L'amorosa inchiesta_1B

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N. Gazich

b

Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di

Filippo La Porta

1

Edizione azzurra

L’amorosa b inchiesta Quattrocento e Cinquecento

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida equilibri

PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ

ORIENTAMENTO

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere


Novella Gazich Manuela Lori

L’amorosa inchiesta 1b con la collaborazione di

Filippo La Porta

Edizione azzurra

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

Quattrocento e Cinquecento


Indice Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali Umanesimo e Rinascimento

23

Sguardo sulla storia 24

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 28 1 Umanesimo/Rinascimento 28 2 L’Umanesimo: la centralità dell’uomo e la rivalutazione della dimensione terrena 29 Giannozzo Manetti D1 Il piacere, non il dolore, caratterizza la vita umana 32 Poggio Bracciolini online D2 Il desiderio di arricchirsi non è una colpa perché è naturale Leon Battista Alberti online D3 Lode dell’operosità

3 Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici 34 PER APPROFONDIRE La nascita del collezionismo 34 Marsilio Ficino D4 Una nuova età aurea 35 Poggio Bracciolini online D5 Ho trovato Quintiliano ancor salvo e incolume

4 La fondazione del metodo filologico 36 PER APPROFONDIRE Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari 37

5 La concezione del tempo e dello spazio 38 Il tempo degli umanisti

38

Leon Battista Alberti LEGGERE D6 Il valore del tempo LE EMOZIONI 38 Lo spazio 40 Cristoforo Colombo online D7 La scoperta del nuovo mondo PER APPROFONDIRE Le città ideali 41

6 I valori e i modelli di comportamento 43 Cristoforo Landino

online D8 Un incontro tra spiriti affini

7 Luoghi, centri e figure della produzione culturale 45 La corte: luogo-simbolo della cultura umanistico-rinascimentale 45 I LUOGHI DELLA CULTURA La corte 48 Il cenacolo e l’accademia 49 La biblioteca 50 Nuovi spazi per una “cultura del dialogo” 49 Gli intellettuali: nuovi ruoli, nuove identità 51

INDICE

3


TESTI IN DIALOGO • Il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico nel ritratto dei contemporanei: due testimonianze

Angelo Poliziano

online D9a «Uomo nato a cose grandi»

Niccolò Machiavelli

online D9b Amava meravigliosamente qualunque era in una arte eccellente

Giorgio Vasari

online D10 Leon Battista Alberti, prototipo dell’artista-intellettuale

TESTI A CONFRONTO • Vivere a corte: tra mitizzazione e critica

Baldesar Castiglione D11a La corte felice di Urbino: un mito nostalgico 53 Erasmo da Rotterdam D11b La vita vuota dei cortigiani 54

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 55 1 Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica 55 TESTI IN DIALOGO • La pedagogia umanistica: alcune testimonianze

Pier Paolo Vergerio

online D12a Centralità degli studia humanitatis

Leon Battista Alberti

online D12b Anche l’esercizio fisico è importante

2 Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura 56 Leonardo Bruni D13 Il valore educativo della discussione e del confrontomaggio

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

58

3 Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino 59 L’opera di Marsilio Ficino, prototipo del “nuovo filosofo” 59 Pico della Mirandola D14 Il posto dell’uomo nell’universo 60

4 Un modo diverso di guardare alla natura 63 PER APPROFONDIRE Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna 64 Leonardo da Vinci D15 Le scienze che non si riferiscono all’esperienza sono vane ed erronee 64

3 Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 66 1 La letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 66

4 L’evoluzione della lingua 69 1 Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare 69 PER APPROFONDIRE Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare 69

2 La “questione della lingua” nel Cinquecento 70 Le diverse posizioni sul problema della lingua 70 PER APPROFONDIRE Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore 71

4

INDICE


Lorenzo Valla

online D16 Il latino è la lingua della civiltà

Pietro Bembo D17 Chi scrive deve imitare i grandi modelli 73 LIBRI, LETTORI, LETTURA

La rivoluzione della stampa 76 Dove e come leggono gli umanisti 78 Tommaso Garzoni

online D18 La stampa produce conoscenza per tutti

TESTI IN DIALOGO • Leggere nell’età umanistico-rinascimentale

Niccolò Machiavelli

online D19a La “doppia lettura” di Machiavelli

Guarino Veronese

online D19b Leggere prendendo appunti: i suggerimenti di un grande educatore

Michel de Montaigne

online D19c Montaigne e i libri ARTE NEL TEMPO

Il Quattrocento La concezione di uno spazio matematico e l’artista di corte 80 1. Trinità di Masaccio 80 2. L’artista di corte: la Pala di Brera di Piero della Francesca 81 3. L’artista di corte: la Camera Picta di Andrea Mantegna 82 Il primo Cinquecento Corpi, movimento e spazio 84 4. Il naturalismo di Leonardo 84 5. La pittura scenografica di Tiziano 85

online

Sintesi con audiolettura 86 Zona Competenze 90 Lezione in Power Point Verso il Novecento Achille Campanile Un rovesciamento umoristico dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa” Per approfondire La filologia dell’opera Danzar, festeggiar, cantar e giocare… Il ruolo della festa nella società signorile

1 Classicismo e anticlassicismo

L’Accademia platonica di Careggi Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia Gallery Il genio multiforme di Leonardo

91

1 La visione classicistica della letteratura 92 1 I principi chiave del classicismo 92 PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi 93

2 Lorenzo de’ Medici 94 Lorenzo de’ Medici T1 Canzona di Bacco 95

3 Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza 98 Le Stanze per la giostra

98

SGUARDO SULL'ARTE Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte 100

INDICE

5


La Fabula di Orfeo e la nascita di un teatro umanistico per la corte

102

PER APPROFONDIRE Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano

102

Angelo Poliziano T2 Il regno di Venere e dell’Amore T3 I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino

103 107

4 Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia

109

Jacopo Sannazaro T4 L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo online T5 La morte dell’Arcadia: l’epilogo funereo dell’opera

110

5 La civiltà del trattato

113

Il trattato Gli Asolani e la divulgazione dell’amor platonico Pietro Bembo T6 L’amore spiritualizzato Il Cortegiano di Baldesar Castiglione: l’identikit del perfetto gentiluomo di corte

113

PER APPROFONDIRE Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei Giovanni Della Casa e il Galateo: la “civiltà delle buone maniere”

115 116 118 119

EDUCAZIONE CIVICA secondo le

NUOVE Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

121

#PROGETTOPARITÀ

T7 Le qualità del “perfetto cortigiano” Baldesar Castiglione T7a Grazia e sprezzatura T7b Il ruolo del cortigiano T8 Suggerimenti su come comportarsi in società Giovanni Della Casa T8a Cattive maniere a tavola T8b Argomenti di conversazione. Come parlare in società

2 La produzione anticlassicista 1 Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo 2 La Vita di Benvenuto Cellini

122 122 123 126 126 127 130 130 131

Benvenuto Cellini

online T9 Un omicidio

SGUARDO SULL'ARTE La fusione del Perseo

3 Un “irregolare”: Pietro Aretino Pietro Aretino T10 Una spregiudicata lezione di erotismo

4 Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo PER APPROFONDIRE Il mito del paese di Cuccagna

133 134 135 137

Teofilo Folengo T11 Le Muse maccheroniche online T12 Un contadino… poco bucolico

138

5 Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais

142

François Rabelais T13 L’appello ai lettori: la difesa del riso

6

132

INDICE

145


online T14 La poetica dell’eccesso

online

T15 L’aldilà come luogo del “rovesciamento carnevalesco” Sintesi con audiolettura Zona Competenze

Per approfondire Dal “giardino paradiso” dell’età umanisticorinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia

146 150 152

Interpretazioni critiche Maria Corti Il codice bucolico e l’Arcadia di Sannazaro Primo Levi Rabelais uomo delle contraddizioni Video e Audio Giacomo Battiato (Film, 1989) Una vita scellerata

2 Il petrarchismo e la poesia femminile

153

1 La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 154 1 Il petrarchismo

154

I petrarchisti

155

2 La contestazione del modello: gli antipetrarchisti

156

T1 Il modello e la contestazione parodica Pietro Bembo T1a Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura Francesco Berni T1b Chiome d’argento fino, irte e attorte Pietro Bembo online T2 Piansi e cantai Michelangelo Buonarroti T3 Giunto è già ’l corso della vita mia Michelangelo Buonarroti online T4 O notte, o dolce tempo, benché nero Giovanni Della casa T5 Questa vita mortal, che ’n una o ’n due

158 158 159

161

163

2 Le poetesse

165

PER APPROFONDIRE Cosa significava essere una “cortigiana”? Vittoria Colonna secondo le NUOVE T6 Qui fece il mio bel sole a noi ritorno EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Gaspara Stampa T7 Voi, ch’ascoltate in queste meste rime Veronica Gambara online T8 Ombroso colle Isabella di Morra online T9 D’un alto monte onde si scorge il mare

165

PARITÀ DI GENERE equilibri

167

#PROGETTOPARITÀ

168

VERSO ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

170 171 172

INDICE

7


3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale

173

1 Il Quattrocento 174 VERSO IL NOVECENTO Dalla facezia umanistica alla barzelletta 175 Achille Campanile Trattato delle barzellette 175 Poggio Bracciolini T1 Il prete che invece di paramenti portò al vescovo dei capponi 176 Masuccio Salernitano online T2 Una novella ispirata al gusto per l’orrido

2 Il Cinquecento 178 Matteo Bandello T3 Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide 181 SGUARDO SUL TEATRO E CINEMA La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema 185 TESTI IN DIALOGO • La storia di Romeo e Giulietta

Matteo Bandello D1a La scena del balcone in Bandello 186 William Shakespeare D1b La scena del balcone in Shakespeare 188

online

Sintesi con audiolettura 193 Zona Competenze 194

Per approfondire Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio

Interpretazioni critiche Salvatore Battaglia L’imprevedibilità come legge del comportamento umano

4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato

195

1 Dai cantari al poema cavalleresco 196 1 Un genere destinato al successo 196 2 I cantari 197 PER APPROFONDIRE La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare 197 online T1 L’infrazione dell’aura mitica: Orlando, affamato, cerca lavoro

3 Il poema cavalleresco 198 4 Il Morgante di Pulci. La deformazione comica e grottesca della materia cavalleresca 199

8

Luigi Pulci, un “irregolare” alla corte dei Medici

199

Il Morgante

200

INDICE


5 L’Orlando innamorato di Boiardo e la nostalgica riproposizione del mondo cavalleresco

201

Matteo Maria Boiardo alla corte estense

201

L’Orlando innamorato

202

PER APPROFONDIRE La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato

205

TESTI IN DIALOGO • I proemi del Morgante e dell’Orlando innamorato

206

Luigi Pulci T2a Il proemio del Morgante Matteo Maria Boiardo T2b Il proemio dell’Orlando innamorato Matteo Maria Boiardo online T3 …E torna il mondo di virtù fiorito Luigi Pulci T4 Il credo blasfemo di Margutte Luigi Pulici online T5 E Runcisvalle pareva un tegame Matteo Maria Boiardo T6 La bella Angelica propone una sfida cavalleresca ANALISI PASSO DOPO PASSO VERSO IL NOVECENTO Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato Gianni Celati L’Orlando innamorato raccontato in prosa Matteo Maria Boiardo secondo le EDUCAZIONE NUOVE T7 Orlando difende i valori della cultura e dell’amore CIVICA Linee guida

206 208

210

214 218 218 220

6 L’evoluzione del tema cavalleresco nel Cinquecento. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata

224

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

225 227

5 Ludovico Ariosto

228

1 Ritratto d’autore

230

1 Una vita nella corte

230

SGUARDO SULLA STORIA Ferrara al tempo di Ariosto

231

2 Le opere

234

1 Lo sperimentalismo dei generi 2 Le Rime 3 Ariosto commediografo

235

PER APPROFONDIRE Ariosto pensava a un “canzoniere”?

4 L’epistolario Ludovico Ariosto T1 Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore

234 235 235 237 238

INDICE

9


5 Le Satire

239

PER APPROFONDIRE Gli argomenti delle Satire

240

Ludovico Ariosto secondo le NUOVE T2 Ariosto e la condizione cortigiana EDUCAZIONE CIVICA Linee guida T3 Ariosto e la condizione del cortigiano

242 246

VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

250

3 L’Orlando furioso

252

1 La genesi, le vicende editoriali, la trama

252

Il poema di una vita. Le tre edizioni La trama dell’Orlando furioso

253 254

PER APPROFONDIRE L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore

254

2 Temi e motivi

256

Le donne… gli amori

256

SGUARDO SULL’ARTE La maga Melissa secondo Dossi

256

I cavallier… l’armi: il tema della guerra La dimensione del “meraviglioso” Luoghi-simbolo: la selva, il palazzo di Atlante, il valloncello della Luna

258 259 260

3 Le modalità narrative

261

L’“inchiesta” e la visione ariostesca della vita umana

261

“Strani viaggi”: il modello spaziale del poema I personaggi e il narratore

263 264

4 Le scelte stilistico-linguistiche e metriche

265

PER APPROFONDIRE Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore

265

VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

267

Ludovico Ariosto T4 Un poema nuovo nasce dalla tradizione cavalleresca T5 Il primo canto, compendio dell’universo poetico del Furioso

270 273

VERSO IL NOVECENTO Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa Ludovico Ariosto online T6a Un anello, un mago, un cavallo alato... online T6b Un duello a colpi di magia: Bradamante sfida il mago Atlante secondo le PARITÀ NUOVE T7 Rinaldo difensore dei “diritti delle donne” EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida online T8 Ruggiero all’isola di Alcina online T9 Una terribile invenzione di guerra: l’archibugio T10 Il palazzo dei desideri COLLABORA ALL’ANALISI

287 287

equilibri

288

#PROGETTOPARITÀ

SGUARDO SULLA LETTERATURA E IL TEATRO L’Orlando furioso di Ronconi

292 297

Ludovico Ariosto

online T11 La preghiera di Carlo Magno e il viaggio dell’angelo Michele:

la dimensione religiosa entra nel poema?

SGUARDO SULL’ARTE La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano

10

INDICE

300


Ludovico Ariosto T12 Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: Cloridano e Medoro ANALISI PASSO DOPO PASSO LEGGERE 302 LE EMOZIONI T13 Ricompare Angelica… ma è una nuova Angelica 313 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

T14 E cominciò la gran follia sì orrenda

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

317

online T15 Un’avventura fuori dal mondo: Astolfo nel Paradiso Terrestre online T16 Il rovesciamento della prodezza cavalleresca nella pazzia

SGUARDO SULL’ARTE La follia di Orlando 328 Ludovico Ariosto T17 Il vallone lunare delle cose perdute: Astolfo recupera il senno di Orlando 329 online T18 L’Orlando furioso giunge in porto

VERSO IL NOVECENTO L’Orlando furioso come fonte e modello 334 Italo Calvino Storia di Astolfo sulla Luna 335 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 336

5 L’Orlando furioso nel tempo 338 online T19 Due opposti giudizi sul confronto Orlando furioso-Gerusalemme liberata

Camillo Pellegrino

online T19a Il palazzo illusionistico dell’Ariosto e la “fabrica” solida del Tasso

Galileo Galilei

online T19b Una galleria regia… lo studietto di qualche ometto curioso

Miguel de Cervantes

online T20 Un’avventura “cavalleresca” di don Chisciotte

Giacomo Leopardi

online T21 Il poema della felice immaginazione

online

Sintesi con audiolettura 341 Zona Competenze 344 Flipped classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Orlando furioso Mappa interattiva I luoghi del Furioso

Per approfondire Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo” Interpretazioni critiche Cesare Segre La ricerca di armonia nel Furioso Gallery Ferrara e gli Estensi Video L’Orlando furioso di Ronconi

6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie

345

1 La follia: esperienza umana e tema letterario 346 1 Folli e follia dal Medioevo al Rinascimento 346 SGUARDO SULL’ARTE La nave dei folli

347

2 La follia come tema letterario 349 Impazzire per amore: dal romanzo cavalleresco medievale all’Orlando furioso

349

INDICE

11


Chrétien de Troyes T1 Il «cerimoniale della follia»

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

350

3 I diversi significati della follia nella cultura umanistico-rinascimentale 352 Il doppio sguardo di Leon Battista Alberti 352 Leon Battista Alberti T2 La libertà del vagabondo 353 Erasmo da Rotterdam: la follia come saggezza 357 Erasmo da Rotterdam T3 Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza 359 online T4 Il privilegio dei “folli del re” VERSO IL NOVECENTO Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore” 361

4 La ripresa del tema della follia nell’età barocca 362 Miguel De Cervantes

online T5 Il testamento di Don Chisciotte VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

363

online

SIntesi con audiolettura 364 Zona Competenze 364

Per approfondire L’iconografia della follia

7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento

365

1 Le forme teatrali del Medioevo 366 1 Il teatro medievale: dai drammi liturgici alle “sacre rappresentazioni”

366

PER APPROFONDIRE Effetti speciali 367

2 Il teatro umanistico-rinascimentale 368 1 Il teatro di corte 368 2 La commedia, genere chiave della cultura rinascimentale 370 3 La produzione comica del Cinquecento 372 PER APPROFONDIRE “Comico del significato” e “comico del significante” 373 La scenografia prospettica 374 Bernardo Dovizi da Bibbiena

online T1 Prologo a difesa della modernità

T2 Un esempio canonico di comicità 375 T3 La dimensione erotica nella commedia e la visione platonico-petrarchista dell’amore 379

12

INDICE


Baldesar Castiglione T3a L’errato giudizio dei sensi Anonimo T3b L’incontro amoroso tra Angela e Iulio

379 380 382

La cortigiana di Pietro Aretino

383

Il teatro controcorrente di Ruzante Ruzante T4 Il monologo di Ruzante e l’incontro con la moglie Gnua

384 386

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

393 395

online

4 La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante

Per approfondire La specificità della comunicazione teatrale Tragedia e commedia nel mondo classico I luoghi del teatro

Video e Audio Festa del Paradiso di Leonardo in Vita di Leonardo Renato Castellani (Sceneggiato Rai, 1971)

8 Niccolò Machiavelli

396

1 Ritratto d’autore

398

1 Una vita segnata dalla passione politica

398

PER APPROFONDIRE I rapporti di un acuto osservatore politico

400

SGUARDO SULLA STORIA La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli

401

2 Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo Niccolò Machiavelli T1 Lode della varietà di comportamento (e di stile) T2 L’ozio forzato all’Albergaccio e la nascita del Principe

LEGGERE LE EMOZIONI

402 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

403 404

2 Il Principe

410

1 Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica

410

2 I fondamenti metodologici del Principe 3 I temi chiave

413 414

Etica e politica

414

PER APPROFONDIRE La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo”

414

Il rapporto virtù-fortuna

416

4 Ottenere il consenso: strategie espositive ed espressive nel Principe

417

Niccolò Machiavelli secondo le EDUCAZIONE NUOVE T3 La Dedica e la presentazione del Principe CIVICA Linee guida T4 I diversi tipi di principati e le diverse condizioni della loro genesi

420 422

INDICE

13


T5 I principati nuovi acquistati grazie alla «virtù» e per mezzo di milizie proprie T5a I principati nuovi COLLABORA ALL’ANALISI T5b I principati nuovi (in italiano contemporaneo) online T6 Un principe esemplare: il duca Valentino

424 424 428

PER APPROFONDIRE Il duca Valentino: un modello per Il Principe Niccolò Machiavelli secondo le NUOVE T7 Le qualità del principe machiavelliano EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

431

PARITÀ DI GENERE equilibri

432

#PROGETTOPARITÀ

TESTI IN DIALOGO • L’immagine del principe ideale nella trattatistica umanistica

Giovanni Pontano D1a Immagini del principe tra Umanesimo e Controriforma

435

Erasmo da Rotterdam

online D1b Il «Principe cristiano»

Giovanni Botero

online D1c «La religione è fondamento di ogni prencipato»

Niccolò Machiavelli T8 Il ribaltamento del “catalogo delle virtù”: il principe golpe e lione

436

Niccolò Machiavelli

online T9 Perché i principi d’Italia persero il regno INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Eugenio Garin Il principe machiavelliano come espressione estrema della cultura italiana del Rinascimento Antonio Gnoli e Gennaro Sasso “Bene” e “male” per Machiavelli

442

Niccolò Machiavelli T10 Il ruolo della fortuna ANALISI PASSO DOPO PASSO

443

PER APPROFONDIRE La Fortuna tra letteratura e arte In letteratura… … nell’arte

448 448 449

441

VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

451

Niccolò Machiavelli T11 Esortazione a liberare l’Italia dai “barbari”

452

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giulio Ferroni Contestualizzare il pensiero di Machiavelli

457

EDUCAZIONE CIVICA

Riflessioni sulla guerra

14

459

5 Come fu letto Il Principe: una pagina fondamentale nella coscienza politica europea

462

3 Machiavelli politologo, storico e letterato

466

1 I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione dell’Umanesimo

466

I temi principali Niccolò Machiavelli T12 Bisogna imitare gli antichi anche in campo politico online T13 Il ruolo positivo della religione a Roma. Le gravi responsabilità della Chiesa cattolica

467

INDICE

470


2 Dell’arte della guerra 473 3 Machiavelli storico: le Istorie fiorentine 474 4 L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo 475 5 La Mandragola 476 Le circostanze di composizione, il prologo, l’intreccio 476 Tra tradizione e innovazione 477 La contiguità tra la Mandragola e Il Principe 479 Niccolò Machiavelli T14 Callimaco, finto medico, propone a Nicia il rimedio della mandragola 481 online T15 Un capolavoro di cinismo e abilità retorica: l’“orazion picciola” di frate Timoteo T16 La metamorfosi di madonna Lucrezia e un ambiguo “lieto fine” 485 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Gennaro Sasso Il ritratto linguistico di Nicia

490

SGUARDO SUL CINEMA Il cinema sul Rinascimento 491 Sintesi con audiolettura 492 Zona Competenze 495 VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Niccolò Machiavelli «Della crudeltà e pietà» 496 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 499 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 501

Flipped classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Il Principe La Mandragola

Interpretazioni critiche Mario Martelli Lorenzo come il Valentino: la concretezza storica dell’esortazione a liberare l’Italia dai barbari Per approfondire I politici e Machiavelli

9 Francesco Guicciardini

502

1 Ritratto d’autore 504 1 Una vita sotto il segno dell’ambizione 504 Francesco Guicciardini

online D1 La vita splendida di messer Francesco in Romagna online D2 Amarezza per la perdita dell’onore

2 La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà 506

2 Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 507 1 Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia

507

Le opere dedicate al governo di Firenze 507 Il distacco dall’ottica “fiorentina” e la rinuncia alla progettualità politica 507 INDICE

15


2 La Storia d’Italia

508

Francesco Guicciardini

online D3 Il compito dello storico e i limiti della storiografia antica

PER APPROFONDIRE La storiografia: da genere letterario a moderna scienza 511 Francesco Guicciardini T1 Proemio 512 online T2 Il sacco di Roma

3 I Ricordi: il “libro segreto” 516 1 La coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere di scrittura 516 PER APPROFONDIRE I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi

2 Le aree tematiche dei Ricordi

517 518

Francesco Guicciardini T3 La critica delle regole e della fiducia nell’esemplarità della storia 521 LEGGERE T4 Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane LE EMOZIONI 523 T5 Meditazioni sulla natura degli uomini, sull’esistenza e sui limiti della conoscenza umana 525 LEGGERE LE EMOZIONI T6 La Chiesa, il popolo, la politica 527 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

4 Guicciardini nel tempo 530 1 La ricezione dell’opera di Guicciardini 530 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Francesco De Sanctis L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana

532

Sintesi con audiolettura 534 Zona Competenze 535 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Francesco Guicciardini «La fede fa ostinazione» 536 Ricordi 1

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 537 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 538

16

INDICE

Carta interattiva dei luoghi Per approfondire La complessa elaborazione dei Ricordi

Interpretazioni critiche Matteo Palumbo La morfologia dei Ricordi


Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali Manierismo e Controriforma

541

Sguardo sulla storia

542

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

544

1 L’eclissi della libertà di pensiero

544

Franco Cardini

online T1 La confessione di una strega: Gostanza di Libbiano

VERSO IL NOVECENTO La chimera di Sebastiano Vassalli

545

EDUCAZIONE CIVICA secondo le

NUOVE La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

546

#PROGETTOPARITÀ

SGUARDO SUL CINEMA Streghe, inquisitori, eretici

2 La crisi dei valori rinascimentali Michel de Montaigne D1 L’uomo, la più miserabile delle creature

3 La concezione dello spazio geografico 4 I valori e i modelli di comportamento Giovanni Botero D2 Il principe assoluto deve umiliarsi davanti a Dio

546 547 549 550 551 552

5 La decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo e dell’identità dell’intellettuale

553

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

554

1 Copernico e la teoria eliocentrica

554

PER APPROFONDIRE La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie

554

2 La pedagogia dei gesuiti

555

3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento

556

1 Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo

556

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ezio Raimondi Per la nozione di manierismo letterario

558

2 Il dibattito letterario

559

I generi principali

560

4 L’evoluzione della lingua

561

LIBRI, LETTORI, LETTURA

Leggere durante la Controriforma: l’Indice dei libri proibiti

562

INDICE

17


TESTI IN DIALOGO • Pro e contro l’Indice dei libri proibiti

Roberto Bellarmino

online D3a I libri sono più pericolosi degli eretici

John Milton

online D3b I libri vivono: distruggerli è come uccidere un uomo

Paolo Sarpi

online D3c I libri sono una difesa contro un potere tirannico VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 563 ARTE NEL TEMPO

Il manierismo e la Controriforma Dall’eccentricità al rispetto del dogma 565 1. Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo 565 2. Il Giudizio Universale di Michelangelo 566 3. La Deposizione di Simone Peterzano 567

online

Sintesi con audiolettura 568 Zona Competenze 569 Lezione in Power Point

Per approfondire Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze

10 Torquato Tasso

570

1 Ritratto d’autore 572 2 La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo

577

1 Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco 577 T1 Un nuovo modello lirico 578 Torquato Tasso T1a Tacciono i boschi e i fiumi 578 T1b Qual rugiada o qual pianto 579 online T1c Ecco mormorar l’onde

2 Un teatro “lirico” 581 3 L’Aminta 581 PER APPROFONDIRE Una dissimulata letterarietà: le fonti 582 I temi 583

4 Il Re Torrismondo 584 Torquato Tasso

online T2 Il mondo bucolico di Aminta e l’amore per Silvia

Torquato Tasso T3 «O bella età de l’oro»: il contrasto tra natura e civiltà 585 PER APPROFONDIRE Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna 588

18

INDICE


3 La Gerusalemme liberata

589

1 Storia della Gerusalemme liberata

589

PER APPROFONDIRE Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana

591

2 La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica

592

PER APPROFONDIRE Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica

593

Torquato Tasso D1 La poetica di Tasso: il «maraviglioso cristiano»

594

3 La trama 4 I temi e le caratteristiche generali 5 Le modalità narrative

597

Il sistema dei personaggi Il narratore e il punto di vista La simbologia spaziale I “chiaroscuri” del poema

600 602 603 604

6 Le scelte stilistiche e metriche

604

Torquato Tasso T4 Il proemio del poema online T5 Un poema d’amore o di guerra? I Crociati alle porte di Gerusalemme

608

595 600

VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

611

Torquato Tasso T6 Il concilio infernale e il piano di guerra di Satana COLLABORA ALL’ANALISI

612

SGUARDO SULLA LETTERATURA STRANIERA Echi di Tasso in John Milton

617

Torquato Tasso

online T7 La fuga di Erminia innamorata di Tancredi EDUCAZIONE NUOVE T8 La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori CIVICA Linee guida T9 La storia di Clorinda Torquato Tasso online T9a Clorinda, coraggiosa donna guerriera T9b Il duello di Tancredi e Clorinda online T10 La magia demoniaca della selva incantata T11 Il giardino di Armida: traviamento e riscatto di Rinaldo secondo le

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

618 624

624 631

INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO

Lanfranco Caretti Il “bifrontismo” di Tasso Sergio Zatti I musulmani e i valori del Rinascimento

638 638

4 Epistolario e Dialoghi

640

1 L’epistolario

640

Torquato Tasso T12 Le persecuzioni del folletto

2 I Dialoghi

640 643

INDICE

19


Torquato Tasso secondo le NUOVE T13 Il perfetto cortigiano e padre di famiglia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

644

#PROGETTOPARITÀ

5 La Gerusalemme liberata nel tempo

648

1 Il successo e le interpretazioni artistiche della Gerusalemme liberata

648

2 I romantici e Tasso: un rapporto privilegiato

648

Johann Wolfgang Goethe

online T14 Tasso eroe romantico, pazzo per amore

Charles Baudelaire

online T15 Tasso in prigione, o l’«Anima... che il Reale soffoca fra i suoi muri» VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi del testo e interpretazione di un testo letterario italiano Torquato Tasso Erminia sotto lo «stellato velo» della notte

online

Sintesi con audiolettura Zona Competenze

20

INDICE

Flipped classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Gerusalemme liberata

652 654 659

Sguardo sulla letteratura Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda Video e Audio Claudio Monteverdi Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1624)


Quattrocento e Cinquecento


22


Quattrocento e Cinquecento

Scenari socio-culturali Umanesimo e Rinascimento

LEZIONE IN POWERPOINT

La civiltà umanistico-rinascimentale, nata nell’ambiente della corte, è laica, antropocentrica, edonistica. Privilegia infatti l’attenzione alla realtà terrena rispetto alla dimensione trascendente, valorizza la capacità dell’uomo di realizzare il proprio destino e di essere protagonista della storia. Un uomo fatto di anima e di corpo che, in contrapposizione al rigorismo ascetico del Medioevo, ha diritto al piacere e alla contemplazione della bellezza della natura. A essa l’Umanesimo-Rinascimento guarda con un occhio nuovo, abbandonando la prospettiva allegorico-trascendente e creando così le premesse per la rivoluzione scientifica. Centrale nel modello culturale umanistico è il legame con il mondo antico, di cui gli umanisti si considerano eredi. I testi classici sono riscoperti e studiati con il metodo filologico e gli studia humanitatis (letteratura, storia, filosofia morale) diventano la base della formazione. La filosofia abbandona l’ossequio al principio di autorità e il culto di Aristotele propri della Scolastica medievale, mentre si afferma, nella Firenze dei Medici, il neoplatonismo: Marsilio Ficino è il prototipo di un nuovo filosofo, fautore di un modo antidogmatico di filosofare. Nel 1525 Pietro Bembo pubblica il trattato Prose della volgar lingua nel quale sostiene la necessità di utilizzare come modello linguistico per la poesia Petrarca e per la prosa Boccaccio. L’invenzione della stampa rivoluziona la produzione dei libri e i modi stessi di leggere rispetto a quanto accadeva al tempo del libro manoscritto.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche e forme della letteratura nel Quattrocento 3 Caratteri e nel primo Cinquecento 4 L’evoluzione della lingua 23


Quattrocento e Cinquecento Sguardo sulla storia Le monarchie europee e il policentrismo italiano Affermazione degli stati nazionali in Europa vs parcellizzazione politica dell’Italia Nel Quattrocento in Europa si costituiscono dei potenti e moderni stati nazionali (Francia, Inghilterra, Spagna, Austria sono i principali). La penisola italiana è caratterizzata, al contrario, da una forte parcellizzazione che condizionerà negativamente la storia del nostro paese nei secoli a venire e che sopravviverà fino all’Unità (1861). I potentati italiani In Italia si afferma un modello politico-istituzionale che non ha confronti in Europa: le signorie, che iniziano a costituirsi alla fine del Trecento dalla dissoluzione delle strutture comunali, già nel corso del Quattrocento e poi nel primo Cinquecento, diventano vere e proprie monarchie locali, in alcuni casi a dimensione regionale, rette da potenti famiglie: da Ferrara con gli Estensi, a Mantova con i Gonzaga, a Firenze, divenuta signoria con i Medici dal 1435, a Milano, in mano prima ai Visconti e poi agli Sforza. Anche lo Stato della Chiesa è uno stato signorile a tutti gli effetti, se pure con elementi distintivi, dato il ruolo insieme religioso e politico del papato a livello internazionale. Mantiene invece una struttura repubblicana, su basi però strettamente oligarchiche, Venezia. Nella geografia politica italiana ha infine un ruolo importante il regno di Napoli, che ingloba la parte meridionale del paese.

Cronologia interattiva 1434-1464

Signoria di Cosimo I de’ Medici 1454

Pace di Lodi

1400 1453

I Turchi conquistano Costantinopoli. Fine dell’Impero romano d’Oriente

24 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali

1469

Lorenzo de’ Medici diventa signore di Firenze


Splendori e debolezze delle corti rinascimentali La realtà italiana è segnata da una drammatica contraddizione: da un lato le corti danno vita, tra Quattrocento e Cinquecento, a una civiltà raffinata e a una splendida produzione culturale, favorita dalla competizione fra i diversi potentati, che si contendono la presenza dei maggiori artisti e letterati. Dall’altro lato, sul piano politico, nessuno degli stati signorili è abbastanza forte da imporsi sugli altri e da guidare un processo di unificazione dell’Italia. Le continue lotte tra i diversi centri politici costituiscono un grave elemento di debolezza che rende l’Italia soggetta alle ingerenze straniere, aprendo ben presto la strada alle vere e proprie invasioni che determineranno la perdita della sua indipendenza politica. Un ulteriore elemento di debolezza è costituito dal forte distacco tra classi dirigenti (principi, nobiltà, alta borghesia) e classi popolari, che restringe pericolosamente la base del consenso politico dei principi.

Dall’equilibrio alla crisi La politica dell’equilibrio e la sua rottura Nel 1454 con la pace di Lodi si stabilisce un accordo tra i principali potentati italiani che assicurerà al paese per circa quarant’anni una situazione di relativa tranquillità e prosperità, garantita soprattutto dall’abilità politico-diplomatica di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, signore di Firenze. Alla sua morte (1492) segue ben presto la fine di quella precaria condizione di pace. Approfittando del riaprirsi della conflittualità in Italia, nel 1494 le armate di Carlo VIII, re di Francia, dirette al regno di Napoli, entrano in Italia e la attraversano senza incontrare alcuna resistenza. Le invasioni straniere e la decadenza politica dell’Italia Si apre da quel momento un lungo periodo di guerre sanguinose fra le potenze europee (in particolare Francia e Spagna) per il primato in Europa, delle quali principale teatro fu l’Italia, destinata a una progressiva emarginazione politica nello scacchiere europeo. L’e-

1494-1498 1492

Muore Lorenzo de’ Medici Cristoforo Colombo scopre il continente americano

A Firenze, repubblica popolare guidata da Savonarola

1500 1494

Il re di Francia Carlo VIII scende in Italia.

1512

A Firenze rientrano i Medici

Sguardo sulla storia 25


vento forse più drammatico, destinato a imprimersi nell’immaginario dell’epoca, fu il “sacco di Roma” (1527), cioè il selvaggio saccheggio della Città Eterna da parte delle truppe dei lanzichenecchi, soldati tedeschi al soldo di Carlo V. Dopo la sconfitta della Francia da parte della Spagna, la pace di Cateau-Cambrésis (1559) sancisce la fine della libertà italiana: la Spagna afferma il suo predominio su Napoli, la Sicilia e il Milanese, ma la maggior parte degli stati italiani è ormai privata di una reale autonomia.

i nuovi mondi. il trauma della Riforma

Philippe de Mazerolles, L’assedio di Costantinopoli dalla Chronique de Charles VII, 1470 ca.

Le scoperte geografiche Alla marginalizzazione politica dell’Italia si unisce la crisi economica derivante dalla perdita di centralità del Mediterraneo nei traffici commerciali, che erano controllati eminentemente dall’Italia. Già la conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei Turchi e l’estensione della loro egemonia sulla Dalmazia e vari porti dell’Egeo avevano messo in difficoltà Venezia, la principale potenza marittima in Italia, e il suo ruolo di mediatrice delle rotte commerciali verso l’Oriente. La “scoperta dell’America” a opera di Cristoforo Colombo (1492) e le successive imprese di Vasco de Gama, Ferdinando Magellano e altri aprono poi nuove vie ai commerci marittimi. Le nuove rotte commerciali sono mono-

Cronologia interattiva 1527

I lanzichenecchi saccheggiano Roma 1517

Lutero affigge le 95 tesi. Inizio della riforma protestante

1500 1525

Battaglia di Pavia: Francesco I è sconfitto da Carlo V; a Milano tornano gli Sforza

26 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali

1530

Carlo V è incoronato imperatore


polizzate da grandi potenze come Portogallo, Spagna, Olanda e Inghilterra, più competitive rispetto all’Italia, che conosce quindi anche in ambito commerciale, una lenta decadenza. Lessico mondanizzazione/secolarizzazione In questo contesto i due termini possono considerarsi sinonimi e significano il progressivo allontanarsi della Chiesa dai principi del Vangelo e la conseguente sua perdita di sacralità, resi manifesti con l’adesione a stili e concezioni di vita laici ed esclusivamente materiali.

Sebastiano Ricci, Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento, olio su tela, 1687-1688 (Musei Civici, Piacenza).

1559

Pace di Cateau-Cambrésis

La riforma protestante e il concilio di Trento Nel corso del Quattrocento erano continuate all’interno della cristianità le critiche alla corruzione e mondanizzazione della Chiesa in nome della fedeltà alla parola evangelica, ma l’istituzione non aveva saputo (o voluto) accoglierle. Nel 1517 il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero affigge sulla porta della chiesa di Wittemberg 95 tesi, che prendevano spunto dalla prassi scandalosa della vendita delle indulgenze per la critica alla secolarizzazione della Chiesa e per la contestazione di alcuni fondamentali presupposti dottrinali e teologici. La diffusione delle idee di Lutero, anche grazie alle potenzialità della stampa (ideata a metà del Quattrocento), determinò una frattura interna al mondo cristiano di proporzioni enormi, che si tradusse nella formazione di Chiese riformate in vari paesi europei. Nel 1545 ha inizio il concilio di Trento (1545-1563) con cui la Chiesa cattolica cerca di contrastare l’avanzare del protestantesimo attraverso una ridefinizione rigida dell’apparato dogmatico del cattolicesimo e una riorganizzazione dell’istituzione ecclesiastica. Si apre l’età della Controriforma.

1563

Si chiude il concilio di Trento

1600 1564

Muore a Ginevra Calvino

Sguardo sulla storia 27


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Umanesimo/Rinascimento Due categorie culturali Per designare l’epoca che va all’incirca dall’inizio del Quattrocento alla metà del Cinquecento si fa ancora oggi riferimento ai termini “Umanesimo” e “Rinascimento”, entrati in uso a metà dell’Ottocento. Si tratta di categorie culturali, non storiche, impiegate in passato anche in senso cronologico: l’Umanesimo coinciderebbe all’incirca con il Quattrocento, mentre il Rinascimento caratterizzerebbe propriamente la prima metà del Cinquecento. Con il termine Umanesimo ci si riferisce a una tendenza che emerge già con Petrarca nel tardo Trecento e a un modello culturale fondato sulla riscoperta del mondo antico, sulla rinnovata centralità delle humanae litterae, un insieme di discipline (la poesia, la retorica, la storia, la filosofia) che secondo gli umanisti valorizzano l’uomo nella sua completezza, come già avveniva nella cultura latina. Il termine Rinascimento mette invece l’accento sul rinnovamento radicale, la “rinascita” appunto, che caratterizza i primi decenni del Cinquecento, concretizzandosi in una splendida stagione artistica e letteraria di cui l’Italia è indiscussa protagonista, ponendosi all’avanguardia rispetto agli altri paesi europei. Esso implica di per sé l’idea che il periodo precedente – e cioè l’età medievale – sia stato un periodo oscuro, dominato dall’irrazionalità e dal dogmatismo. Un’idea oggi nettamente superata, anche se si continua a utilizzare, per la sua indubbia suggestione, l’espressione “Rinascimento”.

IMMAGINE INTERATTIVA

Celeberrimo è il disegno, noto come L’uomo vitruviano, in cui Leonardo da Vinci rappresenta le perfette proporzioni della figura umana, che consentono di iscriverla sia in un quadrato sia in un cerchio: il corpo umano è concepito dagli umanisti come microcosmo perfetto che rispecchia la perfezione del macrocosmo, 1492 ca. (Venezia, Gallerie dell’Accademia).

28 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

La civiltà umanistico-rinascimentale Da decenni ormai si preferisce impiegare le due denominazioni in associazione, definendo umanistico-rinascimentale, senza ulteriori distinzioni, l’età che prende le mosse dalla fine del Trecento e si protrae oltre la metà del Cinquecento. L’inizio del concilio di Trento (1545), convocato per fronteggiare la riforma di Lutero, si può però considerare, a livello anche simbolico, un vero e proprio spartiacque: apre infatti il periodo controriformistico, antitetico – sia nei presupposti ideologici sia nell’ottica culturale – rispetto allo spirito rinascimentale.


la centralità dell’uomo e la rivalutazione 2 L’Umanesimo: della dimensione terrena Una visione antropocentrica Con l’Umanesimo si afferma una visione del mondo antropocentrica (dal greco ánthropos, “uomo”) in contrapposizione al teocentrismo della cultura medievale (dal greco theós “divinità”): la civiltà dell’UmanesimoRinascimento è fondata sulla valorizzazione delle qualità dell’uomo. Le radici di questa concezione vanno ricercate nella cultura classica, che gli umanisti riscoprono: già nei testi più antichi sono infatti presenti la fiducia nella razionalità dell’uomo, la celebrazione dell’agire umano nella società e nella storia per lasciare di sé qualcosa che rimanga per sempre. Valori che gli umanisti riprendono e che influenzano marcatamente il loro pensiero, la loro produzione letteraria, le manifestazioni artistiche: la stessa rivoluzione della prospettiva si può considerare come esito dell’adozione del “punto di vista umano” come centrale.

Lessico sublimazione

Parola chiave

La trasformazione spesso inconscia di pulsioni e/o istinti, soprattutto sessuali, in pensieri o atti ritenuti più elevati e socialmente accettabili.

Il riscatto del corpo e la legittimazione del piacere Gli umanisti esaltano la dignità e nobiltà dell’uomo, che essi considerano superiore a tutte le creature e che concepiscono, sulla scia del pensiero antico, come armonica completezza di anima e corpo. Contrapponendosi nettamente alle posizioni più rigoristiche e ascetiche del pensiero medievale, gli umanisti non disprezzano più la dimensione fisica, ma anzi esaltano la bellezza del corpo, che può essere rappresentato anche nudo senza più alcuna censura moralistica. Dopo secoli di repressione e/o di sublimazione viene nuovamente legittimato il piacere dei sensi, anche se l’imperante tendenza filosofica del neoplatonismo, di cui si parlerà più avanti (➜ PAG. 59) tende a riproporre il modello di un amore esclusivamente spirituale. Più in generale viene esaltata una visione edonistica della vita (➜ D1 ). Nell’Orlando furioso, il poema-simbolo del Rinascimento, Ariosto esplora con naturalezza l’intera fenomenologia dell’amore e fa della bella Angelica il simbolo della seduzione sensuale. (➜ C5). Il piacere dei sensi è spesso celebrato in relazione dialettica con il motivo di derivazione classica (già in Catullo, Orazio e altri) della fugacità della bellezza e della giovinezza, spesso simboleggiata dalla rosa che presto sfiorisce. In campo filosofico l’espressione più significativa di questo nuovo atteggiamento si ritrova nel dialogo De voluptate (Il piacere, 1431) del grande umanista Lorenzo Valla: egli realizza un’ardita sintesi della visione cristiana e di spunti tratti dalla filosofia di Epicuro, emarginata dai pensatori cristiani del primo Medioevo a favore del pensiero stoico, che meglio poteva accordarsi con la propria visione della vita.

edonismo L’edonismo (dal greco hedoné, “piacere”) è una concezione della vita che valorizza il diritto al piacere e in senso più lato invita a godere della bellezza, anche della natura. Una visione che trova ampio spazio nella cultura umanisticorinascimentale, in rapporto alla più generale rivalutazione della dimensione terrena e alla tendenza a riscoprire temi e motivi già presenti nella cultura e letteratura classiche.

Alimenta l’edonismo rinascimentale l’interesse per il pensiero del filosofo greco Epicuro, in cui è centrale proprio la ricerca del piacere: un percorso non finalizzato a raggiungere in modo concreto e immediato il godimento fisico, ma a realizzare l’armonia, l’assenza di turbamento (atarassia) e a godere della bellezza della vita, aspetti che caratterizzano l’esistenza del saggio.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 29


La polemica contro l’ascetismo medievale Nella cultura umanistico-rinascimentale la vita terrena non è più concepita come preparazione alla vita eterna, ma ha un suo autonomo, positivo, valore: ne è celebrata, soprattutto nei primi trattati, la dimensione mondana, mentre è criticato come improduttivo l’isolamento dell’asceta e del monaco. Nel suo De dignitate et excellentia hominis (La dignità e l’eccellenza dell’uomo) l’umanista Giannozzo Manetti loda l’operosità umana e l’eccellenza dei suoi risultati, dalla mitica impresa degli Argonauti alle straordinarie costruzioni moderne di Filippo Brunelleschi. Nella loro polemica contro l’ascetismo medievale, gli umanisti arrivano a riabilitare il desiderio dei beni materiali: mentre la cultura medievale aveva demonizzato l’avidità (rappresentata da Dante nella figura allegorica della lupa, una delle tre fiere), l’umanista Poggio Bracciolini nel De avaritia (L’avidità) difende come naturale l’inclinazione dell’uomo a ricercare la ricchezza (➜ D2 OL). Gli umanisti: sono una categoria umana eterogenea, che è unita dagli stessi ideali culturali Non è facile dare una precisa identità sociale agli umanisti, intellettuali che, nei primi decenni del Quattrocento promuovono l’affermazione del modello culturale noto come Umanesimo. Essi appartengono infatti ad ambienti e realtà sociali diversi: sono umanisti un poeta-filologo come Poliziano, l’architetto-scrittore Leon Battista Alberti, l’educatore Vittorino da Feltre, un editore di successo come Aldo Manuzio, un brillante funzionario della repubblica fiorentina come Poggio Bracciolini e così via. Di fatto gli umanisti sono persone accomunate esclusivamente dall’entusiasmo per il mondo antico, dalla passione per i libri, dalla padronanza della cultura classica. Umanista è innanzitutto chi eccelle negli studia humanitatis, cioè la storia, la poesia, la filosofia morale secondo la lezione degli antichi. Un nuovo paganesimo? Se è indubbio che i pensatori umanisti esaltano i valori umani e terreni, non intendono affatto rifiutare la visione religiosa, fondando addirittura un nuovo paganesimo, come talvolta si è detto. Certamente l’interesse metafisico non è centrale nella loro riflessione, ma non per questo l’UmanesimoRinascimento è un modello culturale irreligioso: l’uomo è infatti visto dagli umanisti come sintesi di un universo creato da Dio e animato dalla sua amorosa presenza.

Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, 1475 (Galleria degli Uffizi, Firenze). Nei personaggi che popolano la scena, l’artista ritrae numerosi esponenti della corte medicea: i tre re sapienti sono tre membri della famiglia dei Medici (Cosimo ai piedi della Vergine; Piero

30 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

in ginocchio e con il manto rosso; Giovanni alla sua destra), Lorenzo è in piedi sulla destra con il manto nero, Pico della Mirandola e Poliziano sulla sinistra in primo piano. Botticelli stesso si è ritratto nell’uomo sulla destra avvolto in un mantello giallo.


Grazie all’Umanesimo, però, umano e divino, sacro e profano non sono più contrapposti e distanti: da un lato il divino viene umanizzato, dall’altro l’umano viene sacralizzato. Non sono poche le opere pittoriche che lo testimoniano: certamente nella cultura medievale non sarebbe stato immaginabile un dipinto come l’Adorazione dei magi di Botticelli, in cui il grande pittore ritrae in una scena di carattere religioso personaggi della corte medicea. La laicizzazione della storia Sulla base della visione antropocentrica, con gli umanisti vengono gettate le basi della moderna storiografia: nel Medioevo la storia è considerata come realizzazione di un progetto scritto ab aeterno, “dall’eternità”, nella mente di Dio, di cui gli uomini sono semplici pedine, mentre per i nuovi intellettuali l’uomo è faber fortunae suae, “artefice della propria sorte”. Di conseguenza anche la lettura della storia si laicizza, assumendo una prospettiva propriamente umana ed escludendo programmaticamente l’intervento del soprannaturale. Inoltre la storiografia umanistica si fonda su un maggiore spirito critico e sulla ricerca, nella successione degli eventi storici, delle costanti dell’agire politico, nell’intento di ricavare dalla storia modelli esemplari da seguire. Una visione, questa, presente in particolare in Machiavelli (➜ C8). Dalla centralità dell’uomo nella società alla centralità dell’uomo nel cosmo La celebrazione dell’uomo, vera costante del pensiero umanistico, è testimoniata soprattutto nella cultura fiorentina. Nel periodo del cosiddetto “Umanesimo civile” (prima metà del Quattrocento) tale esaltazione si associa a un attivo impegno politico da parte dei primi umanisti ed è calata nella concretezza della vita sociale e nella dimensione civile. Alcuni di loro esercitano il ruolo di cancellieri della Repubblica fiorentina: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini. Quello di cancelliere è un ruolo prestigioso, che richiede solida preparazione culturale e capacità oratorie, qualità che gli umanisti possiedono: i cancellieri devono infatti gestire i rapporti con i governi stranieri, redigere documenti ufficiali, scrivere lettere diplomatiche. A partire dalla seconda metà del Quattrocento, anche in rapporto alla progressiva affermazione della signoria dei Medici e al tramonto delle istituzioni repubblicane in Firenze, la celebrazione dell’uomo è proiettata in una direzione esclusivamente filosofica e si collega all’emergente tendenza neoplatonica; Marsilio Ficino, ispiratore del movimento, celebra la posizione privilegiata dell’uomo nel cosmo, la sua assoluta superiorità su tutte le altre creature (➜ D4 ).

Medioevo vs Umanesimo Il centro del pensiero

La visione del mondo

La concezione della storia

cultura medievale

teocentrismo (centralità di Dio)

•  distacco dal mondo •  disprezzo del corpo e repressione del piacere

realizzazione di un progetto divino “dall’eternità”

civiltà umanistica

antropocentrismo (centralità dell’uomo)

uomo al centro del mondo ed esaltazione della corporeità

risultato dell’agire umano (l’uomo è “artefice della propria sorte”)

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 31


Giannozzo Manetti

D1

Il piacere, non il dolore, caratterizza la vita umana De dignitate et excellentia hominis, IV

G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, in Prosatori latini del Quattrocento, a c. di E. Garin, Ricciardi, Milano-Roma 1952

Nel passo che segue (in latino nell’originale) l’umanista Giannozzo Manetti contesta la visione ascetica propria di alcuni settori rigoristici del pensiero medievale, il lugubre pessimismo riguardo alla condizione umana espresso in trattati come il De contemptu mundi di Innocenzo III (➜ VOL 1A PAG. 48) e riscopre e rivaluta, al contrario, la presenza del piacere nell’esistenza dell’uomo.

Se non fossimo troppo queruli1 e troppo ingrati e ostinati e delicati, dovremmo riconoscere e dichiarare che in questa nostra vita quotidiana possediamo molti più piaceri che non molestie. Non c’è infatti atto umano, ed è mirabile cosa, sol che ne consideriamo con cura e attenzione la natura, dal quale l’uomo non tragga almeno 5 un piacere non trascurabile: così attraverso i vari sensi esterni, come il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, l’uomo gode sempre piaceri così grandi e forti, che taluni paiono a volte superflui ed eccessivi e soverchi2. Sarebbe infatti difficile a dirsi, o meglio impossibile, quali godimenti l’uomo ottenga dalla visione chiara ed aperta dei bei corpi, dall’audizione di suoni e sinfonie e armonie varie, dal profumo 10 dei fiori e di simili cose odorate, dal gustare cibi dolci e soavi, e infine dal toccare cose estremamente molli. […] Perciò se gli uomini nella vita gustassero quei piaceri e quei diletti, piuttosto che tormentarsi per le molestie e gli affanni, dovrebbero rallegrarsi e consolarsi invece di piangere e di lamentarsi, soprattutto poi avendo la natura fornito con larghezza 15 copiosa3 numerosi rimedi del freddo, del caldo, della fatica, dei dolori, delle malattie; rimedi che sono come sicuri antidoti di quei malanni, e non aspri, o molesti, o amari, come spesso suole accadere con i farmaci, ma piuttosto molli, grati4, dolci, piacevoli. A quel modo infatti che quando mangiamo e beviamo, mirabilmente godiamo nel soddisfare la fame e la sete, così ugualmente ci allietiamo nel riscaldarci, 20 nel rinfrescarci, nel riposarci. Ancorché le percezioni del gusto appaiano in certo qual modo molto più dilettose di tutte le altre percezioni tattili, fatta eccezione per quelle del sesso; e ciò la natura, che è guida sommamente solerte5 ed abile e senza dubbio unica6, non ha fatto a caso, ma – come dicono i filosofi – per ragioni chiare e cause evidenti, onde7 si traesse un godimento di gran lunga maggiore nel coito 25 che non nel mangiare e nel bere, intendendo essa innanzitutto conservare la specie piuttosto che gl’individui; e la specie si conserva con l’unione del maschio e della femmina, l’individuo invece con l’assorbimento del cibo che, per dir così, recupera ciò che si perde. In tal modo tutte le opinioni e le sentenze sulla fragilità, il freddo, il caldo, la fatica, la fame, la sete, i cattivi odori, i cattivi sapori, visioni, contatti, 30 mancanze, veglie, sogni, cibi, bevande, e simili malanni umani8; tutte, insomma, tali argomentazioni appariranno frivole, vane, inconsistenti a quanti considereranno con un po’ più di diligenza e di accuratezza la natura delle cose. 1 queruli: lamentosi. 2 soverchi: sovrabbondanti. 3 con larghezza copiosa: con generosa

5 solerte: attiva, sollecita. 6 unica: la natura è guida insostituibile

abbondanza. 4 grati: gradevoli.

7 onde: affinché. 8 le sentenze... umani: l’autore riassume,

nell’indicare la giusta via da seguire.

32 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

contestandole, le argomentazioni del De contemptu mundi di Innocenzo III, rivolte a dimostrare la miseria della condizione umana.


Concetti chiave La rivalutazione del piacere

Il passo di Giannozzo Manetti testimonia in modo emblematico la nuova prospettiva dell’Umanesimo sull’uomo e sulla natura. Polemizzando con il rigorismo ascetico medievale, l’umanista rivaluta il piacere che deriva dai sensi, e in particolare quello sessuale, voluto dalla natura perché si possa perpetuare la specie. La visione edonistica degli umanisti deriva dall’influenza della filosofia di Epicuro (➜ PAROLA CHIAVE Edonismo, PAG. 29), trasmessa alla cultura latina soprattutto attraverso il poema De rerum natura di Lucrezio, riscoperto nel Quattrocento. Per gli epicurei il piacere è il fine della vita, e la natura è la guida per raggiungerlo: essi rifiutano perciò i piaceri che non muovono dall’istinto (ad esempio quelli legati a un lusso smodato). Tuttavia Manetti – come Lorenzo Valla nel De voluptate (Il piacere) – tende a conciliare la ricerca edonistica (cioè del piacere) di matrice epicurea con la fede cristiana, arrivando a queste conclusioni: essendo stata creata da Dio, la natura è necessariamente buona; perciò, se la natura ci indirizza al piacere, anch’esso deve essere un bene. La polemica di Giannozzo Manetti e di altri umanisti di certo è rivolta non contro la fede cristiana, ma contro l’interpretazione medievale della religione, che contrapponeva anima e corpo, mondo terreno e divino, e metteva in ombra i lati piacevoli della vita umana che invece, secondo gli umanisti, è da rivalutare in tutta la sua positività.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza in max 10 righe il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Nel testo si manifesta una decisa rivalutazione del corpo: quali elementi legati alla natura fisica dell’uomo sono maggiormente sottolineati? ANALISI 3. Sottolinea nel testo la tesi e le argomentazioni a favore della tesi.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Metti a confronto l’argomentazione di Manetti con il passo tratto da De contemptu mundi di Lotario da Segni (➜ VOL 1A PAG. 48) e sintetizza le tue osservazioni in un testo di 10 righe.

online D2 Poggio Bracciolini Il desiderio di arricchirsi non è una colpa perché è naturale De avaritia D3 Leon Battista Alberti Lode dell’operosità Libri della famiglia

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538 ca. (Galleria degli Uffizi, Firenze).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 33


3 Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici Una nuova “età dell’oro”? La civiltà umanistica ha il suo fondamento nel mito della “rinascita”, che caratterizza in particolare i primi decenni del Quattrocento: per gli intellettuali del tempo, dopo secoli di decadenza, si è aperta una nuova “età dell’oro” a cui sono orgogliosi di appartenere (➜ D4 ). Nella visione degli umanisti una vera e propria “frontiera” separa il presente dal passato medievale, condannato senza appello (il mito negativo del Medioevo come “età buia” nasce proprio nell’Umanesimo). Al contrario, gli umanisti stabiliscono un rapporto di stretta continuità tra l’età classica e l’età umanistica e ne ripropongono i valori spirituali e culturali, oltre che la lingua stessa: nella prima metà del Quattrocento infatti, come vedremo più avanti, la lingua della cultura è il latino, che ogni letterato si sente in dovere di padroneggiare, perché considerata espressione della più alta civiltà.

PER APPROFONDIRE

La ricerca e riscoperta dei testi antichi Il mito della rinascita è alimentato dalla riscoperta dei testi antichi che erano andati ormai perduti. I protagonisti dell’Umanesimo, come già Petrarca, vanno appassionatamente a “caccia”, nelle biblioteche dei monasteri, dei manoscritti antichi; i più fortunati di loro riescono a riportare alla luce importantissime opere dell’età classica: basti solo pensare al ritrovamento, da parte di Poggio Bracciolini, avvenuto nel 1416 nell’abbazia di San Gallo, dell’Institutio oratoria di Quintiliano (➜ D5 OL) e, l’anno successivo, del De rerum natura di Lucrezio, uno dei grandi capolavori della cultura latina. La ricerca e riscoperta dei classici non riguarda solo le opere letterarie e filosofiche, ma anche i testi scientifici e artistici. Particolarmente importante ad esempio fu il ritrovamento, sempre ad opera di Poggio Bracciolini, del De architectura di Vitruvio (I secolo a.C.) nell’abbazia di Montecassino, un testo destinato a influenzare profondamente gli architetti rinascimentali. Da parte degli artisti si diffonde l’abitudine del viaggio a Roma per studiare dal vero i monumenti dell’antichità. Il fascino dell’antico condiziona fortemente l’immaginario artistico, ancora più che l’ambito letterario: personaggi mitologici, elementi figurativi e architettonici tratti dal mondo classico entrano massicciamente nella pittura rinascimentale e ne costituiscono l’elemento distintivo.

La nascita del collezionismo Risalgono al XV-XVI secolo le prime collezioni, iniziativa di privati cittadini, nobili e ricchi borghesi, con preziosi reperti dell’antichità classica, considerati segno tangibile di prestigio sociale ed economico. Alcuni palazzi aristocratici, come il Medici Riccardi a Firenze, diventano veri e propri musei, visitati e ammirati. Principi, ecclesiastici, nobili, ricchi borghesi fanno a gara nel collezionare nelle loro dimore statue, medaglie, monete, oggetti antichi.

Lorenzo Lotto, Ritratto di Andrea Odoni, 1527 (Royal Collection, Castello di Windsor).

34 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Marsilio Ficino

D4

Una nuova età aurea Epistole, IX

M. Ficino, Epistole, trad. di E. Garin, in Id., Il Rinascimento italiano, Capelli, Bologna 1980

Gli umanisti considerano l’età medievale un periodo di decadenza e barbarie, simboleggiato dalla rovina dei grandiosi monumenti della Roma antica e si ritengono con orgoglio i fondatori di una nuova civiltà, che proprio dall’antichità classica trae i suoi modelli e che ad essa si richiama per restaurare il culto delle lettere e delle arti.

Lodi del nostro secolo, che è d’oro per i suoi aurei ingegni. Marsilio Ficino a Paolo di Middelburg1, fisico ed astronomo insigne. Quello che i poeti cantarono un giorno delle quattro età, di piombo, di ferro, d’argento e d’oro, il nostro Platone nella Repubblica2 riferisce a quattro nature d’uomini, 5 dicendo che nell’indole degli uni è congenito il piombo, il ferro in quella di altri, in altri l’argento, in altri l’oro. Se dunque c’è un’età che dobbiamo chiamar d’oro, essa è senza dubbio quella che produce dovunque ingegni d’oro. E che tale sia questo nostro secolo non metterà in dubbio chi vorrà prendere in considerazione i mirabili suoi ritrovati3. Questo secolo, infatti, come aureo, ha riportato alla luce le 10 arti liberali già quasi scomparse4, la grammatica, la poesia, l’oratoria, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, e l’antico suono della lira Orfica5. E ciò a Firenze. E, cosa che presso gli antichi era celebrata, ma era ormai quasi scomparsa, ha congiunto la sapienza con l’eloquenza, la prudenza con l’arte della guerra. E questo ha mostrato, quasi in Pallade, in Federigo Duca d’Urbino6, della cui virtù fece eredi 15 il figlio e il fratello. In te, o mio Paolo, sembra aver portato a perfezione l’astronomia; in Firenze ha richiamato alla luce la sapienza platonica7; in Germania, al tempo nostro, sono stati trovati gli strumenti per stampare i libri8. 1 Paolo di Middelburg: fisico e astronomo olandese (1446-1534).

2 Repubblica: una delle opere più famose del filosofo greco Platone, dedicata al tema politico. 3 i mirabili suoi ritrovati: le sue meravigliose invenzioni. 4 già quasi scomparse: Ficino sottolinea la decadenza culturale medievale. 5 suono... Orfica: la lira del mitico cantore Orfeo simboleggia la poesia. 6 Federigo... Urbino: Federigo II da Montefeltro (1422-1482), duca di Urbino. 7 in Firenze... platonica: su invito di Cosimo de’ Medici, Marsilio Ficino aveva tradotto i testi di Platone e dei neoplatonici, fondando un’Accademia platonica nella sua villa di Careggi. 8 in Germania… i libri: nel 1455, a Magonza, la pubblicazione della prima edizione in grande formato della Bibbia per opera di Gutenberg avviò la grande avventura della stampa.

Marsilio Ficino in un capolettera miniato.

online D5 Poggio Bracciolini Ho trovato Quintiliano ancor salvo e incolume Epistole

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 35


Concetti chiave Alle radici dell’idea di Rinascimento, nuova età dell’oro

Nel testo di Marsilio Ficino è sottesa l’idea di un rinnovamento profondo che caratterizza, secondo gli umanisti, il loro tempo, riportandolo allo splendore delle età passate, ricche di cultura e di arte, dopo un periodo (quello medievale) di decadenza e di barbarie. La nuova età dell’oro è dunque secondo Ficino il Quattrocento umanistico, in particolare nella Firenze medicea, che sembrava far rivivere lo splendore dell’antichità. Il ritorno dell’antico teo­rizzato da Ficino però si configura non come passiva ripetizione, ma come vitale emulazione: ogni manifestazione culturale rinascimentale ha il suo doppio nell’antichità, ma perfeziona l’eredità classica arricchendola e rendendola attuale. Significativo è infine il riferimento mitologico a Pallade, la romana Minerva, come dea che congiunge sapienza e virtù attive, e simboleggia perciò il tema umanistico del rinnovato rapporto fra cultura e vita attiva, nel Medioevo tendenzialmente separate, e invece armonizzate nell’ideale di “uomo completo” della civiltà umanistico-rinascimentale: un ideale di cui sono espressione le figure di coltissimi uomini politici del Quattrocento, come il duca di Urbino (ricordato nel testo), e Lorenzo il Magnifico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che senso Marsilio Ficino considera aurea la propria età? ANALISI 2. Cosa racconta il mito dell’“età dell’oro”? Come Marsilio Ficino lo adatta all’epoca rinascimentale?

Interpretare

SCRITTURA 3. Lo schema di periodizzazione adottato dagli umanisti considera il Medioevo come un’età di decadenza posta tra lo splendore dell’antichità e quello rinascimentale. Sulla base delle conoscenze di cui disponi ritieni che tale concezione sia veritiera o che rifletta un’idea degli umanisti non del tutto condivisibile? (max 15 righe)

4 La fondazione del metodo filologico online

Per approfondire La filologia all’opera Lorenzo Valla demolisce la veridicità storica della Donazione di Costantino

Una importante eredità dell’Umanesimo Una delle più importanti eredità che gli umanisti hanno lasciato alla civiltà moderna è senza dubbio la filologia (dal greco philologhía: phílo da philêin, “amare” e lógos, “parola”, “discorso”). L’iniziatore del metodo filologico si può considerare Lorenzo Valla (1407-1457), che per primo sostiene la necessità di opporre a ogni forma di dogmatismo il vaglio critico e sottolinea l’importanza dei dati linguistici di un testo come inoppugnabile documento dell’epoca di appartenenza. In aperta contrapposizione con l’ottica medievale, che sovrapponeva ai testi una quantità di interpretazioni volte a dimostrare verità estrinseche al testo stesso, Valla sostiene la necessità che ogni problema (non solo letterario, ma anche filosofico, giuridico, teologico o storico) sia discusso tenendo conto prima di tutto dei dati linguistici. Proprio su questa base Valla riesce a confutare la veridicità storica della cosiddetta Donazione di Costantino, il documento su cui tradizionalmente si fondava il dominio temporale del papato sull’Occidente cristiano. Il documento riportava un editto del 315 d.C. con cui l’imperatore Costantino avrebbe concesso al papa Silvestro I la sovranità su Roma, l’Italia e l’Impero romano d’Occidente. Nel saggio De falso credita

36 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


et ementita donatione Constantini (Sulla donazione di Costantino contraffatta e falsamente ritenuta vera), Valla evidenzia incongruenze storiche e geografiche del testo, ma soprattutto dimostra che il linguaggio utilizzato nel documento appartiene a un periodo molto più tardo e che quindi il documento è sicuramente un falso. Un nuovo modo di leggere i classici Proprio grazie alla filologia, gli umanisti iscrivono i classici latini nel loro tempo e ne riscoprono gli autentici valori ideologici, morali e artistici, contrapponendosi anche in questo alla cultura precedente. Come dimostra la stessa Commedia, il Medioevo aveva spesso filtrato le opere classiche attraverso un’interpretazione allegorica, finalizzata a ricondurre i testi pagani alla dimensione morale e religiosa del cristianesimo, alterando così i significati originari dei testi antichi. Lettura filologica e metodo critico Ma la filologia è qualcosa di ancor più importante. Alla base della ricerca filologica sta un’idea della conoscenza concepita non come sistema definito e indiscutibile, ma come ricerca antidogmatica, soggetta a modificazioni continue in quanto sottoposta al vaglio della ragione: gli umanisti raccoglievano dati, li confrontavano, formulavano ipotesi, quindi cercavano nuovi dati per sostenerle. L’adozione del metodo filologico implica perciò di per sé l’opposizione al principio di autorità (➜ V1A PAG. 39; 59), e dunque ha contribuito all’affermarsi, in ogni campo del sapere, di un metodo scientifico, seppur inteso in senso lato.

Il legame con il mondo classico Riscoperta dei testi antichi

Cognizione del distacco tra passato e presente

Abbandono dell’interpretazione allegorica

PER APPROFONDIRE

Metodo filologico

Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari Soprattutto nell’età precedente alla stampa, quando la trascrizione (e la trasmissione) dei testi era opera degli amanuensi, la fisionomia originaria del testo poteva essere alterata da errori di trascrizione, rimaneggiamenti, interpolazioni più o meno volontarie. I filologi umanisti cercano di eliminare ogni errore (emendatio), confrontando criticamente (in un’operazione definita collazione) le diverse versioni del testo che ci sono pervenute (dette testimoni) alla ricerca della migliore lezione, ovvero la versione del

testo che appare verosimilmente la più vicina all’originale. La filologia utilizza l’apporto di discipline collaterali (come l’archeologia, l’epigrafia, la linguistica ecc.). Per procedere alla ricostituzione del testo originario, infatti, il filologo deve conoscere le particolarità della lingua usata in una determinata epoca, le modalità stilistiche proprie di un determinato autore, le occasioni e il fine per i quali il testo fu scritto, la biografia dell’autore, i valori e i modelli conoscitivi del suo tempo.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 37


5 La concezione del tempo e dello spazio Il tempo degli umanisti La laicizzazione e l’individualizzazione del tempo Nella civiltà umanistica il tempo è considerato un bene prezioso, ma l’uso riguarda unicamente l’uomo, non Dio: il tempo si laicizza, non è più un’entità metafisica nelle mani di Dio, né il simbolo angoscioso della precarietà e brevità della vita di fronte all’eterno (come in tanti scritti di Petrarca). Il tempo va utilizzato saggiamente non per pregare ma per fare, per realizzare su questa terra, in questa vita le proprie potenzialità. Nel terzo libro della Famiglia dell’umanista Leon Battista Alberti, da cui è tratto il passo proposto, emerge come modello un uomo che ormai programma ogni ora e che riflette sull’opportunità e l’inopportunità dei compiti prefissati (➜ D6 ). Questa cura quasi maniacale del tempo potrebbe richiamare il “tempo dei mercanti” di cui si è parlato a proposito della civiltà comunale: mentre i mercanti, però, dedicano il tempo essenzialmente agli affari, per gli umanisti l’unico suo uso davvero nobile – e vantaggioso – è quello dedicato allo studio. L’otium: il tempo della vocazione Gli umanisti associano la dedizione agli studia humanitatis all’otium, concetto e ideale di vita derivato dall’amata cultura classica, in particolare da Cicerone. L’otium (che i latini contrapponevano al negotium, cioè il tempo degli affari, delle occupazioni) è assimilabile in parte a ciò che noi moderni chiamiamo “tempo libero”: non significa quindi “inattività” (come nella comune accezione del termine “ozio”) ma è piuttosto il tempo non soggetto a doveri prefissati e destinato alla cura di sé, in cui si riesce a coltivare i propri interessi, a esprimere le proprie qualità interiori.

Leon Battista Alberti

D6

Il valore del tempo

LEGGERE LE EMOZIONI

Libri della famiglia, III L.B. Alberti, Libri della famiglia, a c. di R. Romano e A. Tenenti, Einaudi, Torino 1969

Nel terzo libro dell’opera di Leon Battista Alberti, Libri della famiglia, l’argomento centrale trattato è la gestione economica della famiglia, la necessità di acquisire la dote della “masserizia”, ossia la capacità di amministrare saggiamente i beni e il patrimonio familiare. In questo contesto si iscrive la significativa riflessione di Alberti sull’uso oculato del tempo, attribuita al personaggio di Giannozzo.

GIANNOZZO […] Adunque io quanto al tempo cerco adoperarlo bene, e studio di perderne mai nulla1. Adopero tempo quanto più posso in essercizii lodati; non l’adopero in cose vili, non spendo piú tempo alle cose che ivi si richiegga a farle bene2. E per non perdere di cosa sì preziosa punto, io pongo in me questa regola: mai mi 5 lascio stare in ozio, fuggo il sonno, né giacio3 se non vinto dalla stracchezza, ché 1 studio… nulla: cerco di non perderne mai nulla. 2 Adopero tempo... farle bene: Uso il

tempo il più possibile in attività degne di lode, non lo impiego per cose di scarsa utilità, non utilizzo per le attività più

38 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

tempo di quanto se ne richieda per farle bene. 3 giacio: mi sdraio a riposare.


sozza cosa mi pare senza repugnare4 cadere e giacere vinto, o, come molti, prima aversi vinti che certatori5. Così adunque fo6: fuggio il sonno e l’ozio, sempre faccendo qualche cosa. E perché una faccenda non mi confonda l’altra, e a quello modo poi mi truovi averne cominciate parecchie e fornitone niuna7, o forse pur in quello 10 modo m’abatta avere solo fatte le piggiori e lasciate adrieto le migliori8, sapete voi, figliuoli miei, quello che io fo? La mattina, prima, quando io mi levo, così fra me stesso io penso; oggi in che arò io da fare9? Tante cose: annòverole10, pensovi, e a ciascuna assegno il tempo suo: questo stamane, quello oggi, quell’altra stasera. E a quello modo mi viene fatto con ordine ogni faccenda quasi con niuna fatica. Soleva 15 dire messer Niccolaio Alberto, uomo destissimo e faccentissimo11, che mai vide uomo diligente andare se non adagio. Forse pare il contrario, ma certo, quanto io pruovo in me, e’ dice il vero. All’uomo negligente fugge il tempo. Segue che il bisogno o pur la volontà il sollecita12. Allora quasi perduta la stagione gli sta necessità fare in furia e con fatica quello che in sua stagione, prima, era facile a fare.13 E abbiate a mente, 20 figliuoli miei, che di cosa alcuna mai sarà tanta copia14, né tanta abilità ad averla che a noi non sia difficilissimo quella medesima fuori di stagione trovarla. Le semente, le piante, e’ nesti15, fiori, frutti e ogni cosa alla stagione sua pronto si ti porge: fuori di stagione non senza grandissima fatica si ritruovano. Per questo, figliuoli miei, si vuole osservare il tempo16, e secondo il tempo distribuire le cose, darsi alle faccende, mai 25 perdere una ora di tempo. Potrei dirvi quanto sia preziosa cosa il tempo, ma altrove sia da dirne con piú elimata17 eloquenza, con più forza d’ingegno, con più copia di dottrina che la mia. Solo vi ricordo a non perdere tempo. Così facciate come fo io. La mattina ordino me a tutto il dì18, il giorno seguo quanto mi si richiede, e poi la sera inanzi che io mi riposi ricolgo in me quanto feci il dì19. Ivi, se fui in cosa alcu30 na negligente, alla quale testé possa rimediarvi, subito vi supplisco20: e prima voglio perdere il sonno che il tempo, cioè la stagione delle faccende21. 4 senza repugnare: senza cercare di resistere. 5 aversi... certatori: darsi vinti prima che combattenti (prima di combattere). 6 fo: faccio. 7 e fornitone niuna: senza averne conclusa nessuna. 8 o forse... le migliori: o forse soltanto (agendo) in quel modo mi capiti di aver realizzato soltanto le cose meno rilevanti e lasciate indietro le più importanti. 9 quando... da fare?: quando mi alzo, così penso fra di me: oggi, che cosa dovrò (arò… da) fare? 10 annòverole: le enumero, faccio un elenco. 11 destissimo e faccentissimo: molto vivace e superattivo. 12 Segue... sollecita: Ne consegue che la necessità o la volontà gli impongono di fare in fretta. 13 Allora... fare: Allora, avendo quasi perso il momento opportuno (la stagione), lo incalza la necessità di fare in fretta e con fatica ciò che, al momento giusto, prima, era facile da fare. 14 copia: abbondanza. 15 e’ nesti: gli innesti.

16 si vuole osservare il tempo: si deve calcolare il tempo.

17 elimata: accurata, perfetta. 18 ordino... dì: mi organizzo tutta la giornata.

19 il giorno... dì: durante il giorno eseguo quello che devo fare e poi la sera prima di dormire ricapitolo mentalmente tutto quello che ho fatto durante la giornata. 20 Ivi... supplisco: In quel momento, se sono stato negligente in qualcosa, vi pongo rimedio. 21 la stagione... faccende: il momento giusto di fare le cose.

Non a caso compaiono in questo periodo i primi orologi portatili, che consentono un impiego “individuale” del tempo, sottraendolo così definitivamente alla gestione e al controllo della Chiesa. Ad esempio, in questo Ritratto del mercante Georg Gisze (1532) il pittore tedesco Hans Holbein il giovane rappresenta fra i numerosi oggetti sparsi sul tavolo – penne, un calamaio, un sigillo, un contenitore per monete – un orologio portatile, alla destra del vaso.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 39


Concetti chiave I beni posseduti dall’uomo

Nelle parole che precedono il passo proposto, Giannozzo ha appena dichiarato che l’uomo possiede tre cose propriamente sue: la prima è l’anima, la seconda il corpo e la terza, non meno importante, è il tempo. È evidente, nel passo, il distacco dalla visione medievale del tempo: per l’Alberti (e per gli umanisti in genere) esso non è più un’entità metafisica nelle mani di Dio, ma è un bene prezioso a disposizione dell’uomo, che non va mai sprecato in attività insignificanti o disperso per disattenzione. La gestione accorta del tempo richiede all’uomo saggio una programmazione attenta di ogni momento della giornata.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Interpretando la nuova concezione umanistica, come Leon Battista Alberti considera il tempo? 2. Nel passo, Giannozzo – uomo saggio e capace – espone una serie di regole che si è dato per utilizzare al meglio il tempo. Quali sono? ANALISI 3. Come si comporta invece l’uomo a cui «fugge il tempo»? Con quale similitudine l’autore intende far riflettere sull’errore di tale comportamento?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Quali suggerimenti del testo ti sembrano utili ancora oggi per un’organizzazione ottimale del tempo? Ti sembra che gli adulti nel mondo di oggi corrano troppo?

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. In un testo argomentativo di max 15 righe valuta la validità dei suggerimenti dell’autore per un’organizzazione ottimale del tempo nella tua vita.

Lo spazio L’invenzione della prospettiva Nel Quattrocento si afferma la visione prospettica dello spazio, che rivoluzionerà non solo le arti figurative, ma anche l’architettura e l’urbanistica, oltre che la scenografia teatrale. L’invenzione è attribuita al grande artista Filippo Brunelleschi (1377-1446) che la applica per la prima volta in due tavole lignee raffiguranti il Battistero di San Giovanni e Piazza della Signoria. Le intuizioni di Brunelleschi vengono sviluppate e rigorosamente codificate da Alberti che nel suo De pictura (1436) espone le regole fondamentali della figurazione prospettica, contribuendo in modo determinante alla loro divulgazione: già alla metà del secolo il metodo della figurazione prospettica è divenuto patrimonio comune in Italia e si diffonde in gran parte d’Europa. La prospettiva (dal latino tardo perspectivus, “che permette la vista”) è fondata su precise regole geometrico-matematiche e sullo studio scientifico dei punti di fuga: dunque il dipinto diventa una porzione di spazio nel quale tutti gli elementi trovano posto in una relazione spaziale coerente che rispecchia il punto di vista, assunto come dominante, di un osservatore che guarda la scena rappresentata. In un suo celebre saggio, lo storico dell’arte Erwin Panofsky (1892-1968) ha parlato della prospettiva non come “tecnica”, ma come nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà: la prospettiva nasce dalla concezione umanistica che privilegia la centralità dell’uomo e della sua visione. La “filosofia dello spazio” nella città del Rinascimento La riflessione sullo spazio e l’adozione della prospettiva incidono in modo rilevante anche nell’architettura e nella progettazione urbanistica.

40 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Nascono progetti volti a modificare l’assetto delle città (e a progettarne di nuove) secondo i criteri estetici del tempo, razionalistici e classicistici: l’adozione delle leggi della prospettiva, l’ordine, la misura, l’equilibrio delle forme ispirano la realizzazione di piazze (che assumono forme regolari, in genere quadrangolari), chiese, palazzi. Questi ultimi, arricchiti da colonne e lesene classicheggianti che ornano la facciata, divengono per la loro eleganza un evidente status symbol per le famiglie più ricche e importanti. In seguito alla ristrutturazione rinascimentale, l’intera città diventa come un “teatro” in cui la società signorile esibisce la propria magnificenza e il proprio potere. Lo spazio del mondo: un universo dai contorni ancora incerti Alla fine del Quattrocento gli studiosi ormai hanno raggiunto la certezza che la terra sia sferica, anche se non sono ancora in grado di dimostrarlo. Agli inizi del Cinquecento, nonostante sia iniziata l’era delle esplorazioni geografiche, la quasi totalità delle persone non ha una percezione chiara dello spazio geografico e non ha mai visto una carta geografica (persino i sovrani ignorano la reale conformazione geografica e l’estensione dei loro possedimenti). Peraltro, anche parecchio tempo dopo la “scoperta” dell’America, nonostante la diffusione della celebre lettera in cui Cristoforo Colombo riferisce del suo primo viaggio (➜ D7 OL), i testi geografici per lo più non recano traccia della scoperta dei nuovi mondi. online

PER APPROFONDIRE

D7 Cristoforo Colombo La scoperta del nuovo mondo Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel Sánchez

Le città ideali Celebre esempio dell’ideale umanistico è la tavola denominata comunemente Città ideale. La regolarità assoluta del progetto si basa sul reticolo in prospettiva delle strutture urbane. Vi aleggia un’atmosfera quasi metafisica: domina la scena una costruzione classicheggiante a pianta circolare, la cui cupola richiama il Pantheon. Ai lati una fuga di edifici classicheggianti con porticati e logge suggerisce una dimensione di ordine e armonia. Le facciate delle case hanno un

carattere di rappresentanza, cosicché il progetto può essere considerato come una riproduzione schematica delle strutture socio-politiche. Una città ideale fu nella realtà parzialmente realizzata: l’architetto Rossellino, sulla base di un borgo rurale sulle colline a sud di Siena (l’antica Corsignano) realizza in onore del papa Pio II (l’umanista Enea Silvio Piccolomini, che vi era nato) la cittadina di Pienza, che da lui prende il nome.

Il dipinto Città ideale di autore ignoto (nel 2006 attribuita, seppur non concordemente, a Leon Battista Alberti, dopo attribuzioni a vari artisti, fra cui il Laurana e Piero della Francesca) è rappresentativo dell’interesse quattrocentesco sia per l’urbanistica sia per gli studi prospettici (Galleria nazionale delle Marche, Urbino).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 41


Solo dopo la metà del secolo si inizierà a prendere coscienza della nuova geografia: anche grazie alle relazioni dettagliate sulle nuove terre dei missionari, inviati per evangelizzarle, si accetta che esistano altri mondi oltre i territori conosciuti fino ad allora.

online

Verso il Novecento Achille Campanile Un rovesciamento umoristico dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa”

La scoperta della “diversità” e la visione eurocentrica L’importanza storica ed economica delle scoperte geografiche è grandissima e non è questa la sede per parlarne. Ci interessa piuttosto sottolineare come, di conseguenza, inizi molto presto a delinearsi una nuova visione “geo-antropologica” che sottolinea la diversità costituzionale delle nuove realtà sia riguardo al paesaggio naturale sia (soprattutto) in relazione ai suoi abitatori. Se la “diversità” del paesaggio suscita la stupita ammirazione degli esploratori per una natura vergine e lussureggiante senza uguali in Europa, degli indigeni si dà rilievo quasi sempre all’“inferiorità” (soprattutto in rapporto alla nudità e alle abitudini sessuali totalmente libere). L’inferiorità degli autoctoni si misura nel rapporto obbligato con la civilizzata Europa, secondo una prospettiva che oggi definiremmo eurocentrica e che era storicamente spiegabile a quei tempi: un’ottica che giustificherà in modo implicito, da un lato, lo sfruttamento e a volte l’annientamento di intere popolazioni praticato dalle potenze europee nelle nuove terre (vengono distrutte antichissime civiltà come quella azteca e quella degli Incas) e dall’altro il sistematico assoggettamento ideologico e religioso degli abitanti, considerato dagli europei come un compito doveroso, una specie di missione. L’accettazione del “diverso” Appare di sorprendente modernità la posizione del grande scrittore francese Michel de Montaigne (1533-1592) che, nel capitolo XXI del primo libro dei suoi Essais (Saggi) fa riferimento ai nuovi popoli che le esplorazioni geografiche avevano scoperto. Alla generale preclusione di fronte a popoli considerati costituzionalmente inferiori, Montaigne contrappone una posizione relativistica e la saggia accettazione di chi appare “diverso” agli occhi di una civiltà che si è molto allontanata dalla felice condizione naturale. Scrive Montaigne: «[…] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto». Lo spazio del cosmo: Copernico e la teoria eliocentrica Nuovi orizzonti si aprono anche in campo astronomico e nell’immagine del cosmo grazie alle intuizioni di Niccolò Copernico (1473-1543). Nel suo De revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni dei mondi celesti, 1543) lo scienziato polacco formula l’ipotesi, a quel tempo incredibilmente audace, dell’eliocentrismo, contestando il geocentrismo tolemaico, secondo cui la terra si trovava immobile al centro dell’universo. Alla tesi di Copernico seguiranno ben presto le intuizioni di Tycho Brahe, Keplero e soprattutto di Galileo, destinate a sconvolgere gli orizzonti conoscitivi nella seconda metà del Cinquecento e all’inizio del Seicento.

42 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


6 I valori e i modelli di comportamento La centralità della cultura e il culto dell’amicizia In un suo scritto Lorenzo Valla enuncia alcune condizioni che considera imprescindibili nella vita dell’umanista: la frequentazione di persone istruite, l’abbondanza di libri, la necessità di un luogo adatto, il tempo libero e, infine, la serenità d’animo che predispone alla conquista della saggezza. Forse l’aspetto più significativo di questo elenco è il primo. L’amicizia era un valore molto importante per gli umanisti, certo anche per suggestione della cultura classica: Epicuro, il circolo degli Scipioni e Cicerone (autore di un trattato Sull’amicizia) erano in questa prospettiva dei modelli autorevoli. Per gli umanisti il rapporto di amicizia coincideva con il sodalizio intellettuale, la comunanza di interessi: non si poteva infatti essere amici se non si condivideva l’amore per le lettere e il culto della cultura classica (➜ D8 OL) che questi intellettuali identificavano con la cultura in assoluto. Uno strumento di coesione dell’identità umanistica: le lettere Uno strumento fondamentale per rinsaldare l’identità comune degli umanisti è sicuramente la lettera. Le lettere degli umanisti non servivano per comunicarsi notizie, informazioni, ma per fare riflessioni generali e per esercizi di eloquenza secondo il modello ciceroniano. Spesso la lettera era inviata, oltre che al destinatario, anche agli amici; questi, facendone a loro volta delle copie, ne moltiplicavano considerevolmente la diffusione all’interno della respublica litteratorum, la “società dei letterati”. Per noi moderni, abituati a una comunicazione asciutta, referenziale e funzionale allo scopo, le lettere degli umanisti possono apparire fastidiosamente libresche (si fa spesso sfoggio di erudizione) e ostentatamente retoriche (nel senso negativo che si associa comunemente al termine). Occorre però ricordare che gli umanisti – seguendo il modello dei latini (e quello di Petrarca che scriveva le sue lettere pensando alla loro pubblicazione) – non avevano il mito moderno della sincerità e della spontaneità, ma inseguivano la perfezione stilistica: la lettera era appunto un banco di prova della loro capacità di scrittura.

Parola chiave

Il disprezzo del “volgo” L’ideale dell’humanitas , che accomuna gli umanisti, è imprescindibile dal possesso di una ricca cultura e in particolare di quegli studia humanitatis che soli possono formare un uomo completo. Nella visione elitaria dell’Umanesimo, solo le persone di cultura sono propriamente degne di essere chiamate “uomini”; di conseguenza sono esclusi dal consesso

humanitas “Umanesimo” e “umanista” sono termini che rimandano al termine latino humanitas, che allude a un insieme di valori e di qualità che rendono nobile un uomo. L’ideale dell’humanitas fu elaborato a Roma, nella seconda metà del II secolo a.C., all’interno del cosiddetto circolo degli Scipioni, di cui facevano parte anche importanti figure della cultura greca, come lo storico Polibio e il filosofo stoico Panezio.

Sarà soprattutto Cicerone (106-43 a.C.) ad approfondire l’ideale dell’humanitas – da lui intesa come saggezza, equilibrio – e ad assegnare all’interno di essa un posto fondamentale alla cultura. Ma in Cicerone il termine diventa anche sinonimo di mitezza, comprensione per la debolezza altrui, amore per gli uomini. In questa accezione è nell’humanitas antica (fatta propria dagli umanisti) che vanno ritrovate le radici dei termini “umanitario”, “umanitarismo” e del relativo concetto.

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dei “veri uomini” tutti coloro che non sono dotti, definiti in latino vulgus. Il termine non identifica una specifica classe sociale: il volgo non è solo il popolo, ma tutti coloro che non conoscono e non apprezzano gli studia humanitatis e che hanno a che fare con le incombenze del quotidiano. Il modello umano nei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti Tra la metà del XIII e la metà del XIV secolo il sistema familiare patriarcale progressivamente si incrina, mentre si avvia la transizione al nucleo familiare coniugale. La famiglia come nucleo essenziale della società, e al contempo rifugio e difesa dagli imprevisti della fortuna, è al centro della riflessione di Leon Battista Alberti nei quattro Libri della famiglia (1434-1441), un trattato scritto in lingua volgare (una scelta inconsueta nel primo Umanesimo). Si tratta di un’opera dialogica, in cui gli interlocutori (tre membri della famiglia Alberti più un personaggio immaginario, Battista, in cui l’autore ritrae se stesso da giovane) si scambiano opinioni sugli indirizzi da dare all’educazione (I libro), sul ruolo della donna e sul matrimonio (II libro), sul modo di gestire e valorizzare il patrimonio familiare, sul tempo (➜ D6 ), sul ruolo della fortuna, sulle qualità umane (III libro) e, infine, sull’amicizia e, in genere, sulle relazioni umane (IV libro). L’ideale umano che emerge dal complesso dell’opera è ispirato alla moderazione e alla prudenza: valori prettamente borghesi, che Alberti lega a una dimensione, quella della villa in campagna, contrapposta, nella sua rassicurante solidità, ai pericoli e alle incertezze della vita in città. La famiglia è presentata nell’opera come fonte di equilibrio e di sicurezze, al riparo dalle tensioni associate alla politica. L’ottica con cui Alberti guarda alla famiglia e ai comportamenti umani è comunque sempre pragmatica, prettamente laica; l’autore esclude deliberatamente ogni riferimento alla dimensione trascendente. Protagonista delle sue riflessioni e della sua visione del mondo è sempre la virtù dell’uomo, intesa come capacità di costruirsi il proprio destino fronteggiando la «fortuna iniqua e strana», i casi avversi della vita. Sul tema della fortuna si veda il passo di Alberti nel percorso dedicato alla Fortuna (➜ PER APPROFONDIRE, La Fortuna tra letteratura e arte, PAG. 448). Il nuovo significato della virtù Nel nuovo sistema valoriale che si viene a formare muta profondamente il concetto stesso di virtù: richiamandosi alla latinità, gli umanisti utilizzano il termine virtù non più per indicare una qualità morale-religiosa, ma essenzialmente come sinonimo di “valore”. La virtù non coincide più con una condotta morale esemplare, ma indica la capacità di agire in modo ponderato, così da fronteggiare i vari casi della fortuna: una qualità che si consegue in una vita attiva, vissuta insieme agli altri esseri umani (➜ D3 OL). “Virtù” è una parola chiave nel Principe, il trattato politico di Machiavelli: nell’opera dello scrittore fiorentino la virtù ha soprattutto a che fare con l’intuito politico del signore, con la sua capacità di affrontare gli imprevisti e di raggiungere il successo politico, sfruttando – anche con comportamenti spregiudicati – le occasioni favorevoli. Dalla relazione uomo-Dio alla relazione uomo-uomo Già nel Medioevo esistevano trattati che regolavano il comportamento, ma l’attenzione era rivolta quasi esclusivamente alla condotta morale. Con l’Umanesimo non esiste più solo la condotta morale, condizionata da una schematica contrapposizione tra bene e male, ma il comportamento tende a modellarsi secondo esigenze soprattutto sociali. Sulla relazione uomo-Dio, che improntava l’atteggiamento dell’uomo medievale, ora tendono a prevalere le relazioni umane che l’individuo vive all’interno della società, e in particolare all’interno della corte.

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Il tramonto del modello umano del mercante e la riproposizione dell’ideale cavalleresco Nel generale processo di “rifeudalizzazione” che caratterizza la società italiana già dal primo Cinquecento, tramonta nell’immaginario collettivo e letterario la figura del mercante, mentre incontra nuova fortuna l’ideale cavalleresco, soprattutto in corti come quella ferrarese. Le qualità del gentiluomo – versione rinnovata del cavaliere medievale – non si misurano più però nell’avventura cavalleresca, ma online nella capacità di sapersi inserire nei rituali raffinati della vita di D8 Cristoforo Landino Un incontro tra spiriti affini corte, come evidenzia il più celebre trattato sul comportamenDisputationes camaldulenses to: il Cortegiano di Baldesar Castiglione (➜C1).

