A tutto volume

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A TUTTO VOLUME

Prefazione di Vincenzo Schettini

Francesca Bugiolacchi

Francesca Bugiolacchi

A TUTTO VOLUME

Prefazione di Vincenzo Schettini

Editoriale ELi
Gruppo

Francesca Bugiolacchi

A tutto volume

Responsabile editoriale: Beatrice Loreti

Art director: Marco Mercatali

Responsabile di produzione: Francesco Capitano

Correzione bozze: Micaela di Trani

Progetto grafico: Sergio Elisei

Impaginazione: Curvilinee

Illustrazioni: Carla Manea

© 2024 La Spiga Edizioni

Via Brecce, 100 – Loreto tel. 071 750 701

info@elilaspigaedizioni.it

www.gruppoeli.it

Stampato in Italia presso

Tecnostampa - Pigini Group Printing Division - Loreto - Trevi 24.83.271.0

ISBN 978-88-468-4485-9

Le fotocopie non autorizzate sono illegali. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale così come la sua trasmissione sotto qualsiasi forma o con qualunque mezzo senza previa autorizzazione scritta da parte dell’editore.

Ho incontrato i genitori di Tommaso, Catia e Sandro, in occasione di un evento organizzato a Foligno dalla loro associazione “Penso

Positivo by Tommaso” qualche tempo fa ed è stata subito sintonia; è per questo che con grande piacere ho accettato di scrivere la prefazione per questo libro volendo parlare di inclusione.

In un mondo in rapida evoluzione, l’educazione deve affrontare sfide sempre più complesse e, tra queste, l’inclusione scolastica emerge come un imperativo morale e sociale.

L’inclusione non è solo una questione di adattamento strutturale, ma piuttosto una filosofia che abbraccia la diversità e valorizza le potenzialità uniche di ogni individuo.

In un momento in cui le barriere dell’indifferenza e della discriminazione minacciano di oscurare il cammino dell’apprendimento, dobbiamo guardare a realtà come “Penso Positivo by Tommaso” come guide illuminanti: la dedizione a creare un ambiente educativo che accoglie, sostiene e celebra la diversità è un imperativo morale che tutti noi, educatori, genitori e studenti, dobbiamo abbracciare.

Questa prefazione è un mio personale omaggio a Tommaso e a tutti coloro che, attraverso il loro coraggio, ci insegnano che la vera forza risiede nella capacità di trasformare le avversità in un’opportunità per il cambiamento.

Che ogni parola qui scritta possa essere un invito a riflettere sul nostro ruolo nell’aprire porte e menti, affinché ogni studente possa sentirsi parte integrante della comunità educativa.

Tommaso, nel suo percorso, ci ha lasciato un’eredità importante, diventando un faro di speranza per gli studenti che, come lui, cercano di trovare il loro posto nel mondo.

Sono convinto che questo libro potrà rappresentare un importante contributo alla diffusione della consapevolezza e alla promozione di un mondo scolastico che abbracci il motto di “Penso Positivo” per ogni studente, in ogni aula, in ogni istituzione educativa.

PREFAZIONE
Prefazione di Vincenzo Schettini 3 Intro 5 Capitolo 1 Estate 6 Capitolo 2 Autunno 33 Capitolo 3 Inverno 46 Capitolo 4 Primavera 65 Capitolo 5 Estate, ancora 71
INDICE

Non si cresce in una direzione sola. Diventare adulti non è un percorso già tracciato, in base al quale parti da un punto e arrivi a un altro in maniera lineare e senza ostacoli. Gli inconvenienti capitano: come dice Lorenzo Jovanotti, i buchi neri sono sempre dietro l’angolo.

Io, per esempio, a dieci anni ho cambiato rotta, proprio come il capitano di una nave che, di fronte a un iceberg, deve virare per evitare che la sua imbarcazione ci sbatta contro. Gli iceberg si incontrano, punto e basta, non lo decide nessuno. Sospinti dalle correnti oceaniche e dai venti, percorrono miglia e miglia, alla deriva in mare aperto. E quando ti capita di trovarne uno, devi stare attento perché non puoi sapere quanto quell’incredibile montagna di ghiaccio galleggiante sia davvero grande sotto la superficie del mare. Per aggirarlo, bisogna manovrare i comandi e direzionare le eliche così da cambiare direzione, perché le navi, come le nostre vite, non hanno i freni!

