» ripeteva preoccupato. Fu una banalissima telefonata anonima alla sezione antirapine della questura di Vicenza a risolvere il caso. Quando la banda Spezzafumo fece irruzione nell’azienda orafa si ritrovò circondata da poliziotti pronti ad aprire il fuoco. Nicola, Denis e Giacomo si arresero e finirono dietro le sbarre con la prospettiva di rimanerci per almeno cinque, sei anni, forse anche di più dato che erano muniti di armi da guerra. Secondo un giornalista ben informato a cui allungai trecento euro, la soffiata era arrivata da una cabina telefonica della zona di Piove di Sacco. Dunque era stata la vedova a tradire. I ricettatori non si erano sporcati le mani e avevano liquidato l’affare trattando con l’unico vero capo. Dovevano averle detto che si ritiravano per non entrare in guerra con il vecchio Rossini e che la banda doveva essere sciolta per evitare futuri “fraintendimenti”. Quelle quattro sanguisughe non potevano permettere che Gigliola si rivolgesse ad altri ricettatori per non perdere il controllo del mercato. «Nulla di personale, sono solo affari» le aveva certamente detto Tazio rubando la frase da qualche film. E la vedova si era ritrovata costretta a scegliere di fottere i suoi soci e scordarsi di arricchirsi. Era troppo debole per sfidare i ricettatori e si era piegata al loro volere. L’avevano di sicuro risarcita in qualche modo, probabilmente offrendole un ruolo marginale nel ramo abbigliamento. Sui trenta denari non si transige. Il nostro cuore fuorilegge non contemplava il tradimento. Era totalmente estraneo al nostro modo di concepire il mondo. Ma nella criminalità tutti tradivano tutti. Era la soluzione perfetta a portata di mano. Attesi la notte e guidai fino a casa di Gigliola Pescarotto. Scesi dall’auto e mi piazzai in mezzo alla strada, lo sguardo fisso sulla facciata. Immaginavo che il rumore dell’auto che si fermava davanti alla sua villetta l’avrebbe allarmata e spinta a guardare dalla finestra. Notai la tenda che si spostava e un attimo dopo la donna si affacciò. Mimai il gesto di telefonare. Mi guardò per qualche secondo e poi si ritrasse lentamente fino a essere inghiottita dal buio. Qualche giorno dopo venne diffusa la notizia di una tragedia familiare. Un padre aveva sparato al figlio paraplegico, alla moglie e poi aveva rivolto l’arma contro se stesso. E così Ferdinando Patanè alla fine aveva trovato il coraggio di prendere quella pistola dal cassetto. Secondo i giornalisti le ragioni di quel folle gesto andavano ricercate nella rapina del 2009 quando il giovane Lorenzo era stato ferito alla schiena da due rapinatori che non erano mai stati identificati e nel calvario di una famiglia, abbandonata dallo Stato, che si era ritrovata in una situazione senza vie d’uscita.


La vicenda fu però archiviata in fretta. In quel momento non pagava da nessun punto di vista. La notizia più gettonata era la “vittoria” di un paese del trevigiano che era riuscito a cacciare un centinaio di migranti alloggiati in un residence. Tra ferocia e paura continuava la rivolta contro “l’africanizzazione” della regione. Tornai al Pico’s Club per l’ultima sera prima della chiusura estiva. Cora non c’era, quella sera toccava al trio, ma avevo coltivato fino alla fine la speranza che la donna di jazz spuntasse sul palco per l’ultima canzone. Rimasi fino al mattino a parlare di musica e di donne con il pianista, tra alcol e manciate di arachidi per non soccombere a una sbornia malinconica. «Lo sai che non so il tuo nome» confessai al momento di salutarlo. «Sono anni che ti conosco di vista ma non ci siamo mai stretti la mano». «Duke Masini» si presentò. «Mio padre amava il jazz e sognava che un giorno sarei diventato un musicista. Probabilmente più bravo di quello che sono ma non si può avere tutto dalla vita». Chiusi casa e montai sulla mia Felicia diretto a Pordenone. Blues e aria calda che entrava dai finestrini aperti. Il ragazzino mi aspettava sulla porta del condominio aggrappato a un vecchio trolley comprato dai cinesi. Aveva i capelli pettinati con la riga frutto di un paziente lavoro di pettine bagnato. Indossava una giacchetta striminzita e pantaloni corti all’inglese. Sembrava un giovinetto d’altri tempi, uscito da una fotografia ingiallita. Al suo fianco lo zio che gli circondava le spalle con il braccio. «Sei pronto?» gli domandai. Chinò il capo, farfugliando parole che non capii. No, non era affatto pronto per quel viaggio, ma ero certo che presto avrebbe cambiato idea. O almeno lo speravo. La mia esperienza con esseri umani di quell’età era inesistente e con gli adulti quasi mai era stata un successo. Abbracciò lo zio frignando come in una scena ottocentesca dove il cattivo di turno strappava il bambino dai suoi affetti per rinchiuderlo in un convento di suore malvagie. «Mi raccomando» balbettò lo zio quando mi strinse la mano. Me lo aveva già detto qualche giorno prima quando ci eravamo incontrati nello studio di un avvocato. Avevo preteso che venisse con la moglie, una donna impaurita dalla precarietà delle loro condizioni, che si guadagnava da vivere eviscerando polli in un’azienda avicola. Prima ancora che il legale iniziasse a illustrare il motivo della convocazione aveva preteso a tutti i costi di giustificarsi per non riuscire a fingere di essere la madre di Sergio. «Non l’ho fatto io» aveva detto accalorandosi. «Lo ha fatto la Luigina. E lei era tanto strana e se poi anche il figlio viene fuori come lei? E poi non è per cattiveria ma soldi non ce ne sono tanti e abbiamo due bambini da tirare su». Guardai l’avvocato nella speranza che interrompesse quel fiume di parole. Si chiamava Eros Cocco, un brav’uomo sui sessanta di origine sarda che si occupava di Rom e migranti e che di conseguenza non guadagnava un cazzo. Mi ero rivolto a lui perché di sani principi nel tutelare i diritti e anche perché i soldi che avrebbe guadagnato tutelando gli interessi di Luigina e del figlio gli avrebbero risollevato un po’ le finanze. Cocco aveva afferrato all’improvviso le mani della signora Cantarutti. «Le sue ragioni ci sono chiare, ora però tocca a me parlare».