7 Luoghi, centri e figure della produzione culturale La corte: luogo-simbolo della cultura umanistico-rinascimentale Le corti italiane: una realtà policentrica Tra XV e XVI secolo in Italia le sedi in cui circola e si produce la cultura coincidono con le principali corti. I centri più importanti sono nel Nord Italia: Milano, Mantova, Ferrara (un caso a parte è Venezia), quindi Firenze e infine Roma e Napoli. Mentre in altri paesi europei la presenza di una capitale, sede di un governo centrale, favorisce l’accentramento della produzione culturale, l’Italia, a causa della divisione politica, è caratterizzata da un marcato policentrismo culturale. Nella variegata realtà italiana ogni centro ha una propria fisionomia e presenta specifiche tendenze culturali: ad esempio Firenze è la sede dell’Umanesimo civile nella prima metà del Quattrocento e in seguito del platonismo, a Ferrara fiorisce il poema cavalleresco (Boiardo, Ariosto, Tasso), mentre dalla Venezia del Bembo, centro dell’editoria, si diffonde la lirica petrarchista e così via. Un microcosmo elitario, chiuso al mondo esterno In ambito più propriamente culturale, la corte è il centro dove convergono le personalità di spicco dell’epoca, il Danzar, luogo dove vengono principalmente elaborati, nell’età umanistico-rinascimentale, festeggiar, cantar e giocare… Il ruolo i modelli di comportamento e i modelli culturali. Non a caso la corte fa spesso della festa nella società signorile da sfondo alle invenzioni letterarie del periodo umanistico e rinascimentale, come negli Asolani di Pietro Bembo o nel Cortegiano di Castiglione, nel quale l’ambiente che l’autore evoca con nostalgia è la corte d’Urbino (➜ D11a ). Si tratta di un mondo elitario, che esclude le altre classi sociali: tra «palazzo» e «piazza» c’è una «nebbia folta» – come scrive con una celebre metafora Francesco Guicciardini in uno dei suoi Ricordi (➜ C9 T6 ) – cioè una grande distanza, che impedisce al popolo non solo di partecipare a quanto avviene nel palazzo Il Palazzo ducale di Urbino: scorcio del cortile d’onore (architetti Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, 1468-76). ma persino di venirne a conoscenza. online

Per approfondire

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 45


Personalità dell’età umanistico-rinascimentale Centri culturali

Corte

Milano

Visconti, in seguito Sforza

• Francesco Filelfo (1398-1481; scrittore) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Donato Bramante (1444-1514; pittore e architetto) • Leonardo da Vinci (1452-1519; artista e scienziato)

Gonzaga

•  Vittorino da Feltre (1373/78-1446; intellettuale e educatore) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) •  Andrea Mantegna (1431-1506; pittore) • Poliziano (1454-1494, scrittore e intellettuale) •  Baldesar Castiglione (1478-1529; scrittore e intellettuale) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) •  Giulio Romano (1492/99-1546; pittore e architetto)

Serenissima Repubblica

•  Vittorino da Feltre (1373/78-1446; intellettuale e educatore) •  Guarino Veronese (1374-1460; poeta e educatore) •  Giovanni Bellini (1427/30-1516; pittore) •  Aldo Manuzio (1450-1515; editore e intellettuale) •  Pietro Bembo (1470-1547; poeta, scrittore e intellettuale) • Giorgione (1478-1510; pittore) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Pietro Aretino (1492-1556; poeta e scrittore) • Ruzante (1496-1542; scrittore)

Este

• Guarino Veronese (1374-1460; poeta e educatore) • Cosmè Tura (1433-1495; pittore) • Matteo Maria Boiardo (1441-1494; poeta e scrittore) • Ludovico Ariosto (1474-1533; poeta, scrittore e funzionario) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Torquato Tasso (1544-1595; poeta, scrittore e filosofo)

Mantova

Venezia

Ferrara

Personalità principali

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Firenze

Roma

Napoli

Repubblica fiorentina / Medici

• Coluccio Salutati (1331-1406; scrittore e filosofo) • Niccolò Niccoli (1364-1437; scrittore) •  Leonardo Bruni (1370-1444; scrittore) • Guarino Veronese (1374-1460; poeta e educatore) • Filippo Brunelleschi (1377-1446; ingegnere e architetto) • Poggio Bracciolini (1380-1459; scrittore e storico) • Donatello (1386-1466; pittore, scultore e architetto) • Francesco Filelfo (1398-1481; scrittore) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Masaccio (1401-1428; pittore) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Cristoforo Landino (1424-1498; poeta, filosofo e intellettuale) • Luigi Pulci (1432-1484; poeta) • Marsilio Ficino (1433-1499, filosofo e intellettuale) • Sandro Botticelli (1445-1510; pittore) • Leonardo da Vinci (1452-1519; artista e scienziato) • Poliziano (1454-1494, scrittore e intellettuale) • Pico della Mirandola (1463-1494, filosofo e intellettuale) • Niccolò Machiavelli (1469-1527; scrittore, storico, filosofo e intellettuale) • Michelangelo Buonarroti (1475-1564; scultore, pittore, architetto e poeta) • Raffaello Sanzio (1483-1520; pittore e architetto) • Francesco Guicciardini (1483-1540; scrittore e storico) • Benvenuto Cellini (1500-1571; scultore e scrittore) • Giorgio Vasari (1511-1574; architetto, pittore e storico)

Papato

• Poggio Bracciolini (1380-1459; scrittore) • Flavio Biondo (1392-1463; storico) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Enea Silvio Piccolomini (1405-1464; intellettuale e papa) • Lorenzo Valla (1407-1457; scrittore, filosofo e intellettuale) • Giulio Pomponio Leto (1428-1498; scrittore e intellettuale) • Donato Bramante (1444-1514; pittore e architetto) • Pietro Bembo (1470-1547; poeta, scrittore e intellettuale) • Michelangelo Buonarroti (1475-1564; scultore, pittore, architetto e poeta) • Raffaello Sanzio (1483-1520; pittore e architetto) • Baldesar Castiglione (1478-1529; scrittore e intellettuale) • Giulio Romano (1492/99-1546; pittore e architetto) • Pietro Aretino (1492-1556; poeta e scrittore) • Benvenuto Cellini (1500-1571; scultore e scrittore) • Giorgio Vasari (1511-1574; architetto, pittore e storico)

Aragonesi

• Panormita (1394-1471; scrittore e poeta) • Lorenzo Valla (1407-1457; scrittore, filosofo e intellettuale) • Giovanni Pontano (1429-1503; poeta e scrittore) • Iacopo Sannazaro (1457-1530; poeta e scrittore)

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 47


I LUOGHI DELLA CULTURA

La corte Quando si parla di “corte”, in questo periodo si allude sia a uno spazio (il palazzo signorile) sia all’insieme di persone che gravitavano attorno a un principe o a un personaggio particolarmente potente o influente (ad esempio: a Roma, attorno a famiglie come gli Orsini e i Colonna, esistevano vere e proprie corti). Anche i membri più elevati della gerarchia ecclesiastica, ovvero i cardinali, conducevano una vita fastosa e si comportavano come prìncipi (per altro provenivano per lo più da famiglie principesche) e non comparivano mai in occasioni pubbliche se non con un numeroso seguito di cortigiani e servitori. Una corte poteva ospitare un numero di persone indeterminato, che poteva essere anche molto elevato: ai tempi del Castiglione, la corte di Urbino constava di 350 persone; ai primi del Quattrocento, la corte di Milano era composta da circa 600 persone e nel terzo decennio del Cinquecento quella di Mantova annoverava quasi 800 persone (stando ai dati dello storico inglese Peter Burke). La corte comprendeva innanzitutto i gentiluomini e le dame; quindi i segretari, i letterati (che spesso fungevano anche da consiglieri del principe e educavano i suoi figli), gli artisti, la servitù di tutti i gradi e, infine, tutti coloro che erano impiegati nell’allestimento dei divertimenti e degli spettacoli che animavano la vita della corte: dai musicisti ai buffoni di corte e così via.

Particolare del grande ciclo di affreschi del Salone dei mesi (in Aprile, 1468-1470) di Francesco del Cossa di Palazzo Schifanoia a Ferrara. Mostra una scena di vita di corte in cui il duca, circondato da dignitari e paggi, dona una moneta a quello che è stato identificato come un giullare al suo servizio.

Lorenzo Costa, Allegoria della corte di Isabella d’Este, tempera su tavola, 1504-1506 (Museo del Louvre, Parigi).

La corte del Colleoni. Particolare del ciclo di affreschi del castello di Malpaga, 1458-1475 (Cavernago, Bergamo).

48 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Nuovi spazi per una “cultura del dialogo”

online

Per approfondire

I LUOGHI DELLA CULTURA

L’Accademia platonica di Careggi

I cenacoli e le accademie Gli umanisti sentono l’esigenza di confrontarsi tra di loro e di stabilire solidi legami umani e intellettuali: si incontrano perciò molto spesso, per conversare e per dibattere qualche importante tema culturale. Gli spazi scelti per questi incontri periodici sono diversi dalle sedi tradizionali e istituzionali di cultura (cioè le università e le scuole annesse alle chiese): i giardini di qualche palazzo o le sale interne alla corte o una casa privata o anche una bottega di libri (dopo l’invenzione della stampa la bottega tipografica di Aldo Manuzio a Venezia diventa sede di vivaci scambi culturali). Il mutamento del luogo in cui si produce cultura rispetto all’età medievale non è casuale, ma testimonia una vera e propria rivoluzione conoscitiva: mentre la cultura filosofica medievale è concepita come “lettura” e “commento” da parte del magister di un testo d’indiscutibile autorità, in uno spazio istituzionale severo e solenne (l’università), nella visione umanistica il sapere è concepito come ricerca razionale e discussione. La frequenza di questi incontri costituisce un fatto nuovo e tipico dell’Umanesimo, che fa dei cenacoli umanistici o accademie – come talvolta vennero denominate, secondo il modello platonico – un’istituzione chiave del tempo. Testimonia in modo esemplare lo spirito delle associazioni umanistiche l’Accade-

Il cenacolo e l’accademia Nel significato originario il termine “cenacolo” identificava la sala nella quale, nell’antica Roma, si cenava. Il cenacolo per antonomasia è la stanza in cui avvenne l’ultima cena di Gesù con gli apostoli (una scena immortalata dal celeberrimo affresco di Leonardo nella chiesa di S. Maria delle Grazie, a Milano, noto appunto come Cenacolo). Da luogo in cui si ritrova una comunità di persone, il termine è poi passato a designare un gruppo di intellettuali e artisti che seguono un medesimo indirizzo. Dall’iniziale designazione del luogo presso Atene dove Platone iniziò il suo insegnamento, il termine “accademia” passò presto a indicare la scuola filosofica stessa di Platone. Nell’età umanistico-rinascimentale, dopo l’esempio dell’Accademia fondata da Marsilio Ficino a imitazione appunto di quella platonica, il termine designa varie associazioni intellettuali ispirate a diversi indirizzi e a interessi differenti, non solo filosofici. Nel tempo, accademico diventa sinonimo di “professore universitario” e, come aggettivo, accademico è tutto ciò che riguarda la vita universitaria.

Domenico Ghirlandaio, Annuncio dell’Angelo a Zaccaria, affresco, 1486-90 (Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, Firenze). In basso a sinistra sono raffigurati gli accademici Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Demetrio Calcondila.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 49


mia platonica, fondata da Marsilio Ficino a Firenze verso il 1463 circa e protetta dai Medici. Altre importanti accademie nacquero a Napoli (l’Accademia alfonsina e poi pontaniana); a Roma (l’Accademia di Pomponio Leto, attiva a partire dal 1460) e a Venezia (l’Accademia aldina, che si sviluppa sul finire del secolo attorno al grande stampatore-umanista Aldo Manuzio). L’istituzionalizzazione e specializzazione delle accademie Nel corso del Cinquecento le accademie si moltiplicano, e si trasformano: da incontri informali tra intellettuali, esse tendono a trasformarsi in istituzioni stabili; iniziano così a regolamentare i requisiti che consentono di accedervi e a specializzarsi (le accademie scientifiche da una parte e quelle linguistico-letterarie dall’altra).

I LUOGHI DELLA CULTURA

Le biblioteche pubbliche, luoghi di circolazione della cultura Nel Medioevo il libro era gelosamente conservato nelle biblioteche dei castelli o nelle biblioteche dei monasteri, e non era contemplata la possibilità che dall’esterno si potesse accedere al patrimonio librario. L’Umanesimo trasforma in realtà questo progetto: le biblioteche diventano gradualmente anche luoghi in cui si legge insieme e si discute.

La biblioteca Il primo esempio di destinazione pubblica di un patrimonio librario privato è il lascito testamentario (1437) dell’umanista Niccolò Niccoli, bibliotecario di Cosimo de’ Medici, che destina i suoi libri «a tutti i cittadini amanti degli studi». Nel convento di San Marco, Cosimo fa allora allestire la prima biblioteca pubblica, nella quale sono collocati i preziosi codici (circa 800) posseduti dal Niccoli, a disposizione di chi li voglia consultare e persino prendere a prestito. La più ricca biblioteca dell’epoca (non solo in Italia, ma in tutta Europa) è quella Vaticana (1484), anch’essa aperta al pubblico, voluta da papa Niccolò V (Tommaso Petruccelli), umanista e appassionato bibliofilo. L’accrescimento del patrimonio librario nel Rinascimento, anche grazie alla stampa, renderà necessario adottare precise direttive culturali che regolino l’acquisto di nuovi libri per evitare un accumulo caotico e un accrescimento puramente quantitativo. Da qui l’importanza di una nuova figura, il bibliotecario, responsabile della scelta dei libri da acquisire: nel caso della Laurenziana (la splendida biblioteca voluta da Lorenzo de Medici ed edificata da Michelangelo), furono due prestigiosi umanisti della “cerchia medicea” a occuparsi dell’acquisizione di un patrimonio librario vasto e prezioso: Pico della Mirandola e Poliziano.

Cultori delle humanae litterae impegnati nello studio all’interno della Biblioteca Vaticana a Roma (Arcispedale di Santo Spirito in Saxia, Roma). Dall’affresco si può notare come avveniva la consultazione dei volumi nelle biblioteche del tempo: i codici venivano conservati orizzontalmente nei ripiani inferiori dei banchi ed erano consultabili liberamente (anche se assicurati ai banchi tramite catene).

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Gli intellettuali: nuovi ruoli, nuove identità Dall’intellettuale comunale al cortigiano Già nel corso del Trecento, in seguito alla crisi della società comunale, tramonta il modello di intellettuale attivamente partecipe della vita politica della sua città e che si dedica alla letteratura nei momenti che l’esercizio della sua professione (per lo più di uomo di legge o docente universitario) lascia liberi. Nel corso del Quattrocento, a questa figura tende a sostituirsi il modello dell’intellettuale cortigiano, anticipato per più aspetti da Petrarca. L’attività letteraria diventa una vera e propria professione al servizio delle istituzioni principali del tempo: la corte e la Chiesa, nell’ambito della politica culturale del mecenatismo. Il mecenatismo Nell’età umanistico-rinascimentale principi e papi adottano verso artisti e intellettuali la particolare politica culturale che viene definita mecenatismo. Il termine deriva dal nome di Mecenate, che nella Roma antica fu il principale artefice della politica culturale dell’imperatore Augusto, volta a proteggere e cooptare letterati e artisti, legandoli al principato. I principi-mecenati, a cominciare da Lorenzo il Magnifico, che governò Firenze dal 1469 al 1492, cercano di attirare i più importanti esponenti della cultura, a cui garantiscono un adeguato tenore di vita, chiedendo in cambio la produzione di opere (architettoniche, figurative e letterarie) che diano prestigio alla corte (➜ D9a-b OL). La presenza di artisti e famosi scrittori, le opere d’arte a tutti visibili, costituivano per i signori un formidabile strumento per creare diffuso consenso. Quanto al popolo, veniva abbagliato dagli spettacoli organizzati in occasione di particolari eventi a cui presiedevano spesso gli stessi intellettuali. La condizione cortigiana: luci e ombre Se la corte offre agli intellettuali indipendenza economica, occasioni di promozione sociale e soprattutto la possibilità di vivere in un ambiente raffinato e culturalmente stimolante, per contro la dipendenza da un signore mecenate può condizionare l’attività e le scelte ideologiche degli artisti, suscitando la loro insofferenza (il tema della negatività della vita di corte è diffuso). A ben vedere però, più che con motivi ideologico-politici, l’insoddisfazione degli artisti ha a che fare con il fatto che il letterato umanista è obbligato, come cortigiano, a svolgere compiti estranei alla sua vocazione letteraria: dalle missioni politico-diplomatiche, a volte anche pericolose (come accade ad Ariosto), all’educazione dei figli del principe, o ancora alla composizione di testi celebrativi, di lettere e discorsi ufficiali, per arrivare a ruoli quasi umilianti (almeno a quanto scrive l’Ariosto nelle Satire). Inoltre, almeno se ci si attiene alle testimonianze degli umanisti, la vita nella corte era viziata dalla competizione, dall’ipocrisia e dall’adulazione. La carriera dentro la Chiesa Per i letterati e gli artisti un’alternativa al mecenatismo dei principi è rappresentata dalla carriera ecclesiastica nella condizione di chierici. Per lo più gli intellettuali fanno questa scelta (che ai gradi minori implicava pochissimi obblighi, come il celibato, peraltro spesso del tutto formali) non tanto online per vocazione, quanto perché attirati dai benefici connessi alla gestione di abbazie Testi in dialogo e parrocchie e dal prestigio sociale che allora comportava Il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico nel il raggiungimento dei gradi più elevati nella gerarchia ritratto dei contemporanei: due testimonianze della Chiesa, quelli di vescovo e cardinale. D9a Angelo Poliziano «Uomo nato a cose grandi» I maggiori intellettuali dell’epoca sono inseriti nelle strutEpistola a Jacopo Antiquario ture ecclesiastiche (Bembo è cardinale, Castiglione arriva a D9b Niccolò Machiavelli diventare nunzio apostolico, Enea Silvio Piccolomini addiAmava meravigliosamente qualunque era in una arte eccellente rittura papa) o aspirano a entrarvi (come Poliziano, Ariosto e Istorie fiorentine VIII, 36 persino un intellettuale spregiudicato come Aretino). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 51


Una figura emergente: l’artista-intellettuale Tra gli intellettuali di corte ha spesso un ruolo di spicco l’artista: proprio agli artisti era affidata la celebrazione, in immagini-simbolo, del potere e della magnificenza dei signori e della famiglia principesca. Nella pittura si diffonde l’uso del ritratto dei signori (celeberrimo è ad esempio quello di Federico di Montefeltro, opera di Piero della Francesca) e la raffigurazione negli affreschi dei palazzi signorili della vita raffinata della corte. Gli intellettuali-artisti sono ritratti a volte insieme alla famiglia principesca per la quale operano e alla cui corte vivono, a sottolineare lo stretto rapporto con essa: nella celebre Camera degli sposi (1465-1474) è lo stesso Andrea Mantegna ad autoritrarsi nel medaglione di un fregio tra i membri della famiglia Gonzaga. Che gli artisti siano considerati degli intellettuali costituisce una rilevante novità: fino al Trecento, infatti, pittori, scultori e architetti erano considerati sostanzialmente degli artigiani (non tanto diversi da falegnami o muratori) proprio perché la loro arte implicava l’attività manuale e quindi venivano ritenuti appartenere a un piano più basso rispetto agli scrittori; sostanzialmente, dunque, non erano visti come intellettuali. Nel nuovo clima culturale dell’Umanesimo gli artisti si trovano invece per la prima volta accomunati ai letterati dagli stessi ideali estetici: in particolare l’ammirazione per l’antichità classica. Le Vite di Vasari e la consacrazione dell’importanza dell’artista Nel 1550 esce la prima edizione delle Vite de’ più eccellenti architettori, pittori e scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, opera del toscano Giorgio Vasari (1511-1574) dedicata a Cosimo I, di cui era al servizio come architetto-pittore. La seconda edizione, ampliata e modificata sotto il profilo stilistico, è del 1567 e comprende molti contemporanei. Le Vite raccolgono più di duecento biografie di artisti: una mole di documenti enorme, frutto di un appassionato lavoro personale di documentazione, anche aneddotica, sui vari autori e le loro opere e di contatti con eruditi e personalità artistiche e letterarie del tempo. Le Vite sono il primo consuntivo critico sull’arte italiana, ancora oggi considerato fondamentale dagli studiosi; appaiono l’esemplare testimonianza del ruolo sempre più rilevante che gli artisti (pittori, scultori, architetti) erano andati assumendo nella società rinascimentale e della valorizzazione dell’artista come individuo eccezionale, dotato di superiore ingegno e non più solo di competenze tecnico-artigianali come nel Medioevo. La storia dell’arte italiana dal Duecento al Cinquecento è interpretata come continuo online progresso, soprattutto per quanto riguarda il disegno, sempre D10 Giorgio Vasari più perfezionato e in grado di imitare la natura, fino a ragLeon Battista Alberti, prototipo giungere il culmine con Michelangelo, dopo il quale iniziano dell’artista-intellettuale Vite a delinearsi nuove prospettive, per le quali Vasari per primo usa il concetto di “manierismo”.

Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Che cosa si intende con il termine Umanesimo e che cosa con il termine Rinascimento? 2. Che cosa si intende con antropocentrismo? 3. Che cosa si intende per visione edonistica della vita? 4. Qual è la visione della storia che si diffonde in questo periodo? 5. In che cosa consiste il metodo filologico? Chi fu il suo iniziatore? 6. Quale concezione del tempo e dello spazio domina in questo periodo? 7. Quali sono i luoghi della produzione culturale? 8. Quali caratteristiche presenta la corte? 9. Che cosa si intende per mecenatismo? 10. Quali sono gli aspetti positivi e negativi dell’intellettuale-cortigiano?

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Testi a confronto

Vivere a corte: tra mitizzazione e critica Baldesar Castiglione

D11a

La corte felice di Urbino: un mito nostalgico Il libro del Cortegiano I, iv

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a c. di B. Maier, Utet, Torino 1981

Nel passo proposto, Baldesar Castiglione ritrae in modo idealizzato la corte di Urbino, dove egli stesso esercitò il ruolo di cortigiano tra il 1504 e il 1513. La mitizzazione del mondo della corte è anche il frutto della nostalgia di un mondo passato e della stessa giovinezza dello scrittore: quando Castiglione scrive sono ormai trascorsi vent’anni dal tempo evocato.

Erano adunque tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi1 così del corpo come dell’animo; ma perché il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n’andava a dormire2, ognuno per ordinario3 dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga4 a quell’ora si riduceva5; dove ancor sem5 pre si ritrovava la signora Emilia Pia6, la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l’oneste facezie7 s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; né mai credo che in altro 10 loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quella che già di sopra ho detto8, a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti9, 15 talmente che mai non fu concordia di volontà o amore cordiale tra fratelli maggiore di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commerzio10; ché a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea; ma tanta era la reverenzia11 che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno12; né 20 era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle13. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti14 ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa e grave maestà15. […] 1 esercizi: occupazioni. 2 perché… dormire: poiché il signor duca per la malattia di cui soffriva (la gotta) spesso andava a letto molto presto. 3 per ordinario: di solito. 4 Elisabetta Gonzaga: la moglie del duca. 5 si riduceva: si recava. Più sotto (rr. 13-23) ci riducevamo sta per “ci recavamo”. 6 Emilia Pia: la vedova di un fratello del duca. 7 l’oneste facezie: le battute di spirito raffinate e non volgari. 8 lassando… detto: tralasciando di ricordare quanto onorevole fosse per ciascuno di noi servire

un signore così grande, dolcezza che ho già ricordato prima. 9 catena… uniti: la metafora sottolinea efficacemente il ruolo della duchessa nel mantenere unita la corte. 10 si aveva liberissimo… commerzio: si mantenevano rapporti molto liberi, ma del tutto onesti. 11 reverenzia: rispetto. 12 la medesima libertà… freno: la stessa libertà induceva a un maggior autocontrollo, per non dispiacere alla duchessa con comportamenti inappropriati. 13 né era alcuno… dispiacerle: e non c’era nessuno che non considerasse come il massimo pia-

cere del mondo il comportarsi in modo da essere approvati da lei, e il massimo dispiacere essere da lei disapprovati. 14 onestissimi costumi… congiunti: il modo di comportarsi più onesto era unito a una grandissima libertà. 15 i risi… maestà: alla sua presenza gli scherzi e le battute (i risi) erano accompagnati, oltre che dall’arguzia e dallo spirito (argutissimi sali), da una raffinata misura e nobiltà. Sali è una metonimia, derivata dall’uso latino, e vale “battute di spirito”.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 53


Erasmo da Rotterdam

D11b

La vita vuota dei cortigiani Elogio della follia

Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a c. di C. Carena, Einaudi, Torino 1997

Uno dei temi affrontati dall’umanista Erasmo da Rotterdam nel celebre Elogio della follia del 1509 (➜ C5) è la rappresentazione satirica e molto critica della vita nella corte. Domina il senso di vuoto, l’inerzia spirituale dei nobili delle corti.

Si dorme sino a mezzogiorno, quando un pretino prezzolato1, appare in paramenti ai piedi del letto e recita in fretta e furia la messa a lor signori quasi ancora coricati2. Poi a colazione, e non appena finita la colazione interviene già quasi il pranzo. A questo punto i dadi, gli scacchi, i tarocchi, i buffoni, i matti, le cortigiane, il gioco, 5 le trivialità3. Intercalate, una o due merende4, poi di nuovo a cena, e dopo cena le bevute, non una sola5, per Giove! In tal modo, senza un attimo di noia per la vita, scorrono ore, giorni, mesi, anni, secoli. Io stessa a volte vengo via più che nauseata6 dalla vista della loro boria7, tra ninfette8 che si credono ciascuna tanto più vicina agli dèi quanto più lungo è lo strascico che porta, e questi personaggi che 10 si spingono l’un l’altro a gomitate per figurare più vicino a Giove9, e tanto più si piacciono quanto più pesante è la catena che portano al collo, per manifestare non solo opulenza ma anche forza10. 1 prezzolato: pagato. 2 ai piedi… coricati: i cortigiani non fanno neppure la fatica di alzarsi per sentire la messa, che si svolge in gran fretta. Tutti i particolari evidenziano la superficialità delle pratiche religiose svolte nella corte. 3 le trivialità: le volgarità. Ossia le battute e gli scherzi grossolani. 4 Intercalate… merende: tra

una e l’altra delle attività elencate ci sono degli spuntini. L’autore sottolinea come gran parte del tempo della vita cortigiana sia dedicato a mangiare. 5 non una sola: non si beve un solo bicchiere. 6 Io stessa… nauseata: è la Follia in persona che parla, ma a volte la pazzia delle corti è eccessiva anche per lei.

7 boria: superbia. 8 ninfette: giovani ragazze. 9 Giove: il signore, con un’iperbole ironica, è indicato come il re degli dei. 10 la catena… forza: la catena d’oro che portano in collo per mostrare ricchezza e potenza, in realtà è simbolo della loro schiavitù.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Individua gli aspetti che Castiglione elenca come esempi di civiltà e raffinatezza e le corrispondenti immagini che in Erasmo diventano denunce della futilità e della corruzione della corte; poi inseriscili in una tabella come questa: Castiglione

Erasmo

«Erano adunque tutte l’ore… piacevoli esercizi»

«Si dorme sino a mezzogiorno… quasi il pranzo»

LESSICO 2. Scheda gli aggettivi attraverso cui Castiglione esalta la vita di corte e individua i valori culturali e/o etici cui rimandano (ad es. oneste facezie = arguzia, prontezza di spirito). 3. Il testo di Erasmo ha spesso un carattere sarcastico: individua termini ed espressioni che comprovino questa affermazione.

Interpretare

SCRITTURA 4. Dai due passi si colgono aspetti dell’ambiente di corte considerati positivi e aspetti negativi. Riassumili in un testo di non più di 20 righe.

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2

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica Un nuovo modello culturale e educativo, fondato sugli studia humanitatis Il concetto basilare che ispira la linea educativa dell’Umanesimo è la necessità di formare un uomo completo (in cui si armonizzino corpo e anima, sensi e intelletto) e libero (capace di dominare le passioni attraverso il controllo razionale). Per raggiungere questo obiettivo non serve più una cultura enciclopedica, ma occorre privilegiare, nell’insegnamento, gli studia humanitatis (così chiamati «perché perfezionano e adornano l’uomo», come afferma in una lettera l’umanista Leonardo Bruni), considerati per eccellenza formativi: la storia (da cui trarre modelli di vita), la filosofia morale (da cui ricavare princìpi etici) e soprattutto la poesia e la retorica (“l’arte del dire”, cioè), ambiti disciplinari da apprendere leggendo secondo il metodo filologico i classici greci e latini (➜ D12a OL).

online

Per approfondire Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre

online

La “comunità educante” La visione pedagogica dell’Umanesimo si traduce in reale pratica educativa grazie a Guarino Veronese (Guarino de’ Guarini, 1374-1460) e a Vittorino da Feltre (1378-1446). Alla base della concezione pedagogica che ispira le loro scuole c’è una nuova immagine del discente: l’alunno diventa il soggetto del processo educativo e la figura a cui il docente deve rispetto, che deve convincere e non costringere, mettendo in atto ogni strategia che possa favorirne l’apprendimento e stimolarne gli interessi autonomi. Tra docente e allievi nelle scuole umanistiche si creava un rapporto di collaborazione, addirittura un legame di affetto. Viene valorizzata, inoltre, l’amicizia tra gli allievi in quella che oggi potrebbe essere definita una “comunità educante”. Come si può notare anche da queste scarne informazioni, si tratta di una concezione pedagogica molto attuale e lontanissima dall’ottica medievale. L’eredità della scuola umanistica: luci e ombre Con la pedagogia umanistica si afferma un modello culturale con importanti riflessi sociali: per secoli l’uomo colto sarà identificato essenzialmente in una persona che conosce bene il latino, ha familiarità con le opere dei classici così da saper inserire con disinvoltura una citazione dotta in un argomento di conversazione, è in grado di scrivere con eleganza di stile. Il rischio è quello di privilegiare eccessivamente il potere formativo delle lettere, a scapito di altri importanti saperi (come quello scientifico) e, soprattutto, di anteporre la forma ai contenuti, i compiacimenti retorici alla sostanza. Un rischio avvertito dagli umanisti più critici come Erasmo e poi Montaigne, che non risparmiano critiche feroci a grammatici e retori (➜ D12b OL).

Testi in dialogo La pedagogia umanistica: alcune testimonianze

D12a Pier Paolo Vergerio Centralità degli studia humanitatis Dei nobili costumi e degli studi liberali dei giovani D12b Leon Battista Alberti Anche l’esercizio fisico è importante Libri della famiglia, I

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 55


2 Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura Un modello conoscitivo antidogmatico Con l’Umanesimo viene meno la secolare identificazione della cultura con il sapere scolastico e universitario (esso nasce fuori dagli ambienti universitari) e si afferma una visione antidogmatica della conoscenza. Il sapere non è più statico possesso di informazioni fissate, ma si fonda sulla libera discussione, attraverso cui si fanno partecipi gli altri del proprio sapere e si promuove una circolazione delle idee che arricchisce tutti (➜ D13 ). Non è quindi casuale il fatto che nella cultura umanistica si leggano e scrivano moltissimi dialoghi: al trattato medievale finalizzato a trasmettere un sapere codificato una volta per tutte, gli umanisti – secondo il modello di Platone e Cicerone – preferiscono il confronto dialogico, nel quale sono messe a confronto tesi diverse. L’abbattimento dei confini tra le discipline e il riassetto delle gerarchie culturali L’atteggiamento conoscitivo aperto e curioso proprio dell’Umanesimo porta all’abbattimento delle rigide barriere tra i vari campi della conoscenza, a cominciare dalla tradizionale separazione tra arti liberali e arti meccaniche. Di conseguenza i nuovi “miti” umani, i modelli esaltati dall’Umanesimo, sono personaggi come Leon Battista Alberti, che si mette alla prova nei più diversi campi e in tutti riesce a eccellere (➜ D3 OL, D10 OL), o “nuovi filosofi”, come Marsilio Ficino. Al centro del sapere, nella visione dell’Umanesimo, sta la retorica, considerata necessaria non solo per scrivere lettere e discorsi pubblici (assai diffusi in quel periodo), ma per ogni ambito culturale, compreso quello scientifico. La retorica finisce per assorbire anche la dialettica, che però subisce una trasformazione nell’uso: non più considerata strumento di dispute sterilmente cavillose (come spesso nel mondo universitario medievale), per gli umanisti diventa l’arte dell’argomentare in modo giusto e armonico. Nel sistema conoscitivo della nuova età assume nuova importanza la matematica, impiegata non più solo per esigenze pratiche (come ad esempio nella contabilità commerciale), ma anche come strumento concettuale: come si è detto, la matematica contribuisce alla definizione della prospettiva e alla “matematizzazione” dello spazio e incide radicalmente sul sapere astronomico, consentendo di quantificare i moti dei corpi celesti.

IMMAGINE INTERATTIVA

Il mutamento dell’immagine del filosofo è rappresentato in modo emblematico dal dipinto di Giorgione I tre filosofi (150910, Kunsthistorisches Museum, Vienna). Nel quadro appaiono tre figure: un giovane studioso curioso della natura (con emblemi del sapere: compasso e squadra), un vecchio venerando e un orientale con turbante. I tre personaggi in piena luce, in un atteggiamento riflessivo, incarnano l’armonia della conoscenza rinascimentale. Secondo alcuni alludono alla filosofia antica, a quella araba e

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a quella rinascimentale; secondo altri, simboleggiano le tre età della vita, oppure impersonano un matematico, un astrologo e un astronomo; o, infine per altri ancora sarebbero i tre magi prima della partenza per la Palestina. Qualunque sia il significato simbolico da attribuire alle tre figure, su cui ancora la critica dibatte, è comunque chiaro che il dipinto rimanda a una diversa concezione del filosofare e a una figura di pensatore ormai abissalmente lontana da quella del maestro medievale, intento a commentare dalla sua cattedra il testo di Aristotele.


Nuovi interessi filosofici. Un modo diverso di filosofare L’Umanesimo modifica profondamente l’insegnamento filosofico, soprattutto in rapporto alla lettura filologica dei testi filosofici antichi, in modo tale da mettere in discussione il cosiddetto “principio di autorità” e sviluppare il metodo critico, sottoponendo al vaglio razionale persino i testi religiosi. La nuova impostazione data alla riflessione filosofica e lo spirito laico che caratterizzano l’Umanesimo comportano l’inevitabile declino dell’interesse nella metafisica, mentre emergono in primo piano la riflessione politica (in particolare nel primo Umanesimo) e soprattutto l’etica: cioè saperi fondamentalmente antropocentrici. Inoltre, soprattutto nel XV secolo, la magia, l’astrologia, l’alchimia, i saperi esoterici interagiscono con la filosofia, trasformandone inevitabilmente l’identità. Il nuovo filosofo Il nuovo filosofo è lontanissimo dal magister medievale, rigido custode di un sapere autorevole: versatile “uomo universale”, aperto ai più diversi stimoli culturali, aspira a diventare maestro di vita oltre che di pensiero, secondo il modello di Socrate. Non si rivolge più solo agli addetti ai lavori, ma a un nuovo pubblico di uomini politici, di uomini d’affari e anche di donne colte: proprio per questo le nuove idee sono diffuse in modo spesso informale tramite lettere, su brevi opuscoli, in conferenze o addirittura in conversazioni estemporanee, come era solito fare Marsilio Ficino, il prototipo del nuovo filosofo.

Dal filosofo medievale al filosofo umanistico-rinascimentale Il filosofo medievale

Il filosofo umanista

Si basa su

il principio di autorità

la lettura filologica dei testi

Studia

la metafisica

l’etica (e anche i saperi esoterici)

Incarna

il magister, rigido custode del sapere

il maestro di pensiero e di vita

Si rivolge a

un pubblico ristretto di sapienti

un nuovo pubblico di persone attive nella politica e negli affari (anche donne colte)

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 57


Leonardo Bruni

Il valore educativo della discussione e del confronto

D13

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Dialogo a Pier Paolo Vergerio Riprendendo l’esempio di Socrate e di Platone, l’umanista Leonardo Bruni (13701444) sottolinea l’importanza della discussione come pratica pedagogica e modello conoscitivo ed esorta i giovani a esercitarsi sempre nel dialogo con gli altri. I cenacoli umanistici si fonderanno proprio sulla consuetudine del dialogo informale tra gli intellettuali che, pur non assumendo mai i caratteri di uno scontro ideologico, concorrerà a fondare un nuovo modello di sapere rispetto a quello dogmatico dell’università medievale. L’elogio scritto da Bruni è posto in bocca a un altro celebre umanista, Coluccio Salutati.

AA. VV., Prosatori latini del Quattrocento, a c. di E. Garin, Ricciardi, Milano-Roma 1952

Non posso dire, miei giovani amici, quanto piacere mi faccia incontrarmi e stare con voi, che per le abitudini, per gli studi comuni, per la vostra devozione per me, prediligo di particolare affetto. In un solo punto, ma importantissimo, io tuttavia meno vi approvo: infatti, mentre in tutte le altre cose che riguardano i vostri studi 5 io noto che voi ponete tutta quella cura e quell’attenzione, che si convengono a quanti vogliono esser detti accurati e diligenti, vedo che una cosa invece trascurate senza preoccuparvene abbastanza per il vostro profitto; e questa è l’abitudine e la consuetudine della discussione, di cui non so se vi possa esser qualcosa di più proficuo per i vostri studi. Che cosa può esservi infatti, in nome degli dèi immortali, di 10 più giovevole, per afferrare a pieno sottili verità, della discussione, quando sembra che più occhi osservino da ogni parte l’argomento posto in mezzo, in modo che nulla ne resti che possa sfuggire, o rimaner nascosto, o ingannare lo sguardo di tutti? Che cosa c’è, quando la mente è stanca e abbattuta, e quasi disgustata dalla lunga e assidua occupazione, che meglio la rinfreschi e rinnovi, dei discorsi scambiati in 15 comune, mentre la gloria, se si superano gli altri, o la vergogna, se si è superati, spingono con maggior vigore a studiare e a imparare? Che cosa può esservi di più adatto ad aguzzar l’ingegno, a renderlo abile e sottile, della discussione, quando è necessario in un istante applicarsi alla questione, riflettere, esaminare i termini1, raccogliere2, concludere? Onde3 facilmente si comprende come lo spirito, eccitato da 20 tale esercizio, sia reso più rapido a discernere ogni altro argomento. 1 esaminare i termini: per verificare se sono utilizzati con lo stesso significato da tutti i partecipanti alla discussione.

2 raccogliere: fare una sintesi. 3 Onde: Da ciò.

Concetti chiave Contro il sapere dogmatico

Nel testo viene sottolineato il valore attribuito dagli umanisti alla discussione, in quanto essa si pone in contrasto con un sapere dogmatico, fondato sul principio di autorità, e, al contrario, valorizza la libertà del pensiero. Alla verità, come spiega il passo riportato, si giunge infatti attraverso il confronto tra diverse opinioni. Della discussione viene inoltre evidenziato il valore educativo, in quanto essa aiuta a giungere alla verità attraverso il contributo di diversi punti di vista; rompe la monotonia di uno studio solitario; spinge a studiare e imparare per non essere superati dagli altri; costituisce un esercizio intellettuale completo, in quanto obbliga alla precisione, alla sintesi, e alla consequenzialità del ragionamento e infine sviluppa la capacità di parlare bene.

58 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Secondo l’autore (rr. 13-16), quale fattore è favorito dalla libera discussione? STILE 2. Per sottolineare il valore della discussione di un argomento, l’autore utilizza una metafora riferita alla vista. Quale?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 3. Personalmente quali ritieni siano i maggiori vantaggi della discussione? In che cosa concordi con l’autore del brano?

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

3 Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino Dall’Umanesimo “civile” al neoplatonismo Se il culto di Aristotele domina nella cultura medievale, la tendenza filosofica dominante, in particolare nel primo Rinascimento, è sicuramente il platonismo, che ha enorme diffusione nella seconda metà del Quattrocento in Europa a partire da Firenze. Il “ritorno a Platone” è favorito dalla venuta in Italia dei filosofi bizantini, che soggiornano una prima volta a Firenze, in occasione del Concilio del 1439, per poi ritornare stabilmente in Italia dopo la caduta di Costantinopoli per mano dei Turchi (1453). A Firenze l’università non aveva mai avuto un ruolo di punta. Forse per questa ragione la vita culturale è caratterizzata da maggiore apertura e varietà d’impostazioni: nei primi decenni del movimento umanistico, l’iniziativa culturale ha il suo centro nella Cancelleria della Repubblica e i temi del dibattito culturale riguardano l’etica, la vita civile e politica (si parla al proposito di “Umanesimo civile”). In seguito l’iniziativa passa a intellettuali vicini ai Medici e il modello culturale dominante diventa appunto il neoplatonismo, il cui maggiore rappresentante è Marsilio Ficino.

L’opera di Marsilio Ficino, prototipo del “nuovo filosofo” Marsilio Ficino La figura che meglio rappresenta il nuovo volto della filosofia è Marsilio Ficino (1433-1499), che opera fuori dell’università, nel suo circolo di pochi adepti alla villa di Careggi, donatagli da Lorenzo de’ Medici: un gruppo così esclusivo e coeso al suo interno da apparire quasi una setta (del gruppo facevano parte, oltre allo stesso Lorenzo, anche Pico della Mirandola (➜ D14 ), Cristoforo Landino, Poliziano, Botticelli e altri). L’interesse principale di Ficino è la filosofia platonica, che contribuisce a divulgare; ma i suoi interessi spaziano dalla medicina alla teologia, dall’astrologia alla magia (egli stesso è dedito a pratiche magiche). È anche musicista (suonava la lira) e s’interessa di teoria musicale e di poesia. Gli interessi magici di Ficino e della Firenze di Lorenzo Profondo conoscitore della lingua greca, Ficino riceve da Lorenzo de’ Medici l’incarico di tradurre in latino le opere di Platone. Oltre a Platone e ai testi dei continuatori di Platone (i neoplatonici di età ellenistica) traduce e commenta il Corpus hermeticum: si tratta di scritti esoterici, impregnati di elementi magici, attribuiti nell’Umanesimo al leggendario sapiente egiziano Ermete Trismegisto, che allora si pensavano profetici delle idee platoniche e delle stesse verità cristiane (in realtà gli scritti ermetici risalgono solo o prevalentemente al II-III secolo d.C.). Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 59


online

Per approfondire Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia

Il platonismo e l’interesse esoterico a esso connesso divengono una vera e propria moda influenzando profondamente gli ambienti intellettuali: la magia, l’astrologia, l’esoterismo in genere sono alla base della cultura rinascimentale, in particolare di quella fiorentina, il che spiega il grande successo, nel repertorio iconografico del tempo, della figura dei re Magi e la diffusa presenza di simbolismi e di immagini ermetiche e astrologiche. Ficino si propone di conciliare questo sapere con la religione cristiana: sia la filosofia platonica sia il Verbo cristiano, infatti, per Ficino fanno parte di un progetto divino di salvezza. Da qui il titolo della sua opera principale, a quei tempi alquanto ardito: Theologia platonica (1482), in cui l’intellettuale cerca appunto di dimostrare l’armonizzazione fra cristianesimo e sistema platonico. Il tema dell’amore platonico Centrale nella meditazione di Ficino è l’amore. La riflessione del filosofo su questo tema è esposta nel suo commento a uno dei più famosi dialoghi di Platone, il Simposio, nel quale è già contenuta un’idea del sentimento amoroso come superamento della sensualità, come ricerca che, partendo dalla contemplazione della bellezza delle forme fisiche, accede, attraverso vari gradi di perfezionamento, all’essenza divina. Per Ficino la bellezza terrena, che suscita la pulsione amorosa, è solo un’imperfetta manifestazione rispetto alla Bellezza come Idea, che è possibile contemplare soltanto in Dio. La visione platonizzante dell’amore ispira moltissimi trattati sull’amore (➜ C1, PAG. 113), diventando una vera e propria moda culturale (è stata paragonata alla massiccia divulgazione della psicoanalisi nella pubblicistica di oggi). Parlar d’amore in termini neoplatonici diventa quasi un obbligo per letterati e intellettuali.

Pico della Mirandola

D14

Il posto dell’uomo nell’universo De hominis dignitate

P. della Mirandola, De hominis dignitate, a c. di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942

Questo è un passo famosissimo dell’orazione Sulla dignità dell’uomo, che funge da introduzione alle Conclusiones philosophicae, le novecento tesi che, secondo Pico, giovane e brillante filosofo, rappresentavano una sintesi di tutto il proprio sapere e che egli avrebbe voluto discutere in un convegno di dotti a Roma nel 1486 ispirato proprio alla conciliazione filosofica. Vi si enuncia una visione dell’uomo e della sua missione che di per sé può costituire un “manifesto” del pensiero rinascimentale. Il progetto di Pico fu giudicato eretico dalle autorità ecclesiastiche e alcune delle tesi che avrebbero dovuto essere discusse furono ufficialmente condannate da papa Innocenzo VIII.

Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana1 sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità2. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania3, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi4, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie 5 le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera 1 arcana: segreta e misteriosa, accessibile

3 zona iperurania: nella filosofia platoni-

a pochi. 2 tempio... divinità: tempio nobilissimo della divinità.

ca è il luogo delle idee, superiore al cielo. 4 aveva... globi: (Dio) aveva animato (avvivato) con le menti angeliche le sfere ce-

60 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali

lesti degli astri. Secondo la concezione propria del neoplatonismo e della magia rinascimentale il mondo è suddiviso in tre regioni: terrena, celeste, sovraceleste.


sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo5, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi6 non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno 10 ve n’era da largire in retaggio7 al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medî, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di 15 consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in sé stesso8. Stabilì finalmente l’ottimo artefice9 che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita10 e postolo nel cuore del mondo11 così gli parlò: «non ti ho dato, o 20 Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio12 ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà13 ti consegnai. Ti posi nel mezzo 25 del mondo14 perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto15. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti16; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». 30 O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto quello che avranno, come dice Lucilio17. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli18. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi19 d’ogni specie e germi d’ogni vita. E se35 condo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta20; se sensibili, sarà bruto21; se razionali, diventerà 5 Mosè e Timeo: Timeo, filosofo pitagorico e protagonista del dialogo platonico omonimo di argomento cosmologico, è posto sullo stesso piano di Mosè, ritenuto l’autore della Genesi, il testo biblico sulla creazione. 6 archetipi: secondo la filosofia platonica, modelli ideali di cui le realtà esistenti sarebbero copia. 7 largire... retaggio: offrire in eredità. 8 non sarebbe… stesso: sarebbe stato indegno del potere divino (paterna potestà) non elargire doni (alla lettera, “fallire, dimostrarsi inadeguato”) all’ultima creazione (fattura), l’uomo, come se Dio ne fosse incapace; (indegno) della sua sapienza, rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di un progetto; non sarebbe stato degno del suo amore benefico che l’uomo, destinato ad ammirare la generosità (liberalità) di Dio verso le altre creature, fosse costretto a lamentarne la mancanza nei suoi riguardi. Potenza,

sapienza e amore sono gli attributi tradizionali della divinità. 9 Stabilì... artefice: Alla fine l’ottimo crea­ tore stabilì. 10 di natura indefinita: l’uomo è di natura indefinita perché egli stesso può autodeterminarsi, cioè scegliere a che livello di esistenza vivere, se essere dedito alle realtà materiali o a quelle intellettuali e spirituali: l’uomo, infatti, può essere, secondo Pico, simile a una pianta, a un animale, a un essere ragionante, a un angelo e persino a Dio. 11 postolo... mondo: dopo averlo posto nel centro del mondo. 12 il tuo voto... consiglio: il tuo desiderio e il tuo progetto: l’uomo è affidato al suo libero arbitrio. 13 potestà: potere. 14 nel mezzo del mondo: perché l’uomo ha un’intelligenza che gli permette di afferrare il divino, ma è immerso nella realtà sensibile con il suo corpo.

15 libero... prescelto: nella concezione di Pico l’uomo diviene libero creatore del proprio essere. 16 i bruti: gli esseri privi di razionalità, ossia gli animali irragionevoli, dominati dall’istinto. 17 Lucilio: autore latino di Satire del II sec. a.C. Il senso del passo è che gli animali si comportano secondo istinti già presenti alla nascita. 18 Gli spiriti... secoli: Gli spiriti superiori (gli angeli), dalla creazione o poco dopo (in seguito alla ribellione di Lucifero) furono quello che saranno per l’eternità. 19 semi: potenzialità che potranno o no essere sviluppate. 20 se saranno... pianta: se l’uomo sarà insensibile e incosciente sarà simile a una pianta. 21 se sensibili, sarà bruto: se l’uomo svilupperà soltanto i sensi e gli istinti sarà come un animale irragionevole.

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 61


animale celeste22; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio23. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità24, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine25 del Padre colui che fu posto sopra tutte 40 le cose starà sopra tutte le cose. 22 animale celeste: essere dotato di anima (legato quindi al mondo sensibile) ma nello stesso tempo capace di comprendere l’intelligenza della creazione. 23 sarà... di Dio: capace di elevarsi alla sfera intellettuale delle idee eterne.

24 si raccoglierà... unità: si concentrerà in sé, nel suo essere “un uno”, una unità, rendendosi simile a Dio, che secondo la teologia neoplatonica è Uno. 25 caligine: oscurità. Nella teologia neoplatonica l’essenza dell’essere divino è im-

mersa nell’oscurità: di Dio si può dire solo ciò che non è (teologia negativa), perché le qualità positive limiterebbero l’infinita onnipotenza divina.

Concetti chiave La “dignità dell’uomo” e la sua eccellenza

L’Oratio de hominis dignitate (1486), premessa alle novecento tesi che Pico si proponeva di discutere, a ragione può essere considerata il “manifesto” del tardo Umanesimo, in quanto ne esprime perfettamente la visione cosmologica e antropologica. Secondo Pico della Mirandola, l’uomo è un essere unico ed eccezionale, perché posto al centro dell’universo e dotato di una libertà senza limiti: il suo libero arbitrio non si manifesta infatti soltanto nella scelta tra il bene e il male (come era proprio della concezione medievale), ma anche e soprattutto nella possibilità di autodeterminarsi. Al contrario delle altre creature viventi, condizionate dalla loro essenza immodificabile (come, per esempio, l’istinto negli animali), l’uomo può infatti scegliere liberamente ciò che vuole divenire, bestia o essere razionale, perché ha in sé tutte le possibilità: può avvilirsi a livello animale, se agisce secondo l’istinto, e persino di un vegetale, se è insensibile e privo di coscienza o, al contrario, può sviluppare tutte le sue potenzialità, che sono illimitate, elevandosi fino a una vita razionale e spirituale o addirittura, come si asserisce alla fine del passo, fondersi in un’unione mistica con Dio. È significativo nel passo l’accento, riguardo all’eccellenza dell’uomo, posto sulla contemplazione: la grandezza dell’uomo, voluta dal Creatore, consiste nell’«afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

Interpretare

COMPRENSIONE 1. Quali caratteristiche indicate da Pico della Mirandola renderebbero l’uomo superiore a tutti gli altri esseri? SINTESI 2. Secondo il modello platonico, la concezione di Pico della Mirandola è esposta attraverso un racconto mitico: riassumilo brevemente e spiegane il significato.

Studiare con l’immagine SCRITTURA 3. Un’illustrazione cinquecentesca (1512) della Logica del medievale Raimondo Lullo presenta le varie possibilità dell’essere offerte all’uomo attraverso il simbolo della scala, utilizzato anche da Pico nell’Oratio: l’essere umano, grazie al proprio intelletto, può ascendere, elevandosi dal sasso (lapis) alla pianta, a un animale bruto a un angelo e un dio. Indica i punti in comune con lo scritto di Pico della Mirandola.

62 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


4 Un modo diverso di guardare alla natura L’interesse per la natura Uno dei caratteri principali della nuova cultura è l’interesse per la natura, considerata degna di autonoma osservazione e non più, come nel Medioevo, realtà imperfetta in cui ricercare e interpretare esclusivamente i “segni” del divino. Un nuovo “sguardo”, dunque, che ha dirette conseguenze anche sulla rappresentazione artistica: l’arte quattrocentesca raffigura il corpo umano in modo sempre più plastico e non lo colloca più su uno sfondo schematico e astrattamente simbolico, ma lo inserisce armonicamente entro paesaggi ricchi di dettagli naturalistici. Verso la nascita della scienza moderna Nell’età umanistico-rinascimentale sono gettate le basi su cui si svilupperà la scienza moderna. Innanzitutto il desiderio di dominare la natura – stimolato dalla fiducia umanistica nelle potenzialità dell’uomo – spezza la tradizionale separazione fra teoria e pratica, propria del pensiero medievale: è una svolta decisiva perché possa nascere la scienza moderna. Importantissima per lo sviluppo della scienza inoltre è la valorizzazione della matematica, che consegue alla traduzione e allo studio filologico delle opere di Archimede: in alcuni casi si ricercano nei numeri nascoste qualità misticomagiche, secondo i principi del neoplatonismo e gli interessi esoterici che furono propri del tempo; ma per lo più la matematica è considerata uno strumento necessario per poter descrivere in modo preciso i fenomeni, il codice che consente di leggere adeguatamente nel grande “libro della natura”. Leonardo, fautore dell’esperienza e “uomo universale” Nell’età dell’Umanesimo la figura più rilevante nel campo delle ricerche naturali è sicuramente Leo­nardo da Vinci (1452-1519), ritenuto il precursore del metodo sperimentale che sta alla base della scienza moderna. Nei suoi Pensieri, infatti, sono anticipati princìpi che Galileo avrebbe formulato solo un secolo dopo: già Leonardo infatti polemizza contro «le scienze che principiano e finiscono nella mente», cioè i sistemi astratti di pensiero che avevano caratterizzato la filosofia medievale, e rifiuta sia le superstiziose credenze di alchimisti e maghi, così seguite al suo tempo, sia le astruse elucubrazioni dei teologi. Secondo Leonardo una vera conoscenza dei fenomeni naturali non può prescindere dal riferimento all’esperienza (➜ D15 ) e deve utilizzare la matematica, strumento necessario a formulare con esattezza le leggi che regolano la natura. L’incredibile varietà degli interessi e dei settori nei quali si è espresso il genio di Leonardo (dalla pittura all’architettura, dall’ingegneria idraulica all’anatomia) fanno di lui l’esempio più alto e più celebre di quel modello di uomo “universale” che era esaltato dalla cultura umanistico-rinascimentale. Nell’ambito della meccanica, Leonardo intuisce l’esistenza del principio di inerzia, del principio della composizione delle forze e di quello del piano inclinato, che assume come base per la spiegazione del volo degli uccelli. In un altro campo della fisica scopre il principio dei vasi comunicanti, nel campo dell’idraulica applicata dimostra una competenza straordinaria ai suoi tempi, che mette a disposizione di un grande principe-mecenate: Lodovico il Moro. Come ingegnere Leonardo progetta strutture difensive, come tecnico idea armi, macchine tessili e così via. Tipico del suo genio è il fatto che ogni sua Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 63


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Gallery

PER APPROFONDIRE

Il genio multiforme di Leonardo

intuizione non è mai lasciata allo stato puramente teorico, ma viene sempre tradotta in progetti tecnici, illustrati attraverso disegni estremamente precisi e dettagliati. Ma il genio di Leonardo si applica con straordinari risultati anche all’astronomia e soprattutto all’anatomia: riesce a descrivere con esattezza la circolazione del sangue, la fisiologia dell’occhio e altri processi. Occorre precisare che gli studi anatomici di Leonardo sono soprattutto finalizzati al miglioramento delle sue capacità nel rappresentare, in qualità di artista, il corpo umano: in Leonardo è dunque impossibile separare non solo il tecnico dallo scienziato, ma anche lo scienziato dall’artista.

Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna Dalla fine del Quattrocento fino a tutto il Cinquecento si verifica un grande rinnovamento degli studi medici. Vengono letti in modo critico, attraverso i sussidi filologici, i testi fondamentali della medicina antica. Anche in questo ambito, come in altri campi del sapere, il progresso delle conoscenze è favorito dalla stampa: nel 1526 viene stampata a Venezia l’opera completa di Ippocrate, la cui conoscenza diretta si diffonde tra i dotti del tempo. Progressivamente, però, ci si allontana dall’autorità dei greci Ippocrate e Galeno e si inizia a osservare direttamente il corpo umano, utilizzando la dissezione anatomica come fondamentale strumento conoscitivo. Fino alla fine del Quattrocento circa, antiche norme vieta-

vano di usare i cadaveri per studiare il corpo umano. Nei primi decenni del XVI secolo è Andrea Vesalio (Andreas van Wesel, 1514-1564), fiammingo, professore di chirurgia a Padova e autore del trattato De corporis humani fabrica (La fabbrica del corpo umano, 1543), a inaugurare la moderna medicina sperimentale: attraverso la pratica della dissezione dei cadaveri, egli dimostra che l’anatomia di Galeno è in molti punti errata. Sovvertendo i metodi tradizionali dell’insegnamento universitario, Vesalio pratica personalmente la dissezione e ne trae osservazioni dirette, eliminando la figura del tecnico incaricato di operare la dissezione, che fungeva da intermediario tra maestro e allievi.

Leonardo da Vinci

D15

Le scienze che non si riferiscono all’esperienza sono vane ed erronee Trattato della pittura

L. da Vinci, Scritti letterari, UTET, Torino 1973

In questo breve passo, il grande scienziato fa asserzioni che anticipano il metodo moderno della ricerca scientifica. In particolare, contro una visione astratta e puramente teorica della scienza, egli sostiene la necessità di un costante riferimento all’esperienza.

Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall’esperienza1, e quella esser scientifica che nasce e finisce nella mente2, e quella essere semimeccanica che nasce dalla scienza e finisce nella operazione manuale3. Ma a me pare che quelle scienze siano vane e piene di errori le quali non sono nate dall’esperienza,

1 Dicono... dall’esperienza: Si dice che è

2 e quella... mente: e che è scientifica

3 e quella... manuale: e che è semimec-

tecnica (meccanica) quella conoscenza (cognizione) derivata (partorita) dall’esperienza.

quella (conoscenza) che è puramente teo­ rica, astratta, mentale.

canica quella (conoscenza) che, nata dal pensiero scientifico, viene applicata in un’operazione tecnica.

64 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


madre d’ogni certezza, e che non terminino in nota esperienza, cioè che la loro origine o mezzo o fine non passa per nessuno de’ cinque sensi. E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo dubitare delle cose ribelli ad essi sensi4, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili5, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre 10 ove manca la ragione suppliscono le grida6, la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo che ove si grida7 non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto8, e s’esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza e non certezza rinata. 5

4 ribelli ad essi sensi: non percepibili dai sensi. 5 dell’essenza... simili: Leonardo indica alcune questioni metafisiche, sottratte all’esperienza dei sensi. Il suo scopo è soprattutto distinguere la scienza dalla metafisica, anche se l’affermazione rivela

un certo distacco dai problemi teologici. 6 ove manca... grida: dove manca una dimostrazione certa (quella dell’esperienza dei sensi), provvedono le grida (cioè si cerca di prevalere gridando più forte per affermare le proprie idee).

7 ove si grida: dove si discute animatamente (per far prevalere la propria tesi).

8 la verità... distrutto: la verità (scientifica) ha un solo risultato certo che, quando è reso noto, vanifica per sempre ogni motivo di contesa.

Concetti chiave Leonardo, moderno “filosofo della scienza”

Il tema del brano è lo studio del mondo naturale, che nell’interpretazione di Leonardo assume già i caratteri della scienza moderna. Nel breve passo proposto, Leonardo non soltanto anticipa il metodo di Galileo, teorizzando la necessità di uno stretto collegamento tra la scienza, l’esperienza sensibile e la tecnica, ma con le sue riflessioni metodologiche precorre uno dei temi fondamentali della filosofia novecentesca, la distinzione tra problemi scientifici (che possono essere risolti grazie alla verifica dell’esperienza) e problemi non scientifici, da assegnare al campo della metafisica, perché non esiste un criterio per decidere sulla verità delle affermazioni proposte. Il pensiero del Novecento – da Wittgenstein a Popper – procederà nel solco della distinzione tracciata da Leonardo, che si rivela anche in questo caso geniale innovatore e pensatore originale: le filosofie rinascimentali tendevano invece a unificare la realtà sensibile e la realtà spirituale (si pensi, ad esempio, alla filosofia ficiniana e anche all’arte della magia, non a caso avversata da Leonardo). Il ricorso all’esperienza, secondo il geniale intellettuale, è la condizione necessaria perché un sapere possa essere definito “scienza”. Proprio perché non possono fondarsi sull’evidenza sensibile, invece, le questioni metafisiche non potranno mai trovare una risposta univoca. Sono osservazioni tutt’altro che scontate in quel tempo. Un’altra affermazione importante e molto attuale è il fatto che dove c’è una verità certa non c’è bisogno di discutere animatamente per far prevalere il proprio punto di vista.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale principio cardine del proprio pensiero scientifico afferma qui Leonardo? Il primato di cosa si sottolinea? 2. Contro quale idea della scienza polemizza Leonardo? Che cosa, secondo lui, può essere veramente considerato “scientifico”?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Quali considerazioni presenti nel testo ritieni possano considerarsi ancora attuali? TESTI A CONFRONTO 4. Alla luce del brano proposto, prova a commentare la seguente celebre frase pronunciata dal grande scienziato Galilei più di un secolo dopo: «Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie».

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Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 1 La letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento Il trattato Nell’età umanistico-rinascimentale emerge nel panorama dei generi il trattato, che gli umanisti utilizzano per definire e diffondere la nuova visione della vita e i temi fondamentali del dibattito ideologico. Nel periodo umanistico i temi principali sono: • la dignità dell’uomo e il suo posto privilegiato nell’universo in rapporto alla visione antropocentrica; • il ruolo e i caratteri dell’educazione secondo i princìpi umanistici; • il tema politico ovvero il rapporto fra tirannide e libertà in un primo tempo e in seguito la figura e la funzione del principe. Un tema poi ripreso in una prospettiva radicalmente innovativa nel Principe di Machiavelli. Il primo Cinquecento vede invece affermarsi nuove tematiche; • i modelli di comportamento cui deve ispirarsi il cortigiano nelle varie occasioni della vita di corte (Il Cortegiano di Castiglione e il Galateo di Della Casa); • il tema dell’amore secondo la prevalente visione filosofica del neoplatonismo (Gli Asolani di Bembo); • la questione di quale lingua usare in ambito letterario (Le prose della volgar lingua di Bembo). Al tempo i trattati prevedono il dialogo tra più personaggi, non immaginari ma reali protagonisti della cultura del momento, ognuno dei quali assume una determinata posizione riguardo al tema, senza che ne prevalga una in particolare. Una scelta derivante sia dall’imitazione dei classici (da Platone a Cicerone), sia da una visione culturale eclettica e antidogmatica, che valorizza lo scambio di idee come strumento di civiltà. Il teatro Tra Quattro e Cinquecento il teatro si fa espressione della dominante visione laica e della civiltà della corte: gli spettacoli si svolgono dentro questo ambiente e si rivolgono al pubblico ristretto dei cortigiani. Due sono le direzioni. • Il teatro classicistico, nel quale gli umanisti riscoprono i grandi autori del teatro comico latino (Plauto e Terenzio) e si sviluppa una ricca produzione teatrale, soprattutto comica, incentrata sull’imitazione dei modelli antichi per quanto riguarda le situazioni, i personaggi, i meccanismi stessi della comicità. I testi di maggiore interesse e successo al tempo sono la Calandria del Bibbiena, basata sugli scambi di persona e sugli equivoci, espedienti cari al teatro classico latino; poi l’anonima Veniexiana, che ritrae con spregiudicato realismo le passioni amorose di due donne; infine La mandragola di Machiavelli, capolavoro del teatro rinascimentale. • Il teatro anticlassicistico, risultato del rifiuto, da parte di alcuni autori, dei modelli imperanti del classicismo, anche sul piano linguistico. Ne sono esempio La

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Cortigiana di Pietro Aretino, ferocemente polemica verso la società di corte e le commedie in dialetto pavano (padovano) di Ruzante, che rappresentano in modo realistico un mondo contadino subalterno. Il genere idillico-pastorale Nell’età umanistico-rinascimentale ha grande successo una tipologia letteraria ancora una volta riconducibile all’imitazione dei classici (modello principale sono le Egloghe del poeta latino Virgilio). Fa da sfondo alle varie opere un mondo campestre stilizzato, o spazi comunque alternativi al mondo rea­ le, in cui regna una dimensione “idillica” fuori dal tempo. Comune è l’impiego di raffinati riferimenti alla mitologia classica, graditi al gusto erudito degli umanisti. La letteratura idillico-pastorale è articolata in una variegata produzione: • poemetti idillico-mitologici come le Stanze di Poliziano, uno dei più importanti umanisti; • romanzi come l’Arcadia di Sannazaro; • drammi a sfondo pastorale, il cui primo esempio è la Favola di Orfeo di Poliziano. Il poema cavalleresco Tra Quattrocento e Cinquecento, nell’ambiente di corte, si sviluppa un genere che avrà grande fortuna e che produrrà alcune delle più grandi opere della letteratura italiana. Il poema cavalleresco riprende una materia antica, trasmessa a lungo in forma orale dai canterini e fonde i materiali dell’antica epica carolingia (da cui la figura di Orlando) con quelli della “materia bretone” (dominata dall’avventura, dalla magia, dagli amori). Questi materiali eterogenei sono rielaborati ed elevati a dignità artistica nel poema cavalleresco, per rispondere al gusto raffinato della corte, specie di quella estense a Ferrara, dove sono prodotti dei capolavori del genere: • L’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (seconda metà del Quattrocento) aderisce nostalgicamente ai miti cavallereschi riproponendone il valore al pubblico del tempo. • L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (prima metà del Cinquecento) utilizza in modo scaltrito e consapevole la materia cavalleresca come “codice” noto al pubblico ferrarese entro cui dare spazio a una moderna, ironica visione del mondo.

Thomas Cole, Stato Arcadico o Pastorale, olio su tela, 1834.

Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 3 67


La lirica petrarchista Anche nella lirica dominano un’ottica classicistica e il principio di imitazione: in questo caso di Petrarca. Pietro Bembo, uno dei più importanti intellettuali del tempo, nelle Prose della volgar lingua (1525) lo consacra come modello linguistico per la poesia italiana e cura nel 1530 l’edizione a stampa delle Rime. Da questa data in poi Petrarca diventa il modello indiscusso della lirica, da tutti emulato (il “petrarchismo” coinvolge anche numerose poetesse). La sua imitazione diventa una vera e propria “moda”, creando un codice comune tra i poeti. La novella cinquecentesca Nel Rinascimento il gusto edonistico della corte riporta in auge il tipico genere narrativo di intrattenimento, la novella. Nelle raccolte del Cinquecento si ripropone il rapporto con l’illustre modello del Decameron, che ogni scrittore risolve in modo personale, a cominciare dalla presenza o no della “cornice”. La maggior raccolta è quella di Bandello (I quattro libri delle novelle) che ha grande fortuna anche in Europa: lo stesso Shakespeare ne ricava alcuni soggetti per le sue opere teatrali. Bandello premette a ogni novella una lettera dedicatoria ai signori del tempo, che è un interessante documento di costume. Biografie e autobiografie di artisti La valorizzazione della “virtù” dell’individuo propria della cultura umanistico-rinascimentale spiega l’emergere nel panorama del genere delle biografie, in particolare di quelle relative agli artisti:

Giorgio Vasari, San Luca dipinge la Vergine, affresco, ca. 1565 (Basilica della Santissima Annunziata, Firenze).

• le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani di Giorgio Vasari (1550; 1567) offrono memorabili ritratti, in più di 200 biografie, dei grandi artisti italiani dal Duecento al Rinascimento, considerato il culmine di un processo evolutivo verso l’eccellenza, rappresentata, secondo Vasari, da Michelangelo; • per quanto riguarda l’autobiografia, il riferimento d’obbligo è alla Vita di Cellini, ammirata specie in età romantica. Geniale e versatile artista, interpreta l’autobiografia come orgogliosa celebrazione del proprio talento e del forte temperamento.

Modelli del sapere e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Fissare i concetti Cinquecento 1. Che cosa si intende con l’espressione studia humanitatis? 2. Quale metodo educativo si adotta nelle scuole umanistiche? 3. Quali sono gli aspetti positivi e negativi della pedagogia umanistica? 4. Quale è il modello conoscitivo in uso nell’Umanesimo? 5. Come mai il genere letterario del dialogo è molto praticato dagli umanisti? 6. In che modo viene modificato l’insegnamento filosofico? 7. Quali sono gli interessi del filosofo Marsilio Ficino? 8. Come è visto l’amore nella riflessione di Ficino? 9. In che modo viene studiata la natura in questo periodo? 10. Perché Leonardo da Vinci è ritenuto il precursore del metodo sperimentale?

68 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali


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L’evoluzione della lingua 1 Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare La ripresa umanistica del latino La storia della lingua letteraria in Italia tra Quattrocento e Cinquecento si può dividere in due fasi: nella prima (dall’inizio del secolo al 1480 circa) domina l’uso del latino; nella seconda (dal 1480 alla metà del Cinquecento) si assiste a un nuovo affermarsi del volgare. A conclusione di questo processo, il volgare toscano s’imporrà come lingua nazionale della cultura. Perché gli umanisti ritornano a usare il latino? Per quasi tutto il Quattrocento il latino riconquista una posizione preminente di lingua della cultura, dato che gli umanisti lo utilizzano per quasi tutti i generi letterari (compresa la poesia) e le varie occasioni di comunicazione formale: anche le lettere che si scambiano sono scritte quasi sempre in latino. Come si spiega questo fenomeno? Gli umanisti considerano la lingua latina un modello perfetto, da riprendere e imitare se si vuole riportare in vita (come essi si propongono appunto di fare) i valori civili, morali, intellettuali della cultura classica. Nella prefazione ai suoi Elegantiarum Linguae Latinae libri sex (Sei libri delle eleganze della lingua latina) il grande umanista Lorenzo Valla celebra entusiasticamente la funzione civilizzatrice che fu esercitata dal latino, che va perciò riscoperto e riutilizzato (➜ D16 OL). Bisogna però precisare che il latino umanistico è lontano da quello medievale, contaminato con il volgare. Richiamandosi alla lezione di Petrarca, che già aveva rifiutato nelle sue opere il latino medievale, gli umanisti si sforzano di riportare in vita, attraverso gli strumenti della filologia, la lingua aurea usata dai grandi scrittori del mondo classico.

PER APPROFONDIRE

La ripresa del volgare e il declino del latino Nello stesso tempo, però, già nel corso del Quattrocento, il volgare si va riproponendo come lingua della cultura. È un recupero inevitabile: infatti, il latino umanistico, modellato rigidamente sul latino classico, di per sé era destinato a essere una lingua morta, tagliata fuori dai reali processi comunicativi. Verso il 1480, con le opere di Poliziano, Boiardo, Sannazaro, il volgare arriva a imporsi nuovamente in quasi tutti i generi letterari. Il latino non scompare, tuttavia, ma il suo declino come lingua della letteratura è ormai segnato e sarà irreversibile.

Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare Dante aveva difeso con grande convinzione la dignità del volgare nel De vulgari eloquentia e aveva usato la lingua volgare, compiendo una scelta decisamente innovativa, addirittura per un trattato filosofico enciclopedico (il Convivio), un tipo di testo per cui era rigorosamente prescritto l’uso del latino. In volgare Dante compone inoltre la Vita nuova e soprattutto la Commedia, riservando l’uso del latino soltanto per la comunicazione fra “dotti” (De vulgari eloquentia e Monarchia). Nella Commedia, inoltre, Dante aveva compiuto una scelta linguistica e stilistica ispirata al pluristilismo (dal comico al tragico) e al plurilinguismo, con punte di marcata iperespressività.

Al contrario, con Petrarca il latino ritorna a essere la lingua principale e più nobile: Petrarca sceglie di utilizzare il latino in ogni suo testo in prosa, limitando l’uso del volgare al Canzoniere e ai Trionfi. D’altra parte il volgare impiegato da Petrarca, in particolare nel Canzoniere, è espressione di un rigoroso monostilismo, è una lingua selettiva che rifiuta (in netta antitesi con la Commedia) ogni espressività e ogni contaminazione con lo stile basso. Saranno le scelte di Petrarca, sicuramente più consone che non quelle di Dante alla visione estetica dell’Umanesimo, a influenzare la cultura umanistico-rinascimentale.

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2 La “questione della lingua” nel Cinquecento Un dibattito di grande importanza storico-sociale Nella prima metà del Cinquecento, una volta che il volgare s’impone definitivamente come strumento letterario, si apre un importante dibattito, noto come “questione della lingua”, che si interroga su quale idioma comune debba essere usato come lingua della comunicazione scritta. Tutti gli uomini di cultura, a prescindere dalla specifica posizione che assumono nel dibattito, avvertono la stessa esigenza: normalizzare la lingua scritta e predisporre un codice comune tra i letterati del paese cui poter affidare la trasmissione dei contenuti culturali. La diffusione della stampa rendeva infatti sempre più urgente l’istituzione di un modello linguistico unitario, perché le diversità fonetiche dei dialetti determinavano quelle diversità nell’uso grafico tra le diverse regioni e aree, accettabili nella circolazione della tradizione manoscritta ma non certo nelle edizioni a stampa.

Le diverse posizioni sul problema della lingua

Tiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Bembo, olio su tela 1539 (National Gallery of Art, Washington).

Sono queste le tre tesi linguistiche che si fronteggiano. • La tesi cortigiana: la lingua italiana deve essere quella che si parla nelle corti Un primo gruppo di intellettuali, tra i quali figura anche Baldesar Castiglione, l’autore del Cortegiano, uno dei più importanti trattati del tempo, sostiene la tesi della lingua cortigiana: il modello di una lingua comune a tutti gli intellettuali poteva essere ritrovato nella lingua parlata nelle corti e in particolare nella corte romana, alla quale afferivano persone colte e politici provenienti da tutti gli stati italiani. La lingua comune immaginata dai sostenitori della tesi cortigiana avrebbe dovuto dunque derivare dalla fusione dei diversi volgari regionali nelle loro forme più elevate (e cioè parlate dagli intellettuali e dal ceto superiore). • La tesi del fiorentino vivo: la lingua italiana deve essere quella che si parla a Firenze Alla tesi di una lingua italiana strettamente legata agli ambienti di corte si oppongono con vivacità polemica alcuni scrittori fiorentini o toscani (il più celebre è Machiavelli), che rivendicano a Firenze o comunque alla Toscana la superiorità in campo linguistico. La lingua nazionale deve essere il fiorentino (o più in generale il toscano), che si è imposto soprattutto grazie ai grandi scrittori trecenteschi e che è ormai considerato modello dagli autori di tutta Italia. Non si deve però passivamente adeguare al modello linguistico dei grandi scrittori toscani: parlanti e scriventi devono attenersi al modello del fiorentino in uso nella realtà contemporanea. • La tesi di Bembo: la lingua italiana deve essere quella degli autori trecenteschi Pietro Bembo (1470-1547), uno degli intellettuali più importanti della cultura rinascimentale, interviene autorevolmente nel dibattito, assumendo una prospettiva completamente diversa rispetto agli altri contendenti: infatti egli non si pone il problema di una lingua di comunicazione, bensì considera esclusivamente la dimensione letteraria. La lingua per scrivere deve

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essere sottratta alle variazioni che l’uso comporta inevitabilmente, deve essere una lingua d’arte, in un certo senso una lingua “artificiale”. Essa dovrà ispirarsi agli autorevoli modelli della tradizione più illustre, ovvero ai grandi trecentisti (Petrarca e Boccaccio in particolare, rispettivamente per la poesia e per la prosa). Perché prevale la proposta del Bembo La proposta del Bembo, consacrata dalle Prose della volgar lingua (1525), avrà grande successo e risulterà vincente. Le ragioni sono molteplici, e innanzitutto di tipo storico: • la crisi delle corti e del sistema politico di equilibrio tra stati regionali, dovuta all’occupazione di territori italiani da parte di potenze straniere, rendeva di difficile attuazione la tesi cortigiana, che avrebbe comportato intensi scambi tra le corti; • il fiorentino parlato sarebbe prevalso se Firenze fosse riuscita a costituire un forte stato nell’Italia centrale, capace di aggregarne altri e di fare da baluardo contro le invasioni straniere, come auspicava Machiavelli: ma il corso storico non andò in questa direzione. La proposta bembiana appare dunque l’opzione più razionale per assicurare alla cultura italiana una lingua comune. Uniformarsi a un modello già fissato, come quello dei testi autorevoli di Petrarca e Boccaccio, rappresenta la soluzione più rapida ed efficace del problema, anche in rapporto alle nuove esigenze di uniformità create dalla stampa (non è un caso che Bembo, veneziano, collabori fattivamente con Aldo Manuzio, il più famoso editore di Venezia, che è a sua volta il maggior centro della stampa italiana in questi anni). Anche in ambito più strettamente grammaticale, vedono la luce in questo periodo le prime grammatiche normative e i primi repertori lessicali, cioè i futuri vocabolari. Inoltre la tesi di Bembo è pienamente rispondente al gusto classicistico del tempo e al principio di imitazione seguito dagli scrittori del Cinquecento.

PER APPROFONDIRE

La toscanizzazione della lingua scritta Già nella prima metà del Cinquecento il fiorentino modellato sulla lingua dei trecentisti tende ad affermarsi come lingua nazionale della cultura, imponendosi sugli altri dialetti regionali. Questi ultimi in ambito letterario saranno progressivamente marginalizzati o comunque associati a forme letterarie considerate di fatto “minori” nel sistema dei generi. È significativa la vicenda editoriale di un’opera importante come l’Orlando innamorato del Boiardo, nella seconda metà del Quattrocento (➜ C4): scritto in una lingua con forti

Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore La motivazione principale che fa di Aldo Manuzio (1449-1515) il più importante stampatore italiano è la passione di educatore e di umanista: Manuzio aveva insegnato latino e greco a personaggi come Pico della Mirandola e avverte il pressante bisogno di edizioni curate e insieme maneggevoli di classici greci e latini, un bisogno che la stampa può soddisfare. Nel 1494 avvia a Venezia il suo ambizioso progetto editoriale, decidendo di mettere a frutto l’invenzione di Gutenberg: produce così pregevoli edizioni di classici greci (Sofocle, Platone, Aristotele) e latini (Virgilio, Orazio, Ovidio). In casa di Manuzio o nella sua stamperia cominciano ad affluire dotti e umanisti da tutta Europa, fra cui anche Erasmo da Rotterdam, che discutono sui libri da stampare e dei manoscritti più affidabili da utilizzare perché l’edizione sia il più possibile corretta. Dopo il successo delle prime edizioni Manuzio ha la geniale

intuizione di pubblicare una collana di libri “tascabili” (di 20-28 cm di altezza) per offrire ai lettori supporti maneggevoli. Inoltre, proprio per risparmiare spazio, Manuzio impiega il corsivo, un nuovo carattere molto gradevole e leggibile, creato dall’incisore bolognese Francesco Griffo. Le edizioni aldine non sono lussuosamente decorate, ma in compenso si segnalano per eleganza e pulizia grafica, per il testo chiaro, per la cura da un punto di vista filologico. Il libro non è più uno status symbol, ma un bene intellettuale individuale, da consultarsi con tutto agio date le sue dimensioni relativamente ridotte. L’iniziativa di Manuzio ha enorme successo e viene imitata in tutta Europa. Tra le edizioni aldine, la più celebre è quella del Canzoniere di Petrarca del 1501, curata da Pietro Bembo, che segna l’inizio della fortuna non solo italiana ma europea della lirica petrarchesca.

L’evoluzione della lingua 4 71


influssi locali (il dialetto ferrarese), il poema venne presto dimenticato, perché non corrispondeva ai canoni linguistici dominanti nel primo Cinquecento. Al contrario Ariosto, dopo l’affermarsi della tesi bembiana con le Prose della volgar lingua (1525), sottopone a una revisione linguistica l’Orlando furioso, conferendo al poema, nell’edizione definitiva (1532), una veste linguistica toscana: una scelta che risulterà determinante per il successo del suo capolavoro in una Italia letteraria sempre più “toscanizzata”. Pietro Bembo e Prose della volgar lingua Pietro Bembo nasce nel 1470 a Venezia in una nobile e importante famiglia: il padre è uno dei senatori più autorevoli della Repubblica veneziana e, ancora ragazzo, Bembo lo segue in varie missioni diplomatiche presso varie corti italiane (tra cui Firenze). Già in possesso di una vasta cultura umanistica, a poco più di vent’anni si reca a Messina per apprendere il greco dal filologo bizantino Costantino Lascaris. Rientrato a Venezia, nel 1501 pubblica per le edizioni di Aldo Manuzio un’edizione filologica del Canzoniere e nel 1505 gli Asolani. Lasciata Venezia, prende gli ordini minori (allora significava, per gli intellettuali, intraprendere una carriera, che nel caso del Bembo, sarà prestigiosa). Nel 1513 diventa segretario personale di Leone X. Nel 1525, dopo una lunga elaborazione, pubblica le Prose della volgar lingua, un trattato in tre libri che riscuote grande successo in tutta Italia. Del 1530 è la prima edizione delle Rime. Nel 1539 diventa cardinale. Muore a Roma nel 1547. Prose della volgar lingua Le Prose della volgar lingua (1525) sono un trattato dialogico in tre libri composto tra il 1512 e il 1524. L’autore immagina che il dialogo sia avvenuto a Venezia nella casa dei Bembo stesso nel 1502, quindi molti anni prima dell’effettiva stesura del trattato. Gli interlocutori sono Carlo Bembo, fratello dell’autore, che assume nel dialogo il ruolo di suo portavoce; Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico; Federico Fregoso, uno dei personaggi del Cortegiano e l’umanista ferrarese Ercole Strozzi. Nel primo libro è affrontato il problema se si debba scrivere in latino o in volgare. Essendo la maggioranza degli interlocutori concordi nella scelta del volgare, la discussione si sposta su quale volgare debba essere utilizzato. Portavoce dell’autore è Carlo Bembo, che sostiene la necessità che la lingua letteraria si discosti da quella parlata, non segua l’uso e si ispiri invece ai grandi modelli del passato, alla lingua di Petrarca e Boccaccio (➜ D17 ). Sulla lingua di Dante invece sono espresse notevoli riserve per il suo carattere composito e perché accoglie elementi “bassi” e forme della lingua popolare. Nel secondo libro sono definite le prerogative che la lingua letteraria dovrebbe avere, quali ad esempio la piacevolezza e la gravità. Nel terzo libro è analiticamente definita, sotto il profilo delle strutture morfologiche, sintattiche e del lessico la lingua-modello, secondo esempi tratti appunto da Petrarca (per la poesia) e da Boccaccio (per la prosa). Questo libro si può quindi considerare una sorta di “grammatica” della lingua italiana. Una specificità tutta italiana: la frattura tra lingua scritta e lingua parlata L’affermarsi della tesi linguistica del Bembo provoca conseguenze che incideranno per secoli sulla storia della cultura e della lingua italiane. Il volgare che si afferma, esemplato su Petrarca e Boccaccio, corrisponde a un modello linguistico selettivo ed elitario. Si tratta della lingua della letteratura e delle occasioni formali, distinta dagli usi del parlato delle stesse élites intellettuali e ovviamente ancor più degli strati sociali medi e popolari. Nella lingua parlata, infatti, a

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causa della frammentazione politica, non si attiva alcun processo di unificazione. Mentre in altri paesi europei la situazione politica favorisce il consolidarsi di una lingua comune anche per gli usi colti, la situazione italiana rimarrà caratterizzata fino al secondo Ottocento dall’esistenza di diversi dialetti, nei quali la gente comune continua a parlare e che gli stessi intellettuali usano nelle occasioni della vita quotidiana. Per scrivere, invece, nel Cinquecento si utilizza come si è detto una lingua scelta e in un certo senso “artificiale”, che lentamente va uniformandosi. Contro una online lingua forzatamente “fiorentina” e insieme lontana dalla realtà D16 Lorenzo Valla si scaglia uno dei polemisti del tempo, Pietro Aretino, la cui Il latino è la lingua della civiltà Elegantiae linguae latinae produzione si iscrive nell’ambito dell’anticlassicismo.

La questione della lingua nel Cinquecento Tesi cortigiana

Baldesar Castiglione

la lingua italiana deve essere quella parlata nelle corti e deve nascere dalla fusione di diversi volgari (nelle forme più elevate)

Tesi del fiorentino vivo

Niccolò Machiavelli

la lingua italiana deve essere il fiorentino, non quello del passato ma quello realmente parlato

Tesi del fiorentino letterario

Pietro Bembo

la lingua italiana deve essere quella dei modelli autorevoli: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa

Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. 2. 3. 4.

Quali sono le due fasi in cui si può dividere la storia della lingua in Italia tra ’400 e ’500? Perché gli umanisti scelgono di usare il latino per le loro opere? Quali sono e da chi sono sostenute le tre tesi linguistiche? Per quali ragioni la proposta di Bembo ha il sopravvento sulle altre?

Pietro Bembo

D17

Chi scrive deve imitare i grandi modelli Prose della volgar lingua I, 18 passim

P. Bembo, Prose della volgar lingua, a c. di C. Dionisotti, Utet, Torino 1960

Nel passo proposto Carlo Bembo, fratello e portavoce delle tesi dell’autore nel dialogo, teorizza apertamente la frattura tra la lingua del popolo e la lingua degli intellettuali, che deve distinguersi per eleganza e bellezza. Peraltro, secondo Bembo, lo scrittore deve rivolgersi più ai posteri che alla contemporaneità, perché dai posteri deriva la fama che un autore si acquista. E i posteri non guardano certo al labile giudizio della moltitudine ma ai grandi uomini, capaci di segnare un’epoca con la loro autorevole presenza. L’evoluzione della lingua 4 73


La lingua delle scritture, Giuliano1, non dee2 a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza; che altramente ella discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato3. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura4 di 5 piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono5, come voi dite, ma a quelle ancora, e per aventura molto più, che sono a vivere dopo loro6: con ciò sia cosa che7 ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo8. E perciò che non si può per noi9 compiutamente sapere quale abbia ad essere l’usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che appresso il nostro 10 verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno, è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che elle piacer possano in ciascuna età, e ad ogni secolo, ad ogni stagione esser care; sì come diedero nella latina lingua a’ loro componimenti Virgilio, Cicerone e degli altri, e nella greca Omero, Demostene e di molt’altri ai loro; i quali tutti, non mica secondo il 15 parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che parea loro che bene lor mettesse a poter piacere più lungamente10. Credete voi che se il Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de’ suoi popolani, che elle così vaghe11, così belle fossero come sono, così care, così gentili? Male credete, se ciò credete. Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ragionò; quantunque 20 alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso12. [...] Non è la moltitudine, Giuliano, quella che alle composizioni d’alcun secolo dona grido13 e auttorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de’ quali, perciò che sono essi più dotti degli altri riputati, dànno poi le genti e la moltitudine fede, che per sé sola giudicare non sa dirittamente, e a quella parte si piega con le sue voci, a 25 cui ella que’ pochi uomini, che io dico, sente piegare14. E i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitudine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a’ dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive bene15; ché del popolo non fanno caso. È adunque da scriver bene più che si può, perciò che le buone scritture, prima a’ dotti e poi al 30 popolo del loro secolo piacendo, piacciono altresì e a’ dotti e al popolo degli altri secoli parimente16. Ora mi potreste dire: cotesto tuo scriver bene onde si ritra’ egli, e da cui si cerca?17 Hass’egli sempre ad imprendere18 dagli scrittori antichi e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano, ma sì bene19 ogni volta che migliore e più lodato è il parlare20 nelle 35 scritture de’ passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture de’ vivi. 1 Giuliano: è Giuliano de’ Medici. 2 dee: deve. 3 che… stato: perché in caso contrario essa se ne deve discostare e allontanare quanto è necessario per mantenere una forma armoniosa ed elegante. 4 por cura: preoccuparsi. 5 alle genti… scrivono: ai contemporanei. 6 ma… loro: ma anche a quelli, molto più numerosi, destinati a vivere dopo di loro. 7 con ciò sia cosa che: poiché. 8 la eternità… tempo: preferisce per le sue opere l’eternità a un tempo breve. 9 perciò… per noi: poiché da parte nostra.

10 secondo… lungamente: come sembrava che tornasse utile loro per essere apprezzati più a lungo. 11 vaghe: attraenti. 12 quantunque… verso: sebbene il linguaggio popolare sia molto meno sconveniente nella prosa che nella poesia. 13 grido: fama. 14 per sé… piegare: (la moltitudine) da sola non sa giudicare correttamente e con le sue lodi si indirizza nella direzione in cui vede rivolgersi quei pochi uomini raffinati di cui parlo. 15 giudica… bene: giudica che ciascuno

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debba piacere ai dotti di tutti i secoli futuri nella misura in cui scrive bene. 16 È… parimente: Si deve dunque scrivere il meglio possibile, perché gli scritti perfetti, mentre all’inizio piacciono dapprima ai dotti e poi al popolo del loro tempo, vengono poi ugualmente apprezzati dai dotti e dal popolo degli altri secoli. 17 onde… si cerca?: da dove lo si può trarre (ritra’), da chi lo si può imparare (da cui si cerca)? 18 Hass’egli… imprendere: Deve essere sempre imparato (lo scriver). 19 sì bene: in realtà. 20 il parlare: lo stile della scrittura.


Non dovea Cicerone o Virgilio, lasciando21 il parlare della loro età, ragionare22 con quello d’Ennio23 o di quegli altri, che furono più antichi ancora di lui, perciò che essi avrebbono oro purissimo, che delle preziose vene del loro fertile e fiorito secolo si traeva, col piombo della rozza età di coloro cangiato24; sì come diceste che non 40 doveano il Petrarca e il Boccaccio col parlare di Dante, e molto meno con quello di Guido Guinicelli25 e di Farinata26 e dei nati a quegli anni ragionare. Ma quante volte aviene che la maniera27 della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo. Perché molto meglio e più lodevolmente 45 avrebbono e prosato e verseggiato28, e Seneca e Tranquillo e Lucano e Claudiano e tutti quegli scrittori, che dopo ’l secolo di Giulio Cesare e d’Augusto e dopo quella monda e felice età stati sono infino a noi, se essi nella guisa di que’ loro antichi, di Virgilio dico e di Cicerone, scritto avessero, che non hanno fatto scrivendo nella loro29; e molto meglio faremo noi altresì, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca 50 ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro30, perciò che senza fallo alcuno31 molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi. 21 lasciando: ignorando. 22 ragionare: scrivere, esprimersi. 23 Ennio: Quinto Ennio (239 a.C.-169 a.C.), poeta e scrittore, riconosciuto già dall’età repubblicana romana come il padre della poesia latina. 24 perciò che essi… cangiato: poiché essi avrebbero sostituito l’oro puro, che proveniva dalle ricche miniere della loro epoca ispirata e creativa, con il piombo utilizzato in un periodo più primitivo. L’autore paragona il latino dell’avanzata età classica

con quello più primitivo e basico degli anni più remoti. 25 Guido Guinicelli: Guido Guinizzelli (1235-1276), celebre poeta bolognese crea­ tore dello Stilnovo. 26 Farinata: Manente degli Uberti, detto Farinata (1212-1264), nobile fiorentino e capo ghibellino, ricordato anche da Dante Alighieri nel canto X dell’Inferno. 27 maniera: la situazione. 28 prosato e verseggiato: scritto prose e poesie.

29 e Seneca… loro: Seneca, Svetonio, Lucano e Claudiano e tutti gli scrittori vissuti dopo gli anni di Cesare e Augusto e dopo quel periodo così bello e felice e fino alla nostra era se avessero scritto come (nella guisa di) i loro lontani predecessori, parlo cioè di Virgilio e Cicerone, invece che con il proprio stile. Augusto muore nel 14 d.C. 30 e molto meglio… nostro: e faremo molto meglio anche noi a esprimerci, nei nostri lavori, con lo stile di Boccaccio e di Petrarca invece che con il nostro. 31 senza fallo alcuno: senza alcun dubbio.

Concetti chiave La tesi linguistica di Bembo e i modelli

Le tesi esposte nel brano coprono diversi argomenti. In primis, lo scrittore deve discostarsi dall’uso corrente per mirare a una lingua classica, che possa essere apprezzata anche dai posteri. Egli non deve considerare come destinatario delle opere letterarie il popolo, incapace di apprezzarne il valore, ma deve mirare prima di tutto all’apprezzamento dei dotti; il popolo si uniformerà alle valutazioni di tale ristretta cerchia di intenditori. Esistono scrittori che hanno saputo realizzare l’ideale di una lingua classica destinata a essere apprezzata nel tempo: per la poesia Omero, Virgilio e Petrarca; per la prosa, Demostene, Cicerone e Boccaccio. Quindi, di fronte alla domanda se lo scrivere bene implichi il riferimento a dei modelli, la risposta data è che l’imitazione di autori passati non va seguita come criterio assoluto, ma soltanto se essi hanno raggiunto la perfezione linguistica: è il caso di Petrarca e Boccaccio, esempi a cui uno scrittore deve guardare.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono i destinatari delle opere letterarie, secondo Bembo? 2. Quali sono le caratteristiche della lingua da lui auspicata? LESSICO 3. Riporta le espressioni che meglio evidenziano l’idea elitaria della letteratura di Bembo.

Interpretare

SCRITTURA 4. Quali furono le cause e le conseguenze dell’affermazione del modello bembiano?

L’evoluzione della lingua 4 75


Libri, lettori, lettura

La rivoluzione della stampa Un’invenzione che cambia la storia della cultura Verso la metà del Quattrocento viene inventata la stampa a caratteri mobili: un evento di capitale importanza non solo nella storia del libro ma nella più generale storia della cultura. Fondamentale alla sua realizzazione è lo sviluppo delle tecniche di fusione e incisione dei metalli; non a caso Johann Gutenberg, l’orefice di Magonza a cui è attribuita la scoperta, essendo figlio del capo della Zecca, conosce benissimo le tecniche di lavorazione dei metalli che servono per realizzare le monete. Nella diffusione su vasta scala della stampa fu poi determinante la diffusione della carta, il cui uso era stato introdotto dalla Cina in Europa attraverso gli Arabi già nel XII secolo: la carta è meno resistente della pergamena, ma è disponibile in quantità maggiori e a costi inferiori. Dalla Bibbia di Gutenberg al trionfo della stampa Il primo testo a stampa realizzato da Gutenberg è una Bibbia (nota come “Bibbia delle 42 linee”). La tecnica si diffonde rapidamente dalla Germania in tutta Europa. Dopo le prime resistenze, il libro manoscritto cede il passo al libro stampato prodotto da nuovi stampatori-tipografi. Questi ultimi anticipano la figura del moderno editore: infatti non si limitano a curare l’esecuzione tecnica del testo, ma scelgono i manoscritti da pubblicare, stabiliscono il numero di copie da stampare e curano il prodotto dall’inizio alla fine: infatti i libri spesso sono venduti nella bottega stessa dello stampatore, oltre che nei mercati e nelle fiere (tra cui spicca in Germania quella di Francoforte, tuttora sede di un’importante Fiera annuale del libro). L’irrompere della stampa sullo scenario della produzione libraria ha caratteri quasi epici: secondo gli studiosi già alla fine del XV secolo circolano in Europa qualcosa come 150-200 milioni di incunaboli . In Italia a lungo il centro principale dell’editoria è Venezia, dove opera Aldo Manuzio, una geniale figura di umanista-stampatore.