Non sai se ce la farai. Non sai quanto tempo impiegherai a riprendere la rotta di prima e nemmeno se il tragitto che imboccherai sarà esattamente lo stesso di quando eri partito. Però ci provi, consapevole che la tua impresa vale più del risultato e che ogni singolo giorno che ti sarà offerto per portarla avanti è un giorno da vivere a tutto volume.

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Intro

Estate

■ I. Il sogno

Cambiare direzione non è mica facile. L’Umiak I, per esempio, è la più grande e potente nave portarinfuse rompighiaccio del Nord America e a virare impiega ben quarantadue secondi. Un tempo immenso se uno ci pensa bene, perché, se trovi un ostacolo quando sei lanciato alla massima velocità, sei messo davvero male.

Queste cose le so perché in quarta elementare ero andato in fissa con un documentario sulle navi più grandi del mondo. Navi incredibili, dotate di tecnologie sofisticate e capaci di compiere imprese titaniche, come trasportare viveri o materiali da una parte all’altra degli oceani, sfidando venti impetuosi, flutti imponenti, acque ghiacciate e inevitabili problemi tecnici. Situazioni sempre al limite dell’impossibile.

Terminato il programma, mi rintanavo in camera e cominciavo a smontare e rimontare i miei modelli: l’esploratore artico, la nave di pattuglia della guardia costiera, quella dei vigili del fuoco e la nave da carico. Ne avevo anche altri, ma questi quattro erano in assoluto i miei preferiti e li tenevo bene in mostra sullo scaffale, pronti all’uso in qualsiasi momento. Li appoggiavo quindi sopra la scrivania, in fila l’uno accanto all’altro, e poi mi abbassavo fino a portare gli occhi alla stessa altezza del piccolo equipaggio di plastica, così da avere l’impressione di essere anch’io a bordo delle navi. Le studiavo in ogni minimo dettaglio: i comandi, il timone, le botole, gli alberi maestri, le scialuppe. Conoscevo a memoria il numero di mattoncini di plastica colorata che le componevano. Un giorno, mi ripetevo, sarei stato io a progettarle. Non le costruzioni di mattoncini, intendo le navi vere e proprie. Era il mio sogno più grande, diventare un ingegnere navale e realizzare il

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Capitolo

progetto dell’imbarcazione più tecnologica mai esistita, una cosa così complicata che nessuno l’aveva ancora concepita. Neanche io ovviamente, ma era proprio quello il bello. La cosa entusiasmante dei sogni è che hanno sempre qualcosa di ignoto, talmente misterioso che il solo pensiero ti mette adrenalina.

Quando parlavo del mio sogno a casa o a scuola, mi guardavano tutti un po’ sorpresi: per uno che abita a Foligno, in Umbria – che, per inciso, è l’unica regione dell’Italia peninsulare non bagnata dal mare – il desiderio di diventare un ingegnere navale può sembrare strano. Però, secondo me, è proprio perché in Umbria non c’è il mare che mi sono appassionato così tanto alle navi. È come se il limite geografico avesse fatto nascere questo amore. Ma, se ci pensi, che cos’è il limite se non un’opportunità? È l’occasione per diventare curiosi verso ciò che non si ha o non si conosce, per esplorare e comprendere nuove realtà.

E anche adesso che di anni ne ho ben sedici, quello di progettare navi è ancora il mio grande sogno. Un sogno, se è importante, se è quello della vita, non si butta via alla prima difficoltà. Anzi, è proprio quando il tuo progetto sembra in pericolo, come un castello di carte di fronte a una finestra spalancata, che capisci se è davvero lui il tuo obiettivo. E io non sono uno che si tira indietro, sia chiaro. Ho appena finito il secondo anno di liceo scientifico e a settembre andrò avanti. I prof sostengono che per uno come me quella scuola sia troppo complicata. Frasi del tipo: “In terzo superiore cambia tutto!” oppure “Scienze applicate è ancora più difficile rispetto al tradizionale liceo scientifico!” le ho sentite ripetere tante volte. Ma se è vero che mi chiamo Tommaso, con le parole ci faccio poco. Devo provare per crederci. E, al di là dei discorsi dei prof, il tempo di un nuovo cambio di rotta per me non è ancora arrivato.