Il professionista aveva spiegato che i coniugi erano stati convocati per essere informati che vi erano delle novità che riguardavano Luigina e Sergio. Arnaldo, in quanto fratello, avrebbe ottenuto un risarcimento di 100.000 euro. L’uomo rischiò seriamente il mancamento. «Ma da dove arrivano questi soldi?». Cocco gli spiegò che si trattava di una donazione privata, frutto di una mediazione seguita da altri legali. Poi aggiunse che era stato costituito un fondo per garantire l’istruzione e il mantenimento di Sergio fino alla laurea. «Ma la condizione è che vostro nipote viva in un contesto familiare diverso dal vostro. Al momento non è stato individuato, ma sarà mia premura provvedere al più presto». Avevano accettato con un esagerato senso di gratitudine e quel viaggio faceva parte degli accordi. Non erano persone cattive ma di certo non all’altezza di crescere un ragazzino come Sergio, marchiato dal pregiudizio di essere figlio di un padre che non l’aveva mai voluto conoscere e di una mamma un po’ strana di cui tutti si erano approfittati. I soldi recuperati dai Patanè non sarebbero stati sufficienti e Beniamino aveva venduto i gioielli di Sylvie e la casa di Beirut per aiutare coloro che ne avevano diritto e bisogno. Un pomeriggio era partito con una busta piena di banconote ed era tornato a bussare alla porta della casa di Nicola Spezzafumo. La ragazza polacca che aveva commesso l’errore di innamorarsi di un rapinatore era disperata e il vecchio Rossini le aveva donato una bella cifra perché tornasse dai genitori con il suo bambino e si ricostruisse un’altra vita. Anche questo era un modo di sistemare le cose. «Ti piace il blues?» domandai a Sergio quando salimmo in auto. «Non lo so». Infilai un cd prescritto da Catfish. La Altered Five Blues Band attaccò I’m in Deep. Ascoltò per un paio di minuti, poi iniziò a guardare dal finestrino. Gli misi la radio a disposizione e lui giocherellò con i tasti fino a quando non scovò un’emittente che trasmetteva solo musica italiana. Conosceva un sacco di cantanti che non avevo mai sentito nominare. Mi spiegò che provenivano dai reality. Non faticai a credergli, l’Italia intera lo era diventato. Scoprii che gli piaceva chiacchierare e che come tutti i ragazzini amava rimpinzarsi di schifezze. In un’area di servizio gli diedi 10 euro mentre andavo a pisciare e quando tornai li aveva già spesi per patatine e dolci dai colori inquietanti. Lui non chiese nulla e io non diedi alcuna spiegazione sulla meta di quella strana gita. Viaggiavo in compagnia di un dodicenne e non ero a mio agio. Mi sembrava così fragile, avevo paura di commettere qualche errore e fargli del male. Finalmente arrivammo a Punta Sabbioni. Beniamino e Max ci attendevano sul ponte del Sylvie. Rossini era abbigliato come Peter O’Toole in Lord Jim. L’emozione paralizzò Sergio e dovetti aiutarlo a salire a bordo. «Su questa nave corsara ci sono due regole che vanno rispettate» attaccò Rossini in tono serissimo. «La prima è che il comandante sono io e tutti mi devono obbedienza assoluta. La seconda è che quando io faccio questo gesto che significa “bocca cucita”» disse passandosi pollice e indice sulla labbra come se stesse chiudendo una zip, «tutti sono tenuti a non riferire quanto visto o sentito. D’accordo?». «Sì». Si strinsero la mano e Beniamino ordinò di mollare le cime. Poi appoggiò la mano sulla spalla del