Parola chiave

MAPPA INTERATTIVA. LA DIFFUSIONE DELLA STAMPA

incunaboli Con incunaboli s’intendono i primi prodotti della stampa, i primi testi stampati (dall’invenzione del procedimento, a metà del Quattrocento, all’anno 1500 incluso), che hanno quindi il valore di preziose testimonianze dei primi passi di una nuova era. La parola deriva dal latino incunabula, che letteralmente significa “fasce dei neonati” (da cuna, “culla”): è implicita l’allusione alla nascita, alle origini.

Doppia pagina della Bibbia di Gutenberg, conosciuta anche come “Bibbia delle 42 linee” (1453).

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Effetti della stampa a breve e lungo termine La nuova invenzione produce clamorosi effetti non solo nel campo della produzione libraria ma più in generale nel costume culturale e nella stessa mentalità. Nell’immediato la diffusione della stampa contribuisce in modo determinante all’affermazione della filologia umanistica: una volta stabilito quale sia il testo più corretto di un’opera sotto il profilo filologico, gli studiosi di tutta Europa possono infatti far riferimento – grazie, appunto, alla stampa – a un testo fissato, diffuso in migliaia di copie uguali. Ma ancora più importanti, veramente rivoluzionari, sono gli effetti della straordinaria invenzione nel tempo (➜ D18 OL).

Effetti nel tempo dell’invenzione della stampa Incremento dell’alfabetizzazione Acculturazione

•  aumento del numero di coloro che possono acquistare libri di lettura e/o di studio (un tempo i codici manoscritti erano una merce rara e preziosa, destinata a pochissimi)

Le fasi della stampa in una xilografia del Cinquecento: si notano gli addetti al torchio in primo piano e sullo sfondo i compositori impostano le pagine con i caratteri mobili.

Evoluzione dei metodi di insegnamento

Influenza sui processi cognitivi

•  possesso dei testi da parte degli studenti •  possibilità di leggerli direttamente

•  diffusione dell’abitudine alla lettura individuale e silenziosa

gli studenti sono svicolati dall’indiscussa autorità del maestro

Bernardino Loschi, Aldo Manuzio in un affresco al Castello dei Pio, Modena.

miglioramento dei processi logici di astrazione

Una pagina degli Analitici secondi di Aristotele stampati da Aldo Manuzio, 1495-1498 (Libreria Antiquaria Pregliasco, Torino).

Libri, lettori, lettura 4 77


Libri, lettori, lettura

Un uso spregiudicato della stampa: Pietro Aretino Solo pochissimi autori riescono veramente a intuire e sfruttare le potenzialità economiche offerte dall’industria editoriale: soprattutto a Venezia, al mondo della nascente editoria si legano figure di intellettuali poligrafi estrosi e spregiudicati che, per sopravvivere e magari per arricchirsi, si prestano a produrre antologie, opere divulgative, testi audacemente erotici o a adattare repertori di lettere al mercato editoriale. Sono letterati antiaccademici. Tra questi spicca Pietro Aretino (Arezzo 1492 – Venezia 1556), scrittore di talento e dotato, oggi si direbbe, di “fiuto commerciale”, che in un certo momento della sua vita si trova a operare appunto in quella Venezia che era il centro principale dell’editoria in Italia. A partire dagli anni Trenta del XVI secolo, Aretino sfrutta in modo spregiudicato, da vero «avventuriero della penna», come sarà soprannominato, le possibilità offerte dalla nuova diffusione del libro, offrendo al mercato – con indifferente opportunismo – testi scandalosi e testi religiosi, cimentandosi in vari generi letterari, dalla commedia alla tragedia, alle rime (spesso licenziose, come i Sonetti lussuriosi), ai dialoghi. Le lettere di Aretino: un documento di spregiudicata strategia editoriale Ma l’ambito che più gli frutta e che gli vale l’appellativo, ricordato anche da Ariosto nel Furioso, di «flagello dei principi» sono le lettere (il primo dei suoi libri di Lettere, destinati a notevole fortuna editoriale, appare nel 1538).

Dove e come leggono gli umanisti Lo studiolo dell’umanista Lo spazio elettivo della lettura per l’intellettuale nel Quattrocento è lo studiolo, isolato dal resto della casa, nel quale l’umanista si dedica a una lettura individuale e silenziosa degli amati classici. Tra i libri che sono presenti nei dipinti di Antonello da Messina o del Carpaccio o nelle xilografie del Quattro-Cinquecento figurano solo libri latini importanti, che corrispondono a una concezione elevata della letteratura. online Leggere per studiare e per scrivere L’umanista concepisce la lettura come mezzo di studio e di elevazione, non di svago. La lettura e lo studio sono spesso prolungati nelle ore notturne. Il bisogno di leggere il maggior numero possibile di libri contemporaneamente porta alla creazione di leggii a forma circolare. Molto spesso gli umanisti scrivono nei margini del testo, riempiendoli di informazioni e note personali, anche di tipo filologico (➜ D19b OL).

D18 Tommaso Garzoni La stampa produce conoscenza per tutti La piazza universale di tutte le professioni del mondo

Letture piacevoli, libri tascabili Tuttavia non manca anche la lettura per piacere ed evasione, consentita dalla pluralità delle forme assunte dal libro soprattutto nell’età della stampa (e in particolare dal libro tascabile, ideato da Manuzio) (➜ D19c OL). Ce lo testimonia indirettamente anche un passo dalla celeberrima lettera di Machiavelli (costretto all’“esilio” di San Casciano) al Vettori, che può essere considerata una testimonianza eloquente delle diverse occasioni e modalità di lettura proprie degli uomini colti nell’età umanistico-rinascimentale (➜ D19a OL).

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Donne che leggono Dopo l’avvento della stampa il mondo produttivo dei tipografi individua nel pubblico femminile un settore dai potenziali sviluppi. Mentre nell’età medievale la lettura è per le donne soprattutto uno dei momenti collettivi che scandivano i ritmi e i rituali della vita familiare – lettura “con gli altri e per gli altri” (le figlie, la famiglia) – la stampa favorirà invece la pratica della lettura silenziosa e personale, svolta in luoghi appartati. Questa modalità di lettura è ovviamente propria delle donne di buona cultura, che condividono con gli umanisti il culto della cultura classica. Ai vertici di questa tipologia ci sono le principesse e le aristocratiche che, all’interno delle corti, esercitano un ruolo spesso di primo piano, come Isabella d’Este, prototipo della nuova gentildonna colonline ta, che ama ritirarsi a leggere e scrivere nel suo Testi in dialogo studiolo personale. Leggere nell’età umanistico-rinascimentale Interessanti per documentare l’evoluzione D19a Niccolò Machiavelli del rapporto tra le donne e il libro sono le La “doppia lettura” di Machiavelli Lettera a Francesco Vettori rappresentazioni di donne che leggono, parD19b Guarino Veronese ticolarmente diffuse nell’età rinascimentale. Leggere prendendo appunti: i suggerimenti Nel Cinquecento le figure femminili sono ridi un grande educatore Epistolario tratte non con libri di scienza e di studio, ma D19c Michel de Montaigne esclusivamente con libri che rimandano a una Montaigne e i libri lettura intima, per sé: libri religiosi ma anche il Saggi, II, x Canzoniere di Petrarca in piccolo formato.

Vittore Carpaccio, Madonna che legge un libro, 1505 (National Gallery of Art, Washington).

Piero di Cosimo, Ritratto di donna in veste di Maddalena, 1490-1495 (Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini, Roma).

Libri, lettori, lettura 4 79


Arte nel tempo

A Firenze, nei primi anni del Quattrocento, Brunelleschi in architettura, DonaIl Quattrocento tello in scultura e Masaccio in pittura elaborano un linguaggio artistico distante

La concezione di uno spazio matematico e l’artista di corte

dal decorativismo tardo gotico diffuso in quegli anni nelle corti di tutta Europa. L’essenzialità, le composizioni razionali, la ricerca di una resa espressiva e realistica della figura umana, lo studio dei canoni del mondo romano accomunano le loro opere. Questo recupero dell’antico era già stato avviato nel Medioevo, come dimostrano l’interesse verso la pittura naturalistica di Giotto e la ripresa costante degli elementi dell’architettura greco-romana. La prospettiva centrale a punto di fuga unico, “scoperta”, secondo la tradizione, da Brunelleschi e teorizzata nel De Pictura (1435) di Leon Battista Alberti,

1 Trinità di Masaccio Masaccio (1401-1428) realizza tra il 1427 e il 1428 per la chiesa fiorentina di Santa Maria Novella un affresco in cui appare una struttura architettonica rappresentata con una tale esattezza prospettica da far sembrare lo spazio dipinto prolungamento dello spazio reale. Trinità, ultima opera dell'artista, alta quasi 7 metri, è una delle fondamentali prime applicazioni della prospettiva centrale. L’opera rappresenta la Trinità cristiana secondo l’impostazione iconografica che voleva Dio Padre reggere Cristo in croce e lo Spirito Santo sotto forma di colomba. Masaccio però inserisce i dolenti Maria e san Giovanni, reinterpretando l’iconografia trinitaria come una crocifissione, e colloca i personaggi sacri all’interno di uno spazio architettonico di memoria classica, un’assoluta novità. Questa monumentale struttura architettonica è costituita da una volta a botte cassettonata introdotta da un arco a tutto sesto che poggia su due colonne ioniche, il tutto incorniciato da una trabeazione sostenuta da paraste corinzie. Ai lati, due personaggi inginocchiati, i committenti, non condividono lo stesso spazio della crocifissione e si collocano al di fuori di esso, nella dimensione finita e mortale dell’uomo, simboleggiata dal sarcofago alla base della composizione: «Io fu’ già quel che voi sete e quel ch’i’ son voi anco sarete» recita infatti il memento mori al di sopra dello scheletro sdraiato. In questo affresco l’architettura traccia i confini dello spazio in cui avviene l’apparizione sacra, uno spazio reso verosimile grazie alla costruzione prospettica. Vasari scriverà: «vi è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni che diminuiscono e scortano così bene che pare che sia bucato quel muro».

Masaccio, Trinità, affresco, 1425-1428 (Firenze, Basilica di Santa Maria Novella).

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diventa uno degli strumenti fondamentali per la rappresentazione verosimile dello spazio su basi matematiche e razionali. La prospettiva centrale permette infatti di creare tridimensionalità su un piano bidimensionale; diventa il codice di rappresentazione che forma simbolicamente, per dirla con Erwin Panofsky, la visione dell’Umanesimo dando assoluta centralità al punto di vista umano. Lo stile che si codifica a Firenze si diffonde poi in tutta Italia anche grazie alle committenze che i diversi signori delle corti italiane affidano agli artisti, i quali, viaggiando e spostandosi da una città all’altra, hanno modo di vedere le opere di altri e di sperimentare linguaggi e tecniche.

In questo spazio i corpi sono in proporzione tra di loro, collocati con coerenza. Mentre in molte delle opere medievali l’oro faceva da sfondo a scene in cui il personaggio più importante era più grande degli altri, qui la necessità di rappresentare personaggi razionalmente credibili porta Masaccio a raffigurare il divino in proporzioni umane (Dio è solo leggermente sovradimensionato). La gerarchia è definita dal livello che occupano all’interno della composizione piramidale, che vede Dio al vertice. Ma lo spazio è umano e misurabile, concepito dall’uomo per una divinità che dell’uomo assume la sembianza.

A

B

A Impianto della prospettiva centrale. B Nella sezione si distinguono: in

primo piano un sepolcro, quindi la coppia dei committenti, la Vergine e san Giovanni, il Crocifisso e Dio Padre.

2 L’artista di corte:

la Pala di Brera di Piero della Francesca

Una concezione dello spazio simile a quella espressa da Masaccio caratterizza la pala d’altare che Piero della Francesca (1412-1492) termina nel 1474 per la chiesa di San Bernardino a Urbino e oggi conservata alla Pinacoteca di Brera. Nel dipinto un’ampia abside chiusa da un catino a conchiglia evoca la struttura di una chiesa in cui la Madonna in trono è circondata da santi. Dalla conchiglia pende un uovo di struzzo a far percepire la spazialità prospettica e l’esattezza matematica della composizione, accentuate dal netto taglio di luce e dagli statici volumi dei corpi. Come nella Trinità, i personaggi sacri sono presenze realistiche che occupano uno spazio architettonico concreto. L’uomo in armatura inginocchiato è Federico da Montefeltro, duca di Urbino e committente dell’opera: presso di lui Piero della Francesca risiedette come artista ufficiale di corte. Piero della Francesca, Pala di Brera (Pala di Montefeltro), tempera e olio su tavola, 1472-1474 (Pinacoteca di Brera, Milano).

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di corte: 3 L’artista la Camera Picta di Andrea Mantegna Pittore di corte fu anche Andrea Mantegna (14311506) a Mantova, alla corte di Ludovico II Gonzaga, per il quale tra il 1465 e il 1474 realizzò il ciclo di affreschi che decorano la camera di rappresentanza nel castello di San Giorgio, detta Camera picta.

Gli affreschi occupano le quattro pareti e il soffitto della stanza con scene di vita di corte tese a celebrare il committente. Queste scene vengono collocate nello spazio da Mantegna come se la stanza fosse un loggiato aperto: il pittore dipinge sulle pareti un finto tendaggio che si apre illusionisticamente sul paesaggio e immagina sulla volta l’apertura sul cielo di un oculo,

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realizzato in perfetta prospettiva centrale, dal quale si affacciano una serie di personaggi che interagiscono con chi li osserva dal basso. Questa soluzione dilata illusionisticamente lo spazio e crea unità spaziale e coerenza tra i diversi episodi che occupano le pareti, raccordate dalla presenza del tendaggio, che come un sipario incornicia le scene.


Mentre sulle pareti est e sud troviamo una più semplice decorazione a tendaggio chiuso, sulle pareti nord e ovest troviamo la rappresentazione della corte dei Gonzaga e l’incontro, ambientato in un paesaggio collinare denso di riferimenti alla classicità e all’architettura antica, tra Ludovico e il figlio Francesco appena eletto cardinale. In entrambe le scene i personaggi si muovono su una zoccolatura in finto marmo, elemento architettonico che insieme al tendaggio unifica lo spazio scenografico della pittura. I volti sono ritratti in modo fedele, con un segno netto che rende monumentali e distanti le figure. Nel ciclo Ludovico II Gonzaga appare due volte: una prima volta seduto di tre quarti e leggermente più grande degli altri personaggi per sottolinearne l’importanza; una seconda, invece, di profilo, secondo i codici del ritratto di corte tardo gotico che deriva dalla numismatica antica. Il paesaggio che fa da sfondo alla scena dell’incontro è un paesaggio storico denso di riferimenti alla classicità e mostra come la cultura rinascimentale si percepisca erede diretta dell’antichità classica. La solennità della vita di corte viene smorzata da alcune scelte: l’informalità della rappresentazione della famiglia, alcuni gesti dei dignitari che spuntano dal tendaggio, i numerosi animali che abitano gli episodi, alcuni dettagli aneddotici, come lo sguardo enigmatico e dritto verso lo spettatore della donna conosciuta come “la nana”, i putti che reggono il medaglione dedicatorio. E, soprattutto, le divertite espressioni dei personaggi che si affacciano dall’alto, i puttini che si arrampicano sulla finta struttura a cassettoni dell’oculo, il cesto di arance che in bilico sulla finta asta di ferro sembra essere lì a suggerire con spietata ironia la precarietà delle cose e la facilità della vista a essere ingannata.

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Arte nel tempo

Il primo Cinquecento

Corpi, movimento e spazio

Se la pittura del Quattrocento è interessata a definire il rapporto tra figura e spazio, quella del primo Cinquecento si concentra sulla resa anatomica del corpo, sul movimento, sulla resa espressiva. L’applicazione rigida della prospettiva centrale lascia spazio a una diversificazione delle tecniche attraverso le quali ricreare la profondità spaziale: lo spazio del Cinquecento è lo spazio dove trionfa l’azione e l’interazione naturalistica delle figure.

4 Il naturalismo di Leonardo

Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e l’Agnello è un dipinto di Leonardo da Vinci (1452-1519) oggi conservato su una delle pareti della Grande Galerie del Louvre di Parigi. In questo olio su tavola sono presenti le principali caratteristiche della pittura di Leonardo, la cui opera si allontana dai canoni pittorici quattrocenteschi. All’interno di un paesaggio naturale arso e montagnoso che sembra sgretolarsi sotto i piedi delle sante, Maria siede sulle gambe della madre sant’Anna, evocando il tradizionale trono gotico delle Maestà, e tende le braccia verso Cristo bambino che sta giocando con un agnello. In questa Sacra Famiglia tre generazioni si saldano l’una all’altra in un intreccio di gesti, sguardi ed espressioni. La naturalezza con cui le figure interagiscono nasconde lo studio e l’estrema progettazione necessari per creare una scena di tale armonia. La composizione piramidale dona unità ai personaggi mentre la costruzione dei movimenti lungo direzioni opposte conferisce una equilibrata e bilanciata variazione alle pose. La naturalezza dei gesti e delle espressioni sono poi in armonia col paesaggio: attraverso la tecnica dello sfumato infatti Leonardo non separa nettamente le forme con contorni netti, ma ne sfuma i confini, alludendo alla continuità tra le cose della natura. Leonardo parte dall’osservazione e dallo studio della realtà, considerando la pittura come processo conoscitivo che metta in relazione la vitalità umana e quella della terra. Questo approccio scientifico emerge

Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e Agnello, olio su tavola, 1510-1513 ca. (Museo del Louvre, Parigi). dalla volontà di imitare il modo in cui l’occhio vede attraverso la prospettiva aerea. Invece di applicare la stessa definizione geometrica a tutti i dettagli del dipinto come nella prospettiva centrale, Leonardo sfoca i contorni delle

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cose a mano a mano che si allontanano dall’occhio e vira il colore verso le tonalità fredde per restituire la presenza dell’aria (che incide sulla nitidezza della visione). Lo stesso approccio guida Leonardo nella rappresentazione


dell’umano, i cui moti d’animo sono oggetto di indagine da parte del pittore-scienziato interessato alla resa psicologica dei personaggi e delle loro emozioni, rese

con estrema naturalezza grazie allo sfumato che priva lineamenti ed espressioni di qualsiasi rigidità. Come altri artisti rinascimentali Leonardo insegue quell’ideale di

armonia tra uomo e natura di cui la pittura deve essere traduzione, non partendo dai testi antichi ma dal manifestarsi delle cose del mondo.

5 La pittura scenografica di Tiziano

Ritroviamo la centralità del corpo anche nell’opera del veneto Tiziano Vecellio (1490-1576), il quale si discosta dalle gestualità equilibrate di Leonardo per andare verso una rappresentazione teatrale e coinvolgente. Nella pala d’altare che Tiziano termina nel 1518 per la Basilica dei Frari, il racconto dell’Assunzione in cielo della Vergine diventa il pretesto per rappresentare una scena spettacolare e dinamica. Il miracolo si svolge davanti agli sguardi degli apostoli che osservano dal basso la Madonna rafforzando le espressioni colme di meraviglia con gesti contrapposti e concitati; la Madonna, sospesa su una nuvola in un tripudio di luce e di angeli, tende verso Dio con un dinamismo accentuato dal tessuto che ne amplifica i movimenti; Dio appare sospeso, spalanca le braccia mentre osserva Maria venirgli incontro. La composizione è strutturata su tre registri che muovono dalla dimensione terrena e gerarchicamente salgono verso quella divina, ma senza alcuna rigidità didascalica poiché i personaggi entrano in relazione, occupano lo stesso spazio e lo stesso tempo. La luce irradia da Dio e illumina il cielo alle spalle della Madonna. Il moto circolare disegnato dagli angeli e dalle nuvole interseca l’angolo della composizione piramidale il cui vertice è la Madonna e che prende forma grazie all’uso del colore rosso delle vesti sue e di due apostoli, dimostrando come il colore in Tiziano non solo dà corpo al dipinto ma acquisisce una funzione strutturale e compositiva. Con l’Assunta di Tiziano assistiamo al

Tiziano Vecellio, Assunta, olio su tavola, 1516-1518 (Venezia, Basilica dei Frari). superamento della visione geometrica del Quattrocento: l’opera non è più uno spazio matematico, ma un caotico accadere che

suscita emozione attraverso la corporeità dei gesti, il dinamismo dei movimenti, la teatralità della rappresentazione.

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Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali. Umanesimo e Rinascimento

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Umanesimo/Rinascimento Il periodo che va dalla fine del Trecento fino al Concilio di Trento è designato con l’espressione “età umanistico-rinascimentale”, formata dall’unione dei nomi di due importanti categorie culturali. “Umanesimo” indica una tendenza che emerge con Petrarca ed è fondata sulla riscoperta del mondo antico e sulla rinnovata centralità delle humanae litterae; “Rinascimento” denota il rinnovamento radicale dei primi decenni del XVI secolo, concretizzatosi in una splendida stagione artistica e letteraria, profondamente innovativa a confronto con l’età medievale. L’Umanesimo: la centralità dell’uomo e la rivalutazione della dimensione terrena La cultura umanistico-rinascimentale non è più teocentrica, ma antropocentrica: non irreligiosa ma focalizzata sull’uomo e non più su Dio, in un’esaltazione della dimensione terrena. Si valorizzano le qualità morali e intellettuali dell’uomo, ma si celebra anche, in polemica con l’ascetismo medievale, la bellezza della natura e del corpo. Per influsso epicureo si esalta il piacere, prerogativa a godere delle cose belle della vita, compresa la sessualità (anche se il neoplatonismo tende a riaffermare una visione spirituale dell’amore). Persino l’arricchimento non è più condannato, perché frutto di intraprendenza: essa è considerata foriera di vantaggi per la famiglia e la società, nobilitata attraverso le grandi opere dell’ingegno. La storia è vista non più come prodotto di un disegno divino, ma come opera della virtù dell’uomo: il termine “virtù” allude non a una qualità morale, ma alla capacità di fronteggiare gli eventi e di piegarli a proprio favore. Fino alla metà del Quattrocento e soprattutto a Firenze, gli umanisti cercano di trasmettere i nuovi valori anche al resto della società impegnandosi in ruoli istituzionali. Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici La civiltà umanistica ha il suo fondamento nel mito della “rinascita”, che ne teorizza l’appartenenza a una nuova “età dell’oro” dopo secoli di decadenza, in continuità valoriale e culturale non con il Medioevo ma con l’età classica.

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Il mito è alimentato dalla riscoperta di numerosi testi antichi che si credevano perduti. Nelle biblioteche dei monasteri, gli umanisti rinvengono manoscritti con opere classiche di argomento letterario, filosofico, scientifico e artistico, destinate a influire grandemente sulla nuova produzione culturale. La fondazione del metodo filologico Un’importante eredità dell’Umanesimo è la filologia, disciplina finalizzata a ricostruire e a interpretare documenti letterari antichi attraverso l’analisi critica dei dati linguistici; il metodo che ne deriva, profondamente antidogmatico, può essere applicato anche alla risoluzione di problemi inerenti a testi di altro tipo (giuridico, teologico o storico). L’adozione del metodo filologico implica l’opposizione al principio di autorità e contribuisce all’affermarsi, in ogni campo del sapere, di un metodo scientifico, seppur in senso lato. La concezione del tempo e dello spazio In questo periodo cambia la concezione del tempo che, laicizzandosi, non viene più pensato come simbolo di umana precarietà nelle mani divine, ma strumento a disposizione dell’uomo per esprimere appieno le proprie potenzialità: obiettivo, questo, a cui tendere sia svolgendo i propri doveri sia dedicando il tempo libero agli studi. Anche l’immaginario relativo allo spazio subisce rivolgimenti: viene “inventata” la prospettiva, che fonda l’osservazione dello spazio su regole geometriche e matematiche, adottando il punto di vista umano. Cambia il volto degli spazi urbani, rivoluzionati da trasformazioni ispirate a leggi razionali e rispondenti agli ideali del tempo: misura, equilibrio, eleganza. Le scoperte geografiche dilatano i confini del mondo conosciuto e portano gli europei a incontrare genti “diverse”, che mettono in crisi secolari certezze. Ma anche lo spazio del cosmo si trasforma: Copernico formula la teoria eliocentrica che, duramente contestata dalle autorità ecclesiastiche, avrebbe presto scardinato l’universo tolemaico geocentrico. I valori e i modelli di comportamento Su suggestione classica, l’Umanesimo fa propri valori (quali l’amore per la cultura e i libri, la frequentazione di persone istruite e la ricerca della saggezza) che definiscono l’ideale dell’humanitas. Chi li condivide crea un sodalizio intellettuale che non può che sfociare nell’amicizia. Per rinsaldare questo rapporto, gli intellettuali scrivono lettere – spesso diffuse da destinatario e amici – nelle quali si producono in riflessioni sotto forma di forbiti esercizi di eloquenza, secondo il modello ciceroniano. Chi non risponde a tale modello, assai elitario, è parte del volgo, cioè della massa di individui non dotti. Oltre ai rapporti amicali, anche quelli famigliari, considerati come nucleo essenziale della società, vengono celebrati. Dedica loro un trattato Leon Battista Alberti (Libri della famiglia, 1434-1441) che, attraverso lo strumento del dialogo, illustra in modo laico e pragmatico gli aspetti che l’uomo virtuoso e capace deve curare per il bene dei propri cari, contro l’azione iniqua della sorte. Nel Cinquecento, poi, abbondano anche i trattati di buon comportamento, inteso non in senso morale ma prettamente sociale. Si riafferma infatti l’ideale cavalleresco, impersonato dal gentiluomo, ma declinato nella corte invece che all’avventura: è in questo ambiente che l’individuo altolocato può

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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affermare le proprie qualità come descritto, ad esempio, nel celeberrimo Cortegiano di Baldesar Castiglione. Luoghi, centri e figure della produzione culturale Tra XV e XVI secolo la produzione culturale è policentrica ed elitaria poiché localizzata nelle corti, dove convergono le personalità di spicco. Gli umanisti vi si incontrano per dibattere, come fanno peraltro anche in case private o botteghe di libri: qui il sapere è concepito come ricerca razionale e discussione. Queste riunioni, denominate cenacoli o accademie, divengono un fenomeno chiave del tempo e nel corso del Cinquecento si moltiplicano, specializzano e istituzionalizzano. Parallelamente e con le medesime finalità si diffondono le biblioteche. Già dal Quattrocento, però, l’intellettuale non è più politico: si trasforma in cortigiano, colto professionista al servizio dei mecenati, siano essi i signori o la Chiesa. In cambio di sostegno economico, il potente chiede – e spesso influenza – la produzione di opere che gli garantiscano lustro e consenso, ma anche lo svolgimento di difficili compiti amministrativi o diplomatici. Un’alternativa gettonata è rappresentata appunto dalla carriera ecclesiastica come chierico: una condizione che impone pochi obblighi, spesso solo formali, e garantisce prestigio sociale, benefici economici e possibilità di promozioni gerarchiche. Contemporaneamente guadagna importanza la figura dell’artista, non più semplice artigiano ma vero intellettuale; gli esponenti più rilevanti della categoria dal Duecento al Cinquecento sono raccontati nella famosa opera di Giorgio Vasari, le Vite, primo e fondamentale consuntivo critico sull’arte italiana.

2 Modelli del sapere

Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica Nell’Umanesimo viene data molta importanza all’educazione: si scrivono trattati e si fondano scuole rette da pedagogisti guidati da una visione in anticipo sui tempi (come Guarino Veronese), con l’obiettivo di formare individui completi, dotati di equilibrio e razionalità. La cultura enciclopedica del Medioevo cede il passo, poi, agli studia humanitatis (la retorica, la poesia, la storia, la filosofia morale); questo modello, tuttavia, trascura eccessivamente il sapere scientifico e rischia di formare personalità che privilegino la forma ai contenuti. Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura Nell’età umanisticorinascimentale si afferma un’idea antidogmatica della conoscenza: il sapere si fonda sulla discussione e sul dialogo, in contrapposizione all’ossequio del principio di autorità imposto nelle università medievali. Si esaltano, dunque, la retorica e la dialettica. La curiosità intellettuale, inoltre, abbatte il confine tra arti liberali e arti meccaniche, esaltando gli eruditi eclettici. Nel sapere filosofico la decadenza dell’interesse verso la metafisica comporta un riassetto delle gerarchie: alla teologia e alla logica subentrano etica e politica, saperi prettamente antropocentrici. Il prototipo del “nuovo” filosofo è Marsilio Ficino: intellettuale versatile, aperto all’interesse per la magia, che si circonda come Socrate di pochi, devoti discepoli, con i quali dialoga costantemente. Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino Tendenza dominante nel primo Rinascimento, in particolare a Firenze, è il ritorno a Platone, dopo secoli di egemonia

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del pensiero di Aristotele. Il neoplatonismo, che cerca di conciliare la filosofia platonica con il cristianesimo, influenza l’arte, la letteratura, il dibattito intellettuale: particolarmente importante è la spiritualizzazione dell’amore. Proprio Ficino ne è il principale promotore: dal suo circolo intellettuale, ricco di personalità eccellenti, divulga gli insegnamenti del filosofo greco, tradotto personalmente in latino, ma anche gli scritti esoterici che gli si credevano collegati, trasformandoli in una moda negli ambienti altolocati. Un modo diverso di guardare alla natura Anche il modo di guardare alla natura cambia rispetto al Medioevo, che in essa cercava esclusivamente le tracce del divino: emerge, infatti, il desiderio di comprenderla in sé e dominarla. Ciò, in connessione con la valorizzazione della matematica, che consegue alla traduzione e allo studio filologico delle opere di Archimede, pone le basi per la nascita della scienza moderna. La figura più rilevante in questo campo è Leonardo da Vinci (1452-1519), ritenuto il precursore del metodo sperimentale: genio in campo artistico, scientifico e tecnico, egli polemizza contro i sistemi astratti di pensiero e rifiuta le credenze di alchimisti e maghi, ritenendo invece imprescindibile il riferimento all’esperienza e la matematica per la comprensione delle leggi naturali.

e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo 3 Caratteri Cinquecento Forme e generi della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento Nell’età umanistico-rinascimentale la produzione letteraria viene declinata nei modi più vari. Emerge il trattato, utilizzato per diffondere i temi del dibattito ideologico in forma dialogica; si afferma il teatro, la cui rappresentazione ha luogo nella corte e i cui autori si dividono tra imitatori del modello antico e anticlassicisti; si diffondono le opere di genere idillicopastorale, vicende dal gusto classico ambientate in un mondo campestre fuori dal tempo; si sviluppa il genere cavalleresco, che fonde epica carolingia e bretone per creare veri e propri capolavori; nella poesia domina il principio di imitazione, che vede come protagonista assoluto Petrarca; ritorna in auge la novella; infine si producono anche biografie, conseguenze tangibili dell’esaltazione culturale della virtù individuale.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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4 L’evoluzione della lingua

Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare La storia della lingua letteraria in quest’epoca si divide in due fasi: nella prima (fino al 1480 circa) domina l’uso del latino; nella seconda (dal 1480 alla metà del Cinquecento) si afferma il volgare. Inizialmente, gli umanisti ritengono il latino classico, ricostruito filologicamente, un mezzo per ricreare una società ispirata ai valori antichi. Ma si tratta di una lingua morta: già nello stesso Quattrocento, infatti, come lingua della cultura si ripropone il volgare, che conquista la scena entro la fine del secolo. La “questione della lingua” nel Cinquecento Nella prima metà del Cinquecento, anche per influsso dell’invenzione della stampa, si apre un dibattito, noto come “questione della lingua”, che si interroga su quale idioma comune e normalizzato usare per la comunicazione scritta. Si fronteggiano tre tesi, che propugnano rispettivamente il volgare parlato nelle corti, quello parlato a Firenze o in Toscana oppure quello degli autori trecenteschi. Prevale la terza, più pratica, conveniente e rispondente ai gusti del tempo; il suo principale sostenitore è il veneziano Pietro Bembo, autore del trattato Prose della volgar lingua (1525), nel quale esamina dialogicamente la problematica e traccia una sorta di grammatica della lingua-modello. La scelta provoca conseguenze di lunga durata sulla storia culturale e linguistica: anche se si impone lentamente nello scritto, il volgare scelto è formale, elitario e “artificiale”, quindi estremamente lontano dal parlato, ambito che infatti non conosce unificazione neanche tra i più colti e rimane dominato dai dialetti locali.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Illustra sinteticamente, attraverso un PowerPoint, il nuovo modello culturale e educativo promosso dall’Umanesimo, sottolineandone le differenze rispetto a quello medievale (max 3 min).

Scrittura argomentativa

2. Alla luce del nuovo contesto storico-culturale, in un testo argomentativo di circa tre colonne di foglio protocollo, delinea il cambiamento della figura e del ruolo dell’intellettuale nell’età umanistica e nel Rinascimento rispetto al Medioevo.

Esposizione orale

3. Presenta in un intervento orale (max 5 minuti) il nuovo interesse e il nuovo approccio di intellettuali, artisti e poeti verso la natura, portando alcuni esempi particolarmente significativi tra quelli conosciuti.

Competenza digitale

4. L’invenzione della stampa: una rivoluzione nella cultura e nel costume. Realizza uno schema attraverso il computer in cui inserire le principali novità generate dall’introduzione e dalla diffusione del libro a stampa nell’attività e nel consumo culturale.

Sintesi

5. In una tabella metti a confronto le diverse posizioni emerse nel dibattito cinquecentesco sulla lingua, evidenziando protagonisti, tesi, ragioni del successo o dell’insuccesso.

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Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

1 Classicismo e anticlassicismo

Nel Rinascimento la letteratura si fonda sull’imitazione dei classici. Ne deriva: la ricerca dell’armonia e della perfezione dello stile, una rappresentazione spesso idealizzante della realtà come nelle Stanze per la giostra dell’umanista Angelo Poliziano, la ripresa di temi e motivi classici come il mito idillico dell’Arcadia riproposto da Jacopo Sannazaro, il ripristino di generi antichi come la commedia e soprattutto il trattato dialogico. I trattati rinascimentali ospitano i principali temi del dibattito culturale: dall’amore platonico (Gli Asolani di Pietro Bembo) ai modelli di comportamento del cortigiano (il Cortegiano di Baldesar Castiglione e il Galateo di Giovanni Della Casa). Ma nella letteratura rinascimentale c’è anche una linea anticlassicistica, alternativa al modello, anche linguistico, dominante: dalla Vita di Cellini alle varie opere dissacranti di Aretino, che contesta la dittatura del fiorentino illustre, alla poesia di Berni, al poema eroicomico Baldus di Folengo.

classicistica 1 Ladellavisione letteratura produzione 2 Laanticlassicista

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La visione classicistica della letteratura 1 I principi chiave del classicismo

Lessico topoi Termine greco (singolare: topos) che indica un tema ricorrente all’interno delle opere di uno o più autori o di un’intera epoca.

Il classicismo del primo Cinquecento Gli umanisti non elaborano una propria concezione della letteratura, perché considerano perfetti i modelli dell’antichità classica e dunque derivano da essi i princìpi estetici fondamentali e la visione della letteratura. Princìpi che nel loro insieme delineano una concezione classicistica della letteratura che perdura per tutto il Rinascimento. Vediamoli. • L’imitazione dei modelli eccellenti del passato Gli umanisti, proprio come gli antichi, danno per scontato che per realizzare opere d’arte degne di questo nome occorra imitare autori considerati eccellenti, cioè i classici, modello indiscutibile di perfezione. Questa prospettiva fondamentale comporta: – la ripresa di generi classici (come ad esempio la commedia, il trattato, il genere idillico-pastorale); – l’immissione massiccia nella letteratura e nell’arte di miti, temi e topoi del mondo antico, che creano un repertorio capace di perdurare, in alcuni casi, fino al Novecento (➜ PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi, PAG. 93). Il classicismo non consiste però in una sterile e passiva ripresa dei modelli del passato: gli scrittori e gli artisti più grandi si propongono di gareggiare con il modello antico che riprendono e perciò l’imitazione diventa emulazione, in una sfida stimolante per superare i grandi modelli. • La letteratura come eccellenza “tecnica” Dalla cultura classica gli umanisti derivano l’idea che il valore di un’opera non dipenda tanto dall’originale creatività dell’autore, ma sia soprattutto il risultato della sua competenza tecnica, della sua perizia retorica nel rendere sempre più perfetto il prodotto letterario (grazie a quello che i latini chiamavano, con una celebre metafora, limae labor “il lavoro di lima”). • La selezione idealizzante dei contenuti artistici e l’ideale estetico dell’armonia Una concezione classicistica della letteratura comporta anche una selezione prevalentemente idealizzante dei contenuti: della realtà e dei comportamenti umani sono privilegiati gli aspetti più nobili, in genere rappresentati attraverso uno stile elegante e armonico. Il Rinascimento riprende dal mondo antico l’ideale estetico dell’armonia e dell’eleganza. • La prevalenza del fine edonistico Mentre durante il Medioevo prevale, nella composizione delle opere letterarie, il fine didattico-morale, nell’età umanisticorinascimentale si privilegia invece una visione edonistica dell’arte che si traduce anche nella predilezione, in particolare in alcuni generi, per forme e temi letterari in grado di ospitare un’evasione dalla realtà verso mondi di bellezza lontani nello spazio e nel tempo (➜ T1-2 ). L’irrigidimento del classicismo nel secondo Cinquecento Nel corso del Cinquecento si sviluppa anche una riflessione teorica sulla letteratura che si concretizza nel tempo in una rigida classificazione delle forme letterarie all’interno di precisi

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generi e in regole prescrittive di scrittura, tali da condizionare per secoli gli scrittori. Il ruolo della Poetica di Aristotele Un ruolo fondamentale, in questo processo, è esercitato dalla diffusione della Poetica di Aristotele (secolo IV a.C.). Poco conosciuto nel Quattrocento, il testo del grande filosofo greco, una volta tradotto in volgare e commentato (nel quarto decennio del Cinquecento), ispira una ricca produzione di scritti di poetica, che definiscono rigidamente la tipologia dei vari generi letterari e la loro gerarchia nel “sistema dei generi”. Particolarmente importante è la fissazione delle norme compositive della tragedia (le cosiddette tre “unità”). Un sistema normativo che entrerà in crisi solo nell’età romantica, quando irromperanno nuovi valori e una nuova sensibilità estetica. La tragedia e le tre unità Per quanto riguarda la tragedia, cui è dedicato il primo libro dell’opera di Aristotele – il secondo, riguardante la commedia, è andato perduto – i trattatisti del Cinquecento fissano le tre unità che devono essere rispettate nella rappresentazione tragica, trasformando in norma prescrittiva quella che in Aristotele era puramente una descrizione dei caratteri del grande teatro tragico greco (ed è per questo che sarebbe più corretto parlare di unità “pseudoaristoteliche”). La codificazione delle tre unità prevede: • l’unità di azione: l’argomento del dramma deve essere unitario e non disperdersi in episodi secondari; • l’unità di luogo: l’azione deve svolgersi in un unico luogo; • l’unità di tempo: l’azione deve svilupparsi nell’arco di una giornata.

PER APPROFONDIRE

Un “codice” elitario La presenza di un vasto repertorio di immagini, situazioni e anche di un lessico aulico tratti dal mondo antico crea a lungo andare un vero e proprio “codice” di riferimento con cui gli scrittori inevitabilmente devono confrontarsi. Questa patina classicheggiante fa della nostra una delle letterature più alte e raffinate.

Il repertorio classicistico: alcuni esempi Il mito dell’età dell’oro Tra le figurazioni più note appartenenti al mondo classico e che hanno avuto maggiore fortuna nel tempo c’è il mito dell’età dell’oro. Nella letteratura latina si può ricordare, tra i molti esempi possibili, la quarta Ecloga di Virgilio o anche le Metamorfosi di Ovidio. L’“età dell’oro” è un’epoca mitica in cui gli uomini vivevano liberi e felici, non conoscevano né pericolo né guerre né fatiche per procurarsi, mediante il lavoro, il necessario per vivere, che invece era offerto spontaneamente alla specie umana da una natura rigogliosa che produceva ogni tipo di frutto; gli animali, sia i feroci sia i mansueti, convivevano in pace e dappertutto regnava l’armonia. Si tratta di un mito sentito ed evocato in periodi storici di forti conflittualità, che spingono a cercare altrove, in dimensioni “altre”, ciò che la realtà storica non può offrire. Il locus amoenus Talvolta connesso al mito dell’età dell’oro è il topos, il motivo, del luogo idilliaco (locus amoenus): come il termine latino fa già capire, Si tratta di un particolare modello spaziale (locus), caratterizzato dalla bellezza serena di una natura amica e armoniosa, in cui ricorrono elementi

costanti come la limpidezza delle acque, la brezza leggera, i fiori, il canto degli uccelli. Nei testi, e non solo in quelli della civiltà umanistico-rinascimentale, ne ritroviamo innumerevoli esempi. La fugacità della bellezza Un altro motivo di grande fortuna è quello della fugacità della giovinezza, spesso associato alla metafora della rosa che presto sfiorisce, da cui deriva la necessità di godere dei piaceri dell’amore finché ci è consentito farlo e la vecchiaia e la morte sono ancora lontane. Il motivo ha il suo archetipo in un carme di Orazio (I, xi, 8), in cui il poeta latino invita una giovane donna (evocata con il nome grecizzante di Leuconoe) a “cogliere il giorno” (è questo il significato letterale del celebre motto carpe diem), ossia a vivere gioiosamente il presente. Si tratta di un motivo talmente ricorrente nella poesia umanistica da divenire quasi convenzionale (un topos, appunto); tra i moltissimi esempi ricordiamo almeno il testo composto da Lorenzo il Magnifico per una festa di carnevale: Canzona di Bacco (➜ T1 ) e la celebre lirica di Poliziano I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (➜ T3 ).

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Modello dominante Classicismo

repertorio mitologico

generi classici

stile armonico

2 Lorenzo de’ Medici La biografia Lorenzo de’ Medici nasce a Firenze nel 1449 da Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni. Si forma attraverso lo studio dei classici latini e volgari e frequenta il circolo filosofico di Marsilio Ficino. Nel 1469 diviene signore di Firenze. Pratica a corte il mecenatismo circondandosi di artisti, letterati e filosofi. Nel 1478 muore suo fratello Giuliano nella congiura organizzata a Firenze dai fratelli Pazzi, nella quale avrebbe dovuto perdere la vita anche lui. Si fa promotore in Italia della politica dell’equilibrio attraverso la quale riuscì a mantenere in pace gli stati italiani fino al 1492, anno della sua morte. Le opere In Lorenzo de’ Medici convivono due anime: lo scaltro uomo politico e il poeta e cultore d’arte. Questa dualità si riflette nelle sue opere che presentano una varietà di tendenze e toni. Alcune sue opere come le Selve d’amore sono influenzate dalla frequentazione dell’Accademia platonica di Marsilio Ficino. Le Rime nascono dal suo interesse per la lirica italiana del Due-Trecento. Altre invece si rifanno alla tradizione comico-burlesca come il poemetto la Nencia di Barberino. È autore anche di Canti carnascialeschi, di cui fa parte il Trionfo di Bacco e Arianna conosciuto anche come Canzona di Bacco, ossia canti composti in occasione del Carnevale in cui si esprime la concezione edonistica tipica dell’Umanesimo. Da ultimo, compone anche testi di carattere religioso. Questa produzione così ricca e diversa va interpretata come l’espressione del letterato colto che vuole sperimentare tutte le forme.

Opere di Lorenzo de’ Medici

Selve d’amore

Rime / Canti carnascialeschi

vicende mitologiche con influssi neoplatonici

componimenti ispirati alla lirica del XII e del XIV secolo, esprimono una concezione edonistica della vita

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Lorenzo de’ Medici

T1

Canzona di Bacco Canti carnascialeschi I, vii

L. de’ Medici, Canti carnascialeschi, in Scritti scelti, a c. di E. Bigi, UTET, Torino 1965

AUDIOLETTURA

Questo celeberrimo componimento è diventato quasi il simbolo dell’edonismo della cultura umanistico-rinascimentale. È bene precisare, tuttavia, che esso si iscrive in uno specifico genere, quello dei canti carnascialeschi, che venivano cantati con accompagnamento musicale durante le feste del Carnevale dai partecipanti al corteo in maschera che percorreva le vie di Firenze. Il testo, composto probabilmente per il carnevale fiorentino del 1490, descrive proprio il corteo mascherato, con diversi personaggi appartenenti alla mitologia classica che via via sfilano: primo fra tutti Bacco, dio del vino e dell’allegria. La Canzona di Bacco, come questo testo è titolato in alcuni manoscritti, è incentrata sull’invito a godere i piaceri della vita, proprio perché essa è breve e precaria («di doman non c’è certezza»): un motivo, questo, di derivazione classica, in particolare oraziana (il celebre carpe diem, ovvero “cogli il giorno, il momento che stai vivendo”), anche se nel canto non manca una sottesa malinconia causata proprio dal trascorrere veloce del tempo.

Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia1! Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza2. 5 Quest’è Bacco e Arianna, belli, e l’un dell’altro ardenti: perché ’l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti3. Queste ninfe ed altre genti 10 sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questi lieti satiretti4, delle ninfe innamorati, 15 per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or da Bacco5 riscaldati, ballon, salton tuttavia6. Chi vuol esser lieto, sia: 20 di doman non c’è certezza. Queste ninfe anche hanno caro da lor esser ingannate7:

1 si fugge tuttavia: passa sempre, trascorre continuamente. 2 Chi... certezza: invito al carpe diem, perché non si sa se ci sarà un domani; e, se ci sarà, che cosa porterà. 3 Quest’è... contenti: il corteo trionfale è aperto da Bacco e Arianna; i dimostrativi questo e queste evidenziano le sequenze descrittive dei vari carri trionfali carnevaleschi che via via avanzano. Tutti i per-

sonaggi, collegati al mito di Bacco, sono utilizzati per esprimere un invito a godere dei piaceri del presente. Arianna aveva aiutato Teseo a uccidere il Minotauro messo a guardia del Labirinto, ma poi era stata abbandonata dall’amante infedele sull’isola di Nasso, dove Bacco l’aveva vista e, invaghitosi della sua bellezza, l’aveva presa con sé. 4 satiretti: nel mito i satiri accompagnano

Bacco; sono creature dei boschi, con i piedi caprini, piccole corna e la coda; il resto del corpo è umano. Il diminutivo sottolinea la loro giovinezza e spensieratezza. 5 Bacco: metonimia per indicare il vino. 6 ballon, salton tuttavia: ballano, saltano sempre. 7 Queste... ingannate: Queste ninfe sono contente di cadere negli agguati amorosi dei satiri.

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non può fare a Amor riparo se non gente rozze e ingrate8 25 ora insieme mescolate suonon, canton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questa soma9, che vien drieto 30 sopra l’asino, è Sileno: così vecchio è ebbro e lieto, già di carne e d’anni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia10. 35 Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Mida vien drieto a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro, 40 s’altri poi non si contenta? Che dolcezza vuoi che senta Chi ha sete tuttavia11? Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. 45 Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi12; oggi sian giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi; ogni tristo pensier caschi: 50 facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! 55 Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core! Non fatica, non dolore! Ciò c’ha a esser, convien sia13. Chi vuol esser lieto, sia: 60 di doman non c’è certezza. 8 non può... ingrate: si sottraggono ad

11 Mida... tuttavia: il re Mida, altro per-

Amore le persone rozze e insensibili. Riferimento all’idea stilnovistica che gli animi gentili provino sempre amore e al dantesco If V, 103. 9 soma: corpo pesante. 10 sopra... tuttavia: dietro viene Sileno, precettore di Bacco. È vecchio e grasso, ma raccoglie l’invito al piacere e al godimento; reso allegro dal vino, fa fatica a reggersi sull’asino per l’ubriachezza.

sonaggio mitologico legato a Bacco, rappresenta l’esempio negativo di chi non sa godere dell’oggi e pensa troppo al domani, allontanandosi così dai piaceri naturali, gli unici da ricercare secondo la filosofia epicurea. Secondo il mito, Bacco avrebbe concesso a Mida di realizzare un desiderio; essendo molto avido, questi aveva chiesto di trasformare in oro tutto ciò che toccasse, ma, poiché anche il cibo e l’ac-

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qua diventavano oro, prossimo a morire, aveva dovuto rinunciare al suo desiderio. 12 nessun si paschi: nessuno si nutra del pensiero del domani; cioè: si illuda sul domani. Il verbo allude ancora alla vicenda di Mida e invita a non rimandare al domani il godimento dei piaceri. 13 Ciò... sia: ciò che deve essere, è giusto che accada. Il senso è: “accettiamo la vita così com’è oggi, senza pensare al domani”.


Analisi del testo Il corteo dei personaggi mitologici La ballata rispecchia la cultura umanistica dell’autore: i personaggi via via evocati sono figure mitologiche, legate in particolare al mito di Bacco: lo stesso Bacco, Arianna, le ninfe, i satiri, tutti gioiscono per il piacere amoroso e si abbandonano all’ebbrezza del vino (che rallegra anche il vecchio Sileno). Mida rappresenta un esempio negativo perché non si appaga dei piaceri naturali, ma ricerca la ricchezza e rimanda al domani le gioie che dovrebbero essere invece godute istante per istante.

Il tema del piacere e della fugacità della vita La ballata esprime una visione della vita paganeggiante, vicina a quella del poeta latino Orazio, seguace della filosofia epicurea. Oraziana è l’associazione tra invito al piacere e consapevolezza della fugacità della giovinezza e della vita stessa (il celebre motivo del carpe diem): un’associazione che nella ballata di Lorenzo è affidata al notissimo ritornello «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza». L’invito a cogliere il piacere della vita è posto in risalto dal ritmo rapido e incalzante della ballata, che diventa alla fine sfrenato e quasi vorticoso a sottolineare il dinamismo, ma anche la fulmineità del tempo dei piaceri nella vita.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. A chi è indirizzata la ballata? ANALISI 3. A parte, in una tabella simile a questa, elenca i personaggi del trionfo, descrivi brevemente le scene che li riguardano e indica il significato che la ballata attribuisce al personaggio. personaggi

scene

significato

4. Rintraccia nel testo le espressioni che indicano i destinatari. STILE 5. Individua nel testo i termini legati al campo semantico: a. del piacere    b. del tempo

Interpretare

Studiare con l'immagine 6. Osserva il dipinto. a. Esamina il paesaggio, i personaggi raffigurati e le azioni che svolgono. Dall’immagine è possibile rintracciare elementi in comune con la ballata di Lorenzo? Argomenta (max 10 righe). b. Scrivi una dettagliata didascalia dell’immagine proposta. Puoi fare ricerche per informarti sui dati non in tuo possesso.

Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, 1520-1523 (National Gallery, Londra).

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3 Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza

Lessico Studio fiorentino Università e centro di cultura fondato nel 1321 dalla Repubblica fiorentina e situato nel capoluogo toscano.

Un umanista all’ombra dei Medici Angelo Poliziano (1454-1494) è uno dei maggiori umanisti e poeti del Quattrocento. Nato a Montepulciano (dal luogo d’origine deriva il nome latino che si scelse come pseudonimo: Politianus), Angelo Ambrogini si trasferisce a Firenze, dove riesce ben presto a ottenere la stima di Lorenzo de’ Medici, che lo accoglie alla propria corte nel 1473 e nel 1475 lo nomina suo segretario personale e precettore del figlio Piero. Come molti altri umanisti può così dedicarsi in tranquillità ai suoi studi e alla sua attività di filologo e letterato. Nel 1479, nel clima politicamente difficile che segue la congiura dei Pazzi, in cui muore Giuliano de’ Medici, lascia Firenze per trasferirsi a Mantova presso il cardinale Francesco Gonzaga al quale dedica la favola pastorale Orfeo. Nel 1480, dietro sua insistente richiesta, Lorenzo gli concede di tornare a Firenze, gli riaffida l’educazione del figlio e lo fa nominare alla cattedra di eloquenza greca e latina allo Studio fiorentino . Poliziano si lega in rapporti di amicizia con altri illustri intellettuali che gravitano intorno alla corte medicea: Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e lo stesso giovane Bembo. Poliziano filologo La più congeniale attività di Poliziano fu quella filologica, impiegata nello sforzo appassionato di ricostruire il testo originale delle opere antiche appartenenti ai più vari campi del sapere (dalla letteratura alla filosofia alle discipline giuridiche e scientifiche). Ne sono testimonianza soprattutto i Miscellanea (le Miscellanee), dotte dissertazioni su molteplici argomenti in cui il letterato manifesta non solo una straordinaria cultura e competenza filologica, ma anche il gusto di esplorare gli aspetti, i miti, i temi e i termini stessi più rari con curiosità da erudito. Un poeta dotto La vasta conoscenza della cultura classica sia greca sia latina costituisce il fondamento dell’attività di Poliziano anche come poeta. Egli segue infatti il principio dell’imitazione a cui sopra si è fatto riferimento, ma utilizza sempre molteplici fonti, preferibilmente rare, anche dissonanti tra di loro (antiche e moderne, colte ma anche popolaresche), che vengono composte a mosaico per la creazione di testi nuovi. I lavori di Poliziano sono sempre densi di echi letterari. Poliziano scrive sia in greco (epigrammi), sia in latino (epigrammi, odi, elegie e altro) sia in volgare. A quest’ultima produzione appartengono varie composizioni, tra cui spiccano le canzoni a ballo Ben venga maggio e I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (➜ T3 ) che appaiono vicine per sensibilità e tematiche alle più celebri Stanze per la giostra.

Le Stanze per la giostra

Angelo Poliziano e Piero de’ Medici da bambino in un particolare dall’affresco di Domenico Ghirlandaio per la Cappella Sassetti nella chiesa di Santa Trinita a Firenze (1482-1485).

L’opera Le Stanze (cioè “strofe”, in questo caso ottave) per la giostra (giostra = “torneo”), l’opera principale di Poliziano e una delle più significative testimonianze della letteratura umanistica in lingua volgare e del classicismo, sono composte a Firenze tra il 1475 e il 1478. Nate nel mondo della corte di Lorenzo de’ Medici, le Stanze sono un’opera dichiaratamente encomiastica, celebrativa: nel 1475 il Magnifico aveva organizzato un grande torneo (è la giostra del titolo) per celebra-

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re un suo successo diplomatico: l’accordo di pace, da lui orchestrato, fra alcune potenze del tempo (Milano, Venezia, Firenze), cui aderirà anche il papa. La vittoria nel torneo arride a Giuliano de’ Medici, fratello minore del Magnifico. Poliziano si propone di celebrare l’evento e inizia a scrivere il poemetto, ma due avvenimenti luttuosi ne interrompono la stesura: prima (1476) la morte di Simonetta Vespucci, la dama per cui Giuliano aveva combattuto nel torneo e che ispira l’ideazione della figura femminile di cui Iulio (a sua volta figura di Giuliano de’ Medici) si innamora nel poemetto; poi (1478) la tragica morte dello stesso Giuliano nella congiura dei Pazzi. Così il poemetto rimane incompiuto. Il contenuto Nel primo libro il giovane Iulio vive dedicandosi alla caccia e alla poesia e disprezza l’amore. Una mattina di primavera, mentre insieme ad alcuni amici sta appunto cacciando, vede una bianca cerva. L’apparizione è “orchestrata” da Cupido, dio dell’amore, che vuole vendicarsi della indifferenza di Iulio verso l’amore. Raggiuntala in una radura, la cerva svanisce come per incanto e Iulio si trova di fronte una bellissima ninfa, Simonetta, che appare al giovane vestita di bianco. Iulio è soggiogato dall’amore e Cupido, lieto del successo ottenuto, vola a Cipro, nel regno della madre Venere. Nel secondo libro Iulio, per volere di Venere, per accendere l’amore di Simonetta dovrà darsi a una nobile impresa, appunto il torneo (la giostra a cui fa riferimento il titolo). Venere perciò fa mandare al giovane un sogno che lo spinga all’impresa; ma, mentre dorme, egli ha la premonizione della morte di Simonetta. Svegliatosi, «d’amore e d’un disio di gloria ardendo», invoca Minerva, dea della sapienza e delle virtù militari, per poter conseguire la gloria. Il poemetto si interrompe a questo punto. Un disegno allegorico neoplatonico? Alcuni critici hanno interpretato la vicenda del poemetto riconducendola a un disegno allegorico, ispirato dalla suggestione della filosofia neoplatonica. Quello di Iulio sarebbe un cammino di progressiva metamorfosi che dalla contemplazione della bellezza terrena di Simonetta (che simboleggerebbe la Venere terrena) dovrebbe portare il giovane alla contemplazione della bellezza celeste (la Venere celeste) attraverso il potenziamento dei suoi sentimenti e delle sue qualità. Se anche esiste, il disegno allegorico non è individuabile con sicurezza, anche perché il poemetto non è stato ultimato. Una raffinata esibizione di classicismo Nelle Stanze si manifestano gli ideali propri del classicismo umanistico: l’esaltazione della virtù, l’ideale della bellezza, la centralità dell’amore come esperienza chiave della vita umana; ma questa celebrazione «è sempre accompagnata dal sentimento della fragilità e della fugacità di questi ideali, della loro natura di “sogni” vagamente e oscuramente insidiati dalle forze inesorabili del Fato, della Fortuna, della Morte» (E. Bigi). Nella costruzione delle vicende e dei personaggi delle Stanze, Poliziano utilizza, sovrapponendoli, modelli diversi: ad esempio il personaggio di Iulio richiama modelli greco-latini (la tragedia Ippolito di Euripide e la Fedra di Seneca) e insieme boccacciani (il Ninfale d’Ameto), Simonetta rimanda alla figura mitologica della ninfa, ma anche al modello femminile stilnovistico-petrarchesco, nella celebre raffigurazione del “giardino di Venere” (➜ T2 ). Poliziano attinge a Virgilio, Ovidio, Dante e Petrarca. Lo scrittore toscano crea così un raffinato intarsio di fonti, il cui riconoscimento costituisce per il pubblico elitario della corte la componente essenziale del piacere della lettura. Lo stesso orientamento agisce anche nella lingua dell’opera, che risulta estremamente variegata, ospitando, magari in una stessa ottava, apporti diversi: latinismi, dantismi, ma anche espressioni realistiche e popolaresche. La visione classicistica della letteratura 1 99


Sguardo sull'arte Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte Nel contesto culturale del neoplatonismo fiorentino letteratura e arte sono fra di loro collegate come espressione del mondo delle idee, dominato dalla bellezza. Lo stretto legame fra poesia, filosofia e arte nell’ambiente fiorentino fa sì che, come hanno mostrato gli storici dell’arte Aby Warburg (1866-1929) e Edgar Wind (19001971), un grande pittore come Sandro Botticelli abbia tratto dalle Stanze lo spunto per i suoi quadri più famosi e ammirati: la Nascita di Venere (1484-86) e la Primavera (1478-82).

La Nascita di Venere riproduce il soggetto di uno dei bassorilievi immaginati da Poliziano a ornamento del palazzo della dea (➜ T2 ott. 99-102). Molte sono le analogie: Venere giunge su una conchiglia (da cui, secondo il mito, sarebbe nata) sospinta dai venti, ritratti da Botticelli come personificazioni allegoriche (in particolare, Zefiro, personificazione del vento primaverile, è rappresentato come figura alata), ed è accolta e vestita dalle mitologiche Ore (tre nel poema, una, quella primaverile, nel quadro). La scena è animata dagli effetti del vento, che gonfia la veste offerta dall’Ora e solleva

Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1484-1485 (Galleria degli Uffizi, Firenze).

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IMMAGINE INTERATTIVA


i biondi capelli delle due divinità mitologiche: anche questo particolare è già suggerito dalla descrizione polizianesca («l’aura incresparle e crin’ distesi e lenti», ott. 100, v. 6). Il mito della nascita di Venere rappresenta l’origine divina della bellezza: riprendendo uno spunto del Simposio platonico, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola distinguono la Venere celeste, cioè la bellezza ideale e divina e la Venere terrestre, che, unendosi alla materia, rende feconda la natura e le conferisce una bellezza divina. Sia i versi di Poliziano sia il dipinto di Botticelli sono espressione della volontà di «rinascita dell’antico» dell’ambiente mediceo. La Primavera Evidenti corrispondenze fra le Stanze e la pittura di Botticelli si riscontrano anche nella Primavera. Il quadro è stato variamente interpretato, ma alcuni studiosi lo hanno ricondotto figurativamente alle Stanze, come mostrerebbero numerosi particolari: Venere al centro del suo regno di bellezza; l’eterna primavera, simboleggiata dal gesto di Mercurio (che con il caduceo scaccia le nuvole), e dallo Zefiro, che con il suo soffio feconda la ninfa Clori. Quest’ultima sparge fiori dalla bocca e si trasforma in Flora, la dea dalla veste fiorita; fiori di vario genere,

come descritto nelle Stanze, sono sparsi sul prato. Il quadro rappresenterebbe l’unione neoplatonica tra mondo sovraceleste e mondo terreno: la bellezza discende dal cielo alla terra (Zefiro con Flora) e l’ascesa dell’anima (Mercurio, le tre Grazie). Le Grazie sono solo apparentemente identiche: la Grazia posta al centro, più disadorna delle altre, coi capelli raccolti e senza gioielli, rappresenterebbe la Castità, vinta all’Amore (a lei Cupido indirizza la freccia) dalle altre due Grazie, che rappresentano la Bellezza (a destra), adorna ma composta e raccolta, e la Voluttà, a sinistra, la più energica e sensuale delle tre. La Castità del quadro botticelliano è di schiena, poiché volge le spalle al mondo per elevarsi al divino, e il suo percorso di elevazione, con il passaggio dalla castità all’amore, potrebbe essere paragonato a quello di Iulio, il protagonista delle Stanze. Appare perciò evidente che lo splendore dei quadri di Botticelli va al di là della semplice realizzazione di un programma artistico, e risponde alla nuova concezione del mondo diffusa nell’ambiente letterario e filosofico fiorentino, evidenziando un indissolubile intreccio tra Poliziano, Ficino, Botticelli.

Testi di riferimento: A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966; E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, Milano 1985.

Sandro Botticelli, Primavera, 1482 (Galleria degli Uffizi, Firenze).

La visione classicistica della letteratura 1 101


La Fabula di Orfeo e la nascita di un teatro umanistico per la corte

Lessico dramma satiresco

PER APPROFONDIRE

Dramma incentrato su tematiche derivate dalla mitologia o dalle vicende degli eroi, nel quale tuttavia il coro era formato da satiri, che vi aggiungevano un elemento burlesco (“satirico”, appunto).

Un’opera non tradizionale Al classicismo umanistico va ricollegata anche la Fabula di Orfeo, un testo teatrale (in latino fabula significa “opera teatrale”) composto da Poliziano in brevissimo tempo (addirittura in due giorni) su commissione del cardinale Francesco Gonzaga per una festa di corte. La Fabula di Orfeo è uno dei primissimi esempi in Italia di teatro non religioso, ispirato ai classici (➜ C7): il soggetto è il mito di Orfeo, tramandato dalle Georgiche di Virgilio e dalle Metamorfosi di Ovidio. L’ambientazione della prima parte del testo è il mondo pastorale, a cui appartengono i personaggi di Mopso e Aristeo. Su questo sfondo si innesta poi la parte principale della favola, cioè il dramma del mitico poeta Orfeo. Nel testo di Poliziano si alternano in una serie di scene momenti idillici, pastorali, drammatici, ma anche grotteschi (Poliziano avrebbe cercato secondo alcuni interpreti di riprodurre lo spirito dell’antico dramma satiresco , a cui rimanda anche l’ambientazione pastorale). L’ottica pessimista Il messaggio globale che si può intravedere nella Fabula non corrisponde a una visione positiva, ma sembra anzi ispirato a una sostanziale sfiducia negli stessi ideali umanistici, di cui l’opera rivela la sconfitta: la poesia, mito principale dell’Umanesimo nella sua funzione civilizzatrice (Orfeo è il poeta capace di ammansire le belve col suo canto), non è in grado di vincere il destino e la morte.

Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano Euridice, sposa del mitico cantore tracio Orfeo, muore morsa da un serpente mentre tenta di sfuggire alle insidie del pastore Aristeo. Orfeo scende nell’Ade, il regno dei morti, per riscattare la sposa: ottiene da Plutone, il dio dei morti, che essa possa ritornare in vita purché, mentre la riporta sulla terra, non si volti a guardarla. Ma Orfeo non resiste alla ten-

tazione e perde così per sempre la sposa. Disperato, decide di rifiutare per sempre l’amore per le donne, alle quali indirizza parole sprezzanti. Irate, le Baccanti lo uccidono facendone a pezzi il corpo. Così è presentata la vicenda dal dio Mercurio, cui Poliziano affida nel prologo della Fabula di Orfeo la funzione di introdurre per il pubblico la storia.

Silenzio. Udite. E’ fu già1 un pastore figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo. Costui amò con sì sfrenato ardore Euridice, che moglie fu d’Orfeo, 5 che sequendola un giorno per amore fu cagion del suo caso acerbo e reo2: perché, fuggendo lei3 vicina all’acque, una biscia la punse; e morta giacque. Orfeo cantando4 all’Inferno la tolse, 10 ma non poté servar la legge data5, che ’l poverel tra via6 drieto si volse7 sì che di nuovo ella gli fu rubata: però ma’ più amar donna non volse8, e dalle donne9 gli fu morte data. A. Poliziano, Stanze. Fabula di Orfeo, a c. di S. Carrai, Mursia, Milano 1988

102 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo

1 E’ fu già: ci fu un tempo. 2 fu cagion… reo: fu la causa del suo destino crudele e malvagio. 3 fuggendo lei: mentre lei fuggiva. 4 cantando: con la forza del suo canto. 5 non... data: non riuscì a osservare la regola imposta (da Plutone). 6 tra via: lungo la strada del ritorno. 7 drieto si volse: indietro si voltò. 8 però… volse: perciò non volle mai più amare una donna. 9 dalle donne: dalle Baccanti, dedite ai riti dionisiaci.


Opere di Angelo Poliziano

Stanze per la giostra

Fabula di Orfeo

poemetto ricco di rimandi classici ed elementi neoplatonici

favola teatrale di soggetto mitologico

Angelo Poliziano

T2

Il regno di Venere e dell’Amore Stanze per la giostra, ott. 68-72; 99-102

A. Poliziano, Poesie italiane, a c. di S. Orlando, Rizzoli, Milano 1988

Amore torna nel regno di Venere ad annunciare alla madre di aver fatto innamorare Iulio (personaggio dietro cui si cela Giuliano de’ Medici), prima refrattario alla passione amorosa. Il regno di Venere ha i caratteri di un mondo idillico, di pura bellezza, ispirato alla visione neoplatonica ficiniana. Nel passo emerge la visione positiva della natura, caratteristica del Rinascimento.

68 Ma fatta Amor la sua bella vendetta1, mossesi lieto pel negro aere a volo2, e ginne3 al regno di sua madre4 in fretta, ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo5: al regno ov’ogni Grazia6 si diletta, ove Biltà7 di fiori al crin fa brolo8, ove tutto lascivo, drieto9 a Flora, Zefiro vola e la verde erba infiora10. 69 Or canta meco un po’ del dolce regno, Erato bella11, che ’l nome hai d’amore12;

La metrica Ottave di endecasillabi con

6 Grazia: le tre Grazie sono divinità di-

schema di rime ABABABCC 1 Amor… vendetta: Amore si vendica di Iulio, avverso alla passione amorosa, e lo fa innamorare della bella Simonetta. 2 pel negro… a volo: soddisfatto, si mosse in volo attraverso l’aria scura. 3 ginne: andò. 4 sua madre: Venere. 5 ov’è … lo stuolo: dove c’è lo stuolo dei suoi piccoli fratelli, gli Amorini.

spensatrici di bellezza e gioia che accompagnano Venere. 7 Biltà: Beltà, Bellezza. 8 al crin… brolo: fa una ghirlanda ai capelli. 9 drieto: dietro. 10 ove… infiora: secondo il mito, narrato da Ovidio nei Fasti (V, 183-228), Zefiro, vento primaverile, si innamora della ninfa terrestre Clori, dalla bellezza disadorna e la trasforma nella bellissima Flora («tutto

lascivo, drieto a Flora»), adornata di fiori (infiora, “fa fiorire”). Il mito è raffigurato nella Primavera di Botticelli. 11 Erato bella: è la musa della poesia amorosa. L’invocazione alla musa sottolinea come la descrizione del regno di Venere costituisca quasi un poemetto a sé, inserito nelle Stanze. 12 che… amore: il nome “Erato” deriva dal sostantivo greco che indica “Amore”, cioè Eros.

La visione classicistica della letteratura 1 103


tu sola, benché casta13, puoi nel regno secura entrar di Venere e d’Amore; tu de’ versi amorosi hai sola il regno, teco sovente a cantar viensi Amore14; e, posta giù dagli omer la faretra15, tenta16 le corde di tua bella cetra. 70 Vagheggia Cipri un dilettoso monte, che del gran Nilo e sette corni vede e ’l primo rosseggiar dell’orizonte, ove poggiar non lice al mortal piede17. Nel giogo18 un verde colle alza la fronte19, sotto esso aprico20 un lieto pratel siede, u’21 scherzando tra’ fior lascive aurette22 fan dolcemente tremolar l’erbette. 71 Corona un muro d’or l’estreme sponde23 con valle ombrosa di schietti24 arbuscelli, ove in su’ rami fra novelle fronde25 cantano i loro amor soavi augelli26. Sentesi un grato27 mormorio dell’onde, che fan duo freschi e lucidi28 ruscelli, versando dolce con amar liquore, ove arma l’oro de’ suoi strali Amore29. 72 Né mai le chiome del giardino eterno tenera brina o fresca neve imbianca; ivi non osa entrar ghiacciato verno30, non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca; ivi non volgon gli anni il lor quaderno31, ma lieta Primavera mai non manca, ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega32, e mille fiori in ghirlandetta lega. 13 casta: pura, come tutte le muse. 14 teco… Amore: con te spesso Amore viene a cantare. 15 posta… faretra: deposta dalle spalle la faretra (l’astuccio contenente le frecce). 16 tenta: tocca, per ottenerne il suono. 17 Vagheggia… mortal piede: Un ameno (dilettoso, “che dà diletto”) monte, su cui non è lecito ai mortali salire, guarda l’isola di Cipro, da cui si vedono i sette rami del delta del grande fiume Nilo e il primo rosseggiare dell’orizzonte (l’aurora). Secondo il mito e la letteratura, Cipro è un’isola sacra a Venere, dove la dea sarebbe nata. 18 Nel giogo: Sulla cima del monte. 19 alza la fronte: si innalza.

20 aprico: soleggiato. 21 u’: dove (derivato dal latino ubi). 22 lascive aurette: dolci venticelli; lascivo

27 grato: gradito, piacevole. 28 lucidi: limpidi e brillanti per il sole. 29 versando… Amore: in cui scorrono ac-

significa “sensuale per amore”: nel regno di Venere, anche i venti, personificati, sono domati dall’amore. 23 Corona… sponde: Un muro d’oro cinge i margini del prato. 24 schietti: lisci, senza nodi. L’aggettivo evidenzia il nitido disegno degli alberi. 25 novelle fronde: fronde appena nate, primaverili. 26 soavi augelli: uccelli dalla voce armoniosa. Gli aggettivi utilizzati in queste ottave sottolineano l’atmosfera di incanto e soavità della scena.

que dolci e amare (come gli effetti dell’amore), nelle quali Amore tempra l’oro delle sue frecce (per renderle più efficaci). 30 ghiacciato verno: l’inverno con i suoi ghiacci. 31 ivi… quaderno: lì non si succedono le quattro stagioni; letteralmente: “gli anni non girano le pagine del loro quaderno”. 32 all’aura spiega: dispiega, sciolti, al vento. La Primavera è personificata nell’immagine di una bella fanciulla dai lunghi capelli, biondi e mossi.

104 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


[Nel giardino sono presenti diverse figure allegoriche – come la Speranza, il Desiderio, la Voluttà, l’Errore, il Sospetto e così via – che compongono il corteo di Venere e simboleggiano gioie e tormenti d’amore; poi Zefiro, tiepido e fertile vento primaverile, personificato, ovunque spiri, costella i prati di fiori d’ogni specie e colore. Inizia la descrizione vera e propria delle piante e degli animali del regno di Venere. Sulla cima del colle si trova un meraviglioso palazzo, opera artistica realizzata nell’officina di Vulcano. Sulle mura del palazzo sono raffigurate varie figure e scene mitologiche: l’evirazione di Urano da parte del figlio Saturno, la nascita delle Furie e dei Giganti dal suo sangue e infine la nascita di Venere dalla schiuma del mare.] 99 [...] e drento nata33 in atti vaghi e lieti una donzella non con uman volto34, da zefiri lascivi spinta a proda, gir sovra un nicchio, e par che ’l cel ne goda35. 100 Vera la schiuma e vero il mar diresti, e vero il nicchio e ver soffiar di venti36; la dea negli occhi folgorar vedresti, e ’l cel riderli a torno e gli elementi; l’Ore premer l’arena in bianche vesti, l’aura incresparle e crin distesi e lenti; non una, non diversa esser lor faccia, come par ch’a sorelle ben confaccia37. 101 Giurar potresti che dell’onde uscissi38 la dea premendo colla destra il crino39, coll’altra il dolce pome40 ricoprissi; e, stampata dal piè sacro e divino, d’erbe e di fior l’arena si vestissi41; poi, con sembiante lieto e peregrino42, dalle tre ninfe in grembo fussi accolta, e di stellato vestimento involta43. 33 drento nata: nata dalla schiuma (del mare). 34 una donzella … volto: una fanciulla (è Venere) con volto divino. 35 da zefiri… goda: spinta verso la riva da venti di Zefiro innamorati e capricciosi (lascivi) (si vede) andare sopra una conchiglia (nicchio) e sembra che il cielo stesso ne gioisca (perché con Venere è nata la Bellezza). 36 Vera… venti: è sottolineato il perfetto illusionismo dell’opera artistica, anche grazie all’anafora. 37 l’Ore… confaccia: vedresti le Ore cam-

minare sulla sabbia (per accogliere Venere dal mare) con vesti bianche e il vento increspare i loro capelli sciolti e ondulati (lenti); (vedresti) che il loro volto non è identico, ma neppure diverso, come si addice tra sorelle. Le Ore, del corteggio di Venere, sono le dee dell’ordine regolare della natura e dell’avvicendarsi ciclico delle stagioni; il loro numero può variare, a seconda di come viene suddiviso il tempo; spesso sono tre, corrispondenti a una divisione dell’anno in tre stagioni, primavera, estate e inverno. Nel quadro di Botticelli dedicato alla Nascita di Vene-

re, ispirato dai versi di Poliziano, soltanto l’Ora della Primavera accoglie Venere. 38 uscissi: come i seguenti ricoprissi, si vestissi, fussi accolta è retto da Giurar potresti che… 39 il crino: i capelli. 40 dolce pome: il seno. 41 stampata… vestissi: premuta dal piede sacro e divino, la sabbia (potresti giurare) si rivestisse d’erbe e di fiori. 42 peregrino: nobile e prezioso. 43 di stellato… involta: avvolta da una veste ornata di stelle.

La visione classicistica della letteratura 1 105


102 Questa con ambe man le tien sospesa sopra l’umide trezze una ghirlanda d’oro e di gemme orientali accesa44, questa una perla alli orecchi accomanda45; l’altra al bel petto e’ bianchi omeri intesa, par che ricchi monili intorno spanda, de’ quai solien cerchiar lor proprie gole, quando nel ciel guidavon le carole46. 44 Questa… accesa: La prima delle tre Ore tiene sospesa sulle trecce umide una ghirlanda d’oro e gemme orientali. 45 questa… accomanda: quella le appende ai lobi orecchini di perla.

46 l’altra… carole: l’altra, intenta (ad abbellire) il bel petto e le bianche braccia, sembra circondarli di ricchi monili (cioè collane e bracciali), dei quali le Ore erano solite cingere il loro collo quando in cielo guidavano le danze.

Analisi del testo La descrizione di un mondo ideale Il regno di Venere è il regno ideale della natura, permeata dalla bellezza. La descrizione si ispira alla concezione neoplatonica ficiniana, secondo cui Dio si manifesta nel mondo attraverso la bellezza, che ispira l’amore; ma poiché la fonte prima della bellezza è Dio, l’uomo non si appaga dell’amore terreno e si eleva alla neoplatonica sfera delle idee e alla divinità. Il regno di Venere descritto da Poliziano corrisponde al mondo platonico delle idee: è collocato fuori dal mondo materiale, sull’isola di Cipro, racchiuso da un muro dorato che impedisce l’accesso ai mortali; è fuori dal tempo, senza alternanza di stagioni, immerso in un’eterna primavera.

La visione positiva della natura In tale luogo idillico Poliziano pone gli archetipi di fiori, piante e animali che, come nel mito dell’età dell’oro, convivono pacificamente, senza che i più deboli debbano temere i più feroci. La descrizione, condotta secondo la scala ascendente delle realtà naturali, mette in evidenza la bellezza di ciascuna; i riferimenti mitici ad amori fra uomini e dei (Narciso, Giacinto, Clizia, Adone) sottolineano che, come riteneva Ficino, la bellezza e l’amore uniscono il mondo umano e quello divino. Nella visione rinascimentale di Poliziano la natura, che riceve l’impronta della bellezza divina, appare come una forza totalmente positiva.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto di ogni ottava, poi organizza le sintesi in un breve testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quali particolari caratterizzano il regno di Venere? E quali ne evidenziano la bellezza? ANALISI 3. Che cosa si può dire del tempo nel regno di Venere? A cosa è finalizzata tale rappresentazione?

Interpretare

SCRITTURA 4. Confronta le immagini presenti nelle ottave di Poliziano con la Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli (➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 100) evidenziando analogie e differenze (max 15 righe).

106 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


Angelo Poliziano

T3

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino Rime, CII

A. Poliziano, Poesie italiane, a c. di S. Orlando, Rizzoli, Milano 1988

AUDIOLETTURA

Questa ballata (nota anche come “ballata delle rose”), che fa parte delle Rime di Poliziano, è una delle liriche più celebri dell’intera età umanistica. Vi si ritrova l’invito, caro ai classici, a cogliere le gioie dell’amore finché si è giovani. Il motivo è associato all’immagine tradizionale della rosa che presto sfiorisce e che va dunque colta quando è nel suo massimo splendore. L’io lirico, a cui appartiene la voce che descrive la scena, è identificato in una fanciulla che si rivolge alle sue compagne.

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio1 in un verde giardino. Eran d’intorno vïolette e gigli fra l’erba verde, e vaghi fior novelli2 5 azzurri gialli candidi e vermigli: ond’io porsi la mano a côr3 di quelli per adornar e mie’ biondi capelli e cinger di grillanda el vago crino4. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino. Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo5, vidi le rose, e non pur d’un colore6: io colsi allor per empir tutto el grembo, perch’era sì soave il loro odore che tutto mi senti’ destar el core 15 di dolce voglia7 e d’un piacer divino. 10

I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

online

Per approfondire Dal “giardino paradiso” dell’età umanisticorinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi

I’ posi mente8: quelle rose allora mai non vi potre’ dir quant’eran belle: quale scoppiava della boccia9 ancora; 20 qual’eron un po’ passe e qual novelle10. Amor mi disse allor: «Va’, co’11 di quelle che più vedi fiorire in sullo spino». I’ mi trovai fanciulle, un bel mattino.

La metrica Ballata di endecasillabi secondo lo schema AB AB BX X; ripresa con rime XX

1 di mezzo maggio: alla metà di maggio. 2 vaghi fior novelli: bei fiori appena sbocciati.

3 côr: cogliere. 4 cinger... crino: inghirlandare i (miei) bei

8 I’ posi mente: Io fissai la mia attenzione. 9 scoppiava della boccia: era in piena

capelli; grillanda sta per “ghirlanda”.

fioritura. 10 qual’… novelle: alcune erano un po’ appassite e altre ancora in bocciolo. 11 Va’, co’: Vai, cogli.

5 un lembo: della veste. 6 non pur... colore: non di un solo colore. 7 voglia: desiderio amoroso.

La visione classicistica della letteratura 1 107


12 foglia: petalo. 13 mentre: fintantoché.

14 cogliàn: cogliamo (esortativo).

Quando la rosa ogni suo’ foglia12 spande, 25 quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a mettere in ghirlande, prima che sua bellezza sia fuggita: sicché, fanciulle, mentre13 è più fiorita, cogliàn14 la bella rosa del giardino. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino. 30

Analisi del testo Una struttura narrativa L’io lirico a cui è affidata l’enunciazione della ballata (che è una fanciulla) rievoca una particolare situazione di cui è stata protagonista, colta in una sequenza temporale che conferisce al testo un andamento narrativo. Si succedono i seguenti avvenimenti: – Un mattino di primavera la fanciulla si è ritrovata in un giardino pieno di fiori, che ella coglie per intessere una ghirlanda con cui adornarsi i capelli. – La sua attenzione è quindi attratta in particolare dalle rose di vari colori, che ella coglie e il cui profumo suscita in lei una disposizione al piacere amoroso. – Alla constatazione della multiforme bellezza delle rose (alcune ancora in boccio, altre in piena fioritura, altre ancora già quasi sfiorite) segue l’invito di Amore, personificato come era consueto nella tradizione della poesia amorosa, a cogliere le rose che stanno fiorendo. – Chiude la lirica la riflessione della fanciulla sulla fugacità della bellezza (della rosa, ma anche, implicitamente, della giovinezza), alla quale consegue l’esortazione rivolta alle fanciulle a cogliere la rosa quando è più in fiore (e cioè a godere delle gioie amorose fino a che sono giovani).

Il topos del locus amoenus e la dimensione simbolica La strutturazione del messaggio in sequenze temporali sembrerebbe implicare un carattere realistico: in realtà già l’uso del passato remoto e la particolarità del verbo scelto per l’incipit («I’ mi trovai») rimandano a una dimensione favolosa, indeterminata. Il paesaggio naturale evocato, pur denso di particolari coloristici, risponde in realtà al topos letterario, di derivazione classica, del locus amoenus, consueto nella letteratura umanistico-rinascimentale (➜ PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi, PAG. 93). In questo contesto idilliaco si inserisce, poi, a incrinare sottilmente l’edonismo (➜ SCENARI, PAG. 29) che pervade la scena, il tema, sempre di derivazione classica, della caducità della giovinezza mediato dall’immagine della rosa che sfiorisce rapidamente.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua le parti di cui si compone il testo e sintetizza il contenuto di ognuna di esse. COMPRENSIONE 2. Quale funzione simbolica ha il riferimento alla rosa? LESSICO 3. Rintraccia, nella ballata, gli aggettivi che il poeta utilizza per descrivere il giardino. Poi indica e spiega, in un breve testo, per quali ragioni questa descrizione rimanda al topos del locus amoenus (max 15 righe).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Svolgi un confronto fra questa ballata e la Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico (➜ T1 ) sotto l’aspetto tematico e formale: quali analogie e quali differenze rilevi?

108 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


4 Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia La corte aragonese e l’Accademia Pontaniana Con Jacopo Sannazaro, autore di un’opera di risonanza europea, l’Arcadia, ci troviamo in un altro ambiente culturale dell’Italia quattrocentesca, ovvero la corte di Napoli, a cui imprime grande impulso la personalità di Alfonso d’Aragona. Alla sua corte affluiscono grandi personalità dell’umanesimo, come Lorenzo Valla e Giovanni Pontano. All’attività di quest’ultimo si lega l’Accademia Pontaniana, una delle più vivaci del tempo, della quale entra a far parte anche il Sannazaro. online

Per approfondire Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia Parte II, cap. lxvii

online

Interpretazioni critiche Maria Corti Il codice bucolico e l’Arcadia di Sannazaro

Lessico ecloghe Componimenti realizzati in forma di dialogo, tipici della poesia di genere bucolico e con contenuti di carattere allegorico.

La vita Nato a Napoli nel 1457, Sannazaro vive l’infanzia e l’adolescenza nel feudo materno presso Salerno. Il contatto con una realtà lontana dalla civiltà cittadina e una natura primitiva e selvaggia non mancherà di influenzare il ragazzo, che al patrimonio di immagini e sensazioni assorbite in quegli anni attingerà nell’ideazione della sua Arcadia. Tornato a Napoli, si dedica allo studio del latino e del greco ed è accolto nell’Accademia del Pontano (assume, com’era in uso, un nome fittizio: Actius Syncerus). Quando il re di Francia Luigi XIII conquista il regno di Napoli (1501), Sannazaro segue Federico d’Aragona nell’esilio in Francia. Alla morte del re, rientra a Napoli dove muore (1530). L’Arcadia e il genere bucolico Pubblicata nella forma definitiva nel 1504 a Napoli, dopo una stesura durata oltre vent’anni, l’Arcadia ha subito grande successo (si avranno più di 60 edizioni nel solo Cinquecento), diventando il modello per la letteratura europea d’argomento pastorale. Alla fine del Seicento la più celebre delle Accademie assumerà proprio il nome di Arcadia. L’Arcadia è un “romanzo pastorale”, che si iscrive nel genere bucolico di grande fortuna nel secondo Quattrocento e che, in varie forme e con varie funzioni, percorre la letteratura italiana almeno fino al Settecento. Il genere bucolico, come si deduce dall’etimologia del termine, fa riferimento alla vita dei pastori (bucolico deriva dal latino bucolicus, a sua volta dal greco boukolikós “pastorale”), rappresentata però in modo non realistico, bensì fortemente stilizzato e idealizzato. Il primo modello di tale rappresentazione si ritrova in Teocrito, poeta siracusano di età ellenistica, autore di trenta idilli; ma fondamentali nella codificazione del “codice bucolico” sono soprattutto le Bucoliche, dieci ecloghe del poeta latino Virgilio (70-19 a.C.). La struttura e l’argomento L’Arcadia di Sannazaro è un prosimetrum (ovvero un’opera in parte in prosa, in parte in poesia): nella versione definitiva, pubblicata nel 1504, il lavoro è costituito da 12 parti narrative e 12 ecloghe. La trama mescola liberamente realtà e finzione su uno sfondo autobiografico, che viene in primo piano a partire dalla settima prosa, quando cioè l’autore esplicita la sua identificazione con Sincero, il pastore che rappresenta la voce narrante in prima persona. Mentre le prime sei prose descrivono il mondo dell’Arcadia (➜ T4 ), per evocare un clima, un’atmosfera, nella settima Sincero-Jacopo narra la propria vicenda personale: se n’è andato in Arcadia per sfuggire alle pene d’amore e lì vive con altri pastori e pastorelle, che guidano gli armenti e si dedicano a gare poetiche. Si intersecano nella principale vicenda, quella di Sincero, racconti minori dove si allude anche a fatti e persone della vita politica e culturale aragonese. Un sogno premonitore sulla morte dell’amata porta Sincero ad abbandonare l’Arcadia per tornare a Napoli attraverso un misterioso viaggio sotterraneo accompagnato da una ninfa. Giunto a destinazione, udirà il canto di due pastori per la La visione classicistica della letteratura 1 109


morte della donna amata. Conclude l’opera l’annuncio dell’abbandono della poesia pastorale da parte del poeta (➜ T5 OL). Perché la cultura umanistica recupera il mito arcadico? Nella realtà l’Arcadia era una regione del Peloponneso, montuosa e inospitale, ma nella rappresentazione letteraria viene trasformata in un luogo idillico, quasi fuori dal tempo e dallo spazio, nel quale è possibile vivere felici in modo semplice e naturale all’interno di una dimensione alternativa alla durezza della vita, alla sofferenza, alla guerra. La ripresa in età umanistica di questo mito di evasione può essere spiegata con il progressivo distacco dalla realtà degli intellettuali, isolati nel microcosmo della corte: la frattura tra una cultura elitaria, sempre più raffinata e aristocratica, e il gusto della gente comune che caratterizza l’età umanistico-rinascimentale, il progressivo disinteresse per i temi politici, l’abdicazione a una funzione civile della letteratura possono ben spiegare scelte tematiche come quelle della letteratura pastorale. Essa è, evidentemente, destinata per sua natura a un pubblico ristretto, capace di cogliere le sottili allusioni alla vita stessa della corte celate al di sotto del codice bucolico. Un codice in cui il mondo della campagna, come si è detto, è raffigurato in modo idilliaco (al contrario di quanto avviene, ad esempio, nei testi teatrali di Ruzante, che ritraggono la vita dei contadini nella durezza della vita quotidiana (➜ C7).

Jacopo Sannazaro

T4

L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo Arcadia

J. Sannazaro, Arcadia, in Opere volgari, a c. di A. Mauro, Laterza, Bari 1961

La prima prosa dell’Arcadia, posta dopo un prologo iniziale, è dedicata alla descrizione del luogo in cui Sannazaro ambienta il suo romanzo pastorale. Nell’immaginario letterario, a partire dalle Bucoliche virgiliane, l’Arcadia diviene un luogo idillico e incontaminato, al riparo dai guasti della civiltà, in cui gli uomini vivono come nella mitica età dell’oro.

Giace nella sommità di Partenio, non umile1 monte de la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso però che2 il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive3 pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno4, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare ver5 dura5. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o quindici alberi, di tanto strana et eccessiva6 bellezza, che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli7. Li quali alquanto distanti, et in ordine non artificioso8 disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono9. Quivi senza nodo veruno10 si vede il drittissimo abete, nato 10 a sustinere i pericoli del mare11; e con più aperti rami la robusta quercia e l’alto 1 non umile: alto. È una litote. 2 però che: dato che. 3 lascive: sfrenate per l’irrequietezza. 4 pascesseno: pascolassero. 5 verdura: vegetazione. 6 strana et eccessiva: insolita ed eccezionale.

7 giudicarebbe… formarli: riterrebbe che la natura avesse operato con intenzione

artistica per dare loro forma, in modo piacevolissimo. 8 non artificioso: naturale. È una litote. 9 annobiliscono: rendono nobile. Il verbo, posto alla fine del periodo con una costruzione sintattica latineggiante, sottolinea come il luogo sia naturale, ma nobilitato da una bellezza raffinata e quasi artistica.

110 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo

10 senza nodo veruno: senza nodosità. 11 nato… mare: naturalmente adatto per affrontare (sustinere) i pericoli della navigazione. Cioè adatto per costruire navi; la descrizione dell’abete, come quella degli altri alberi, ricorda da vicino il Regno di Venere e di Amore di Poliziano, I 82,1-2: «Cresce l’abeto schietto e sanza nocchi / da spander l’ale a Borea in mezzo l’onde».


frassino e lo amenissimo platano vi si distendono, con le loro ombre non picciola parte del bello e copioso12 prato occupando. Et èvi13 con più breve fronda l’albero, di che Ercule coronar si solea, nel cui pedale le misere figliuole di Climene furono transformate14. Et in un de’ lati si scerne15 il noderoso castagno, il fronzuto bosso e 15 con puntate16 foglie lo eccelso17 pino carico di durissimi frutti; ne l’altro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia18 e ’l fragile tamarisco19, insieme con la orientale palma, dolce et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo presso un chiaro fonte sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete20, nel quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso Apollo non si sdegnarebbe 20 essere transfigurato21. Né sono le dette piante sì discortesi22, che del tutto con le lor ombre vieteno i raggi del sole entrare23 nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente gli riceveno24, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda grandissima recreazione25. E come che di ogni tempo piacevole stanza vi sia26, ne la fiorita primavera più che in tutto il restante anno piacevolissima vi si ritruova. 25 In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti convenire27, e quivi in diverse e non leggiere pruove28 esercitarse29; sì come in lanciare il grave palo30, in trare con gli archi al versaglio31, et in addestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte, piene di rusticane insidie32; e ’l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro, non senza pregio e lode del vincitore33. 12 copioso: ricco d’erba. 13 Et èvi: E vi è. 14 l’albero… transformate: l’albero (il pioppo) di cui Ercole soleva incoronarsi e nel cui tronco (pedale) furono trasformate le infelici figlie di Climene. Le fanciulle furono trasformate dopo aver pianto in modo inconsolabile il fratello Fetonte che, incapace di guidare il carro del Sole, era morto precipitando nel Po (il mito è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, II, vv. 340-366). 15 si scerne: si distingue. 16 puntate: appuntite, aghiformi. 17 eccelso: altissimo. 18 tiglia: tiglio. È femminile, a imitazione del latino, in cui i nomi delle piante sono femminili; incorruttibile per la durezza del suo legno. 19 tamarisco: altro nome della tamerice. 20 imitatore… mete: simile a cuspidi, guglie, obelischi. 21 nel quale… transfigurato: nel quale non soltanto Ciparisso ma, se è lecito dirlo, lo stesso (esso) Apollo non disprezzerebbe di essere trasformato. Secondo il mito narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (X, vv. 106-142), Ciparisso era un giovane amato da Apollo; avendo per errore ucciso un cervo sacro, se ne disperò fino a morire; Apollo, allora, lo trasformò nella pianta mortuaria, vicina a chi soffre. 22 discortesi: scortesi. 23 vieteno… entrare: impediscano ai raggi del sole di entrare. 24 gli riceveno: li ricevono. 25 da quelli… recreazione: da quelli (i raggi del sole) non riceva grandissimo sollievo (riprendendo vigore per l’ombrosa frescura).

26 come che… sia: sebbene il soggiorno

32 rusticane insidie: attacchi rustici,

in quel luogo sia piacevole in ogni tempo. 27 convenire: radunarsi. 28 non leggiere pruove: gare impegnative. È una litote. 29 esercitarse: esercitarsi. 30 il grave palo: il pesante giavellotto. 31 in trare… versaglio: nel tirare al bersaglio (versaglio: consonantismo meridionale) con gli archi.

contadineschi (non perfezionati dalla tecnica). 33 ’l più… vincitore: più spesso (si esercitavano) nel cantare e nel suonare a gara (a pruova, con allusione al canto amebeo delle egloghe, cioè al canto alternato di due pastori) le zampogne, approvando e lodando il vincitore.