■ II. Riccione

Ecco l’onda, arriva. Affondo i piedi nella sabbia bagnata fino a seppellirli, l’onda li libera dalla morsa della rena per poi coprirli di nuovo. Mi piace stare seduto a riva, avere la schiena asciutta

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che scotta sotto il sole di luglio e le gambe irrorate di fresco, è una bella sensazione. Così bella che non mi importa nemmeno se non posso fare il bagno come tutti gli altri.

I bambini fanno schiamazzi e si rincorrono con i costumi appesantiti dalla sabbia bagnata. Sperimentano la libertà di quel luogo incantato dove puoi urlare, rotolarti per terra, schizzare acqua addosso agli altri e cadere senza farti male. Una volta facevo come loro: appena vedevo l’acqua, impazzivo. Mollavo lo zainetto dove capitava, mi sfilavo maglietta e pantaloncini, ignoravo mamma che gridava “la crema!”, prendevo la rincorsa, correvo e, col cuore in gola, mi tuffavo, nuotando fino a dove non toccavo più. Restavo qualche secondo ad ascoltare le grida di chi stava sulla riva e che, sott’acqua, diventavano sussurri. Quando il sale cominciava a bruciare gli occhi, tornavo su. Allora trovavo mamma sul bagnasciuga, le mani aggrappate ai fianchi, che mi guardava con l’espressione finta arrabbiata che faceva sempre quando ne combinavo una delle mie. Tipo quella volta che, in vacanza sul Mar Rosso, dopo avermi cercato dappertutto, alla fine mi aveva trovato a ballare su un cubo alla festa in spiaggia organizzata dagli animatori del villaggio. Ancora me la ricordo la sua faccia furiosa e intenerita allo stesso tempo.

Mamma indugiava sempre un poco sulla riva. Avanzava di qualche passo, si bagnava con le mani le braccia, la pancia e alla fine si tuffava per venirmi a prendere. In realtà, era solo una scusa per fare il bagno insieme.

Adesso è seduta accanto a me. Si accorge che sto guardando i bambini giocare e forse pensa che la cosa possa rattristarmi: – Torniamo all’ombrellone?

– Ancora cinque minuti – la tranquillizzo io.

Ridiamo come matti a ogni risacca. L’acqua spumosa ci sale fino alle cosce e poi se ne scappa via, sballottandoci qua e là. Guardiamo l’orizzonte, di barche se ne vedono sempre poche nel mare Adriatico. In Liguria è diverso, passano continuamente imbarcazioni di ogni tipo: traghetti, yacht, motovedette, motoscafi, mercantili e navi da crociera. Dalla finestra della mia stanza al

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Gaslini, l’ospedale di Genova in cui sono stato ricoverato tante volte, mi divertivo a guardarle passare e a immaginare le loro rotte. A volte facevo questo gioco anche con i medici e gli infermieri di turno, ma soprattutto con zia Cristina, la sorella di papà. Ed è stata proprio lei a contattare Fincantieri dove, con i miei, abbiamo fatto una visita all’arsenale della Spezia. Chissà, magari un giorno progetterò proprio lì la mia nave.

Una volta andavo in vacanza in Liguria, e precisamente a Bonassola, insieme a mamma, al mio amico Simone e a sua madre. Dopo che proprio là è successo l’incidente, però, i miei preferiscono venire qui a Riccione e io sono contento lo stesso. Soprattutto perché mi piace quando arriva la sera e passeggiamo lungo viale Ceccarini, pieno di vita e di musica che esce da ogni locale.

– Torniamo su – dice mamma a un certo punto, interrompendo i miei pensieri. Mi dà una mano a rialzarmi e a infilare le ciabatte.

Nel risalire all’ombrellone, passiamo accanto a un gruppo di ragazze e ragazzi poco più grandi di me, seduti in tre o in quattro sopra i lettini ammucchiati sotto lo stesso ombrellone. Fingo di non notare le loro facce. Sono sempre stato bravo in questo genere di cose. Mamma, papà e le mie zie, invece, si irritavano parecchio quando succedeva che per strada, subito dopo avermi visto, la gente si girasse dall’altra parte a commentare. Che poi, quelli che voltano lo sguardo sono i migliori. Decisamente più melodrammatiche sono le reazioni dei bambini e degli anziani: i primi spalancano gli occhi, i vecchi li stringono in due fessure, come uno che si sforza per vederci meglio. Ormai i miei parenti hanno imparato a gestire le loro reazioni di fronte agli sguardi indiscreti delle persone, forse perché in primis loro stessi si sono abituati a me. All’inizio, infatti, ogni occhiata più insistente era come il trillo di una sveglia, fatta suonare apposta per risvegliare un trauma difficile da superare.