ragazzino. «Vuoi vedere come si pilota la barca più bella del mondo?» Navigammo fino all’arcipelago delle isole Quarnerine e attraccammo in una delle meno frequentate, dove avevamo affittato una grande villa sul mare. Fu così che iniziò l’estate di Sergio. Sotto la guida attenta del vecchio Rossini imparò a tuffarsi dagli scogli, ad alzarsi in piena notte per salpare su un peschereccio, a tirare i primi cazzotti per non farsi mettere sotto dagli altri ragazzini. Max lo introdusse nel mondo dei libri di avventura, di internet e del cinema. Si addormentò tra le braccia di vecchie puttane e contrabbandiere in attività. Era adorabile, curioso, gentile e tutti gli volevano bene. Ogni tanto si appartava con Beniamino per parlare di sua mamma, di quello che le era successo. Soprattutto voleva capire perché Luigina era sempre stata considerata diversa. Il vecchio bandito lo faceva salire sulle ginocchia e lo stringeva tra le braccia per insegnargli a difendersi dal crudele mondo degli adulti. Io rimasi in disparte a osservare. Con Sergio non riuscivo mai a essere spontaneo, ogni mio atto o parola erano sempre frutto di complicati ragionamenti. Stare ai margini mi permetteva di capire che quella non era solo la sua estate. Era anche la nostra. Dopo tanti anni riuscivamo a goderci una parentesi di ragionevole serenità. Una notte con l’ultimo battello arrivò una ragazza danese. Bionda e con la pelle color del latte. La deriva della sua vita l’aveva spinta fino alla nostra isoletta. Capì di trovarsi tra naufraghi e decise di vivere con noi, si piazzò in una stanza vuota, parlava poco ma apprezzava la nostra compagnia. Era carina e mi sarebbe piaciuto corteggiarla ma per la prima volta una donna mi sembrò troppo giovane e lasciai perdere. Sergio era molto incuriosito da quella “straniera” come l’aveva ribattezzata Max. Era l’unico che riusciva a distoglierla dal torpore che l’affliggeva con il suo inglese da scuola media. Aveva detto di chiamarsi Bente ma Rossini, che aveva perquisito la sua camera per accertarsi che non rappresentasse un pericolo per il ragazzino, disse che sul passaporto “svedese” il nome era un altro. E che non aveva il becco di un quattrino. Di quelle piccole bugie non ce ne fregava nulla, mentiva perché non poteva sapere che di noi poteva fidarsi e che nessun segreto poteva essere più tremendo di quelli che custodivamo tra cuore e memoria. Trovammo il modo di donarle del denaro senza offenderla. Ringraziò appena, come non le importasse. Quando arrivò il momento di abbandonare l’isola chiese di rimanere nella villa per un altro po’. Pagammo un altro mese di affitto e la proprietaria promise che si sarebbe occupata di lei. Facemmo ritorno a Punta Sabbioni la prima settimana di settembre, qualche giorno più tardi Sergio sarebbe dovuto tornare a scuola. Trovammo ad attenderci l’avvocato Cocco, che nel frattempo aveva trovato una giovane coppia di Trieste interessata a prendere il ragazzino in affidamento. Un iter assurdamente lungo, complicato e difficile in questo Paese, ma il legale era molto fiducioso. Osservai Sergio mentre piangeva disperato passando tra le braccia di Beniamino a quelle di Max. Aveva capito che molto difficilmente ci saremmo rivisti. Eravamo sempre stati sinceri su questo punto. Era molto cambiato. Aveva i capelli schiariti dal sole, le sopracciglia quasi bianche e la pelle color del cuoio. Ed era diventato più grande. Finalmente partì. Carico di regali e di ricordi dell’estate più strana della sua vita. E ripartirono anche i miei amici. Il tempo di riempire i serbatoi ed erano già salpati. Il vecchio Rossini aveva degli affari da concludere e il ciccione aveva deciso di accompagnarlo.