Sandro Botticelli, Venere e le tre Grazie offrono doni a una giovane, affresco, 1486 ca. (Museo del Louvre, Parigi).

La visione classicistica della letteratura 1 111


Analisi del testo Il mondo idillico dell’Arcadia Il testo, posto all’inizio dell’Arcadia, è prevalentemente descrittivo: presenta le caratteristiche del luogo arcadico e le occupazioni dei pastori che vi soggiornano. Il luogo, chiuso e isolato, è caratterizzato da un’incantata e idillica serenità; è fresco e ombroso, ameno e piacevole. Il catalogo delle piante che vi si trovano, con le loro connotazioni di bellezza e armonia, e con l’evocazione dei miti ad esse legate, ricorda il Regno di Venere e dell’Amore di Poliziano, con una differenza: mentre al regno di Venere i mortali non possono accedere, qui i pastori arcadi si radunano, dedicandosi a varie attività. Come si nota già nella prosa iniziale, nessuna di queste occupazioni è però lavorativa, ma tutte sono intese al piacere e allo svago. L’Arcadia di Sannazaro, che per la prima volta raccoglie in un romanzo gli spunti offerti da una lunga tradizione di poesia bucolica, appare così come un mondo alternativo a quello reale, simile a quello mitico dell’età dell’oro. In Arcadia gli uomini sono semplici e buoni, e vivono senza preoccupazioni pratiche, in armonia con la natura; non vi sono conflitti, né ambizioni e rivalità, né guerre e violenze, ma amicizia, lealtà e gentilezza reciproche. L’Arcadia rappresenta perciò un’“isola” di convivenza armoniosa e pacifica in cui si rifugia chi, come gli innamorati infelici e i poeti, è troppo sensibile per affrontare il mondo reale.

La lingua e lo stile Caratteristica stilistica fondamentale dell’Arcadia è la musicalità, evidente nel ritmo lento, estatico e incantato nel brano, in cui, a rallentare la cadenza, predominano gli aggettivi (per lo più anteposti ai nomi e spesso al grado superlativo, con un effetto musicale di rima: verdissima, drittissimo, amenissimo), gli incisi («se io non mi inganno»), le litoti. Le connotazioni idilliche del paesaggio sono sottolineate dai numerosi termini appartenenti ai campi semantici della bellezza e del piacere.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del brano (max 10 righe). ANALISI 2. Rintraccia, nel brano, i frequenti richiami alla mitologia classica. Quale funzione assolvono nel testo? 3. Con quali caratteristiche è descritto il locus amoenus? Individua nel testo gli schemi convenzionali che fanno del paesaggio un topos letterario.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Alla fortuna del mito dell’Arcadia corrisponde il bisogno di evasione da una difficile realtà storica verso una dimensione idillica. Pensi che esistano dei corrispettivi moderni del mito arcadico? E a quali bisogni sociali ti sembrano corrispondere? Dopo aver riflettuto sul tema, svolgi le tue considerazioni in un testo argomentativo.

online T5 Jacopo Sannazaro La morte dell’Arcadia: l’epilogo funereo dell’opera Arcadia

112 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


5 La civiltà del trattato Il trattato Nell’età umanistico-rinascimentale il genere letterario dominante è il trattato, anch’esso di derivazione classica. Nel periodo umanistico si utilizza il latino e i temi ricorrenti si ricollegano alla visione antropocentrica: la dignità dell’uomo e la sua centralità nell’universo; la formazione culturale e l’educazione; il tema politico. In volgare sono scritti I libri della famiglia di Leon Battista Alberti, composti tra gli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento. Argomenti e struttura Nel primo Cinquecento emerge la discussione sui modelli di comportamento riconducibili al posto centrale che nella società e nell’immaginario assume la figura del cortigiano. Si diffondono inoltre trattati sul tema dell’amore o sulla questione della lingua che gli scrittori debbano usare. I trattati prodotti nell’età umanistico-rinascimentale sono in genere strutturati sul dialogo tra più personaggi, reali figure della scena culturale, ognuno dei quali si fa portavoce di una determinata posizione ideologica.

Il trattato Gli Asolani e la divulgazione dell’amor platonico La rappresentazione dell’amore Nella letteratura dell’epoca ha un posto rilevante, anche grazie al fenomeno del petrarchismo (➜ C2), una rappresentazione idealizzante dell’amore, influenzata dalla filosofia neoplatonica. Nel sancire la preminenza di questo modello ha un ruolo di primo piano Pietro Bembo, vero protagonista del dibattito letterario del primo Rinascimento: con il trattato Gli Asolani, l’intellettuale propone una visione spiritualizzata e cristiana dell’amore; con le Rime avvia il fenomeno del petrarchismo nella lirica; con le Prose della volgar lingua, infine, come si è visto, impone per la lingua letteraria il modello del fiorentino (➜ SCENARI, PAG. 70). Gli Asolani Pubblicato nel 1505 da Aldo Manuzio (una seconda edizione, riveduta, si avrà nel 1530) Gli Asolani costituiscono il trattato sull’amore più importante e più noto.

Tiziano Vecellio, Amor sacro e Amor profano, olio su tela, 1515-1516 (Galleria Borghese, Roma).

La visione classicistica della letteratura 1 113


Il dialogo, in tre libri, si immagina avvenuto ad Asolo (da qui il titolo) alla corte di Caterina Cornaro, regina di Cipro esule nel territorio veneziano. Vengono messe a confronto diverse tesi riguardo all’amore, affidate a differenti portavoce, senza che l’autore prenda espressamente posizione per una di esse, come è frequente nel trattato umanistico-rinascimentale. Nel primo libro Perottino enuncia la tesi della negatività dell’amore, che provoca sofferenza; nel secondo Gismondo contesta la tesi che l’amore provochi infelicità ed esalta la gioia amorosa; nel terzo Lavinello confuta le tesi precedenti, cercando di distinguere l’amore malvagio (quello sensuale, destinato a provocare sofferenza) dall’amore buono. Riguardo a quest’ultimo, Lavinello si fa portavoce della concezione neoplatonica del sentimento: esso è contemplazione intellettuale della bellezza ideale di cui in vario modo sono partecipi i corpi e le anime delle creature terrene. Nella seconda parte del terzo libro, Lavinello riporta infine la posizione di un eremita, che considera l’amore come desiderio di bellezza, sebbene non di quella terrena, bensì della bellezza divina e trascendente, la sola che può veramente appagare l’anima immortale dell’uomo (➜ T6 ). Anche se l’autore non prende una netta posizione, è indicativa di per sé la particolare collocazione delle diverse tesi nel trattato, che implica la progressione verso una spiritualizzazione sempre più accentuata del sentimento amoroso. Al lettore resta impressa più delle altre l’ultima posizione, cioè la severa visione dell’amore enunciata dall’eremita e il suo ammonimento a Lavinello (ma indirettamente ai lettori) a rivolgersi all’immensità di Dio anziché alle illusorie bellezze terrene.

Pietro Bembo Gli Asolani

pubblicato nel 1505; seconda edizione nel 1530

verso una concezione spiritualizzata dell’amore

opera in 3 libri

3 personaggi, 3 tesi sull’amore

114 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo

poemetto ricco di rimandi classici ed elementi neoplatonici


Pietro Bembo

T6

L’amore spiritualizzato Gli Asolani III, xvii passim

P. Bembo, Gli Asolani, Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Utet, Torino 1960

Lavinello, uno degli interlocutori, ha appena esposto la teoria platonica dell’amore come desiderio di bellezza ideale. Un eremita, di cui Lavinello riporta le parole, si fa sostenitore di una concezione dell’amore che ne accentua ulteriormente la dimensione spirituale, proiettando l’amore terreno verso l’amore divino. Ecco una parte del discorso dell’eremita.

E per venire, Lavinello, eziandio a’ tuoi amori1, io di certo gli loderei e passerei nella tua opinione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi, e non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare e meno fallibile intesi2. Perciò 5 che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio3; e la vera bellezza non è umana e mortale, che mancar possa4, ma è divina e immortale, alla qual per avventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle sieno in quella maniera, che essere debbono, riguardate5. [...] Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare6. 10 Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina eterna bellezza prende qualità e stato7, quando di queste alcuna ne vien loro innanzi8, bene piacciono esse loro e volentieri le mirano, in quanto di quella sono immagini e lumicini9, ma non se ne contentano né se ne sodisfano tuttavia10, pure della eterna e divina, di cui esse sovengono loro e che a cercar di 15 se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola, desiderosi e vaghi11. Perché sì come quando qualcuno, in voglia di mangiare preso dal sonno e di mangiar sognandosi, non si satolla […] così noi, mentre la vera bellezza e il vero piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre che in queste bellezze corporali terrene e in questi piaceri ci si dimostrano aggogniando, non pasciamo l’animo ma 20 lo inganniamo12.

1 per venire... a’ tuoi amori: per parlare adesso anche della visione dell’amore da te enunciata. 2 se essi... intesi: se essi (gli amori) t’invitassero a desiderare un oggetto che ti recasse più giovamento (giovevole obbietto) di quello che invece ti prospettano (ti mettono innanzi) e ti piacessero non tanto per sé stessi, quanto perché ci possono far tendere (fare... intesi) a un fine (segno) migliore e meno ingannevole. 3 Perciò che... disio: Poiché l’amore elevato (il buono amore) non è soltanto desiderio di bellezza, come tu credi, ma è desiderio della vera bellezza. La precisazione è fondamentale per definire la posizione dell’eremita riguardo al tema. 4 che mancar possa: tale che possa venir meno.

5 dove elle… riguardate: qualora esse (cioè le bellezze terrene) siano contemplate nella maniera dovuta. 6 Essi, perciò che… contentare: Poiché essi (cioè i nostri animi) sono immortali, non possono essere appagati da una cosa mortale. 7 Ma perciò… qualità e stato: ma poiché, come tutte le stelle prendono luce dal sole, così quanto esiste di bello al di là di essa (della divina eterna bellezza), da essa prende qualità e stato. 8 quando… innanzi: quando qualcuna di queste bellezze terrene si presenta agli animi. 9 di quella… lumicini: sono immagini e barlumi della bellezza divina. 10 ma non se ne… tuttavia: ma non possono né accontentarsi né appagarsi.

11 pure… vaghi: desiderosi e bramosi solo della bellezza eterna e divina, di cui esse (le bellezze terrene) risvegliano il ricordo e che con un invisibile pungolo induce sempre gli animi a ricercarla. 12 Perché sì come... lo inganniamo: Perché, come quando qualcuno, sorpreso dal sonno mentre ha desiderio (in voglia di) di mangiare e sognando di farlo, non si sazia; così, mentre cerchiamo la vera bellezza e il vero piacere, che non si trovano sulla terra, non saziamo l’animo ma lo inganniamo desiderando ardentemente (aggogniando) le parvenze della bellezza vera e del vero piacere (le loro ombre) che in queste bellezze fisiche terrene e in questi piaceri ci si presentano.

La visione classicistica della letteratura 1 115


Analisi del testo Tra platonismo e ascetismo medievale Nelle parole dell’eremita non manca l’influenza della concezione platonica, ma ad essa si associa la riproposizione della tradizione ascetica medievale. Alla visione dell’amore come desiderio di bellezza ideale, esposta da Lavinello, l’eremita contrappone la precisazione che l’amore è desiderio di vera bellezza, che non appartiene alla dimensione terrena, dove tutto è caduco e instabile, per quanto armoniosa possa essere la bellezza contemplata. Le bellezze terrene sono solo barlumi (immagini e lumicini) dell’eterna bellezza e non possono appagare l’uomo, che deve guardare oltre di esse. L’eremita propone dunque un passaggio ulteriore rispetto al neoplatonismo di Lavinello, riconducendo l’amore alla dimensione cristiano-trascendente.

Uno stile classicheggiante Lo stile è ispirato a un ideale estetico di raffinata armonia: la sintassi, latineggiante, segnata da inversioni che conferiscono un andamento ritmico alla frase, è modellata su quella del Boccaccio, che il Bembo nelle Prose della volgar lingua considererà l’esempio più alto per la prosa volgare; il lessico è scelto e ricercato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Come può essere sintetizzata la tesi dell’eremita sulla concezione dell’amore? LESSICO 2. Trasponi in italiano attuale il passo da «Essi, perciò che» a «desiderosi e vaghi» (rr. 9-15). Quali accorgimenti hai dovuto operare? Come hai proceduto nel tuo lavoro? STILE 3. Individua i paragoni con cui l’eremita, nelle rr. 10-20, sostiene la propria argomentazione. Che cosa vogliono dimostrare?

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. L’eremita in parte condivide e in parte critica le posizioni di Lavinello. Quale componente ascetico-medievale persiste nel discorso dell’eremita? Argomenta la tua risposta facendo riferimenti al testo.

Il Cortegiano di Baldesar Castiglione: l’identikit del perfetto gentiluomo di corte La biografia Appartenente a una famiglia della nobiltà feudale padana (come già Boiardo e l’umanista Pico della Mirandola), Baldesar Castiglione (1478-1529) si dedica in modo approfondito agli studi umanistici. Frequenta la corte di Ludovico il Moro a Milano, nello stesso periodo in cui vi opera anche Leonardo come regista di celebrate scenografie per le feste di corte. Entra poi al servizio della corte di Mantova e in seguito di quella di Urbino, che costituisce lo sfondo del trattato del Cortegiano; soprattutto al servizio dei Della Rovere, signori di Urbino, riveste ruoli diplomatici importanti. Nel 1516 torna presso i Gonzaga e lo attendono nuovi difficili incarichi in uno scenario politico sempre più fosco. Decide allora di mettersi al riparo dall’incertezza della situazione politica: intraprende la carriera ecclesiastica e si pone al servizio della diplomazia papale, ricoprendo incarichi prestigiosi e di grande responsabilità. Nel 1524 è nunzio pontificio presso Carlo V. Quando Castiglione muore a Toledo nel 1529, due anni dopo il sacco di Roma (che fu accusato di non aver saputo prevedere), l’imperatore in persona piange la morte di «uno dei migliori cavalieri del mondo».

116 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


Il perfetto cortigiano Il libro del Cortegiano è un trattato che si propone di descrivere la figura del perfetto cortigiano: il modello umano presentato dal Castiglione sintetizza le qualità ritenute importanti in quel tempo e risulta sicuramente idealizzato, ma questo non vuol dire che non abbia effettivi riscontri oggettivi, che l’autore ben conosceva per aver prestato servizio in varie corti italiane e straniere. La scelta dialogica e la figura simbolica del cerchio Il Cortegiano è un trattato dialogico, una tipologia testuale molto praticata nell’età umanistico-rinascimentale e non certo a caso: la cultura di corte amava infatti autorappresentarsi nella consuetudine ad essa più congeniale, ovvero nella “civile conversazione”, garbato scambio di idee tra persone simili per cultura e stile di vita. Quasi a rimarcare la comune identità degli interlocutori (tutti appartenenti alla medesima realtà) e l’armonica coesione del gruppo, Castiglione (e lo stesso fa il Bembo negli Asolani) fa sedere i protagonisti in cerchio, proprio come i giovani della brigata del Decameron :«ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio».

Raffaello, Baldesar Castiglione, olio su tela, 1514-1515, (Louvre-Lens, Lens).

Il tempo, il luogo, l’occasione, gli interlocutori Il dialogo è ambientato alla corte di Urbino, in cui l’autore aveva vissuto anni felici, in un tempo (1507) ormai lontano da quello in cui scrive: da qui l’affiorare di un tono qua e là malinconico, da qui anche l’immagine idealizzata di quel mondo come luogo perfetto e armonioso che apre l’opera (➜ SCENARI, D11a ). Il dialogo è iscritto in un contesto situazionale preciso: una sera, alla corte di Urbino, ci si chiede come passare piacevolmente la serata e si decide di accettare la proposta di uno dei cortigiani, Federico Fregoso, di definire la figura del perfetto cortigiano. La conversazione, alleggerita da varie digressioni e motti piacevoli, si svolge sempre di sera (in tutto quattro serate), in una sorta di tempo sospeso, lontano dagli impegni della vita pratica, legandosi strettamente alla dimensione della festa, che segue sempre i dialoghi. Le conversazioni riprodotte nel trattato si svolgono nelle stanze private della duchessa Elisabetta: una scelta che testimonia il ruolo di primo piano che la gentildonna, la donna di palazzo, esercitava all’interno della corte rinascimentale (➜ PER APPROFONDIRE Il libro del cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei, PAG. 118). Tra gli interlocutori figurano personaggi illustri del tempo come Giuliano de’ Medici, il Bembo e il Bibbiena (non figura invece l’autore, che si trova in Inghilterra nel periodo in cui si immagina avvenuto il dialogo). Le qualità del perfetto cortigiano L’obiettivo ambizioso nel trattato è quello di offrire un modello umano in grado di costituire un punto di riferimento comportamentale per l’aristocrazia. Il cortigiano perfetto (tratteggiato nei primi due libri) unisce le tradizionali competenze del cavaliere (la perizia nelle armi) alle nuove competenze che venivano esaltate dalla pedagogia umanistica: infatti deve possedere una cultura in ambito letterario, artistico e filosofico, ma deve anche saper suonare e danzare (la musica e la danza avevano un ruolo assai rilevante nelle feste della corte). Le prerogative più importanti sono il costante autocontrollo, il senso della misura, l’equilibrio; i difetti peggiori l’esibizionismo e l’affettazione, cui viene

La visione classicistica della letteratura 1 117


contrapposta la virtù positiva della sprezzatura (neologismo dell’autore), una disinvoltura che fa sembrare naturale e spontaneo ciò che invece può essere frutto di studio e impegno: una qualità sofisticata, che può forse essere resa dal francese nonchalance (➜ T7a ). Secondo il critico Giorgio Patrizi, il Cortegiano può essere letto come immagine metaforica di un’epoca in cui sono i valori estetici a fondare quelli etici, in cui anche il comportamento diventa “arte”, l’apparire è fondamentale rispetto all’essere e un gesto, un atteggiamento sono valutati sulla base dell’effetto che producono. Il ruolo politico del cortigiano-consigliere del principe Nel quarto libro si parla dei rapporti tra il principe e il cortigiano, che si qualifica in questa parte del trattato come consigliere fidato del principe, con il difficile compito di indirizzare le sue scelte politiche verso il bene, la giustizia, la pace (➜ T7b ). Anche questa parte del trattato rispecchia la realtà del tempo: l’intellettuale di corte era infatti spesso anche un diplomatico (come lo stesso Castiglione). Ai governanti erano richieste particolari abilità nelle relazioni politiche, il che li induceva a ricorrere a persone colte e avvedute, competenti nello scrivere e nel parlare: nella difficile situazione italiana, la diplomazia si qualificava infatti sempre di più come strumento fondamentale per mantenere l’equilibrio tra le diverse potenze. Due importanti digressioni Lo stretto legame che l’opera del Castiglione stabilisce con la cultura rinascimentale si evidenzia attraverso la presenza nell’opera (rispettivamente nel I e IV libro) di due digressioni che riguardano altrettanti nodi fondamentali del dibattito culturale coevo: la questione della lingua e il tema dell’amore platonico. Per quanto riguarda la questione della lingua (➜ SCENARI, PAG. 70), la posizione del Castiglione differisce notevolmente dalla tesi sostenuta dal Bembo (che è a favore di una lingua arcaizzante modellata sui grandi trecentisti toscani): per l’autore del Cortegiano, occorre privilegiare – sia nell’uso letterario sia in quello quotidiano – la lingua che deriva dall’apporto linguistico di tutte le corti d’Italia (è la tesi della cosiddetta lingua “cortigiana”). Per quanto riguarda il tema dell’amore platonico, certamente centrale anche nelle reali conversazioni di corte, proprio a Pietro Bembo (autore dell’opera Gli Asolani) è messa in bocca la difesa dell’amore platonico, mezzo di elevazione per l’uomo che, contemplando la bellezza, può innalzarsi alla conoscenza del sommo Bene.

PER APPROFONDIRE

I trattati sul comportamento delle donne Nel generale processo di raffinamento dei costumi che caratterizza le corti italiane tra Quattrocento e Cinquecento, svolgono un ruolo di primo piano le donne della corte, a cominciare dalle principesse e duchesse, consorti dei signori. La “civiltà delle buone maniere”, che trasforma il

Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei Nel 1528 il tipografo Aldo Manuzio stampa a Venezia, in un’elegante edizione, Il libro del Cortegiano di Baldesar Castiglione, portato a compimento dopo una lunga e laboriosa elaborazione (1513-1524). La diffusione dell’opera in Italia fu vasta e rapida, ma davvero incredibile fu il successo del trattato all’estero: 60 edizioni tra il 1528 e il 1619 nelle principali lingue del continente, un best seller europeo! Molti peraltro lessero il trattato in italiano: nel Cinquecento il mito della cultura italiana rendeva quasi obbligatorio conoscere la

nostra lingua se si voleva essere considerati persone colte. Lo lesse entusiasta Carlo V, lo lessero Montaigne, Thomas Cromwell, Cervantes e centinaia di diplomatici e umanisti circolanti nelle varie corti europee. Il trattato di Castiglione contribuì così in modo determinante a formare il prototipo del gentiluomo di mondo, fornendo alle aristocrazie europee un codice di comportamento elegante e raffinato e contribuendo a diffondere l’immagine del Rinascimento italiano come modello insuperabile di civiltà.

118 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


cavaliere in garbato cortigiano, dall’Italia si diffonde in tutta Europa anche grazie alle principesse andate spose a sovrani europei: ad esempio Beatrice d’Aragona, sposa del re d’Ungheria. Della “donna di palazzo” parla espressamente il terzo libro del Cortegiano e, del resto, dalla fine del Quattrocento in avanti sono molto diffusi i trattati che teorizzano le modalità del comportamento femminile, sempre attraverso un processo di marcata idealizzazione. Molto vicino cronologicamente al Cortegiano è il trattato di Galeazzo Flavio Capella, Della eccellenza et dignità delle donne, stampato a Venezia nel 1526, il De la Nobiltà e preccellentia del femminile sesso (forse 1530) di Heinrich Cornelius Agrippa, il Dialogo della bella creanza delle donne (1539) di Alessandro Piccolomini, La nobiltà delle donne (1549) di Ludovico Domenichi e altri ancora. Influenti donne di palazzo La donna di palazzo che più è capace di contrassegnare, con la sua personalità, la vita della corte è la colta Isabella d’Este (➜ EDUCAZIONE CIVICA Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este, PAG. 121); altre influenti figure femminili sono: Beatrice d’Este, sorella di Isabella e sposa di Ludovico il Moro a Milano; Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino (➜ SCENARI, D11a ) celebrata nel Cortegiano; la celeberrima Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara; Veronica Gambara, una poetessa che, dopo la morte del marito, anima la piccola corte di Correggio. Nell’isolotto di Asolo la veneziana Caterina Cornaro tiene una corte frequentata da letterati prestigiosi come Pietro Bembo, il quale ambienta il suo trattato dialogico sul tema dell’amore, gli Asolani, proprio qui. L’educazione di queste gentildonne non ha nulla da invidiare a quella degli umanisti, ma occorre ricordare che le donne erudite costituiscono pur sempre un’eccezione. Pontormo, Ritratto di monsignor Della Casa, olio su tavola, 1540-1543 ca. (National Gallery of Art, Washington).

Giovanni Della Casa e il Galateo: la “civiltà delle buone maniere” La biografia Giovanni Della Casa (1503-1556) di nobile famiglia fiorentina, dopo gli studi giuridici e letterari, nel 1529 si trasferisce a Roma, dove inizia la carriera ecclesiastica; diventa vescovo, poi nunzio apostolico a Venezia e infine segretario di stato a Roma su nomina di Paolo IV. In ambito ecclesiale svolge importanti ruoli, combattendo aspramente le prime tendenze riformistiche. Muore nel 1556. È autore di rime petrarchesche, ma la sua fama è legata soprattutto al Galateo, pubblicato postumo nel 1558. Un trattato sul comportamento corretto Il Galateo di Giovanni Della Casa è un trattato sul modo corretto di comportarsi in società. Deve il suo nome al personaggio cui l’opera è dedicata: il vescovo Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte. Il Galateo ebbe così ampia fortuna nel tempo che ancora oggi usiamo il termine galateo come sinonimo di “buone maniere”. Nella finzione letteraria l’autore immagina che un vecchio illetterato (cioè poco istruito) insegni a un ragazzo come comportarsi adeguatamente nelle diverse occasioni della vita quotidiana. La visione classicistica della letteratura 1 119


Il tono e gli scopi dell’opera Il tono del discorso è volutamente colloquiale, in rapporto all’obiettivo dell’opera, meno ambizioso rispetto al Cortegiano: il Galateo si rivolge infatti non solo al gentiluomo di corte, ma a un campione sociale più ampio e vario (che non esclude la borghesia). Esso, inoltre, ha una finalità soprattutto pratica: presentare, cioè, un insieme di norme e usanze cui l’individuo deve adeguarsi se vuole essere considerato una persona bene educata ed essere ben accolto in società (➜ T8a-b ). Nella civiltà rinascimentale è molto importante l’approvazione del consesso civile: da qui l’esplicito invito del Della Casa al conformismo, necessario per poter raggiungere il successo. Una minuziosa precettistica I dettagliati precetti enunciati nel breve trattato riguardano le più comuni occasioni, come il comportamento a tavola, i modi di conversare, le forme del vestire, le norme igieniche più elementari ma evidentemente non così usuali a quel tempo, se è vero, come osserva lo storico britannico Peter Burke, che furono le corti italiane a diffondere l’uso della forchetta, dello spazzolino da denti e del dentifricio: tutte cose necessarie se si vuole essere accettati e apprezzati in società.

I trattati sul comportamento Baldesar Castiglione (1478-1529)

Giovanni Della Casa (1503-1556)

Il Cortegiano

Galateo

pubblicato nel 1528

pubblicato nel 1558

opera di riferimento per l’aristocrazia

opera di riferimento per aristocrazia e borghesia

trattato sulla figura del perfetto cortigiano, valente cavaliere ma anche uomo elegante e colto

trattato per insegnare le buone maniere

Fissare i concetti La visione classicistica della letteratura 1. Quali sono i principi chiave del classicismo? 2. Quale ruolo ebbe la Poetica di Aristotele? 3. Quali sono e in che cosa consistono le tre unità aristoteliche? 4. Che cosa sono i Canti carnascialeschi? Chi ha scritto il Trionfo di Bacco e Arianna? 5. Quali sono i due avvenimenti che portano Poliziano d interrompere la stesura delle Stanze? 6. A quale genere appartiene la Fabula di Orfeo? 7. Qual è la struttura e l’argomento dell’Arcadia di Sannazaro? 8. Come sono strutturati i trattati? 9. Quale visione dell’amore propone Bembo nel trattato Gli Asolani? 10. Qual è lo scopo che si prefigge Castiglione nel redigere il Cortegiano? 11. Quali qualità deve possedere il perfetto cortigiano? 12. Qual è il contenuto del Galateo di Giovanni Della Casa?

120 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este Nel trattato di Castiglione i pregiudizi misogini che erano radicati nella cultura medievale sono ormai considerati anacronistici e viene valorizzata la “donna di palazzo”, a cui è dedicato il libro III. Mentre nella tradizione medievale clericale l’immagine della donna è prevalentemente collegata al “disordine”, al “turbamento”, nel Cortegiano la figura femminile diventa invece specchio dell’immagine armonica e perfetta della corte; il suo ruolo è quello di rinsaldare e armonizzare, con il carisma, il gruppo. Nel ritratto della gentildonna, l’autore focalizza soprattutto la sua attenzione sulle qualità sociali, relazionali, che ne consacrano il ruolo pubblico entro la corte: la piacevolezza, l’arguzia e l’eleganza nel parlare, il saper «gentilmente intertenere [intrattenere] ogni sorte d’uomo». Vera e propria parola chiave, continuamente ricorrente, è appunto intertenere, ossia intrattenere ad alto livello, con decoro ed eleganza: è questo il compito fondamentale della dama di corte. Isabella d’Este (1479-1539), figlia di Ercole d’Este, andata sposa giovanissima a Francesco Gonzaga, ebbe un ruolo determinante nell’affermazione della corte di Mantova nel panorama delle corti italiane. Educata da Battista Guarini (figlio del grande

NUClEO Costituzione COMPETENZA 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

pedagogo Guarino Veronese), Isabella conosceva benissimo il latino e il greco, sapeva suonare il liuto, danzare e conversare brillantemente, amava viaggiare per le corti d’Italia e di Provenza. Guidava le feste di corte, proteggeva gli artisti e li attirava alla sua corte, intratteneva rapporti diretti con filosofi, scienziati e poeti (in particolare Ludovico Ariosto). Isabella era una fanatica collezionista di opere d’arte e di oggettistica antica: cercava ovunque pezzi rari e preziosi, e per i suoi dispendiosi acquisti si faceva consigliare da artisti, come Mantegna (che viveva alla corte di Mantova), Leonardo, Niccolò e Giovanni Bellini. La sua passione per il collezionismo trovava frequentemente la possibilità di essere soddisfatta dalle incerte vicende della storia del tempo, che dall’oggi al domani potevano ribaltare le sorti di un ducato, di una signoria. Ad esempio, quando il duca Valentino, Cesare Borgia (il personaggio cui si ispira Il principe di Machiavelli), conquista il ducato di Urbino, Isabella accoglie alla sua corte Guidobaldo di Urbino e sua moglie Elisabetta (cognata di Isabella); ma la pietosa Isabella pensa anche ai tesori della corte di Urbino, che potrebbe far suoi, approfittando, in modo anche un po’ cinico, della situazione. Così una biografia di Isabella descrive quella circostanza:

Accolto Guidubaldo fuggiasco, udita da lui la storia dolorosa della perdita del Ducato, del palazzo saccheggiato, Isabella […] allarga le braccia ai miseri, li conforta; ma Isabella, collezionista, pensa subito ad approfittare dell’occasione. E qui scriviamo la storia com’è. La Marchesa si ricorda di avere ammirato, nell’ammiratissimo palazzo d’Urbino, un bel torso di Venere e un magnifico Amore addormentato, non antico, ma opera pregevolissima di un giovane scultore fiorentino, Michelangelo Buonarroti: due pezzi di museo che essa ha lungamente invidiato e che certo starebbero bene nella sua Grotta. Che cosa fa Isabella? Senza perder tempo, tre giorni dopo l’arrivo di Guidubaldo, scrive a suo fratello Cardinale Ippolito, pregandolo di ottenere dal Borgia i due pezzi desiderati. Cesare Borgia, galante, si affretta ad accontentare la Marchesa, della quale vuol guadagnare il favore, e un bel giorno il ciambellano del duca di Romagna [Cesare Borgia] arriva a Mantova con una mula carica di due marmi, di modo che il duca d’Urbino vede entrare, nel Palazzo offertogli come asilo, quale proprietà di sua cognata, i due marmi che prima erano suoi. Da G. Bongiovanni, Isabella d’Este marchesa di Mantova, Edizioni moderne Canesi, Roma 1960 Isabella aveva un gusto artistico raffinato e tendeva a imporre agli artisti in modo abbastanza autoritario il repertorio iconografico da lei scelto (al pittore Perugino, che sembrava non comprendere bene, o non accettare pienamente le sue intenzioni, scrisse ben 53 lettere per spiegargli minuziosamente il soggetto allegorico del quadro commissionatogli!). Prediligeva temi e immagini letterarie, a volte anche complesse allegorie: esperta di astrologia, disegnò personalmente gli schemi allegorici che avrebbero dovuto ornare il celebre studiolo dove si ritirava a leggere e studiare e dove amava ricevere artisti, intellettuali e potenti. Bibliofila appassionata, si fece mandare dall’editore Manuzio per la sua biblioteca personale edizioni a stampa di Virgilio, Orazio, Marziale, Catullo, Properzio, oltre a Petrarca.

Ma Isabella non era solo un’intellettuale umanista: non mancava di interessarsi, come dimostrano le moltissime lettere, all’intricata vita politica e diplomatica del tempo, rivelando sempre grande acutezza di giudizio, non esente da una certa spregiudicatezza, che costituisce un tratto comune del costume del tempo. Durante le frequenti assenze del marito da Mantova, in qualità di reggente Isabella seppe amministrare gli affari pubblici con saggezza e lungimiranza. Alla figura di Isabella è ispirato il romanzo Rinascimento privato (1985) di Maria Bellonci (1902-1986), una ricostruzione non solo del personaggio affascinante della marchesa di Mantova, ma anche del mondo delle corti rinascimentali.

La visione classicistica della letteratura 1 121


T7

Le qualità del “perfetto cortigiano” Nei due testi che proponiamo si analizzano le caratteristiche che deve possedere il cortigiano (➜ T7a ) e il ruolo politico che egli può rivestire all’interno della corte (➜ T7b ).

Baldesar Castiglione

T7a

Grazia e sprezzatura Il libro del Cortegiano, I, xxvi

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a c. di G. Preti, Einaudi, Torino 1960

Il capitolo XXVI del primo libro del Cortegiano tratteggia un profilo del gentiluomo che vive nella corte ispirato agli ideali etici ed estetici propri della cultura rinascimentale: il gentiluomo deve possedere la grazia, evitando ogni forma di affettazione e di ostentazione. Il suo atteggiamento deve sembrare naturale, mentre è frutto di disciplina ed esercizio: in ciò consiste la sprezzatura.

Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia1, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno2, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po3, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazio5 ne4; e, per dir forse una nova parola5, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi6. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde7 in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia 10 e fa estimar poco ogni cosa8, per grande ch’ella si sia. Però9 si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio10, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato11. E ricordomi io già aver letto esser stati12 alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie13 sforzavansi14 di far credere ad ognuno sé non aver notizia 15 alcuna di lettere15; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte16; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del

1 pensato meco... grazia: pensato dentro di me da dove derivi questo comportamento aggraziato, gradevole. 2 lasciando... l’hanno: tralasciando quelli che lo possiedono per influsso astrale (per un dono naturale). 3 si po: si può. 4 affettazione: comportamento artificioso, privo di naturalezza. 5 per... parola: utilizzando una parola forse mai usata in questo senso. 6 che nasconda... pensarvi: che non riveli l’impegno e faccia apparire ciò che si fa e si dice come realizzato senza fatica e quasi senza pensarci. Castiglione definisce con queste parole la sprezzatura, parola

e concetto chiave del brano, che consiste nell’avere, in ogni attività che si svolge, una tecnica perfetta, acquisita con studio e impegno, ma poi dissimulata, in modo che l’abilità appresa sembri naturale. 7 onde: per cui. 8 per lo contrario... ogni cosa: al contrario, mostrare lo sforzo e, come si dice, “tirar per i capelli” (far vedere che una cosa non è naturale, ma eseguita con sforzo) è molto sgradevole e sminuisce ogni cosa. 9 Però: Perciò. 10 si ha da poner studio: si deve mettere impegno. 11 leva... estimato: toglie tutta l’ammirazione e produce scarsa stima.

122 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo

12 esser stati: che vi erano stati. L’autore usa una costruzione simile all’infinitiva latina. 13 industrie: accorgimenti. 14 sforzavansi: si sforzavano. 15 notizia… lettere: nessuna conoscenza letteraria e retorica. 16 tra le altre... arte: tra le altre loro tecniche si sforzavano di far credere a tutti che loro non avevano nessuna conoscenza della retorica; dissimulando la loro cultura, facevano sembrare che le loro orazioni fossero state costruite molto facilmente e più seguendo l’ispirazione naturale e la verità del discorso che la tecnica retorica.


populo di non dover esser da quella ingannati17. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida 20 quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi18? Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia19 della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti20, di quella sprezzata desinvoltura21 (ché nei 25 movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi22, mostrando non estimar e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello23, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare24?

17 la qual... ingannati: se questa (la padronanza dell’arte retorica) fosse stata conosciuta avrebbe suscitato (aría dato) nell’animo del popolo il dubbio di esser stato ingannato. Il dubbio in realtà non sembrerebbe del tutto infondato. L’affermazione rivela la concezione dell’autore, incline a valorizzare l’artificio e la tecnica più della spontaneità naturale. 18 Qual di voi... passi: dall’arte del discorso, fondamentale in ogni ambito del vivere sociale, Castiglione passa all’esempio

più frivolo della danza, legata alla vita di corte e a un ballerino, tal Pierpaulo, che danza senza scioltezza e appare legnoso nei movimenti. 19 disgrazia: la mala grazia (etimologicamente “dis-grazia”, opposto di grazia). 20 qui presenti: richiamo alla situazione comunicativa immaginata nell’opera del Castiglione, cioè a una discussione tenuta nell’ambiente di corte. 21 sprezzata desinvoltura: disinvoltura apparentemente spontanea.

22 adattarsi: atteggiarsi (come richiede la danza e corrispondere ai gesti degli altri ballerini). 23 mostrando... quello: dando l’impressione di non dare importanza a ciò che si sta facendo (danzare) e di pensare più a ogni altra cosa che a quello (che si sta facendo). 24 di non saper... errare: di non considerare possibile un errore.

Baldesar Castiglione

T7b

Il ruolo del cortigiano Il libro del Cortegiano, IV, v

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a c. di G. Preti, Einaudi, Torino 1960

Nel quarto e ultimo libro del suo trattato, Castiglione focalizza le sue considerazioni sulla cortegianìa (qui affidate a Ottaviano Fregoso) interrogandosi sul senso che può avere l’acquisizione delle qualità mondane e culturali di cui si è discusso nelle giornate precedenti. È qui delineato il rapporto fra il signore e il cortigiano, e il ruolo, anche politico, che quest’ultimo può rivestire all’interno della complessa realtà delle corti.

Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori1 talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso2 convenga sapere, senza timor o 5 periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli3, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa4 ed indurlo

1 condicioni… signori: condizioni di vita nella corte. 2 ad esso: cioè al principe.

3 conoscendo... contradirgli: se comprende che quello ha intenzione di compiere un’azione sbagliata, osi porsi in

contrasto con lui. 4 rimoverlo... viciosa: distoglierlo da ogni intenzione malvagia.

La visione classicistica della letteratura 1 123


al camin della virtú; e cosí avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompagnata con la prontezza d’ingegno e piacevolezza e 10 con la prudenzia e notizia di lettere5 e di tante altre cose, saprà in ogni proposito6 destramente7 far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità8, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall’altre virtú che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii9 oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, 15 i giochi e l’altre condicioni piacevoli son quasi il fiore, cosí lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male10, sia il vero frutto della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamente11 in due cose, delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono12, l’altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato13, 20 certo è che l’animo di colui, che pensa di far che ’l suo principe non sia d’alcuno ingannato14, né ascolti gli adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e ’l male ed all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo fine.

5 la prudenzia... lettere: la saggezza e la cultura. 6 proposito: occasione. 7 destramente: con abilità. 8 liberalità: generosità. 9 vicii: vizi.

10 lo indurre… dal male: spingere o aiutare il suo principe a fare il bene e distoglierlo dal male. 11 precipuamente: soprattutto. 12 delle quai... bono: una delle quali è scegliere un fine, che sia davvero buono,

a cui tendano i nostri sforzi. 13 atti... desegnato: adatti a pervenire a questo buon fine prescelto. 14 non sia... ingannato: non sia ingannato da nessuno.

Analisi del testo L’essere e l’apparire del cortigiano I due passi proposti sono fra loro molto differenti. Nel primo viene analizzata l’apparenza esteriore del cortigiano e il suo comportamento negli intrattenimenti della corte; nel secondo sono discussi gli ideali e i valori che egli dovrebbe perseguire. Nel primo passo dunque è in gioco l’apparire, nel secondo l’essere, o forse meglio, il “dover essere”; nel primo si descrive un ideale estetico, nel secondo etico; nel primo il cortigiano appare sottoposto al giudizio degli altri e deve mostrare di esserne all’altezza, nel secondo assume invece un ruolo attivo, propositivo.

L’ideale estetico del cortigiano: la sprezzatura Parola chiave di (➜ T7a ) è sprezzatura: con questo termine si intende l’abilità che per Ca-

stiglione è la suprema sintesi di tutto il lungo e impegnativo apprendistato del cortigiano. La sprezzatura è un comportamento apparentemente naturale, in realtà acquisito a prezzo di un lungo studio ed esercizio, che consente di compiere le cose più difficili come se fossero facilissime e quasi spontanee. Tale abilità si esplica in vari campi: lo stesso Castiglione presenta due esempi differenti, riferendosi da una parte a un’attività frivola come la danza, dall’altra alla capacità oratoria. La sprezzatura può essere vista come la capacità, propria di chi ha ricevuto una perfetta educazione, di adattarsi in modo perfetto, ma con apparente spontaneità, a ogni situazione e a ogni ambiente, senza ostentare la propria superiorità e senza mai mettere a disagio gli altri. Secondo tale modello di comportamento, che avrebbe in seguito ispirato la “civiltà delle buone maniere” europea, di cui può essere esempio l’ideale del gentleman inglese, nulla è lasciato al caso: il comportamento non è determinato dalla natura, ma dalla cultura. Un comportamento esteriormente impeccabile richiede dunque una grande disciplina interiore, un lavoro su di sé, per giungere a un perfetto autocontrollo.

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L’ideale etico del buon consigliere In (➜ T7b ) (tratto dal IV libro del Cortegiano, dedicato alla politica e ai rapporti con il prin-

cipe), Castiglione ipotizza che, grazie alle sue eccezionali qualità, il cortigiano possa essere considerato come un saggio consigliere e indirizzare il signore sulla via del bene. Il cortigiano ideale immaginato da Castiglione rivela allora di possedere alte doti morali: appare infatti come un uomo buono, sincero (al principe dice sempre la verità), dignitoso (osa contraddire il signore, se è il caso). Ma davvero il principe lo ascolterebbe? Molti lettori dell’opera hanno considerato tale ipotesi utopistica e irreale, e in realtà molto dipende dal signore e dall’ambiente in cui il cortigiano si trova a operare. Castiglione crede che il cortigiano possa persuadere il principe grazie alle sue eccezionali doti, tra le quali ci sono la cultura, la saggezza, la bontà, un’intelligenza ben esercitata e un comportamento piacevole e capace di attirarsi la simpatia e la fiducia degli altri; inoltre il cortigiano è coltissimo e padroneggia perfettamente l’arte oratoria, e può perciò persuadere più facilmente il signore a seguire la via del bene, mostrandogli i vantaggi e l’onore che può ottenerne. Un compito impossibile? Forse non sempre: ciò che Castiglione teo­ rizza, in fondo, non è che l’ideale umanistico, con la sua fiducia nella cultura e nella parola: forse un’utopia, che però coincide con la ragione e la civiltà contro le ragioni della sola forza.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Cos’è la sprezzatura? 2. Qual è il fine principale che dovrebbe proporsi il cortigiano, secondo Baldesar Castiglione? ANALISI 3. Di quali doti si dovrebbe avvalere il cortigiano per convincere il principe a compiere il bene? LESSICO 4. Fai una schedatura dei termini grazia, sprezzatura e affettazione, indicando per ciascuno: occorrenze, significato specifico, eventuali sinonimi. STILE 5. A quali similitudini e metafore Baldesar Castiglione ricorre per definire la natura e il comportamento del cortigiano perfetto? Quale campo semantico prevale?

Interpretare

SCRITTURA 6. Parlando di sprezzatura, quali esempi se ne potrebbero addurre (anche attualizzando il concetto) oltre a quelli proposti da Castiglione?

Raffaello, Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro, olio su tavola, 1503-1504, (Galleria degli Uffizi, Firenze).

La visione classicistica della letteratura 1 125


T8

Suggerimenti su come comportarsi in società Nei due brani presentati tratti dal Galateo di Della Casa l’autore elenca quali azioni non è bene compiere a tavola (➜ T8a ) e quali sono gli argomenti più adatti alla conversazione (➜ T8b ).

Giovanni Della Casa

T8a

Cattive maniere a tavola Galateo, cap. XIX

G. Della Casa, Galateo, a c. di S. Prandi, Einaudi, Torino 1994

Dal celebre trattato di monsignor Della Casa abbiamo scelto innanzitutto un passo molto noto, tratto dalla prima parte del cap. XIX. Vi appare un concetto di “galateo” inteso semplicemente, secondo l’accezione usuale e ormai tradizionale del termine, come codice di buone maniere alle quali qualunque persona ben educata (diremmo oggi) non può sottrarsi.

Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l’uomo più che e’ può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo1. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nationi così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi tenercene per brieve spatio2! Debbiamo etiandio3 guardarci di prendere 5 il cibo sì ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s’affretta sì, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata4. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi5; né risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese6; né in levandosi da tavola portar lo stecco a guisa d’uccello che faccia suo nido, o 10 sopra l’orecchia come barbieri, è gentil costume7.

1 facciasi... modo: lo si faccia con discre-

4 sì, che convenga... brigata: così che

zione, in modo conveniente. 2 tenercene... spatio: astenerci dal farlo per un breve tempo. 3 etiandio: anche.

succede che egli sbuffi e soffi, con fastidio di tutta la compagnia. 5 atti difformi: atteggiamenti maleducati. 6 in palese: davanti a tutti.

Miniature tratte dal manoscritto Le chevalier errant, 1394-1396 (Bibliotèque nationale de France, Parigi).

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7 né... costume: né è un’azione educata, quando ci si alza da tavola, portarsi lo stuzzicadenti, come un uccello prende uno stecco per fare il nido, o metterlo sull’orecchio come un barbiere.


Giovanni Della Casa

T8b

Argomenti di conversazione. Come parlare in società Galateo, capp. XI e XXIV

G. Della Casa, Galateo, a c. di S. Prandi, Einaudi, Torino 1994

Tratto dai cap. XI e XXIV, il brano documenta l’importanza della “civile conversazione” nel costume sociale del tempo: nel Cinquecento, parlare in modo adeguato, elegante, cortese, scelto, era una componente fondamentale del “saper vivere”.

Nel favellare si pecca1 in molti e varii modi, e primieramente2 nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme. Non si dèe anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito, perciò 5 che con fatica s’intende dai più3. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta4. Né di alcuna bruttura si dèe favellare, come che5 piacevole cosa paresse ad udire, perciò che alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose. Né contra Dio né contr’a’ Santi, né dadovero né motteggiando6 si dèe mai dire alcuna cosa, 10 quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole: il qual peccato assai sovente commise la nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne’ suoi ragionamenti, sì che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona7. […] Né a festa né a tavola si raccontino istorie maninconose8, né di piaghe né di malattie né di morti o di pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione 15 o ricordo: anzi, se altri in sì fatte rammemorationi fosse caduto9, si dèe per acconcio modo10 e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto11. […] Sono ancora molti che non sanno restar di dire12, e, come nave spinta dalla prima fuga13 per calar vela14 non s’arresta, così costoro trapportati da un certo impeto 20 scorrono15 e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò, anzi, o ridicono le cose già dette, o favellano a vòto16. Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non lasciano dire altrui; e come noi veggiamo talvolta su per l’aie de’ contadini l’uno pollo tòrre la spica di becco all’altro17, così cavano costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi; e sicuramente che 25 eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro, perciò che, se tu guardi

1 Nel favellare... pecca: Nel parlare si sbaglia. 2 primieramente: in primo luogo. 3 Non si dèe… dai più: Non si deve però neppure scegliere un tema molto difficile né troppo ricercato, perché viene compreso con difficoltà dalla maggior parte delle persone. 4 onta: offesa. 5 come che: per quanto.

6 né dadovero... motteggiando: né sul serio né scherzando. 7 agramente... persona: duramente criticata da ogni persona che se ne intende. 8 maninconose: malinconiche, tristi. 9 se altri... caduto: se qualcuno fosse caduto in rievocazioni (rammemorationi) di questo genere. 10 per... modo: in modo gentile. 11 più convenevole soggetto: argomento più adatto.

12 Sono... dire: Ci sono poi molti che non sanno fermarsi nel parlare.

13 dalla prima fuga: dal primo impeto. 14 per calar vela: anche se la vela viene calata. 15 trapportati… scorrono: trasportati dalla forza d’inerzia procedono oltre. 16 favellano a vòto: parlano a vuoto. 17 su per… all’altro: nelle aie dei contadini un pollo togliere la spiga dal becco dell’altro.

La visione classicistica della letteratura 1 127


bene, niuna cosa muove l’uomo più tosto ad ira, che quando improviso gli è guasto18 la sua voglia et il suo piacere, etiandio19 minimo: sì come quando tu arai20 aperto la bocca per isbadigliare et alcuno te la tura21 con mano, o quando tu hai alzato il braccio per trarre la pietra et egli t’è subitamente tenuto da colui che t’è dietro. 30 Così adunque come questi modi (e molti altri a questi somiglianti) che tendono ad impedir la voglia e l’appetito altrui22 ancora23 per via di scherzo e per ciancia24 sono spiacevoli e debbonsi fuggire, così nel favellare si dèe più tosto agevolare il desiderio altrui che impedirlo. Per la qual cosa, se alcuno sarà tutto in assetto di25 raccontare un fatto, non istà bene di guastargliele26, né di dire che tu lo sai, o, se 35 egli anderà per entro la sua istoria spargendo alcuna bugiuzza27, non si vuole28 rimproverargliele né con le parole né con gli atti, crollando il capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare, affermando sé non potere29 in modo alcuno sostener l’amaritudine della bugia; ma egli non è questa la cagione di ciò, anzi è l’agrume e lo aloe della loro rustica natura et aspera30, che sì gli rende venenosi et amari nel 40 consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. Similmente il rompere altrui le parole in bocca è noioso31 costume e spiace, non altrimenti che quando l’uomo è mosso a correre et altri lo ritiene32. 18 guasto: impedito. 19 etiandio: anche. 20 arai: avrai. 21 tura: chiude. 22 appetito altrui: desiderio di altri. 23 ancora: sebbene. 24 per ciancia: per gioco.

25 in assetto di: pronto a. 26 guastargliele: rovinarlo. 27 bugiuzza: piccola bugia. 28 non si vuole: non si deve. 29 sé non potere: che loro non possono. Il costrutto è quello dell’infinitiva latina.

30 ma egli... aspera: ma non è questa la

causa di un tale comportamento, al contrario (la causa) è l’asprezza della loro natura rozza e incivile. L’aloe è una pianta medicinale, dalle cui foglie si ricava un succo amaro. 31 noioso: spiacevole. 32 altri lo ritiene: qualcuno lo trattiene.

Analisi del testo Un modello di comportamento per il vivere sociale Il modello di comportamento del gentiluomo educato che si afferma nel Cinquecento prende origine nell’ambiente della corte, che crea molteplici occasioni di scambi sociali. Il Galateo del Della Casa diffonde tale modello di socialità cortigiana a strati più ampi della popolazione, incontrando un’immensa fortuna.

Un modello attuale? La società odierna tende ad assumere una posizione a volte critica di fronte al modello comportamentale espresso nel Galateo, messo in discussione con il successivo affermarsi dell’opposto modello di comportamento romantico, improntato a una totale spontaneità. L’ideale delle “buone maniere” non viene però mai totalmente abbandonato, come dimostra la tradizione ininterrotta di testi di “galateo”, ispirati al fortunato prototipo dellacasiano. In realtà l’opera del Della Casa conserva un valore perché non si ispira soltanto a un ideale conformistico, ma è ispirato da un attento studio della psicologia e dei comportamenti sociali.

Il piacere, proprio e altrui, come guida per il comportamento in società Lo studio psicologico è connesso con l’ideale edonistico del Rinascimento, quando si diffonde l’idea che la vita debba essere anche piacevole. Un comportamento corretto e educato rende più godibile la vita in società sia a sé stessi, perché si risulta più graditi e simpatici in compagnia, sia agli altri, perché, avendo a che fare con persone attente al proprio comportamento essi si sentono più compresi e rispettati. Un esempio della finezza psicologica del Della Casa è il suo articolato “galateo del discorso”.

128 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


L’efficacia dello stile Il contrasto fra le tendenze istintive e naturali e il perfezionamento raggiunto grazie alla razionalità e alla buona educazione è evidenziato dallo stile del Galateo. Grazie alla finzione che a parlare sia un personaggio illetterato che istruisce un ragazzo, il discorso può spaziare da un registro basso e colloquiale a uno più alto e raffinato. Il livello stilistico basso, realistico e concreto, viene adottato soprattutto per la descrizione dei comportamenti dettati dall’istinto naturale e, con l’efficacia di una caricatura, mette in luce gli aspetti sgradevoli e ridicoli di un comportamento diretto, “naturale”, senza attenzione alla socialità. Ciò si evidenzia in particolar modo nei paragoni, spesso ripresi dal mondo animale: come quello tra gli interlocutori smaniosi di prendere la parola, interrompendo gli altri, e le galline che si strappano l’una all’altra il cibo dalla bocca; una similitudine che mostra efficacemente la volgarità di un comportamento, appunto, “naturale”, ma tale da suscitare negli altri una rabbiosa irritazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali comportamenti sono da evitare a tavola? SINTESI 2. Secondo Della Casa, per essere considerati conversatori piacevoli bisogna osservare alcuni accorgimenti, riguardanti gli argomenti di conversazione e il modo di comportarsi: riassumili e commentali brevemente.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Prova a tratteggiare un sintetico catalogo dei “corretti comportamenti” che sia adeguato alla vita di oggi. Puoi anche restringere il tuo discorso a un ambito specifico: ad esempio la scuola, l’ufficio, i mezzi di trasporto, l’uso dei social...

Dosso Dossi (att.), La conversazione, olio su tavola, 1520-1522 ca. (Galleria Estense, Modena).

La visione classicistica della letteratura 1 129


2

La produzione anticlassicista 1 Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo

Particolare da Domenico Beccafumi, La caduta degli Angeli ribelli, 1540 ca. (Pinacoteca Nazionale, Siena). L’artista rappresenta figure dalla gestualità esasperata e dalle forme allungate, effetto accentuato dall’uso della luce.

Un Rinascimento diverso La cultura letteraria e artistica del Rinascimento s’ispira, nella maggior parte dei casi, a un ideale di armonia ed equilibrio modellato sui classici – dalla pittura di Raffaello alla lirica petrarchista, dai trattati di Bembo e Castiglione ad alcuni aspetti dell’Orlando furioso – e attinge al repertorio figurativo del mondo antico. Sarebbe però riduttivo (e in sostanza inesatto) identificare l’arte e la letteratura del periodo esclusivamente nelle opere ispirate a canoni di armonia e classicismo, ignorando le numerose manifestazioni “eccentriche” (nel senso etimologico del termine: “fuori dal centro”) e “centrifughe” rispetto al modello estetico dominante, che contribuiscono a delineare la fisionomia della cultura artistica rinascimentale. Antirinascimento o anticlassicismo? Per definire le manifestazioni che in vario modo non corrispondono alla tendenza dominante del gusto, lo storico dell’arte Eugenio Battisti ha parlato, nel suo fondamentale saggio L’Antirinascimento (la prima edizione è del 1962), riferendosi soprattutto alle arti figurative, di “antirinascimento”: un universo artistico alternativo alla cultura ufficiale, in cui si esprime un immaginario inquietante, magico, materialistico, irrazionalistico. Altri, come il critico letterario Nino Borsellino, facendo riferimento in particolare all’ambito letterario, hanno parlato, forse più correttamente, di “anticlassicismo”, per definire alcune manifestazioni, estranee ai princìpi del classicismo rinascimentale, ma che esercitano una funzione dialettica rispetto al modello dominante. Per Borsellino si tratta di manifestazioni in cui si esprime l’insofferenza per le regole, l’esaltazione della creatività dell’artista al di fuori di ogni disciplina, la dissacrazione del sublime (con la conseguente scelta di una materia “bassa”, in contrapposizione a una materia alta e nobile): manifestazioni a cui si accompagnano atteggiamenti spesso provocatori, come nel caso dell’Aretino. Sempre Borsellino osserva che gli anticlassicisti sono scrittori «più del ventre che della mente» e che alcuni di essi, perciò, rientrano a ragione nell’ambito del “carnevalesco” (➜ PAG. 143). Conseguente è la scelta stilistico-linguistica di questi scrittori – anch’essa polemica verso gli orientamenti ufficiali (➜ T11 ) – orientata verso il plurilinguismo e l’impiego di registri iperespressivi. L’anticlassicismo per Borsellino è comunque un fenomeno che si iscrive dentro il Rinascimento (e perciò non è tanto corretto parlare di “antirinascimento”), del quale fanno parte a pieno titolo figure un tempo emarginate dalle sistemazioni storiche. Accogliendo questi scrittori nell’ambito del Rinascimento, si ricava di questa stagione importantissima della nostra cultura un’immagine più mobile e varia, e in definitiva più vicina alla realtà.

130 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


Autori e opere polemiche verso i canoni egemoni Alcuni scrittori, per i temi proposti e il linguaggio che impiegano, rovesciano esplicitamente attraverso l’ironia e la critica i modelli culturali ufficiali. Berni ad esempio, ricollegandosi alla tradizione della poesia giocosa, parodizza i poeti petrarchisti (➜ C2 T1b ) e contrappone una poesia puramente ludica, giocata sul nonsense, ai contenuti “seri” della lirica cinquecentesca. Aretino contesta la lingua imbalsamata proposta dal Bembo (➜ SCENARI PAG. 70 e ➜ C2) come pure la mitizzazione della corte fatta dal Castiglione (➜ PAG. 117) e contrappone ai nobili argomenti e all’esaltazione dell’amore spirituale, propri della trattatistica rinascimentale, un trattato, volutamente provocatorio, sull’«arte puttanesca» (➜ T10 ); Folengo nel Baldus dissacra la tradizione del poema cavalleresco contaminando nella lingua maccheronica latino e volgari settentrionali (➜ T11 ). Ma altri autori ancora potrebbero essere citati. Come Ruzante, che rifiuta gli schemi classicisti della commedia per ritrarre realisticamente il mondo contadino (➜ C7).

2 La Vita di Benvenuto Cellini online

Video e Audio Giacomo Battiato (Film, 1989) Una vita scellerata

Ritratto di Benvenuto Cellini (metà sec. XVI).

La biografia Alcuni scrittori trovano modi originali di scrivere, diversi dalla prospettiva classicistica e dai suoi vincoli anche tematico-stilistici, magari perché il genere scelto non ha modelli consacrati dalla letteratura antica: è il caso di un’opera schietta, impetuosa, lontana dagli schemi del classicismo, come la Vita, cioè l’autobiografia di Benvenuto Cellini (➜ T9 OL), composta peraltro ormai ai confini del Rinascimento (1558-1566). Benvenuto Cellini (1500-1571), fiorentino, uomo dal temperamento estroso e collerico, ben lontano dall’ideale rinascimentale della “misura”, ha una vita avventurosa, segnata da duelli e casi giudiziari. È un artista poliedrico: orafo, scultore di grande talento, trova protezione a Roma presso il papa Clemente VII e quindi il suo successore Paolo III. Accusato di furto, conosce l’esperienza del carcere a Castel Sant’Angelo, da cui cerca di evadere. Opera poi in varie corti e anche a Parigi. Tornato in Italia, realizza a Firenze il celeberrimo bronzo che raffigura Perseo, esposto nel 1554 alla loggia dei Lanzi. Quattro anni dopo, deluso perché il duca Cosimo I gli preferisce nuovi artisti e lo trascura, inizia a scrivere la sua autobiografia. Muore povero e dimenticato nel 1571. La Vita Nella Vita, Cellini fa di se stesso un mito umano: l’autobiografia è infatti concepita dall’autore come un’autocelebrazione, fondata sulla convinzione della propria eccezionalità umana e artistica (notissima è la descrizione, con toni quasi epici, della creazione della statua del Perseo ➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 132). Cellini si autorappresenta come un individuo dotato di straordinaria virtù, nel senso laico che questo termine acquista nel Rinascimento. Una virtù che si scontra ora con le avversità dei tempi, ora con la sorte, ora con singoli uomini che la contrastano: ostacoli che sono enfatizzati per far meglio risaltare la statura “eroica” del protagonista. La produzione anticlassicista 2 131


Oltre che il ritratto umano dell’autore, la Vita del Cellini fornisce un quadro affascinante della vita del tempo e di alcuni suoi personaggi, spregiudicato sul piano morale e comunque ben lontano dalle idealizzanti rappresentazioni diffuse nel tempo. Anche la prosa usata nella Vita è lontana dalla prospettiva classichegonline giante: ha caratteri di immediatezza, a volte quasi giornalistica e utilizza t9 Benvenuto cellini una sintassi mossa, che alterna discorso diretto e indiretto con modi Un omicidio vicini al parlato, nella volontà di aderire alla vivacità quasi cronachistica Vita della narrazione.

Sguardo sull'arte La fusione del Perseo

Benvenuto Cellini, Perseo, 1545-1554 (Loggia dei Lanzi, Firenze).

Con la creazione del Perseo, Benvenuto Cellini tentò la fusione di una grande statua in un solo getto, un’operazione molto complessa che mise a dura prova l’artista e i suoi assistenti. Nella Vita,, egli racconta di uno sforzo quasi eroico, epico, in cui non mancarono gli imprevisti: la “febbre effimera” che lo coglie per il grande sforzo, il fuoco della fornace che si abbassa a causa di un temporale, l’insufficienza di stagno che lo spinge a fondere tutte le stoviglie di casa ecc. Collocato in piazza della Signoria, il Perseo rappresentò un monito per i nemici dei Medici che nel 1555 conquistarono Siena, riunificando la Toscana sotto la loro egemonia.

Benvenuto Cellini, Vita GENERE

biografia

CONTENUTO

rappresentazione di sé come un uomo dotato di straordinaria virtù; la vita del tempo

SCOPO

autocelebrazione

STILE

immediato, con carattere giornalistico

SINTASSI

utilizzo di discorso diretto ed indiretto

LINGUA

vicina al parlato

132 Quattrocento e cinQuecento 1 Classicismo e anticlassicismo


3 Un “irregolare”: Pietro Aretino La biografia Di origini popolari, Pietro Aretino (1492-1556) prende come cognome la sua provenienza (era infatti di Arezzo). Dopo aver esercitato la carriera di cortigiano a Roma e aver soggiornato in varie corti d’Italia, si sposta a Venezia e qui si dedica a un’intensa attività letteraria, caratterizzata sempre da uno spirito trasgressivo rispetto ai modelli vigenti, che lo rende ricco e famoso. La spregiudicatezza con cui, grazie alla diffusione delle sue opere resa possibile dalla stampa, esercita il suo mestiere di letterato gli vale soprannomi come «avventuriero della penna» e «flagello dei principi». Una condotta che comunque gli procura onori e riconoscimenti persino da sovrani, come il re di Francia Francesco I e l’imperatore Carlo V. Destando spesso scandalo per i contenuti provocatori delle sue opere, Aretino si cimenta in vari generi letterari: dalle rime (spesso licenziose, come i Sonetti lussuriosi), alla commedia (la sua commedia più famosa è la Cortigiana, che rappresenta la corruzione dell’ambiente romano), alla tragedia (Orazia) ai dialoghi dei Ragionamenti (o Sei giornate) in cui, rovesciando l’idealismo tipico di tale genere letterario, dedica la trattazione alle professioni della prostituta e della ruffiana. Per il loro valore di testimonianza storica sono importanti le Lettere, spesso dirette a personaggi famosi dell’epoca. Sei giornate Sotto il titolo Sei giornate sono raggruppati due dialoghi di Pietro Aretino. Nel primo (Ragionamento della Nanna, et della Antonia, fatto in Roma…, pubblicato nel 1534), la Nanna, una prostituta, illustra senza reticenze la vita delle monache, delle maritate e delle prostitute, incerta a quale di queste condizioni avviare la figlia sedicenne. Nel secondo (Dialogo di M. Pietro Aretino, nel quale la Nanna il primo giorno insegna a la Pippa sua figliuola…, del 1536), la Nanna insegna alla figlia l’«arte puttanesca», trasmettendo alla ragazza il proprio “sapere”. I discorsi e i dialoghi delle due opere occupano sei giornate (da qui il titolo vulgato). Lo schema è quello del dialogo morale e pedagogico, assunto con evidente intento parodico dell’autore nei confronti della trattatistica alta sul comportamento (Bembo e Castiglione). Alla marcata idealizzazione, anche linguistica, dei due trattati, Aretino contrappone uno spregiudicato realismo e una lingua antiaccademica, vicina al parlato.

Pietro Aretino, Sei giornate GENERE

dialogo pedagogico

STRUTTURA

due dialoghi che occupano sei giornate

CONTENUTO

nel primo la madre (Nanna) illustra alla figlia le varie condizioni delle donne; nel secondo istruisce la figlia sull’«arte puttanesca»

SCOPO

intento parodico nei confronti dei trattati che presentano una visione idealizzante dell’amore

LINGUA

antiaccademica, ispirata ad un crudo realismo

La produzione anticlassicista 2 133


Pietro Aretino

Una spregiudicata lezione di erotismo

T10

Sei giornate P. Aretino, Sei giornate, a c. di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1975

Il breve passo che segue, tratto dalle Sei giornate, può dare almeno un’idea del dialogo di Pietro Aretino in cui egli immagina che una scaltrita prostituta, la Nanna, erudisca nell’“arte” in cui è maestra la giovanissima figlia Pippa, che si appresta a seguire l’esempio materno. In particolare, qui la Nanna risponde a una domanda della figlia sul comportamento erotico dei veneziani.

Nanna Ti dirò: i Viniziani hanno il gusto fatto a lor modo; e vogliono culo e tette e robbe sode, morbide, e di quindici o sedeci anni e fino in venti, e non de le petrarchescarie1. E perciò, figliuola mia, pon da canto le cortigianie2 e contentagli del proprio3, se vuoi ti gittino dirieto oro di fuoco e non ciance di nebbia4. E io 5 per me, sendo uomo5, vorrei colcarmi6 con una che avesse la lingua melata, e non addottorata7; e piú mi saria caro di tenere in braccio una robba sfoggiata che messer Dante8; e credo che sia altra melodia quella di una mano avventurata che fa le ricercate del liuto pel seno9 [...]; e il suono de la mano che dà de le sculacciatine nel consacrato de le meluzze10 mi par d’altra soavità che la musica che fanno i 10 piferi di Castello quando i cardinali vanno a Palazzo11 in quei cappucci che gli fan parere civette in una buca12. 1 petrarchescarie: è un neologismo introdotto da Aretino, con il quale egli vuole intendere le qualità spirituali (da lui presentate come insignificanti rispetto alle ben più appetibili qualità fisiche). L’autore ironizza sulla concezione d’amore diffusa dalla moda della lirica petrarchista. 2 pon da canto le cortigianie: accantona le finezze d’amore. Allusione alle teorizzazioni sul comportamento raffinato diffuse nella trattatistica contemporanea. 3 contentagli del proprio: accontentali, dando loro quel che cercano.

4 se vuoi... di nebbia: se vuoi che ti diano (letteralmente “ti gettino dietro”) oro (cioè denaro) fiammante e non chiacchiere evanescenti. 5 per me, sendo uomo: per quanto mi riguarda, se fossi un uomo. 6 colcarmi: coricarmi, andare a letto. 7 melata, e non addottorata: di miele, dolce, e non fosse colta. 8 più mi sarìa... messer Dante: preferirei tenere tra le braccia una donna bellissima piuttosto che messer Dante. 9 credo... seno: credo che sia ben altra

musica quella prodotta da una mano fortunata (avventurata) che accarezza, come si fa con le corde del liuto, il seno. Aretino ricorre a un linguaggio metaforico tratto dal campo musicale. 10 meluzze: glutei. 11 Palazzo: si intende il Vaticano. 12 civette in una buca: le civette (a cui sono assimilati i cardinali incappucciati in processione) depongono le uova in buche all’interno di alberi.

Analisi del testo Il rovesciamento parodico della trattatistica “alta” Nei Ragionamenti, come si nota anche solo dal breve passo proposto, Aretino rovescia con piena consapevolezza letteraria temi, modi e stile della trattatistica elevata, di cui fornisce eloquente esempio il passo tratto dagli Asolani del Bembo. Mentre i protagonisti del dialogo rinascimentale appartengono all’ambiente raffinato della corte e sono spesso noti intellettuali del tempo, nel dialogo di Aretino dialogano figure femminili, che appartengono a una realtà “bassa”, popolare e addirittura al mondo della prostituzione. Il trattato rinascimentale propone modelli di comportamento ispirati all’eleganza, al decoro, mentre Nanna insegna alla giovanissima figlia l’“arte” della prostituzione, distinguendo analiticamente le diverse esigenze dei clienti a seconda delle aree geografiche di provenienza (in questo caso i veneziani).

Il tema dell’amore L’amore di cui si parla negli Asolani e nello stesso Cortegiano (in una delle due importanti digressioni) è un amore nobile e spiritualizzato, ispirato alla filosofia neoplatonica; mentre nell’opera di Aretino l’amore è puramente istinto sessuale.

134 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


La lingua Anche il linguaggio è strutturato su una consapevole polemica verso le tesi del Bembo, l’astrazione arcaizzante del fiorentino illustre che Aretino attacca anche in altre sedi, ad esempio nel prologo della Cortigiana. Aretino utilizza un lessico crudamente realistico o addirittura osceno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

STILE 1. Quale figura retorica riconosci nell’espressione ciance di nebbia (r. 4)? LESSICO 2. Nel breve passo tratto dalle Sei giornate si manifesta un chiaro intento parodico, da parte dell’Aretino, nei confronti della trattatistica rinascimentale sul tema amoroso: rintraccia nel testo le modalità espressive con cui l’autore manifesta questa sua volontà polemica.

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di max. 15 righe delinea un ritratto della Nanna.

4 Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo

Ritratto di Teofilo Folengo, opera attribuita al Romanino, metà XVI secolo (Galleria degli Uffizi, Firenze).

La biografia di Teofilo Folengo Girolamo Folengo nasce da nobile famiglia a Mantova nel 1491. Nel 1509 entra nella comunità monastica benedettina di Sant’Eufemia, presso Brescia, assumendo il nome di Teofilo; si sposta quindi in altri conventi nel mantovano e a Padova. Nel 1517 esce la prima edizione delle Maccheronee, di cui fa parte il Baldus, e probabilmente nello stesso anno riceve l’ordinazione sacerdotale. Per ragioni ancora non chiare (forse per le pagine satiriche contro la corruzione dei religiosi presenti nelle sue opere) è attaccato dalle gerarchie ecclesiastiche e lascia l’ordine nel 1525. Si trasferisce a Venezia, dove collabora con vari stampatori e fa il precettore. Nel 1534 è riammesso nell’ordine e ritorna in monastero. Muore presso Bassano nel 1544. Il Baldus Il poema è diviso in due parti: la prima (I-XI), sicuramente la più riuscita, è ambientata a Cipada, un piccolo borgo del Mantovano. Nella casa del contadino Berto, la principessa Baldovina, figlia del re di Francia e moglie del paladino Guidone, dà alla luce Baldus, che viene allevato dal rozzo e violento contadino. Cipada e i dintorni sono il teatro delle beffe furfantesche che contraddistinguono la fanciullezza e la giovinezza di Baldus, assistito nelle sue imprese dall’astuto Cingar, dal gigante Fracasso (personaggi ispirati a Margutte e Morgante del Pulci) e da Falchetto, mezzo cane e mezzo uomo. Dal libro XII l’azione si sposta in luoghi lontani, la trama si complica e le avventure assumono un tono marcatamente antirealistico e fantastico: sulla scena del poema irrompono incantesimi e figure La produzione anticlassicista 2 135


come diavoli e streghe, una discesa nell’inferno e, alla fine, l’ingresso nella «casa della fantasia», una sorta di mondo surreale, in cui ogni logica è negata e la stessa immaginazione letteraria è forma inconsistente. Un poema eroicomico Il Baldus è una delle opere più significative della tendenza anticlassicistica a cui sopra si è fatto riferimento: è un poema in esametri latini in 25 canti, caratterizzato dalla commistione della dimensione eroica e di quella grottesco-paradossale. Viene pubblicato per la prima volta nel 1517 (seguiranno altre edizioni fino all’ultima, postuma, del 1552) all’interno di una silloge, un insieme di testi che, oltre al Baldus, comprende la Zanitonella (componimenti in versi di argomento pastorale, ma di tono realistico-giocoso) e la Moscheide. Il nome complessivo della silloge è Maccheronee perché tutte le composizioni che ne fanno parte sono in lingua “maccheronica”.

Particolare da Pieter Bruegel il Vecchio, Danza di contadini, 1568 ca. (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

La lingua maccheronica A prima vista il Baldus sembra scritto in latino, ma anche chi ha poca dimestichezza con questo si accorge subito che la lingua del poema di Folengo è diversa dal latino e d’altra parte non corrisponde a nessun volgare. Come spiega lo stesso autore, il termine maccheronico deriva da maccherone, termine che all’epoca indicava un impasto di vari ingredienti. Il termine allude, quindi, metaforicamente a una particolare lingua composita: nel Baldus sono infatti mescolati il latino ed elementi lessicali e sintattici di vari dialetti del Nord Italia (soprattutto mantovano, ma anche bresciano e veneto). Il procedimento usato da Folengo consiste in genere nell’adattare, entro strutture morfologiche e sintattiche latine, il lessico toscano, dialettale, gergale o d’invenzione. Da questa contaminazione linguistica derivano neo-formazioni linguistiche a volte di irresistibile comicità, anche perché stridono col ritmo epico, solenne, dell’esametro. Lo si può notare già in uno dei primi versi del poema: di fronte alla fama altisonante dell’eroe che l’autore si appresta a cantare si legge: «terra tremat, barathrumque metu sibi cagat adossum», “la terra trema e anche il baratro infernale per la paura se la fa sotto”. La scelta anticlassicistica di un umanista Il latino maccheronico di Folengo, frutto di una raffinata competenza letteraria, si richiama all’irriverente poesia goliardica padovana, ma non è certo un innocuo divertimento letterario: dietro l’operazione linguistica sta infatti una precisa volontà polemica nei confronti dei modelli classicisti dominanti. Il latino maccheronico è lo strumento espressivo funzionale a una rappresentazione della vita antitetica alle forme idealizzanti diffuse nella cultura umanistico-rinascimentale: nell’universo poetico di Folengo, in particolare nella parte del poema ambientata a Cipada, è infatti dato particolare spazio alla dimensione basso-corporea (il cibo, le funzioni fisiologiche) in contrapposizione alle raffinate astrazioni dei modelli culturali ufficiali. Un’invocazione alle Muse anticonvenzionale Tale scelta di realismo corposo è indicata espressamente nell’esordio del poema, che ospita la tradizionale invocazione alle Muse, comicamente abbassata: il Folengo rifiuta l’aiuto delle Muse della poesia tradizionale e tutte quante «le chiacchiere del Parnaso», e respinge anche Febo-Apollo, rappresentato ironicamente mentre «gratta la sua chitarrina». Rivendica come poeta la propria cor-

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poreità, i propri appetiti carnali («se considero le budelle della mia pancia») per i quali sono più idonee le Muse grasse e pancifiche che hanno nomi antiletterari tratti dai dialetti lombardi (come Togna, Gosa, Comina) e che egli invita a «imboccarlo di gnocchi» e di polenta. Esse vivono su un monte lontano dove trionfa l’abbondanza iperbolica del cibo: una sorta di paese di Cuccagna(➜ PER APPROFONDIRE Il mito del paese di Cuccagna), nel quale il poeta dichiara di aver «pescato» l’arte maccheronica. La rappresentazione del mondo contadino Per il Baldus la critica ha parlato di «realismo grottesco» (Ferroni): la tendenza alla deformazione caricaturale e grottesca si associa infatti alla descrizione concreta, assai rara nella nostra letteratura (e di per sé anticlassicistica), di oggetti, occupazioni, ambienti che appartengono alla realtà “bassa” del mondo contadino. Per rappresentarlo, Folengo attinge al patrimonio folklorico e alla sua stessa conoscenza diretta, ma sarebbe fuorviante ipotizzare la presenza, nell’autore, di un atteggiamento di partecipazione e di simpatia per il mondo contadino: al contrario Folengo rimane un intellettuale umanista, che si rivolge a un pubblico elitario e guarda al mondo contadino con distacco ironico, a volte con disprezzo, e un’attitudine fondamentalmente satirica, analoga per certi aspetti alla “satira del villano”, sottogenere diffuso nel Medioevo.

PER APPROFONDIRE

Teofilo Folengo, Baldus GENERE

poema epico in esametri latini

STRUTTURA

25 canti

CARATTERISTICHE

elementi dell’epica classica ed eroi della tradizione cavalleresca in chiave parodica

LINGUA

latino maccheronico

Il mito del paese di Cuccagna Un topos letterario assai diffuso è il mito del paese di Bengodi o di Cuccagna. La sua principale caratteristica è l’abbondanza iperbolica di cibo e la sua varietà, con la conseguente possibilità per chiunque di saziarsi. L’immagine ha origine nella cultura popolare ed è evidentemente motivata dalla fame cronica dei contadini. Una descrizione si ritrova già in Boccaccio (Decameron VIII, 3: «una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan

genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua»). Il topos del paese di Cuccagna interessa anche l’ambito delle arti figurative (ad esempio in Pieter Bruegel il Vecchio, 1525 ca.-1569). La descrizione del mitico paese serve al Folengo per alludere al carattere antidealistico della sua poesia, già tratteggiato nei primi versi del poema, dedicati alle Muse.

La produzione anticlassicista 2 137


Teofilo Folengo

T11

Le Muse maccheroniche Baldus I, vv. 1-38, 52-63

T. Folengo, Baldus, a c. di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1989

L’autore compie una deformazione parodica del proemio dei poemi epici cavallereschi sia nel linguaggio sia nei contenuti.

Phantasia mihi plus quam phantastica venit historiam Baldi grassis cantare Camoenis. Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum. 5 Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat, o macaroneam Musae quae funditis artem. An poterit passare maris mea gundola scoios, quam recomandatam non vester aiuttus habebit? Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia, 10 non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent; panzae namque meae quando ventralia penso, non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam. Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae, Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,

VERSIONE IN ITALIANO moderno

Mi ha preso la fantasia, più fantastica che mai, di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene1. Così altisonante è la sua fama e tanto gagliardo il suo nome che la terra tremando lo ammira e il baratro d’inferno si caga addosso dalla paura. Ma prima conviene che io invochi il vostro soccorso, o Muse che largite2 l’arte maccheronica: come farà la mia gondola3 a passare in mezzo agli scogli del mare se il vostro patrocinio non l’avrà raccomandata? Non detti dunque Melpomene il mio canto, né tanto meno la minchiona Talìa4, e neanche Febo, che sta a grattare la sua chitarrina5, poiché, se considero le budelle della mia pancia, le chiacchiere di Parnaso non si confanno alla mia piva6. Soltanto le Muse pancifiche7, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala8, vengano a imboccare di

1 grasse Camene: le Camene sono pro-

4 Melpomene… Talìa: rispettivamente la

priamente le ninfe delle sorgenti, ma qui identifica le Muse. Definendole grasse (“ben panciute, ma anche grossolane”) Folengo allude al carattere della sua poesia, che rifiuta programmaticamente la stilizzazione e l’idealizzazione. 2 largite: elargite, donate. 3 gondola: qui vale “piccola barca”. Attraverso una metafora consueta nella tradizione letteraria, il poeta si riferisce alla sua poesia.

Musa della tragedia e la Musa della commedia, sbeffeggiata dall’aggettivo minchiona. 5 grattare... chitarrina: anche FeboApollo, il dio della poesia, è rappresentato nell’atto di suonare la cetra attraverso un’immagine dissacrante. 6 le chiacchiere… mia piva: le espressioni vane e frivole (chiacchiere) della poesia alta (il Parnaso è il monte della Grecia che nella mitologia classica è sede di Apollo

138 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo

e delle Muse) non sono adatte alla mia poesia. Folengo allude metaforicamente alla propria arte, contrapponendo la rustica zampogna (piva), simbolo della poesia pastorale, all’aulica lira. 7 pancifiche: panciute, grasse. 8 Gosa... Pedrala: i nomi delle Muse maccheroniche risalgono all’area popolare del dialetto e dell’onomastica del bresciano, che Folengo conobbe in giovinezza. In particolare Gosa è “la Gozzuta” e Striazza “la strega”.


15 imboccare suum veniant macarone poëtam, dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos. Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes, albergum quarum, regio, propiusque terenus clauditur in quodam mundi cantone remosso, 20 quem spagnolorum nondum garavella catavit. Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur, quam smisurato si quis paragonat Olympo collinam potius quam montem dicat Olympum. Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi, 25 non solpharinos spudans mons Aetna brusores, Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas, quas pirlare vides blavam masinante molino: at nos de tenero, de duro, deque mezano formaio factas illinc passavimus Alpes. 30 Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam possem, per quantos abscondit terra tesoros: illic ad bassum currunt cava flumina brodae, quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.

gnocchi9 il loro poeta e gli portino cinque e magari otto catini di polenta10. Sono queste le grasse mie dive, le mie Ninfe imbrodolate: la loro dimora, il loro paese e territorio si trovano in un remoto cantone del mondo che la caravella di Spagna non ha ancora scovato11. Una enorme montagna s’innalza laggiù fino alle scarpe12 della Luna: se qualcuno volesse paragonarla all’Olimpo, che è fuori d’ogni misura, direbbe che l’Olimpo è una collina, non un monte. Là non ci sono le corna del Caucaso13 né la schiena del Marocco14 né il monte Etna che sputa bruciori di zolfo, e neanche le montagne della Bergamasca15, dove si cavano quelle pietre rotonde che vedi pirlare16 al mulino quando si macina la biada17: là abbiamo scavalcato giogaie che erano fatte di formaggio, in parte tenero, in parte duro, in parte di mezza stagionatura. Credetemi, ve lo giuro, non saprei dire una sola bugia per tutti i tesori che stanno nascosti sotto la terra: laggiù corrono a valle profondi fiumi di broda che formano un lago di zuppa, un pelago di guazzetto18.

9 gnocchi: ai tempi del Folengo macarone era un impasto di farina, burro e formaggio (solo nel Settecento indica un formato di pasta). 10 catini di polenta: taglieri (di legno) o paioli di polenta (allora era fatta non con farina di mais, ancora ignota, ma con miglio e grano saraceno).

11 caravella... scovato: Folengo allude alla scoperta dell’America, avvenuta, quando compone il poema, da non molti anni. 12 alle scarpe: ai piedi. 13 le corna del Caucaso: le vette aguzze della catena del Caucaso. 14 schiena del Marocco: la catena montuosa dell’Atlante.

15 le montagne della Bergamasca: le Prealpi bergamasche, sul versante di Sarnico, da cui si estraeva un marmo adatto a far macine da mulino. 16 pirlare: girare. 17 la biada: cereali in genere. 18 un pelago di guazzetto: un mare di zuppa alla salsa di pomodoro.

La produzione anticlassicista 2 139


Hic de materia tortarum mille videntur 35 ire redire rates, barchae, grippique ladini, in quibus exercent lazzos et retia Musae, retia salsizzis, vitulique cusita busecchis, piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas. […] O quantum largas opus est slargare ganassas, quando velis tanto ventronem pascere gnocco! Squarzantes aliae pastam, cinquanta lavezzos 55 pampardis videas, grassisque implere lasagnis. Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella, stizzones dabanda tirant, sofiantque dedentrum, namque fogo multo saltat brodus extra pignattam. Tandem quaeque suam tendunt compire menestram, 60 unde videre datur fumantes mille caminos, milleque barbottant caldaria picca cadenis. Hic macaronescam pescavi primior artem, hic me pancificum fecit Mafelina poëtam.

Si vedono andare e venire zattere fatte con pasta di torte, barchette e rapidi brigantini19; sopra ci stanno le Muse e usando reti e laccioli – reti cucite con salsicce e busecche20 di vitello – pescano gnocchi, frittole21 e dorate tomacelle22. […] Quanto giova slargare le ganasce, se di tal gnocco vuoi saziare il tuo ventre! Altre tagliano la pasta e riempiono cinquanta laveggi23 di pappardelle e di grasse lasagne. Altre ancora, se la pentola comincia a brontolare per via del gran fuoco, tirano da parte i tizzoni e vi soffiano dentro, perché il brodo, quando il fuoco è troppo, salta fuori dalla pignatta. Insomma, ciascuna bada a cuocere la propria minestra, per cui vedi mille camini che fumano e mille caldaie che borbottano attaccate alle catene. Qui io, per primo, ho pescato l’arte maccheronica, qui Mafelina24 m’incoronò pancifico poeta25.

19 brigantini: agili imbarcazioni a vela. 20 busecche: trippe. È un termine lombardo. 21 frittole: frittelle. È una voce lombarda e in parte emiliana.

22 tomacelle: polpette speziate di fegato di maiale, uova e spezie (specie zafferano, perciò dorate). 23 laveggi: pentoloni.

140 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo

24 Mafelina: una delle Muse pancifiche nominate in precedenza. 25 pancifico poeta: poeta maccheronico (oltre che “ben pasciuto”).


Analisi del testo La rivisitazione maccheronica della protasi del poema epico-cavalleresco Il Baldus si ispira al genere del poema epico-cavalleresco e si apre quindi con la tradizionale protasi dell’argomento, a cui segue l’invocazione alle Muse: ma la solennità propria dell’epica qui è rovesciata e dissacrata in modo beffardo. Nella presentazione dell’eroe epico Baldus, Folengo offre subito un esempio eloquente dei caratteri della poesia maccheronica: la fama altisonante dell’eroe e il suo nome gagliardo incutono terrore persino al baratro infernale. Il v. 4 è un esempio mirabile della contaminazione, della mescolanza tra latino e volgare che caratterizza la lingua del poema: lo stile letterario dell’autore fa stridere il ritmo dell’esametro virgiliano, enfatizzato dalle allitterazioni, con il sintagma triviale «sibi cagat adossum».

L’invocazione Nel proemio, Folengo non mette in primo piano, come di consueto, la figura e le gesta dell’eroe che si appresta a cantare, ma sé stesso e le sue Muse: gli preme, infatti, connotare agli occhi del lettore la propria poesia come antitetica all’idealizzazione classicistica del primo Cinquecento, i cui modi lirici sono identificati polemicamente come «le chiacchiere di Parnaso». Le Muse della tradizione sono minchione e persino Febo (Apollo) è profanato, essendo rappresentato nell’atto non di suonare in modo sublime la sua lira, ma di strimpellare una chitarrina. Il poeta della poesia maccheronica chiede alle proprie Muse un altro tipo di ispirazione, concretizzata nell’immagine di sé stesso imboccato di maccheroni (da cui la sua poesia deriva il nome). Le Muse maccheroniche sono pancifiche, così come quella di Folengo vuole essere una “poesia di pancia” (lui stesso si autodefinisce «pancificus poëta», v. 63), che non solo non nega, ma anzi esalta la corporeità e i suoi diritti. Anche i nomi popolari attribuiti alle Muse maccheroniche hanno un significato polemico: attingono infatti alla tradizione popolare e ad aree geografiche culturalmente marginali, estranee al processo di fiorentinizzazione della lingua letteraria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il proemio del Baldus (max 8 righe). COMPRENSIONE 2. Che cosa fanno le Muse di Folengo perché il poeta intoni il proprio canto maccheronico? Che cosa avrebbero fatto, invece, le Muse della tradizione? ANALISI 3. Descrivi con parole tue il luogo dove vivono le pancifiche Muse: che cosa lo caratterizza? STILE 4. Spiega il significato di queste metafore in rapporto al contesto: grasse Camene, le chiacchiere di Parnaso, la mia gondola, maccheronica (arte).

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Quale immagine della propria poesia il poeta vuole dare attraverso la particolare protasi e l’invocazione alle Muse che aprono il poema? Quale obiettivo si propone il colto umanista Folengo? Quale motivazione lo spinge? Argomenta (max 8-10 righe).

online T12 Teofilo Folengo Un contadino… poco bucolico Baldus IV, vv. 180-197

La produzione anticlassicista 2 141


5 Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais La biografia François Rabelais nasce, probabilmente nel 1494, a Chinon, nella regione della Turenna. Verso il 1520 diventa monaco francescano e vive in conventi presso Angers e Poitou (in seguito passerà all’ordine benedettino). Dotto umanista, conosce perfettamente il greco e il latino e per le sue qualità di letterato è ammirato e protetto da importanti ecclesiastici. Intorno al 1526 intraprende gli studi di medicina a Parigi e si interessa alla medicina greca antica; esercita come medico in varie città di Francia e soggiorna a più riprese in Italia. Nel 1532 con uno pseudonimo pubblica Pantagruele, prima parte del romanzo Gargantua e Pantagruele in cinque libri (l’ultimo dei quali pubblicato postumo); il quarto libro appare nel 1552 a nome dell’autore. Attaccato dalla censura, l’anno dopo il romanzo è condannato per empietà ed eresia dalla facoltà di teologia della Sorbona, ma lo scrittore non ha conseguenze personali perché gode della protezione di alte autorità ecclesiastiche e civili. Rabelais muore a Parigi nel 1553. Un romanzo di successo Il Gargantua e Pantagruele di Rabelais (considerato il maggior esponente del Rinascimento francese) si iscrive nell’area dell’anticlassicismo, pur essendo nutrito profondamente dei valori dell’Umanesimo. Lo spunto fondamentale viene dalla lettura di un romanzo popolaresco, stampato anonimo a Lione, in cui si narravano le gesta del gigante Gargantua. Rabelais decide di continuare la storia e scrive le gesta del figlio di Gargantua, Pantagruele, pubblicandole nel 1532. Lo straordinario successo dell’opera lo induce poi a riscrivere anche la storia di Gargantua preponendola, nella struttura definitiva del romanzo, a quella di Pantagruele. Ne risulta un’opera di massicce proporzioni in cinque libri.

Anonimo, Ritratto di François Rabelais, XVI secolo (Musée national du château, Versailles).

La trama Il primo libro è dedicato alla figura del gigante Gargantua. La sua educazione, prima tradizionale, è poi invece basata sui princìpi educativi propri dell’Umanesimo (e condivisi dall’autore, che ne approfitta per polemizzare contro l’oscurantismo miope della pedagogia e della cultura medievale). Minacciato dal malvagio re Picrocole, Gargantua riesce a respingerne l’aggressione grazie a fra’ Giovanni, in onore del quale fa costruire l’abbazia di Thelème: in essa vigono la pace e l’ordine, grazie alla possibilità per ciascuno di seguire liberamente le proprie inclinazioni naturali. Nel secondo libro entra in scena Pantagruele, anch’egli un gigante, figlio di Gargantua e di Badebec, che muore dandolo alla luce. È inviato da Gargantua a Parigi per essere educato secondo i princìpi della nuova pedagogia umanistica (esposti dal padre in una lettera che costituisce uno dei passi più noti del romanzo). A Parigi Pantagruele incontra Panurge, allegro e astuto truffatore (che ricorda i personaggi di Margutte del Pulci e di Cingar del Baldus di Folengo), il quale lo accompagna nelle sue avventure. Nel terzo libro Panurge, preso dal desiderio di sposarsi, cerca di capire se sia il caso o no di prender moglie. Per scoprirlo consulta la Sibilla, un mago, un medico, un filosofo, ma le risposte rimangono enigmatiche e insufficienti. Decide allora di partire con Pantagruele per consultare l’oracolo della Divina Bottiglia. Nel quarto libro i due compagni viaggiando per mare

142 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


arrivano nei più strani paesi: la descrizione dei loro abitanti in realtà è occasione per Rabelais per introdurre una satira verso le istituzioni e gli ordinamenti religiosi del tempo, dalla critica alla giustizia alla Chiesa romana, alla Riforma e, più in generale, alla stupidità umana (nell’episodio dei montoni di Panurge). L’unico celebrato è Messer Gaster (il Ventre). Nel quinto libro le peregrinazioni dei due continuano fino a raggiungere la meta: la risposta della Divina Bottiglia al loro quesito, per bocca della sacerdotessa Bacbuc, è semplicemente: «Trink!» (“Bevi!”, in tedesco): un invito ad abbondonarsi all’ebbrezza del vino, rinunciando a complicate elucubrazioni. «Rider soprattutto è cosa umana» Nel breve appello al lettore che apre l’opera (➜ T13 ), Rabelais invita i lettori a liberarsi dalle passioni e ad accogliere il suo romanzo per quello che è, senza scandalizzarsi: un’opera scritta per far ridere, poiché proprio la capacità di ridere è distintiva della specie umana. Nel prologo al IV libro, Rabelais, che era medico oltre che umanista e scrittore, parla delle virtù terapeutiche del riso (oggi pienamente confermate dagli studi scientifici) e si dichiara sano grazie al “pantagruelismo”, una filosofia di vita che associa la lietezza di spirito al disprezzo delle vicende della sorte. Al di là di queste dichiarazioni di principio, Rabelais fa del riso lo strumento per un confronto consapevole e polemico con la cultura e la società del suo tempo. La sua posizione è critica verso ogni dogmatismo e pedanteria in campo culturale, verso ogni posizione ideologica retriva e immobilistica: in particolare, la sua visione del mondo è ispirata al rifiuto dell’ascetismo e dell’idealismo in nome dei diritti della natura. Una visione che ha le sue radici nell’Umanesimo; coonline Interpretazioni critiche me Erasmo, anche Rabelais è però ben consapevole del pericoPrimo Levi lo che la cultura umanistica possa cadere nel culto formalistico Rabelais uomo delle contraddizioni della retorica, nell’erudizione fine a sé stessa e non manca nel suo romanzo anche la satira di un certo umanesimo saccente e pedante. La dimensione “carnevalesca” Rabelais valorizza la dimensione corporea e, più in generale, materiale (Primo Levi ha usato, per definire il romanzo, l’espressione «epica della carne soddisfatta»). L’universo dell’opera è dominato dai bisogni naturali (mangiare, bere, fare sesso, senza escludere le funzioni fisiologiche cor-

Gustave Doré, illustrazione per il Gargantua et Pantagruel, 1854.