Arrivati all’ombrellone, recupero subito maglietta e bandana. Mamma si affretta a raggiungermi e, in silenzio, mi aiuta a infilarli. Non abbiamo più bisogno di dirci certe cose, ci capiamo al

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volo lei e io. E, come per magia, la tracheo e il “bottone” della PEG scompaiono.

■ III. Una tisana spaventosa

Lo ammetto, la tracheo è una roba tremenda: a parte il fatto che si vede, perché hai un’apertura all’altezza del collo, la cannula che ti inseriscono nella trachea ti impedisce di parlare bene e di farti capire dagli altri. Ci sono voluti mesi prima di abituarmi e ricominciare a parlare normalmente; all’inizio, mi facevo un sacco di problemi con la gente che non conoscevo per paura di non essere capito. Perché, spesso, quando uno non capisce quello che dici pensa che sei anche scemo.

Una volta, per esempio, stavo aspettando dentro un negozio che papà tornasse a prendermi e il proprietario aveva cominciato a lamentarsi della mia presenza lì, come se fossi stato un idiota incapace di capire il senso delle sue parole. In macchina, lo avevo raccontato a papà in lacrime. Lui si era fatto scuro in volto, non lo avevo mai visto tanto incavolato prima d’allora e sinceramente non ricordo di averlo visto così altre volte dopo quel giorno.

In un’altra occasione, invece, era andata meglio. Zia Cristina mi aveva praticamente costretto a entrare in erboristeria per comprarle una tisana, mentre lei faceva altre commissioni. Mi aveva proprio abbandonato davanti alla porta del negozio con qualche piccola rassicurazione alle mie lagnanze: – Scandisci bene le parole, parla con calma e ripeti finché non ti capiscono. Ma soprattutto, riportami il resto e non te lo intascare!

Ero scoppiato a ridere: – Ok, ci provo.

Avevo quindi varcato la porta d’ingresso con una certa sicurezza, ma subito, una volta di fronte alla commessa, mi si era raggelato il sangue. Mi sentivo come i protagonisti maghi dei miei film fantasy preferiti, quando improvvisamente si trovano di fronte al mostro mutaforma che assume l’aspetto di ciò che mette loro più paura. In quel preciso istante, il mio terrore più grande aveva le sembianze di una ragazza con i capelli ricci e lo sguardo curioso.

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– Ciao, ti posso aiutare? – aveva chiesto.

Avrei voluto lanciare un incantesimo per farle diventare i capelli verdi o trasformarla in un mostriciattolo buffo, così da sconfiggere la paura con le risate. Io, però, non ho mai avuto una bacchetta magica. Così, seguendo i consigli di zia, avevo fatto un respiro profondo per poi pronunciare con calma la richiesta:

– Ho bisogno di una tisana alla betulla.

– Alla betulla? – aveva ripetuto sorpresa la ragazza. Certo, era normale che fosse sorpresa; dubito che ci sia tanta gente in giro che compra tisane alla betulla.

– Sì, è per mia zia – mi ero giustificato io.

– Te la prendo subito.

Tornata, aveva fatto lo scontrino, preso i soldi che avevo messo sul bancone e, dopo avermi piazzato il resto su una mano e inforcato il manico della busta con la tisana sul mio polso, mi aveva salutato.

Ero uscito dal negozio con un sorriso radioso stampato in faccia. Ce l’avevo fatta anche senza una bacchetta magica. Il mostro era stato sconfitto.

■ IV. Il ritmo

La vacanza a Riccione è sempre troppo breve. Papà, però, deve tornare all’agriturismo, mamma al suo lavoro d’ufficio e quindi non si può fare altro che caricare le valigie e rimettersi in macchina, direzione Foligno. Io, però, non sono triste; l’estate, in fondo, è appena iniziata. Tra qualche giorno andrò dai nonni a Scheggia, poi ci saranno le vacanze sulle Dolomiti con papà e mamma e le giornate a casa con zia Cristina. Abbiamo un bel lavoro da fare, lei e io, per portare avanti tutti i nostri progetti: il frutteto, la fattoria, la tartufaia. Alle cose più noiose non ci voglio ancora pensare, come a certe visite mediche che dovrò fare e di cui discutono ora in macchina i miei. Allora mi metto le cuffie alle orecchie e aumento il volume della mia musica preferita.