Io restai a terra. Avevo nostalgia della mia donna di jazz. Ma quando tornai a Padova scoprii che il Pico’s aveva chiuso i battenti per sempre. I muratori erano al lavoro per trasformarlo nella filiale di una qualche banca sconosciuta. Provai tristezza nel vedere la vecchia insegna gettata tra le macerie. Mi appostai diverse mattine sotto la casa di Cora. Finalmente la vidi uscire. Capii subito che era tornata a essere Marilena. Feci semplicemente notare la mia presenza. Lei mi guardò, forse perfino accennò a un sorriso ma non si fermò. Tirò diritto fino alla sua auto, mise in moto e scomparve dietro una curva. Fumai una sigaretta senza riuscire a mettere insieme un pensiero decente. Mi sentivo frantumato, come se fossi andato definitivamente in pezzi anche se avevo sempre saputo che quella storia aveva buone probabilità di finire in quel modo. In quel momento ero disoccupato e non sapevo dove andare. Non avevo nemmeno voglia di sbronzarmi. Telefonai ad Antonio Santirocco, il sindaco del blues. «Ho bisogno di un “passaggio”» dissi. E tornai così a unirmi alla Triade. Bob alle tastiere, Babe alla chitarra, Antonio alla batteria e Stefano, l’attore che narrava storie di blues e di criminali. Si viaggiava di giorno, ogni notte un locale diverso. E poi una stanza di hotel con i vetri delle finestre sporchi, ma tanto non vi era mai nulla di interessante da vedere. Campavo alla giornata senza troppa fatica, limitandomi a tenermi a distanza da tutto, senza pretendere nulla ma senza più piangermi addosso. Conobbi un paio di donne interessanti. Delia e Giannina. Per quest’ultima valeva la pena fermarsi e salutare i miei amici musicisti, ma mi guardai bene dal farlo. Per il suo bene. Non volevo farle la carognata di sparire dopo aver ricevuto una telefonata. Perché è così che sarebbe andata. Tiravo avanti in attesa di un altro caso in cui il nostro intervento si sarebbe reso necessario per mettere a posto le cose. Quasi mai la soluzione si limitava a scoprire la verità. Bisognava tutelare gli interessi del cliente e, per quanto possibile, mettere a posto le cose, rispettando le regole degli uomini liberi con il cuore fuorilegge. ***


EPILOGO Che la vita fosse strana e in grado di riservare sorprese lo sapevo da un pezzo ma mai avrei potuto immaginare di ricevere una chiamata dall’ultima persona al mondo che mi aspettavo di sentire. Era un pigro tardo pomeriggio, stavo bevendo una birra al tavolino di un bar nella piazza di un ameno paesino romagnolo. I miei amici della Triade, l’organ trio tutto italiano guidato dal “sindaco” del blues Antonio Santirocco, erano chiusi in un locale per le prove prima del concerto serale. Il cellulare iniziò a suonare e io attesi fino al quarto squillo giusto per darmi un tono. «Sono Giorgio Pellegrini. Non riattaccare». La sorpresa mi ammutolì. L’ultima volta che lo avevo visto avevo supplicato il vecchio Rossini di sparargli. Beniamino si era rifiutato perché gli avevamo promesso l’immunità per salvare la vittima di un sequestro. Giorgio Pellegrini era il peggior criminale che avessi mai conosciuto. Assassino, traditore, ricattatore, sfruttatore, stupratore. La lista dei suoi crimini era lunga. Troppo lunga per permettergli di essere ancora vivo, ma si era dimostrato maledettamente scaltro nel ricavarsi sempre una via d’uscita. Anche con noi. Era fuggito da Padova inseguito da un mandato di cattura della procura e dalla promessa di Rossini che al prossimo incontro sarebbe morto. «Cosa vuoi?» domandai. «Non sono stato io». «A fare cosa?». Lo sentii sospirare. «Allora non sai nulla?». Non leggevo un giornale e non seguivo un notiziario da giorni. «Non so un cazzo di nulla» sbottai innervosito. «Martina e Gemma sono state assassinate». La moglie e l’amante. Le conoscevo bene. Due vittime consenzienti delle perversioni di Pellegrini. Si erano disperate per essere state abbandonate ma da quanto sapevo avevano iniziato a gestire loro La Nena, il ristorante che il bel Giorgio aveva fatto diventare famoso in tutta la regione. «Voglio ingaggiarvi» rispose. «Voglio che tu e i tuoi soci scopriate chi le ha uccise». «Ti sei rivolto alla persona sbagliata. L’unica cosa che farei volentieri per te è assistere alla tua morte». «Prima però tu e quel pezzo di antiquariato del tuo amico dovete trovarmi. Nel frattempo potreste indagare. Siete mercenari, lavorate a contratto. Non vedo dov’è il problema». «Il problema sei tu, Pellegrini». «Non essere stupido» ribatté in tono mellifluo. «Altrimenti rischi di non essere pagato perché sono certo che alla fine non resisterai alla tentazione di ficcare il naso per scoprire la verità sull’efferato omicidio di due povere fanciulle». Figlio di puttana. Mi ero scordato della sua capacità di capire le persone. Cambiai argomento. «Di loro non ti frega nulla, vero?» lo accusai. «Sinceramente, non più di tanto» spiegò usando sempre quel tono fastidioso. «Mi interessa capire chi c’è dietro, chi vuole farmi uscire allo scoperto ammazzando i miei “cari”». «Il numero delle tue vittime è abbastanza lungo da riempire un elenco del telefono» obiettai. «Prova a pensare a quante persone si addormentano la notte sognando di vendicarsi su di te». «La vendetta non c’entra. Il movente dei delitti è sicuramente un altro» ribatté sicuro.