La produzione anticlassicista 2 143


porali) e il codice metaforico privilegiato dall’autore, anche quando parla d’altro (ad esempio quando si riferisce a battaglie) è quello gastronomico (➜ T14 OL). La preminenza del “basso corporeo” nel lavoro di Rabelais è stata messa in luce dal critico russo Michail Bachtin (1895-1975): in un celebre saggio del 1965 (L’opera di Rabelais e la cultura popolare) il critico ricollega il primato della corporeità evidente nel capolavoro francese, come anche il rovesciamento di ogni gerarchia (➜ T15 ) e la parodia irriverente di temi e linguaggi alti, alla dimensione “carnevalesca” presente nella cultura popolare (e che si esprime soprattutto, ma non solo, nel «carnevale, quando tutto è lecito, e regnano la stravaganza e la trasgressione dei canoni e ruoli sociali»). In Rabelais gli aspetti “carnevaleschi”, la ricorrente parodia di temi e personaggi, assumono un significato polemico nei confronti dei modelli della cultura ufficiale. Il plurilinguismo L’inventività dello scrittore si esprime pienamente nel linguaggio: la lingua del libro è forse l’esempio più emblematico di “plurilinguismo”. Vi si leggono (e spesso si intersecano) la lingua colta degli umanisti, il linguaggio popolare, le lingue classiche accanto ai volgari europei (come lo spagnolo o l’italiano), ma non manca l’apporto delle lingue settoriali afferenti ai campi più diversi (dalla medicina all’architettura, alle scienze naturali); senza escludere, poi, i non pochi neologismi, impiegati soprattutto in funzione comica. Una vera e propria “babele linguistica” che corrisponde a un’inventività, come si è detto, irrefrenabile e a una visione del mondo (e della letteratura) contrapposta alla stilizzazione e ricomposizione armonica delle contraddizioni che erano proprie del classicismo rinascimentale.

Gargantua e Pantagruele GENERE

romanzo

STRUTTURA

cinque libri

CONTENUTO

la storia e le gesta di Pantagruele, figlio del gigante Gargantua

SCOPO

far ridere e divertire

LINGUA

plurilinguismo

Fissare i concetti La produzione anticlassicista 1. 2. 3. 4. 5.

Che cosa si intende con anticlassicismo? Come è concepita la Vita di Cellini? Di che cosa parlano i due dialoghi che compongono le Sei giornate di Pietro Aretino? Quale lingua utilizza Folengo nel Baldus? Quale scopo si prefigge Rabelais nel redigere Gargantua e Pantagruele?

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François Rabelais

T13

L’appello ai lettori: la difesa del riso Gargantua e Pantagruele

F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 2004

Gargantua e Pantagruele si apre con un appello ai “lettori amici”, in cui l’autore invita il pubblico a entrare nell’opera con lo spirito giusto.

AI LETTORI Lettori amici, voi che m’accostate, liberatevi d’ogni passïone, e, leggendo, non vi scandalizzate: qui non si trova male né infezione. 5 È pur vero che poca perfezione apprenderete, se non sia per ridere: altra cosa non può il mio cuore esprimere vedendo il lutto che da voi promana: meglio è di risa che di pianti scrivere, 10 ché rider soprattutto è cosa umana.

Analisi del testo Una dichiarazione di poetica La breve allocuzione ai lettori preposta al Gargantua e Pantagruele costituisce un’evidente dichiarazione di poetica: rivolgendosi ai lettori, dei quali, con l’appellativo di amici, cerca il consenso, Rabelais li invita ad accogliere la sua opera con animo libero e leggero («liberatevi d’ogni passïone»), a non scandalizzarsi per quanto leggeranno (cosa che non sempre accade) e a non temerne, si può immaginare, la carica trasgressiva («qui non si trova male né infezione»). Certo, il romanzo, come asserisce lo scrittore, non si propone alcun obiettivo pedagogico ideale («poca perfezione apprenderete»). Così come avveniva a suo tempo per il Decameron, l’obiettivo dell’opera è edonistico e insieme consolatorio: vincere il dolore, la tristezza; celebrare, attraverso il riso, la gioia di vivere, perché il riso è prerogativa per eccellenza dell’uomo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Fai la sintesi del testo proposto. LESSICO 2. Come spieghereste l’espressione «Voi che m’accostate»?

Interpretare

SCRITTURA 3. Che cosa intende l’autore quando scrive «ché rider soprattutto è cosa umana»?

online T14 François Rabelais La poetica dell’eccesso Gargantua e Pantagruele II, XXVIII

La produzione anticlassicista 2 145


François Rabelais

T15

L’aldilà come luogo del “rovesciamento carnevalesco” Gargantua e Pantagruele, II, xxx

F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 2004

In seguito a una cruenta battaglia, uno dei compagni di Pantagruele, Epistemone, muore. Tutti lo piangono, ma Panurge, un astuto truffatore compagno di avventure di Pantagruele, promette di resuscitarlo ed effettivamente Epistemone torna in vita. Il suo resoconto di quanto ha visto nel regno dei morti offre a Rabelais l’occasione per una serie iperbolica di beffardi “rovesciamenti” attraverso l’evocazione della condizione di personaggi importanti appartenenti a diverse epoche storiche (compresi alcuni personaggi letterari), mescolati dalla mordace fantasia dello scrittore.

Di colpo Epistemone cominciò a respirare, poi ad aprir gli occhi, poi a sbadigliare, poi a sternutire, poi fece un bel peto grosso da famiglia. E Panurge disse: – Ormai è certamente guarito. E gli diè da bere un bicchierone d’uno scellerato vin bianco, con un crostino zuc5 cherato. In tal modo Epistemone fu abilmente guarito, salvo che rimase giù di voce più di tre settimane, ed ebbe una tosse secca, di cui non riuscì a guarire se non a forza di bere. E subito cominciò a parlare, dicendo che aveva visto i diavoli, e parlato con Lucifero a tu per tu, e fatto allegria in inferno, e laggiù pei Campi Elisi1. E assicurava 10 davanti a tutti che i diavoli erano allegri compagni. In quanto ai dannati, disse che gli spiaceva assai che Panurge lo avesse richiamato in vita così svelto: – Perché mi divertivo molto, – aggiunse, – a vederli. – Ma come? – domandò Pantagruele. – Sì, – disse Epistemone. – Non li trattano poi così male come potreste credere. 15 Solo che la loro condizione appare curiosamente mutata. Vidi infatti2 Alessandro il Grande3 obbligato a rammendare un mucchio di vecchie calzette, che si guadagnava così la sua misera vita. E similmente: Serse4 andava in giro a vender la mostarda; Romolo faceva il salaiolo; 20 Numa il ferravecchi; Tarquinio, taccagno5; Pisone6, contadino; Silla7, remaiolo; Ciro era vaccaro; 25 Temistocle8, vetraio;

1 Campi Elisi: nella mitologia classica, la dimora degli uomini buoni dopo la morte. 2 Vidi infatti: inizia qui un lungo, disordinato, elenco di personaggi illustri che nell’aldilà sono condannati a ruoli insignificanti o umilissimi. 3 Alessandro il Grande: s’inizia con uno dei più grandi condottieri della storia, il re macedone Alessandro Magno (356-323 a.C.), ridotto a rammendare calzette.

4 Serse: Serse, come Ciro, Artaserse e Dario nominati in seguito, sono grandi re persiani (sec. VI-V a.C.). Nell’aldilà il primo vende mostarda, Ciro custodisce il bestiame (vaccaro), Artaserse fabbrica corde, Dario addirittura vuota le latrine (il vuotacessi). 5 Romolo... taccagno: nell’elenco seguono tre leggendari re di Roma: il fondatore di Roma vende sale, Numa commercia

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in rottami di ferro, mentre Tarquinio si segnala per la spilorceria. 6 Pisone: Gaio Calpurnio Pisone (I sec. d.C.), nobile romano che capeggiò la fallita rivolta contro Nerone. 7 Silla: Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.) noto uomo politico e generale romano. 8 Temistocle: generale ateniese (528 ca.462 ca. a.C.).


Epaminonda9, faceva specchi; Bruto e Cassio10, erano agrimensori; Demostene, vignaiolo; Cicerone, fuochista11; 30 Fabio12 infilava i grani del rosario; Artaserse faceva il cordaio; Enea, il mugnaio; Achille, il tignoso; Agamennone, il leccapiatti; 35 Ulisse, il falciatore; Nestore, lo sterratore13; Dario, il vuotacessi; [...] Lancialotto del Lago14 scorticava i cavalli morti; e tutti i cavalieri della Tavola Rotonda erano poveracci ridotti a vivere a giornata, penando al remo su e giù per le 40 riviere di Cocito, Flegetonte, Stige, Acheronte e Lete15, al servizio dei signori diavoli quando volevano passarsela sull’acqua, come le battelliere di Lione o i gondolieri di Venezia; ma per ogni traghetto hanno per tutto compenso una sberla e, verso sera, qualche pezzo di pan muffito. [...] «Così, tutti quelli che erano stati gran signori quassù in questo mondo, si guadagna45 vano una vita da poveri vagabondi in quell’altro. Mentre al contrario, i filosofi, e tutti quelli che avevan dovuto lottare con la miseria quassù, toccava a loro stavolta fare i gran signori. «Ho visto Diogene16 pavoneggiarsi in gran magnificenza, con un gran manto di porpora, e uno scettro in mano; e strapazzava Alessandro il Grande quando non gli 50 aveva rammendato bene le calze, e lo pagava a bastonate. «Ho visto Epitteto17 vestito elegantemente alla francese, sotto una bella pergola, con un bel numero di damigelle intorno, che scherzava, danzava, insomma faceva allegria, e aveva vicino un bel monte di scudi. E a quella pergola stava attaccato un cartello, con su scritta la sua divisa18: 55 Saltare, ballare, e giocare, E bere vin bianco e vermiglio; E non aver altro da fare, Che ridere e scudi contare.

9 Epaminonda: uomo politico e generale tebano (418 ca.-362 ca. a.C.). 10 Bruto e Cassio: i capi della congiura contro Giulio Cesare, qui ridotti al ruolo di misuratori di terreni (agrimensori). 11 Demostene... fuochista: sono nominati, uno di seguito all’altro, i due maggiori oratori dell’antichità classica: il greco Demostene (384-322 a.C.) e il romano Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.). 12 Fabio: non è possibile nessuna ipotesi certa. Potrebbe essere Quinto Fabio Mas-

simo (morto nel 203 a.C.), console cinque volte, detto il Temporeggiatore per aver adottato una tattica di logoramento per contrastare Annibale. 13 Enea… lo sterratore: il protagonista dell’Eneide e vari personaggi dei poemi omerici; il tignoso “malato di rogna”; sterratore “chi scava e spiana la terra” per costruzioni, specie stradali. 14 Lancialotto del Lago: Lancillotto del Lago, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda e del ciclo arturiano.

15 Cocito... Lete: i fiumi infernali su cui i paladini erranti sono costretti a traghettare i diavoli. 16 Diogene: filosofo greco (413-323 ca. a.C.), fondatore della scuola di pensiero cinica. 17 Epitteto: filosofo greco (ca. 50-138 d.C.) seguace della scuola stoica. La sua austera visione viene qui “rovesciata” in una dichiarata adesione ai piaceri della vita. 18 divisa: motto, breve frase.

La produzione anticlassicista 2 147


«Non appena mi vide, mi invitò a bere con lui cortesemente, cosa che io accettai volentieri; e ci mettemmo a sciroppare19 come teologi. Intanto venne Ciro a chiedergli in carità un ventino, per l’amor di Mercurio, per comprarsi un po’ di cipolla da far cena. Ma Epitteto gli disse: “Niente, niente, io non dò mai spiccioli: prendi, straccione, eccoti uno scudo, e cerca di mantenerti onesto”. Ciro era tutto contento d’aver fatto un cosi bel colpo; ma quegli altri furfanti di re, che sono laggiù, come 65 Alessandro, Dario, ecc., lo svaligiarono poi di notte. 60

19 sciroppare: il verbo (che alla lettera vale “fare o bere bevande zuccherose”, e anche “conservare frutta in uno sciroppo zuccherato”) qui allude alla conversazione amabile che si svolge tra i due.

Analisi del testo Un inferno dominato dal riso “carnevalesco” L’episodio della resurrezione di Epistemone e del suo ritorno dall’aldilà costituisce un esempio particolarmente significativo delle più generali caratteristiche dell’opera di Rabelais. Colpisce innanzitutto lo spirito dissacrante e parodico che informa l’episodio, tenuto conto che il modello più immediato è l’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro. Un tale spirito è evidente già nelle prime reazioni del resuscitato, che sono esclusivamente fisiologiche, e anzi basso corporee: dal primo respiro con cui riprende a vivere al gigantesco peto che, a detta di Panurge, ne testimonia inequivocabilmente la ritrovata salute. Tornato dall’aldilà, Epistemone non ha edificanti principi da comunicare, né alcuna informazione da trasmettere ai vivi che abbia a che fare con la dimensione religiosa: l’aldilà, o meglio l’inferno che ha visitato, è un mondo concreto, del tutto laico, in cui domina la dimensione del riso, vero principio organizzatore dell’universo poetico di Rabelais.

L’inferno come “mondo capovolto” L’aspetto dominante nell’inferno rabelaisiano è il rovesciamento della condizione terrena: in una prospettiva dichiaratamente umoristica, i grandi della storia sono costretti a umili occupazioni (l’esempio forse più memorabile è quello del grande re persiano Dario divenuto «vuotacessi»). Lo scrittore enfatizza il principio del “rovesciamento” attraverso la figura retorica, portata all’eccesso, dell’enumerazione: in un lungo elenco compaiono senza alcun ordine, ma anzi in un disordine voluto, figure delle più varie epoche, grandi re e uomini politici, ma non mancano figure leggendarie e personaggi letterari, appartenenti all’epica classica, come Enea e Ulisse, o al romanzo cavalleresco medievale, come Lancillotto e i cavalieri della Tavola Rotonda. Questi ultimi sono costretti a traghettare i diavoli attraverso i fiumi infernali, ricevendone in cambio solo sberle. Se i grandi e gli eroi sono ridotti a una miserrima condizione, i filosofi, al contrario, che hanno sempre dovuto soffrire la miseria e sono stati spesso bistrattati per le loro idee, si trovano nell’inferno in una posizione privilegiata e sono serviti e omaggiati dai grandi: grottesca è l’immagine che vede Alessandro Magno rammendare i calzini all’ex povero filosofo Diogene, o del re persiano Ciro che chiede l’elemosina al filosofo Epitteto, ne riceve uno scudo per essere poi derubato da «quegli altri furfanti di re».

L’inferno come caotico “guazzabuglio” Dalla lettura complessiva del testo proposto si ricava un’immagine dell’inferno come antiordine: all’opposto, quindi, dell’inferno dantesco; se quest’ultimo è strutturato su rigide distinzioni e precise gerarchie in rapporto al nesso colpa-pena (e alla rigorosa visione teologica del poeta), al contrario l’inferno di Rabelais è un caotico guazzabuglio, in cui non esiste alcun principio organizzatore e nessuna divisione e distinzione fra i dannati. Scrive Bachtin a proposito del carnevale nelle culture popolari: «nel carnevale tutti erano considerati uguali, e nella piazza carnevalesca regnava la forma particolare del contatto familiare e libero fra le persone, separate nella vita normale [...] dalle barriere insormontabili della loro condizione, dei loro beni, del loro lavoro, della loro età e della loro situazione familiare. Sullo sfondo dell’eccezionale gerarchizzazione del regime feudale medievale [...] questo

148 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


contatto libero e familiare era sentito molto acutamente e costituiva una parte essenziale della percezione carnevalesca del mondo. Era come se l’individuo fosse dotato di una seconda vita che gli permetteva di avere rapporti nuovi, puramente umani, con i suoi simili [...] Questa eliminazione temporanea, ideale e reale, dei rapporti gerarchici fra le persone, creava nella piazza carnevalesca un tipo speciale di comunicazione, impensabile in tempi normali. Si assisteva all’elaborazione di forme specifiche di linguaggio e di gesti della pubblica piazza, aperte e schiette, che abolivano ogni distanza fra gli individui in comunicazione, libere dalle regole correnti (non carnevalesche) dell’etichetta e della decenza». Ed è quanto accade nell’inferno di Rabelais, sorta di “piazza carnevalesca”.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1 Riassumi il contenuto del racconto di Epistemone precisandone il contesto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. In quale modo si attua il principio del “rovesciamento” per i filosofi? E in particolare per Epitteto, filosofo della scuola stoica? TECNICA NARRATIVA 3. Di chi è la voce che descrive l’inferno? ANALISI 4. Spiega in che modo Rabelais, attraverso la propria opera, critichi i saperi tradizionali e contestualmente anche la società del tempo. STILE 5. Quali espedienti retorici utilizza l’autore per ottenere l’effetto della parodia: enumerazione, climax, ossimoro o anafora?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. Nel brano proposto, come in tutta la propria opera, Rabelais persegue primariamente uno scopo ludico, ma non esclude l’implicita denuncia dei mali del proprio tempo. Individua e presenta oralmente (max 3 min) gli aspetti della cultura tradizionale e della società presi di mira nell’episodio analizzato. SCRITTURA 7. Leggi attentamente il breve passo di Bachtin riportato nell’analisi del testo e cerca di spiegare perché il mondo infernale costruito da Rabelais risponda alla categoria del “carnevalesco” (max 15 righe).

Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra carnevale e quaresima, olio su tavola, 1559 (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

La produzione anticlassicista 2 149


Quattrocento e Cinquecento Classicismo e anticlassicismo

Sintesi con audiolettura

1 La visione classicistica della letteratura

I principi chiave del classicismo Per tutto il Rinascimento vige il principio dell’imitazione dei classici, considerati modelli assoluti di umanità e perfezione stilistica. Il riconoscimento di questa eccellenza, però, non esclude, anzi stimola, il desiderio nei più grandi scrittori del Quattro-Cinquecento di emulare gli autori del passato. Il classicismo comporta innanzitutto la ricorrente presenza del repertorio mitologico e di temi e motivi della letteratura classica (il carpe diem, la fugacità della giovinezza...). Inoltre sono riprese le forme del teatro classico (tragedia e commedia) e il genere idillico-pastorale, particolarmente congeniale al gusto raffinato delle corti e all’edonismo rinascimentale. Si tende poi, in genere, a una rappresentazione idealizzante e nobilitante della realtà e a ricercare attraverso il labor limae uno stile armonico e perfetto. L’influsso della Poetica di Aristotele, infine, spinge a una riflessione teorica sulla letteratura e in particolare sulla tragedia, che conduce all’elaborazione di norme prescrittive associate a uno stile elitario. Lorenzo de’ Medici Lorenzo de’ Medici (1449-1492) è celeberrimo uomo politico ma anche poeta e cultore d’arte influenzato dal platonismo. Le sue opere, tra le quali si ricordano i Canti carnascialeschi e le Selve d’amore, popolano una produzione assai ricca e diversa, prodotto di un amante della sperimentazione. Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza Umanista, filologo, poeta dotto e raffinato, Angelo Poliziano (1454-1494) opera a Firenze, alla corte dei Medici. All’ambiente della corte medicea è rivolto il poemetto encomiastico Stanze per la giostra, ovvero strofe (ottave in questo caso) per il torneo: sotto le vesti del protagonista Iulo, Poliziano celebra Giuliano de’ Medici, vincitore di un torneo indetto da Lorenzo il Magnifico nel 1475. Il poemetto, rimasto incompiuto per l’assassinio di Giuliano, è denso di rimandi classicistici e classico è l’ideale della bellezza (femminile e della natura) che anima il testo, ma rivisto alla luce del neoplatonismo dominante nella cultura fiorentina del tempo e attraverso una lingua assai ricca. Con la Fabula di Orfeo, scritta per la corte dei Gonzaga, Poliziano sperimenta anche un teatro laico a soggetto mitologico. Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia Con il romanzo pastorale Arcadia (1504) Jacopo Sannazaro (1457-1530), attivo nella Napoli aragonese, scrive un’opera di genere bucolico di risonanza europea, immettendo nella letteratura in volgare il mito classico dell’Arcadia, che avrà grandissima fortuna. L’opera ha in parte carattere autobiografico e mescola realtà e finzione. Il paesaggio dell’Arcadia, un’arida regione della Grecia che già nel mondo antico (nelle Egloghe di Virgilio) era stata trasfigurata in luogo mitico, idillico, in cui l’uomo vive in pace e in armonia con la natura, viene riportato in auge da questo prosimetrum e attraversa la letteratura italiana fino al Settecento, dimostrando un sempre maggiore isolamento degli intellettuali dalla società nella corte.

150 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


La civiltà del trattato L’età umanistico-rinascimentale è il periodo di massimo successo del trattato, che nel Quattrocento è dedicato alle tematiche legate alla visione antropocentrica mentre nel Cinquecento discute di modelli di comportamento. Nello stesso periodo, centrale è anche la rappresentazione idealizzante dell’amore. L’intellettuale più autorevole dell’epoca sull’argomento è il veneziano Pietro Bembo (14701547), autore delle Rime alla maniera di Petrarca, di cui aveva curato per Manuzio un’edizione filologica del Canzoniere. Particolare influenza esercita il suo trattato Gli Asolani, un dialogo in tre libri in cui si mettono a confronto diverse concezioni dell’amore, propendendo alla fine per una sua versione spiritualizzata. Nel Rinascimento abbondano i trattati di buon comportamento, inteso non in senso morale ma in senso sociale, in rapporto ai bisogni relazionali e al ruolo ricoperto dagli individui all’interno della corte. Ha risonanza europea Il libro del Cortegiano (1528) di Baldesar Castiglione (1478-1529), manuale di comportamento che diffonde in Europa l’immagine della corte italiana come modello di civiltà. Ambientato alla corte di Urbino, Il Cortegiano è un trattato dialogico in 4 libri che si propone di delineare la figura del cortigiano perfetto (il III libro è dedicato alla “donna di palazzo”); alle competenze militari tradizionali si aggiungono le qualità suggerite dalla pedagogia umanistica: buona cultura, autocontrollo, senso della misura, eleganza non affettata, sprezzatura. Il IV libro fa riferimento al ruolo politico del cortigiano, in quanto consigliere del principe e spesso suo diplomatico. Il libro tratta anche temi del dibattito culturale coevo, quali la questione della lingua (con una tesi differente da quella di Bembo), il comportamento delle donne e l’amore platonico. Ancor più celebre è il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa (1503-1556), che si rivolge a un pubblico più ampio e ha obiettivi più precisi e limitati: insegnare le “buone maniere” (quello che nel tempo è appunto stato considerato “il galateo”): come si sta a tavola, come si conversa, come ci si veste.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

151


2 La produzione anticlassicista

Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo Non mancano, nel Rinascimento, autori che non si riconoscono nel modello estetico dominante, ispirato all’idealizzazione e al classicismo: tali manifestazioni oggi vengono riunite sotto l’etichetta di “Antirinascimento” o “Anticlassicismo” e sono caratterizzate dal plurilinguismo e da registri iperespressivi. La Vita di Benvenuto Cellini Il fiorentino Benvenuto Cellini (1500-1571), celebre orafo e scultore, nella sua Vita, opera autobiografica e autocelebrativa, sceglie una prosa mossa e vivace con inserti di parlato per creare ritratti e rappresentazioni antidealizzanti della realtà che lo circonda. Un “irregolare”: Pietro Aretino Pietro Aretino (1492-1556), spirito trasgressivo e spregiudicato, sperimenta diversi generi letterari e in uno dei suoi lavori più celebri (Sei giornate) immagina che una prostituta istruisca la figlia sull’“arte puttanesca”, in evidente polemica con i trattati idealizzanti sull’amor platonico. Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo Teofilo Folengo (1491-1544) scrive l’opera più significativa della linea anticlassicistica: il Baldus, un poema eroicomico e grottesco in esametri e in lingua maccheronica, che mescola latino ed elementi lessicali e sintattici di dialetti del Nord Italia con effetti spesso esilaranti. In particolare nella prima parte Folengo, che rimane comunque un raffinato umanista, dà spazio a una rappresentazione del mondo contadino antitetica all’idealizzazione bucolica. Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais François Rabelais (1494?-1553), medico e umanista, scrive il capolavoro dell’anticlassicismo in ambito europeo con il suo monumentale Gargantua e Pantagruele. Il romanzo, mediante un plurilinguismo parodico dei linguaggi alti, attacca e irride la pedanteria, il dogmatismo della cultura ufficiale, l’ascetismo e l’idealismo, rivendicando i diritti del riso e del corpo.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Sintetizza in una presentazione digitale i significati che assume il classicismo umanistico-rinascimentale sul piano della visione del mondo e delle scelte artistico-culturali.

Esposizione orale

2. Illustra oralmente (max 2 minuti) le ragioni della fortuna, nell’età umanistico-rinascimentale, del mito dell’età dell’oro.

Scrittura argomentativa

3. Rifletti sulla ricorrente presenza nel Baldus delle tematiche legate al cibo e alla fisicità e, se ne conosci, in altre opere coeve; poi elabora un testo espositivo-argomentativo sulle modalità espressive che le caratterizzano e sulle relazioni con il contesto socio-culturale.

Scrittura creativa

4. Seguendo il modello di Rabelais, prova tu a costruire un inferno con figure dell’attualità o della storia recente che rispecchi i principi del “rovesciamento” e della “carnevalizzazione” propri dell’universo rabelaisiano.

152 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

2 Il petrarchismo e la poesia femminile

Nel corso del Cinquecento si afferma saldamente in Italia un modello poetico ispirato all’imitazione del Canzoniere petrarchesco, che creò un codice lirico comune tra i poeti, destinato a essere esportato anche nella cultura europea. La responsabilità principale nell’imposizione del petrarchismo come indiscutibile modello egemonico nella poesia italiana si deve a Pietro Bembo, nella veste sia di teorico della lingua (con le Prose della volgar lingua, 1525), sia di trattatista dell’amore platonico (con gli Asolani), sia di poeta lirico (con le sue Rime). Nella massa di poeti che poetarono “alla maniera di Petrarca” si distaccano, per qualche apporto originale, alcune singole voci poetiche: la più interessante è quella di Giovanni Della Casa. Desta non pochi motivi di interesse la presenza, all’interno del petrarchismo, di numerose poetesse che testimonia il ruolo attivo delle scrittrici.

consacrazione del 1 LaCanzoniere a modello della poesia lirica

2 Le poetesse 153 153


1

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 Il petrarchismo Già fra Trecento e Quattrocento Petrarca rappresenta un modello per i poeti (come Sannazaro e Boiardo); ma è nel Cinquecento che l’imitazione del Canzoniere diventa un vero e proprio fatto di costume, dando vita al fenomeno del petrarchismo. Non solo in tutta Italia (da Venezia alla Toscana, da Roma a Napoli), ma anche in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo si riprendono in poesia temi e situazioni ricorrenti nel Canzoniere, che entrano così a far parte stabilmente dell’immaginario europeo, costituendo un repertorio poetico comune. Lo stile armonico ed elegante del Canzoniere si accordava al gusto estetico del Rinascimento, ma anche sul piano tematico l’opera di Petrarca rispondeva alle esigenze del tempo: l’inquieta ricerca da parte di Petrarca di superare una dimensione sensuale dell’amore si accordava con la valorizzazione dell’amore spirituale propria del movimento neoplatonico. La fortuna del Canzoniere innesca un’esplosione della lirica, che diventa il genere più di moda nel sistema letterario del Cinquecento: quasi tutti gli intellettuali compongono poesie nelle più diverse occasioni e la lirica diventa una sorta di rito laico che conferisce prestigio e occasioni di promozione sociale a coloro che vi partecipano. Il ruolo chiave di Pietro Bembo Nell’affermazione del culto di Petrarca ha un ruolo primario Pietro Bembo (1470-1547), uno degli intellettuali più importanti della cultura rinascimentale. Dopo aver scoperto il Codice Vaticano 3195 (che contiene l’ultima redazione del Canzoniere), Bembo cura nel 1501 una fondamentale edizione del Canzoniere presso il più importante editore del tempo, il veneziano Aldo Manuzio. Inoltre, con le Prose della volgar lingua (1525), con cui interviene sulla discussa questione della lingua (➜SCENARI, PAG. 72), la lingua del Canzoniere è elevata a modello assoluto per la poesia: una scelta che, data la fama indiscussa del ruolo del Bembo tra i letterati italiani, condizionerà per secoli la poesia italiana, vincolandola all’imitazione più o meno diretta di Petrarca. Infine, con le sue Rime (pubblicate nel 1530) Pietro Bembo offe un esempio concreto, praticabile da tutti i letterati, dell’imitazione di Petrarca (➜ T1a ), gettando così le basi del petrarchismo. Una fortunata scelta editoriale: il Canzoniere in formato tascabile L’editore umanista Manuzio ebbe l’idea di pubblicare l’opera di Petrarca in un volumetto di formato maneggevole (un tascabile diremmo oggi), una scelta editoriale che incrementò il numero dei lettori e influì sulle modalità stesse di lettura del Canzoniere: infatti, mentre i precedenti formati erano adatti ai leggii delle biblioteche e vincolavano rigidamente la lettura a determinati luoghi, tempi e specifiche condizioni, i “petrarchini”, come furono chiamati, permettevano una lettura privata e personalizzata a seconda delle proprie esigenze. Di fatto i petrarchini consentirono

154 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


a molti più lettori di accostarsi al Canzoniere, che ben presto divenne una lettura obbligata fra le persone colte. Leggere Petrarca diventa una vera e propria moda, rispecchiata anche dalla pittura del tempo: dame e gentiluomini si fanno ritrarre con il loro inseparabile petrarchino, simbolo tangibile di una condizione al contempo sociale e intellettuale. Luci e ombre del petrarchismo italiano Indubbiamente il petrarchismo contribuì a creare nella poesia italiana un codice lirico comune. D’altra parte, proprio la tendenza, derivata dall’imitazione di Petrarca, a una raffinata astrazione, e l’estromissione dalla poesia “alta” di ogni dato della realtà e di argomenti e stilemi ritenuti “indegni” del codice lirico, allontana inevitabilmente la poesia dalla vita vera, immobilizzandola in forme stereotipate, che tendono a replicarsi nel tempo.

I petrarchisti Nello scenario affollato del petrarchismo italiano non sono molte le personalità poetiche capaci di una loro originalità e autonomia rispetto al modello. Tra le più significative possono essere ricordati Galezzo di Tàrsia, Michelangelo Buonarroti, e soprattutto Giovanni Della Casa. Pietro Bembo Le Rime di Pietro Bembo (pubblicate nel 1530) rappresentano il versante “normativo” della lirica che si ispira a Petrarca. Volutamente Bembo non

IMMAGINE INTERATTIVA

Andrea del Sarto, Dama col petrarchino (1528). La donna, elegantemente vestita e ornata di preziosi gioielli, appoggia il braccio su una poltrona di legno intarsiato: ogni dettaglio esprime la raffinatezza di un’alta dama di corte, e il Canzoniere ne è il necessario complemento. Sullo sfondo scuro, reso brillante dai riflessi dell’ampio panneggio dell’abito blu, spiccano in piena luce il volto, gli avambracci e le mani, che fanno convergere l’attenzione sul libro aperto, in cui si leggono i due sonetti 153 e 154 di Petrarca. Di recente si è ricostruito che si tratta dell’edizione a stampa del Canzoniere edita a Firenze nel 1522.

Agnolo Bronzino, Ritratto di Laura Battiferri (1558). La gentildonna è vestita in modo assai sobrio e austero, e dipinta in modo da esaltarne il profilo aquilino, indice di una personalità volitiva e di un’attitudine intellettuale (era infatti una donna colta, una poetessa). Laura non guarda verso l’osservatore, ma indica i sonetti del Canzoniere (64 e 240), da cui è possibile ricavare la chiave della sua personalità severa e sdegnosa. Il petrarchino qui raffigurato in realtà è un testo manoscritto (in quanto i due sonetti non sono contigui in nessuna edizione a stampa del Canzoniere).

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 155


ricerca l’originalità, ma propone un modello rigoroso di imitazione del grande poeta trecentesco (➜ T1a ) rivolto agli altri poeti: un’imitazione che non riguarda solo l’armonia dello stile, o la riproduzione di singoli stilemi ricorrenti in Petrarca, ma che comporta anche l’adesione all’itinerario spirituale tracciato nel Canzoniere.

Pietro Bembo ritratto come priore dei Cavalieri Ospitalieri, 1537 ca. (Museo del Prado, Madrid).

Giovanni Della Casa Particolarmente importanti, anche per la suggestione che eserciteranno nel tempo, sono le rime di Giovanni Della Casa (1503-1556), l’autore del celebre trattato Galateo (➜ C1). Le sue composizioni più personali sono caratterizzate da toni malinconici, dalla consapevolezza dell’avanzare della vecchiaia e della morte (➜ T5 ). La caratteristica tecnica che distingue i sonetti dellacasiani – e che maggiormente ha fatto scuola, almeno fino a Leopardi – è il frequente e meditato uso dell’enjambement. Un uso già presente nella poesia italiana fin dalle origini, ma che Della Casa utilizza in modo marcato e ricorrente, ottenendo particolari effetti ritmici, per i quali il suo stile poetico fu particolarmente apprezzato. Michelangelo Buonarroti Buonarroti (1475-1564), uno dei più grandi artisti del Rinascimento, ha lasciato circa 300 componimenti poetici, pubblicati postumi nel 1623. Le sue prime composizioni risentono di diversi influssi, legati alla cultura fiorentina (da Dante al Berni); dal 1532 il modello unico diventa Petrarca, mentre, a livello propriamente tematico, domina la concezione neoplatonica dell’amore. Il petrarchismo di Michelangelo però è del tutto particolare, per la ricerca di un lessico non convenzionale e un’attitudine riflessiva che si traduce in forme concettose e spesso oscure. Galeazzo di Tàrsia Nelle liriche del suo canzoniere, Galeazzo di Tàrsia (1520 ca1553) un nobile calabrese dalla vita breve e avventurosa, in particolare quelle ispirategli dalla prematura morte della moglie, dà voce all’espressione diretta dei sentimenti e a una dimensione drammatica che infrange le convenzioni petrarchiste.

2 La contestazione del modello: gli antipetrarchisti Già nel Quattrocento non erano mancate esperienze poetiche alternative al filone petrarcheggiante: si può ricordare almeno il Burchiello, nome fittizio del fiorentino Domenico di Giovanni (1404-1449), così detto per la tendenza a poetare “alla burchia”, cioè ad ammassare nei suoi testi poetici parole e immagini tratte dalla realtà quotidiana in modo, almeno apparentemente, caotico (la burchia è una barca dal fondo piatto in cui erano ammassate alla rinfusa le merci). Nel primo Cinquecento la figura di maggior spicco nell’ambito della contestazione del modello petrarchista imperante è Francesco Berni (1497-1535). Non è un caso che anche Berni sia toscano: in Toscana infatti era ancora viva la tradizione burlesca e comico-realistica, da cui egli prende le mosse. Tuttavia la sua stessa vita di poeta cortigiano, in particolare alla corte pontificia, impedisce a Berni atteggiamenti troppo apertamente dissacranti e davvero anticonformistici. Berni rifiuta certamente il gusto idealizzante, in campo sia linguistico sia poetico, ma non arriva all’aperta rivolta, limitandosi a una sorridente parodia dei modi petrarchisti, come nel celebre sonetto che proponiamo (➜ T1b ) e a rappresentare nelle sue rime il mondo prosaico della quotidianità: una scelta comunque di per sé significativa.

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Petrarchismo e antipetrarchismo PETRARCHISTI imitazione stilistica Pietro Bembo

costituisce il versante normativo della lirica petrarchista

adesione all’itinerario spirituale del Canzoniere

riflessione malinconica sulla vanità dell’amore Giovanni Della Casa

stile musicale e solenne vanità delle illusioni e inquietudine dell’esistere frequente utilizzo dell’enjambement

concezione neoplatonica dell’amore Michelangelo Buonarroti

toni cupi e oscurità riflessione religiosa lessico non convenzionale espressione diretta dei sentimenti

Galeazzo di Tarsia dimensione drammatica

ANTIPETRARCHISTI parole e immagini tratte dalla realtà quotidiana Burchiello apparente ammasso caotico

tradizione burlesca toscana Francesco Berni parodia non troppo dissacrante dei modi petrarchisti

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 157


T1

Il modello e la contestazione parodica Proponiamo uno dei sonetti di Bembo più celebri, proprio per il suo carattere di esemplare testimonianza della fedeltà al modello di Petrarca. A questo canonico documento del petrarchismo associamo il celeberrimo sonetto di Berni che rovescia, in una dissacrante rilettura parodica, il modello bembiano.

Pietro Bembo

T1a

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura Rime (V)

P. Bembo, Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Tea, Milano 1989

La donna di cui si esalta la bellezza è probabilmente Lucrezia Borgia, cui Bembo dedica altre sue rime e Gli Asolani, un trattato sull’amore.

Crin d’oro crespo e d’ambra1 tersa e pura, ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole2, occhi soavi e più chiari che ’l sole, 4 da far giorno seren la notte oscura3, riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura, rubini e perle4, ond’escono parole sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle5, 8 man d’avorio, che i cor distringe e fura6, cantar, che sembra d’armonia divina, senno maturo a la più verde etade7, 11 leggiadria non veduta unqua8 fra noi, giunta a somma beltà somma onestade9, fur l’esca del mio foco10, e sono in voi 14 grazie, ch’a poche il ciel largo destina11. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DEC 1 Crin... d’ambra: inizia un’enumerazione delle qualità (fisiche e intellettuali) della donna che si lega al verbo fur (“furono”) del v. 13. L’ambra è una resina fossile di colore dorato e, come il precedente riferimento all’oro, è una metafora per alludere al biondo dei capelli dell’amata. 2 ch’a l’aura... vole: che ondeggi e voli all’aria sulla neve (l’immagine metaforica

allude al candore del volto della donna). Il senhal petrarchesco l’aura (Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, XC) è un dichiarato omaggio a Petrarca. 3 da far… oscura: capaci di trasformare in un giorno sereno una notte scura (iperbole). 4 rubini e perle: metafore per alludere alle labbra rosse e al candore dei denti. 5 parole... vòle: parole così dolci, che ad altro bene l’anima non ambisce (vòle, “vuole”). 6 i cor... fura: tiene avvinti e ruba (fura, latinismo) i cuori.

7 senno... etade: matura saggezza nella prima giovinezza.

8 unqua: giammai, mai (latinismo, da unquam). 9 giunta... onestade: virtù somma aggiunta a somma bellezza. 10 fur... foco: furono l’esca che accese in me il fuoco (d’amore). 11 sono in voi… destina: racchiudete doni (grazie) che il cielo riserva (destina) a poche con questa generosità (largo).

Analisi del testo Struttura Il sonetto, costituito da un unico periodo sintattico, è strutturato in due parti, corrispondenti, rispettivamente, la prima ai vv. 1-12, la seconda agli ultimi due versi del sonetto. Nella prima parte Bembo enumera le straordinarie qualità della donna: i biondi e mossi capelli, gli occhi chiari, il sorriso, le labbra rosse e i bianchi denti, la mano bianca come l’avorio, il canto armonioso, la saggezza inusitata in una donna così giovane e infine l’associazione tra bellezza e nobiltà d’animo. Nella brevissima seconda parte si trova la conseguenza di tante qualità e cioè il conseguente innamoramento del poeta (fur l’esca del mio foco).

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Un collage di immagini e termini petrarcheschi La fonte più diretta del sonetto di Bembo è il sonetto CCXIII di Petrarca (Grazie ch’a pochi il ciel largo destina), strutturato a sua volta come una sorta di “catalogo” delle virtù della donna: l’incipit è ripreso letteralmente nella conclusione del sonetto di Bembo. Ma, come ha dimostrato Dionisotti, al di là della fonte principale, il sonetto di Bembo è un vero e proprio collage di immagini, termini, metafore petrarcheschi. Evidentemente non è neppure pensabile che Bembo volesse minimizzare o addirittura nascondere l’imitazione di Petrarca che sta alla base del componimento; al contrario, il sonetto bembiano deve essere considerato un esplicito omaggio al maestro, ma soprattutto un esempio di efficace imitazione che servisse come modello per gli altri poeti.

Francesco Berni

T1b

Chiome d’argento fino, irte e attorte Sonetto alla sua donna (XXIII)

Poesia italiana. Il Cinquecento, a c. di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978

Francesco Berni (1497-1535), toscano, fu poeta cortigiano, prevalentemente al servizio della curia romana. Fu autore di capitoli (componimenti satirico-burleschi in terzine), di un adattamento in toscano letterario dell’Orlando innamorato del Boiardo (pubblicato postumo nel 1542) e di sonetti in stile comico, come quello qui proposto, evidente parodia del petrarchismo bembesco.

Chiome d’argento fino, irte e attorte1 senz’arte intorno ad un bel viso d’oro2; fronte crespa3, u’ mirando4 io mi scoloro5, 4 dove spunta i suoi strali Amor e Morte; occhi di perle vaghi6, luci torte da ogni obietto diseguale a loro7; ciglie di neve, e quelle, ond’io m’accoro, 8 dita e man dolcemente grosse e corte; labra di latte8, bocca ampia celeste9; denti d’ebeno rari e pellegrini10; 11 inaudita ineffabile armonia11; costumi alteri e gravi12: a voi, divini servi d’Amor13, palese fo14 che queste 14 son le bellezze della donna mia. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE 1 d’argento… attorte: canute, ispide e attorcigliate. 2 viso d’oro: viso dal colorito giallastro. 3 crespa: rugosa. 4 u’ mirando: dove (u’ è apocope del termine lat. ubi) guardando. 5 io mi scoloro: impallidisco. 6 occhi di perle vaghi: occhi lacrimosi ed erranti: l’aggettivo petrarchesco per eccellenza (vago) è parodicamente im-

piegato per alludere allo strabismo della donna, a cui si fa più esplicito riferimento subito dopo. 7 luci... a loro: occhi (luci) completamente strabici (lo sguardo è distolto da ogni oggetto che non siano gli occhi stessi). 8 labra di latte: labbra pallide (si noti l’allitterazione). 9 ampia celeste: larga e scura (come la volta del cielo). 10 denti d’ebeno rari e pellegrini: denti neri, scarsi e non ben saldi (pellegrini).

11 inaudita ineffabile armonia: la bellezza della donna (detto ironicamente) è espressione di un’armonia straordinaria (inaudita ineffabile). 12 costumi alteri e gravi: modi superbi e grevi, pesanti (da sopportarsi). 13 divini servi d’Amor: Berni si rivolge ai cultori e cantori dell’amore perfetto (primo tra tutti il Bembo il cui sonetto sopra citato viene parodizzato). 14 palese fo: dichiaro.

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 159


Analisi del testo Una parodia del petrarchismo Il sonetto di Berni rappresenta una donna vecchia e brutta di cui tesse le lodi con i termini e le espressioni che abitualmente nella tradizione lirica e in Petrarca erano usati per lodare la bellezza della donna amata. La fonte diretta a cui Berni attinge è il sonetto di Bembo Crin d’oro crespo di cui fa un’evidente parodia utilizzando in modo ricorrente un procedimento antifrastico, cioè ironico: ad esempio il riferimento metaforico alle “perle”, impiegato dal Bembo per alludere al candore dei denti della donna, è utilizzato dal Berni per alludere invece agli occhi lacrimosi, cisposi, della donna. L’esercizio letterario della parodia si fonda sul pieno possesso, da parte dell’autore, del testo o dei testi che intende rovesciare: la parodia è dunque per sua natura un’operazione colta. La conoscenza del modello peraltro è richiesta anche al lettore, che a sua volta non potrebbe apprezzare altrimenti l’operazione parodica stessa. Un’operazione in questo caso originata da un intento polemico nei confronti dell’imperante moda petrarchista.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è l’intento di Bembo nel comporre il suo sonetto? Quale quello di Berni? ANALISI 2. Completa la tabella, evidenziando nei due testi le differenze tra la poesia petrarchista di Bembo e quella antipetrarchista di Berni. Pietro Bembo, Crin d’oro crespo...

Interpretare

v. 1

Crin d’oro crespo…

v. 3

occhi soavi e più chiari che ’l sole,

v. 5

riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,

v. 6

rubini e perle…

v. 8

man d’avorio…

v. 9

cantar, che sembra…

v. 11

leggiadria non veduta…

Francesco Berni, Chiome d’argento

Rovesciamento del significato La donna è ritratta da anziana: ha i capelli grigi («d’argento»)

SCRITTURA CREATIVA 3. Seguendo il modello di Berni, prendi a modello un sonetto di Petrarca a tua scelta tra quelli studiati e prova tu a costruire un sonetto che rispecchi i princìpi del rovesciamento berniano.

online T2 Pietro Bembo Piansi e cantai Rime (I)

160 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


Michelangelo Buonarroti

T3

Giunto è già ’l corso della vita mia Rime (CXLVII)

Poesia italiana. Il Cinquecento, a c. di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978

AUDIOLETTURA

Il grande Michelangelo Buonarroti si dedicò anche alla poesia, oltre che all’arte, scrivendo molte composizioni in versi, nate dalla sua amicizia intellettuale con Vittoria Colonna, in cui dimostra di aver assimilato la lezione del neoplatonismo. Negli ultimi anni di vita la sua poesia si orienta su una meditazione di contenuto essenzialmente religioso, come nel caso della lirica che presentiamo.

Giunto è già ’l corso della vita mia, con tempestoso mar, per1 fragil barca, al comun porto, ov’a render si varca 4 conto e ragion d’ogni opra trista e pia2. Onde l’affettüosa fantasia che l’arte mi fece idol e monarca conosco or ben com’era d’error carca3 8 e quel ch’a mal suo grado ogn’uom desia4. Gli amorosi pensier, già vani e lieti, che fien5 or, s’a duo morte6 m’avvicino? 11 D’una so ’l certo7, e l’altra mi minaccia. Né pinger né scolpir fie più che quieti8 l’anima, volta a quell’amor divino9 14 ch’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE 1 per: su una. 2 ov’a render... pia: dove si passa a rendere conto e ragione di ogni azione colpevole e virtuosa. 3 Onde l’affettüosa... carca: Per cui ora riconosco come fosse carica di errori (d’error carca), cioè erronea, l’appassionata ispirazione artistica (l’affettüosa fantasia) che mi indusse a considerare (mi fece,

“trasformò per me”) l’arte come idolo e sovrano. 4 e quel... desia: e (conosco bene) quello che ognuno desidera (desia) contro il suo stesso bene, a suo danno, cioè i beni caduchi. 5 che fien: che cosa diventeranno. 6 duo morte: due morti. 7 D’una so ’l certo: Di una (di queste due morti) so che è certa (’l certo, sott. “il [suo] sicuro [compiersi]”).

8 Né pinger... quieti: Né dipingere (pinger) né scolpire potrà (fie, “sarà”) più consolare. In effetti, al tempo della stesura del sonetto (fra il 1532 e il 1554) Michelangelo decide di abbandonare la pittura e la scultura in parte per concentrarsi sull’architettura come impegno più progettuale che esecutivo. 9 quell’amor divino: quel Dio d’amore (per metonimia).

Analisi del testo Un amaro bilancio esistenziale Il sonetto è certamente uno dei più suggestivi della produzione lirica che si iscrive nel petrarchismo. Composto negli ultimi anni di vita di Michelangelo, è incentrato sul tema della vanità di tutto ciò che è terreno nella prospettiva della morte, percepita come ormai vicina. Il tema è in sé quasi convenzionale, data la sua diffusione nella lirica in genere, e in particolare nella poesia di Petrarca, da cui Michelangelo riprende qui, come più sotto si osserva, immagini metaforiche, stilemi e singole espressioni. Ma, d’altra parte, il sonetto presenta una indubbia originalità rispetto al codice lirico del tempo, dovuta alla presenza di riferimenti autobiografici e di una sincera ispirazione religiosa.

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 161


Michelangelo, ormai molto vecchio, riflette sul senso della sua esistenza e l’esito di questa riflessione è negativo: l’arte, a cui ha dedicato la sua vita al punto di farne il motivo ispiratore, il centro assoluto («idol e monarca», v. 6) appare all’io lirico «d’error carca» (v. 7), forse perché fondata sull’illusione che l’arte potesse vincere, con la sua eccellenza, la naturale caducità delle cose terrene. Ma soprattutto, come viene asserito nell’ultima terzina, la creazione artistica non si è rivelata in grado di appagare del tutto le inquietudini interiori del grande artista: la sua anima dunque si è ormai rivolta verso la dimensione del trascendente, l’«amor divino» che ha indotto Cristo a sacrificarsi sulla croce. Un ruolo tutto sommato marginale svolge, all’interno del tema chiave della poesia, il riferimento alle passioni amorose («Gli amorosi pensier», v. 9), che il poeta condanna di fronte al pericolo della dannazione eterna che potrebbero comportare dopo la morte fisica (le «duo morte», v. 10).

La rivisitazione del codice petrarchesco Risulta evidente, anche a una prima lettura del sonetto, l’imitazione di Petrarca, a cominciare dalla contrapposizione tra gli “errori” del passato («fece», v. 6) e l’amara consapevolezza del presente («conoIn un particolare del Giudizio universale sco or ben», v. 7). I riferimenti a Petrarca sono numerosi e “scoperti”, della cappella Sistina (1536-1541), san voluti evidentemente: dall’immagine metaforica che domina la prima Bartolomeo è dipinto con la pelle su cui quartina della vita come viaggio travagliato, che approda al porto è impresso l’autoritratto anamorfico di Michelangelo scorticato. della morte, che rimanda in particolare al sonetto CLXXXIX «Passa la nave mia colma d’oblio/per aspro mare», a singole espressioni, come «d’error carca», «Gli amorosi pensier», «conosco or ben» (che riecheggia da vicino l’espressione «ben veggio or sì» del sonetto proemiale del Canzoniere), all’uso della coppia di aggettivi («vani e lieti», v. 9). Ma, come accennato, il vissuto autobiografico e l’autentica contrizione che ispirano il sonetto di Michelangelo si traducono in un tono ben diverso dall’armonia petrarchesca, in particolare nella prima quartina, in cui il ritmo franto, dovuto all’iterazione della punteggiatura, rimanda a una drammatica presa di coscienza.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto e individuane il tema fondamentale. ANALISI 2. Al v. 10 il poeta parla di due morti a cui sente di avvicinarsi. Sai spiegare a cosa si riferisce? STILE 3. Il testo è tramato di immagini metaforiche: individuale e poi spiegale nel contesto. Quali di esse ti sembrano maggiormente legate al codice petrarchista? LESSICO 4. Individua nel testo termini e stilemi che appartengono al codice petrarchista.

Interpretare

SCRITTURA 5. Dopo aver indicato i versi in cui il poeta allude all’arte e all’amore, rispondi: quale giudizio esprime Michelangelo in questa sua tarda riflessione sull’arte (in cui eccelse come pochi altri) e sull’amore? L’arte, in particolare, ha ancora per l’artista una funzione consolatoria? Scrivi un breve testo (max 10-15 righe) in merito.

online T4 Michelangelo Buonarroti

O notte, o dolce tempo, benché nero Rime (CII)

162 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


Giovanni Della casa

T5

Questa vita mortal, che ’n una o ’n due Rime (LXII)

Poesia italiana. Cinquecento, a c. di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978

Di Giovanni Della Casa (1503-1556) autore del celebre Galateo (➜ C1 PAG. 119) presentiamo un sonetto, tratto dalle Rime (un corpus di sole 64 liriche edite postume nel 1558). Le liriche del Della Casa più felici poeticamente sono quelle in cui lo scrittore abbandona l’imitazione rigida del modello bembiano e il tema dell’amore petrarchesco per esprimere un mondo interiore caratterizzato dalla malinconia e, potremmo quasi dire, dal disagio esistenziale. Sono sonetti, come quello qui presentato, di tono meditativo, aperti alla dimensione religiosa, ancora oggi suggestivi.

Questa vita mortal, che ’n una o ’n due brevi e notturne1 ore trapassa, oscura e fredda, involto avea fin qui la pura 4 parte di me2 ne l’atre3 nubi sue. Or a mirar le grazie tante tue prendo4, ché5 frutti e fior, gielo e arsura6, e sì dolce del ciel legge e misura, 8 Eterno Dio, tuo magisterio7 fue. Anzi ’l dolce aer puro e questa luce chiara, che ’l mondo a gli occhi nostri scopre, 11 traesti tu d’abissi oscuri e misti8: e tutto quel che ’n terra o ’n ciel riluce, di tenebre era chiuso, e tu l’apristi; 14 e ’l giorno e ’l sol de la tua man son opre.

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CED 1 notturne: oscurate dal peccato. 2 la pura parte di me: ovvero l’anima. 3 atre: oscure (latinismo). 4 Or a mirar... prendo: Ora inizio a vol-

gere lo sguardo alle tue molte grazie (è riferito a Dio, al v. 8 Eterno Dio). 5 ché: perché, regge fue (“fu”, con epitesi per ragioni metriche). 6 frutti... arsura: l’enumerazione allude alle quattro stagioni.

7 magisterio: opera. 8 traesti... misti: traesti da abissi scuri e in preda al caos (la suggestiva immagine riecheggia la narrazione biblica: «Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso», Genesi 1, 2).

Analisi del testo Il tema e la struttura Il sonetto, tramato di immagini bibliche, prende spunto da una sofferta riflessione esistenziale: il poeta, consapevole della brevità e caducità della vita, innalza finalmente lo sguardo a Dio, abbandonando l’attaccamento alla dimensione terrena che fino a quel momento l’aveva attratto e coinvolto. Già nella seconda quartina l’accento si sposta dall’io lirico, protagonista della prima quartina, a Dio, invocato al v. 8 (Eterno Dio). Il sonetto assume quindi, in particolare nelle due terzine, la fisionomia di un inno di lode rivolto al Creatore (è presente la suggestione del salmo 103, Laus Dei creatoris, “Lode di Dio creatore”): nella sua grandezza e bontà Dio ha creato l’universo, traendolo dall’oscurità del caos originario.

La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 163


Le scelte stilistiche Il sonetto è caratterizzato dal contrasto tra l’oscurità e la luce, che domina in particolare nella potente immagine cosmica delle due terzine, ma che è impostato in realtà fin dall’inizio, a proposito dell’anima del poeta, immersa fino a quel momento nell’oscurità di una vita non ispirata ai valori del trascendente. Della Casa istituisce un sottile parallelismo tra l’io e il cosmo, sottolineato tra l’altro dalla ripresa al v. 9 dell’aggettivo che aI Vv. 3-4 definisce l’anima: «la pura / parte di me» e «’l dolce aer puro»: sia nell’anima del poeta sia nel cosmo irrompe la luce che vince il buio informe. Come si è detto, la lirica di Della Casa è caratterizzata dal ricorso frequente e ardito dell’enjambement, che in alcuni casi valica anche le scansioni strofiche. Anche in questo sonetto ricorrono alcuni enjambements, che “dilatano” i versi creando il ritmo lento e grave che contraddistingue la lirica dellacasiana.

Giovanni Bellini, Nudo che si pettina, 1515 (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto. LESSICO 2. Il sonetto è dominato dall’antitesi luce/ombra. Fai una schedatura dei termini che appartengono all’una e all’altra area semantica e commenta brevemente la scelta del poeta. STILE 3. Le opposizioni di immagini luce/ombra riprendono il consueto procedimento binario petrarchesco (dittologie, procedere per coppie di aggettivi e sostantivi). Ricerca nel testo alcuni significativi esempi e commentali brevemente. 4. Rintraccia gli enjambements del sonetto e di’ se la loro presenza rallenta o velocizza il ritmo e se la sintassi risulta armonica o spezzata.

Interpretare

SCRITTURA 5. Il sonetto dellacasiano appare innovativo nel suo genere: allontanandosi dal rigido modello bembiano e dal tema dell’amore petrarchesco, il poeta innalza un inno di lode a Dio e manifesta un mondo interiore caratterizzato dalla malinconia e dal disagio esistenziale. Esponi le tue riflessioni in una breve trattazione (max 15-20 righe).

164 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


2

Le poetesse Le donne non sono più solo l’oggetto della poesia Un aspetto interessante, anche a livello di costume, è costituito dalla presenza nella prima metà del Cinquecento di un numeroso gruppo di poetesse: un fenomeno nuovo, che però si esaurisce già verso la fine del secolo. Tra le più importanti ricordiamo Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara (leggi Gàmbara), Veronica Franco, Isabella di Morra. Il primo canzoniere di una donna è quello di Vittoria Colonna (Rime, 1538), destinato a largo successo (l’edizione ufficiale delle sue Rime del 1547 avrà 15 ristampe). Nel 1559 viene pubblicata un’antologia poetica “al femminile” (Rime diverse d’alcune nobilissime e virtuosissime donne) che accoglie testi poetici di ben 53 autrici, a testimonianza di un crescente coinvolgimento delle donne nella scrittura lirica e di un consolidato interesse del pubblico per la poesia femminile. D’altra parte non si può dire che le poetesse abbiano ottenuto un effettivo riconoscimento letterario, tranne forse nel caso di personaggi di alto rango sociale come Vittoria Colonna. La numerosa presenza delle donne nella poesia come autrici e non più solo come oggetto della poesia maschile è certo favorita dall’evoluzione dei costumi all’interno della corte rinascimentale, che assegnava alle donne un ruolo determinante nei rituali delle feste e delle conversazioni. Alcune di loro, come Veronica Franco e Gaspara Stampa, possono essere qualificate come “cortigiane oneste”, cioè donne intellettuali dalla vita indipendente e dai costumi liberi.

PER APPROFONDIRE

Le poetesse rinascimentali: una difficile identità Nel complesso non si può dire che le poetesse del Rinascimento siano riuscite a esprimere in poesia la loro identità, soprattutto perché non avevano altra scelta che utilizzare il codice letterario dominante del tempo, ovvero il petrarchismo: un codice prettamente maschile, in cui la figura femminile e il tema stesso dell’amore sono usati dagli autori (a cominciare naturalmente da Petrarca) come strumento privilegiato per parlare di sé. Nel momento in cui si affacciano alla scrittura lirica, le donne si trovano dunque di fronte al problema di tradurre al femminile gli schemi descrittivi di tipo psicologico e il linguaggio stesso propri del modello dominante.

Cosa significava essere una “cortigiana”? Il termine “cortigiano”, legato a una dominante tipologia sociale ed esaltato dal celebre trattato di Castiglione, non ha nulla a che fare con il corrispettivo femminile “cortigiana”, una figura di donna-intellettuale, dai liberi costumi, che appare testimoniata soprattutto nella società veneziana. Su questa figura la studiosa Marina Zancan osserva: «Gaspara Stampa è in senso pieno una cortigiana, se con questo si allude a quella complessa figura di donna che la società veneziana esprime nel corso del secolo; la cortigiana infatti non è né sposa […] né meretrice, e non è naturalmente monaca. È una figura femminile che sfugge a una definizione

netta perché, negandosi alla gerarchia sessuale, costruisce la propria immagine in funzione di un proprio progetto di vita: la cortigiana è una donna intellettuale che pratica in modo dichiarato una sessualità non normata [anticonvenzionale] e che, dall’essere donna e intellettuale, ricava la possibilità di vivere una vita socialmente non subordinata e intellettualmente organizzata al fine di proiettare, a partire da sé, il proprio sogno di realizzazione». Testo di riferimento: M. Zancan, La donna, in LIE, diretta da A. Asor Rosa, vol. V, Le Questioni, Einaudi, Torino 1986 .

Le poetesse 2 165


Osserva in proposito il critico Giulio Ferroni (i corsivi sono nostri): «Se, per la sua stessa costituzione, il linguaggio petrarchistico è in definitiva il più lontano dall’amore e dalla donna, è fin troppo evidente che le poetesse cinquecentesche parlano soltanto attraverso un linguaggio altrui, accettando necessariamente il punto di vista maschile […]. Il dramma della poesia femminile è in questo suo essere la voce dell’altro, di ciò che la donna non è, della violenza storica e materiale che la donna subisce». Alcune poetesse riuscirono a sviluppare una loro originalità, immettendo nel codice la loro soggettività, ma la maggior parte rimase passiva di fronte all’autorità del modello. Per tutte comunque «la lirica d’amore rappresentò il luogo in cui esprimere, più o meno camuffati, altri desideri: di libertà intellettuale, di affermazione sociale, di autonomia spirituale» (F. Erspamer) in una società che guardava comunque con sospetto, con ironia (e, a volte, con vero e proprio disprezzo) la presenza di donne letterate e in genere l’emancipazione intellettuale delle donne. Vittoria Colonna Nata presso Roma da nobile famiglia, Vittoria Colonna (14901547) fu sposa del marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d’Avalos, uomo d’armi, abile e valoroso, capo delle armate di Carlo V. Morto in battaglia il marito nel 1525, Vittoria divenne un punto di riferimento per la sua figura di nobildonna austera, la sua ampia cultura, la non comune competenza poetica e le frequentazioni con i maggiori intellettuali e artisti del tempo: Castiglione e Michelangelo. Le sue Rime, “in vita e in morte” dell’amato, secondo lo schema petrarchesco, sono in ampia parte dedicate alla figura del marito, ma nell’ultima parte della sua vita il suo severo itinerario spirituale si rispecchia in componimenti di argomento religioso e più in generale spirituale.

Sebastiano del Piombo, Ritratto di donna (presumibilmente Vittoria Colonna), 1520 ca. (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya).

Gaspara Stampa Nata a Padova da famiglia milanese, Gaspara Stampa (1523-1554) visse la sua breve vita a Venezia e fu, forse nel ruolo di “cortigiana onesta”, molto conosciuta e ricercata nei circoli intellettuali della città. Le sue rime sono per la maggior parte dedicate alle vicende del suo amore tormentato per il conte Collatino di Collalto. Ma il suo ampio canzoniere fa riferimento anche ad altri amanti: la Stampa visse infatti una vita anticonvenzionale, dai costumi estremamente liberi.

Fissare i concetti Il petrarchismo e la poesia femminile 1. 2. 3. 4.

Che cosa si intende per petrarchismo? Chi sono i petrarchisti? Che cos’è l’antipetrarchismo e chi è il maggiore rappresentante? Chi sono le poetesse rinascimentali?

166 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


Vittoria Colonna

T6

Qui fece il mio bel sole a noi ritorno

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Rime (VI) Rime del Cinquecento, a c. di L. Baldacci, Longanesi, Milano 1984

Il sonetto, come altri delle Rime di Vittoria Colonna, è dedicato al ricordo del marito, valoroso uomo d’armi, morto in battaglia nel 1525.

Qui fece il mio bel sole a noi ritorno1 di regie spoglie carco e ricche prede2: ahi con quanto dolor l’occhio rivede 4 quei lochi ov’ei mi fea già chiaro il giorno3! Di palme e lauro cinto era d’intorno, d’onor, di gloria, sua sola mercede4: ben potean far del grido sparso fede 8 l’ardito volto, il parlar saggio adorno5. Vinto da’ prieghi6 miei poi ne mostrava le sue belle ferite, e ’l tempo e ’l modo 11 delle vittorie sue tante e sì chiare. Quanta pena or mi dà, gioia mi dava7. E in questo e in quel pensier piangendo godo 14 tra poche dolci e assai lagrime amare. La metrica Sonetto con schema ABBA

2 di regie… prede: carico di un ricco bot-

ABBA CDE CDE 1 Qui... ritorno: la poetessa si ritrova nei luoghi in cui era solita accogliere il marito («il mio bel sole») di ritorno dalle sue imprese.

tino di guerra. 3 mi fea… il giorno: mi rendeva un tempo (già) chiaro il giorno (cioè illuminava la mia vita con la sua presenza). 4 mercede: ricompensa, premio. 5 ben potean… adorno: il suo volto fiero

e il suo modo di parlare saggio e pacato davano credibilità (fede) alla fama che circolava delle sue imprese (grido sparso). 6 prieghi: preghiere. 7 Quanta pena… mi dava: allora mi dava tanta gioia quanta oggi mi dà pena (con la sua scomparsa).

Analisi del testo Il tema dominante Il sonetto si iscrive all’interno della tendenza di Vittoria Colonna a costruire un’immagine altamente celebrativa del marito scomparso. Si tratta di un aspetto centrale nelle sue rime agli occhi dei contemporanei. Alla figura idealizzata dello sposo corrisponde l’auto-rappresentazione di donna fedele e casta, subordinata e insieme complementare all’uomo amato con cui la poetessa volle presentarsi alla società colta del suo tempo. In questo sonetto il marito della poetessa viene evocato nelle sue prerogative di condottiero valoroso e vittorioso, immaginato al suo ritorno da qualche epica impresa militare, mentre narra alla sposa le sue gesta. La seconda parte del sonetto si apre (prima terzina) con una rievocazione di tono più intimo (le ferite di guerra che l’“eroe” mostra alla sua sposa) per poi focalizzare l’acuta pena della poetessa per l’assenza dello sposo, associata alla dolcezza del ricordo.

L’imitazione di Petrarca In particolare nell’ultima terzina, che costituisce il consuntivo, in un certo senso, della rievocazione dello sposo amato da parte di Vittoria Colonna, la poetessa fa evidente ricorso a stilemi petrarcheschi, in particolare l’antitesi, anche in rapporto alla divaricazione temporale tra passato e presente: “pena/gioia; dà/dava; piangendo/godo; poche/assai, “dolci/amare”.

Le poetesse 2 167


Esercitare le competenze comprendere e analizzare

ParaFraSi 1. Svolgi la parafrasi del testo. SinteSi 2. Riesci ad attribuire alle due quartine e alle due terzine un titolo che funga da sintesi? StiLe 3. Analizza nel sonetto: l’aggettivazione, i campi semantici prevalenti, l’uso dell’antitesi.

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Scrittura 4. Con Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa e Isabella Morra si assiste a una nuova tendenza, legata al fenomeno del petrarchismo: la presenza delle donne nel mondo della letteratura come autrici e non più soltanto come soggetti privilegiati della poesia maschile. Dopo aver letto ➜ t8 oL e ➜ t9 oL per conoscere anche le altre voci di questa lirica “al femminile”, argomenta le tue riflessioni in un breve testo di 1520 righe.

Gaspara Stampa

t7

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime Rime (I)

G. Stampa, Rime, a c. di G.R. Ceriello, Rizzoli, Milano 1994

ANALISI INTERATTIVA

Il sonetto che presentiamo apre il canzoniere di Gaspara Stampa, sul modello evidente del Canzoniere di Petrarca. Ma, al di là del voluto riferimento al modello, la Stampa introduce significative variazioni.

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime1, in questi mesti, in questi oscuri accenti2 il suon degli amorosi miei lamenti 4 e de le pene mie tra l’altre prime3, ove fia chi valor apprezzi e stime4, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, 8 poi che la lor cagione è sì sublime5. E spero ancor che debba dir qualcuna6: – Felicissima lei, da che sostenne 11 per sì chiara cagion danno sì chiaro7! Deh, perché tant’amor, tanta fortuna per sì nobil signor8 a me non venne, 14 ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro9?

La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE 1 in queste meste rime: in questi dolenti versi. 2 accenti: parole. 3 tra l’altre prime: più tormentose di tutte le altre. 4 ove fia chi… stime: se ci sarà qualcuno

che apprezzi e stimi il valore.

5 gloria… è sì sublime: spero di trovare tra le persone di valore (ben nate) gloria e perdono per i miei lamenti, dato che la causa di essi fu così elevata. 6 qualcuna: qualche donna. 7 Felicissima lei… chiaro: felicissima lei, dal momento che sopportò (sostenne) un

168 Quattrocento e cinQuecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile

dolore così memorabile (danno sì chiaro) per una causa così importante (sì chiara cagion). 8 per sì nobil signor: da parte di un signore così nobile. 9 ch’anch’io… a paro: che (consecutiva retta da tanta fortuna) sarei anch’io paragonata a una donna così nobile.


Analisi del testo Un modello illustre significativamente rivisitato Questo è il sonetto posto in apertura delle Rime di Gaspara Stampa, con evidente riferimento al modello del sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca (Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono) a cui la poetessa si richiama esplicitamente. Tuttavia sono assai significativi gli scarti rispetto al modello autorevole. Ecco i più rilevanti. Anche la Stampa apre il sonetto con un’allocuzione ai lettori: nel sonetto petrarchesco questi sono identificati in coloro che hanno conosciuto l’esperienza d’amore (v. 7: «ove sia chi per prova intenda amore»); invece i lettori della poetessa sono idealmente selezionati sulla base della capacità di apprezzare il valore. Inoltre la Stampa conferisce a questo tipo di pubblico anche una connotazione sociale, assente nel modello del Petrarca: i suoi lettori fanno parte delle ben nate genti (v. 7), con allusione al pubblico colto e raffinato delle corti. Ai lettori la poetessa anziché la “pietà” come nel sonetto proemiale del Canzoniere, chiede la “gloria”, con una variazione estremamente significativa. Nelle terzine, Gaspara si allontana dal modello e si rivolge espressamente a un pubblico femminile che possa identificarsi in lei, augurandosi la stessa sofferenza d’amore vissuta da una donna così grande. È evidente l’orgoglio della poetessa per l’eccezionalità della sua esperienza d’amore, ma soprattutto per il suo talento poetico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Fai la sintesi del sonetto. ANALISI 2. In questo sonetto proemiale la poetessa rivendica con orgoglio il suo amore. Ci sono nel testo delle “spie” linguistiche da cui emerga l’orgoglio della poetessa? Rintracciale.

Interpretare

SCRITTURA 3. Scheda da una parte le espressioni evidentemente debitrici verso Petrarca, dall’altra gli elementi originali della Stampa. Commenta poi in un breve scritto gli esiti dell’analisi (max 10 righe).

Lorenzo Lotto, Ritratto di donna nelle vesti di Lucrezia, 1533 ca. (National Gallery, Londra). Si tratta di un’allegoria (la donna mostra un disegno che ritrae Lucrezia, eroina romana morta per non cedere alla violenza di Tarquinio).

online T8 Veronica Gambara Ombroso colle Rime (XXVII)

online T9 Isabella di Morra

D’un alto monte onde si scorge il mare Rime (III)

Le poetesse 2 169


Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Francesco Erspamer, in F. Brioschi e C. Di Girolamo, Manuale di letteratura italiana, Storia per generi e problemi, II, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Nel campo della lirica la presenza femminile fu particolarmente ampia e costante, estesa ai vari ambiti sociali e ai vari Stati d’Italia e d’Europa. Si trattò di un fenomeno importante e complesso; ma se da una parte è vero che solo, o soprattutto allora, il contributo letterario delle donne fu determinante, e che solo o soprattutto allora esse fecero gruppo, dall’altro [...] forte rimase l’ostilità alla loro attività, e furono derise, ignorate, accusate di plagio, di presunzione, di immoralità, persino di anormalità sessuale. Ancora più diffuso fu nei loro confronti l’atteggiamento paternalistico: che accettandole a pieno titolo nel sistema ne annullava le istanze di emancipazione e di protesta. Varie furono, ovviamente, le ragioni per cui alcune donne divennero scrittrici: per Veronica Gámbara, abile e stimata signora di una piccola ma vivace corte padana, quella di Correggio, la lirica fu soprattutto un elegante strumento di intrattenimento mondano; per Isabella di Morra, reclusa dai fratelli in un remoto castello calabro, fu un disperato bisogno, se non di reagire all’isolamento, almeno di proclamare l’ingiustizia subita. In generale [...] la lirica d’amore rappresentò per esse il luogo in cui esprimere, più o meno camuffati, altri desideri: di libertà intellettuale, di affermazione sociale, di autonomia spirituale. Nel corso dei secoli la possibilità per le donne di esercitare attività intellettuali e artistiche è sempre stata ostacolata da resistenze di varia natura, e il riconoscimento del loro valore, anche nei casi in cui erano riuscite a praticarle, ha comportato un processo faticoso e spesso contrastato. Molte vicende testimoniano le barriere che la presenza femminile ha incontrato nei diversi ambiti della cultura e della creatività artistica. Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali, di letture e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

170 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


Quattrocento e Cinquecento Il petrarchismo e la poesia femminile

Sintesi con audiolettura

1 La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica

Il petrarchismo Con l’etichetta di “petrarchismo” si fa riferimento a un fenomeno letterario che caratterizza la prima metà del Cinquecento e che consiste nella diffusa imitazione del Canzoniere di Petrarca da parte di un gran numero di poeti e poetesse. Il petrarchismo si iscrive in un periodo di particolare fortuna dell’opera lirica di Petrarca, iniziato con l’importante edizione del Canzoniere curata nel 1501 da Pietro Bembo, e pubblicata da Aldo Manuzio, il più importante editore italiano. La scelta di Manuzio di pubblicare il Canzoniere in un formato maneggevole (i “petrarchini”) per una lettura personale e privata incise non poco sulla sua fortuna. Fu sempre Pietro Bembo, più avanti nel corso del Cinquecento, a consacrare Petrarca come “classico” della lingua italiana nelle sue Prose della volgar lingua (1525) e a proporre con le sue Rime un modello esemplare di imitazione dei Rerum vulgarium fragmenta. Un’imitazione perseguita da numerosi poeti che crea ben presto un codice lirico comune “nel nome di Petrarca”, non solo in Italia ma anche in Europa. I poeti più originali del petrarchismo e gli esponenti dell’antipetrarchismo Giovanni Della Casa (1503-1556) conferisce un taglio più personale al codice petrarchesco perché al tema amoroso preferisce la riflessione sulla vanità delle ambizioni e delle illusioni e il tema del peccato, ma soprattutto per lo stile grave e solenne e l’uso marcato dell’enjambement. Il grandissimo artista Michelangelo Buonarroti (1475-1564) nelle sue Rime indulge da un lato a un lessico concreto e reale, dall’altro a un concettismo che rende spesso enigmatico, se non addirittura oscuro, il senso dei testi. Nelle rime più tarde Michelangelo dà voce a un’ispirazione religiosa tormentata.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Il Burchiello (Domenico di Giovanni, 1404-1449) e Francesco Berni sono i maggiori esponenti del movimento che contesta il petrarchismo, cioè l’antipetrarchismo, che consiste spesso solo in una parodia sorridente dei modi poetici dominanti.

2 Le poetesse

Un aspetto interessante del petrarchismo è il coinvolgimento delle donne nella scrittura lirica. Sono assai numerose nella prima metà del Cinquecento le poetesse, molti i canzonieri al “femminile”, certo anche in relazione all’importanza assunta dalle donne nei cerimoniali della vita di corte. Le poetesse si appropriano per lo più del modello petrarchesco sia riproducendone le situazioni ormai convenzionali, sia mimandone le forme stilistiche, che cercano di adattare, con risultati più o meno felici, all’universo psicologico e sentimentale femminile. Esso rimane però sostanzialmente estraneo al modello. La poetessa più significativa, oltre a Vittoria Colonna (1490-1547), è Gaspara Stampa (1523-1554). Di famiglia milanese, la Stampa visse a Venezia una vita di liberi costumi che ha fatto parlare di lei come di una “cortigiana onesta”.

Zona Competenze Competenza 1. Realizza un PowerPoint nel quale ripercorri la diffusione del petrarchismo in Italia. digitale

172 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

3 La novella nell’età umanisticorinascimentale

La fortuna del genere novellistico, che nel Trecento aveva prodotto il capolavoro del Boccaccio, pur con alterne vicende legate al variare delle coordinate culturali e letterarie, durerà fino alla fine del Cinquecento, quando comincia a emergere una nuova tipologia narrativa, il romanzo, destinato a soppiantare la novella nell’apprezzamento del pubblico. Fino alla metà del Quattrocento circa la Toscana è il centro indiscusso della produzione novellistica; in seguito l’area geografica di diffusione della novella si amplia notevolmente: dalla Napoli aragonese, dove Masuccio Salernitano scrive nella seconda metà del Quattrocento il suo Novellino, all’area padana da cui proviene Matteo Bandello, il maggior novelliere del Cinquecento.

1 il Quattrocento 2 il cinquecento 173 173


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Il Quattrocento Dal macrotesto alle singole novelle Nel primo Quattrocento, la novella vive un momento di crisi: l’aristocratica ottica culturale propria dell’Umanesimo tende a relegare il genere novellistico alla periferia del sistema letterario, guardando con diffidenza e distacco persino al capolavoro di Boccaccio. In questo periodo i novellieri abbandonano non solo l’espediente boccacciano della cornice, ma anche l’impegno nel costruire un macrotesto (cioè una raccolta organica di testi) e preferiscono scrivere singole novelle (le cosiddette “spicciolate”). Una delle più celebri e apprezzate dalla critica è la Novella del grasso legnaiolo. Vi si racconta una beffa crudele ideata nell’ambiente «ricco di umori corrosivi e d’intelligenza degli artisti fiorentini dotati di spirito bizzarro e un po’ bohémien, fecondi nell’inventar burle sollazzevoli e implacabili nel condurle ad effetto» (Asor Rosa): l’ideatore della beffa è infatti il celebre artista Filippo Brunelleschi, mentre la vittima è Manetto il Grasso, un artigiano del legno, che ha bottega in Firenze. Lo stesso Niccolò Machiavelli (1469-1527), autore del Principe, si cimenterà in una “spicciolata”: Belfagor arcidiavolo (1518), una novella nutrita di uno spirito misogino sorprendentemente ancora superstite in piena civiltà rinascimentale (➜ C8). Tra le spicciolate, particolarmente rilevante è la tragica novella Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti, del vicentino Luigi da Porto (1485-1529): rielaborata dal Bandello, la vicenda dei due sfortunati amanti sarà immortalata nel dramma di Shakespeare Romeo e Giulietta (1594-95). All’iter di questo celebre soggetto facciamo riferimento più avanti. Gli antenati della barzelletta: facezie e motti arguti Parzialmente autonomo rispetto al complesso modello boccacciano e molto diffuso nella civiltà umanisticorinascimentale fu anche il filone della facezia (il termine identifica un racconto, in genere breve o brevissimo, che si chiude con una battuta spiritosa), che trae origine dal clima sereno e conviviale delle riunioni tra amici: la facezia infatti (oggi la chiameremmo barzelletta) è un sottogenere narrativo che si propone espressamente di suscitare una risata, senza tante complicazioni concettuali ed estetiche. Valorizzata nel Quattrocento da autori importanti come Leonardo da Vinci (Facezie e Favole) e Angelo Poliziano (Detti piacevoli), la facezia continua poi ad avere notevole fortuna nel Cinquecento e la cosa non stupisce: la civiltà di corte, infatti, esaltava particolarmente la finezza di spirito e l’elegante umorismo. Non a caso, dunque, Baldesar Castiglione, uno degli intellettuali di spicco del primo Cinquecento, utilizza un’ampia sezione del secondo libro del celebre trattato Il Cortegiano (1528) per discutere dei motti e delle facezie: la capacità di rasserenare gli animi è valorizzata come un’importante qualità; quindi le battute di spirito sono considerate un indispensabile bagaglio del gentiluomo, da sfruttare nelle diverse occasioni mondane proprie della vita di corte. Le facezie in latino A un pubblico di intellettuali e umanisti si rivolgevano le facezie in latino, la cui testimonianza più nota è il Liber facetiarum (Facezie) (1438-1452) del grande umanista Poggio Bracciolini (1380-1459); l’occasione da cui scaturirono era comunque la stessa da cui si originavano le facezie in volgare, e cioè le chiacchierate disimpegnate tra amici, che non escludevano, ma anzi prevedevano storielle e battute sconce, addirittura triviali.

174 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


online

Per approfondire

VERSO IL NOVECENTO

Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio

Un estimatore novecentesco della facezia – ormai definita “barzelletta” – è l’umorista Achille Campanile (1899-1977), raccoglitore di barzellette (Trattato delle barzellette), attentamente divise per argomenti e tipologia. Quello della prontezza di spirito nell’ideare battute spiritose è un gusto tipicamente toscano, testimoniato fin dal Novellino, e non a caso il Boccaccio aveva dedicato un’intera giornata del Decameron (la VI) al motto arguto, cioè all’intelligente battuta di spirito, una variante della facezia. Nei racconti iscrivibili in questa tipologia gli elementi narrativi sono ridotti al minimo, proprio per valorizzare la battuta spiritosa, costruita secondo meccanismi già codificati dalla retorica classica: vi trovano posto espressioni paradossali, doppi sensi, allusioni argute. I meccanismi psicologici implicati nella battuta di spirito sono stati acutamente analizzati dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud, in un suo celebre saggio. Se le forme della narrazione breve a cui abbiamo fatto riferimento appartengono tutte all’ambiente toscano, fa eccezione la raccolta novellistica di Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati, nato forse a Sorrento nel 1410 e morto a Salerno nel 1475). Nel suo Novellino, una raccolta di cinquanta novelle composta tra il 1450 e il 1470, Masuccio abbandona la cornice, premettendo a ogni novella una lettera dedicatoria in cui si riflette la consuetudine del dialogo e dello scambio epistolare propri della corte (in questo caso si tratta della raffinata corte aragonese); lo stesso farà anni dopo Matteo Bandello (➜ C3.2). Con il Novellino di Masuccio Salernitano, si delinea una tendenza volta a valorizzare, in rapporto con il tema amoroso (ma non solo), anche la dimensione tragica (che troverà poi piena espressione artistica nel teatro inglese e spagnolo): la passione amorosa in Masuccio è spesso associata alla violenza e all’ingiustizia (➜ T2 OL).

Dalla facezia umanistica alla barzelletta

Achille Campanile Trattato delle barzellette A. Campanile, Trattato delle barzellette, in Romanzi e scritti stravaganti, 1932-1974, a c. di O. del Buono, Bompiani, Milano 1994

Achille Campanile (1899-1977) è autore di un vasto corpus di opere teatrali e narrative, ancora non del tutto esplorato dalla critica. La nota dominante della sua produzione è senz’altro l’umorismo, in genere legato, proprio come l’antica facezia, al gioco di parole, alla freddura, spesso al nonsense. Nel passo che proponiamo, il fine umorismo di Campanile – che ha lasciato anche un Manuale di conversazione (1973) – si esplica in un “galateo” della barzelletta (sia da parte di chi la racconta, sia da parte di chi la ascolta) degno di monsignor Della Casa.

Come raccontare una barzelletta Non credete a quelli che vi diranno che, per far ridere, bisogna esser seri. Questo andrà bene per un discorso alla Camera dei deputati. Ma, per quel che concerne le barzellette, il modo migliore per raccontarle è che il raccontatore cominci subito lui stesso a ridere fin dal momento in cui dice: «E la sapete quella, eccetera eccetera?». Questo incoraggerà gli ascoltatori a ridere. E, nella peggiore delle ipotesi, farà sì che ci sia almeno uno che ride: il narratore stesso. Senza dire che:

Il Quattrocento 1 175


VERSO IL NOVECENTO

* se questi si mantenesse per tutta la narrazione rigorosamente serio, potrebbe dar luogo al caso, purtroppo verificatosi con una certa frequenza, della barzelletta scambiata dagli ascoltatori per un fatto doloroso, realmente accaduto, e perciò accolta con un rispettoso silenzio. * Se, malgrado le proprie risate, il narratore s’accorgesse, nel corso della narrazione, che la barzelletta non fa ridere affatto gli altri, caso anche questo purtroppo non infrequente, non deve scoraggiarsi né abbandonarsi ad atti inconsulti. Ma dovrà dire, per esempio: «E c’è ancora chi ride per simili scempiaggini!». Vediamo ora Come ascoltare una barzelletta La buona educazione vuole che si rida. Ma non bisogna ridere a vanvera. Occorre anzitutto atteggiare le labbra al sorriso fin dall’inizio della narrazione. Se questa si prolunga troppo, ne consegue un certo dolore ai muscoli facciali, che dovrete sopportare senza lamenti, insistendo nel sorriso per tutta la durata della narrazione stessa. Esplodere in risate alla fine. * Va considerata una jattura credere che la barzelletta sia finita, quando non lo è, e ridere a sproposito. Per questa ragione occorre accertarsi bene che la barzelletta sia finita. In caso di dubbio, informarsi dai vicini e, ove anche questi non siano in grado di ragguagliarvi convenientemente, rivolgersi allo stesso narratore: “È finita?” “Sì.” Allora, ridere. * Se la barzelletta è lunga ed elaborata, può capitare di distrarsi durante la narrazione e pertanto non seguirne il filo. In questo caso, regolarsi sul come fanno gli altri, se ce ne sono. Se siete solo col narratore, appena capirete che non capite più, accentuare le smorfie del sorriso fino ad accrescere il dolore dei muscoli facciali. * In tal frangente, sempre che siate solo col narratore e certo di non esser visto, ove il dolore dei muscoli facciali risulti insopportabile, potrete colpire il narratore con un colpo secco sulla testa, in modo da addormentarlo. Ma questo non è bello e va riservato ai casi disperati.

Poggio Bracciolini

T1

Il prete che invece di paramenti portò al vescovo dei capponi Facezie, XXII

P. Bracciolini, Facezie, a c. di M. Ciccuto, Rizzoli, Milano 1983

All’interno della celebre raccolta di facezie scritte in latino nella prima metà del Quattrocento dal grande umanista Poggio Bracciolini, occupa un posto privilegiato il gioco verbale, che si può tradurre in fraintendimento o in battuta pronta e arguta con cui ci si cava d’impaccio in situazioni difficili, si apostrofa qualcuno o si mettono alla berlina gli sciocchi. La facezia che presentiamo è appunto incentrata sul gioco linguistico.

176 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


Un vescovo d’Arezzo di nome Angelo1, che io ho conosciuto, convocò un giorno al Sinodo i sacerdoti della sua diocesi, facendo sapere che coloro i quali avevano una qualche carica si dovessero presentare a detto Sinodo in cappa e cotta (che sono, appunto, paramenti sacerdotali). Uno di questi preti, sprovvisto degli indumenti ri5 chiesti, se ne stava triste in casa, non sapendo dove poterseli procurare. La perpetua che viveva con lui, vedendolo pensoso e assai immalinconito, gli domandò la ragione di tale tristezza; e il prete rispose che, giusta2 l’ordine del vescovo, egli doveva presentarsi al Sinodo in cappa e cotta. «Ma, mio buon amico, voi non avete inteso la sentenza3 del precetto» replicò la serva. «Non cappa e cotta richiede il vescovo e 10 voi dovete portare, bensì capponi cotti.» Il prete apprezzò l’avvedutezza della donna e, con i capponi al seguito, fu molto ben accolto dal vescovo, il quale per celia4 diceva che solo quel suo prete aveva interpretato correttamente il senso dell’avviso. 1 Angelo: il personaggio è realmente esistito: si tratta di Angelo de’ Fiebindacci e Ricasoli, che fu

vescovo di Arezzo sotto il pontificato di papa Bonifacio IX. 2 giusta: secondo.

3 sentenza: il vero senso. 4 celia: scherzo.

Analisi del testo La brevità programmatica e il gioco linguistico La facezia è per sua natura un genere narrativo che accentua, esasperandola, la concentrazione narrativa tendenzialmente costitutiva del genere “novella”. Non viene dato spazio a un’azione narrativa articolata, ma ci si limita a delineare, con pochi tratti, un contesto, una situazione e magari una tipologia sociale o antropologica: in questo caso la facezia si fonda sulla difficoltà di un povero prete di reperire l’abbigliamento ecclesiastico (la cotta e la cappa) richiesto espressamente dal vescovo per la solenne occasione del Sinodo. Sullo sfondo si intuisce perciò un’esistenza grama, una situazione con penuria di mezzi. La difficoltà è risolta dall’arguzia e dalla “conoscenza di come va il mondo” della perpetua del prete, una figura tratteggiata con poche parole, ma efficacemente ritratta nel suo pragmatismo, che richiama la popolaresca saggezza della Perpetua manzoniana. La facezia vera e propria coincide con il gioco di parole che trasforma «cappa e cotta», per analogia fonica, in «capponi cotti». Un qui pro quo che il vescovo non manca di apprezzare: la sorridente ironia che investe la figura del potente ecclesiastico e chiude il raccontino introduce in modo garbato una nota critica sul comportamento, non proprio spirituale, delle alte gerarchie ecclesiastiche.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. Identifica, anche sul piano dello status sociale, i tre personaggi che sono implicati nella facezia. LESSICO 2. Ricerca e trascrivi il significato dei termini facezia, freddura, barzelletta e metti in luce le differenze fondamentali tra queste forme di comunicazione comica.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Fai un confronto tra questa facezia e le novelle del Decameron di Boccaccio: rilevi analogie? Se sì, con quali novelle?

online T2 Masuccio Salernitano

Una novella ispirata al gusto per l’orrido Novellino, XXXI

Il Quattrocento 1 177


2

Il Cinquecento Il confronto con Boccaccio: cornice sì o no? Nel corso del Cinquecento continua la produzione novellistica, nella quale è comunque sempre inevitabile il confronto con il grande modello del Decameron, fondamentale punto di riferimento, a cominciare dalla scelta o meno di utilizzare la “cornice”. Quandanche viene utilizzata dai novellieri cinquecenteschi, essa rimane però un elemento poco fuso con le novelle, ben lontano dalla esemplare coerenza strutturale del capolavoro di Boccaccio. Nella raccolta Ragionamenti (1523-1525) di Agnolo Firenzuola (1493-1543), ad esempio, lo spazio della cornice viene dilatato, assumendo quasi le proporzioni di un trattato e accogliendo le questioni più dibattute nel tempo, come l’amore o la lingua. Ma l’equilibrio complessivo ne risulta compromesso e la raccolta si interrompe all’inizio della seconda giornata. Una riedizione del contesto drammatico che caratterizza la cornice del Decameron si ha negli Ecatommiti (termine grecizzante che significa “cento racconti”) di Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573); pubblicati nel secondo Cinquecento (1565), la cornice storica dei racconti è costituita dall’evento del sacco di Roma del 1527, che induce un gruppo di persone a fuggire per mare dalla città per rifugiarsi a Marsiglia, dove si dedica a occupazioni piacevoli e in particolare alla narrazione. I temi Nelle raccolte successive al Decameron, oltre a temi tradizionali come la beffa o (almeno per un certo periodo) la satira anticlericale, mantiene un posto di primo piano l’amore. Per circa un secolo gli scrittori di novelle, soprattutto nell’area toscana, preferiscono trattare il tema attraverso il registro della comicità, declinata in modo molto diretto o addirittura scurrile. Matteo Bandello, invece, all’interno di quello che è il più vasto repertorio narrativo della storia novellistica, mostra particolare propensione a rappresentare l’amore con il registro tragico. «Nei personaggi bandelliani l’amore distrugge e cancella ogni altro sentimento: diviene fissazione, mania, stravolgimento del pensiero» (Battaglia). Non a caso, i drammi d’amore delle sue novelle sfociano spesso nella morte, come nella novella qui antologizzata (➜ T3 ). Il gusto del macabro e dell’orrido Alludiamo qui a una dimensione che, attraverso la mediazione di Masuccio, emerge vistosamente nella novella del Cinquecento prima con Bandello e poi con Giraldi Cinzio. Caratteristica della novella di Masuccio era già la frequente presenza di una dimensione crudele e grottesca, di un compiacimento dell’orrido (come nella sconcertante novella di cui presentiamo uno stralcio ➜ T2 OL). Il maestro della novellistica cinquecentesca, Matteo Bandello (1485-1561), ripropone a sua volta in alcune novelle lunghe un certo gusto per l’orrido, per soggetti addirittura raccapriccianti, che sarà ampiamente utilizzato da Shakespeare e anche, secoli dopo, dal Romanticismo europeo. Verso la fine del Cinquecento i temi si incupiranno sempre più: al macabro, al tragico verrà dato sempre più spazio, in rapporto evidentemente alla crisi della civiltà rinascimentale e, successivamente, al clima cupo della Controriforma. Dalla novella al teatro rinascimentale Fra novella e teatro ci sono legami stretti e antichi. Nella novella infatti sono presenti situazioni e temi chiave che erano stati

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propri del teatro classico: ne è un esempio il tema dello sdoppiamento di persona e dello scambio, molto diffuso nella produzione novellistica e che risale al commediografo latino Plauto (254 ca-184 a.C.). Quando poi, tra Quattro e Cinquecento, nasce il teatro umanistico-rinascimentale (➜ C7), sarà questo a rivolgersi alla novella come ricco serbatoio di temi e situazioni cui attingere: i racconti più facilmente “sceneggiabili” saranno utilizzati come fonti preziose per trame teatrali. Fra i temi novellistici che più si prestavano alla trasposizione teatrale e che più furono utilizzati dal teatro comico rinascimentale si annovera certamente quello della beffa, e in particolare della beffa erotica, un tema ampiamente testimoniato anche nel Decameron: la situazione più ricorrente prevede che un marito sciocco, e in genere di elevata condizione sociale, sia raggirato o ridicolizzato da un giovane prestante che diventa amante della moglie, a volte anche per raggiungere una migliore posizione sociale. La situazione della beffa erotica è al centro della più celebre commedia rinascimentale: la Mandragola (1518) di Niccolò Machiavelli (➜ C8). Il declino del «narrare novellando»: verso il romanzo Già nel tardo Cinquecento serpeggiano nella produzione novellistica elementi di crisi che emergeranno nel Seicento portando alla decadenza della novella: sarà un nuovo genere, il romanzo, a rispondere meglio alle esigenze proprie dell’età controriformistica e barocca. Le ragioni di questa decadenza si ritrovano innanzitutto nel mutato clima spirituale creato dalla Controriforma (nel 1563 si chiude il concilio di Trento); il rinnovato rigorismo morale proposto dalla Chiesa non poteva che scontrarsi con i contenuti tradizionali della novella: l’oscenità e la satira anticlericale, tematiche entrambe espressamente condannate in questo periodo. Ma al declino della novella concorrono anche ragioni storico-sociali che interessano il nesso tra il «narrare novellando» e la civiltà comunale, in particolare

Liberale da Verona, I giocatori di scacchi, tempera su legno, 1475 (Metropolitan Museum of Art, New York).