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Mamma mi ha raccontato che durante i giorni del coma mi facevano ascoltare la playlist di Jova che avevo scaricato sul mio telefonino. Quell’anno era uscito l’album Lorenzo 2015 CC., con trenta brani nuovi di zecca che avevo cantato per tutta l’estate, prima dell’incidente. Quelle canzoni mi sono rimaste dentro, come se le loro parole si fossero incise nella mia memoria. Adesso la mente fa degli scherzi, a volte non mi ricordo delle cose. Alcune scene del passato sono come sprazzi, immagini frammentate e confuse. Però, delle canzoni di Jovanotti conosco tutte le parole. E anche quando non le ascolto e faccio le mie cose, mi vengono in mente certe frasi e con quelle trovo sempre le risposte che mi servono, anche se non le stavo cercando. Non mi sento mai solo, perché tutte le emozioni che provo sono anche dentro quelle canzoni, tutti i sentimenti che sperimento vengono raccontati.

Non sarò mai abbastanza grato alla musica per avermi salvato, portandomi sempre lontano. I suoni sono potenti, perché hanno l’abilità di farti viaggiare indietro nel tempo o nel futuro, in altri luoghi o dimensioni.

Quando, dopo il coma, non potevo ancora muovermi, parlare e nemmeno respirare da solo, avevo l’impressione che insieme a me anche il mondo si fosse fermato. A casa erano tutti preoccupati, spaventati, in attesa. Certo, si davano un sacco da fare, mamma, papà, le zie: forse hanno fatto più cose in quei momenti difficili che in tutta la loro vita. Quanti chilometri per venire a trovarmi ogni settimana, prima a Genova, poi a Bosisio Parini in Lombardia. Tuttavia, quando hai paura puoi fare tutto quello che vuoi o che devi, ma dentro di te è come se fossi paralizzato.

Poi, però, accendevano la musica e io venivo trasportato in un’altra dimensione, dove niente e nessuno era bloccato, dove anche io potevo muovermi come volevo dentro una realtà pulsante e dinamica.

È stato sempre così, anche da bambino: ogni volta che la musica arrivava alle mie orecchie era come se un’onda elettrica mi

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investisse. Il ritmo era come un formicolio che mi attraversava il corpo e mi costringeva a muovere ogni muscolo.

A otto anni avevo iniziato un corso di break dance, ballavo sempre, ballavo dappertutto. Non riuscivo a trattenermi: se ero felice avevo voglia di dimenarmi, se ero nervoso mi scaricavo ballando. Non mi sono mai vergognato, nemmeno quella volta che, in un palazzetto gremito, mi sono buttato a gareggiare contro gente che ballava da anni e io solo da un paio di mesi. Mamma non poteva credere ai suoi occhi, ma io l’ho fatto perché il ritmo vince su tutto, sulla paura, sul giudizio degli altri.

Anche adesso, nonostante io non sia più tanto coordinato nei movimenti, quando la musica parte, parto con lei. E più il volume è alto, più il ritmo mi entra nel sangue, percorre tutte le vene e mi fa scattare. Senza regole, senza schemi, nella più assoluta libertà.

Ogni tanto, la sera balliamo insieme a mamma. Papà no, però gli piace guardarci. Sono belli i nostri balletti improvvisati, spensierati, sgangherati. Non li vedrà mai nessuno: sono solo per noi e per noi rimarranno per sempre. La musica batte con i nostri cuori, esplode fuori dalla finestra della mia camera, supera l’agriturismo, i tetti della mia città e vola lontano, sopra le colline e le montagne: e con lei volano le nostre risate e i nostri sogni.

Scheggia è un borgo umbro immerso nei boschi del parco del monte Cucco. Ci abitano poco più di mille persone e ha un centro storico che è fatto di una via, una chiesa, due torri e due bar. Eppure a passare le vacanze qui non mi annoio mai e so già che vorrò trascorrerci tutte le estati della mia vita.

Anche stamattina, durante una chiacchierata al telefono con mamma, provo a convincerla a ristrutturare la casa che ora è dei nonni e che un giorno sarà mia. Lei mi ascolta, dice che è una bella idea, bellissima, ma un progetto del genere è impegnativo: seguire i lavori richiede tempo e attenzione, soprattutto conside-

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