«Raccontalo agli sbirri» suggerii. «Ti ascolteranno dato che sei un loro confidente». «Lo sono stato. Poi ci siamo persi di vista» sbuffò. «I poliziotti, al momento, brancolano nel buio più totale, quando il procuratore capo pretenderà risultati mi accuseranno e chiuderanno il caso in una settimana». «Nulla di più facile». «Ma tu non ti accontenterai della verità ufficiale». «Non farti illusioni». Sghignazzò. «Ti conosco Buratti, ti ho visto all’opera. Sei ossessionato dalla verità, non rinuncerai a questo caso. Posso farti avere entro qualche giorno cinquantamila euro d’anticipo. Altrettanti a incarico concluso». «Ho detto di no!». «Allora indagherai gratis. Offrirti del denaro era un modo carino per alleggerirti la coscienza dal triste pensiero di lavorare per un losco figuro come il sottoscritto». Pellegrini riattaccò e io terminai di bere la birra con la mano che tremava leggermente. Di quel figuro non ci si poteva fidare nemmeno quando raccontava la verità. Aveva sempre un piano, ogni mossa era ponderata. E quella telefonata non faceva eccezione. Tenni duro il tempo di un’altra birra poi mi precipitai alla ricerca di un internet point dove andai a caccia di informazioni sul duplice omicidio. Quando vidi le loro fotografie provai pena per quelle povere donne. Martina e Gemma avevano sempre pagato caro lo scherzo del destino che le aveva consegnate nelle mani di Giorgio Pellegrini. Lui le aveva manipolate al punto di privarle di ogni autonomia. Erano diventate docili marionette e gli erano rimaste fedeli anche dopo che era scomparso dalle loro esistenze. Secondo gli inquirenti erano state sorprese da una o più persone all’interno del ristorante un attimo prima della chiusura, quando cuochi e camerieri erano già usciti. Erano state costrette a scendere in cantina dove erano state legate, seviziate e strangolate con una corda da pianoforte. L’incasso era stato ritrovato nella borsa di Gemma, pronto per essere depositato in banca. Esclusa la rapina, i poliziotti erano orientati a cercare il movente nell’oscuro passato di Giorgio Pellegrini, che risultava attivamente ricercato. Fuffa. Troppa per non sentire puzza di depistaggio. Gli inquirenti avevano faticato a tenere a bada i giornalisti: finalmente si trovavano tra le mani un caso che avrebbe assicurato articoli e servizi per un bel po’ di tempo. In cambio avevano ricevuto qualche osso succulento da spolpare, ma sbirri e giudici avevano trattato la figura di Pellegrini con esagerata cautela, quasi volessero proteggerlo, costringendo la stampa a seguire piste consolidate dal punto di vista mediatico ma prive di ogni fondamento investigativo: bande dell’Est, migranti che in patria esercitavano la professione di predoni, serial killer, sette sataniche e altre fesserie. Certamente si era trattato di un lavoro da professionisti. Almeno tre. Uno fuori dal locale a fare da palo. E due dentro. Il dettaglio della corda di pianoforte usata per finire le due donne era un messaggio diretto a Giorgio Pellegrini. Significava: siamo bravi, efficienti, pericolosi e mortali. Se era vero quanto sosteneva e cioè che il movente non era la vendetta allora la faccenda doveva riguardare un’organizzazione criminale abbastanza potente da poter disporre di sicari ben addestrati. Mi scoprii a esaminare il caso come se fossi davvero incaricato delle indagini e dovetti faticare per concentrarmi su altro. Pellegrini aveva usato gli argomenti giusti per attirare il mio interesse ma non avevo nessuna


intenzione di cedere. Non puoi lavorare per un cliente che vuoi vedere morto con tutte le tue forze. Non è giusto e non è “sano”. Trascorsi la serata con il blues di razza della Triade ma ogni tanto i ricordi degli incontri con Martina e Gemma riaffioravano pericolosamente e dovetti ricacciarli in un angolo della memoria con una buona dose di calvados. Alle sei del mattino gli sbirri entrarono nella stanza usando un passepartout. Avrebbero potuto fare tranquillamente irruzione due ore più tardi e avremmo dormito tutti di più ma a certe abitudini le forze dell’ordine non erano disposte a rinunciare. Aprii gli occhi e vidi l’ispettore Campagna, che per l’occasione indossava una camicia hawaiana bianca e azzurra, sedersi sul letto agitando un paio di manette. «Non ho mai capito quelli che vanno al ristorante e poi si lamentano con il personale perché le porzioni sono abbondanti» esordì mentre i suoi colleghi buttavano all’aria la camera. «Ma perché non si fanno i cazzi loro? A forza di insistere convincono i proprietari a ridurre e ci rimettiamo tutti. Se la pasta è troppa, lasciala sul piatto e pensa alla salute. Non trovi, Buratti?». «Sei venuto fino a qui con i tuoi amichetti per discutere di questa stronzata?» domandai con la bocca impastata. «E per riportarti a Padova dove sei atteso in questura per scambiare quattro chiacchiere». «Che succede Campagna?» domandai preoccupato. «Nulla» rispose porgendomi i pantaloni. «Solo che ancora non hai capito come ci si comporta a tavola e adesso ti mettiamo in castigo». Padova. Sala interrogatori della questura. A ora di pranzo non si era ancora fatto vedere nessuno. Mi