Il Cinquecento 2 179


toscana e fiorentina: il modo novellistico era infatti il più adatto a raccontare una società in cui l’ambiente delimitato favoriva certe forme di circolazione delle esperienze umane. Man mano che la società comunale-signorile entra in crisi, è logico che quel modello narrativo, nato in rapporto a un preciso costume sociale, decada, lasciando aperto il campo alla sperimentazione di forme più articolate e complesse di narrazione, che confluiranno appunto nel romanzo, genere emergente nel Seicento. Matteo Bandello Matteo Bandello, nato a Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria, nel 1485 da nobile famiglia, fu chierico, uomo di corte e diplomatico, al servizio di vari signori, come gli Sforza a Milano e i Gonzaga a Mantova. Dal 1528 visse a Verona, nel ruolo di segretario del condottiero genovese Cesare Fregoso, luogotenente di Francesco I, re di Francia. Dopo la morte violenta di Fregoso, Bandello si trasferì in Francia. Morì ad Agen, dove era stato ordinato vescovo, nel 1561. Le novelle La fama di Bandello è legata all’ampia raccolta di novelle (Quattro libri delle novelle) per un totale di 214 testi. Bandello rifiuta di utilizzare la cornice: seguendo l’esempio di Masuccio Salernitano, premette a ogni novella una lettera dedicatoria indirizzata a eminenti politici, letterati di spicco, gentiluomini e gentildonne in cui si rispecchia il pubblico di corte, una finzione letteraria finalizzata a creare un effetto di verosimiglianza. Nonostante non si possa assegnare valore storico alle lettere, forniscono comunque un vivo ritratto della società del tempo. Le novelle non sono in alcun modo organizzate, presentano trame intricate, argomenti molto vari: si va dal comico-osceno al tragico, all’avventuroso-fiabesco, con una disposizione a indagare temi inusuali nella tradizione. Il gusto di Bandello per l’orroroso, il suo interesse per i “casi strani”, per un mondo online Interpretazioni critiche di individui dalla psiche malata, che fanno gesti inesplicabili e incoerenti, testimoSalvatore Battaglia nia l’incipiente crisi dell’equilibrio rinascimentale, degli ideali di armonia e misuL’imprevedibilità ra tipici della civiltà del tempo. L’opera di Bandello ebbe grande successo anche in come legge del comportamento umano Europa: tradotte in inglese e in francese, le novelle ispirarono vari autori stranieri, tra cui Shakespeare.

La novella quattro-cinquecentesca Ragionamenti di Agnolo Firenzuola: dilatazione dello spazio della cornice Tra imitazione e variazione di Boccaccio Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio: utilizzo del contesto drammatico (sacco di Roma)

Belfagor arcidiavolo di Machiavelli: novella singola Opere estranee a Boccaccio Novelle di Bandello: novelle prive di cornice

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Matteo Bandello

T3

Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide Novelle, XX

M. Bandello, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1943

Dalla raccolta di Bandello presentiamo una novella che ha per protagonista un giovane gentiluomo, preda di una passione amorosa struggente e ossessiva che ha tutti i tratti della “malattia d’amore” (➜ V1A PAG. 272). Da qui lo sconcertante epilogo, proprio quando la storia sembra prendere una piega favorevole e far presagire un canonico “lieto fine”.

NOVELLA XX Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide. Fu al tempo del sapientissimo prencipe, quantunque sfortunato, signor Lodovico Sforza1, in una città del ducato un mercadante molto ricco di possessioni e ne la mercanzia di gran credito2. Egli prese per moglie una gentildonna giovane, costumata e d’animo generoso, da la quale ebbe un figliuolo senza piú3. Non era ancora 5 il figliuolo di dieci anni che il padre morí, lasciandolo del tutto erede, sotto cura de la madre. La donna, bramosa che il figliuolo a l’antica nobiltà degli avoli suoi si traesse4, non volle che a cose mercantili mettesse mano, ma con somma diligenza gentilescamente il fece nodrire e a le lettere attendere5 e ad altri essercizii di gentiluomo. Ella poi attese a ritirar piú che puoté le ragioni che il marito ne le cose 10 mercantesche aveva6 per Italia, Fiandra, Francia, Spagna ed anco in Soria7, attendendo a comprar possessioni al figliuolo, che Galeazzo aveva nome. Crebbe egli e divenne molto gentile e magnanimo, e oltra le lettere, si dilettava de la musica, di cavalcare, di giuocar d’arme, di lottare e d’altre simili vertú8. Il che a la madre era di grandissima contentezza, e di panni, di cavalli e di danari provedeva al figliuolo 15 largamente, non gli lasciando mancar cosa che a lui piacesse. Ella in pochi anni sodisfece a tutti i debiti del marito ed anco ricuperò quanto egli da altri mercadanti deveva avere. Restava una ragion sola9 con un gentiluomo veneziano che trafficava in Soria, il quale deveva ritornar a Venezia, essendo già Galeazzo di sedeci in dicesette anni. Onde egli, desideroso, come sono i giovinetti, di veder del paese e 20 massimamente la famosa ed onorata città di Venezia, pregò la madre che lo lasciasse andare. Non dispiacque questo giovenil disio a la donna, anzi l’essortò ad andarvi e volle che egli fosse quello che desse fine ai conti col gentiluomo veneziano, e mandò seco un fattore molto pratico, indirizzandolo anco ad un mercadante in Venezia, che era grande amico de la casa. Andò Galeazzo molto in ordine di vestimenti e di 25 servidori, e giunto a Venezia e fatto capo a l’amico paterno, fu lietamente visto, ed 1 Lodovico Sforza: detto il Moro (14521508), fu duca di Milano dal 1494 fino al 1500, quando venne deposto e imprigionato dai Francesi. Ospitò alla propria corte i migliori artisti dell’epoca (da Leonardo da Vinci a Bramante). 2 un mercadante... credito: un mercante, possessore di molte terre e molto stimato nell’arte del commercio.

3 senza piú: soltanto. 4 a l’antica nobiltà... si traesse: si conformasse all’antica nobiltà dei suoi antenati (avoli). 5 gentilescamente... attendere: lo fece allevare secondo i dettami cavallereschi e dedicarsi agli studi letterari. 6 attese... aveva: si diede da fare per chiu-

dere gli affari mercantili che il marito aveva in sospeso. 7 Soria: Siria. 8 Crebbe egli... simili vertù: il ritratto della formazione del giovane Galeazzo corrisponde perfettamente al modello del gentiluomo cortese. 9 Restava una ragion sola: Rimaneva un’ultima questione da risolvere.

Il Cinquecento 2 181


andarono di brigata10 a ritrovar il gentiluomo veneziano, al quale si diede Galeazzo a conoscere11 e gli disse la cagione del suo venire. [Il gentiluomo veneziano si dichiara dispostissimo a saldare il suo debito, ma prima dovrà recarsi a Padova dalla sua famiglia. Galeazzo lo accompagna ed è ospitato 30 nella casa del gentiluomo.] Aveva esso veneziano una bella figliuola di quindeci anni, la quale da Galeazzo tutto il dí vista fu cagione che il giovine di lei ardentissimamente s’accese12, non avendo per innanzi13 mai provato che cosa fosse amore. Ella de l’amor di lui avvedutasi14, piacendole il giovine, non ischivò punto il colpo amoroso15; anzi di lui senza fine 35 s’innamorò, e tanto andò la bisogna che, una e due volte avuta la commodità di parlarsi, diedero ordine a quanto intenderete16. Deveva il padre di lei fra tre dí17 dar tutti i danari a Galeazzo e seco a Venezia tornarsene, ove gli conveniva18 star qualche tempo. Ella dopo la partita loro, fra dui dí19, doveva fuggir di casa sotto la cura d’un fidato servidore di Galeazzo, il quale egli aveva finto mandar a la madre, e il 40 veneziano medesimo per lui le aveva scritto. Ma il buon servidore stette nascosto in Padova fin al tempo debito. Avuti Galeazzo i danari, insieme col gentiluomo andò a Venezia, e col suo conseglio fece rimetter tutti i danari ricevuti in Milano con lettere di cambio20, e niente faceva né comprava senza lui. Ed ecco venir la nuova21 al veneziano, come Lucrezia sua figliuola era la notte innanzi fuggita e di lei non 45 si trovava vestigio22 alcuno. Il padre, dolente oltra modo, deliberò, lasciata ogn’altra cosa, tornar a Padova23. Galeazzo, mostrandosi di questo caso dolente, s’offerí andar seco, ed in ogni luogo ove egli volesse. Ringraziato Galeazzo, partí il veneziano e nulla mai puoté de la figliuola intendere24. Onde, tornato a Venezia, trovò che Galeazzo ancora v’era, il quale, dopoi in Lombardia a casa tornato, non ardí de la 50 rapita fanciulla far motto a la madre25. Aveva il servidore condotta una convenevol casa e del tutto fornita, secondo l’ordine da Galeazzo dato, e pose a la guardia di lei la nutrice di esso Galeazzo col suo marito26. Il giovine, con meraviglioso piacer de le parti27, colse il fiore e il frutto de la virginità de la sua Lucrezia, che piú che la propria vita amava, dormendo quasi ogni notte seco e largamente a torno a lei 55 spendendo. La madre, ancor che28 sapesse che egli fuor di casa spesso dormisse e cenasse, non diceva altro. Stette circa tre anni Galeazzo con la sua Lucrezia, dandosi il meglior tempo del mondo29. Avvenne dapoi che la madre deliberò dar moglie a

10 fu… di brigata: fu con piacere accolto, e andarono in gruppo. 11 al quale... a conoscere: al quale Galeazzo disse chi era. 12 la quale... s’accese: accadde che il giovane Galeazzo, che (l’aveva) guardata continuamente, se ne innamorò con grande ardore. 13 per innanzi: fino a quel momento. 14 avvedutasi: accortasi. 15 non ischivò... amoroso: metafora per dire che la giovane non respinse l’amore. 16 tanto andò... intenderete: le cose procedettero al punto che, avuta una o due volte l’opportunità di parlarsi, decisero quanto sentirete.

17 fra tre dí: tre giorni dopo. 18 gli conveniva: doveva. 19 dopo... dí: due giorni dopo la loro partenza.

20 fece... di cambio: diede ordine di mandare a Milano tutto il denaro ricevuto tramite lettere di cambio (specie di titoli di credito al portatore). 21 la nuova: la notizia. 22 vestigio: traccia. 23 Il padre... Padova: Il padre, molto addolorato, accantonato ogni impegno, decise di tornare a Padova. 24 nulla... intendere: non poté mai sapere nulla della figlia. 25 non ardí... la madre: non osò parlare

182 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale

alla madre del rapimento della fanciulla. 26 Aveva il servidore... suo marito: Il servitore, seguendo gli ordini di Galeazzo, aveva disposto una casa adatta e dotata di ogni comodità, e aveva incaricato la nutrice di Galeazzo e il marito di far compagnia alla fanciulla. 27 con meraviglioso... parti: con straordinario piacere di entrambi. 28 ancor che: sebbene. 29 dandosi... mondo: divertendosi e godendosi la vita.


Galeazzo, ma egli mai non volse30 consentire di prenderla. Ella dubitando che il figliuolo non fosse innamorato o forse avesse a modo suo presa moglie, tante spie 60 a torno gli pose, che intese il tutto che a Padova fatto aveva. Del che molto mal contenta ritrovandosi, ebbe modo, una sera che Galeazzo in casa d’un suo cugino cenava, di far da tre uomini mascherati rubar31 Lucrezia e porla in un monastero quella sera stessa. Galeazzo, dopo cena volendo andarsi a dormir con Lucrezia, trovò la nutrice ed il balio32 che amaramente piangevano, dai quali intese come tre 65 mascherati avevano Lucrezia sbadagliata e menata via33. Egli fu per morir di doglia34 e tutta la notte pianse, ed il matino a buon’ora andò a casa e in camera si serrò e stette tutto il dí senza cibarsi. La madre quel dí non ricercò altrimenti ciò che il figliuolo facesse. Veggendo poi il seguente giorno che non voleva desinare, andò a trovarlo in camera. Ma egli sospirando e piangendo pregò la madre che cosí il 70 lasciasse stare. Ella cercava pur d’intender da lui di questo suo dolore la cagione, ma egli altro che con lagrime e sospiri non le rispondeva. Il che ella veggendo e mossa a pietà, al figliuolo cosí disse: – Figliuol mio caro, io m’averei creduto che in cosa del mondo mai da me guardato non ti fossi e che tutti gli affanni tuoi m’avessi scoperto35; ma io mi truovo molto ingannata. Tuttavia, mercé de la mia diligenza36, 75 io ho ritrovato la cagion del tuo male. So che tu ami Lucrezia, che al nostro amico a Padova rubasti. Il che quanto sia stato bell’atto, tu il puoi molto ben pensare. Ma ora è tempo d’aiuto e non di correzione. Or vivi allegramente e confortati e attendi a ristorarti37, ché la tua Lucrezia riaverai, la quale io ho fatta mettere in un monastero, parendomi che, non la ritrovando, tu devessi compiacermi e prender moglie, 80 come saria il debito tuo di fare38. – Galeazzo questo sentendo, parve che da morte a vita risuscitasse, e vergognosamente le confessò come egli amava piú Lucrezia che la propria vita, pregandola affettuosamente che alora gliela facesse venire. Ella lo astrinse39 ad avere per quel giorno pazienza, e che voleva che si cibasse e si confortasse, promettendogli il seguente giorno andarla a pigliare e menarla in casa. Che 85 diremo noi? Galeazzo or ora voleva morire, avendone perduto il sonno e il cibo, e a questa semplice promessa tutto si confortò. Egli desinò e cenò la sera, e la notte, con speranza di riaver la sua Lucrezia, dormí assai bene. Venuto il seguente giorno, egli di letto levato sollecitò la madre che per Lucrezia mandasse40. La quale, per compiacere al figliuolo, montò in carretta e al monastero giunta si fece dar la giovane e 90 a casa la condusse. Come i dui amanti si videro, di dolcezza piangendo si corsero a gettarsi le braccia al collo, e strettissimamente abbracciandosi beveva l’uno de l’altro le calde e salse41 lagrime. Galeazzo, poi che ebbe mille volte la sua Lucrezia amorosamente basciata e ribasciata, tuttavia piagnendo cosí le disse: – Anima mia dolce, come sei stata senza me? Che vita è stata la tua? Non t’è egli42 fieramente 95 rincresciuto non mi aver in questo tempo veduto? Certamente io mi sono pensato di morire, né so bene come io mi viva. Oimè, vita mia, chi m’assicura che altri, in questo tempo che da me sei stata lontana, non abbia godute queste tue bellezze? io

30 volse: volle. 31 rubar: rapire. 32 il balio: il marito della nutrice. 33 sbadagliata e menata via: imbavagliata e condotta via. 34 di doglia: di dolore. 35 m’averei... scoperto: ero convinta che

non ti saresti guardato da me, mai, in nessuna cosa, e che mi avresti messo a parte di tutte le tue preoccupazioni. 36 mercé de la mia diligenza: grazie al mio scrupolo. 37 attendi a ristorarti: cerca di rimetterti in salute.

38 come saria... di fare: come sarebbe tuo dovere fare. 39 astrinse: obbligò. 40 che per Lucrezia mandasse: che mandasse a prendere Lucrezia. 41 salse: salate. 42 egli: pleonastico.

Il Cinquecento 2 183


mi sento di gelosia morire e il core in corpo mi si schianta. Il perché43, cor del corpo mio, per non morir se non una volta sola ed uscir di questo gravissimo affanno, sará assai meglio che moriamo insieme e in un punto diamo fine a questi nostri sospetti. 100 – E dicendo queste parole, prese un pugnale che a lato aveva e percosse la giovane nel petto per iscontro al core, la quale subito cadde boccone in terra morta; poi a sé stesso rivoltato il sanguinolente ferro, se lo cacciò in mezzo il petto e sovra la morta Lucrezia s’abbandonò. Il romore ne la casa si levò grandissimo con uno acerbissimo pianto. La sfortunata madre, come disperata, mandava le strida fin al cielo. Campò 105 Galeazzo tutto quel giorno e nel tramontar del sole morí. La povera madre, senza ascoltar consolazione né conforto da persona44, per lungo spazio il morto figliuolo pianse: caso veramente degno di pietà e compassione, e da far lagrimar le pietre, non che voi tenere e dilicate donne, che già le belle lagrime sugli occhi avete. E a ciò che la cosa non si divolgasse com’era, i fratelli de la madre fecero segretamente 110 i dui amanti seppellire, dando voce che di peste erano morti. La cosa fu facil da credere, perciò che alora in quella città era sospetto di morbo45. [...]. 43 Il perché: perciò. 44 da persona: da nessuno.

45 era sospetto di morbo: c’era il sospetto della presenza del morbo.

Angelo Emilio Lapi, ritratto di Matteo Bandello, in un’edizione delle Novelle del 1791.

Analisi del testo La struttura Antefatto remoto La novella si apre con un ampio antefatto, che ricostruisce l’ambiente sociale da cui proviene il giovane protagonista e la sua formazione raffinata, voluta dalla madre, intenzionata a fare di Galeazzo a tutti gli effetti un vero gentiluomo. Antefatto prossimo L’azione vera e propria è preceduta dal viaggio di Galeazzo dal ducato di Milano prima a Venezia e quindi a Padova, dove il giovane, nella casa dell’amico paterno, dal quale doveva riscuotere un credito, incontra la donna del suo destino: una bellissima fanciulla di nome Lucrezia, che corrisponde immediatamente il suo amore. L’azione principale Tornato a Milano, Galeazzo organizza la fuga dell’amata dalla casa paterna grazie alla complicità di un fedele servitore. Per tre anni il giovane frequenta quasi ogni notte la sua amata Lucrezia con grande piacere di entrambi. L’ostacolo La madre di Galeazzo, vedendo il figlio restìo ad ammogliarsi, compie delle indagini, scopre la ragione delle sue misteriose assenze, fa rapire Lucrezia e la fa condurre in un monastero con la speranza che, non vedendola più, il figlio acconsenta a prendere la moglie che la madre, secondo il costume del tempo, ha deciso per lui. La disperazione di Galeazzo e il colloquio rivelatore tra madre e figlio Disperato, Galeazzo rifiuta di mangiare e sta quasi per morire dal dolore. La madre allora gli svela quanto aveva fatto e l’amore materno la induce a perdonare il figlio e a promettergli che avrebbe riavuto la sua Lucrezia. L’inaspettato epilogo Riavuta la donna tra le sue braccia, Galeazzo non può tollerare il sospetto che qualcun altro abbia potuto godere della sua bellezza. Uccide prima la giovane con un colpo di pugnale e poi sé stesso, lasciando la madre in preda a un cordoglio inconsolabile.

184 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché, secondo te, Galeazzo fa rapire la fanciulla amata? Ti sembra logico questo comportamento? TECNICA NARRATIVA 2. Individua le sequenze in cui si articola la novella e assegna a ognuna di esse un titolo. ANALISI 3. In quali luoghi e ambienti sociali si svolge la novella? 4. Tratteggia un ritratto del protagonista sulla base degli elementi espliciti e degli indizi che il racconto ti fornisce, focalizzando la tua attenzione sul “lato oscuro” di Galeazzo che emerge nel tragico finale, ma forse serpeggia qua e là anche nel corso del racconto.

Interpretare

SCRITTURA 5. L’amore provato da Galeazzo per Lucrezia si può certamente ricollegare non solo al tema dell’amore-passione proprio della letteratura cortese, ma forse ancor più a quello della vera e propria “malattia d’amore” che sconfina nella psicopatologia (➜ V1A PAG. 272). Sviluppa il tema con riferimento al testo letto, ricostruendo le varie fasi dell’innamoramento di Galeazzo. SCRITTURA CREATIVA 6. Quale sarebbe stato il diverso finale che forse noi tutti lettori ci aspettavamo? Prova a scriverlo tu a partire dal ritrovamento dei due innamorati.

Sguardo sul teatro e cinema La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema Più di una commedia di William Shakespeare (1564-1616) attinge al repertorio novellistico (in particolare quello italiano), spesso contaminando fonti diverse. Celeberrimo è il dramma Romeo e Giulietta, trasposizione teatrale di una vicenda che, prima di essere immortalata dal genio di Shakespeare, conobbe diverse rielaborazioni. La prima fonte letteraria sicura della vicenda è una novella (la XXIII) contenuta nel Novellino di Masuccio Salernitano. Nel costruire la tragica vicenda di due amanti senesi, Giannozza e Mariotto, Masuccio attingeva per altro a un tema diffusissimo, quello dell’amore di due giovani contrastato dalle famiglie. Intorno al 1524 vi pose mano in una novella “spicciolata” il veronese Luigi da Porto: nella Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti ambientò la vicenda a Verona ai tempi di Bartolomeo della Scala e ribattezzò i due giovani Romeo Montecchi e Giulietta Cappelletti, le cui famiglie erano divise da un’antica rivalità. La vicenda fu infine ripresa da Matteo Bandello con il nuovo titolo: La sfortunata morte di due infelicissimi amanti che l’uno di veleno e l’altro di dolore morirono, con vari accidenti. Insieme ad altri testi del narratore italiano, la novella fu tradotta in francese, rimaneggiata dallo scrittore Pierre Boaistuau e inserita tra le Histoires tragiques extraites des oeuvres italiennes de Bandel (Storie tragiche tratte dalle opere italiane di Bandello) (1559); è da quest’ultima fonte che attinse Shakespeare, nella traduzione però in versi inglesi di Arthur Brooke (The tragical history of Romeus and Juliet, 1562). Un itinerario complicato, dunque, quello che porta la tragica vicenda dei due giovanissimi innamorati sul tavolo

di Shakespeare, che ne trasse uno dei suoi più celebri drammi, Romeo and Juliet, pubblicato nel 1599. Shakespeare concentra la vicenda in soli cinque giorni: una scelta felice, perché conferisce un ritmo incalzante agli eventi fatali che conducono i due giovani all’innamoramento e poi alla morte. La suggestione esercitata dall’interpretazione shakespeariana della tragica storia dei due infelici amanti fu nel tempo grandissima e non è certo ancora venuta meno. Anche il cinema ha più volte ripreso la vicenda di Giulietta e Romeo: la versione cinematografica più remota del dramma risale al 1936, con la regia di George Cukor e l’interpretazione, nel ruolo dei due protagonisti, di Norma Shearer e Leslie Howard; in Italia due sono state le versioni del dramma: nell’ormai lontano 1954, con la regia di Renato Castellani, e nel 1968 con la celebre regia di Franco Zeffirelli. Più recentemente si possono citare il film di Baz Luhrmann (William Shakespeare’s Romeo + Juliet, 1996), con Leonardo di Caprio nel ruolo di Romeo, che tenta una rilettura “attuale” del dramma, sullo sfondo di una Los Angeles inquinata dal razzismo, dove le due famiglie rivali sono l’una bianca e aristocratica e l’altra latino-americana (la situazione riprende l’idea del musical di grande successo West Side Story del 1957) o il fortunato Shakespeare in love (1998), con la regia di John Madden, protagonisti Gwyneth Paltrow e Joseph Fiennes. Nel film si immagina che uno Shakespeare giovane e quasi sconosciuto drammaturgo trovi nell’amore per un’aristocratica, che si diletta di recitazione, l’ispirazione per terminare proprio il dramma Romeo and Juliet.

Il Cinquecento 2 185


Testi In dialogo

La storia di Romeo e Giulietta Matteo Bandello

D1a

La scena del balcone in Bandello Novelle II, ix

M. Bandello, Novelle, a c. di G. G. Ferrero, Utet, Torino 1974

Nella novella si riporta il dialogo tra Romeo e Giulietta.

Aveva la camera di Giulietta le finestre suso1 una vietta assai stretta cui dirimpetto era un casale; e passando Romeo per la strada grande, quando arrivava al capo de la vietta, vedeva assai sovente la giovane a la finestra, e quantunque volte2 la vedeva, ella gli faceva buon viso3 e mostrava vederlo più che volentieri. Andava spesso di notte Romeo ed in quella vietta si fermava, sì perché quel camino4 non era frequentato ed altresì perché stando per iscontro5 a la finestra sentiva pur talora la sua innamorata parlare. Avvenne che essendo egli una notte in quel luogo, o che Giulietta il sentisse o qual se ne fosse la cagione6, ella aprì la finestra. Romeo si ritirò dentro il casale, ma non sì tosto ch’ella nol conoscesse7, perciò che la luna col suo splendore chiara la vietta rendeva. Ella che sola in camera si trovava, soavemente l’appellò8 e disse: – Romeo, che fate voi qui a quest’ore così solo? Se voi ci foste còlto9, misero voi, che sarebbe de la vita vostra? Non sapete voi la crudel nemistà10 che regna tra i vostri e i nostri e quanti già morti ne sono?11 Certamente voi sareste crudelmente ucciso, del che a voi danno e a me poco onore ne seguirebbe. – Signora mia, – rispose Romeo, – l’amor ch’io vi porto è cagione ch’io a quest’ora qui venga; e non dubito punto che se dai vostri fossi trovato, ch’essi non cercassero d’ammazzarmi, ma io mi sforzarei per quanto le mie deboli forze vagliano12, di far il debito mio13, e quando pure da soverchie forze mi vedessi avanzare, m’ingegnerei non morir solo14. E devendo io ad ogni modo morire in questa amorosa impresa, qual più fortunata morte mi può avvenire che a voi vicino restar morto?15 Che io mai debbia16 esser cagione di macchiar in minimissima parte l’onor vostro, questo non credo che avverrà già mai, perché io per conservarlo chiaro e famoso com’è mi ci affaticherei col sangue proprio17. Ma se in voi tanto potesse l’amor di me come in me di voi può il vostro, e tanto vi calesse de la vita mia quanto a me de la vostra cale, voi levareste via tutte queste occasioni18 e fareste di modo che io viverei il più contento uomo che oggidì sia. 1 suso: sopra. 2 quantunque volte: tutte le volte che.

3 gli faceva buon viso: si mostrava ben disposta verso di lui.

4 quel camino: quella zona. 5 per iscontro: di fronte. 6 o che Giulietta... cagione: o perché Giulietta avvertì la sua presenza o per qualsiasi altra ragione. 7 ma non sì tosto... conoscesse: ma non così rapidamente che ella non lo riconoscesse. 8 soavemente l’appellò: lo chiamò dolcemente.

9 Se voi... còlto: Se foste sorpreso (da qualcuno dei miei, familiari o domestici). 10 nemistà: inimicizia. 11 quanti già morti ne sono?: quanti sono già morti a causa di questa? 12 per quanto... vagliano: per quanto possono le mie deboli forze. 13 far il debito mio: difendermi adeguatamente. 14 e quando... solo: e se anche mi vedessi sopraffatto da forze superiori, cercherei di non morire solo (ovvero cercherei

186 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale

di uccidere quanti più avversari possibile). 15 qual più... restar morto?: quale morte migliore mi può capitare (avvenire) che restare ucciso vicino a voi? 16 debbia: debba. 17 proprio: mio. 18 se in voi... occasioni: se l’amore verso di me avesse in voi tanto potere come ha in me quello nei vostri confronti e vi importasse (calesse) della mia vita quanto a me importa (cale) della vostra, voi togliereste di mezzo tutti questi inciampi (occasioni).


– E che vorreste voi che io facessi? – disse Giulietta. – Vorrei, – rispose Romeo, – che voi amassi19 me com’io amo voi e che mi lasciaste venir ne la camera vostra, a ciò che più agiatamente e con minor pericolo io potessi manifestarvi la grandezza de l’amor mio e le pene acerbissime che di continovo20 per voi soffro. – A questo Giulietta alquanto d’ira accesa e turbata gli disse: – Romeo, voi sapete l’amor vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa amare, e forse più di quello che a l’onor mio si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me godere oltra il convenevole nodo del matrimonio21, voi vivete in grandissimo errore e meco punto non sarete d’accordo. E perché conosco che praticando voi troppo sovente per questa vicinanza potreste di leggero incappare negli spiriti maligni22 ed io non sarei più lieta già mai, ma conchiudo che23 se voi desiderate esser così mio come io eternamente bramo esser vostra, che debbiate per moglie vostra legitima sposarmi. Se mi sposarete, io sempre sarò presta a venir in ogni parte ove più a grado vi fia24. Avendo altra fantasia in capo25, attendete a far i fatti vostri e me lasciate nel grado mio26 vivere in pace. – Romeo che altro non bramava, udendo queste parole, lietamente le rispose che questo era tutto il suo disio e che ogni volta che le piacesse la sposeria in quel modo che ella ordinasse. – Ora sta bene, – soggiunse Giulietta. – Ma perché le cose nostre ordinatamente si facciano, io vorrei che il nostro sponsalizio a la presenza del reverendo frate Lorenzo da Reggio, mio padre spirituale, si facesse. – A questo s’accordarono, e si conchiuse che Romeo con lui il seguente giorno del fatto parlasse, essendo egli molto di quello domestico27. 19 amassi: amaste. 20 di continovo: di continuo. 21 oltra... matrimonio: al di là, al di fuori del giusto legame del matrimonio. 22 perché... negli spiriti maligni: dato che so che aggirandovi voi troppo spesso da queste parti, a

causa di questa frequentazione potreste facilmente (di leggero) incappare in qualche persona malvagia. 23 conchiudo che: concludo che. 24 io sempre... vi fia: io sarò sempre pronta (presta) ad andare dove più vi piacerà.

25 Avendo... in capo: Se avete altre fantasie in testa (ovvero quella di avere Giulietta senza sposarla). 26 nel grado mio: come mi piace (letteralmente “nel mio gradimento”). 27 molto di quello domestico: in rapporti molto familiari con lui.

Frank Dicksee, Romeo e Giulietta, olio su tela, 1884 (Art Gallery, Southampton).

Il Cinquecento 2 187


William Shakespeare

D1b

La scena del balcone in Shakespeare Romeo e Giulietta, atto II, scena II

W. Shakespeare, Le tragedie, a c. di G. Melchiori, trad. di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1976

Si propone la stessa scena raccontata da Bandello ma trasformata da Shakespeare in opera teatrale.

ROMEO

Ecco, parla. Oh, parla ancora, angelo splendente! Tu in questa notte appari a me, dall’alto, di forte luce come un alato messaggero agli occhi meravigliati dei mortali, quando varca lente nuvole e veleggia nell’aria1 immensa.

GIULIETTA O Romeo!2 Romeo! Perché tu sei Romeo? Rinnega dunque tuo padre e rifiuta quel nome, o se non vuoi, legati al mio amore e più non sarò una Capuleti3. ROMEO

Devo rispondere o ascoltare ancora?4

GIULIETTA Solo il tuo nome è mio nemico: tu, sei tu, anche se non fossi uno dei Montecchi, Che cosa vuol dire Montecchi? Né mano, non piede, né braccio, né viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome! Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo. Anche Romeo senza più il suo nome sarebbe caro, com’è, e così perfetto. Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per il nome5, che non è parte di te, prendi me stessa. ROMEO

Ti prendo sulla parola, chiamami solo amore, e avrò nuovo battesimo; ecco, non mi chiamo più Romeo.

GIULIETTA Chi sei tu che difeso dall’ombra della notte entri nel mio chiuso pensiero?

1. Tu in questa notte... veleggia nell’aria: il tono con cui Romeo si rivolge a Giulietta appena apparsa al balcone è altamente lirico, denso di immagini poetiche (come il paragone tra Giulietta e un messaggero celeste). 2 O Romeo!: Giulietta invoca il

nome dell’amato credendosi sola.

3 Rinnega dunque... Capuleti: le parole appassionate di Giulietta focalizzano il nodo della tragedia, l’odio che oppone le due casate dei Montecchi e dei Capuleti, che può essere estinto solo rinunciando al proprio nome, annul-

188 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale

lando la propria appartenenza alle famiglie rivali. 4 Devo... ancora?: Romeo sta parlando a sé stesso. 5 per il nome: in cambio del nome.


ROMEO

Con un nome non so dirti chi sono; odio il mio nome che ti è nemico, straccerei il foglio dove fosse scritto.

GIULIETTA Il mio orecchio non ha bevuto cento parole di quella voce, e già ne riconosco il suono. Non sei Romeo, uno dei Montecchi? ROMEO

Né l’uno, mia bella fanciulla, né l’altro, se non ti è caro né l’uno né l’altro.

GIULIETTA Come, perché, sei giunto fino a qui? Alti sono i muri del giardino e aspri da scalare; e se qualcuno ora ti scopre, se penso chi sei, questo è luogo di morte. ROMEO

Con le ali leggere d’amore volai su questi muri: per amore non c’è ostacolo di pietra, e ciò che amore può fare, amore tenta: non possono fermarmi i tuoi parenti.

GIULIETTA Se ti vedono qui, ti uccideranno. ROMEO

Ahimè! Il pericolo è più nei tuoi occhi che non in venti delle loro spade: se mi guardi con dolcezza, sarò forte contro il loro odio.

GIULIETTA Non vorrei che ti vedessero qui, per tutto il mondo. ROMEO

Il manto della notte mi nasconde; ma se non mi ami lascia che mi trovino. Meglio che il loro odio tolga la mia vita, e non che la morte tardi senza il tuo amore.

GIULIETTA Chi ti ha guidato in questo luogo? ROMEO

Con i miei occhi, amore m’aiutò a cercarlo, e con il suo consiglio. Io non sono pilota ma se tu fossi lontana, quanto la più deserta spiaggia del più lontano mare, io mi spingerei là, sopra una nave, per una merce tanto preziosa.

GIULIETTA La maschera della notte mi nasconde il viso: vedresti il rosso, allora, che copre le mie guance, per le parole dette Il Cinquecento 2 189


questa notte! Oh, come vorrei volentieri, volentieri, smentire le parole; ma ormai, addio finzioni! Mi ami tu? So che dirai di sì, ed io ti crederò; ma se giuri, tu puoi ingannarmi. Dicono che Giove rida dei falsi giuramenti degli amanti. O gentile Romeo, se mi ami, dimmelo veramente; ma se credi che mi sia presto abbandonata, sarò crudele (e lo diranno le mie ciglia), dirò di no, e allora sarai tu a pregarmi; se non lo pensi, non saprei dirti di no per tutto il mondo. O bel Montecchi, è vero, il mio amore è troppo forte, e, con ragione, potresti dirmi leggera, mio gentile signore, ma vedrai che sono più sincera delle donne che più di me conoscono l’astuzia di apparire timide. E più timida, certo sarei stata, se tu, a mia insaputa, non mi avessi sentito parlare del mio amore. Perdonami dunque, e non attribuire a leggerezza questo mio abbandono, che l’ombra della notte ti ha rivelato. ROMEO

Per la felice luna che imbianca le cime di questi alberi, io giuro...

GIULIETTA Oh, non giurare per la luna, per l’incostante luna che ogni mese muta il cerchio della sua orbita: non vorrei che il tuo amore fosse come il moto della luna. ROMEO

E per che cosa devo allora giurare?

GIULIETTA Non giurare; o giura per te, gentile, che sei il dio che il mio cuore ama, e sarai creduto. ROMEO

Se il caro amore del mio cuore...

GIULIETTA No, non giurare. Ogni mia gioia è in te, ma non ho gioia dal nostro patto d’amore di questa notte; improvviso, inaspettato, rapido, troppo simile al lampo che finisce prima che si dica “lampeggia”. Buona notte, mio amore! Questo germoglio d’amore che si apre al mite vento dell’estate, sarà uno splendido fiore quando ci rivedremo ancora. Buona notte, buona notte! Un sonno dolce e felice scenda nel tuo cuore come nel mio!

190 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


ROMEO

Oh, tu mi lasci con tanto desiderio!

GIULIETTA E che desiderio puoi avere questa notte? ROMEO

Scambiare il tuo amore con il mio.

GIULIETTA Prima che lo chiedessi, io t’ho dato il mio, e vorrei non averlo ancora dato. ROMEO

Vorresti, forse, riprenderlo? E per quale ragione, amore mio?

GIULIETTA Per offrirlo ancora una volta. Io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti. Sento qualche rumore nella casa; caro amore, addio! La NUTRICE chiama dall’interno “Subito, mia buona nutrice.” E tu, amato Montecchi sii fedele: aspetta un momento il mio ritorno. Esce ROMEO

O felice, felice notte! Io temo, poi ch’è notte, che sia un sogno il mio, dolce di lusinghe e non realtà.

GIULIETTA torna al balcone GIULIETTA Due parole, mio caro, e poi davvero, buona notte. Se questo tuo amore è onesto e mi vuoi come sposa, domani mandami a dire da chi verrà da te, dove e in che giorno compiremo il rito, avrai allora ai tuoi piedi la mia sorte, e verrò con te, mio signore, in tutto il mondo. NUTRICE

(Dall’interno) Signora!

GIULIETTA “Vengo subito!” Ma se il tuo amore non è onesto, ti supplico... NUTRICE

(Dall’interno) Signora! Il Cinquecento 2 191


GIULIETTA “Vengo, vengo!” Non parlarmi più e lasciami al mio dolore; domani manderò qualcuno... ROMEO

Per la salvezza dell’anima mia...

GIULIETTA Mille volte buona notte! Esce ROMEO

Mille volte cattiva notte, ora che mi manca la tua luce. Amore va verso amore come i ragazzi fuggono dai libri; ma amore lascia amore con la malinconia dei ragazzi quando vanno a scuola.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la novella di Bandello. COMPRENSIONE 2. Ci sono differenze di contenuto tra la novella e la trasposizione teatrale? Se sì, quali?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Stabilisci un confronto tra i due testi, fondati sullo stesso soggetto, che evidenzi: a. le differenze connesse alle prerogative dei due diversi generi cui appartengono (narrativo in un caso, teatrale nell’altro); b. le differenze sul piano dell’interpretazione poetica del tema e delle soluzioni letterarie adottate dai due scrittori (lessico, uso di metafore, ecc.).

Fissare i concetti La novella nell’età umanistico-rinascimentale 1. 2. 3. 4.

Che cosa succede al genere della novella nel primo Quattrocento? E nel Cinquecento? Quali sono gli antenati della barzelletta? Quali caratteristiche presentano? Quali temi sono presenti nelle novelle? Per quale motivo nel tardo Cinquecento si verifica il declino della novella?

192 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


Quattrocento e Cinquecento La novella nell’età umanistico-rinascimentale

Sintesi con audiolettura

1 Il Quattrocento

Nel primo Quattrocento, la novella entra in crisi: l’Umanesimo tende a relegare il genere novellistico (Boccaccio compreso) ai margini della cultura. Vi scompare l’espediente della cornice e il carattere di unitarietà delle opere, a favore della composizione di singole novelle (le “spicciolate”): la più celebre è Belfagor arcidiavolo (1518), di Niccolò Machiavelli. Parzialmente autonomo è il filone della facezia, racconto breve senza velleità filosofiche o estetiche chiuso da una battuta spiritosa. Nel Quattrocento coinvolge autori di alto livello quali Leonardo da Vinci e Poliziano (Detti piacevoli), mentre nel Cinquecento è valorizzata dalla civiltà di corte, amante dell’eleganza ma anche di umorismo e intelligenza. Le facezie possono essere anche in latino: sono particolarmente diffuse, in questo caso, nei circoli culturali umanistici. In genere, comunque, gli elementi narrativi sono ridotti al minimo proprio per evidenziare l’umorismo, costruito mediante paradossi, doppi sensi, allusioni argute. Celebre in tal senso è Masuccio Salernitano con il suo Novellino, una raccolta di testi senza cornice ma con dedica, che racconta l’amore e anche la sua dimensione tragica, violenta.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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2 Il Cinquecento

Nel Cinquecento continua la produzione novellistica senza mai, però, riuscire a raggiungere la coerenza del grande modello del genere, il Decameron. L’esempio che più vi si richiama è quello degli Ecatommiti (1565): una raccolta ambientata ai tempi del sacco di Roma. Il tema principale di tutte le raccolte è l’amore, declinato secondo il registro comico. Un’eccezione è rappresentata da Matteo Bandello che, nella sua opera Quattro libri delle novelle, affronta il sentimento servendosi del registro tragico, a cui si accompagna un certo gusto per l’elemento crudele, grottesco e orrido: un sintomo del generale incupimento dei temi legato alla crisi del mondo rinascimentale, che porterà all’affermazione del genere del romanzo. Le ragioni di questa decadenza si ritrovano innanzitutto nel mutato clima spirituale creato dalla Controriforma; ma anche in ragioni storico-sociali, quali la crisi della società comunale-signorile. La novella funge anche da ricco serbatoio di temi e situazioni per il teatro rinascimentale.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Realizza un documento Word o un PowerPoint in cui delinei l’evoluzione del genere della novella dagli inizi nel Quattrocento al tardo Cinquecento.

Comprensione 2. La novella si lega alla comicità, ma attinge anche alla sfera del patetico e del tragico. Crea una scheda dei testi proposti nel capitolo, indicando di ciascuno il genere letterario prevalente.

194 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale


Quattrocento e cinquecento CAPITOLO

4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato

Il poema cavalleresco, uno dei generi più prestigiosi e affascinanti della letteratura italiana, nasce nel Quattrocento per intrattenere il pubblico della corte. Alle spalle ha la tradizione medievale dei cicli carolingio e bretone, trasmessi nelle piazze dalla voce dei cantastorie e poi rielaborati in forma ancora rozza dai cantari trecenteschi. Tra Quattrocento e Cinquecento questa ricca materia narrativa assume forma artistica grazie a grandi scrittori che compongono per un pubblico colto e raffinato. Due sono le principali direttive: quella burlesca e parodica, rappresentata dal Morgante di Pulci e quella “seria”. In quest’ultima si inscrivono, in modi diversi, l’Orlando innamorato di Boiardo, nostalgica riproposizione dei valori cavallereschi, e l’Orlando furioso di Ariosto, in cui le avventure e gli amori dei paladini sono reinterpretati con ironia, frutto della disincantata visione rinascimentale; e infine, ormai al tramonto del Rinascimento, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, che ricrea la dimensione epico-religiosa in rapporto al mutato clima ideologico della Controriforma.

cantari al poema 1 Dai cavalleresco 195 195


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Dai cantari al poema cavalleresco 1 Un genere destinato al successo L’emergere del genere epico-cavalleresco nella società cortigiana La materia epico-cavalleresca conosce una straordinaria fortuna nel Quattrocento, in rapporto all’affermarsi della società cortigiana: le storie degli antichi cavalieri sono particolarmente apprezzate dal raffinato pubblico della corte (in particolare la corte estense a Ferrara) che in esse si identifica e si rispecchia. Non è quindi casuale l’emergere in primo piano, in questo periodo, di un genere, il poema cavalleresco, che nel corso del Cinquecento, con l’Orlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata del Tasso, diventerà una delle espressioni universalmente considerate più suggestive e distintive della letteratura italiana. Dalla Francia all’Italia Il materiale narrativo a cui i poemi dell’Umanesimo-Rinascimento attingono ha una storia secolare: nato in Francia in epoca medievale, si trasmette in molte culture europee, tra cui l’Italia, in varie forme e modi. Già nel tardo Medioevo, dalla letteratura epico-cavalleresca francese erano trapassati nella cultura italiana temi, personaggi e immagini; un affascinante patrimonio narrativo, questo, che influenza nel tempo diverse forme letterarie e grandi autori: ad esempio non poche novelle del Decameron rimandano alla materia cavalleresca, che Boccaccio rivisita alla luce di una nuova mentalità. Verso la fine del Duecento, nella zona nord-orientale d’Italia, fiorisce una produzione di poemi: la cosiddetta letteratura franco-veneta; essa rielabora la tradizione cavalleresca francese utilizzando la lingua d’oil. L’opera più significativa di questa produzione è la trecentesca Entrée d’Espagne (Entrata in Spagna) che racconta le vicende di Rolando (Orlando) e di altri paladini nel paese iberico. Nel poema si può constatare la fusione tra la materia carolingia e le componenti avventurose proprie della tradizione narrativa bretone, che sarà mantenuta anche in seguito. Tra la fine del Duecento e primi decenni del Trecento si diffondono inoltre i romanzi in prosa, destinati alla lettura, che attingono sostanzialmente alla materia bretone: i più noti sono la Storia di Merlino, il Tristano Riccardiano e La Tavola Rotonda, che contamina fra loro diverse fonti della leggenda arturiana.

Scena di duello, miniatura veneta di un manoscritto de L’entrée d’Espagne, sec. XIV (Bibl. Marciana, Venezia).

196 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


2 I cantari

PER APPROFONDIRE

Una produzione divulgativa destinata all’ascolto Tra il XIV e il XV secolo, in particolare in area toscana, si diffondono i cantari: si tratta di componimenti in ottave di argomento epico-cavalleresco, recitati nelle piazze, a volte con accompagnamento musicale, di fronte a un pubblico mutevole ed eterogeneo. I canterini, cioè gli autori (e spesso anche esecutori) dei cantari, sono persone di modesta o scarsa cultura, che rielaborano in chiave divulgativa i temi epicocavallereschi per un pubblico di ascoltatori, non di lettori. Ne derivano scelte specifiche a livello sia contenutistico sia narrativo e stilistico: i canterini semplificano i temi e i personaggi, privilegiano gli aspetti narrativi di maggiore attrazione (come il magico, l’avventuroso e i colpi di scena), ricorrono costantemente all’iperbole, ma frequentemente “abbassano” (indulgendo, a volte, anche alla comicità vera e propria) una materia un tempo epica e solenne, i cui risvolti etici e religiosi erano ormai andati perdendosi. Nei cantari la materia carolingia e quella bretone sono ormai costantemente fuse: imprese epiche si alternano infatti ad amori e avventure in terre esotiche. Dalla destinazione orale deriva poi la presenza nei cantari delle frequenti allocuzioni al pubblico, di cui si richiama l’attenzione anche attraverso ridondanze,

La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare La conoscenza delle favolose vicende di Carlo Magno e dei suoi paladini, come pure le avventure dei cavalieri di re Artù, si diffonde in Italia (e nel resto d’Europa) anche tra il popolo, grazie alla trasmissione orale ad opera di giullari e cantastorie. La popolarità dei più celebri personaggi della materia bretone e carolingia tra la gente è documentata anche dalla loro raffigurazione in alcune chiese italiane su zone particolarmente visibili ai fedeli come i portali: già nel 1139 Orlando e il suo fido compagno Olivieri sono ritratti nel portale del Duomo di Verona. Un filo rosso collega queste antichissime testimonianze al teatro dei “pupi” che si diffonde nella seconda metà dell’Ottocento in Sicilia (in particolare a Catania e Palermo) sulla base di un repertorio essenzialmente ispirato al ciclo carolingio, ben noto al pubblico grazie ai cantastorie. I perso-

naggi appartengono al mondo dei paladini di Carlo Magno e sono impersonati sulla scena dai “pupi”, sorta di grandi marionette (potevano originariamente arrivare a più di un metro di altezza), manovrate dall’alto o di lato, tramite grosse bacchette di ferro e corde, dai “pupari”: la testa è scolpita, il corpo è solo sbozzato perché poi è ricoperto (nel caso dei personaggi maschili) da una splendente armatura. Lo spettacolo si articola in varie serate, ognuna delle quali viene sapientemente interrotta al momento opportuno per creare maggiore attesa negli spettatori; quasi sempre il regista coincide con il cosiddetto “parlatore”, ovvero colui che presta la voce ai personaggi. Uno straordinario personaggio, Mimmo Cuticchio, ha riproposto di recente, in spettacoli di grande suggestione, la tradizione dei pupi.

Mimmo Cuticchio tra i suoi pupi.

Dai cantari al poema cavalleresco 1 197


ripetizioni, e di cui si sollecita la curiosità con anticipazioni del seguito della storia narrata. A livello linguistico prevalgono la paratassi e un lessico non elevato; la metrica è poco curata. I cicli di cantari recitati “a puntate” Fra Tre e Quattrocento i cantari si organizzano in cicli narrativi, recitati a puntate in giornate successive così da creare attesa nel pubblico (non diversamente dai serial televisivi di oggi). I più importanti sono La Spagna in rima, in 40 canti, che rielabora la tradizionale materia carolingia (➜ T1 OL) e il Rinaldo di Montalbano (o i Cantari di Rinaldo), che pone in primo piano la figura di Rinaldo. Da ricordare infine il Cantare d’Orlando, in cui vengono narrate le avventure online in terra d’Oriente di Orlando e del gigante Morgante (personaggio che T1 L’infrazione dell’aura mitica: Orlando, affamato, cerca lavoro ritroveremo nell’omonima opera di Pulci), attorniati da altri paladini, La Spagna in rima XV, 24-27 fra i quali spicca il già ricordato Rinaldo.

3 Il poema cavalleresco Un genere colto, di alta qualità letteraria Gli autori dei poemi cavallereschi prendono le mosse dai cantari: li utilizza Boiardo, ad esempio, oltre a varie fonti francesi, lavorando al suo Orlando innamorato; per i primi 23 canti del suo Morgante, Pulci segue abbastanza fedelmente il Cantare d’Orlando sopra citato. Dalla produzione canterina il poema cavalleresco eredita l’uso dell’ottava e moltissimi spunti tematici e narrativi. Rispetto alla tradizione popolaresca dei cantari, i poemi cavallereschi presentano però rilevanti differenze. Con riguardo alle più importanti, si può iniziare col dire che gli autori dei poemi cavallereschi sono colti, si formano in un ambiente socialmente elevato e si rivolgono essenzialmente al pubblico raffinato della corte signorile. Al contrario, i canterini hanno per lo più una cultura limitata e di conseguenza la qualità letteraria dei loro prodotti è piuttosto modesta. Questi ultimi si rivolgono, inoltre, a un pubblico eterogeneo e mutevole, per lo più di estrazione popolare.

J. Bertoja e G. Mirola, Orlando, Ruggiero, Fiordelisa, Brandimante nella foresta incantata, affresco ispirato all’Orlando innamorato, (particolare della volta nella Sala del Bacio, Palazzo Giardino, Parma).

198 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


I poemi cavallereschi, poi, sono stesi subito in forma scritta e non sono destinati alla circolazione orale, bensì alla lettura personale (o alla lettura pubblica in ambienti, però, socialmente ristretti o esclusivi): proprio per questo presentano un maggior controllo formale; inoltre, proprio perché non devono essere recitati, i singoli canti sono più lunghi e non sempre trattano un argomento in sé compiuto; hanno una metrica molto più accurata; sono disseminati di riferimenti alla tradizione letteraria che solo un pubblico colto può identificare e apprezzare. Due modelli antitetici: il Morgante di Pulci e l’Orlando innamorato di Boiardo I due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento sono il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, testimonianze diverse di un medesimo processo di derivazione dai cantari: l’Orlando innamorato rappresenta l’esito “serio”, che immette l’epica medievale e la tradizione canterina nella cultura alta, mentre il Morgante ne rappresenta l’esito “giocoso”. La diversissima ispirazione e natura dei due poemi, come già evidenziano i due proemi (➜ T2a , T2b ), ha a che fare non solo con le diverse personalità artistiche dei due scrittori, ma anche con i diversi ambienti socio-culturali in cui essi operano: Boiardo scrive alla corte degli Estensi a Ferrara, centro di raffinata cultura umanistica dove la tradizione cortese era profondamente radicata; Pulci, invece, vive e opera a Firenze, dove esisteva una spiccata tradizione realistico-giocosa e dove le tendenze idealizzanti proprie di alcuni ambiti intellettuali della corte dei Medici (il neoplatonismo ficiniano) non erano riuscite a soffocare lo spirito beffardo, dissacrante, parodico che in certo qual modo connotava (e forse ancora connota) la “fiorentinità”.

4 Il Morgante di Pulci.

La deformazione comica e grottesca della materia cavalleresca

Luigi Pulci, un “irregolare” alla corte dei Medici La vita Discendente da una nobile famiglia decaduta, Luigi Pulci nasce nel 1432 a Firenze. Nel 1461 entra a far parte della cerchia di Cosimo de’ Medici, quando già si gettano le basi della signoria della potente famiglia. Luigi Pulci è in affettuosi rapporti di amicizia con Lorenzo de’ Medici (che in qualche lettera chiama compagnuzzo e al quale è indirizzata ampia parte del suo epistolario). Quando Lorenzo però assume il potere, Pulci non riesce a inserirsi nel clima culturale raffinato della sua corte: la sua cultura non è di tipo umanistico, ma fondata sulla tradizione volgare, in particolare quella “giocosa”, da Cecco Angiolieri al Burchiello. La sua visione libera e trasgressiva è costituzionalmente contrapposta all’Umanesimo erudito di Poliziano e alla tendenza neoplatonica che ha il proprio principale portavoce in Marsilio Ficino, con il quale Pulci polemizza aspramente. Di fatto rimane emarginato e i suoi rapporti con Lorenzo si raffreddano. Contribuiscono certamente al progressivo distacco tra costui e Luigi Pulci anche i suoi atteggiamenti irriverenti (espressi anche in sonetti dissacranti e parodici) verso la religione. Abbandonata Firenze (anche se vi si recava solo saltuariamente), si lega al capitano di ventura Roberto Sanseverino, per cui compie numerose missioni diplomatiche. Muore a Padova nel 1484 e, per la sua fama di eretico, viene sepolto in terra sconsacrata. Dai cantari al poema cavalleresco 1 199


Il Morgante La riscrittura comico-caricaturale del Cantare d’Orlando Pulci è stimolato a comporre il Morgante dalla madre di Lorenzo de’ Medici, Lucrezia Tornabuoni, che gli chiede un poema sulle imprese di Carlo Magno per assecondare gli interessi culturali e politici dei Medici, che in quel periodo cercano buoni rapporti con la Francia. Lo scrittore si mette all’opera assumendo come fonte principale il Cantare d’Orlando, che segue fedelmente quanto all’intreccio basilare, ma che riscrive secondo una prospettiva in sostanza caricaturale: nel Morgante, i materiali cavallereschi sono filtrati da un occhio divertito che li trasforma in spunti comici, capaci di dilettare il pubblico colto e smaliziato della corte medicea, davanti al quale, tra l’altro, il Pulci in persona recita in un’occasione i primi ventitré canti. Una scelta opposta a quella di Boiardo: il rovesciamento parodico dell’eroismo cavalleresco L’influenza della tradizione comica toscana, ma anche i caratteri borghesi e mercantili della pragmatica società fiorentina, inducono Pulci a comporre il poema in una direzione opposta alla nostalgica ricreazione del mondo cavalleresco di Boiardo, a cominciare dalla totale assenza del tema amoroso, che è invece centrale nell’Orlando innamorato. Il Morgante, però, rispecchia soprattutto lo spirito trasgressivo del suo autore, portato a rappresentare – contro ogni mistificante idealizzazione, e forse anche con intento polemico verso orientamenti culturali della corte medicea che non condivide – gli aspetti materiali, la fisicità dell’esistenza, il vitalismo dei gesti e delle azioni. È grazie a questo suo gusto, in cui si fa sentire la tradizione popolare, folklorica, “carnevalesca” (➜ C1, PAG 143), che Pulci innova il poema cavalleresco, mentre le parti della sua opera in cui si mantiene più fedele alla tradizione epica sono meno originali e interessanti. I personaggi: tra invenzione e tradizione I personaggi del Morgante sono in parte ereditati dalla tradizione: tra di essi spicca Rinaldo, molto amato dal pubblico italiano e a cui l’autore dedica molto spazio; è un personaggio dinamico che, a seconda delle situazioni, può essere nobile e dedicarsi alla causa della fede convertendo i pagani, oppure violento, fino addirittura a trasformarsi in un volgare predone. Non manca nell’opera la figura tradizionale del paladino Orlando, che assume tratti diversi nel corso del poema: nella prima parte è preda di pulsioni istintive, negli ultimi cinque canti invece assume il tradizionale ruolo dell’eroe-martire. Ma nel Morgante emergono e restano maggiormente impressi nel lettore soprattutto i due personaggi di Morgante e di Margutte: il primo totalmente rinnovato da Pulci, il secondo da lui stesso creato. Morgante è caratterizzato dalla forza smisurata e dall’insaziabile appetito; non ha sentimenti, né intelligenza, ma è forza bruta, pura energia vitale. Margutte, furbo e spregiudicato, è portatore di una visione materialistica che gli fa pronunciare il famoso e dissacrante “credo” (➜ T4 ), dove i peccati sono trasformati in virtù. Egli rappresenta a tutti gli effetti il rovesciamento parodico dell’eroe e dell’etica cavalleresca. Un altro personaggio ideato da Pulci è il diavolo Astarotte, a cui lo scrittore affida, paradossalmente, la difesa di ideali di Il gigante Morgante e il nano Margutte, in tolleranza religiosa che corrispondono alla sua stessa visione un’incisione (tratta da un’edizione a stampa anticonformistica. del poema di Pulci del primo Cinquecento).

200 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


La valorizzazione dell’invenzione linguistica Il vero elemento unificante del poema è il ruolo preminente svolto dall’invenzione linguistica, funzionale alla dimensione parodica e al gusto grottesco che lo caratterizzano. Il Morgante valorizza il carattere edonistico, creativo della lingua, al di là delle sue funzioni logiche: «l’onomatopea, l’accumulazione spesso ordinata in serie anaforiche, l’effetto di nonsense affidato tanto all’invenzione verbale quanto alla tecnica della giustapposizione di elementi incongrui, il ricorso ora a tratti fortemente idiomatici ora a vocaboli rari ed esotici o a rime difficili» (Meneghetti) rendono unica la lingua dell’opera. Un impasto linguistico eterogeneo e iper-espressivo La lingua del Morgante ha come base il parlato fiorentino, ma nel suo complesso è caratterizzata da un marcato ibridismo; nell’originale e iper-espressivo impasto linguistico del lavoro entrano, infatti, termini delle più varie provenienze: dialetti, latino, francese, ma anche elementi gergali (come il lessico dei malviventi, che Pulci aveva personalmente studiato con interesse filologico). L’orientamento linguistico del poema, che contribuisce in modo determinante alla sua originalità, è il frutto di una scelta consapevole: nel gusto per la parola corposa, vivacemente espressiva, Pulci si riallaccia alla tradizione toscana popolareggiante, contrapponendosi polemicamente agli ambienti umanistici che ricercavano uno stile eletto e raffinato. La vicenda La trama dell’opera è intricatissima, quasi caotica e non è possibile fare una distinzione tra episodi principali e secondari, sostanzialmente autonomi e indipendenti l’uno dall’altro come sono. Tra i tanti fili della vicenda centrale uno è rappresentato dall’abbandono, da parte di Orlando, del campo cristiano, dopo essere stato calunniato da Gano di Maganza. Lasciata la Francia in cerca di avventure, Orlando cattura e converte al cristianesimo il gigante Morgante, che lo accompagna poi in Oriente come scudiero, assistendolo nelle sue imprese. L’episodio più celebre dell’opera (che ebbe anche una circolazione indipendente dal resto del poema) è l’incontro tra Morgante e Margutte (un gigante la cui crescita si è arrestata a metà): Margutte, personaggio ideato da Pulci, è un furfante scaltro e amorale, che dà vita, insieme a Morgante, a una serie di avventure tra l’epico e il carnevalesco. Orlando in seguito farà ritorno in Francia per difendere l’esercito cristiano dall’attacco sferrato dal re saraceno Marsilio, istigato da Gano. Negli ultimi cinque cantari la narrazione si allinea al complesso delle Chansons, trattando la disfatta di Roncisvalle, la morte di Orlando e, alla fine, la terribile punizione di Gano.

5 L’Orlando innamorato di Boiardo

e la nostalgica riproposizione del mondo cavalleresco

Matteo Maria Boiardo alla corte estense La vita L’esistenza di Boiardo, nobile feudatario di Scandiano (presso Reggio Emilia), dove nasce attorno al 1441, è tutta legata alla corte degli Estensi. Matteo Maria partecipa alle feste, alle cacce e ai tornei che scandiscono la vita dell’ambiente cortigiano, svolge importanti incarichi per conto degli Este, ma al contempo si dedica anche agli studi umanistici, traducendo testi classici latini e studiando soprattutto la poesia amorosa (Orazio e Properzio). Dai cantari al poema cavalleresco 1 201


Nel 1476 si stabilisce definitivamente a Ferrara e conclude gli Amorum libri (Libri degli amori), ispirati dall’amore per Antonia Caprara, una raccolta poetica che guarda al modello del Petrarca, pur con un titolo che richiama gli Amores del poeta latino Ovidio: si tratta di 180 liriche, in prevalenza sonetti, organizzate in tre libri secondo un preciso disegno. Probabilmente nel 1476, stimolato dalla signoria estense, il Boiardo inizia la stesura dell’Orlando innamorato, un poema cavalleresco in ottave, di cui pubblicherà nel 1483 i primi due libri. Assorbito da impegni di grande responsabilità (dal 1487 è governatore di Reggio), Boiardo interrompe però la stesura del lavoro, che rimarrà incompiuto al nono canto del III libro. Gli ultimi versi, scritti dal Boiardo poco prima di morire (nel dicembre 1494), ci consegnano l’immagine angosciata di un’Italia «tutta a fiama e a foco» per la discesa delle truppe francesi di Carlo VIII. La violenza della storia infrangeva bruscamente i sogni cavallereschi, che si rivelavano incompatibili con il corso drammatico degli eventi.

L’Orlando innamorato Un’ottica nostalgica Boiardo utilizza il codice cavalleresco per esprimere la nostalgia per il mondo delle belle favole e degli antichi cavalieri, che gli sembravano ormai tramontati. Nel proemio al libro II scrive: «Così nel tempo che virtù fioria / ne li antiqui segnori e cavallieri, / con noi stava allegrezza e cortesia, / e poi fuggirno per strani sentieri» (➜ T3 OL). D’altra parte il raffinato ambiente della corte estense di Ferrara, a cui espressamente l’Orlando innamorato si rivolge, amava particolarmente le leggende cavalleresche e ancora si riconosceva nei valori etici e culturali di quel mondo cortese ed eroico che il Boiardo cerca di rivitalizzare. Il ruolo centrale della tematica amorosa Nella riproposta del materiale epicocavalleresco, Boiardo opera alcune fondamentali innovazioni: mentre la materia carolingia era tradizionalmente dominata dalle armi, Boiardo riserva invece il ruolo principale alla tematica dell’amore, ispirandosi sia alla tradizionale materia bretone sia alla visione petrarchesca del sentimento che ricorre nella lirica del secondo Quattrocento. Del resto lo stesso Boiardo aveva composto, come si è detto, un canzoniere amoroso, gli Amorum libri, che è considerato il più significativo della poesia amorosa quattrocentesca. La sostanziale continuità tra il poeta lirico e il cantore degli amori cavallereschi è evidente nel poema, a cominciare dall’elogio dell’amore pronunciato all’inizio del canto IV del secondo libro: «Amor primo trovò le rime e’ versi / i suoni, i canti et ogni melodia; / e genti istrane e populi dispersi / congionse Amore in dolce compagnia. […]». La maggior parte delle avventure del poema è legata a questo tema, che costituisce il principale motore dell’azione narrativa: è per amore, in particolare nei confronti della bella Angelica, affascinante personaggio femminile creato da Boiardo e poi ripreso da Ariosto, che gli eroi (da Ranaldo a Sacripante a Orlando stesso) si scontrano tra loro in duelli e si avventurano lontano dal campo di battaglia, affrontando pericolose imprese. Una novità: anche Orlando si innamora Nel poema boiardesco lo stesso Orlando, eroico paladino per tradizione votato alle armi, conosce con struggente intensità l’esperienza amorosa (➜ T6 ): da qui il titolo, che già prospetta inequivocabilmente la novità dell’opera rispetto alla tradizione epico-cavalleresca, una novità poi apertamente sottolineata nelle prime ottave del poema. Nelle prime tre ottave del canto

202 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


XVIII del secondo libro (in cui sono enunciate le scelte tematiche del poema) Boiardo rovescia la gerarchia tradizionale tra materia di Francia e di Bretagna, secondo la quale la storicità della prima e i suoi valori ideologici e morali la rendevano indiscutibilmente superiore alle strane avventure dei cavalieri erranti. Al contrario, Boiardo sostiene apertamente l’inferiorità della “corte di Francia” rispetto a quella “di Bretagna” proprio per la sua insensibilità alla tematica amorosa: essa «non fo [fu] di quel valore e quella estima / qual fo quell’altra» (ovvero la Bretagna) «perché tenne ad Amor chiuse le porte / e sol se dette alle battaglie sante» (II, XVIII, 2). La “bretonizzazione” della materia carolingia e l’“abbassamento” della dimensione epica Ciò che caratterizza l’Orlando innamorato, perciò, non è tanto (come a volte si dice) la fusione dei cicli bretone e carolingio, operazione che, come si è detto, già da tempo era stata realizzata nei cantari, quanto piuttosto il sostanziale sbilanciamento dell’intreccio verso le avventure del ciclo bretone e soprattutto verso il tema amoroso, vero centro unificante del poema. Oltre a quella che il critico Bruscagli ha definito «bretonizzazione della materia carolingia», la novità del poema è più in generale l’“abbassamento” della materia carolingia, per cui non si può più parlare ormai di poema epico-cavalleresco, ma quasi di un nuovo genere: Orlando stesso, ad esempio, viene mostrato a volte comicamente inadeguato alle situazioni amorose in cui si viene a trovare. Altrettanto importante è la consapevole rivitalizzazione della tradizione cavalleresca alla luce dei nuovi valori dell’Umanesimo: ne è palese esempio il dialogo tra Orlando e Agricane in un celebre episodio del poema, in cui Orlando si mostra paladino della importanza della cultura, facendosi portavoce della visione tipica di tale periodo (➜ t7 ). Gli interventi del narratore Specialmente ad apertura dei singoli canti, il narratore interviene per commentare gli avvenimenti e nel corso della narrazione si rivolge spesso ai propri ipotetici uditori, che immagina accomunati a lui dalla passione per le belle storie e per i valori cavallereschi. Rispetto alla tradizione dei cantari, nell’Orlando innamorato è potenziata la figura del narratore, che ricerca deliberatamente l’adesione del pubblico di corte a cui si rivolge: «Segnori e caval-

Pisanello, San Giorgio e la principessa, affresco, 1436-38 ca. (Basilica di Sant'Anastasia, Verona).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 203


lieri inamorati, / cortese damiselle e grazïose, / venitene davanti et ascoltati / l’alte venture e le guerre amorose...», come vengono ritratti i cortigiani all’inizio del canto XIX del primo libro. Caratteristiche strutturali e stilistico-linguistiche Come si può dedurre anche dal riassunto sintetico sotto riportato (che rende solo in parte l’idea dell’intricato svolgersi delle avventure), l’intreccio del poema è assai complesso. Boiardo sa però gestirlo con polso fermo: anche se ancora non raggiunge la straordinaria capacità registica di Ariosto, egli dimostra una grande abilità nel riannodare i fili degli episodi, mentre nei cantari si assisteva a una semplice giustapposizione dei vari momenti; inoltre usa in modo accorto l’entrelacement (ovvero la tecnica dell’intrecciare varie vicende interrompendole e riprendendole in occasioni diverse, così da farle ora convergere ora divergere). Il linguaggio utilizzato, che ha come base il ferrarese colto, è piuttosto disomogeneo, ben lontano da quella che sarà la straordinaria armonia ariostesca: ai toni popolareggianti, tipici dei cantari, si contrappongono toni aulici e preziosi in alcune descrizioni e soprattutto nella rappresentazione degli effetti dell’amore, che risente direttamente del gusto petrarcheggiante diffuso nella lirica del tempo. La trama La bellissima Angelica, figlia del re del Catai, nel lontano Oriente, giunge a Parigi col fratello Argalìa mentre si sta svolgendo un grande torneo alla corte di Carlo Magno. La principessa propone a tutti i cavalieri, cristiani e saraceni, una sfida: si promette in premio a chi riuscirà a sconfiggere Argalìa, mentre i cavalieri sconfitti saranno suoi prigionieri. Argalìa, potendo contare su una lancia fatata, pensa di eliminare i migliori campioni presenti, affinché suo padre Galafrone possa più facilmente invadere l’Occidente. Il progetto però fallisce: Argalìa, a cui è sottratta la lancia magica, è ucciso dal saraceno Ferraguto. Angelica allora fugge dal campo cristiano, inseguita da numerosi cavalieri cristiani, tra cui Orlando e Ranaldo, ammaliati dalla sua bellezza. Nella foresta delle Ardenne, però, Ranaldo beve a una fonte che, per un incantesimo di Merlino, lo fa disamorare e fa si che cominci a odiare Angelica; la donna a propria volta beve a una fonte che produce l’effetto opposto e insegue, innamorata, Ranaldo. Dopo varie avventure, la scena si sposta ad Albraca, nel Catai, dove Sacripante e Agricane combattono per il possesso di Angelica; Agricane sarà ucciso in duello da Orlando. In questa fase del poema abbondano i duelli, ma irrompe anche la dimensione del fantastico: i personaggi incontrano maghi e fate, affrontano draghi e giganti, entrano in giardini e palazzi incantati. Frattanto, il re pagano Agramante scatena una guerra in Francia, potendo contare su fortissimi guerrieri come Ferraguto, Rodomonte e anche Rugiero, che il potente signore ha sottratto al mago Atlante, il quale lo teneva nascosto. I pagani sbarcano in Francia, mettendo a dura prova l’esercito di Carlo Magno, ma Ranaldo e Orlando, ritornati in Occidente con Angelica, sono pronti a difenderlo. Il rapporto fra Angelica e Ranaldo è nel frattempo nuovamente cambiato perché Ranaldo ha bevuto questa volta alla fonte dell’amore, mentre Angelica ha preso a odiarlo avendo bevuto a quella opposta. Per amore di Angelica, Ranaldo e Orlando si azzuffano; Carlo Magno decide allora di affidarla al duca di Namo, promettendola a colui che combatterà più valorosamente. Alla fine dell’opera si accenna anche al nascente amore tra Rugiero e Bradamante (una fanciulla guerriera, sorella di Ranaldo) destinati a divenire i capostipiti della dinastia estense. Per la prima volta la materia cavalleresca viene utilizzata per fini encomiastici, cioè per elogiare una casata, in questo caso quella degli Este.

204 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


PER APPROFONDIRE

Morgante e Orlando innamorato Morgante

Orlando innamorato

ARGOMENTO

avventure cavalleresche

vicende amorose, duelli e avventure cavalleresche

PRINCIPALI PERSONAGGI

Rinaldo, Orlando, Morgante, Margutte

Orlando, Angelica, Argalìa, Ranaldo, Rugiero, Bradamante

MODALITÀ COMUNICATIVE (TRASMISSIONE E RICEZIONE DEL TESTO)

• stesura interrotta e poi ripresa • prima edizione incompleta nel 1478 • nuova edizione con i nuovi cantari nel 1483 (Morgante maggiore)

• poema incompiuto • prima edizione integrale nel 1506 • dimenticato per secoli, è riscoperto nell’Ottocento-Novecento

SCOPO

• fini parodistici • polemizzare contro la corte medicea

• fini encomiastici • dilettare il pubblico colto delle corti

STILE

• lingua basata sul parlato fiorentino • elementi iper-espressivi, ibridi e gergali • linguaggio edonistico e creativo

• ferrarese colto • toni aulici e preziosi • stilemi petrarchisti

PUBBLICO

colto

METRICA

ottave di endecasillabi

La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato Dopo la sua pubblicazione, nel 1506, il poema del Boiardo conosce nei primi decenni del Cinquecento un grande successo, testimoniato da circa venti edizioni. Si tratta, però, di un successo effimero: in breve tempo il poema appare superato. Le ragioni sono essenzialmente linguistiche: la forte patina ferrarese, anche se generalmente si tratta di un “emiliano illustre”, non corrisponde alle tendenze linguistiche dominanti all’epoca, ispirate alle tesi del Bembo. L’Orlando innamorato

esce letteralmente di scena, surclassato dalla schiacciante concorrenza dell’Orlando furioso, oltretutto presentato come “gionta” – e cioè continuazione – del poema di Boiardo. Dimenticato per secoli, l’Orlando innamorato è riscoperto e rivalutato tra Ottocento e Novecento. Oggi viene letto in una versione vicina all’originale, ma ripulita dei colori più marcatamente dialettali, contenuta in un manoscritto del primo Cinquecento.

Dai cantari al poema cavalleresco 1 205


Testi In dialogo

I proemi del Morgante e dell’Orlando innamorato L’autore di un poema affida al proemio l’enunciazione della propria poetica e talvolta indica anche qualche componente della propria visione del mondo. Proprio in questa prospettiva presentiamo i due proemi che aprono rispettivamente il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo: già di per sé essi testimoniano la vistosa differenza ideologica (e poetica) che caratterizza le due opere. Dell’Orlando innamorato forniamo online anche un’ulteriore testimonianza di carattere programmatico: il celebre proemio al libro II, che può costituire un utile complemento al proemio del libro I, poiché rappresenta un vero e proprio “manifesto” dell’ideologia che ispira l’opera di Boiardo (➜ T3 OL).

Luigi Pulci

T2a

Il proemio del Morgante Morgante, Proemio

L. Pulci, Morgante, intr. e note di G. Dego, Rizzoli, Milano 1992

AUDIOLETTURA

Le quattro ottave che costituiscono il proemio del Morgante sono strutturate secondo il cliché classico dell’invocazione alle Muse e della presentazione dell’argomento che aprono i poemi epici: Pulci si rivolge a Dio (prima ottava) e alla Vergine (seconda ottava) per chiedere sostegno e ispirazione al proprio lavoro. La terza strofa ha la funzione di creare un’“aura epica” attorno all’opera. La quarta chiama in causa, la committente del poema (Lucrezia, madre di Lorenzo il Magnifico) ed enuncia l’argomento e l’obiettivo del poema.

CANTARE PRIMO 1 In principio era il Verbo appresso a Dio, ed era Iddio il Verbo e ’l Verbo Lui: questo era nel principio, al parer mio, e nulla si può far sanza Costui1. Però2, giusto Signor benigno e pio, mandami solo un degli angel tui, che m’accompagni e rechimi a memoria3 una famosa, antica e degna storia. 2 E tu, Vergine, figlia e madre e sposa di quel Signor che ti dette la chiave del Cielo e dell’abisso e d’ogni cosa quel dì che Gabriel tuo ti disse Ave4, perché tu se’ de’ tuoi servi pietosa5, con dolce rime e stil grato e soave aiuta i versi miei benignamente e ‘nsino al fine allumina la mente. La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 In principio... sanza Costui: parafrasi libera dell’inizio del Vangelo di san Giovanni, in cui si insinua una nota irriverente

(al parer mio) e un abbassamento della materia di fede (Dio è definito Costui). 2 Però: perciò. 3 rechimi a memoria: mi faccia ricordare (per poterla trasmettere).

4 quel dì... Ave: allusione al giorno dell’Annunciazione. 5 perché... pietosa: poiché tu hai pietà degli uomini.

206 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


3 Era nel tempo quando Filomena con la sorella si lamenta e plora, ché si ricorda di sua antica pena, e pe’ boschetti le ninfe innamora, e Febo il carro temperato mena, ché ’l suo Fetonte l’ammaestra ancora, ed appariva appunto all’orizonte tal che Titon si graffiava la fronte6, 4 quand’io varai la mia barchetta prima per obedir chi sempre obedir debbe la mente, e faticarsi in prosa e in rima, e del mio Carlo imperador m’increbbe; ché so quanti la penna ha posti in cima, che tutti la sua gloria prevarrebbe: è stata questa istoria, a quel ch’io veggio, di Carlo, male intesa e scritta peggio7. 6 Era nel tempo... fronte: viene definito dall’ampia perifrasi mitologica il tempo del passato mitico, in cui si svolgono gli avvenimenti evocati; Filomena e la sorella Progne furono trasformate rispettivamente in usignolo e rondine, e di ciò si lamentano e piangono (plora “piange”); Febo è il sole, che conduce (mena) il suo carro con prudenza (temperato “moderatamente”), memore della tragica vicenda accaduta al figlio Fetonte (’l

suo Fetonte) il quale, avuto dal padre il permesso di guidare il carro solare, precipitò nel Po. Titone è il vecchio sposo dell’Aurora, qui raffigurato nell’atto eroicomico e prosaico di grattarsi la fronte perché lasciato solo dalla sposa. 7 quand’io... peggio: la quarta ottava è dedicata all’illustrazione dell’occasione e della materia del poema. Ricorre innanzitutto la consueta metafora della barca (qui degradata scherzosamente a

barchetta) per designare l’attività poetica e quindi viene, anche se non esplicitamente, ricordata colei che ispirò la composizione del poema, Lucrezia Tornabuoni (la persona a cui il poeta dice di aver ubbidito). La motivazione a scrivere sembra essere stata il desiderio di conferire a Carlo Magno la gloria dovuta (m’increbbe “mi importò”), ricostruendo la vera storia delle sue imprese e di quelle dei suoi paladini.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Che cosa chiede il poeta a Dio e alla Vergine? ANALISI 3. Quale argomento si propone di trattare nel proprio poema? STILE 4. Secondo la formula stilistica che sarà tipica del poema “eroicomico”, il testo alterna un registro serio ed espressioni auliche e solenni ad altre di carattere colloquiale e nelle quali si può individuare un abbassamento comico-realistico: completa una tabella come questa con qualche esempio. registro aulico

Interpretare

registro comico

SCRITTURA 5. Rintraccia i riferimenti al rovesciamento parodico dell’eroismo cavalleresco e, sulla base delle tue conoscenze, sintetizza le tue considerazioni in un breve testo (max 15 righe).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 207


Matteo Maria Boiardo

T2b

Il proemio dell’Orlando innamorato Orlando innamorato I, i, 1-3

M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a c. di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978

AUDIOLETTURA

Mentre Pulci, seguendo la tradizione dei cantari, all’inizio del proprio poema si rivolge a Dio e alla Vergine Maria, Boiardo preferisce evocare subito il pubblico ristretto e aristocratico cui intende indirizzare la propria opera (signori e cavallier della corte estense di cui egli stesso fa parte), costruendo uno specifico “orizzonte d’attesa”, ossia un’aspettativa nel pubblico adeguata agli intenti che ispirano il poema. Ne prospetta subito la novità rispetto alla tradizione epico-cavalleresca: nell’Orlando innamorato l’eroe combattente è trasformato in personaggio vittima dell’amore, una condizione che accomuna il prode Orlando agli altri esseri umani e che costituisce già di per sé una “desublimazione” della materia epica.

1 Signori e cavallier che ve adunati1 per odir cose dilettose e nove2, stati attenti e quïeti, et ascoltati la bella istoria che ’l mio canto muove3; e vedereti i gesti smisurati4, l’alta fatica e le mirabil prove che fece il franco Orlando per amore nel tempo del re Carlo imperatore. 2 Non vi par già, signor, meraviglioso5 odir cantar de Orlando inamorato, ché qualunche nel mondo è più orgoglioso6, è da Amor vinto, al tutto subiugato7; né forte braccio, né ardire animoso, né scudo o maglia, né brando8 affilato, né altra possanza9 può mai far diffesa, che al fin non sia da Amor battuta e presa.

La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 ve adunati: vi adunate. La desinenza -i per la seconda persona plurale è usuale nella lingua di Boiardo (così più sotto ascoltati, vedereti). 2 cose dilettose e nove: il piacere che Boiardo narratore propone al pubblico della corte estense è strettamente connesso alla novità

dell’opera enunciata poco sotto, ossia al racconto delle imprese fatte da Orlando non per la patria e la fede, ma per amore. 3 muove: ispira. 4 i gesti smisurati: le imprese straordinarie. 5 Non vi par... meraviglioso: non vi sembri strano, o signori. Boiardo previene la perplessità del proprio uditorio di fronte alla tra-

sformazione dell’eroe epico in un cavaliere preda dell’amore. 6 qualunche... più orgoglioso: tutti, anche le persone più superbe. 7 al tutto subiugato: completamente soggiogato. 8 brando: spada. 9 possanza: potente risorsa.

208 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


3 Questa novella10 è nota a poca gente, perché Turpino11 istesso la nascose, credendo forse a quel conte valente esser le sue scritture dispettose12, poi che contra ad Amor pur fu perdente colui che vinse tutte l’altre cose: dico di Orlando, il cavalliero adatto13. Non più parole ormai, veniamo al fatto. 10 novella: racconto. 11 Turpino: il vescovo di Reims che sarebbe stato testimone e cantore delle gesta carolingie.

12 credendo... dispettose: l’autore immagina che Turpino abbia omesso di sua iniziativa il racconto delle gesta di Orlando per amo-

re perché ciò non sarebbe stato gradito dall’eroe (conte valente). 13 adatto: perfetto.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle ottave in 10 righe. COMPRENSIONE 2. Com’è giustificata la novità dell’opera che potrebbe sconcertare i lettori? ANALISI 3. Con quali espressioni Boiardo allude alla sua opera? Quali aspetti di essa sono messi in primo piano?

Interpretare

SCRITTURA 4. Metti a confronto i due proemi, individua per ognuno gli elementi caratterizzanti e completa uno schema come quello proposto. caratteristiche

affinità

elementi di diversità

proemio del Morgante proemio dell’Innamorato

online T3 Matteo Maria Boiardo

…E torna il mondo di virtù fiorito Orlando innamorato II, i, 1-3

Il Boiardo legge il suo poema (lunetta affrescata da Niccolò dell’Abate nel 1540, già nel castello Boiardo a Scandiano, ora alla Galleria estense di Modena).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 209


Luigi Pulci

T4

Il credo blasfemo di Margutte Morgante, XVIII, 112-120

L. Pulci, Morgante, intr. e note di G. Dego, Rizzoli, Milano 1992

Il gigante Morgante è in viaggio per ricongiungersi a Orlando quando s’imbatte in uno strano essere, Margutte, un mezzo gigante che ha interrotto a metà la sua crescita. A Morgante, che gli chiede di dichiarare se è cristiano o pagano, Margutte risponde con una originalissima “professione di fede”... Margutte diventerà compagno di Morgante in mirabolanti imprese che costituiscono le pagine più godibili del poema e che, stampate a sé, avranno un’autonoma diffusione.

112 Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio1, uscito d’una valle in un gran bosco, vide venir di lungi, per ispicchio2, un uom che in volto parea tutto fosco3. Détte del capo del battaglio un picchio in terra4, e disse: «Costui non conosco»; e posesi a sedere in su ’n un sasso, tanto che questo capitò e al passo5. 113 Morgante guata6 le sue membra tutte più e più volte dal capo alle piante, che7 gli pareano strane, orride e brutte: – Dimmi il tuo nome – dicea – vïandante. Colui rispose: – Il mio nome è Margutte8; ed ebbi voglia anco io d’esser gigante9, poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto: vedi che sette braccia10 sono appunto. – 114 Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto: ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato11, che da due giorni in qua non ho beuto; e se con meco sarai accompagnato12, io ti farò a camin quel che è dovuto13.

La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 crocicchio: crocevia. 2 vide… per ispicchio: vide con la coda dell’occhio (cioè intravedendolo solo in parte) venire da lontano. 3 fosco: cupo, torvo. 4 Détte... in terra: Batté per terra un’estremità del battaglio. Il batacchio di una campana era l’arma personale di Morgante. 5 tanto che... al passo: fino a quando l’in-

dividuo misterioso non fosse arrivato al punto in cui lui si trovava. 6 guata: fissa, osserva intensamente. 7 che: con il significato di “le quali”, riferito a membra. 8 Margutte: il nome del personaggio deriva dal termine con cui era designato il saracino o la quintana, cioè il fantoccio che rappresentava il guerriero e che nei tornei era il bersaglio per i cavalieri armati di lancia. 9 ebbi... gigante: anch’io avevo desiderio di diventare un gigante (come Morgante).

10 sette braccia: un braccio equivaleva a poco più di mezzo metro; perciò il “mezzo gigante” era alto quasi quattro metri. 11 ecco... allato: ecco che avrò un fiaschetto a lato. Morgante allude alla statura bassa di Margutte rispetto alla sua, che lo fa sembrare un fiasco piccolo. 12 se con meco… accompagnato: se ti accompagnerai a me. 13 io... dovuto: io ti tratterò lungo la strada come si deve.

210 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


Dimmi più oltre14: io non t’ho domandato se se’ cristiano o se se’ saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino15. – 115 Rispose allor Margutte: – A dirtel tosto16, io non credo più al nero ch’a l’azzurro17, ma nel cappone18, o lesso o vuogli19 arrosto; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia20, e quando io n’ho, nel mosto, e molto più nell’aspro che il mangurro21; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; 116 e credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; e ’l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello22. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo23, se Macometto il mosto vieta e biasima. credo che sia il sogno o la fantasima; 117 ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la tregenda24. La fede è fatta come fa il solletico25: per discrezion26 mi credo che tu intenda. Or tu potresti dir ch’io fussi27 eretico: acciò che invan parola non ci spenda28, vedrai che la mia schiatta non traligna e ch’io non son terren da porvi vigna29.

14 Dimmi più oltre: Ma ancora dimmi. 15 Apollino: presunta divinità dei musulmani (il nome è derivato dal dio greco Apollo) che costituiva, con Maometto (Macone) e Trivigante, una sorta di antiTrinità opposta a quella cristiana. 16 A dirtel tosto: Per dirti subito come la penso. 17 io non credo... azzurro: è una dichiarazione di scetticismo, se non addirittura di nichilismo. 18 ma nel cappone: inizia qui la sacrilega e dissacrante parodia del Credo. 19 o vuogli: o se vuoi. 20 cervogia: un tipo di birra. 21 aspro... mangurro: il termine aspro significa sia “vino aspro” che “moneta tur-

ca d’argento”; il mangurro è una moneta turca di rame di poco valore. Il significato della frase, fondato su un gioco di parole, è ambiguo. 22 diriva... almen quello: per lo meno è assodato che il fegatello deriva dal fegato. Il che rappresenta, nell’opinione del personaggio, una realtà lampante e indiscutibile, a differenza dei dogmi teologici sulla Trinità. 23 ghiacciuolo: botticella di legno usata per conservare il ghiaccio. 24 se Macometto... la tregenda: se Maometto vieta e condanna il vino (il mosto) credo sia un sogno o un incubo (la fantasima), quindi non intendo obbedirgli; e Apollino deve essere un delirio, e

Trivigante forse la tregenda (è “il sabba, l’adunata di spiriti infernali”). 25 La fede... solletico: Come c’è chi soffre il solletico e chi no, così vi è chi ha la fede e chi non l’ha. 26 per discrezion: per il tuo discernimento. 27 ch’io fussi: che io sia. 28 acciò... ci spenda: affinché tu non ti affatichi inutilmente per cercare di convincermi. 29 vedrai... vigna: vedrai che la gente come me (la mia schiatta) non si travia dal proprio cammino (detto ironicamente) e che io non sono terreno fertile per far fruttare insegnamenti religiosi (a cui allude la metafora evangelica della vigna).

Dai cantari al poema cavalleresco 1 211


118 Questa fede è come l’uom se l’arreca30. Vuoi tu veder che fede sia la mia?, che nato son d’una monaca greca e d’un papasso31 in Bursia32, là in Turchia. E nel principio sonar la ribeca33 mi dilettai, perch’avea fantasia cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille, non una volta già34, ma mille e mille. 119 Poi che m’increbbe il sonar la chitarra, io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso35. Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra36, e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso37, mi posi allato questa scimitarra e cominciai pel mondo andare a spasso; e per compagni ne menai con meco tutti i peccati o di turco o di greco38; 120 anzi quanti ne son giù nello inferno: io n’ho settanta e sette de’ mortali, che non mi lascian mai la state o ’l verno39; pensa quanti io n’ho poi de’ venïali! Non credo, se durassi il mondo etterno, si potessi commetter tanti mali quanti ho commessi io solo alla mia vita; ed ho per alfabeto ogni partita40. 30 se l’arreca: se la porta con sé dalla nascita. 31 papasso: sacerdote musulmano. 32 Bursia: antica città dell’Anatolia. 33 ribeca: strumento simile alla viola. Poi è nominato come chitarra. 34 già: solo. 35 turcasso: custodia delle frecce.

36 sciarra: rissa. 37 il mio vecchio papasso: qui allude al proprio padre. 38 tutti i peccati... di greco: tutti i peccati derivati a me da parte di padre (un turco) e di madre (una greca). 39 io n’ho… o ’l verno: io, di peccati capitali, ne ho settantasette, che non mi ab-

bandonano mai (rafforzato da la state o ’l verno). 40 Non credo... partita: Non penso che, se il mondo durasse in eterno, si potessero commettere tanti peccati quanti ne ho commessi solo io nella mia vita, e posso enumerarli tutti in ordine alfabetico.

Analisi del testo La struttura Il passo si divide in due parti: la prima parte (ott. 112-114) vede l’incontro tra i due personaggi, destinati, dopo le reciproche presentazioni, a diventare inseparabili compagni d’avventura. La seconda parte (ott. 115-120) è la risposta di Margutte alla domanda che Morgante gli rivolge, se sia cristiano o saraceno.

La parodia del Credo cristiano Il discorso di Margutte si articola in due momenti: nel primo egli enuncia la sua blasfema “professione di fede”, nel secondo (da noi non riportato) si autoritrae, tracciando un profilo di sé che costituisce una sorta di catalogo di tutti i vizi.

212 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


La grottesca professione di fede prende le mosse da un’aperta dichiarazione di indifferenza ai valori religiosi (io non credo più al nero ch’a l’azzurro), che svuota totalmente di significato la tradizionale contrapposizione, su cui si fondava l’epica medievale e che motiva la domanda di Morgante, tra cristiani e saraceni (se se’ cristiano o se se’ saracino, / o se tu credi in Cristo o in Apollino). Margutte si dichiara refrattario a ogni fede, impossibile da convertire (non son terren da porvi vigna). Al Credo cristiano egli sostituisce un “credo” materialista e edonista, fondato soprattutto sul culto popolaresco del cibo e del vino, le sole cose in cui il personaggio confida. Il punto più irriverente del discorso è certamente la blasfema parodia della Trinità presente nell’ottava 116, in cui le tre persone della Santissima Trinità (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) diventano la torta, il tortello e il fegatello.

Il “maledettismo” di Pulci e la tradizione La celebre “professione di fede”, a cui segue un altrettanto irriverente autoritratto (nelle ottave successive, qui non riportate) non deve essere considerata una presa di posizione ideologica dell’autore, ma va interpretata piuttosto come una precisa scelta letteraria. I doppi sensi blasfemi, e più in generale gli spunti irreligiosi di cui è disseminato il testo hanno alle spalle, come è stato evidenziato, una precisa tradizione letteraria, che si può far risalire alla poesia goliardica e comico-realistica (Cecco Angiolieri). Un’altra fonte può essere la celebre novella di ser Ciappelletto nel Decameron, in cui Boccaccio parodizza il modello delle Vite dei santi, assai popolare nella cultura medievale, per costruire il ritratto del malvagio personaggio. Anche Margutte, come ser Ciappelletto, è solito giurare il falso, suscitare scandali, bestemmiare e così via.

La parodia dell’eroe cavalleresco L’obiettivo di Pulci è il rovesciamento (che ha tutti i tratti del “carnevalesco”) del codice cavalleresco, nella costruzione deliberata di un “antieroe”: Margutte è caratterizzato, anziché dai valori celebrati dall’epica carolingia (la nobiltà d’animo, la disposizione al sacrificio, la devozione a una causa, la fede religiosa) da una bestiale voracità e da una spiccata materialità. L’operazione del Pulci mira comunque, non bisogna dimenticarlo, al divertimento del pubblico di corte, in grado di cogliere e apprezzare la parodia realizzata dall’autore.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in una sintesi la professione di fede di Margutte e spiega in cosa consiste il rovesciamento di valori attuato dal gigante. COMPRENSIONE 2. A che proposito Margutte enuncia l’irriverente professione di fede? ANALISI 3. Evidenzia nelle parole di Margutte ciò che realizza la parodia dell’eroe e dell’etica cavallereschi. LESSICO 4. Analizza il testo dal punto di vista lessicale, con particolare attenzione a termini popolari, parole esotiche, espressioni proverbiali, termini d’ambito gastronomico. Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe). STILE 5. Rintraccia le metafore e fanne una schedatura, dando per ognuna una spiegazione.

Interpretare

SCRITTURA 6. Spiega perché la visione della fede enunciata da Margutte, per quanto espressione della deformazione comico-parodica che ispira molte pagine del poema, è comunque frutto di uno spirito ormai moderno e laico (20 righe).

online T5 Luigi Pulci

E Runcisvalle pareva un tegame Morgante XXVII, 50-57

Dai cantari al poema cavalleresco 1 213


Analisi passo dopo passo

T6

Matteo Maria Boiardo

La bella Angelica propone una sfida cavalleresca Orlando innamorato I, i, 19-25 e 29-32

M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a c. di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978

Boiardo ha appena descritto la corte di Carlo Magno in occasione di un grandioso torneo organizzato per cavalieri sia cristiani sia saraceni, quando nella sala compare all’improvviso una fanciulla bellissima, Angelica, accompagnata da quattro giganti e seguita da un cavaliere. Con la sua avvenenza e il suo fascino la donna getta lo scompiglio tra i cavalieri e persino Orlando ne è come stregato...

19 Mentre che stanno in tal parlar costoro, sonarno li instrumenti da ogni banda1; et ecco piatti grandissimi d’oro, coperti de finissima vivanda; coppe di smalto, con sotil lavoro, lo imperatore a ciascun baron manda. Chi de una cosa e chi d’altra onorava, mostrando che di lor si racordava2. 20 Quivi si stava con molta allegrezza, con parlar basso e bei ragionamenti3: Re Carlo, che si vidde in tanta altezza4, tanti re, duci e cavallier valenti, tutta la gente pagana disprezza, come arena del mar denanti a i venti5; ma nova cosa che ebbe ad apparire, fe’ lui con gli altri insieme sbigotire6. 21 Però che in capo della sala bella quattro giganti grandissimi e fieri intrarno7, e lor nel mezo una donzella, che era seguìta da un sol cavallieri. Essa sembrava matutina stella e giglio d’orto e rosa de verzieri8: in somma, a dir di lei la veritate, non fu veduta mai tanta beltate.