avevano chiuso nella solita stanzetta che puzzava di sudore, caffè e fumo stantio, alla faccia delle leggi dello Stato, ma le mie sigarette erano state sequestrate. Ero certo che mi stessero osservando dall’altra parte del solito vetro a specchio. Volevano farmi credere che mi ero cacciato in un brutto guaio, uno di quelli che prima fanno tappa in tribunale e poi in galera per un certo numero di anni. Forse era anche vero. Magari Gigliola Pescarotto vedova Oddo aveva deciso di cantarsela oppure l’idea era venuta a Nicola Spezzafumo. Non dovevo far altro che aspettare per scoprire cosa stava accadendo. Riuscivo a mantenere la calma adatta alla situazione solo perché c’ero già passato e conoscevo il mondo dei tutori dell’ordine in ogni sua sfumatura, ma dentro morivo di paura. Della galera. Dopo un altro paio d’ore, la cui monotonia era stata interrotta da un litigio con i piantoni per essere accompagnato al bagno, si presentò una gnocca da copertina accompagnata da Campagna. Bionda, coda di cavallo, lineamenti perfetti, gambe lunghe, tette e culo che sembravano disegnati. Si sedette dall’altra parte del tavolo, aggiustò la lunghezza della gonna del tailleur nero firmato e mi squadrò con aria decisa. Poi fece un cenno a Campagna che si affrettò ad accendere un piccolo registratore. Doveva essere di ottima marca perché la mia voce e quella di Pellegrini si udivano alla perfezione. Tirai un sospiro di sollievo. La situazione in cui mi trovavo non era poi così drammatica. «Giorgio Pellegrini ha rimesso in funzione la scheda del cellulare che usava quando si trovava ancora a Padova» chiarì la funzionaria. «Per questo siamo riusciti a intercettare la telefonata».


Lo stronzo non poteva non sapere che gli inquirenti sarebbero stati pronti ad ascoltare. Mi chiesi perché avesse voluto metterli in mezzo. Forse per informarli della sua innocenza. Oppure no, quel figlio di puttana aveva voluto incastrarmi e mettermi a disposizione degli sbirri. Distratto dalle mie elucubrazioni mi persi l’inizio del discorso della bella poliziotta e la interruppi chiedendo gentilmente di riprendere dal principio. «Sei tonto? Stupido? Soffri di qualche patologia da mentecatto? Tua madre ti ha trasmesso la sifilide?» chiese la donna parlando a raffica con un marcato accento milanese. «Credi che ti abbiamo portato qui per fare conversazione? O ritieni che non meritiamo la tua attenzione?». Ogni idea di simpatia suggerita dalla sua avvenenza scomparve in quel momento. «Con chi ho il piacere di parlare?» domandai. Lei indicò il suo sottoposto. «Con l’ispettore Giulio Campagna» rispose in tono piatto. «Che significa?». «Non l’hai ancora capito?». Conoscevo anch’io quel giochetto. L’unico modo per difendersi era interrompere il flusso delle domande perché non avrei ottenuto risposte ma solo altri quesiti. La funzionaria attese che rilanciassi, poi andò dritta al punto. «Vogliamo che accetti la proposta di Pellegrini e indaghi sui delitti. Con i tuoi amici, ovviamente. Noi non vi ostacoleremo». Mi sarebbe piaciuto sapere a chi si riferiva con quel “noi”. E poi era chiaro che sarebbe finita male per tutti e non solo per Pellegrini. Non c’era un solo motivo valido per offrirgli la nostra testa su un piatto d’argento. Avremmo fatto il lavoro sporco e la ricompensa sarebbe stata una cella con vista cortile in un carcere di massima sicurezza. Sempre che la faccenda non fosse stata abbastanza sporca da rendere necessaria una pulizia radicale a base di esecuzioni e fosse di fortuna. «No» dissi rivolgendomi a Campagna. «No?» mi fece eco la sbirra alzando la voce e balzando in piedi. «Ascoltami bene pezzo di merda» sibilò. «Se non fai come dico i tuoi amichetti finiscono in galera. Sappiamo dove sono e appena attraccano perquisiamo il Sylvie e troviamo quella giusta quantità di chili di eroina e cocaina che garantisce una pena minima di quindici anni. Rossini ha la pelle dura e può farcela anche con la prospettiva di uscire e finire dritto all’ospizio, ma Max con i suoi problemi di salute non reggerà più di quattro o cinque anni al massimo». Allungò la mano e Campagna le porse un fascicolo che mi sbatté sotto il naso. Era la cartella clinica di Max. Sembrava l’originale. «L’abbiamo fatta esaminare da un nostro esperto» continuò la poliziotta. «Quello che dico è scienza e ti posso assicurare che faremo di tutto per rendere “speciale” ogni giorno di pena». Forse stava bluffando. Forse no. Ero troppo confuso per capirlo. Saggiai il terreno opponendo ancora una volta un rifiuto deciso. «Uno stronzetto con le palle» commentò la donna fingendo ammirazione. Mi puntò contro l’indice, dritto e lungo come la canna di una pistola. «Invece tu rimarrai fuori, libero. Metteremo in giro la voce che sei stato tu a tradire i tuoi amici e che sei diventato un nostro informatore». «Non ci crederà nessuno» sbottai inferocito. Campagna si avvicinò e si chinò su di me mettendomi una mano sulla spalla. «Questa non è come noi» attaccò riferendosi al suo superiore. «Arriva da un altro pianeta dove giocare sporco è la regola. Vi fotterà se non farai quello che dice». “Ci fotterà comunque” pensai.