La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 sonarno… banda: suonarono gli strumenti da ogni parte. 2 si racordava: si ricordava. 3 Quivi si stava... bei ragionamenti: Alla corte di Carlo Magno (quivi) si stava con grande gioia (allegrezza), si usavano parole pacate (parlar basso) e si facevano

amabili conversazioni (bei ragionamenti). L’insieme delle notazioni relative alla corte di Carlo delinea un comportamento collettivo elegante e signorile. 4 si vidde in tanta altezza: vide in tanta pompa. 5 come… venti: come granelli di sabbia al vento (denanti “di fronte, davanti”). Il paragone è utilizzato per rappresentare la

19-20 Le ottave 19-20 dipingono lo scenario entro il quale si collocherà l’apparizione di Angelica. Boiardo mette in risalto la magnificenza e i comportamenti cortesi che regnano nella corte di Carlo Magno, in un’immagine idealizzata che sembra rispecchiare più la corte estense stessa che non una realtà feudale. Di Carlo Magno viene sottolineato il compiacimento per i tanti nobili cavalieri presenti alla sua corte e il disprezzo verso i pagani.

21 Nella sala fa il suo ingresso scenografico Angelica, seguita da un cavaliere (il fratello) e circondata da quattro giganti. L’obiettivo del narratore si focalizza subito sulla sola Angelica, della quale esalta l’incomparabile bellezza che crea scompiglio tra i cavalieri cristiani e saraceni. Nella descrizione di Angelica lo scrittore impiega alcune immagini preziose, d’ascendenza letteraria. superiorità sprezzante di Carlo nei confronti degli ospiti pagani. 6 ma nova cosa... sbigotire: ma uno spettacolo inatteso e straordinario che apparve fece stupire lui con gli altri. 7 intrarno: entrarono. 8 orto… verzieri: ambedue i termini significano “giardino”.

214 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


22 Era qui nella sala Galerana, ed eravi Alda, la moglie de Orlando, Clarice ed Ermelina tanto umana, et altre assai, che nel mio dir non spando, bella ciascuna e di virtù fontana. Dico, bella parea ciascuna, quando non era giunto in sala ancor quel fiore, che a l’altre di beltà tolse l’onore9. 23 Ogni barone e principe cristiano in quella parte ha rivoltato il viso10, né rimase a giacere11 alcun pagano; ma ciascun d’essi, de stupor conquiso12, si fece a la donzella prossimano13; la qual, con vista allegra e con un riso14 da far inamorare un cor di sasso, incominciò così, parlando basso: 24 – Magnanimo segnor, le tue virtute e le prodezze de’ toi paladini, che sono in terra tanto cognosciute, quanto distende il mare e soi confini15, mi dan speranza che non sian perdute le gran fatiche de duo peregrini16, che son venuti dalla fin del mondo17 per onorare il tuo stato giocondo18. 25 Et acciò ch’io ti faccia manifesta, con breve ragionar, quella cagione che ce ha condotti alla tua real festa19, dico che questo è Uberto dal Leone,

9 Era qui... l’onore: l’apparizione della bellissima fanciulla fa impallidire la bellezza (di beltà tolse l’onore) delle donne presenti nella sala: Alda (moglie di Orlando), Galarana (la sposa di Carlo Magno), Clarice ed Ermelina (mogli rispettivamente di Ranaldo e Uggieri) e di altre su cui non si sofferma (che nel mio dir non spando), ognuna delle quali era bella e virtuosissima (di virtù fontana); tanto umana (v. 3) vale “soltanto umana”, cioè non divina com’era Angelica (denominata al v. 7 quel fiore).

10 in quella… il viso: ha rivolto lo sguardo verso quella parte (dove era comparsa Angelica). 11 rimase a giacere: rimase seduto. 12 de stupor conquiso: conquistato dall’ammirazione. 13 si fece... prossimano: si avvicinò alla donzella. 14 riso: sorriso. 15 e soi confini: e i suoi confini. 16 mi dan speranza... duo peregrini: mi fanno sperare che non siano inutili le

24-29 Il discorso di Angelica a Carlo Magno (che si conclude all’inizio dell’ottava 29 con l’atto di inginocchiarsi davanti al sovrano) si apre con una captatio benevolentiae che fa parte dell’astuta strategia di Angelica, ribalda incantatrice (come verrà definita nell’ottava 34) attenta a offrire un’immagine di sé insieme seducente e riservata per ottenere il proprio scopo: parla sorridendo ma in tono basso (ottava 23, v. 8 ) e alla fine si inginocchia umilmente davanti alla maestà di Carlo, che infatti ne viene totalmente conquistato.

grandi fatiche di due pellegrini (Angelica si riferisce a sé stessa e al fratello che è con lei). 17 dalla fin del mondo: dagli estremi confini del mondo. La patria di Angelica è il Catai, all’incirca l’odierna Cina. 18 il tuo stato giocondo: la tua lieta corte. 19 Et acciò... festa: E per chiarirti in poche parole la ragione che ci ha condotti alla tua regale festa.

Dai cantari al poema cavalleresco 1 215


di gentil stirpe nato e d’alta gesta, cacciato del suo regno oltra ragione20: io, che con lui insieme fui cacciata, son sua sorella, Angelica nomata. [...] [Angelica continua il suo discorso proponendo ai cavalieri, a nome del fratello Uberto, una tenzone: Uberto sfiderà tutti i cavalieri presenti al torneo; se vincerà, quelli saranno suoi prigionieri, se perderà, Angelica sarà il premio del vincitore. In realtà le reali intenzioni di Angelica e del fratello, il cui vero nome è Argalìa, sono quelle di danneggiare Carlo Magno catturando i suoi migliori paladini: Argalìa dispone infatti di armi fatate.] 29 Al fin delle parole ingenocchiata davanti a Carlo attendia risposta. Ogni om per meraviglia l’ha mirata21, ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta col cor tremante e con vista cangiata22, benché la voluntà tenìa nascosta23; e talor gli occhi alla terra bassava, ché di se stesso assai si vergognava. 30 «Ahi paccio24 Orlando!» nel suo cor dicia25 «Come te lasci a voglia trasportare26! Non vedi tu lo error che te desvia, e tanto contra a Dio te fa fallare27? Dove mi mena la fortuna mia28? Vedome preso e non mi posso aitare29; io, che stimavo tutto il mondo nulla, senza arme vinto son da una fanciulla. 31 Io non mi posso dal cor dipartire la dolce vista del viso sereno, perch’io mi sento senza lei morire, e il spirto a poco a poco venir meno.

20 oltra ragione: ingiustamente. 21 Ogni om… l’ha mirata: ognuno l’ha guardata stupefatto (per meraviglia).

22 vista cangiata: aspetto trasformato. 23 benché... tenìa nascosta: anche se te-

neva nascosto il proprio desiderio. 24 paccio: pazzo. 25 nel suo cor dicia: diceva fra sé e sé. 26 te lasci… trasportare: ti fai trasportare dal desiderio.

30-31 Sconvolto dalla bellezza di Angelica e già preda dell’amore, il paladino Orlando rivolge a sé stesso amare considerazioni, incentrate su un’autoanalisi che risente in più punti della lezione petrarchesca. Già l’ultimo verso dell’ottava 29 (di se stesso assai si vergognava) riprende il v. 11 del sonetto proemiale del Canzoniere («di me medesmo meco mi vergogno»). Petrarca è citato quasi alla lettera anche nell’ultimo verso dell’ottava 31, che chiude l’analisi introspettiva di Orlando: ch’io vedo il meglio et al peggior m’appiglio (Canzoniere, CCLIIV, v. 136: «et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio»). Prettamente petrarchesco, anche se semplificato e adattato alla situazione del paladino, è il tema del conflitto.

27 fallare: sbagliare. 28 mi mena... mia: mi conduce la mia sorte. 29 Vedome… aitare: Mi vedo conquistato e non mi posso salvare.

216 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


Or non mi val la forza, né lo ardire contra d’Amor, che m’ha già posto il freno30; né mi giova saper, né altrui consiglio, ch’io vedo il meglio et al peggior m’appiglio31.» 32 Così tacitamente il baron franco si lamentava del novello amore. Ma il duca Naimo32, ch’è canuto e bianco, non avea già de lui men pena al core, anci tremava sbigotito e stanco, avendo perso in volto ogni colore. Ma a che dir più parole? Ogni barone di lei si accese, et anco il re Carlone33.

30 non mi val... il freno: non mi servono né la forza, né il coraggio contro Amore (personificato come nella tradizione della letteratura amorosa), che mi ha ridotto in suo potere (m’ha già posto il freno). 31 ch’io... m’appiglio: vedo ciò che è me-

glio per me ma scelgo il peggio. Per rappresentare il fulmineo innamoramento di Orlando, Boiardo sceglie il verso finale della canzone petrarchesca I’ vo pensando, et nel penser m’assale (CCLXIV). Del resto egli era raffinato conoscitore del

codice amoroso di Petrarca, come dimostrano le sue liriche degli Amorum libri. 32 il duca Naimo: il duca Namo, anziano consigliere di Carlo Magno. 33 Carlone: Carlo. È forma popolare derivata dal francese.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il testo in sequenze e dai a ognuna un titolo; poi riassumi la vicenda narrata. PARAFRASI 2. Fai la parafrasi delle ottave 29-32. COMPRENSIONE 3. Quali effetti provoca l’apparizione di Angelica? Boiardo la descrive sottolineandone ironicamente gli effetti. Spiega le ragioni di questa scelta stilistica. ANALISI 4. In quale ambiente si svolge la scena? LESSICO 5. Analizza il brano dal punto di vista lessicale: sono presenti termini che appartengono a quale tipo di linguaggio? Fai alcuni esempi.

Interpretare

SCRITTURA 6. Fai un breve ritratto del personaggio di Angelica, ideato da Boiardo, sulla base di riferimenti al testo.

Dai cantari al poema cavalleresco 1 217


VERSO IL NOVECENTO

Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato Nel 1994 lo scrittore Gianni Celati (1937-2022) ha pubblicato una straordinaria versione in prosa dell’Orlando innamorato. L’idea nasce da una proposta di vent’anni prima di Calvino, che suggeriva di raccontare in lingua moderna e in prosa i poemi cavallereschi (lui stesso ci ha lasciato una suggestiva versione dell’Orlando furioso). Il tentativo di Celati (come del resto quello di Calvino) non consiste assolutamente in una semplice trasposizione, ma rappresenta una sostanziale riscrittura, una vera e propria ri-creazione, in cui lo spirito dell’antico poema cavalleresco è filtrato dall’occhio moderno e ironico dell’autore. Ne risulta un’opera divertente e godibilissima anche per i lettori d’oggi, che cerca di ricostituire il rapporto d’intesa e di complicità che Boiardo aveva con i propri lettori, di creare una comunicazione fondata sull’oralità pur davanti a un testo scritto: come Boiardo sicuramente leggeva la propria opera alle dame e ai cavalieri della corte estense (e il poema porta l’eco di questa situazione comunicativa), così, secondo quanto dichiara Celati, il “suo” Orlando innamorato «è stato scritto e pensato più come una recita che come un romanzo da leggere in silenzio» ed è espressamente dedicato «a quelli che amano leggere i libri ad alta voce». Vuol essere, come la definisce lo scrittore, una recita in 43 puntate, che deve essere fatta possibilmente ad alta voce «per una compagnia di gente simpatica e non pedante». Una lettura volutamente «ingenua», senza pretese e «superbie intellettuali», così suggerisce l’autore, per ritrovare «emozione, sorpresa, meraviglia», che consentano di appassionarsi alle scatenate avventure del poema e vivere così qualche giorno in compagnia di un narratore «allegro e fantasioso». Riproduciamo la prima parte della “quarta puntata”, dove si racconta il celebre episodio delle fontane “dell’amore e del disamore”, alle cui acque si trovano a bere Ranaldo e la bella Angelica.

Gianni Celati L’Orlando innamorato raccontato in prosa G. Celati, L’Orlando innamorato raccontato in prosa, Einaudi, Torino 1994

IV. Nella selva delle Ardenne Cammina e cammina, il paladino Ranaldo sul suo cavallo Baiardo in cerca dell’Angelica è arrivato in un bosco dove era una bella fontana d’alabastro tutto lavorato. Faceva caldo, il paladino aveva sete, e scende dal cavallo per dissetarsi. Lui non sa che quella fontana l’ha costruita il mago Merlino, per fare in modo che il famoso infelice Tristano smettesse di smaniare d’amore per la bellissima Isotta. Era quella la fontana del disamore, con un’acqua che a chi la beve fa venire immediatamente odio e disprezzo per la persona amata. Ma sfortunatamente il famoso amante Tristano non era mai passato da quelle parti in vita sua, dunque non aveva potuto disamorarsi della regina Isotta. Va detto che di fontane o fonti d’ogni specie se ne incontrano spesso nel terreno d’avventure dei nostri cavalieri. E tutte hanno una bella riva erbosa, con ogni fiore di primavera ivi dipinto, come dice il nostro poema, e tutte hanno fresche ombre per riposarsi in un ben riparato boschetto. Presso queste fonti si fanno spesso duelli, oppure incontri avventurosi; ma a volte questi posti sono trappole di fate per catturare i cavalieri; oppure stanno in quei giardini incantati che le fate creano con le forze dell’illusione. Comunque sono posti dove succede sempre qualcosa di speciale o di meraviglioso, come è successo al paladino Ranaldo giunto alla fontana del disamore. Infatti, dopo aver bevuto l’acqua per dissetarsi, il paladino diventò subito pensoso. L’Angelica non

218 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


gli piaceva più, anzi la disprezzava; e camminando così assorto nei suoi pensieri, arrivò a un fiume dalla riva fiorita. Era quella la riva dell’amore, con un’acqua che non è meno strana di quell’altra, ma al contrario dell’altra fa subito innamorare chi la beve. Nella continuazione del nostro poema, Ludovico Ariosto dice che anche questa era opera del mago Merlino: il quale s’era pentito di aver costruito la fontana del disamore senza nessun risultato benefico, e allora aveva voluto rimediare così, con una sorgente d’acqua che accende il fuoco amoroso nel petto. Ma Ranaldo non beve di quest’acqua, essendosi dissetato all’altra fontana. Adesso è stanco, si stende all’ombra dei freschi alberi, e si addormenta sul prato pieno di fiori in riva al fiume dell’amore. E mentre lui dorme profondamente, arriva in quel posto qualcun altro che aveva sete e voleva riposarsi. Sulla riva fiorita del fiume arrivava la bella Angelica, che dopo la fuga da Ferraguto e dopo molto vagare nella selva delle Ardenne, adesso veniva a dissetarsi con l’acqua che fa innamorare. Lei non sapeva niente di quell’acqua incantata, e l’incantesimo fece subito i suoi strani effetti, come ora vedremo nel seguito di questa storia. Quando Angelica ebbe bevuto l’acqua incantata sulla riva dell’amore, lei così bella e così altera che rifiutava sempre tutti gli uomini, subito sentì insorgere in sé forti voglie per il primo uomo che le capitasse sott’occhio. E quell’uomo fu il paladino Ranaldo, che in quel momento se ne stava pacifico e addormentato lì vicino, disteso sul prato fiorito. Cosa fa allora l’Angelica? Raccoglie fiori dal bel prato, e va a spargerli addosso al paladino, coprendolo tutto di petali per modo di festeggiarlo. Il paladino si sveglia, e la guarda stranito; e lei lo saluta con gesti di rendergli omaggio. Ma se prima la inseguiva con una passione ardente nel cuore, adesso Ranaldo vedendo la bella Angelica è come se avesse un incubo, perché non la sopportava più, avendo bevuto l’acqua del disamore. Allora è saltato in piedi, è balzato sul suo cavallo Baiardo, e via che fuggiva a spron battuto tra gli alberi della selva per non vederla. La ragazza però non si rassegna, e montata sul suo bianco palafreno si diede a rincorrerlo. Correva alla disperata tra gli alberi, gridandogli dietro queste parole: «Ahi, cavaliere, perché mi fuggi con tanto sdegno? Non sono Gano di Maganza, il traditore! Io sono una che ti ama più di sé stessa. Deh, voltati almeno, e guarda chi stai fuggendo. Merito forse, alla mia età, di essere così respinta?» Ma vano è l’inseguimento. Appena fuori dalla selva il cavallo Baiardo spiccò un volo rapidissimo nella pianura, come se fosse un uccello, e in breve scomparve alla vista. Sentendosi tutta bruciare d’amore, tornò dunque Angelica alla riva del fiume dove Ranaldo s’era disteso; e anche lei si distese sul prato fiorito, baciando l’erbe e i fiori che il paladino aveva toccato. E diceva con voce pietosa: «Fiori beati, erbe beate, che toccaste il suo viso, quanto vi invidio! Oh, come la vostra sorte è più avventurosa della mia! Ben volentieri accetterei di morire, se lui dovesse venirmi sopra come è venuto a voi». Con questo bel pensiero in mente, sembrandole di soffrire meno dell’amorosa piaga se restava in quel luogo, dove aveva incontrato il crudele cavaliere, poco dopo l’Angelica si addormentò placidamente sul prato pieno di fiori. Lasciamola là a dormire e andiamo a vedere cosa è successo a suo fratello Argalia, che era fuggito sul cavallo Rabicano veloce come il vento. Di questo cavallo parleremo più avanti, perché c’è molto da dire, e adesso badiamo al suo padrone.

Dai cantari al poema cavalleresco 1 219


Matteo Maria Boiardo

T7

Orlando difende i valori della cultura e dell’amore

EDUCAZIONE CIVICA

Orlando innamorato I, xviii, 40-48 M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a c. di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978

Tra gli episodi più significativi dell’Orlando innamorato di Boiardo c’è il celebre duello tra Orlando e il pagano Agricane e soprattutto l’intimo colloquio notturno tra i due mentre la sfida è momentaneamente sospesa.

[I personaggi principali del poema si trovano momentaneamente nel lontano Oriente, all’assedio di Albracca, dove Angelica si è rifugiata. Il re tartaro Agricane cerca di espugnare la rocca, mentre Orlando è in prima linea nella sua difesa. Per allontanare Orlando dal campo, il pagano finge di fuggire ed è inseguito dal paladino cristiano, che infine lo raggiunge. I due si affrontano in duello ma, al sopraggiungere della notte, decidono di interrompere la tenzone. Come non fossero acerrimi nemici, i due si riposano fianco a fianco e conducono una civile conversazione.] 40 Così de acordo il partito se prese1. Lega il destrier ciascun come li2 piace, poi sopra a l’erba verde se distese; Come fosse tra loro antica pace, l’uno a l’altro vicino era e palese3. Orlando presso al fonte isteso4 giace, et Agricane al bosco più vicino stassi colcato5, a l’ombra de un gran pino. 41 E ragionando insieme tuttavia di cose degne e condecente a loro6, guardava il conte il celo e poi dicia: – Questo che or vediamo, è un bel lavoro, che fece la divina monarchia7; e la luna de argento, e stelle d’oro, e la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. –

La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 de acordo... se prese: la decisione (il partito) si prese di comune accordo. 2 li: gli. 3 Come fosse... palese: Orlando e Agrica-

ne stanno vicini e scoperti (palese, “non nascosto”, perciò “senza difesa”) come fossero da sempre amici; mentre, al contrario, sono nemici. 4 isteso: disteso. 5 stassi colcato: se ne sta coricato.

6 cose degne e condecente a loro: argomenti elevati e adeguati alla loro dignità di cavalieri. 7 la divina monarchia: Dio, re del creato.

220 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


42 Disse Agricane: – Io comprendo per certo che tu vôi de la fede ragionare; io de nulla scïenzia sono esperto, né mai, sendo fanciul8, volsi9 imparare, e roppi il capo al mastro mio per merto10; poi non si puotè un altro ritrovare che mi mostrasse libro né scrittura, tanto ciascun avea di me paura. 43 E così spesi la mia fanciulezza in caccie, in giochi de arme e in cavalcare; né mi par che convenga a gentilezza11 star tutto il giorno ne’ libri a pensare; ma la forza del corpo e la destrezza conviense12 al cavalliero esercitare. Dottrina al prete et al dottor sta bene: io tanto saccio quanto mi conviene13. – 44 Rispose Orlando: – Io tiro teco a un segno14, che l’arme son de l’omo il primo onore; ma non già che il saper faccia men degno, anci lo adorna come un prato il fiore; et è simile a un bove, a un sasso, a un legno, chi non pensa allo eterno Creatore; né ben se può pensar senza dottrina la summa maiestate alta e divina15. – 45 Disse Agricane: – Egli è gran scortesia a voler contrastar con avantaggio16. io te ho scoperto17 la natura mia, e te cognosco che sei dotto e saggio.

8 sendo fanciul: quando ero ragazzo. 9 volsi: volli. 10 roppi... per merto: ruppi la testa al mio maestro come ricompensa. 11 né mi par... gentilezza: e non mi sembra che sia adeguato a una persona nobile, a un cavaliere. 12 conviense: si conviene, è giusto. 13 Dottrina... mi conviene: la cultura (Dottrina) è adatta al prete e a chi insegna (dottor). Io so quel tanto che conviene alla mia condizione di cavaliere.

14 tiro teco a un segno: concordo con te. Letteralmente “miro allo stesso bersaglio”, con metafora militare. 15 ma non già... divina: ma non è vero che (ma non già che) il sapere renda meno degno l’uomo, anzi lo adorna come fa con un prato il fiore, ed è simile a un bue, a un sasso, a un legno chi non rivolge il pensiero a Dio, e non si può senza cultura pensare la somma maestà alta e divina. Alla convinzione di Agricane, che rispecchia la primitiva cavalleria feudale,

Orlando contrappone una difesa umanistica della cultura, significativamente associata, nelle sue parole, alla difesa della religiosità. 16 Egli… avantaggio: È un gesto poco cortese voler dibattere stando in una posizione di vantaggio. Agricane ha infatti appena dichiarato di essere ignorante; Egli è pleonastico. 17 te ho scoperto: ti ho svelato.

Dai cantari al poema cavalleresco 1 221


Se più parlassi, io non risponderia; piacendoti dormir, dòrmite ad aggio18, e se meco parlare hai pur diletto, de arme, o de amore a ragionar t’aspetto19. 46 Ora te prego che a quel ch’io dimando rispondi il vero, a fè de omo pregiato20: se tu sei veramente quello Orlando che vien tanto nel mondo nominato; e perché qua sei gionto, e come, e quando, e se mai fosti ancora inamorato; perché ogni cavallier che è senza amore, se in vista è vivo, vivo è senza core21. – 47 Rispose il conte: – Quello Orlando sono che occise Almonte e il suo fratel Troiano22; amor m’ha posto tutto in abandono, e venir fammi in questo loco strano23. E perché teco più largo ragiono, voglio che sappi che ’l mio core è in mano de la figliola del re Galafrone24 che ad Albraca dimora nel girone25. 48 Tu fai col patre26 guerra a gran furore per prender suo paese e sua castella, et io qua son condotto per amore e per piacere a quella damisella. Molte fiate son stato per onore e per la fede mia sopra alla sella; or sol per acquistar la bella dama faccio battaglia, et altro non ho brama27. –

18 Se più… aggio: Se tu parlassi di più, io non ti risponderei; se hai voglia di dormire, con comodo (ad aggio) dormi (in dòrmite, il pronome -te è pleonastico). 19 se meco... t’aspetto: se hai ancora piacere di parlare con me, aspetto che tu parli di armi o di amore. 20 a fè de omo pregiato: in nome della lealtà di un uomo nobile. 21 se tu sei... senza core: Agricane chiede a Orlando se è davvero il personaggio famoso nel mondo e perché, come, quando sia arrivato lì e se sia mai stato innamorato. Poi aggiunge un’esaltazione

dell’amore, senza il quale un uomo non è veramente tale perché vive in apparenza, (in vista), ma senza il cuore è solo una parvenza di sé. La conclusione dell’ottava costituisce un’autocitazione di Boiardo (v. 14 del sonetto proemiale degli Amorum libri). 22 Almonte...Troiano: guerrieri saraceni, la cui uccisione aveva dato fama a Orlando. 23 amor… strano: l’amore mi ha abbandonato completamente a me stesso e mi ha fatto venire in questo paese straniero. 24 la figliola del re Galafrone: Angelica, amata anche da Agricane.

25 dimora nel girone: nella cerchia (delle mura).

26 col patre: appunto Galafrone. 27 Molte fiate... ho brama: si sintetizza in questa dichiarazione la differenza tra l’Orlando della tradizione epica più antica, combattente molte volte (fiate) per onore e per la fede cristiana, e l’Orlando boiardesco che combatte per amore e ad altro non aspira. L’affermazione di Orlando riaccenderà violentissima la rivalità fra i due, fino all’uccisione di Agricane.

222 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


Analisi del testo Gli ideali di civiltà, lealtà, tolleranza Quello presentato è un episodio che appare ispirato agli ideali di civiltà, di lealtà e di tolleranza propri del codice di comportamento cortese in vigore nella corte ferrarese ai tempi della composizione dell’Orlando innamorato: in nome di questi valori, i due contendenti mettono a tacere, almeno per un certo tempo, le ragioni che li hanno spinti al combattimento.

Umanesimo cortese Nel dialogo emerge la distanza dell’Orlando boiardesco dalla tradizione e la sua nuova caratteristica di portavoce dell’Umanesimo cortese: al duro esercizio delle armi, esaltato come unica vera forma di educazione dal guerriero Agricane, Orlando qui contrappone la lezione della cultura che, a suo parere, pone gli individui su un piano più elevato; una visione che rispecchia gli ideali di civiltà della raffinata corte estense in contrapposizione alla più primitiva cavalleria feudale. Nell’ultima parte, però, la forza irrazionale dell’amore (provato da entrambi i protagonisti per Angelica) travolge i due cavalieri e li spinge a riprendere furiosamente il duello nel quale Agricane perderà la vita.

Francesco del Cossa, Un cavaliere (part.), Allegoria del mese di Marzo, Salone del ciclo dei mesi, 1470 (Palazzo Schifanoia, Ferrara).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Descrivi in una breve sintesi: a. i due protagonisti del dialogo e i valori che rappresentano; b. i valori e i comportamenti che accomunano l’infedele Agricane al paladino della fede Orlando; c. il contesto nel quale avviene il colloquio. COMPRENSIONE 2. A che cosa allude Agricane nell’ottava 45, quando giudica scortese discutere da una posizione di vantaggio? ANALISI 3. Il disaccordo tra i due sulla formazione del cavaliere è frutto di un diverso punto di vista o di differenti modelli culturali? Motiva la tua risposta. STILE 4. Lo stile del passo proposto è molto lontano dalla solennità epica della Chanson de Roland: con quale aggettivo si potrebbe definire? Rispondi e riporta qualche esempio che lo giustifichi.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

SCRITTURA 5. Nell’ottava 44, Orlando fa un elogio della cultura, che insieme al valore guerriero «adorna [l’uom]o come un prato un fiore»; gli si contrappone Agricane, celebratore solo della forza del corpo e della destrezza. Quella di Orlando è una bellissima difesa della cultura e del sapere, in quanto descrive studio e conoscenza come il necessario completamento dell’uomo, mezzi per imparare a pensare nel modo corretto. Si può ancora oggi affermare quanto sostenuto da Orlando in questo passo (max 20 righe)?

Dai cantari al poema cavalleresco 1 223


6 L’evoluzione del tema cavalleresco nel Cinquecento. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata

L’Orlando furioso Nel Cinquecento, sempre a Ferrara, Ludovico Ariosto (14741533) crea, con l’Orlando furioso, il capolavoro assoluto del genere e insieme il poema simbolo del Rinascimento. Egli prende le mosse dal punto in cui si era interrotto il poema di Boiardo e presenta il proprio lavoro come semplice continuazione di questo. L’autore trasforma ulteriormente, però, la secolare figura del paladino Orlando, facendolo impazzire per amore di Angelica (da qui il titolo). La materia cavalleresca è ormai per Ariosto solo una specie di copione narrativo che usa, con frequenti commenti e smorzature ironiche, per esprimere non più gli antichi valori e ideali cavallereschi, ma una visione laica e moderna della vita. Rispetto all’Orlando innamorato il Furioso evidenzia maggiori capacità registiche nel gestire la complessa materia narrativa e nell’utilizzare l’entrelacement e un uso straordinariamente duttile dell’ottava. Il suo straordinario successo eclissa la fortuna del poema di Boiardo, ancora permeato, sotto il profilo linguistico, di componenti “locali”, mentre la lingua usata nel poema ariostesco, nel passaggio dalla prima all’ultima edizione (1532) si “toscanizza” secondo le prescrizioni del Bembo, superando così i confini ristretti della corte ferrarese (➜ C5). La Gerusalemme liberata Negli ultimi decenni del Cinquecento, sempre a Ferrara, viene prodotto l’ultimo capolavoro del genere, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1544-1595), in un clima storico e culturale ormai diverso. Il dibattito teorico del tempo richiedeva un adeguamento del poema al modello dell’epica classica e d’altra parte lo spirito della Controriforma imponeva che la letteratura tornasse a proporre valori morali e religiosi. La Gerusalemme liberata risponde pienamente a questi bisogni con un poema epico che ha per sfondo la prima crociata e che riprende figure (come Rinaldo) e ingredienti (come la magia) del poema cavalleresco, ma finalizzandoli alla dimostrazione esemplare di Un episodio della Gerusaleme liberata, Olindo e Sofronia al rogo, in un affresco tematiche morali (➜ C10). di Friedrich Overbeck, 1818-20 (Casino di villa Massimo, Roma).

Fissare i concetti Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Che cosa sono i cantari e quali sono le loro caratteristiche? Come si chiamano gli autori dei cantari e quali particolarità presentano? Quali sono le differenze tra i poemi cavallereschi del Quattrocento e i cantari? Perché Pulci e Boiardo sono considerati due modelli antitetici? Quale lingua caratterizza il Morgante? Quali novità introduce Boiardo con l’Orlando innamorato? Come si trasforma il poema cavalleresco nel Cinquecento?

224 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


Quattrocento e Cinquecento Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato

Sintesi con audiolettura

1 Dai cantari al poema cavalleresco

Un genere destinato al successo Nel Quattrocento, con l’affermarsi della società cortigiana, le storie degli antichi cavalieri sono molto apprezzate dal raffinato pubblico della corte (in particolare quella di Ferrara) che in esse si identifica e si rispecchia. Non è quindi casuale l’emergere in primo piano, in questo periodo, di un genere, il poema cavalleresco, che, nel successivo corso del Cinquecento, diventerà una delle espressioni distintive della letteratura italiana. I temi e le leggende, i personaggi e le immagini costitutivi del tessuto narrativo del poema cavalleresco provengono, già da epoca tardomedievale, dalla letteratura epico-cavalleresca francese. Verso la fine del Duecento fiorisce in Italia la cosiddetta letteratura franco-veneta, rielaborazione della tradizione cavalleresca francese in lingua d’oil (Entrata in Spagna). Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento si diffondono i romanzi in prosa: i più noti sono la Storia di Merlino, il Tristano Riccardiano e La Tavola Rotonda. I cantari Importanti per la diffusione a livello popolare (ma non solo) del repertorio cavalleresco sono i cantari, componimenti in ottave (il metro poi consueto nella poesia cavalleresca) composti e recitati da autori poco colti (i canterini) nelle piazze e caratterizzati da scarsa qualità artistica e da espedienti volti a catturare l’attenzione di un pubblico variabile ed eterogeneo (l’organizzazione in cicli narrativi, recitati a puntate in giornate successive). I poemi cavallereschi Gli autori dei poemi cavallereschi si ispirano ai cantari: ne utilizzano l’ottava e traggono molti spunti tematici e narrativi. Ma vi si differenziano anche in modo decisivo: essi sono colti e si rivolgono al pubblico raffinato delle corti, il quale può apprezzare i riferimenti alla tradizione letteraria nei loro lavori, che sono scritti e più curati dal punto di vista metrico e formale, con canti più lunghi e che non sempre trattano un

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

225


argomento completo. I due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento sono il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo: uno derivazione “giocosa” dai cantari, l’altro “seria”, essi rappresentano i prodotti assai differenti di due ambienti e personalità molto diversi. Il Morgante A Firenze, a opera di Luigi Pulci (1432-1484) è prodotta una sorta di parodia del poema cavalleresco: è il Morgante, sempre in ottave, caratterizzato dal rovesciamento “carnevalesco” degli ideali cavallereschi e della tipologia dell’eroe epico. L’obiettivo è quello di divertire la corte medicea (presso cui Pulci si era trovato a operare), in questo caso attraverso avventure iperboliche e grottesche: soprattutto quelle dei due personaggi di Morgante e Margutte, un gigante e un mezzo-gigante; avventure che ebbero anche una diffusione autonoma rispetto al resto del poema. Componente fondamentale del grottesco universo poetico di Pulci è il linguaggio, in cui l’autore mostra grande virtuosismo nell’associare lingue diverse e termini popolari, sempre con un gusto marcato per l’iperespressività. L’Orlando innamorato A Ferrara, alla corte degli Estensi, grazie a Matteo Maria Boiardo (1441-1494), umanista e poeta lirico (è autore della raccolta poetica Amorum libri) nasce il poema cavalleresco. Si tratta di un genere di grande fortuna nel tempo, che attinge dai cantari sia i materiali narrativi sia alcuni espedienti tecnici, come l’entrelacement, ma che è caratterizzato da un’elevata qualità letteraria e utilizza la materia cavalleresca per il divertimento di un pubblico competente e raffinato. Boiardo incentra il suo Orlando innamorato, che rimase interrotto, sulla forza invincibile dell’amore, tema tipico della tradizione bretone. L’amore (per Angelica, personaggio ideato dall’autore) colpisce anche Orlando (da qui il titolo), eroe “carolingio”, che lo scrittore reinterpreta alla luce dei valori umanistici e cortesi. D’altra parte quest’ultimo sente ancora il fascino degli antichi valori feudali, che però ripropone in un nuovo contesto. La trama del poema è intricata, con molti episodi secondari, ma Boiardo riesce nel complesso a reggerne le fila. La lingua dell’Orlando innamorato ha come fase il ferrarese colto.

226 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato


Il tema cavalleresco nel Cinquecento: Ariosto e Tasso A Ferrara, nel Cinquecento, Ludovico Ariosto scrive l’Orlando furioso, il capolavoro del genere e poema simbolo del Rinascimento. Egli presenta il proprio lavoro come continuazione del lavoro del Boiardo: in realtà trasforma ulteriormente la figura di Orlando, gestisce meglio la complessità della struttura e della materia, usa l’ottava in maniera più duttile e si serve del tema cavalleresco come copione per esprimere non gli ideali di quel mondo, ma una visione laica della vita. Negli ultimi decenni del secolo, nella stessa città ma in un ambiente culturale molto cambiato, Torquato Tasso crea la Gerusalemme liberata, ultima grande opera del genere. Il poema riprende gli stilemi dell’epica classica e propone, sullo sfondo della prima crociata e secondo lo spirito della Controriforma, valori morali e religiosi.

Zona Competenze Competenza 1. Dividetevi in gruppo e, dopo aver scelto lo strumento di presentazione, realizzate un digitale lavoro che mostri la nascita e l’evoluzione del poema cavalleresco. Esposizione orale

2. Ciascuno di voi dovrà preparare un orale di max 5 minuti dove illustrerete i due poemi di Pulci e Boiardo con riferimento ai testi letti.

Sintesi Quattrocento e Cinquecento

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Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO

5 Ludovico Ariosto

LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Ariosto L’opera che maggiormente ci restituisce la fisionomia dell’uomo Ariosto, la sua equilibrata visione del mondo e della condizione umana, sono certamente le Satire (1517-1525). Perciò, per fare una prima presentazione del grande scrittore, abbiamo scelto qualche terzina dalla terza Satira (vv. 244-264), in cui il poeta delinea il proprio ideale di vita: accettare saggiamente quanto la vita offre, non nutrire ambizioni smodate, essere (e non solo sembrare) un uomo da ben, “per bene”. [...] se l’uomo è sì ricco che sta ad agio 245 di quel che la natura contentarse dovria, se fren pone al desir malvagio; che non digiuni quando vorria trarse l’ingorda fame, et abbia fuoco e tetto se dal freddo o dal sol vuol ripararse; 250 né gli convenga andare a piè, se astretto è di mutar paese; et abbia in casa chi la mensa apparecchi e acconci il letto, che mi può dare o mezza o tutta rasa la testa più di questo? Ci è misura 255 di quanto puon capir tutte le vasa. Convenevole è ancor che s’abbia cura de l’onor suo; ma tal che non divenga ambizïone e passi ogni misura. Il vero onore è ch’uom da ben te tenga 260 ciascuno, e che tu sia; che, non essendo, forza è che la bugia tosto si spenga. Che cavelliero o conte o reverendo il populo te chiami, io non te onoro, se meglio in te che ’l titol non comprendo. [...] se l’uomo è così ricco da trovare il benessere in ciò di cui la condizione naturale dovrebbe accontentarsi, se frena il desiderio perverso (di avere di più); se è abbastanza ricco da non essere costretto a digiunare quando vorrebbe saziarsi, e abbia il focolare e un tetto se vuole ripararsi dal freddo o dal sole; e non debba andare a piedi, se è obbligato a cambiare paese; abbia in casa chi apparecchi la tavola o prepari il letto, che cosa mi può dare di più aver la testa in parte rasata (come il papa) o del tutto (come il sultano)? C’è un limite di capienza per ogni recipiente (cioè, ogni uomo ha limitate capacità di provare piaceri). Inoltre è giusto che si abbia cura del proprio onore; ma in modo tale che non diventi ambizione smisurata. Il vero onore è che ognuno ti consideri una persona per bene, e che tu lo sia realmente; perché, se non lo sei, la menzogna per forza in fretta si spegne. Che il popolo ti chiami cavaliere, conte o reverendo, io non ti onoro se non percepisco in te qualcosa di più che il titolo.

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Ludovico Ariosto appartiene senza alcun dubbio al canone dei grandi classici italiani ed europei grazie all’Orlando furioso, che rilancia con straordinario successo la fortunata tradizione del poema cavalleresco. Ariosto vive e opera alla corte estense di Ferrara, della quale è un funzionario: nelle sue Satire testimonia la difficoltà di conciliare le incombenze legate alla condizione di cortigiano con l’identità di umanista. La fama di Ariosto è affidata all’Orlando furioso, poema in ottave che ha il suo fulcro nella follia di Orlando, da cui deriva il titolo. La straordinaria novità dell’opera sta nell’aver utilizzato il codice dell’epica cavalleresca per esprimere una moderna, disincantata interpretazione della realtà e dei comportamenti umani. Nel variegato universo narrativo dell’Orlando furioso, in cui convergono tutti i temi dell’umana esperienza, si esprimono i parametri conoscitivi ed estetici della cultura rinascimentale: la sua pienezza ma, al contempo, i sintomi della sua crisi.

1 ritratto d’autore 2 Le opere 3 L’Orlando furioso 229 229


1 VIDEOLEZIONE

Ritratto d’autore 1 Una vita nella corte Ludovico Ariosto ferrarese La vita di Ludovico Ariosto, conformemente a un ideale esistenziale ed etico ispirato all’equilibrio e alla saggezza, è una vita “normale”, priva di eventi eclatanti, per nulla avventurosa e tormentata, che può deludere chi ancora pensa allo scrittore secondo il modello romantico del “genio” irregolare, in preda a drammi ideologici e spirituali. È una vita inserita pienamente nel contesto della corte, nel ruolo, quasi obbligato a quei tempi, di cortigiano, in particolare al servizio degli Estensi. L’intera esistenza di Ariosto si muove nell’atmosfera di Ferrara, città nella quale si forma, vive, scrive, e dalla quale si allontanava malvolentieri. Ferrara è il contesto naturale della produzione poetica dell’Ariosto e al di fuori di essa non si potrebbe adeguatamente comprendere né la sua fisionomia di uomo e di letterato né la sua opera. I primi anni e la formazione Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia l’8 settembre 1474, primo di dieci figli. Il padre Nicolò, ferrarese, era capitano della cittadella per conto di Ercole I d’Este. Nel 1484 la famiglia si trasferisce a Ferrara, destinata a diventare la dimora stabile e amata di Ludovico, che in essa compie i suoi primi studi. Per volontà paterna intraprende gli studi giuridici, ma senza nessun entusiasmo, anzi considerando questi anni come perduti, in quanto sottratti ai prediletti studi delle humanae litterae; «Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie, / non che con sproni, a volger testi e chiose, / e me occupò cinque anni in queste ciancie. / Ma poi che vide poco fruttuose / l’opere e il tempo in van gittarsi, dopo / molto contrasto in libertà mi pose»: così l’Ariosto nella Satira VI (vv. 157-162).

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1492

Muore Lorenzo il Magnifico. 1492

Cristoforo Colombo approda per la prima volta in America.

1474

Nasce l’8 settembre a Reggio Emilia, primo di dieci figli, dal conte Nicolò, funzionario della corte estense, e da Daria Malaguzzi.

1494

1503-1512

Carlo VIII giunge in Italia.

1494-1500

Dopo cinque anni di studi giuridici, inizia a dedicarsi agli studi letterari e a comporre poesie (Rime e Carmina).

1511

Pontificato di Giulio II.

1500

Muore il padre ed è costretto a cercare una sistemazione per poter provvedere ai fratelli.

230 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

1503

Entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este e prende gli ordini minori.

Erasmo da Rotterdam compone l’Elogio della follia.

1508

Compone La Cassaria, il primo esempio di commedia classicista rinascimentale. 1503-1516

Compie varie missioni delicate per gli Estensi, in particolare a Roma dove si reca varie volte.

1513-1521

Pontificato di Leone X (Giovanni de’ Medici).


Sguardo sulla storia Ferrara al tempo di Ariosto Gli Estensi avevano la loro corte nel castello medievale di Ferrara, sorto nel 1385 come strumento di controllo politico e militare. Ercole I d’Este, che per primo decise di stabilirsi nel castello, vi apportò delle modifiche per adattarlo alla vita di corte. La tradizione del mecenatismo estense, iniziata da Lionello, fu proseguita da Borso (che per primo ottenne il titolo di duca), da Ercole I e da Alfonso I, con i quali Ferrara divenne uno dei principali centri di irradiazione della cultura rinascimentale. Ferrara era allora una città di notevolissima importanza nello scenario del rinascimento padano. Governata dagli Estensi, che già ne erano stati nel medioevo i signori feudali, poté godere di una continuità politica che ne favorì lo sviluppo. Gli Estensi erano antichi feudatari, uomini d’armi, come testimonia la loro stessa dimora, rimasta sostanzialmente un castello medievale munito di difese e cinto da un fossato, in pieno centro cittadino. Anche l’aspetto d’insieme della città, fino agli ultimi decenni del Quattrocento, era ancora quello di un borgo medievale; ma Ercole I (1471-1505) impresse alla città un nuovo volto, attraverso un ambizioso progetto urbanistico, noto come “addizione erculea”, con l’obiettivo di rendere l’immagine della città rispondente allo splendore della corte estense e allo spirito rinascimentale: al vecchio nucleo cittadino, con le antiche vie medievali strette e chiuse da portici, viene aggiunta un’ampia zona residenziale, con vie larghe e diritte secondo la concezione rinascimentale dello spazio, su cui si affacciano eleganti dimore signorili. La cultura ferrarese è contraddistinta in particolare dall’amore per la letteratura cavalleresca. La biblioteca Estense, dove studiano Boiardo, Bembo e il giovane Ariosto, è ricchissima di testi francesi, e persino i nomi propri che si tramandano nella famiglia estense derivano spesso dalle leggende cavalleresche. Ma già nel corso del Quattrocento la cultura

ferrarese si mostra anche aperta agli scambi culturali, soprattutto con le università di Bologna e Padova. In ambito filosofico si diffonde soprattutto il neoaristotelismo (per influsso di Pomponazzi, maestro all’università di Padova), il cui richiamo al realismo e naturalismo sarà particolarmente recepito a Ferrara, ma non mancano influssi neoplatonici e l’interesse per l’astrologia, testimoniati dal celebre affresco dei mesi e dei segni zodiacali di palazzo Schifanoia. Un ruolo fondamentale nella diffusione dello spirito e dell’ottica culturale umanistica venne dalla presenza alla corte estense di Guarino Veronese, che divenne precettore del giovane duca Lionello d’Este (1407-1450) e a Ferrara esercitò il suo magistero pedagogico, volto a potenziare le qualità umane secondo l’insegnamento dei classici (➜ C1). Lionello chiama a corte grandi artisti contemporanei come Pisanello, Piero della Francesca, il giovane Mantegna e arricchisce la biblioteca di corte con testi classici.

1525

Pietro Bembo pubblica le Prose della volgar lingua. 1517

Martin Lutero affigge le 95 tesi. 1527

Sacco di Roma.

1516

Esce la prima edizione dell’Orlando furioso. Ne seguiranno altre due: nel 1521 e nel 1532.

1518 1517

Abbandona il servizio del cardinale Ippolito. Inizia la stesura delle sette Satire, che concluderà nel 1525.

Viene assunto al servizio del duca Alfonso d’Este, che lo impegna in varie mansioni.

1522-1525

Si trasferisce a Castelnuovo in Garfagnana, dove rimarrà circa tre anni come governatore della regione per conto degli Estensi.

1525

Torna a Ferrara dove vive gli ultimi anni in serenità, lavorando alla terza edizione dell’Orlando furioso (1532).

1533

Muore il 6 luglio nella sua casa di Ferrara.

Ritratto d’autore 1 231


Della frequentazione assidua dei classici sono frutto i primi componimenti poetici, in lingua latina (Carmina). Nel frattempo, Ariosto frequenta gli ambienti letterari e artistici della corte estense, particolarmente vivace e brillante in quegli anni per la presenza di personaggi illustri, tra cui anche Pietro Bembo, che vi soggiornò tra il 1497 e il 1499.

online

Gallery Ferrara e gli Estensi

Lessico otium Gli studi in ambito letterario e/o l’attività svolta in questo campo; ma già in epoca romana il termine indicava più generalmente anche il tempo, libero da impegni politici o lavorativi, ad essi dedicato.

Le responsabilità familiari e il ruolo di funzionario di corte Nel 1500 la morte del padre interrompe bruscamente una vita piacevole e dedita agli amati studi; le responsabilità del mantenimento della numerosa famiglia ricade su Ludovico, né egli vi si sottrae. Quella di funzionario di corte diventa allora la sua stabile professione, costringendolo ad abbandonare la quieta vita di studi, condotta fino a quel momento (con suo grande rammarico non potrà imparare il greco). Nel 1503 prende gli ordini minori, una strada pressoché obbligata per poter godere di una rendita: entrando nel numero dei chierici (che erano numerosissimi anche alla corte estense) era possibile infatti ottenere dalla Curia romana i benefici riservati al clero. Nello stesso anno Ariosto entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca di Ferrara, Alfonso I. La qualifica di Ludovico è quella di familiaris continuus commensalis (Zanette): il che significava far parte ufficialmente dei numerosi gentiluomini di corte, con in più lo speciale diritto, certo invidiato da molti, di pranzare quotidianamente con il potente signore. Il familiare non ricopriva un incarico particolare, ma veniva impiegato molto spesso in ambascerie, contatti con altri potentati e negoziazioni varie. Il complesso rapporto con la corte Da Ludovico, Ippolito pretendeva continui e improvvisi viaggi, che venivano subìti senza entusiasmo, anche se poi le missioni affidategli (soprattutto a Mantova, Bologna, Firenze) erano affrontate con scrupoloso zelo. Inizia qui quel rapporto con la corte che anche in seguito sarà caratterizzato dalla accettazione dei compiti assegnati, ma anche da una intima insofferenza nei confronti delle pretese del cardinale, poco propenso ad apprezzare l’attività poetica di Ludovico e a concedere al poeta l’otium umanistico che tanto desiderava: «dal giogo / del Cardinale d’Este oppresso fui; / che […] non mi lasciò fermar molto in un luogo, / e di poeta cavallar mi feo» (Sat. VI, vv. 233 e seguenti). Ariosto esprime in particolare nelle Satire il suo disagio personale e la sua critica all’ambiente umano della corte, differenziandosi così dalla tendenza a idealizzarne personaggi e comportamenti (come nel caso di Castiglione). Le difficili missioni a Roma Tra i viaggi diplomatici affrontati da Ludovico spiccano per difficoltà e disavventure quelli a Roma tra il 1509 e il 1510 presso il papa Giulio II, i cui rapporti con la corte estense erano in quel periodo molto difficili. Nel 1513, morto Giulio II e divenuto papa Giovanni de’ Medici col nome di Leone X, fu di nuovo a Roma al seguito di Alfonso e Ippolito, che vi A Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, è attribuito il soffitto della sala del Tesoro di palazzo Costabili di Ferrara. L’affresco (1503-1506, part.) raffigura una scena di vita rinascimentale animata da musici e putti, affacciati a una balaustra.

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si recavano per rendere omaggio al nuovo pontefice. Ariosto probabilmente sperava in qualche beneficio da Leone X, interessato alle arti e già conosciuto dal poeta a Firenze, ma queste speranze andarono deluse, come lo stesso autore racconta vivacemente in una lettera e in alcuni versi della Satira III. Ariosto lascia il cardinale Ippolito Nel 1517 Ariosto interrompe il suo rapporto con il cardinale Ippolito, rifiutandosi di seguirlo ad Agria (l’attuale Budapest), dove questi aveva ottenuto una sede vescovile (➜ T2 ). La scelta dovette certo costargli molto, ma seguire Ippolito avrebbe significato allontanarsi da Ferrara, dalla donna amata, Alessandra Benucci, conosciuta nel 1513 e poi amata per tutta la vita, dai familiari e affrontare un mondo diverso e lontano, un’avventura che la sua indole meditativa e tranquilla non poteva accettare. «Più tosto che arricchir voglio quiete», dice il poeta nella Satira I, ispirata appunto alla difficile decisione. Intanto, nel 1516 aveva pubblicato la prima edizione dell’Orlando furioso. Al servizio del duca Alfonso: l’esperienza di governatore in Garfagnana Tra il 1517 e il 1522 rimane alle dipendenze di Alfonso d’Este, fratello del cardinal Ippolito, dividendo il suo tempo tra gli impegni di funzionario di corte e la composizione delle sue opere: lavora infatti alle Satire e al Furioso, di cui nel 1521 esce la seconda edizione. Nel 1522 viene nominato da Alfonso governatore della Garfagnana. Ariosto accetta l’incarico per necessità e senso di responsabilità e riesce a raggiungere apprezzabili risultati nonostante le oggettive difficoltà di amministrare e regolare un territorio “difficile”, ribelle all’autorità degli Estensi e in cui era diffuso il brigantaggio. Sul periodo garfagnino ci informano le moltissime lettere scritte da Ariosto durante quegli anni (ben 156) che offrono il ritratto di un uomo tutt’altro che sognatore, pigro e inetto, come in passato è stato talvolta visto, ma al contrario pragmatico ed efficiente nell’esercitare un ruolo assai impegnativo. Certo, non si può dire che Alfonso sostenesse né finanziariamente né in alcun altro modo l’azione politica di Ludovico, che gli chiede più volte di revocare l’incarico (➜ T1 ). Il ritorno a Ferrara e gli ultimi anni Nel 1525 avvenne il sospirato rientro nell’amata città, dove continuò a esercitare incarichi amministrativi e fu anche nominato sovrintendente agli spettacoli di corte, il che lo indusse a rielaborare le commedie scritte ormai parecchi anni prima e a realizzarne una nuova. Nel contempo continuava a lavorare intensamente al proprio poema (stava mettendo mano alla terza redazione dell’opera). Intanto aveva acquistato una casa in contrada Mirasole. In questa dimora a lui cara trascorse anni felici, resi sereni dall’amore di Alessandra, che sposa segretamente nel 1528, e dall’affetto del figlio Virginio, avuto da una precedente relazione. Furono anche anni di intenso lavoro, ma finalmente libero e “suo”: si trattava della revisione stilistica, linguistica e strutturale del Furioso, che lo impegnò quasi fino al termine della sua vita. Nel 1532 esce, accresciuto in 46 canti, l’ultima edizione del poema, destinato a straordinaria diffusione e fortuna ben oltre i confini di Ferrara. Un anno dopo, a quasi sessant’anni, il 6 luglio 1533, Ludovico Ariosto muore nella sua casa di Ferrara. La notizia della scomparsa si diffuse solo dopo le esequie, forse per una estrema volontà del poeta di difendere la sua identità privata, a cui sempre aveva Il cardinale Ippolito d’Este in un ritratto tenuto maggiormente che a quella di uomo pubblico. di Bartolomeo Veneto (1470-1531). Ritratto d’autore 1 233


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Le opere 1 Lo sperimentalismo dei generi Una produzione eclettica Uno dei maggiori interpreti di Ariosto, il critico Lanfranco Caretti, ha osservato che quella dell’Ariosto «è una carriera con un solo libro al centro (il Furioso)». Effettivamente all’Orlando furioso Ariosto dedica l’intera sua esistenza; ma il poema non costituisce l’unica sua opera importante e non è isolato dalla restante produzione. Ariosto si rivolge infatti a una pluralità di generi letterari, a cui corrispondono diverse modalità di approccio al reale da parte dello scrittore: dalle Rime, che costituiscono il suo apprendistato poetico, alle Commedie – la prima delle quali, la Cassaria, inaugura nel 1508 il rinnovato teatro italiano – all’epistolario e alle Satire, in cui esprime una vena polemica. Le opere minori di Ariosto non vanno lette esclusivamente come un banco di prova e di sperimentazione per il poema: al contrario, esse possiedono una loro autonoma dignità e compiutezza, per cui costituiscono, nell’insieme del corpus delle composizioni ariostesche, un polo dialettico con l’armonia perfetta del Furioso. Leggendo le Satire e le Commedie si comprende, infatti, che il poeta dei mondi fantastici, delle avventure sul cavallo alato, della magia e della bellezza, il creatore del romanzesco mondo dei paladini e delle dame, delle armi e degli amori, non ignora affatto la dura realtà del quotidiano, ma anzi entra in rapporto con essa.

Anselm Feuerbach, Il giardino di Ariosto, 1862 (Monaco, Galleria Schack). Il poeta (quarto da destra), sul cui capo vi è una corona di alloro, passeggia con un libro aperto in mano e probabilmente declama i suoi versi. Al suo fianco vi sono due donne, una delle quali poggia un braccio e la testa sulla sua spalla, e forse rappresenta Alessandra Benucci Strozzi, amata dal poeta.

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2 Le Rime La centralità del tema amoroso Oltre a una cospicua produzione di liriche latine, come era usuale per ogni cultore di studi umanistici, l’Ariosto nei primi anni del secolo inizia la composizione di rime in volgare che, dopo il 1513, in massima parte sono ispirate dalla donna amata, Alessandra Benucci: Alessandra viene cantata con toni di ammirazione contemplativa nella fase dell’innamoramento, poi con un’aperta sensualità, secondo la libera visione dell’amore propria del Rinascimento a cui anche nell’Orlando furioso l’autore mostra di aderire. Le Rime presentano una varietà metrica che ben testimonia lo sperimentalismo letterario del poeta: si tratta di 87 componimenti, di cui la maggior parte è costituita da sonetti e madrigali, tipici della poesia amorosa e galante dell’ambiente di corte. Non mancano, tuttavia, canzoni ed egloghe, e sono presenti anche numerosi capitoli in terza rima di argomento più realistico. I modelli Il punto di riferimento fondamentale per chi scrive rime d’amore nel primo Cinquecento non può che essere Petrarca, la cui supremazia nel genere lirico era stata consacrata dal Bembo; tuttavia nelle liriche ariostesche si scorge una pluralità di modelli: dalla lirica del Boiardo, con la sua gioia di vivere e di amare e il suo gusto per la rappresentazione della natura, al recupero di alcuni topoi stilnovistici, peraltro mai scomparsi dalla nostra lirica (l’apparizione della donna, il sospiro, l’amore non ricambiato e simili); a essi si aggiungono gli influssi dei poeti d’amore della letteratura latina, come Catullo, Properzio, Orazio, soprattutto per quanto riguarda la scoperta presenza della nota di sensualità che caratterizza parte delle rime dell’Ariosto.

3 Ariosto commediografo

PER APPROFONDIRE

La riscoperta del genere della commedia classica per l’intrattenimento della corte Sulla scia della ripresa umanistico-rinascimentale dei modelli classici, negli ambienti di corte nasce un teatro “laico” (ossia non legato ai temi religiosi delle sacre rappresentazioni medievali) che in un primo periodo consiste semplicemente nella rappresentazione delle commedie latine di Plauto e Terenzio (presto tradotte in volgare). Ma un ulteriore passaggio (la creazione, cioè, di nuove commedie) era espressamente stimolato dalle corti (quella estense, come quelle di Mantova, di Urbino, Milano e altre ancora), interessate a favorire lo sviluppo di una qualificata letteratura da intrattenimento che creasse consenso intorno alle signorie.

Ariosto pensava a un “canzoniere”? Sappiamo che, nella tipologia delle forme letterarie poetiche, con “canzoniere” si intende un insieme di componimenti lirici strutturati secondo un disegno compositivo organico, pensato per lo più a posteriori dal poeta. Il massimo esempio era quello del Petrarca, punto di riferimento di tutti i lirici del Cinquecento. L’Ariosto invece non si era preoccupato di organizzare in qualche modo le sue liriche (che peraltro furono edite postume).

Tuttavia alcuni studi filologici hanno rintracciato la presenza di un progetto organico con evidenti connessioni intertestuali tra 48 rime ariostesche. Questa nuova prospettiva critica (dovuta a Cesare Bozzetti) autorizza a ipotizzare un possibile vero e proprio canzoniere, che il poeta non ebbe forse il tempo di realizzare.

Le opere 2 235


Anche Ariosto, dopo aver tradotto per la corte ferrarese molte commedie plautine e terenziane (traduzioni andate perdute), decise di scrivere in prima persona commedie in volgare, fondate sempre su modelli latini, ma con rilevanti elementi di novità, rispondendo così a una vera e propria “richiesta di mercato”: dopo l’interruzione degli spettacoli di corte dovuta alla discesa di Carlo VIII in Italia e al minaccioso clima politico che ne conseguì, gli splendori della vita di corte ripresero con maggior vigore. Con la Cassaria, rappresentata con grande successo nel palazzo ducale di Ferrara in occasione del Carnevale del 1508, nasce in Italia il teatro laico in lingua volgare, d’ispirazione classicheggiante. «Nova commedia v’appresento»: la creazione di un genere e di un modello La trama della Cassaria (la “commedia della cassa”), così come quella della commedia scritta e rappresentata l’anno successivo, I Suppositi (cioè “gli scambiati”), deriva da modelli latini ed è strutturata sulle situazioni tipiche della commedia classica (scambi di persona, equivoci, amori contrastati, eterno conflitto tra giovani e vecchi, e così via). Quanto all’ambientazione, I Suppositi introduce una significativa innovazione: la vicenda si svolge proprio a Ferrara. In questo modo Ariosto «fissa quel legame tra scena, corte e città, che avrà un peso fondamentale per tutta la nuova commedia volgare» (Ferroni). Le prime commedie ariostesche sono scritte in prosa, con un distacco evidente dal modello latino, che si avvaleva invece dei versi: una scelta probabilmente dovuta all’intenzione dell’autore di modernizzare il genere della commedia classica e di renderlo più accessibile. Il prologo della Cassaria è invece in terzine, primo esperimento di linguaggio teatrale in versi: «Nova commedia v’appresento piena / di varii giochi che né mai latine / né greche lingue recitarno in scena». Con questa dichiarazione l’autore si mostra pienamente consapevole della novità della propria impresa, che si manifesta anche nell’invenzione linguistica, con la creazione di un linguaggio ricco di popolarismi e di latinismi del registro basso, che rappresenta il primo tentativo di un linguaggio comico teatrale italiano. Dalla prosa ai versi: la nuova forma della commedia Dopo una lunga interruzione, dovuta alle guerre presenti sul territorio, ai gravosi impegni di funzionario degli Estensi e soprattutto all’imponente fatica della prima stesura del Furioso (completata nel 1516), Ariosto riprende a dedicarsi al teatro, con un’importante novità, ossia la scelta, prima esclusa, del verso. Lo scrittore sente il verso come più congeniale al genere della commedia (derivato comunque dal modello latino) e più adeguato a un’esigenza di “letterarietà”: nell’ottica ariostesca la commedia nuova deve realizzare un giusto equilibrio tra le richieste estetiche di un pubblico elevato, come era quello della corte, e le ragioni della comicità. La scelta metrica cade sull’endecasillabo sdrucciolo sciolto, il cui ritmo, da un lato, può richiamare quello del senario giambico della tradizione latina e dall’altro si adatta meglio all’andamento dialogato, rimanendo oltretutto meno lontano di altri versi più lirici dalla conversazione prosastica. In versi egli scrive dunque due nuove commedie, Il Negromante e La Lena, rispettivamente nel 1520 e nel 1528, oltre a I studenti, rimasta però incompiuta. A partire dal 1528, nel periodo in cui si infittisce la sua attività di “regista” teatrale per l’ambiente cortigiano estense, riscrive in versi anche le due prime commedie composte in prosa.

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Le novità tematiche del Negromante e della Lena Nel Negromante entra in scena un personaggio nuovo rispetto alle fonti latine: si tratta della figura di un falso mago imbroglione, Mastro Iachelino, un personaggio in cui si può forse vedere un’allusione, ironica e addirittura parodica, alle credenze e alle pratiche magiche, assai diffuse nella cultura contemporanea all’Ariosto e nello stesso ambiente ferrarese. Quanto poi alla protagonista dell’ultima commedia, La Lena, è una ruffiana di mezza età, le cui tresche sono tollerate per interesse economico dal marito Pacifico. Lena è un personaggio legato alle implacabili leggi della sopravvivenza, in un mondo e in un ambiente sociale basso e legato agli istinti. Per danaro ha cominciato la sua carriera e per danaro la continua, in un contesto di amori più o meno clandestini, litigi, ricatti, inganni. È evidente che personaggi di questo tipo, pur riprendendo suggestioni dalle commedie classiche, si riallacciano alla realtà contemporanea, mettendone in luce gli aspetti negativi; è significativo a questo proposito anche l’ambiente in cui le vicende si svolgono: non più in luoghi lontani o in città della Grecia, ma in Italia (Il Negromante a Cremona e La Lena a Ferrara). L’“altra” Ferrara nelle vicende del basso mondo della Lena Opportunamente, il critico Guido Davico Bonino fa rilevare che agli spettatori della corte estense, alle dame raffinate, agli aristocratici intellettuali, agli uomini di potere, Ariosto presenta, con La Lena, l’“altra” Ferrara, ben diversa da quella della corte e dei palazzi. Il pubblico colto e raffinato è posto davanti a una realtà diversa dalla nobile facciata del potere estense, quasi a un mondo parallelo, che però molti cavalieri e nobili dovevano conoscere piuttosto bene: è la Ferrara dei sobborghi popolani, dei bordelli malfamati, nei quali la legge dominante è quella della sopraffazione e della frode, in nome del denaro.

4 L’epistolario Un corpus di lettere antiletterario L’epistolario di Ariosto è stato a lungo trascurato dalla critica proprio per la sua “prosaicità”: non ha infatti alcuna pretesa letteraria e rifiuta gli espedienti stilistici che potrebbero nobilitare quanto viene scritto. Le varie lettere (in tutto 216) non sono organizzate all’interno di una raccolta, né sono rielaborate con finalità artistiche o autocelebrative (come l’Epistolario di Petrarca), e neppure assumono la forma della lettera-saggio diffusa negli ambienti umanistici, ma hanno esclusivamente obiettivi di comunicazione diretta e pratica. Da qui anche l’uso dominante del volgare anziché del latino. Le lettere ariostesche hanno carattere sia ufficiale sia privato e costituiscono un documento prezioso per conoscere l’ambiente in cui visse Ludovico, la sua vita privata e, soprattutto, quella pubblica, così come la sua personalità. Riguardano la seconda parte della sua vita (dal 1509 alla morte), a parte due soli esempi precedenti a questa data. Particolarmente interessanti sono le lettere che documentano l’elaborazione e la storia editoriale del Furioso, la cura attenta del poeta nel seguirne la pubblicazione, nel tentativo di arginare con ogni mezzo la circolazione di copiepirata non autorizzate. In questo ambito Ariosto si rivela sagace amministratore della propria opera. Molto numerose nel corpus delle lettere sono le testimonianze della carriera pubblica di Ariosto come funzionario della corte estense. La sezione più ampia dell’epistolario è costituita dalle più di 150 lettere (dalla 30 alla 186) relative al commissariato Le opere 2 237


in Garfagnana, in cui sono documentate la coscienza e la rettitudine con cui Ariosto assolve il compito, lottando strenuamente contro i banditi che infestano la zona, ma anche la frustrazione per i pochi mezzi a disposizione e il sostanziale disinteresse del duca Alfonso per le sorti della regione. Le lettere dalla Garfagnana, considerate nel loro complesso, confutano da sole l’immagine vulgata di un Ariosto sognatore e passivo, rivelandone le doti di energico e intraprendente amministratore. Come si è detto, e come risulterà evidente da vari testi (➜ T1 ), Ariosto mostra disinteresse per un’eccessiva ricercatezza levigata della sua prosa: una caratteristica che lo distingue, nell’uso epistolare, dai molti letterati italiani, grandi e minori.

Ludovico Ariosto

T1

Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore Lettera 139 (1-2; 11)

L. Ariosto, Satire, Erbolato, Lettere, a c. di C. Segre, G. Ronchi e A. Stella, Mondadori, Milano 1984

Il passo che segue riporta l’inizio e la conclusione di una delle lettere inviate dall’Ariosto ad Alfonso d’Este durante il proprio governatorato in Garfagnana.

Se vostra extia non mi aiuta a difendere l’honor de l’officio1, io per me2 non ho la forza di farlo; ché se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra extia li absolva3, o determini in modo che mostri di dar più lor ragion che a me, essa4 viene a dar aiuto a deprimere l’authorità del magistro5. Serìa meglio che, s’io non ci sono idoneo6, a mandare uno che fosse più al proposito7, che guastando tuttavia quello che bene o male io faccia si attenuasse la maestà del commissariato8 [...]. Ma dove importa tanto smaccamento de l’honor mio9, io vo’ gridare e farne instantia, e pregare e suplicare10 vostra extia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna.

1 Se vostra… de l’officio: Se Vostra Ec-

6 SErìa... sono idoneo: Sarebbe meglio,

cellenza non contribuisce a difender la rispettabilità dell’incarico. 2 per me: da solo, per conto mio. 3 absolva: scagiona, giustifica. 4 essa: si riferisce a vostra excellentia. 5 viene... magistro: contribuisce a indebolire l’autorità del magistrato.

che se io non sono adatto al compito. 7 al proposito: competente. 8 che... commissariato: (piuttosto) che, a furia di mandare a monte i provvedimenti che bene o male io prendo, si incrini (si attenuasse) l’autorità della carica. 9 dove importa… de l’honor mio: quando

(ciò) comporta un tale smacco per il mio onore. 10 vo’... suplicare: voglio gridare e farne richiesta, e pregare e supplicare.

Analisi del testo Per onorare la funzione… Ariosto è esasperato per le circostanze difficili in cui è costretto a operare e chiede di essere al più presto sostituito e poter, così, rientrare a Ferrara. La lettera rivela aspetti significativi della personalità del poeta, qui nelle vesti di solerte funzionario: a spingerlo alla richiesta non è un interesse personale, non è la nostalgia per la vita tranquilla di Ferrara, ma il senso dell’onore e soprattutto la difesa dell’autorità pubblica in un paese allo sbando.

238 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Per cosa Ariosto chiede aiuto ad Alfonso d’Este? LESSICO 2. Rintraccia i termini o le espressioni appartenenti al mondo latino.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Nel periodo «se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra extia li absolva, o determini in modo che mostri di dar più lor ragion che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’authorità del magistro» l’autore afferma un principio educativo valido ancora oggi. Dopo aver parafrasato, di se sei d’accordo o meno con Ariosto e perché.

5 Le Satire Tra innovazione e tradizione Nel 1517, in un momento assai difficile, ossia quando decide di abbandonare l’incarico presso il cardinale Ippolito, Ariosto inizia a comporre una serie di satire, che costituiscono la sua opera più importante dopo l’Orlando furioso. Le Satire, in tutto sette, sono ultimate entro il 1525; in quegli stessi anni lo scrittore si dedicava anche ad altre forme letterarie (come il teatro) e lavorava alla rielaborazione del Furioso per la seconda edizione del 1521. La scelta del genere satirico da parte del poeta si iscrive nella più generale tendenza umanistica a riportare in vita generi letterari latini che erano stati nel tempo abbandonati. Il modello è, in questo caso, rappresentato soprattutto dalla produzione satirica del grande poeta latino Orazio, dal quale Ariosto riprende la tendenza a trarre da uno spunto occasionale, legato a esperienze personali di vita, considerazioni più generali di carattere etico e la cui visione esistenziale, ispirata all’equilibrio e alla moderazione, sente particolarmente congeniale. Un altro autore latino presente come modello, anche se in modo meno rilevante, è Giovenale. La struttura epistolare: una scelta “comunicativa” La satira ariostesca fonde il modello di due opere oraziane: da una parte i Sermones, di cui riprende il tono colloquiale nel narrare fatti e misfatti della vita quotidiana, e dall’altro le Epistulae, da cui deriva la struttura epistolare, cioè la narrazione in forma di lettera. Come quelle di Orazio, anche le Satire dell’Ariosto sono indirizzate a un destinatario (che talvolta è una proiezione dell’autore stesso); la struttura dialogica consente allo scrittore di creare una situazione “confidenziale” capace di coinvolgere il lettore e di sviluppare in modo più disinvolto e discorsivo le sue riflessioni sui temi trattati. La proposta di un modello di uomo Nelle Satire spicca la presenza di elementi autobiografici, con riferimenti precisi e diretti a situazioni della vita del poeta. Questa dominante caratteristica dell’opera, oltre al ricorso al tu allocutorio, che evoca rapporti di quotidiana familiarità con i destinatari, ha favorito (soprattutto nell’età romantica) una lettura del lavoro come documento per ricostruire la biografia del poeta. La critica più recente si è allontanata ormai da questa impostazione e tende a considerare le Satire non più come una serie di testi fra loro slegati, ma come un vero e proprio “libro”, con una studiata organicità e il senso globale di una proposta etico-comportamentale. Le opere 2 239


La singola occasione (l’incontro con il papa, l’imminente matrimonio del cugino, la ricerca di un precettore per il figlio e così via) serve da punto di partenza per una serie di riflessioni che delineano un ritratto in primo luogo autobiografico, ma che assume al contempo i tratti di un modello umano e di comportamento ispirato ai valori (propri dell’etica classica e umanistica) del razionalismo, dell’equilibrio, della misura.

PER APPROFONDIRE

Frontespizio de Le Satire.

Un profilo dell’intellettuale ideale Dietro questo modello umano, Ariosto indirettamente tratteggia anche (ed è forse la prospettiva di lettura più significativa dell’opera), un profilo ideale dell’intellettuale del primo Cinquecento, nel quale proietta la propria stessa immagine: un intellettuale che non vuole essere coinvolto nelle grandi faccende della politica, che non desidera emergere a tutti i costi nella vita di corte, ma aspira a una vita schiva, dedita agli amati studi e alla cura delle proprie opere letterarie. Un intellettuale a cui va stretto il ruolo di cortigiano (celebrato invece dal Castiglione) e che assume consapevolmente il ruolo di coscienza critica della condizione, ambigua e difficile, del letterato vicino ai potenti (➜ T2-3 ).

Gli argomenti delle Satire Satira I Destinatari: Il fratello Alessandro e l’amico Ludovico da Bagno. Contenuti: Ariosto spiega le ragioni per cui rifiuta di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria. Il trasferimento in quel paese lontano gli procurerebbe certamente danni alla salute e lo allontanerebbe a lungo da Ferrara e dai suoi affetti. Alla costante disposizione al compromesso e all’adulazione, tipica del mondo della corte, il poeta contrappone il valore della libertà personale, da tenersi cara anche a prezzo della povertà. Satira II Destinatario: Il fratello Galasso. Contenuti: Il poeta chiede al fratello di procurargli un alloggio a Roma. Critica la corruzione della corte pontificia. Elogia una vita sobria e morigerata, in cui si possa anche viaggiare lontano, ma solo con la fantasia e con l’aiuto di manuali, come la Geografia di Tolomeo. Satira III Destinatario: Il cugino Annibale Malaguzzi. Contenuti: La satira sviluppa il tema della difficoltà della vita cortigiana. Il poeta rivendica la propria autonomia di pensiero e di comportamento rispetto alle imposizioni della vita di corte. Al centro della satira è la rievocazione dell’incontro deludente tra Ariosto e papa Leone X, preceduta e seguita da due apologhi, quello della gazza (favola mitologica sulla dipendenza da un padrone) e il famosissimo apologo della montagna della luna, che gli uomini salgono nell’illusione di raggiungere il corpo celeste, mentre naturalmente tale corsa è stolta e vana.

240 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

Satira IV Destinatario: Il cugino Sigismondo Malaguzzi. Contenuti: Il poeta rievoca il difficile impatto con la Garfagnana. In contrapposizione con l’attuale situazione, in cui incombono sul poeta gravi responsabilità tra luoghi impervi e gente ostile, egli ritorna con la memoria alla sua giovinezza, alle prime prove poetiche e ai giorni felici trascorsi nella villa dei cugini nella natia Reggio. Satira V Destinatario: Il cugino Annibale Malaguzzi. Contenuti: In occasione delle prossime nozze del cugino, il poeta compone una sorta di trattatello (Debenedetti) sul tema del “prender moglie”, tracciando anche il ritratto della consorte ideale, del tutto in sintonia col suo programma di vita ispirato alla “medietà”. Satira VI Destinatario: Pietro Bembo. Contenuti: Il poeta cerca un precettore di greco per il figlio Virginio, quindicenne, e chiede al grande letterato Pietro Bembo di aiutarlo nella ricerca di un maestro sapiente, che sia anche però di onesti costumi e di saldi principi etici. La satira si conclude col ricordo dei propri studi giovanili e il rimpianto per non aver potuto apprendere la lingua greca. Satira VII Destinatario: L’amico Bonaventura Pistofilo. Contenuti: Il poeta motiva all’amico, cancelliere del duca Alfonso, il suo rifiuto dell’incarico di ambasciatore presso il papa Clemente VII. La parte finale si ricollega alla Satira III nell’elogio della vita tranquilla e sedentaria, quella che egli vuole vivere senza allontanarsi dalle vie e dalle piazze di Ferrara.


Lessico apologo Breve racconto di carattere allegorico avente come fine l’educazione morale del lettore.

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Per approfondire Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo”

Gli apologhi: uno spazio narrativo-commentativo Lo spunto autobiografico riesce a elevarsi a tema generale di riflessione anche grazie all’inserimento, all’interno di alcune satire, di favolette che contengono una chiara “morale della storia” e assumono quindi il carattere di apologo (come si può facilmente notare in ➜ T2 ). Queste gradevoli storielle di carattere fantastico, interrompendo il corso della narrazione-riflessione, accrescono il piacere della lettura e conferiscono maggiore evidenza al tema morale, quasi “visualizzandolo” e imprimendolo così più facilmente nella memoria del lettore; la più celebre è quella degli uomini che vogliono raggiungere la luna. Per i suoi apologhi, che erano già presenti nella tradizione satirica classica (notissima ad esempio la favola del topo di campagna e di città narrata da Orazio), Ariosto si rifà a fonti note al lettore del suo tempo, da Esopo a Fedro, ai bestiari medievali, ma anche agli exempla dei predicatori. Il «laboratorio linguistico» delle Satire e la scelta metrica Nel complesso delle Satire prevale un tono volutamente colloquiale (talvolta addirittura dimesso), apparentemente semplice e spontaneo, ma in realtà frutto di un’accurata selezione: il linguaggio delle Satire è espressione di un vero e proprio «laboratorio linguistico», come è stato recentemente definito (Bologna). La scelta stilistica e linguistica dell’autore è congruente al messaggio di vita che vuole comunicarci con la sua opera: la proposta di un’esistenza ispirata all’ideale oraziano della medietas, del giusto mezzo (con la conseguente critica dell’eccessiva ambizione), nella saggia accettazione delle inevitabili frustrazioni che costellano ogni esistenza umana. All’interno di un registro mediamente colloquiale, ci sono sia momenti di accentuato realismo, in cui viene utilizzato il linguaggio quotidiano, sia dotte allusioni a personaggi mitologici ed elementi di ascendenza letteraria; non manca infine qualche imprestito del registro “comico” di Dante: l’eco delle aspre tonalità dell’Inferno dantesco si fa sentire nei momenti in cui l’Ariosto vuole dare particolare forza evocativa al linguaggio. Le Satire sono in terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata (schema ABA BCB). Non molto in auge in quegli anni dominati dal petrarchismo, la terzina dantesca aveva tuttavia una certa tradizione nei cosiddetti capitoli, forma letteraria decisamente minore, di carattere polemico-satirico, che Ariosto stesso pratica.

Le opere minori di Ariosto Rime

Commedie

Satire

Epistolario

• sia in latino sia in volgare • tema centrale è l’amore • modelli: Petrarca, Boiardo e poeti latini (Catullo e Orazio)

• commedie sul modello di Plauto e Terenzio • rispetto delle 3 unità aristoteliche • intrattenimento per la corte estense

• 7 componimenti in terzine • modello latino: Orazio • elementi autobiografici offrono lo spunto per riflessioni generali

• prezioso documento biografico • senza pretese letterarie

Le opere 2 241


Ludovico Ariosto

T2

Ariosto e la condizione cortigiana

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Satira I, vv. 85-123 e 247-265 L. Ariosto, Satire, Einaudi, Torino 1987

Presentiamo una parte della prima satira, composta nel 1517 dall’Ariosto: il poeta si era rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este, presso cui prestava servizio, e costui lo aveva minacciato di privarlo dei benefici e delle rendite che gli aveva assegnato. La dolorosa esperienza personale costituisce lo spunto per un’amara riflessione sulla difficile e ambigua posizione degli intellettuali a corte e una rivendicazione dell’autonomia dell’attività letteraria. La satira si chiude con un apologo, L’apologo dell’asino, che ribadisce il tema generale della composizione.

Io, per la mala servitude mia1, non ho dal Cardinale ancora tanto ch’io possa fare in corte l’osteria2. 85

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo collegio de le Muse, io non possiedo 90 tanto per voi, ch’io possa farmi un manto3. – Oh! il signor t’ha dato... – io ve ’l conciedo, tanto che fatto m’ho più d’un mantello; ma che m’abbia per voi dato non credo4. Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello 95 voglio anco, e i versi miei posso a mia posta mandare al Culiseo per lo sugello5. Non vuol che laude sua da me composta per opra degna di mercé si pona; di mercé degno è l’ir correndo in posta6.

La metrica Terzine dantesche a rima incatenata: ABA, BCB, CDC, ecc. 1 la mala servitude mia: il mio servizio, mal compensato, di cortigiano. 2 fare… l’osteria: organizzarmi autonomamente per mangiare a corte. Il poeta, come dice in un altro punto della satira, soffriva di stomaco e necessitava di una dieta apposita. 3 Apollo… un manto: Grazie a te, Apollo (dio della poesia), e grazie a voi, sacre Muse, io non possiedo tanto da potermi permettere un mantello. Ariosto lamenta la scarsa considerazione (con le con-

seguenze economiche del caso) in cui il cardinale teneva la poesia. 4 Oh!… non credo: Ariosto immagina l’obiezione di qualcuno che gli ricorda quanto gli ha dato il signore, ma a sua volta ribadisce che quanto ha ottenuto non l’ha guadagnato certo per i propri meriti letterari. 5 e i versi miei… per lo sugello: e i miei versi posso a mio piacimento (a mia posta) mandarli al Colosseo (cioè “a quel pae­ se”) per farvi apporre il sigillo. Attraverso il doppio senso giocoso (per paronomasia) Colosseo-Culiseo Ariosto vuol dire che

242 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

per il suo signore i suoi versi non valgono alcunché. 6 Non vuol… in posta: (il cardinale: è il signor del v. 91) non vuole che sia considerata un’opera degna di retribuzione (si pona… di mercé) una sua lode composta da me. Degno di uno stipendio è viaggiare (ir = ire, “andare”, latinismo) di gran carriera cambiando i cavalli a ogni stazione di posta. Inizia qui l’elenco di chi svolge un lavoro degno di considerazione per il cardinale.


A chi nel Barco7 e in villa il segue, dona, a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi nel pozzo per la sera in fresco a nona8; 100

vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi se levino a far chiodi, sí che spesso 105 col torchio in mano addormentato caschi9. S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo, dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio; piú grato fòra essergli stato appresso10. E se in cancellaria m’ha fatto socio 110 a Melan del Constabil, sí c’ho il terzo di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio11, gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo mutando bestie e guide, e corro in fretta per monti e balze, e con la morte scherzo12. Fa a mio senno, Maron13: tuoi versi getta con la lira in un cesso, e una arte14 impara, se beneficii vuoi, che sia piú accetta. 115

Ma tosto che n’hai15, pensa che la cara tua libertà non meno abbi perduta 120 che se giocata te l’avessi a zara16; e che mai più, se ben alla canuta età vivi e viva egli di Nestorre17, questa condizïon non ti si muta. [...]

7 Barco: parco di caccia degli Estensi, fra le mura di Ferrara e il Po. 8 pona... a nona: ponga all’ora nona (circa le 15) i fiaschi in fresco nel pozzo per la sera. 9 vegghi… caschi: continua l’enumerazione dei lavori “rispettabili” e retribuiti a corte. (A chi..., v. 100) vegli la notte, fino all’alba – quando i fabbri (qui identificati per antonomasia nei carpentieri bergamaschi) si alzano per fare chiodi – così che spesso caschi addormentato con la torcia (torchio) in mano. 10 S’io l’ho… appresso: Se io l’ho inserito nei miei versi lodandolo, dice che l’ho fatto a mio piacere e nel tempo libe-

ro; avrebbe (fòra, “sarebbe stato”) gradito maggiormente (piú grato) che io fossi stato al suo seguito. Ocio, “ozio”, dal lat. otium, ha una coloritura dialettale settentrionale con -ci per -zi; lo stesso per negocio al v. 111. 11 se in cancellaria… d’ogni negocio: allude a un beneficio che il cardinale gli aveva procurato, cioè di dividere a Milano (Melan), con Antonio Constabile, un terzo delle rendite che venivano da ogni affare (ogni negocio) alla cancelleria arcivescovile. 12 con la morte scherzo: il poeta allude ai rischi legati agli incarichi assegnatigli, in particolare quelli presso la corte papale.

13 Fa a mio senno, Maron: il poeta che qui Ariosto invita a seguire i suoi consigli è il bresciano Andrea Marone che, al contrario dello scrittore, aveva sollecitato l’onore di accompagnare il cardinale Ippolito in Ungheria. 14 una arte: un mestiere. 15 Ma tosto che n’hai: Ma una volta che li hai ottenuti (i benefici). 16 zara: gioco d’azzardo con i dadi ricordato anche da Dante («Quando si parte il gioco de la zara…» Pg VI, 1-9). 17 Nestorre: Nestore, personaggio omerico celebre per la leggendaria longevità.

Le opere 2 243


Uno asino fu già18, ch’ogni osso e nervo mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto del muro19, ove di grano era uno acervo20; e tanto ne mangiò, che l’epa21 sotto si fece piú d’una gran botte grossa, fin che fu sazio, e non però di botto. 250

Temendo poi che gli sien péste l’ossa22, si sforza di tornar dove entrato era, 255 ma par che ’l buco più capir nol possa23. Mentre s’affanna, e uscire indarno24 spera, gli disse un topolino: – Se vuoi quinci uscir, tràtti, compar, quella panciera25: a vomitar bisogna che cominci 260 ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro26, altrimenti quel buco mai non vinci27. – Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro Cardinal comperato avermi stima con li suoi doni, non mi è acerbo et acro28 265

renderli, e tòr la libertà mia prima29.

18 fu già: visse un tempo. Ricalca l’inizio delle favole: “C’era una volta…”. 19 pel rotto del muro: attraverso la breccia nel muro. 20 ove… uno acervo: in un luogo dove c’era un mucchio di grano. 21 l’epa: la pancia. 22 Temendo... l’ossa: Temendo poi di essere picchiato.

23 capir nol possa: non possa contenerlo (capir è latinismo dal lat. capere) più. 24 indarno: invano. 25 Se vuoi… quella panciera: Se vuoi uscire di qui (quinci), compare, elimina (tràtti) quella gran pancia (la panciera è propriamente la parte dell’armatura che protegge addome e ventre). 26 macro: magro.

Marcello Fogolino, Scena di torneo, 1520 ca., affresco del castello di Malpaga (Bergamo).

244 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

27 vinci: superi. 28 non mi è acerbo et acro: non mi è doloroso né amaro, difficile (latinismo, da acer). 29 tòr... prima: riprendermi la mia libertà originaria (prima).


Analisi del testo Una testimonianza personalmente sofferta della vita di cortigiano Per essere correttamente intesi, questi versi vanno ricondotti a un momento particolarmente difficile della vita di Ariosto, che lo induce a prese di posizione polemiche. D’altra parte le parole del poeta, pur motivate da una personale condizione di risentimento, costituiscono un ritratto abbastanza realistico, e per certi aspetti esemplare, della condizione cortigiana: essa comportava in ogni caso non pochi compromessi, difficili da accettare soprattutto da chi, come appunto l’autore, identificava sé stesso innanzitutto come intellettuale e poeta, mentre, come stipendiato dalla corte, gli competevano impegni del tutto estranei a tale vocazione e (stando almeno a quanto sostiene l’interessato) addirittura umilianti. Ariosto lamenta con amarezza che il suo apprezzamento da parte del cardinale derivi esclusivamente dall’assolvimento dei compiti di cortigiano anziché dall’attività di poeta, che il cardinale Ippolito considerava alla stregua di un passatempo.

L’apologo dell’asino Nell’ultima parte del testo la rivendicazione del valore della libertà personale è affidata a una favoletta che, attraverso una breve narrazione, ribadisce il tema che al poeta sta a cuore. La morale della favola è chiara e del resto il risvolto autobiografico è esplicitato da Ariosto stesso negli ultimi versi della satira. L’asino che si ingozza di cibo avventurandosi fuori dal suo habitat e che poi non riesce più a passare per la fessura del muro, con il pericolo di restare prigioniero, simboleggia la figura del cortigiano: per vivere agiatamente egli accetta di abdicare alla sua libertà. Per poterla recuperare, egli dovrà rinunciare agli agi e ai beni elargiti dal signore, scelta che l’autore è più che disposto a fare.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il consiglio che Ariosto dà al poeta di corte Andrea Marone sulla base della propria esperienza personale. COMPRENSIONE 2. Quale significato ha il riferimento ad Apollo e al «santo collegio de le Muse» (vv. 88-89)? LESSICO 3. Individua l’espressione con cui il poeta definisce sinteticamente (e significativamente) il proprio servizio a corte e commentala. 4. Identifica i punti in cui il lessico accoglie termini del parlato e fanne una dettagliata schedatura. STILE 5. Rintraccia nel testo la presenza degli aspetti dialogici tipici delle Satire e poi indica: a. a chi sono attribuite le voci che intervengono nel testo; b. quale effetto produce questa scelta stilistica; c. perché il poeta ne fa uso.

Interpretare

SCRITTURA 6. Quali aspetti più generali della condizione del poeta a corte sono deducibili dal testo ariostesco?

EDUCAZIONE CIVICA

7. Ariosto sa con certezza che il rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria comporterà la rottura definitiva con lui, il licenziamento e la perdita di ogni beneficio; tuttavia non esita ad andarsene, in quanto ritiene che agi e privilegi abbiano un prezzo troppo alto da pagare, ossia la perdita della libertà. Cerca in Internet la Dichiarazione universale dei diritti umani e leggi con attenzione l’articolo 23, paragrafi 1-2-3; commentali e rifletti se nella società in cui vivi questi diritti sono assicurati a tutti.

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

Le opere 2 245


Ludovico Ariosto

T3

Ariosto e la condizione del cortigiano Satira III, vv. 1-72

L. Ariosto, Satire, Einaudi, Torino 1987

Nel 1518 Ariosto era passato al servizio di Alfonso I d’Este, dopo aver lasciato, per le note ragioni (Satira I) il cardinale Ippolito. I versi che presentiamo (tratti dalla prima parte della satira) costituiscono un’eloquente testimonianza della posizione assunta dell’autore nei confronti del “mestiere di cortigiano” e ci forniscono anche un garbato ritratto di Ariosto.

A Messer Annibale Malagucio Poi che, Annibale1, intendere vuoi come la fo2 col duca Alfonso, e s’io mi sento più grave o men de le mutate some3; perché, s’anco4 di questo mi lamento, 5 tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto5, o ch’io son di natura un rozzon lento6: senza molto pensar, dirò di botto7 che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, e fòra meglio a nessuno esser sotto8. Dimmi or c’ho rotto il dosso9 e, se ’l ti piace, dimmi ch’io sia una rózza10, e dimmi peggio: insomma esser non so se non verace11. 10

Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio Daria mi partorì, facevo il giuoco 15 che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio12, sì che di me sol fosse questo poco ne lo qual dieci tra frati e serocchie13 è bisognato che tutti abbian luoco14,

La metrica Terzine dantesche a rima incatenata: ABA, BCB, CDC, ecc. 1 Annibale: si tratta di Annibale Malaguzzi, cugino di Ariosto. 2 la fo: me la passo. 3 più grave o men de le mutate some: più gravato, o meno, dai nuovi incarichi (mutate some). 4 anco: anche. 5 guidalesco rotto: il guidalesco è una

piaga dovuta all’attrito dei finimenti sui cavalli da tiro o altri animali da soma. 6 rozzon lento: un ronzino malandato, senza fiato. 7 di botto: subito, senza pensarci. 8 fòra meglio a nessuno esser sotto: sarebbe meglio non sottostare a nessuno. 9 rotto il dosso: la schiena rotta. 10 una rózza: un ronzino, un cavallo sfiancato.

246 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

11 verace: franco, sincero. 12 ne l’alto seggio: in cielo. 13 frati e serocchie: fratelli e sorelle. 14 è bisognato che tutti abbian luoco: è servito che tutti trovassero posto. Qui Ariosto si riferisce al piccolo patrimonio familiare usato da fratelli e sorelle per ricavare il necessario per vivere.


la pazzia non avrei de le ranocchie15 20 fatta già mai, d’ir16 procacciando a cui scoprirmi il capo e piegar le ginocchie. Ma poi che figliolo unico non fui, né mai fu troppo a’ miei Mercurio17 amico, e viver son sforzato18 a spese altrui; meglio è s’appresso il Duca mi nutrico19, che andare a questo e a quel de l’umil volgo accattandomi il pan come mendico20. 25

So ben che dal parer dei piú mi tolgo21, che ’l stare in corte stimano grandezza, 30 ch’io pel contrario a servitú rivolgo22. Stiaci23 volentier dunque chi la apprezza; fuor n’uscirò ben24 io, s’un dí il figliuolo di Maia25 vorrà usarmi gentilezza. Non si adatta una sella o un basto solo 35 ad ogni dosso26; ad un non par che l’abbia27, all’altro stringe e preme e gli dà duolo. Mal può durar il rosignuolo28 in gabbia, piú vi sta il gardelino, e piú il fanello29; la rondine in un dí vi mor30 di rabbia. Chi brama onor di sprone o di capello31, serva re, duca, cardinale o papa; io no, che poco curo questo e quello. 40

In casa mia mi sa meglio32 una rapa ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, 45 e mondo33, e spargo poi di acetto e sapa34, 15 la pazzia non avrei de le ranocchie: allusione alla favola di Esopo in cui le rane chiedono un re a Zeu,s che dona loro una terribile biscia. 16 ir: andare. 17 Mercurio: dio del commercio e del guadagno. 18 sforzato: costretto. 19 nutrico: nutro. 20 accattandomi il pan come mendico: elemosinando il pane come un mendicante. 21 mi tolgo: mi allontano. 22 ’l stare... rivolgo: considerano una condizione prestigiosa vivere a cor-

te, mentre io lo considero una forma di schiavitù. 23 Stiaci: Vi resti. 24 ben: di certo. 25 il figliuolo di Maia: è Mercurio, messaggero degli dei e dio dei commerci e della ricchezza. 26 Non si adatta... dosso: Non tutte le schiene (cioè gli uomini) si adattano alla sella o al basto allo stesso modo. Il basto è “la sella di legno su cui si pone il carico”; qui vale “servitù”. 27 ad un… l’abbia: a uno non sembra di averla (addosso). 28 Mal… rosignuolo: Vive male l’usignolo.

29 gardelino… fanello: cardellino… piccolo fringuello. 30 vi mor: vi muore. 31 onor di sprone o di capello: onori cavallereschi (di sprone) o ecclesiastici (di capello, con riferimento al cappello cardinalizio). 32 mi sa meglio: ha più sapore, mi piace di più. 33 mondo: pulisco, togliendole la buccia. 34 acetto e sapa: aceto e salsa mostarda. La salsa mostarda è una salsa di mosto cotto a base di senape.