La donna scoppiò in una risata forzata. «Campagna, lei è patetico come le sue camicie. Voglio chiedere al questore perché le permette di indossarle. Ora esca da questa stanza». L’ispettore obbedì senza dare peso all’insulto. La funzionaria tornò a sedersi. «Allora Buratti, cosa decidi?». «Mi sembra di non avere scelta». La sbirra mi riservò una lunga occhiata di scherno. «Siete tutti uguali» commentò prima di ordinarmi di inviare un messaggio a Pellegrini in cui accettavo il caso e il suo denaro. «Esattamente cosa volete da noi?» chiesi a voce bassa. «Che stiate nel bel mezzo della piazza». Finsi di non aver capito. «Si spieghi meglio». «Che indaghiate. O facciate finta di farlo. Per noi è indifferente» chiarì in tono annoiato. «L’importante è che diate l’impressione di cercare i responsabili del duplice omicidio e che Pellegrini ne sia convinto al punto da mantenere un collegamento». «Non avete bisogno di noi per arrestarlo». «Vero. Ma abbiamo altre priorità». «E noi siamo le pedine sacrificabili». «Mi fa piacere che tu lo abbia capito. D’altronde avete un conto salato da pagare. Non so come abbiate fatto a evitare la galera negli ultimi anni ma adesso è arrivato il momento di mettere fine alle vostre cazzate». La banale sincerità della poliziotta mi gelò il sangue. «Non avete prove contro di noi. Neppure un indizio, altrimenti lei non avrebbe usato la carta della carognata di mettere la droga sul Sylvie». «Abbiamo raccolto delle voci che un domani potrebbero trasformarsi in pagine di verbale». «Balle». Scosse la testa. La coda di cavallo le accarezzò le spalle. «Mi spiace darti un’altra cattiva notizia ma Giorgio Pellegrini mi ha raccontato della signora svizzera e della vostra indagine di investigatori senza licenza. Una storiella che vale tre ergastoli. Uno a testa». All’improvviso capii. Quel pezzo di merda stava cercando di ottenere ancora una volta l’immunità per tornare a recitare la parte del cittadino modello e si era messo a disposizione degli sbirri. Per dimostrare la sua buona fede aveva raccontato, a suo modo ovviamente, la “verità” sulla vicenda che lo aveva costretto a darsi alla fuga. Ma non era certo sufficiente a tenerlo lontano dalla galera. Pellegrini doveva avere offerto un piatto ben più appetitoso, probabilmente agendo da infiltrato, poi qualcosa era andato storto e Martina e Gemma ci avevano rimesso la pelle. Fissai la donna. Ero certo che l’idea di coinvolgerci fosse sua. Pellegrini ci aveva venduto e lei si era convinta che potevamo essere utili. «Pellegrini mente come respira» dissi. «Vi ha riempito di chiacchiere senza fornirvi prove». «Noi non ne abbiamo bisogno» mi ricordò la poliziotta. «E comunque Giorgio è così convincente che è un piacere ascoltarlo». Dalla tasca della giacca estrasse le mie sigarette e l’accendino. «Fuma, Buratti. So che è la cosa di cui hai più bisogno in questo momento. Poi uscirai di qui e correrai a farti un goccio. Di calvados, ovviamente, che gusterai ascoltando quella musica da negri». Quell’esibizione sprezzante di dettagli sulla mia vita privata riuscì a strapparmi un sorriso. La sbirra presuntuosa aveva letto i nostri fascicoli e ascoltato ciance di seconda mano ma non aveva la minima


idea di chi fossimo veramente. Ci giudicava secondo parametri da scuola di polizia che a noi non erano applicabili. Il nostro cuore fuorilegge marcava la differenza, rendeva incolmabile l’abisso che ci separava. Ora la funzionaria di chissà quale reparto dei servizi era convinta di tenermi per le palle, dando per scontato che avrei convinto i miei amici ad abbassarci a lavorare per loro, a marciare verso il fuoco nemico come fantocci. Non aveva idea di quanto si sbagliava. Non avevamo generali né padroni a dominare le nostre vite. «Mi sembra superfluo sottolineare che teniamo il guinzaglio lungo ma non ne dovete approfittare» aggiunse la poliziotta sulla porta. «Noi siamo veloci a riacchiappare gli stronzi». Isola di Prvi?, Dalmazia. I turisti erano andati via da un pezzo e la baia dove avevamo gettato l’àncora del Sylvie era buia e silenziosa. L’acqua era immobile e fredda. Avevo raggiunto i miei amici svignandomela da Padova nel momento esatto in cui ero stato rilasciato. Avevo recuperato un cellulare di emergenza e li avevo avvertiti. Ci eravamo dati appuntamento al porto di Šibenik, che avevo raggiunto in treno e autobus. Lì Beniamino e Max mi avevano raccolto. Non si trattava di una fuga. Le parole della poliziotta erano da tenere in seria considerazione. Avevamo però bisogno di un po’ di tempo per parlare e prendere decisioni di importanza decisiva per il nostro futuro. La situazione era gravissima. Appena salito a bordo avevo chiesto scusa ai miei amici per essere stato così sventato da intavolare una conversazione con Pellegrini. «Non potevi immaginare che si trattasse di una trappola» disse Max. L’aria di mare gli aveva fatto bene ed era dimagrito di qualche chilo. Aveva il volto cotto dal sole e i capelli lunghi sul collo. Anche Rossini era in forma. Aveva ripreso a pieno ritmo a contrabbandare merce e persone nell’Adriatico e il ciccione gli aveva fatto compagnia. «Doveva capitare prima o poi» era stato il suo unico commento stappando una bottiglia di malvasia istriana. Ci concedemmo una cena sontuosa prima di affrontare la dura realtà. Una discussione lunga ed estenuante in cui fui costretto a ripetere più volte ogni parola pronunciata al telefono e in questura. Poco prima dell’alba nel salottino del Sylvie calò il silenzio mentre Max preparava il primo caffè del nuovo giorno. «L’unica cosa certa di questa faccenda è che ancora una volta Giorgio Pellegrini è il perno di un oscuro meccanismo criminale» ragionò mentre riempiva le tazzine. «E la sua morte avrebbe l’effetto positivo di sparigliare i giochi» intervenne il vecchio Rossini. «Non ci resta che trovarlo, ammazzarlo e poi mettere a posto le cose con quella stronza dei servizi». «E gli assassini di Martina e Gemma» conclusi. Nessuno dei due obiettò. Il piano era fatto o quantomeno abbozzato e non c’era più nulla da aggiungere. Max accese la radio e la sintonizzò su un canale italiano che trasmetteva il notiziario delle sei, Beniamino mise in moto il verricello dell’àncora. Raggiunsi il ponte e mi sedetti su una poltroncina a poppa a godermi la vista del mare, del cielo e dell’isola. Dopo giorni di tensione mi sentivo finalmente tranquillo. Non avevo la minima idea di come


sarebbe andata a finire, ma avrei condiviso il destino con i miei amici e avremmo tenuto alta la testa. Di meglio non potevo sperare.



NOTA SULL’AUTORE Massimo Carlotto è nato a Padova nel 1956. Scoperto dalla scrittrice e critica Grazia Cherchi, ha esordito nel 1995 con il romanzo Il fuggiasco, pubblicato dalle Edizioni E/O e vincitore del Premio del Giovedì 1996. Per la stessa casa editrice ha scritto: Arrivederci amore, ciao (secondo posto al Gran Premio della Letteratura Poliziesca in Francia 2003, finalista all’Edgar Allan Poe Award nella versione inglese pubblicata da Europa Editions nel 2006), La verità dell’Alligatore, Il mistero di Mangiabarche, Le irregolari, Nessuna cortesia all’uscita (Premio Dessì 1999 e menzione speciale della giuria Premio Scerbanenco 1999), Il corriere colombiano, Il maestro di nodi (Premio Scerbanenco 2003), Niente, più niente al mondo (Premio Girulà 2008), L’oscura immensità della morte, Nordest con Marco Videtta (Premio Selezione Bancarella 2006), La terra della mia anima (Premio Grinzane Noir 2007), Cristiani di Allah (2008), Perdas de Fogu con i Mama Sabot (Premio Noir Ecologista Jean-Claude Izzo 2009), L’amore del bandito (2010), Alla fine di un giorno noioso (2011), Il mondo non mi deve nulla (2014), la fiaba La via del pepe (2014) e La banda degli amanti (2015). Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato Mi fido di te, scritto assieme a Francesco Abate, Respiro corto, Cocaina (con Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo) e, con Marco Videtta, i quattro romanzi del ciclo Le Vendicatrici (Ksenia, Eva, Sara e Luz). I suoi libri sono tradotti in molte lingue e ha vinto numerosi premi sia in Italia che all’estero. Massimo Carlotto è anche autore teatrale, sceneggiatore e collabora con quotidiani, riviste e musicisti.


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.