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che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio35; e così sotto una vil coltre, come di seta o d’oro, ben mi corco36. E piú mi piace di posar le poltre 50 membra, che di vantarle che alli Sciti sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre37. Degli uomini son varii li appetiti38: a chi piace la chierca, a chi la spada, a chi la patria, a chi li strani liti39. Chi vuole andare a torno40, a torno vada: vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; a me piace abitar la mia contrada. 55

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna, quel monte che divide e quel che serra 60 Italia41, e un mare e l’altro che la bagna. Questo mi basta; il resto de la terra, senza mai pagar l’oste, andrò cercando con Ptolomeo42, sia il mondo in pace o in guerra; e tutto il mar, senza far voti43 quando 65 lampeggi il ciel, sicuro in su le carte verrò, piú che sui legni, volteggiando44. Il servigio del Duca, da ogni parte che ci sia buona, piú mi piace in questa: che dal nido natio raro si parte45. Per questo i studi miei46 poco molesta, né mi toglie onde mai tutto partire non posso, perché il cor sempre ci resta47. 70

35 porco selvaggio: cinghiale. 36 sotto... mi corco: mi corico sotto una modesta coperta, come se fosse un copriletto di seta o trapunto di ricami d’oro. 37 piú mi piace… et oltre: preferisco riposare le mie membra pigre (poltre) piuttosto che vantarmi di essere stato in paesi lontani ed esotici (qui evocati attraverso il riferimento alle popolazioni: Sciti, Indi, Etiopi). 38 li appetiti: i desideri. 39 la chierca... liti: la chierca o chierica è la tonsura portata allora (e fino a tempi recenti) dagli ecclesiastici. Essa simbo-

leggia la carriera ecclesiastica, mentre la spada quella militare; li strani liti: le terre straniere (da scoprire). 40 a torno: in giro. 41 quel monte… Italia: la dorsale degli Appennini (che divide l’Italia in due versanti) e la corona delle Alpi (che la serra, “chiude”). 42 cercando con Ptolomeo: esplorando con l’aiuto di Tolomeo. Costui fu un celebre cosmografo dell’antichità (II sec. a.C.); Ariosto qui allude alle carte geografiche. 43 far voti: rivolgere preghiere (al cielo). 44 sicuro... volteggiando: andrò tran-

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quillamente, muovendomi qua e là, più sulle carte che sulle navi. Legni vale per metonimia “navi”. 45 che dal nido... si parte: il poeta apprezza l’abitudine del duca Alfonso di muoversi poco (raro si parte) da Ferrara (nido natio). 46 i studi miei: i miei interessi, le mie passioni. 47 né mi toglie… ci resta: né mi allontana da quel luogo (Ferrara) dal quale non posso mai separarmi del tutto, perché vi rimane sempre il mio cuore.


Analisi del testo Un’orgogliosa rivendicazione di autonomia intellettuale e di vita Nell’esordio della terza satira, indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi, Ariosto immagina di rispondere a una sua domanda su come si trovi presso il nuovo signore. Il poeta risponde senza pensarci troppo che sarebbe meglio non essere alle dipendenze di nessuno ed essere libero. Da queste terzine della Satira III ricaviamo altre informazioni sulla posizione di Ariosto rispetto alla realtà della corte e alla condizione del cortigiano. Il poeta rivendica innanzitutto la specificità della propria posizione, sottolineandola in modo marcato con l’espressione «So ben che dal parer dei piú mi tolgo»: se l’impiego cortigiano rappresentava per tanti un grande onore e un’ottima sistemazione, per Ariosto invece la dipendenza dalla corte è solo un obbligo imposto da pressanti necessità economiche. La stessa vita dentro la corte è da lui mal sopportata e si protrae sempre con la speranza (che negli ultimi anni della sua vita finalmente si realizzerà) di potersi sottrarre ai riti mondani, allo spettacolo quotidiano delle adulazioni verso i potenti che caratterizzava quell’ambiente. L’autore rappresenta in modo icastico questa “diversità” della propria indole attraverso le metafore relative al mondo animale dei vv. 34-39. I vv. 43-72 delineano la natura dello scrittore, i gusti, la visione del mondo, anche se vi incidono non poco i topoi della tradizione letteraria classica: quello, assai ricorrente, della modestia e povertà del letterato e, più specificamente, il modello oraziano. Anche Orazio, infatti, dichiara di amare un cibo povero e semplice come la rapa. Ne esce l’immagine di un uomo schivo, amante della vita semplice, in un ambiente raccolto e familiare: il fatto che Alfonso I d’Este preferisca restare a Ferrara gli rende meno pesante il servizio presso di lui. Ai viaggi avventurosi e pericolosi il poeta preferisce il viaggio della fantasia, compiuto nell’intimità casalinga, fantasticando sulle carte geografiche.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle terzine della Satira III attribuendo a ogni parte individuata dei brevi titoli. ANALISI 2. Dopo aver individuato la tematica principale di questa satira, rintraccia nel testo le espressioni che servono a giustificare la tua risposta. STILE 3. Spiega il significato delle metafore zoologiche usate ai vv. 34-39. Quale implicito giudizio sulla corte puoi ricavare dal riferimento, in un caso al basto e nell’altro alla gabbia? 4. Indica le espressioni che si contrappongono a quelle indicate: casa mia (v. 43) – una rapa (v. 43) – posar le poltre membra (vv. 49-50)

Interpretare

SCRITTURA 5. A proposito del “viaggio sulle carte di Tolomeo”, che sembra prefigurare l’immaginosa geografia dell’Orlando furioso, scrive il critico Giorgio Bàrberi Squarotti: Più che una scelta di vita, l’Ariosto definisce qui una scelta di poetica. Di fronte al poco vero che si può conoscere viaggiando, ecco l’infinito vero che si conquista con il viaggio dell’immaginazione: il sogno è anche per l’Ariosto l’infinita ombra del vero, e pure per l’Ariosto il mondo è infinitamente più esteso immaginando che non lo sia quando poi venga percorso davvero. È la giustificazione del Furioso e delle «corbellerie» che contiene (secondo quanto è voce che dicesse il cardinale Ippolito di fronte al poco apprezzato poema): ma è l’ulteriore e più alta rivincita nei confronti dei “valori” che il mondo riconosce. La vera libertà è quella dell’immaginazione. G. Bàrberi Squarotti, Ludovico Ariosto, Marzorati-Editalia, Roma 2000

Commenta in max 20 righe quest’affermazione del critico Bàrberi Squarotti in relazione ai vv. 61-66 della III satira.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Caretti, L’opera dell’Ariosto, in Antichi e moderni, Einaudi, Torino 1976

In questa pagina Lanfranco Caretti (1915-1995), uno dei maggiori studiosi della figura e dell’opera di Ariosto, ne tratteggia magistralmente il profilo, invitando i lettori a tenere nel debito conto il contesto socio-culturale in cui il grande scrittore visse e operò.

Una vita per niente avventurosa quella dell’Ariosto, quietamente compartita tra gli affetti e gli obblighi familiari e i cari studi, tra le modeste incombenze di corte e l’amore fedele ad una sola donna; per la maggior parte circoscritta entro le mura di una città («Da me stesso mi tol [toglie] chi mi rimove | da la mia terra, e fuor non ne potrei | viver contento…») e proprio in questo limite, deliberatamente eletto, assaporata con pacata discrezione […]. Una vita, dunque, scevra di colpi di scena e di gesti spettacolari, e tanto gelosamente difesa dall’imprevisto da essere poi per generazioni e generazioni assunta come emblema della placidità saggiamente perseguita, se non addirittura di un’ideale forma di edonistica pigrizia. Una vita siffatta, tale almeno agli occhi di chi l’ha misurata sulla scorta degli avvenimenti esteriori, doveva fatalmente favorire la formazione e quindi la cristallizzazione dell’immagine di un Ariosto non solo sedentario e contemplativo, ma anche furbescamente sornione, scettico e magari epicureo. Questa immagine o deformazione, che lo stesso De Sanctis1 è sembrato autorizzare parlando dell’Ariosto, quale apparirebbe nelle Satire, come di un personaggio da collocare «nella scala de’ Sancio Panza2 e de’ don Abbondio», ha finito poi col provocare, nell’opinione dei critici e nella coscienza dei lettori, una frattura quanto mai artificiosa tra l’uomo e l’artista quasi che il primo avesse bisogno di essere dimenticato perché non risultasse diminuito il fascino della sua opera poetica così potentemente e spregiudicatamente inventiva, così liberamente romanzesca. Di qui s’è generata anche la convinzione che la grande arte ariostesca, quella del Furioso, sia cresciuta in un clima di evasione, come la rivincita della fantasia sopra le ristrettezze del vivere quotidiano, consumato nel commercio delle cose terrene, come l’altra e più vera vita del poeta, tutta pura e incontaminata: la fuga dalla realtà, insomma, il segno smemorato e la perdizione felice. […] In effetti la vita dell’Ariosto, i modi quieti ed urbani di quella esistenza governata con sobria fermezza e tollerante bonomia3, rappresentano una scelta matura e meditata, e non già un pigro arrendersi alla mediocrità, una rassegnata rinuncia ad un diverso e più intenso vivere. Per capire questo occorre non applicare all’Ariosto, uomo della corte rinascimentale ferrarese, nel suo più energico e intenso rifiorire, la mitologia romantica, inaugurata dal Tasso, dell’artista come uomo d’eccezione, come eroe solitario della sventura e del contrastato successo. La verità è che l’Ariosto si manifesta uomo dell’epoca sua proprio nella scelta consapevole di quei particolari modi di vita, apparentemente angusti, perché egli così risolse, con adulta perspicacia, il problema della propria libertà, della difesa intelligente del proprio mestiere 1 De Sanctis: critico letterario e uomo politico, autore di Storia della letteratura italiana (1870). 2 Sancio Panza: personaggio del romanzo Don

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Chisciotte di M. Cervantes, scudiero del protagonista Don Chisciotte. 3 bonomia: benevolenza, bontà.


letterario, entro gli unici termini che gli erano obbiettivamente consentiti. Concepire infatti, nell’ambito della vita cortigiana cinquecentesca, forme diverse di indipendenza, gesti di aperta e clamorosa rivolta, è procedimento, a dir poco, tendenzioso e antistorico, quando non addirittura ingenuo e incongruente. Dobbiamo invece persuaderci a riconoscere all’Ariosto la virtù della discrezione, un senso concreto e realistico dell’esistenza: una inclinazione insomma, disincantata e profondamente saggia, a frenare le ambizioni impossibili, a mitigare le passioni troppo accese, a rintuzzare le velleità conturbanti, a elaborare un ideale di vita dominato dal sentimento della misura e dell’equilibrio interiori. Così operando, per una via cioè strenuamente razionale, l’Ariosto mostrava infatti di volere trarre partito4 da qualsiasi situazione, propizia o avversa che fosse, per indagare più da vicino la natura degli uomini, e la verità del proprio tempo, con spirito quanto mai penetrante ed acuto. Egli infatti sapeva, come i suoi contemporanei Machiavelli (soprattutto il Machiavelli dell’esilio di San Casciano) e Guicciardini (il Guicciardini sapientemente “esperto” dei Ricordi), che la conoscenza del mondo si può attuare ovunque la sorte ci collochi, tra i potenti come tra gli umili, nelle città come nelle campagne, nella corte come nei mercati, nei traffici o negli ozi della pace come negli orrori o nelle violenze della guerra. […] Se ci collochiamo in questa prospettiva, che è poi la vera e illuminata prospettiva da cui lo stesso Ariosto, nella pienezza della sua maturità di uomo e di artista, osservò la vita e la traspose poeticamente nel suo poema, potremo capire che questo straordinario artista era tutt’altro che un uomo mediocre e rinunciatario. […] Appare oggi chiaro che la celebrata “armonia” ariostesca5 resta inspiegabile come dato poetico se non si riesce a farla coincidere, dall’interno, con un’armonia d’altro ordine ma non sostanzialmente diversa, e cioè con l’armonia etica, intesa appunto come conoscenza profonda del mondo, del mondo storico degli uomini contemporanei, che l’Ariosto praticò e con i quali convisse, e del mondo universale delle passioni umane ricondotte alla loro legge interiore, alla dialettica complessa che alla fine tutte le chiarisce ed illumina.

4 trarre partito: trarre giovamento, trarre profitto. 5 “armonia” ariostesca: si fa riferimento all’armonia

Comprensione e analisi

Produzione

linguistica che caratterizza il poema Orlando furioso e la rigorosa struttura organizzativa.

1. Sintetizza, nelle sue linee fondamentali, la tesi sostenuta dal critico. 2. Quale tesi intende respingere il critico? Per quale motivo, a suo parere, è fuorviante? 3. Qual è il significato della citazione del giudizio desanctisiano che assimila l’uomo Ariosto a personaggi quali Sancio Panza e don Abbondio? 4. Qual è, per Caretti, l’approccio che consente di interpretare correttamente il rapporto tra la vita e l’opera di Ariosto? Quale funzione ha questo ragionamento all’interno dell’argomentazione? L’esperienza biografica e l’opera di Ariosto testimoniano i vari aspetti della condizione dell’intellettuale cortigiano nel Rinascimento. Prendendo spunto dalle osservazioni proposte da Caretti e sulla base delle tue conoscenze di studio, sviluppa le tue considerazioni circa la complessa posizione di scrittori e artisti nelle corti cinquecentesche. Elabora un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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L’Orlando furioso 1 La genesi, le vicende editoriali, la trama

VIDEOLEZIONE

L’Orlando furioso continua l’Orlando innamorato All’inizio del Cinquecento l’eredità del Boiardo viene consapevolmente assunta da Ludovico Ariosto: il suo Orlando furioso inizia proprio da dove si era interrotto l’Orlando innamorato, di cui ben presto eclissa la fama (anche perché adeguato ai nuovi canoni linguistici), imponendosi come il capolavoro assoluto del genere cavalleresco e uno dei grandi classici della letteratura italiana. Quando Ariosto, poeta-cortigiano alla corte estense di Ferrara, inizia la composizione dell’Orlando furioso sa di poter contare sulla presenza di un pubblico già predisposto ad accogliere l’opera con favore. La corte estense aveva infatti già recepito con entusiasmo l’Orlando innamorato di Boiardo, che aveva saputo adattare le antiche vicende cavalleresche al gusto raffinato della corte. Già il titolo di quest’ultimo poema indicava, inoltre, la fusione tra la materia di Francia, legata al tema della guerra santa, sostenuta dai paladini di Carlo Magno, e la materia di Bretagna, caratterizzata dai fascinosi temi della magia, dell’avventura e dell’amore, che anche Ariosto manterrà nella propria opera. La morte di Boiardo (1494) aveva lasciato interrotto il lavoro, aprendo tra i letterati una competizione per raccoglierne l’eredità nei favori del pubblico. Ci furono così vari tentativi di gionte, “aggiunte”, cioè continuazioni, che, come detto sopra, saranno tutte sbaragliate dall’eccellenza indiscutibile del Furioso, inizialmente identificato e letto come una gionta dell’Innamorato. L’Orlando furioso (1516) avrà grande successo, sostituendo la fama del Boiardo nel gusto dello stesso pubblico ferrarese. Un successo che si deve forse alla felice conciliazione tra la ribadita identità cavalleresca del poema, che consentiva ai lettori di ritrovarvi facilmente i personaggi prediletti, il repertorio ben noto di duelli, colpi di scena, magie e, d’altra parte, la prospettiva innovativa con cui Ariosto guarda a quel mondo e consapevolmente lo utilizza, inserendo in un “involucro” ormai inerte i valori della matura e disincantata civiltà rinascimentale. Come osservava Lanfranco Caretti in un celebre saggio, la «vera materia del Furioso non è costituita dalle antiche istituzioni cavalleresche ormai scadute nella coscienza cinquecentesca, ma propriamente da quella moderna concezione della vita e dell’uomo che in ogni pagina del poema è presente». Con la propria opera lo scrittore trasforma il poema cavalleresco in “romanzo contemporaneo”: la materia è soltanto il codice letterario usato per interpretare il proprio tempo, esprimere gli ideali estetici e i modelli ideologici della cultura rinascimentale e al contempo ritrarre la crisi politica e culturale che già investiva la civiltà italiana. Proprio la moderna concezione del mondo che circola in ogni pagina del poema fa dell’Orlando furioso non solo e non più un poema “ferrarese” e “cortigiano”, ma “il poema” del Rinascimento italiano e, ancor più, in quanto specchio della condizione umana di ogni tempo, uno dei grandi classici della cultura europea.

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Il poema di una vita. Le tre edizioni L’elaborazione Ariosto dedicò all’opera la maggior parte della propria esistenza, almeno dal 1505 circa fino alla morte, avvenuta un anno dopo la terza e ultima edizione (1532), quando già egli meditava un’altra edizione rivista e accresciuta. Da alcune lettere, e naturalmente soprattutto dalle tre edizioni ufficiali, possiamo seguire la lunga elaborazione del capolavoro. • Dall’ideazione alla prima edizione (1505?-1516) La prima edizione dell’Orlando furioso si colloca nel 1516, ma almeno da una decina d’anni il poeta vi stava lavorando: da una lettera del 3 febbraio 1507 della marchesa Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga, inviata da Mantova al fratello cardinale Ippolito, veniamo infatti a sapere che la colta gentildonna aveva già potuto ascoltare dalla viva voce del poeta, ospite in città, brani del Furioso e ne aveva tratto gran piacere, dopo essere stata una quindicina d’anni prima tra le ammiratrici del Boiardo. Quindi in quella data il poema era già in fase di elaborazione, configurandosi fin dall’inizio come gionta all’Orlando innamorato: in questi termini ne parla infatti due anni dopo (5 luglio 1509) Alfonso I d’Este, scrivendo al fratello Ippolito («quella gionta [che] fece m. Lud.co Ariosto a lo Innamoramento de Orlando»). Nel settembre del 1515 il poema è concluso e pochi mesi dopo, il 22 aprile, l’Orlando furioso, in 40 canti, viene stampato. Dopo la prima lettura ai signori Estensi e Gonzaga, il libro di Ludovico Ariosto è immesso sul mercato con gran successo. • La seconda edizione (1521) Dopo la prima fortunata edizione, Ariosto riprende in mano l’opera con l’intenzione di correggerla e forse di ampliarla. In realtà nella seconda edizione il poema rimane inalterato quanto al contenuto (l’aggiunta è di soli 121 versi), mentre le correzioni (peraltro non particolarmente rilevanti sotto il profilo quantitativo: interessano il 10% del totale) riguardano l’ambito lessicale e morfologico. Gli interventi mostrano un’inequivocabile linea di tendenza: Ariosto decide di allontanarsi dalla veste linguistica padana che caratterizza la prima versione del poema, avviando una toscanizzazione della lingua, in linea con la più generale tendenza della cultura letteraria italiana di quegli anni. Se il primo Furioso, linguisticamente parlando, è sostanzialmente un libro «municipale e padano» (come, ancor più, lo era stato l’Orlando innamorato), il secondo Furioso tende a diventare un libro «italiano» (Bologna). • La terza edizione (1532) Alla ricerca di un continuo perfezionamento del proprio capolavoro, Ariosto prepara una terza edizione, accresciuta, questa volta, sotto il profilo del materiale: il nuovo Orlando si arricchisce di nuovi episodi, passando da 40 a 46 canti (i nuovi episodi sono quelli di Olimpia, canti IX-X; della rocca di Tristano, canti XXXII-XXXIII; di Drusilla e Marganorre, canto XXXII; di Ruggiero e Leone, negli ultimi tre canti). Episodi in cui la critica ha notato un cambiamento Una pagina autografa dell’Orlando furioso, con di clima, più cupo e pessimistico rispetto al comle correzioni dell’autore, conservata alla Biblioteca plesso dell’opera, con temi maggiormente legati alla comunale ariostea di Ferrara. Ariosto lavorò alla revisione del suo poema per tutta la vita. realtà contemporanea, nella quale si profilavano nubi L’Orlando furioso 3 253


minacciose (significativi il tema delle armi da fuoco [➜ T9 OL] e la presenza di personaggi malvagi come Cimosco, entrambi nell’episodio di Olimpia). Ma oltre ad accrescere il poema, Ariosto sottopone l’opera a una minuziosa revisione linguistica secondo la codificazione linguistica bembiana: nel 1525 le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo impongono ai letterati italiani un adeguamento della lingua letteraria al modello dei grandi classici del Trecento. Anche Ariosto, come la maggior parte dei letterati italiani, accoglie la norma, toscanizzando l’idioma del poema, ma riservandosi comunque degli ampi margini di libertà. Forse per questo atteggiamento di non stretta osservanza il Bembo, che pure conosceva di persona il poeta e al cui autorevole giudizio Ariosto chiede umilmente nel 1531 di sottoporre l’opera, non pronunciò mai neppure una parola sul libro di cui tutti, in quegli anni, parlavano. Di certo l’abbandono delle forme linguistiche municipali consentì al poema di varcare i ristretti confini ferraresi per inserirsi in un orizzonte nazionale.

La trama dell’Orlando furioso

PER APPROFONDIRE

Un poema dalle «varie fila e varie tele» «All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per il bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa fino a un certo punto: è la protagonista di un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato». Con queste suggestive parole Italo Calvino – che con l’Ariosto e l’Orlando furioso ebbe sempre un rapporto speciale, fondato su un’affinità intellettuale e letteraria – ci introduce nella fabula del Furioso, indicandone la continuità rispetto all’Innamorato. Concepito come continuazione diretta di questo, l’Orlando furioso inizia proprio dal punto in cui l’Orlando innamorato si era interrotto, cioè con la fuga della bella Angelica, personaggio ideato da Boiardo, figlia del re del Catai (favolosa regione della Cina) dall’accampamento cristiano. La trama dell’Orlando furioso potrebbe ben essere rappresentata dall’immagine della selva, spazio labirintico onnipresente nel poema come teatro di incontri inaspettati e avventure: entrare nell’Orlando significa infatti per il lettore entrare

L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore Dall’ultima edizione del poema restarono esclusi cinque canti, composti da Ariosto in data non sicura, custoditi dopo la morte del poeta dal figlio Virginio e pubblicati per la prima volta nel 1545, come appendice separata dell’opera. La critica ha dibattuto a lungo sulla data di composizione di questo materiale “erratico”, rimasto a margine del lavoro, e sui motivi che indussero l’autore a non inserirlo nel corpo del libro. Si pensa oggi che la stesura dei Cinque canti sia stata avviata tra il 1518 e il 1519, in vista dunque della seconda edizione (1521) del poema, e che vi fu forse una ripresa più avanti. Lo scrittore decise però di non inserirli né nella seconda né nella terza edizione, probabilmente perché si rese conto della sostanziale “diversità” dei cinque canti rispetto allo spirito e al tono fondamentale del Furioso. L’argomento ruota intorno al tradimento di Gano di Maganza, archetipo del traditore, nelle chansons medievali, ai danni di Carlo Magno e dei cavalieri cristiani. Violenze e inganni, con l’intervento di personaggi allegorici negativi, come l’Invidia e il Sospetto, dominano la scena dei Cinque canti fino

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alla battaglia finale tra cristiani e saraceni sotto le mura di Praga: un quadro di sangue e morte sul quale la narrazione si interrompe. Sui Cinque canti ha scritto Lanfranco Caretti, uno dei maggiori interpreti del Furioso: «È un universo privo di luce razionale e di virtù cortesi, disamorato e squallido, dilacerato da torbide e smodate passioni, minacciato a ogni passo dall’arbitraria confusione del caos». Le parole del critico ci aiutano almeno a immaginare le ragioni che possono aver indotto Ariosto a non inserire nel Furioso un materiale che avrebbe incrinato (e inquinato) il clima complessivamente armonico, “leggero”, ironico, del capolavoro. C’è, d’altra parte, chi ha ipotizzato che i Cinque canti, più che episodi da inserire nel Furioso, costituissero il progetto di un nuovo poema destinato a continuare le vicende di Ruggiero dopo il matrimonio con Bradamante.

Testo di riferimento: L. Caretti, Storia dei Cinque canti, in Antichi e moderni, Einaudi, Torino 1977.


in un universo narrativo in cui ci si trova davanti a infiniti percorsi, liberamente intersecati, interrotti e ripresi a distanza. La macchina narrativa è così complessa, la struttura così policentrica e “aperta”, che è difficile (e forse inutile) sintetizzare l’opera. Ci limiteremo dunque a presentare i tre filoni principali all’interno dei quali si articola il complicato intreccio del Furioso e in cui è facilmente collocabile il percorso di lettura proposto.

Jean-Honoré Fragonard, Bradamante cerca di catturare l’ippogrifo, illustrazione per Orlando furioso (1785 ca).

Lessico motivo encomiastico Elemento contenutistico di un’opera che ha come scopo quello di lodare, elogiare, celebrare un determinato destinatario.

La prima ricerca e la follia di Orlando Il principale filone narrativo è costituito dall’“amorosa inchiesta” (la quête della tradizione cavalleresca, la ricerca di un oggetto del desiderio) di Orlando alla ricerca di Angelica, sempre fuggente, che egli ama di un amore puro e assoluto ma non ricambiato e che insegue, dopo aver abbandonato l’esercito cristiano, attraverso molte avventure. La fuga di Angelica, inseguita anche da numerosi altri cavalieri innamorati di lei, sia cristiani (Rinaldo, cugino di Orlando), sia Saraceni (Sacripante, Ferraù), apre l’opera (➜ T5 ) e ne costituisce la principale linea narrativa. Sulla ricerca di Angelica si innesta infatti anche il tema centrale della follia di Orlando, che dà il titolo al poema: dopo molte avventure, incontrate nel suo inquieto errare alla ricerca dell’amata, Orlando scopre casualmente gli amori di Angelica e del soldato Medoro, di cui la donna si è innamorata e di cui è divenuta sposa (➜ T13 ). Da qui lo scatenarsi della follia (➜ T14 ), che trasforma l’eroico paladino in un pazzo violento, incapace persino di riconoscere l’oggetto del suo desiderio (Angelica) quando finalmente gli capiterà di rincontrarlo (➜ T16 OL). Cavalcando l’ippogrifo, il magico cavallo alato, il paladino Astolfo salirà nel Paradiso Terrestre, dove incontrerà san Giovanni Evangelista e quindi sulla Luna dove, in una piccola vallata, si trovano tutte le cose perdute sulla Terra (➜ T17 ). Tra di esse, Astolfo riuscirà a recuperare il senno di Orlando, custodito in una grande ampolla. Riacquistata la ragione, Orlando potrà così tornare da par suo tra le armate cristiane, portandole alla vittoria contro i Saraceni nella battaglia di Lipadusa. La seconda ricerca Bradamante, guerriera cristiana, ricerca tenacemente l’amato Ruggiero, valoroso guerriero saraceno, che il mago Atlante tiene segregato al fine di proteggerlo e impedire il suo fatale destino, letto negli astri dal negromante stesso: la sua morte in battaglia dopo che si sarà fatto cristiano. Una lunga serie di ostacoli, sia voluti dal mago sia fortuiti, si oppone alle nozze dei due, che tuttavia alla fine si realizzeranno dopo la conversione di Ruggiero alla fede cristiana. Un esito necessario, perché dall’unione di Ruggiero e Bradamante trarrà origine la stirpe estense: su questo secondo filone tematico si innesta quindi il motivo encomiastico proprio della poesia legata alla corte. Soprattutto alla seconda “inchiesta” si lega, nell’opera, la presenza della dimensione spiccatamente romanzesca del poema e l’emergere del tema della magia: il mago Atlante (➜ T6a-b OL), la maga Melissa, la maga Alcina e l’isola maliosa dove l’ippogrifo conduce Ruggiero (➜ T8 OL), l’ippogrifo stesso, originariamente “di proprietà” del mago Atlante, l’anello magico (messo in bocca rende invisibili, infilato al dito neutralizza gli incantesimi), la straordinaria ideazione del castello e del palazzo di Atlante finalizzata a proteggere e trattenere Ruggiero (➜ T10 ). L’Orlando furioso 3 255


La guerra tra cristiani e Saraceni e la dimensione epica Funge da “contenitore”, e in un certo senso collega le peripezie dei personaggi, la guerra tra le forze cristiane, guidate da Carlo Magno, e l’esercito saraceno, guidato da Agramante, re d’Africa, e da Marsilio, re di Spagna. L’esercito cristiano si trova in grave difficoltà soprattutto quando Rinaldo e, ancor più, Orlando abbandonano il campo irretiti dall’amore; l’esercito saraceno pone l’assedio a Parigi e semina morte e terrore tra gli avversari soprattutto grazie all’incredibile forza di Rodomonte, tanto che Carlo Magno richiede a Dio un intervento celeste (➜ T11 OL). Ma alla fine saranno i cristiani ad avere la meglio e Agramante stesso sarà ucciso da Orlando, una volta rinsavito, mentre Rodomonte a propria volta sarà ucciso da Ruggiero nel duello che chiude il poema. Al filone tematico della guerra si collega la dimensione epica dell’Orlando furioso, emergente soprattutto nell’ultima parte dell’opera (ma quanto si possa davvero parlare di “epica” nel Furioso è oggetto di discussione fra i critici). L’Orlando furioso non è certo riducibile, come già si è accennato, a questi tre essenziali filoni: se in essi effettivamente convergono personaggi e vicende principali dell’opera, d’altra parte molte volte essi se ne distaccano, creando nuclei narrativi indipendenti che fanno germinare in modo apparentemente spontaneo nuovi episodi.

2 Temi e motivi Le donne… gli amori Un incipit nel nome delle donne Non è certo casuale che l’Orlando furioso si apra proprio con la parola «Le donne» associata, attraverso il celeberrimo chiasmo del primo verso, a gli amori e le cortesie completato dal successivo «l’arme/i cavallier/l’audaci imprese». Nell’ambiente cortigiano le donne rappresentavano il pubblico emergente, in rapporto al ruolo rilevante da esse esercitato nell’organizzazione della vita raffinata della

Sguardo sull'arte La maga Melissa secondo Dossi Dosso Dossi, Circe (o Melissa), 1515-1516 (Galleria Borghese, Roma). Il personaggio, con un turbante e in abiti sontuosi dai colori sgargianti è stato identificato con Melissa, la maga buona che riporta Ruggiero alla retta via e alla fedeltà per Bradamante. Immersa in un paesaggio boschivo, è seduta all’interno di un cerchio in cui sono trascritti simboli che richiamano la Cabala ebraica; nella mano sinistra impugna una fiaccola, mentre con la destra regge una tavoletta con disegni geometrici; il cane accanto alla maga è stato interpretato come simbolo di fedeltà.

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corte, nella promozione e gestione di spettacoli e feste, ma anche nei rapporti con i maggiori intellettuali, come dimostra la figura di Isabella d’Este, intraprendente animatrice di cultura, donna di molteplici interessi, immortalata dal Castiglione nel Cortegiano come prototipo della «donna di palazzo». L’esaltazione della sensuale bellezza femminile Nel poema la bellezza femminile è ritratta senza reticenze o filtri intellettualistici: spesso il corpo femminile è rappresentato senza veli (celeberrimi i due medaglioni speculari dei nudi di Olimpia e Angelica, esposte sullo scoglio all’isola di Ebuda per essere pasto di un’orca marina), con lo stesso atteggiamento di serena ammirazione dei grandi pittori rinascimentali (➜ SGUARDO SULL’ARTE, La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano, PAG. 300), da Tiziano a Raffaello e a Giorgione, a testimonianza di quella piena accettazione e anzi valorizzazione del corpo che caratterizzano ampia parte della cultura del Rinascimento. La dimensione più significativa con cui Ariosto rappresenta l’amore è dunque quella sensuale: degno erede del suo grande predecessore Giovanni Boccaccio, l’autore presenta come naturali l’attrazione dei sensi e l’appagamento fisico. In questo senso lo scrittore si contrappone vistosamente alla tendenza petrarchista-neoplatonica e in genere agli stereotipi letterari dell’amore; anzi, si potrebbe addirittura leggere l’episodio chiave del poema, ovvero la follia di Orlando (➜ T14 ), come critica a un sentimento ossessivamente incentrato su un ideale femminile che non esiste più e che forse non è mai esistito: a dispetto del nome, Angelica non è una Laura-Beatrice ma una giovane scaltra, un po’ calcolatrice, che non accetta di essere passivo oggetto né di adorazione devota (di Orlando), né di concupiscenza (di tutti gli altri). Donerà la propria verginità a un giovane soldato (Medoro) di cui inaspettatamente si innamora e che sposerà, contravvenendo a tutte le regole della tradizione (una donna di nobile lignaggio non può sposare un plebeo). Poi la bella Angelica scompare dal poema, dopo aver a lungo dominato la scena con la propria fuga; come se, svanito il mito dell’irraggiungibilità e trovato l’amore, ella perdesse senso come personaggio. L’ossessione idealizzante di Orlando: una follia “annunciata” Al carattere trasgressivo del personaggio di Angelica si contrappone l’amore di Orlando per lei, la sua fedeltà assoluta non solo alla donna, ma alla tradizione letteraria più illustre della rappresentazione femminile. La sublimazione idealizzante della figura di Angelica, il mito della sua inviolabile verginità di cui Orlando si autoconsacra tutore unico pongono fin dall’inizio il prode paladino in una dimensione psicologica allucinatoria, potenzialmente a rischio di degenerare in follia vera e propria. È lo scarto tra realtà e ideale a scatenare la pazzia, che è in fondo l’esito drammatico del conflitto tra due codici culturali, uno antico e l’altro “moderno”: il codice amoroso delle Laure e delle Beatrici viene dissacrato da Medoro, che racconta con linguaggio petrarchesco come Angelica «nuda giacque» tra le sue braccia; Orlando, portavoce del codice amoroso antico, non può che restarne sconvolto. La follia per amore L’ossessione idealizzante di Orlando si rovescia allora nella furia autodevastante della follia e nella violenza: l’episodio, o meglio, il macroepisodio della sua follia occupa la sezione centrale del poema, costituendone per certi versi il fulcro tematico, e identifica la specifica natura del poema ariostesco nella secolare tradizione cavalleresca. Si tratta, come si è visto, di una “follia annunciata”, destinata inesorabilmente a maL’Orlando furioso 3 257


nifestarsi. E non è priva di significato la “punizione” quasi da contrappasso inflitta a Orlando dal suo autore: lui, che ha posto in cima ai desideri un mito femminile purissimo, una volta impazzito non riconosce Angelica quando finalmente la incontra di nuovo e, in preda a un bestiale istinto carnale, vorrebbe possederla, se Ariosto non la facesse uscire rapidamente dalla scena del poema in modo alquanto sconveniente: a gambe all’aria, in un evidente rovesciamento del “sublime” legato tradizionalmente alla rappresentazione della donna. Ma anche la seduzione sensuale può essere pericolosa... Certo, a sua volta anche l’impulso dei sensi può comportare dei pericoli, quando non è soggetto a una misura razionale: è il caso di Ruggiero, continuamente esposto a un’eccessiva “distrazione”, alla leggerezza contrapposta alla fedeltà assoluta della guerriera Bradamante; l’avventura di Ruggiero all’isola di Alcina (➜ T8 OL) dimostra che l’amore carnale può essere anch’esso pericoloso, in quanto seduzione, destinata a illudere e ingannare. Se Orlando alla fine impazzisce grazie a un banale oggetto “rivelatore” (il braccialetto), Ruggiero invece si ravvede grazie al magico anello, “rivelatore” anch’esso, ma di inganni. Ne segue lo sconvolgente “risveglio” di Ruggiero dalla malìa amorosa, quando il giovane scopre inorridito la reale natura della bellissima maga Alcina, una vecchia decrepita che con arti magiche si presenta giovane e seducente. Allo stesso modo il luogo del piacere, l’isola maliosa di Alcina, rivelerà improvvisamente il suo volto mostruoso, rovesciamento del falso idillio creato dalla maga.

JeanDominique Ingres, Ruggiero che libera Angelica, 1819 (Museo del Louvre, Parigi).

Amori negativi, amori eroici Nell’ampia fenomenologia degli amori del poema, a cui qui non si può che accennare, non mancano amori volubili e fedifraghi come quello di Doralice e di Bireno; ma esistono anche gli amori veramente esemplari, eroici e patetici, segnati dalla sventura, di fronte ai quali anche l’ironico Ariosto si inchina, riservando a essi un registro più elevato. Amori oltre la morte, come quello di Isabella e Zerbino (morto l’amato, Isabella sceglie a sua volta la morte pur di non soggiacere alle brame di Rodomonte) e di Brandimarte e Fiordiligi: morto Brandimarte nella battaglia finale tra Saraceni e cristiani a Lipadusa, Fiordiligi decide di passare la vita in una cella, accanto al sepolcro dell’amato.

I cavallier… l’armi: il tema della guerra Lo smorzamento della dimensione epica La guerra tra cristiani e infedeli, come si è detto, costituisce lo sfondo epico della narrazione. Tuttavia l’ispirazione del Furioso non è mai esclusivamente “epica” (com’è evidente nello stesso celebre episodio di Cloridano e Medoro) a causa della costante tendenza allo smorzamento ironico e alla ricerca del tono medio che caratterizza il poema (➜ T12 ). Persino quando rappresenta la morte, in battaglia o nei duelli, raramente Ariosto indulge al tono tragico, preferendo l’alternanza di registri diversi anche all’interno di una stessa scena. Del resto nel Furioso mancano gli elementi costitutivi del genere epico: non c’è assolutamente contrapposizione sul piano assiologico (cioè dei valori) fra i due schieramenti che si affrontano, come ad

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esempio troviamo nella Chanson de Roland. La guerra “santa” è una memoria remota nel poema laico del Rinascimento e Ariosto si guarda bene dal proporre una prospettiva anacronistica; cristiani e Saraceni sono del tutto interscambiabili: i primi non sono affatto connotati come rappresentati della “giusta parte”, come nella Chanson e come avverrà nuovamente nella Gerusalemme liberata (1575), nel clima ideologico della Controriforma. Anzi, nel celebre episodio sopra citato di Cloridano e Medoro i due eroi della storia sono due oscuri soldati saraceni che, sprezzanti del pericolo, con gesto cavalleresco decidono di recuperare il corpo del loro re Dardinello per dargli degna sepoltura. Al contrario, l’accampamento cristiano che i due giovani attraversano è ritratto, impietosamente, immerso nel sonno e nell’ebbrezza, non senza qualche spunto di comicità: una rappresentazione evidentemente “abbassata” e antieroica. A ben vedere però, mancano addirittura nel poema ariostesco gli eroi propri della tradizione epica: quelli che potenzialmente avrebbero tutti i titoli per esserlo, Orlando in primis, si rivelano a loro volta manchevoli, deboli, preda di irrazionali passioni, addirittura capaci di dimenticare i sacri doveri verso la patria e il sovrano per inseguire una donna.

La dimensione del “meraviglioso”

Fabrizio Clerici, Orlando contro le genti di Cimosco, litografia, Electa, 1967, Milano.

Un tema “bretone” In relazione al “romanzesco”, ereditato dalla materia di Bretagna, anche nell’Orlando furioso è presente il tema della magia, che Ariosto maneggia con grande sapienza narrativa e che concorre non poco al piacere intrigante della lettura. Fin dal primo canto si accenna al motivo delle «fontane dell’amore e del disamore», bevendo alle quali ci si innamora o disamora; ma è nel secondo che, attraverso una presentazione indiretta (il racconto di Pinabello a Bradamante), entra in scena il protagonista “magico” del poema: Atlante con il suo cavallo alato, l’ippogrifo («e ritrovai [...] armato / un che frenava un gran destriero alato» [II 37, 7-8]). Un ingresso che anticipa e prepara la più scenografica apparizione del mago nel canto IV (➜ T6a OL): l’oste della locanda, gli avventori, i servi, tutti accorrono alla finestra per godersi l’inusitato spettacolo del mago che passa, alto nel cielo, in groppa all’ippogrifo, per poi calarsi verso un varco fra alte montagne. Una magia “naturale” Con assoluta naturalezza Ariosto passa dalla dimensione del reale a quella del magico e viceversa: nel mondo del Furioso è “naturale” che un cavallo alato solchi il cielo o che un cavaliere esca tutto armato dall’alveo di un fiume e si metta a rimproverare chi gli ha sottratto l’elmo (I, 26-30). Nell’introdurre l’elemento del “meraviglioso”, Ariosto non cambia infatti tono, ma mantiene l’abituale andamento discorsivo, pacato, medio, a volte addirittura dimesso: non c’è nella “voce” del narratore nessun indizio che quanto sta per narrare è insolito, nessuna concessione a elementi emozionali per attivare nel lettore il senso inquietante del mistero, del soprannaturale. Che le due fontane dell’amore-disamore producano strani effetti in chi beve alle loro acque è presentato come normalissimo: le loro magiche prerogative sono indicate con realismo, come se si trattasse di «una cartella clinica di due acL’Orlando furioso 3 259


que minerali» (G. Almansi); che la maga Alcina peschi pesci piccoli e grandi senza ami né reti è presentato con sconcertante disinvoltura: «Alcina i pesci uscir facea dell’acque / con semplici parole e puri incanti» (VI 38, 1-2). Ad Ariosto preme mantenere in ogni caso il ritmo fluido della narrazione, che non intende interrompere neppure per sfruttare la sorpresa. «Il poeta del meraviglioso» per eccellenza, scrive il critico Guido Almansi, «rifiuta una voce meravigliosa», alludendo con questa espressione a particolari scelte narratologiche e stilistiche che avrebbero potuto connotare la narrazione nei momenti in cui, appunto, irrompe il meraviglioso.

Luoghi-simbolo: la selva, il palazzo di Atlante, il valloncello della Luna I nuclei fondamentali dell’immaginario poetico del Furioso Nell’Orlando furioso sono evocati alcuni luoghi che, per la forte rilevanza simbolica che assumono, costituiscono dei nuclei fondamentali nell’immaginario poetico dell’opera e sono rappresentativi della visione del mondo ariostesca. Proprio questi luoghi-simbolo ci dimostrano come Ariosto non sia (come è stato a lungo presentato) il poeta dell’evasione fantastica volta a compensare le meschine frustrazioni della sua vita quotidiana, ma uno scrittore che pone, anzi, al centro del proprio lavoro la riflessione pensosa e critica sulla vita e sul suo significato, che traduce in ideazioni fantastiche di grande impatto sul lettore: • La selva-labirinto Fin dal primo canto, e anzi soprattutto in esso, emerge in primo piano la selva come teatro dell’azione narrativa, perché è in essa che i personaggi molto spesso si incontrano e si perdono (➜ T5 ). Uno scenario che non ha nulla di realistico, ma è in un certo senso un fondale “di cartapesta”, edificato su precedenti topoi letterari: il bosco è lo scenario pauroso delle fiabe ma soprattutto è, nei romanzi arturiani, il luogo per eccellenza dell’avventura cavalleresca e si connotava, anche al tempo dell’Ariosto, come il luogo in cui fare incontri inaspettati e smarrirsi. La selva è il luogo-simbolo «ove la via / conviene a forza, a chi va, fallire: / chi su, chi giù, chi qua, chi là travia» [XXIV 2, 3-5]). Ariosto non conferisce, però, alla selva una simbologia morale negativa, come avviene per quella «oscura» in Dante, ma ne accentua il carattere labirintico: nella selva ariostesca la ricerca dell’uomo è pericolosamente soggetta all’arbitrio della Fortuna, che per lo più vanifica i suoi sforzi. • Il castello dei desideri All’immagine della selva rimanda la straordinaria, affascinante ideazione del palazzo di Atlante (➜ T10 ), di cui Ariosto sottolinea inequivocabilmente il ruolo di centrale metafora del poema: ne rimarca infatti il carattere labirintico, il legame con i desideri illusori dell’uomo, sedotto dall’illusione di aver trovato chi o che cosa cerca. Orlando crede di riconoscere l’amata Angelica in una donna rapita da un cavaliere, Ruggiero crede di vedere Bradamante e anche quest’ultima, a sua volta alla ricerca incessante di Ruggiero, è attirata nel castello incantato dalla magia di Atlante. Il palazzo svela facilmente la sua natura di specchio simbolico dei vani desideri degli uomini, è immagine anche troppo eloquente del loro aggirarsi confusi e sperduti nel labirinto della vita, facili prede di allettamenti ingannevoli che li portano fuori dalla strada maestra. • Il vallone della Luna Il terzo, fondamentale, luogo simbolico del poema è il piccolo vallone sulla Luna dove Astolfo ritroverà il senno di Orlando (➜ T17 ). Attraverso una lunga enumerazione, Ariosto rappresenta in esso tutto ciò che si perde

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sulla Terra e che va appunto ad accatastarsi nella piccola valle lunare. Il poeta del Furioso rovescia i temi-cardine dell’antropocentrismo umanistico, di cui rivela la sostanziale vanità, e pronuncia indirettamente anche una dura condanna dell’esperienza cortigiana. Dal lungo elenco è assente solo la follia, che non si trova sulla Luna, ma regna incontrastata sulla Terra: con questa sorta di apologo che è la sequenza lunare del Furioso, l’autore allinea l’opera a un testo importante dell’Umanesimo, ossia l’Elogio della follia di Erasmo (➜ C6 T3 ).

3 Le modalità narrative L’“inchiesta” e la visione ariostesca della vita umana Tra schema narrativo e tema L’Orlando furioso è stato definito da più parti «il poema del movimento»: effettivamente il ritmo dell’azione non ha soste e un forte dinamismo percorre tutto il libro, che raramente indugia in pause descrittive, se non per rilanciare l’azione. Non è un caso, allora, che l’elemento determinante nel promuovere le azioni del Furioso sia l’“inchiesta”, ovvero la ricerca (dal francese quête) di qualcuno, ma anche di qualcosa, come l’elmo o il cavallo Baiardo nel I canto o, in seguito, le armi di Orlando. Come si è visto dalla trama del Furioso, l’“inchiesta” è alla base dei due principali filoni narrativi del poema. Non si tratta certo di un elemento nuovo, di un’invenzione ariostesca. Nuova è, però, la particolare rilevanza che il tema-schema dell’“inchiesta” assume nel Furioso, e soprattutto la reinterpretazione che Ariosto ne fa, come del resto avviene per altri motivi ereditati dal passato: mentre nella tradizione arturiana le diverse quêtes raggiungevano la loro finalità e implicavano, come nel caso di quella del Graal, un cammino di perfezionamento spirituale del personaggio, nell’Orlando furioso per lo più l’attesa connessa all’inchiesta viene delusa e frustrata per l’intervento della Fortuna (sorte) o viene abbandonata per l’inserirsi di altre inchieste che attirano il labile interesse dell’uomo. Tutti i personaggi desiderano e ricercano qualche cosa: una donna, l’uomo amato, un elmo, una spada; ma l’inchiesta, la ricerca, risulta sempre fallimentare: nessuno ottiene mai ciò che cerca. Ancor più distante dall’Orlando furioso appare il modello della ricerca tracciato nella Commedia di Dante: l’inchiesta dantesca raggiunge alla fine l’obiettivo, in un percorso lineare, privo di ripensamenti e deviazioni. Dante realizza un difficile cammino di perfezionamento morale e conoscitivo, ponendosi alla fine di esso, nel momento di scrivere il poema, come maestro di sicure verità per il lettore, mentre nel Furioso manca completamente la dimensione trascendente e qualsiasi prospettiva provvidenziale. La Fortuna Nel Furioso non domina il disegno divino, ma l’azione della sorte imprevedibile e capricciosa. L’uomo descritto da Ariosto non combatte il destino, ma ne rimane vittima. A differenza di quanto accade ancora in Machiavelli, manca in Ariosto la fiducia nelle capacità dell’uomo di opporsi alla forza della Fortuna. La ricerca e l’interpretazione ariostesca del mondo L’emergere in primo piano del tema della ricerca e il suo carattere rigorosamente laico sembrano alludere simbolicamente alla moderna inquietudine intellettuale dell’uomo rinascimentale, L’Orlando furioso 3 261


all’abbandono del sapere e dell’etica tradizionali in favore di una sperimentazione che porterà ben presto anche alla nascita della scienza moderna. La concezione della realtà rispecchiata dal complesso delle vicende del poema è, dunque, sostanzialmente negativa: l’iniziativa individuale e la razionalità umana, così celebrate dalla cultura umanistico-rinascimentale, sono infatti costantemente messe alla prova dall’irrompere del caso, che spesso vanifica i progetti e i desideri degli individui. Per di più l’uomo insegue fantasmi illusori, è soggetto a pulsioni irrazionali che condizionano negativamente le sue azioni, limitandone la razionalità. Questa visione serpeggia in tutto il poema, ma è più evidente in alcuni episodi che assumono particolare rilevanza simbolica: è il caso del celebre episodio del palazzo di Atlante (➜ T10 ), dove tutti i cavalieri, preda di una magica fascinazione, inseguono l’oggetto del proprio desiderio senza mai poterlo raggiungere; ma soprattutto è il caso del macroepisodio della follia d’Orlando (➜ T14 ), che dà il titolo al poema e ne costituisce la principale novità rispetto alla tradizione e rispetto al modello più diretto, ovvero l’Orlando innamorato. La vita umana è dunque segnata dal miraggio di una felicità sempre irraggiungibile, quando addirittura non lo è dalla follia, cui approda la ricerca di Orlando, manifestazione estrema dell’irrazionalità che governa la vita degli individui. Se si considera il carattere elusivo o addirittura distruttivo della ricerca, il poema rovescia le ottimistiche fiducie antropocentriche proprie della cultura fino a quel momento. Un riscatto grazie al distacco ironico e al controllo formale Ma questa visione pessimistica è riscattata dal sorridente distacco ironico che aleggia nel Furioso, frutto di un equilibrio interiore faticosamente conquistato dall’autore, che implica un’accettazione della vita pur nella sua negatività: l’«energia dinamica» (Caretti), che percorre tutta l’opera e coinvolge tutti i personaggi, può allora significare la volontà dell’uomo di agire nonostante tutto, affrontando le inevitabili frustrazioni che lo attendono: una lezione di saggezza ed equilibrio tuttora attuale e che trova il suo corrispettivo formale nella capacità di dominare, secondo i canoni del classicismo, la propria materia, dandole una forma equilibrata e armonica. L’entrelacement. Varietà e simmetrie Con entrelacement (“intreccio” in francese) si intende un espediente narrativo usato nella tradizione cavalleresca che consiste nell’interrompere una vicenda per riprenderne una precedente o per narrarne un’altra, che poi a sua volta viene interrotta per ritornare a concludere un episodio precedente e così via. Legato alla trasmissione orale, serviva a tener desta l’attenzione del pubblico e per questo in genere veniva impiegato nel punto in cui «l’azione aveva una sosta o l’interesse s’era raffreddato» (Rajna). Ariosto eredita il procedimento e ne intensifica vistosamente l’uso rispetto a Boiardo e alla tradizione romanzesca, ma al solito mutandone la funzione all’interno di una più sofisticata tecnica narrativa, come vari studi recenti hanno puntualmente dimostrato. L’entrelacement dovette costituire ai suoi occhi «uno strumento privilegiato per la rappresentazione veridica della molteplicità del reale, della varietà delle azioni e degli accadimenti» (Marco Praloran), uno strumento per creare una dimensione multiprospettica attraverso la conduzione in parallelo di diverse fila narrative. La critica ha provato che al di sotto delle continue interruzioni e riprese che animano la complessa macchina narrativa del Furioso sta una precisa strategia registica, volta a istituire fra interi episodi e singole sequenze calcolate simmetrie,

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significativi parallelismi e opposizioni. La coesione del poema è assicurata inoltre, a livello microtestuale, dalla presenza, evidenziata da alcuni studi critici (come nel caso di Maria Cristina Cabani), di un fitto tessuto di richiami lessicali, ritmici, fonici a distanza. La varietà di episodi e di storie, in parte intrecciate tra di loro, ha certo a che fare con l’obiettivo di evitare la monotonia, ma soprattutto con il desiderio di dare vita a un poema “totale”, secondo un ambizioso progetto che colloca il Furioso accanto a grandi capolavori come la Commedia o il Decameron.

“Strani viaggi”: il modello spaziale del poema La “poesia dello spazio” La geografia del poema è incredibilmente vasta e leggendo l’Orlando si intuisce che Ariosto amava fantasticare sulle carte geografiche, come dice in una delle satire (➜ T3 ): si va dalla Francia alle brume dei mari del Nord, dall’Oceano Indiano all’Estremo Oriente; ma lo spazio si dilata ulteriormente (essendo un’entità essenzialmente antirealistica) verso dimensioni fantastiche: l’isola di Alcina oltre le colonne d’Ercole, gli spazi dell’Oltremondo nel viaggio di Astolfo. Lo strumento principe delle più fascinose e vertiginose escursioni ariostesche, come quelle appena indicate, è l’ippogrifo. «La poesia dello spazio», di cui ha parlato il critico Giovanni Getto, nasce in gran parte nel Furioso dai voli di questo animale. Memorabile in particolare la descrizione del volo del cavallo alato verso l’isola di Alcina (nel canto VI): l’ippogrifo si lascia indietro l’Europa e le terre conosciute fino a discendere, dopo aver varcato le colonne d’Ercole, con ampie ruote, nello spazio magico dell’isola (➜ T8 OL).

Ruggiero affronta il servo di Alcina, maiolica, 1550 ca. (Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo).

Un modello spaziale policentrico e labirintico Per quanto riguarda il modello spaziale sotteso al poema, si può dire che l’Orlando furioso sia un’opera senza “centro” (non esercita certo questo ruolo simbolico Parigi, dove pure si combatte l’epica guerra tra cristiani e Saraceni) o policentrica: i molteplici luoghi evocati sono centri solo temporanei dell’azione, a cui manca ogni principio teleologico, finalistico, nel continuo mutare delle direttrici. L’inchiesta inconcludente si traduce in un movimento circolare che non giunge mai a destinazione e ritorna sempre al punto di partenza. Questo moto è reso, nel testo, mediante formule che Ariosto utilizza spesso: «di su, di giù», «or quinci, or quindi», «di qua, di là» (Carne-Ross). La concezione dello spazio nel Furioso è prevalentemente “orizzontale” e labirintica, del tutto opposta al modello spaziale che si può individuare nella Commedia, il poema del medioevo cristiano, in cui lo spostamento del protagonista, dopo l’iniziale smarrimento nella selva, assume una direzione rigorosamente “verticale” e rettilinea, che non ammette deviazioni. Quarant’anni dopo l’Orlando furioso, nel mutato clima ideologico della Controriforma, nella Gerusalemme liberata si ripresenterà una concezione della modellizzazione spaziale fortemente connotata in senso morale: il centro è chiaramente stabilito in Gerusa-

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lemme, dove si combatterà nuovamente una vera e propria guerra santa, e ogni deviazione da essa sarà connotata come “errore” e deviazione spirituale. La selva Metafora dello spazio labirintico è sicuramente la selva, che fa da sfondo al primo canto e a molti altri episodi: uno spazio intricato in cui i sentieri si intersecano e si aggrovigliano, e dove i personaggi si muovono alla ricerca del proprio oggetto del desiderio guidati dalla volontà della Fortuna.

I personaggi e il narratore Personaggi-funzione dell’azione Noi lettori moderni tendiamo a cercare nei personaggi risvolti psicologici reali, magari per immedesimarci nelle loro vicende. Nell’Orlando furioso i personaggi mancano di spessore psicologico (ovviamente per precisa scelta e non per incapacità dell’autore) e vivono di una vita di relazione all’interno del complesso scacchiere narrativo: è anche questa la ragione per cui né Orlando, né tanto meno Angelica si possono definire protagonisti del poema. I personaggi sono utilizzati dall’autore esclusivamente in funzione dell’azione e del ritmo narrativo che rispecchia il ritmo della vita, sono mossi a piacimento dal gran “burattinaio” che è il poeta, sono in un certo senso enti “agiti” più che “agenti”. Con essi lo scrittore stabilisce un rapporto che è comunque di distacco ironico e mai di immedesimazione e rispecchiamento, anche quando collega le loro vicende alle proprie. «L’Ariosto», scrive Caretti, «non mirava a figure autonome, alla creazione di caratteri veri e propri, né in senso obiettivamente realistico né come riflesso […] della propria autobiografia. Egli intendeva piuttosto creare delle figure che, di volta in volta, riflettessero soltanto un aspetto tipico della natura umana. [...] Agiva dunque nei confronti dei personaggi con intenti riduttivi e semplificatori». Questa scelta evita che essi si rinchiudano troppo a lungo in sé stessi, bloccando il movimento narrativo e concentrando sul proprio “caso” tutta l’attenzione del lettore: attenzione che Ariosto vuole condurre sempre oltre, verso nuove avventure.

Lessico metanarrativo Tutto ciò che riguarda la metanarrazione, ossia il processo narrativo attraverso il quale l’autore interviene direttamente nel testo che ha realizzato per parlare proprio di quest’ultimo.

Gli interventi del narratore e la presenza straniante dell’ironia Come aveva già fatto Boiardo, anche Ariosto cerca di ricreare, narrando, un’impressione di oralità, come se l’Orlando fosse una sorta di “racconto recitato” davanti a un pubblico, quello della corte, a cui il narratore si rivolge spesso direttamente e che viene immaginato non tanto nell’atto di leggere quanto di ascoltare. Una finzione riconducibile alla tradizione orale della materia cavalleresca; ma naturalmente Ariosto, come autore, è abissalmente distante dall’ingenua posizione dei canterini e dallo stesso Boiardo. Innanzitutto esibisce la sua funzione registica di narratore onnisciente attraverso costanti interventi metanarrativi , che evidenziano l’utilizzazione consapevole dell’entrelacement: «Signor, far mi convien come fa il buono / sonator sopra il suo instrumento arguto (melodioso), / che spesso muta corda, e varia suono, / ricercando ora il grave, ora l’acuto. / Mentre a dir di Rinaldo attento sono, / d’Angelica gentil m’è sovenuto, / di che lasciai ch’era da lui fuggita/ e ch’avea riscontrato (incontrato) uno eremita» (VIII 29). Ma più interessanti, e indice primo della “modernità” del poema, sono i molteplici interventi ironici sulla materia narrata, che infrangono deliberatamente la finzione narrativa, introducendo una nota critico-riflessiva: ad esempio, a proposito della verginità di Angelica, che la giovane sostiene, davanti al guerriero saraceno Sacripante, di aver preservato intatta, il narratore-autore commenta: «Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore» (I 56, 1-2). Il lettore è così

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guidato ad assumere quello stesso atteggiamento di distanziamento dalla materia, dall’“involucro” cavalleresco, che caratterizza lo scrittore: Ariosto era infatti ben consapevole che una lettura “ingenua” del suo poema, cioè fondata sull’adesione acritica al piacere della lettura, avrebbe impedito di coglierne la ricchezza e soprattutto l’attualità. È quasi superfluo, dato che si tratta di un’acquisizione ormai pluridecennale della critica, sottolineare che l’ironia non si applica affatto al mondo cavalleresco in sé con l’obiettivo di svalutarlo. Per il lettore di oggi è ormai chiaro che quella cavalleresca è solo un’affascinante “veste”.

4 Le scelte stilistico-linguistiche e metriche

PER APPROFONDIRE

Un classico “leggibile” Come si è visto, nel passaggio dalla prima alla terza edizione Ariosto normalizza la fonetica, la morfologia e il lessico, conformandoli al modello del toscano letterario. L’adesione alla proposta di Bembo presumibilmente non è dettata da un’esigenza di purismo classicistico, come avviene per tanti altri scrittori del tempo, ma corrisponde alla volontà di Ariosto di sottrarre il suo poema alla sfera della “letteratura di consumo”, nobilitandone la veste linguistica, e soprattutto di inserirlo nel circuito di una comunicazione nazionale e non più solo municipale; questo va detto anche in rapporto al mutare del quadro politico italiano nello scenario internazionale, che vedeva la progressiva perdita di autonomia politica e di prestigio delle corti. D’altra parte il poeta si riserva ampia libertà di scelta, lavorando «con orecchio di poeta, non con rigore di grammatico» (Segre), e cioè seguendo più le intrinseche esigenze poetiche che quelle normative. La lingua del Furioso che esce dalla terza e ultima redazione è una lingua equilibrata, che rinuncia in genere alle punte eccessivamente auliche e a quelle troppo “basse”, ma all’occorrenza può accogliere latinismi (anche se mai per ragioni erudite) così come voci realistiche quali matto, attribuito niente meno che al paladino per eccellenza, Orlando, o calcagna, associato alla bella Angelica, eroina del poema. Una lingua ispirata alla “medietà”, che Ariosto tenacemente ricerca, come ha evidenziato l’analisi di Contini, attraverso il faticoso lavoro correttorio sul suo poema. La medietà linguistica si iscrive nella più generale medietà tonale: Ariosto non si sofferma mai a lungo su un unico tono – sia esso patetico, epico, lirico – ma tende a bilanciarlo attraverso una differente modulazione, così da realizzare quell’equilibrio che ben corrisponde alla sua visione della vita.

Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore In questa stessa prospettiva si collocano gli esordi dei vari canti, anch’essi tradizionalmente presenti nella tradizione cavalleresca e di cui Ariosto rivisita la funzione. Sono infatti spazi testuali spesso deputati proprio all’attualizzazione del poema, in cui lo scrittore riconduce la favola antica ai temi della coscienza moderna. A titolo di esempio si può ricordare l’intervento dell’autore-narratore all’inizio del canto VIII: dopo che Ruggiero, grazie all’anello magico, riesce a vedere le reali fattezze dell’incantatrice Alcina, che l’aveva ammaliato con le sue arti (VII), il poeta fa dell’oggetto una sorta di metafora della ragione che tutti gli uomini dovrebbero impiegare:

«Oh quante sono incantatrici, oh quanti / incantator tra noi, che non si sanno! [...] Chi l’annello d’Angelica, o più tosto / chi avesse quel de la ragion, potria / veder a tutti il viso, che nascosto / da finzione e d’arte non saria» (VIII, 1-2) Ma gli esordi dei canti sono anche spazi in cui Ariosto risalta in primo piano come persona, spazi autobiografici in cui garbatamente, con il tono scherzoso e autoironico che gli è proprio, riconduce la storia del poema alla propria stessa vita, come dopo il recupero del senno di Orlando da parte di Astolfo (XXXV, 1-2): «Chi salirà per me, madonna, in cielo, / a riportarne il mio perduto ingegno?».

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Interpretazioni critiche Cesare Segre La ricerca di armonia nel Furioso

Nel complesso la lingua del Furioso è una lingua armonica (ed è forse questa la più autentica “armonia” del poema), unico esempio, nella sua scioltezza colloquiale, nella più illustre tradizione letteraria italiana, di un libro che anche uno studente liceale può leggere con piacere, senza continui faticosi rimandi a note esplicative: un libro che si fa capire e amare. L’ottava d’oro Con questa tradizionale definizione si allude alla “magica” ottava del Furioso, che con la sua proverbiale fluidità sostiene il ritmo narrativo che caratterizza il capolavoro ariostesco. Ariosto adotta come metro l’ottava (otto endecasillabi che rimano secondo lo schema ABABABCC) per naturale eredità della tradizione narrativa: l’ottava si era infatti ormai da tempo affermata come forma metrica tipica del narrare lungo in versi, dai cantari popolareggianti ad autori colti, a partire dal Boccaccio del Filostrato fino al Boiardo dell’Orlando innamorato e al Pulci del Morgante. Ma anche nell’ambito metrico, come in quello linguistico, Ariosto reiventa e innova, allontanandosi da ogni schematismo e creando uno strumento perfettamente duttile e funzionale alla propria poetica narrativa: i documenti autografi rivelano, anche in questo campo, un attento lavoro di revisione dalla prima all’ultima edizione del poema. Ariosto utilizza con sorprendente sapienza tecnica, anche se con apparente naturalezza, soprattutto i due ultimi versi dell’ottava, in rima baciata; spesso i due versi che chiudono l’ottava, o l’ultimo dell’ottava, sono impiegati con funzione dinamica: introducono un fatto nuovo e/o rilanciano in avanti il ritmo narrativo. Ecco alcuni esempi (tutti tratti dal I canto):

Di sù di giù, ne l’alta selva fiera tanto girò, che venne a una riviera. (ott. 13) con prieghi invita, ed al fin toglie in groppa, e per l’orme d’Angelica galoppa. (ott. 21) Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. (ott. 32)

Talvolta i due ultimi versi sigillano l’ottava con una sentenza spesso ironica. A proposito, ad esempio, dell’accorata attestazione della propria verginità da parte di Angelica e della credulità di Sacripante, Ariosto così chiude l’ott. 56 del I canto:

Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da G. Petronio, Un libro godibilissimo in La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio, Mondadori, Milano 1995, vol. II

Nel breve passo che segue, Giuseppe Petronio sottolinea le ragioni per cui l’Orlando furioso è ancora oggi un libro di lettura agevole e piacevole, ma rileva anche che la sua apparente facilità è frutto di faticosa ricerca da parte dell’autore.

L’Orlando furioso è un libro godibilissimo; si può leggerlo, ancora oggi, a quasi cinque secoli dalla sua composizione, come un vero e proprio romanzo: storie affascinanti, un’arte consumata dell’intreccio, un’abilità rara nell’uso della suspense, cioè dell’arte di stuzzicare l’interesse del lettore, portarlo al massimo, e qui interrompere e rinviare il racconto. E inoltre uno stile di chiarezza cristallina, con il gusto della semplicità, e la capacità – naturale ma anche coltivata – di dire cose ingarbugliate con una facilità che incanta, e una lingua che ancora oggi è comprensibile anche a lettori di media cultura. Un libro dunque godibilissimo, di lettura agevole, eppure un libro difficile; difficile proprio perché in apparenza così facile. Non è un paradosso: si ricordi la pagina in cui il Castiglione elogia la «grazia» e la «sprezzatura»1, un comportamento studiato che però non lasci trasparire lo studio; così sciolto e misurato che non riveli l’impegno. È questo a distinguere il cortegiano, vero signore, dallo snob che esaspera l’eleganza fino al ridicolo, e dal cafone che faticosamente si affanna a mostrare una signorilità che non gli è congeniale. La stessa virtù Orazio2, il massimo maestro del classicismo, aveva celebrato nella scrittura; i versi grandi, aveva insegnato, sono quelli che a leggerli si pensa che ognuno li avrebbe potuti scrivere, e invece non poteva scriverli che Lui, il grande poeta. Mettere insieme versi manieristici, concettosi, ermetici3, non è difficile; difficile è scrivere, come Dante, la bocca mi baciò tutto tremante; o, come Ariosto, La verginella è simile alla rosa; oppure, parlando del senno: era come un liquor sottile e molle, atto a esalar se non si tien ben chiuso; o intonare, con orchestrata semplicità: Chi salirà per me, Madonna, in cielo, a riportarne il mio perduto ingegno? 1 si ricordi... la «sprezzatura»: Petronio fa qui riferimento a una celebre pagina del Cortegiano, fortunatissimo trattato cinquecentesco di Baldesar Castiglione, in cui si elogia come qualità del perfetto cortigiano la «sprezzatura», termine con cui Castiglione allude all’arte elegante di far apparire naturale

in un gesto, in un comportamento, ciò che è invece frutto di consapevole ricerca. 2 Orazio: uno dei maggiori poeti latini (65-8 a.C.), autore di Satire, Odi ed Epistole. 3 manieristi... ermetici: artefatti, cervellotici, oscuri.

L’Orlando furioso 3 267


Chi non ci crede ci provi! Ma è proprio la loro felice semplicità a fare difficilissimi questi versi, perché chi non ha naso e orecchie fini si inganna, li crede superficiali, e non si ferma a cercare le tante cose che essi nascondono sotto quella loro disinvolta scioltezza, così come chi non è naturalmente signore si lascia abbagliare da abiti sgargianti e da maniere artefatte, e non si rende conto delle doti naturali e dello studio che invece si nascondono dietro abiti e modi così apparentemente semplici che non si notano, e non vogliono farsi notare. Così le avventure leggendarie e fiabesche che l’Ariosto racconta nell’Orlando furioso – castelli incantati, magie di fontane e di anelli, duelli rocamboleschi, smarrimenti e fughe, innamoramenti subitanei e disinnamoramenti – sono solo la scorza dietro cui è nascosta la realtà umana di Ludovico Ariosto: le passioni, le aspirazioni, le frustrazioni sue e di tutta una età.

Comprensione e analisi

Produzione

1. Qual è la tesi sostenuta nel testo proposto dal critico Petronio? 2. Quali argomentazioni adduce il critico nel sostenere la sua tesi? 3. Nel brano ricorre più volte il termine studio e derivati: spiegane con le tue parole il significato in contesto. 4 Che cosa si nasconde, secondo Petronio, dietro le avventure che racconta Ariosto? Ti sembra che il modello dell’Orlando furioso, per struttura e tematiche, abbia tuttora una vitalità? In questo caso, in quali attuali prodotti letterari o cinematografici ti sembra di poterlo ritrovare e perché (max 30 righe)?

Ruggiero a cavallo dell’ippogrifo (particolare) in un’incisione di Gustave Doré per l’edizione illustrata dell’Orlando furioso.

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L’Orlando furioso GENERE

poema cavalleresco in ottave

PUBBLICO

• corte di Ferrara • pubblico nazionale (corti rinascimentali)

STRUTTURA/ EDIZIONI

Ariosto pubblica il poema tre volte: 1516 (40 canti); 1521 (40 canti); 1532 (46 canti)

CONTENUTO

• continuazione dell’Orlando innamorato di Boiardo • i principali nuclei narrativi sono tre: 1) la guerra tra cristiani e Saraceni 2) la follia di Orlando 3) la storia di Ruggiero e Bradamante; dall’unione dei due avrà origine la stirpe degli Estensi

TEMI

l’amore, la follia, la guerra, l’avventura, la magia, il viaggio, la sorte

TECNICHE NARRATIVE

• entrelacement: intreccio complesso di più vicende portate avanti in parallelo, che il narratore riconduce a un insieme omogeneo • effetto “suspence” nel lettore • ironia • interventi diretti del narratore con giudizi, chiarimenti e anticipazioni • motivo dell’inchiesta (quête): continua ricerca di persone o oggetti desiderati • la ricerca è quasi sempre destinata al fallimento

STILE E LINGUA

• stile medio che ha come modello Petrarca • lingua misurata e regolare

SCOPO

• lodare il cardinale Ippolito d’Este • intrattenere piacevolmente il pubblico di corte

Orlando viene rappresentato folle per amore

ELEMENTI DI NOVITÀ

abbassamento della materia cavalleresca: i cavalieri presentano le caratteristiche di persone comuni, anzi a volte vengono ridicolizzati

l’amore non rende migliori i cavalieri, ma può divenire causa di follia

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Ludovico Ariosto

T4

Un poema nuovo nasce dalla tradizione cavalleresca Orlando furioso, proemio I, 1-4

L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

AUDIOLETTURA

Nelle prime quattro ottave che costituiscono il proemio, l’autore presenta la propria opera, il cui argomento è sintetizzato nel celebre incipit (Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori). Alla proposizione del tema, segue, secondo il cliché dell’epica antica, l’invocazione (in questo caso rivolta alla donna amata) e la dedica (a Ippolito d’Este).

1 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto1, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare2, e in Francia nocquer tanto3, seguendo l’ire e i giovenil furori4 d’Agramante lor re, che si diè vanto5 di vendicar la morte di Troiano6 sopra re Carlo imperator romano7. 2 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta8 in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto9, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso10. 3 Piacciavi, generosa Erculea prole11, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro12. Quel ch’io vi debbo, posso di parole

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 canto: racconto in versi. 2 che furo… il mare: che avvennero all’epoca in cui i Mori (gli abitanti della Mauritania, per indicare gli arabi di Spagna e Africa) attraversarono il Mar d’Africa, ossia il Mediterraneo. 3 nocquer tanto: arrecarono lutti e distruzioni tanto grandi. 4 i giovenil furori: la furia giovanile. Ad Agramante, personaggio d’invenzione dell’Innamorato, il Boiardo attribuisce l’età

di ventidue anni.

5 si diè vanto: si vantò. 6 Troiano: è il padre di Agramante, ucciso da Orlando. 7 imperator romano: imperatore del Sacro Romano Impero. Carlo Magno era stato incoronato da papa Leone III nell’anno 800. 8 Dirò... detta: Racconterò allo stesso tempo di Orlando cose inaudite (nel senso di “nuove” ed “eccezionali”) sia in versi sia in prosa. 9 venne... matto: fu preso da pazzia e divenne folle. 10 se da colei… ho promesso: se colei

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che mi ha quasi fatto impazzire come Orlando, e che di giorno in giorno consuma il mio piccolo ingegno, me ne concede però a sufficienza perché io possa portare a termine l’opera promessa. Il riferimento è all’amata Alessandra Benucci. 11 generosa Erculea prole: nobile figlio di Ercole. Ariosto si sta rivolgendo al cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I, duca di Ferrara. 12 aggradir... vostro: gradire questo (poe­ ma) che vuole donarvi il vostro umile servo, il quale di più non può (darvi).


pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono13. 4 Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio14, ricordar quel Ruggier15, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio16. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensier cedino un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco17.

13 Quel ch’io… tutto vi dono: Ciò di cui vi sono debitore, posso restituirvelo in parte con le mie parole e i miei scritti (opera d’inchiostro); né mi si può accusare di concedervi poco, poiché tutto quello che posso offrire, io ve lo dono. 14 nominar... m’apparecchio: mi appresto a menzionare con lode (tessendone le lodi). 15 quel Ruggier: complemento oggetto

di ricordar, retto da Voi sentirete. Figlio di Ruggiero di Risa e di Galaciella (figlia del musulmano Agolante), Ruggiero è considerato il capostipite della famiglia d’Este. Ariosto riprende la genealogia dell’Orlando innamorato. 16 il ceppo vecchio: progenitore, capostipite. 17 L’alto valore... abbiano loco: vi farò udire il suo (di Ruggiero) grande valore e

le sue illustri imprese (chiari gesti; al maschile plurale all’uso cinquecentesco), se mi prestate orecchio; e i pensieri sublimi a cui siete abituato (riferimento, forse pure velatamente ironico, agli affari gravosi della politica del cardinale) siano un po’ accantonati, di modo che anche i miei versi possano trovare posto in mezzo a loro.

Analisi del testo Un proemio fra tradizione e innovazione Ariosto introduce l’opera ricorrendo alla formula tramandata dalla tradizione epica classica, che prevedeva la proposizione (ossia l’enunciazione in sintesi dell’argomento), l’invocazione e la dedica. Questa ripresa di un modulo classico costituisce una novità nell’ambito del poema cavalleresco, che in genere sceglieva esordi diversi, ad esempio rivolgendosi direttamente a un pubblico di immaginari uditori come fa Boiardo nell’Orlando innamorato. Come vedremo, più di un elemento differenzia il proemio ariostesco dalla tradizione epica medievale e quattro-cinquecentesca.

La proposizione del tema L’enunciazione dell’argomento, che si sviluppa per circa due ottave, è aperta dal celeberrimo verso chiastico iniziale, in cui è sintetizzata la fusione tra la materia carolingia (esposta nella parte centrale del verso: «i cavallier, l’arme») e la materia bretone (a cui fanno riferimento gli estremi del verso: «Le donne [...] gli amori»), una fusione già presente nell’Orlando innamorato. Il secondo verso riprende, più sinteticamente, il riferimento alla duplice tradizione narrativa che ritroveremo nel poema: «le cortesie, l’audaci imprese».

L’Orlando furioso 3 271


La prima ottava inquadra le vicende che saranno narrate nel contesto – più leggendariofantastico che propriamente storico – delle guerre tra cristiani e Saraceni (i Mori); più specificamente fa riferimento alla spedizione militare che condusse le truppe saracene in Francia, capitanate dal giovane re Agramante, intenzionato a vendicare l’uccisione del padre Troiano a opera di Orlando. Il tono dominante nella prima ottava è epico e solenne. La seconda ottava presenta la novità assoluta («cosa non detta in prosa mai né in rima») che il poema introduce nella tradizione narrativa: la trasformazione del paladino Orlando da saggio a folle per amor.

L’invocazione L’ultima parte della seconda ottava introduce la tradizionale invocazione. In questo caso però essa non è rivolta alle Muse o ad Apollo ma, sulla base del parallelismo tra Orlando e Ludovico in quanto entrambi innamorati, alla donna amata dal poeta, Alessandra Benucci, perché gli dia un po’ di tregua e gli lasci quel poco di ingegno necessario per terminare il poema. È facile notare rispetto alla prima ottava un mutamento di tono, un andamento più colloquiale; in questo abbassamento tonale spicca la scelta di un termine “basso”, d’uso comune, come matto per qualificare la follia di Orlando.

La dedica al cardinale Ippolito e il motivo encomiastico Nelle ultime due ottave del proemio Ariosto riconduce la composizione del poema al contesto della corte e in particolare della corte estense, di cui è evocato un protagonista, il cardinale Ippolito, designato con appellativi di tono aulico e altamente elogiativi («generosa, Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro») che tuttavia suonano forse ironici, come pure il riferimento agli alti pensier del cardinale (ott. 4, vv. 7-8) a cui il poeta contrappone la pochezza dei suoi versi. Nella terza ottava Ariosto offre dunque il poema al potente signore di cui era al servizio (si autodefinisce modestamente umil servo), ribadendo la propria fedeltà al “mestiere di poeta”, l’unico che sentiva veramente suo e in cui poteva eccellere e ricambiare così la protezione e il favore del cardinale. L’ultima ottava riprende il riferimento alla materia del poema, in chiave però propriamente encomiastica: nell’Orlando furioso si parlerà anche di Ruggiero, destinato a essere capostipite della casa d’Este.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto delle ottave (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Indica che cosa accomuna la materia dell’Orlando furioso a quella dell’Orlando innamorato e la novità che il poema di Ariosto introduce rispetto al poema di Boiardo, facendo riferimento ai versi che rispettivamente vi alludono. ANALISI 3. Il proemio del Furioso riprende la tradizionale formula epica classica: individua nel testo la proposizione, l’invocazione e la dedica. 4. Un elemento di novità del proemio è il richiamo a figure che appartengono a vario titolo all’autobiografia ariostesca. Costruisci una tabella in cui siano chiaramente indicati di quali figure si tratta, in quali punti del testo sono evocate e a che proposito. STILE 5. Evidenzia la compresenza nel proemio di modi e di un lessico aulici ed epici, con toni e lessico colloquiali e prosastici.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Nel proemio si può leggere una nota indirettamente polemica da parte di Ariosto sulla propria condizione di poeta-cortigiano che puoi ricollegare a qualche passo delle Satire che conosci. Motiva le tue osservazioni con opportuni riferimenti ai testi.

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Ludovico Ariosto

T5

Il primo canto, compendio dell’universo poetico del Furioso Orlando furioso I, 5-71

L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

AUDIOLETTURA

Il primo canto, che presentiamo quasi interamente, è stato definito non a caso un “microcosmo” dell’intero poema. Vi si condensano in modo esemplare, infatti, i temi del Furioso, in particolare l’amore e l’avventura; compaiono sulla scena alcuni dei personaggi principali come Orlando, Angelica, Rinaldo e sono già pienamente operanti gli schemi narrativi che ricorreranno nell’opera, a cominciare dall’“inchiesta”, la ricerca, principale motore di un’azione che in questo primo canto ha un ritmo particolarmente incalzante. Inoltre si affaccia sulla scena il narratore, in un ruolo che ricorrerà in tutto il lavoro: quello di regista degli eventi e loro ironico commentatore.

5 Orlando, che gran tempo innamorato fu de la bella Angelica, e per lei in India, in Media, in Tartaria1 lasciato avea infiniti ed immortal trofei2, in Ponente3 con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna4 re Carlo era attendato alla campagna5,

7 che vi fu tolta la sua donna poi: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperi ai liti eoi9 avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. Il savio imperator, ch’estinguer volse un grave incendio, fu che gli la tolse10.

6 per far al re Marsilio e al re Agramante battersi ancor del folle ardir la guancia6, d’aver condotto, l’un, d’Africa quante genti erano atte a portar spada e lancia; l’altro, d’aver spinta la Spagna inante7 a destruzion del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò quivi a punto8: ma tosto si pentì d’esservi giunto;

8 Nata pochi dì inanzi era una gara tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo11, che ambi avean per la bellezza rara d’amoroso disio l’animo caldo. Carlo, che non avea tal lite cara, che gli rendea l’aiuto lor men saldo, questa donzella, che la causa n’era, tolse, e diè in mano al duca di Bavera12;

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 Media… Tartaria: “Media” era detta la regione dell’Asia a sud del mar Caspio; la Tartaria era invece la regione a nord-ovest della Cina. 2 trofei: testimonianze di valore. 3 Ponente: occidente. 4 Lamagna: Germania.

5 era attendato alla campagna: aveva posto il suo accampamento. 6 per far… la guancia: per far sì che Agramante e Marsilio ancora una volta si pentissero amaramente (battersi… la guancia) della loro folle audacia. Marsilio è il re di Spagna, alleato di Agramante. 7 d’aver... inante: di aver istigato la Spagna. 8 quivi a punto: qui al momento opportuno. 9 dagli esperi ai liti eoi: dai paesi occi-

dentali a quelli orientali. Cioè ovunque. 10 Il savio imperator… la tolse: Fu l’imperatore saggio, Carlo, che (che, “colui che”) gliela tolse (gli la tolse: cioè Angelica a Orlando), per sedare un grave contrasto (estinguer, “spegnere”, un grave incendio) scatenato dalla bella fanciulla, com’è detto nell’ottava seguente. 11 Rinaldo: celebre paladino, figlio di Amone di Chiaramonte. 12 duca di Bavera: Namo, duca di Baviera, consigliere di Carlo.

L’Orlando furioso 3 273


9 in premio promettendola a quel d’essi, ch’in quel conflitto, in quella gran giornata, degli infideli più copia uccidessi e di sua man prestasse opra più grata13. Contrari ai voti poi furo i successi14; ch’in fuga andò la gente battezzata15, e con molti altri fu ’l duca prigione16, e restò abbandonato il padiglione17.

12 Era costui quel paladin gagliardo, figliuol d’Amon, signor di Montalbano28, a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo per strano caso uscito era di mano. Come alla donna egli drizzò lo sguardo, riconobbe, quantunque di lontano, l’angelico sembiante e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto29.

10 Dove18, poi che rimase la donzella ch’esser dovea del vincitor mercede19, inanzi al caso20 era salita in sella, e quando bisognò le spalle diede21, presaga che quel giorno esser rubella dovea Fortuna alla cristiana fede22: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.

13 La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per la folta, la più sicura e miglior via procaccia: ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia30. Di sù di giù, ne l’alta selva fiera31 tanto girò, che venne a una riviera32.

11 Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo23; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo24. Timida pastorella mai sì presta25 non volse piede inanzi a serpe crudo26, come Angelica tosto il freno torse27, che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.

14 Su la riviera Ferraù33 trovosse di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse34 un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso35, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco riavere.

13 in premio… grata: promettendola

22 presaga… fede: presagendo che quel

in premio a quello fra loro che, durante quello scontro, in quella giornata campale, avesse ucciso il numero più grande (più copia) di Saraceni e avesse compiuto le imprese più gradite. 14 Contrari… successi: Gli esiti della battaglia furono poi contrari alle speranze (ai voti, “a quelli desiderati”). 15 la gente battezzata: l’esercito dei cristiani. 16 fu ’l duca prigione: fu fatto prigioniero il duca di Baviera. 17 il padiglione: la tenda di Namo, finito prigioniero dei Mori. 18 Dove: nel padiglione. 19 mercede: premio. 20 inanzi al caso: prima della sconfitta. 21 e quando... diede: e, al momento opportuno, volse le spalle e scappò via.

giorno la Fortuna doveva essere avversa (rubella, “ribelle”) alla fede (cioè all’armata) cristiana. 23 Indosso… lo scudo: costruisci “aveva indosso la corazza” ecc. 24 più legger… mezzo ignudo: correva per la foresta più agile che il contadino mezzo nudo (dietro) al pallio rosso. Il pallio era il drappo che veniva destinato in premio ai vincitori delle corse a piedi. 25 sì presta: così rapida. 26 non volse… crudo: non ritrasse il piede davanti a un infido serpente. 27 tosto… torse: subito volse il cavallo. 28 Era costui… Montalbano: Rinaldo, alla ricerca del proprio meraviglioso cavallo Baiardo, come Ariosto ricorda nei due versi seguenti. L’episodio è raccontato nell’Innamorato (III, IV, 29).

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29 ch’all’amorose… involto: che lo teneva imprigionato nella rete d’amore.

30 né per la rara… via faccia: e non prende la via più sicura e migliore, là dove la foresta appare meno folta (rara, “rada”), ma pallida, tremante e fuori di sé, lascia che sia il cavallo a prendere la strada che vuole. 31 ne l’alta selva fiera: nella foresta fitta (alta, “profonda”) e selvaggia. 32 a una riviera: sulla riva di un fiumicello. 33 Ferraù: cavaliere saraceno spagnolo, nipote di re Marsilio; aveva ucciso in combattimento il fratello di Angelica, Argalia. 34 rimosse: allontanò, distolse. 35 ingordo e frettoloso: avido e impaziente.


15 Quanto potea più forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino, e nel viso la guata36; e la conosce subito ch’arriva37, ben che di timor pallida e turbata, e sien più dì che non n’udì novella38, che senza dubbio ell’è Angelica bella.

18 Poi che s’affaticar gran pezzo47 invano i dui guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto48; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto49, sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco50.

16 E perché era cortese, e n’avea forse non men dei dui cugini39 il petto caldo40, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Più volte s’eran già non pur veduti, m’al paragon de l’arme conosciuti41.

19 Disse al pagan: – Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso51: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol52 t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso53, non però tua la bella donna fia54; che, mentre noi tardiam, se ne va via.

17 Cominciar quivi una crudel battaglia, come a piè si trovar, coi brandi ignudi42: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi43. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia44, bisogna al palafren che ’l passo studi45; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna46.

20 Quanto fia55 meglio, amandola tu ancora56, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora57, prima che più lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate, allora di ch’esser de’ si provi con la spada58: non so altrimenti, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno. –

36 guata: guarda. 37 la conosce… ch’arriva: la riconosce non appena arriva.

38 e sien… novella: benché (ben che, v. 6) siano molti giorni, non se ne sapeva più nulla. 39 dei dui cugini: Orlando e Rinaldo. 40 il petto caldo: il cuore infiammato (d’amore). 41 Più volte… conosciuti: Già più di una volta si erano non solo incontrati, ma si erano anche fronteggiati in combattimento (al paragon de l’arme). 42 coi brandi ignudi: con le spade sguainate. 43 non che le piastre… gl’incudi: ai loro colpi non avrebbero retto non solo le lamine di cui era fatta l’armatura, e la sottile

maglia di filo di ferro (che i cavalieri indossavano sotto), ma addirittura nemmeno le incudini. 44 l’un con l’altro si travaglia: sono impegnati l’un con l’altro. 45 bisogna… studi: occorre che il cavallo affretti il passo. 46 che quanto... alla campagna: perché con tutta la forza che ha per spronarlo (letteralmente “quanto può muovere i calcagni”), Angelica (colei) lo spinge verso la selva e la campagna. 47 gran pezzo: per lungo tempo. 48 quando… dotto: dal momento che l’uno non era meno valente dell’altro nel maneggio delle armi, né meno esperto. 49 fu primiero… motto: fu Rinaldo per primo a rivolgere la parola a Ferraù.

50 non ritrova loco: non trova pace. 51 Me sol… ancora offeso: Tu crederai di aver danneggiato me soltanto, eppure con me hai recato danno anche a te stesso. 52 i fulgenti rai del nuovo sol: la perifrasi indica gli occhi della bella Angelica. 53 quando... preso: anche nel caso che tu mi abbia ucciso o fatto prigioniero. 54 tua... fia: sarà tua Angelica. 55 fia: sarebbe. 56 amandola tu ancora: poiché anche tu l’ami. 57 ritenerla... dimora: trattenerla e farla fermare. 58 Come l’avremo… con la spada: Quando Angelica sarà in mano nostra, senza poter fuggire, allora decideremo di chi di noi debba essere, con un duello.

L’Orlando furioso 3 275


21 Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita la tenzone; e tal tregua tra lor subito nacque, sì l’odio e l’ira va in oblivione, che ’l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone59: con preghi invita, ed al fin toglie in groppa60, e per l’orme61 d’Angelica galoppa.

24 Pur si ritrova ancor su la rivera, là dove l’elmo gli cascò ne l’onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde: ma quello era sì fitto68 ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l’abbia.

22 Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi62, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi63; e pur per selve oscure e calli obliqui64 insieme van senza sospetto65 aversi. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva.

25 Con un gran ramo d’albero rimondo69, di ch’avea fatto una pertica lunga, tenta il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l’indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d’aspetto fiero.

23 E come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenza alcuna apparia in amendue l’orma novella66), si messero ad arbitrio di fortuna, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraù molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse67.

26 Era, fuor che la testa, tutto armato, ed avea un elmo ne la destra mano: avea il medesimo elmo che cercato da Ferraù fu lungamente invano. A Ferraù parlò come adirato, e disse: – Ah mancator di fé, marano70! perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi71, che render già gran tempo mi dovevi72?

59 tal tregua… figliuol d’Amone: fu subito stretta una tal tregua, e furono così presto dimenticati odio e rabbia, che Ferraù, allontanandosi dalle fresche acque del fiume, non volle lasciare a piedi Rinaldo. 60 toglie in groppa: fa montare in sella. 61 per l’orme: dietro alle orme, all’inseguimento. 62 eran di fé diversi: erano diversi per fede religiosa. 63 si sentian… anco dolersi: tutto il loro corpo era ancora dolorante per i colpi duri e spietati che si erano inferti l’un l’altro. 64 calli obliqui: sentieri tortuosi.

65 senza sospetto: senza temere l’uno

70 marano: con questa parola, che lette-

dell’altro. 66 come… novella: dal momento che non sapevano per quale dei due sentieri fosse fuggita la fanciulla, poiché le orme apparivano ugualmente fresche (orma novella) da una parte come dall’altra. 67 Pel bosco… onde si tolse: Ferraù vagò a lungo nel bosco, finché non si ritrovò allo stesso punto da cui era partito (onde si tolse), cioè al fiume. 68 fitto: conficcato. 69 rimondo: senza foglie (“pulito” dalle foglie).

ralmente significa “porco”, in Spagna si indicavano gli ebrei e i mori convertitisi al cristianesimo per opportunità. In senso lato indica il traditore. 71 t’aggrevi: ti dai pena. 72 mi dovevi: come verrà spiegato nell’ottava successiva, il cavaliere che si sta rivolgendo a Ferraù è Argalia, fratello di Angelica; dopo averlo colpito a morte, Ferraù gli aveva promesso di gettare nel fiume entro quattro giorni l’elmo, ma non era stato di parola.

276 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto


27 Ricordati, pagan, quando uccidesti d’Angelica il fratel (che son quell’io), dietro all’altr’arme tu mi promettesti gittar fra pochi dì l’elmo nel rio. Or se Fortuna (quel che non volesti far tu) pone ad effetto73 il voler mio, non ti turbare; e se turbar ti déi, turbati che di fé mancato sei. 28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino, trovane un altro, ed abbil74 con più onore; un tal ne porta Orlando paladino, un tal Rinaldo, e forse anco migliore: l’un fu d’Almonte75, e l’altro di Mambrino76: acquista un di quei dui col tuo valore; e questo, ch’hai già di lasciarmi detto77, farai bene a lasciarmi con effetto78. – 29 All’apparir che fece all’improvviso de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi, e scolorossi al Saracino il viso; la voce, ch’era per uscir, fermossi79. Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso quivi avea già (che l’Argalia nomossi80) la rotta fede così improverarse81, di scorno82 e d’ira dentro e di fuor arse. 30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ’l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse,

73 pone ad effetto: realizza. 74 abbil: abbilo, conservalo. 75 Almonte: fratello del re Troiano, era stato ucciso da Orlando in Aspromonte.

76 Mambrino: re pagano ucciso da Rinaldo.

77 ch’hai già di lasciarmi detto: che hai già promesso di lasciarmi. 78 con effetto: effettivamente. 79 arricciossi... fermossi: si arricciò... impallidì... si fermò.

che giurò per la vita di Lanfusa83 non voler mai ch’altro elmo lo coprisse, se non quel buono84 che già in Aspramonte trasse del capo Orlando al fiero Almonte. 31 E servò meglio questo giuramento, che non avea quell’altro fatto prima. Quindi si parte tanto malcontento, che molti giorni poi si rode e lima. Sol di cercare è il paladino intento85 di qua di là, dove trovarlo stima. Altra ventura al buon Rinaldo accade, che da costui tenea diverse strade86. 32 Non molto va Rinaldo, che si vede saltare inanzi il suo destrier feroce87: – Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! che l’esser senza te troppo mi nuoce. – Per questo88 il destrier sordo, a lui non riede89, anzi più se ne va sempre veloce. Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. 33 Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi90 e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi91; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

80 che l’Argalia nomossi: questo, Argalia, era il suo nome. 81 la rotta... improverarse: rinfacciargli così la promessa non mantenuta. 82 scorno: vergogna. 83 Lanfusa: la madre di Ferraù. 84 buono: prodigioso. 85 Sol di... intento: (Ferraù) È tutto intento a cercare il paladino (Orlando). 86 Altra… strade: Un’altra avventura accade al valente (buon) Rinaldo, che percorreva una strada diversa da quella di costui (cioè Ferraù).

87 feroce: focoso. 88 Per questo: Nonostante queste parole. 89 riede: ritorna. 90 ermi: solitari. 91 Il mover... viaggi: Il movimento (e il rumore) che sentiva delle fronde e della vegetazione (verzure) di cerri, olmi e faggi, generando spaventi improvvisi (subite), le aveva fatto prendere percorsi inusitati (strani viaggi).

L’Orlando furioso 3 277


34 Qual pargoletta o damma o capriuola, che tra le fronde del natio boschetto alla madre veduta abbia la gola stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto92, di selva in selva dal crudel s’invola93, e di paura trema e di sospetto: ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca.

37 Ecco non lungi un bel cespuglio vede di prun fioriti e di vermiglie rose, che de le liquide onde al specchio siede99, chiuso dal sol100 fra l’alte querce ombrose; così voto nel mezzo, che concede fresca stanza fra l’ombre più nascose: e la foglia coi rami in modo è mista, che ’l sol non v’entra, non che minor vista101.

35 Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno s’andò aggirando, e non sapeva dove. Trovossi al fine in un boschetto adorno94, che lievemente la fresca aura muove. Duo chiari rivi, mormorando intorno, sempre l’erbe vi fan tenere e nuove; e rendea ad ascoltar dolce concento, rotto tra picciol sassi, il correr lento95.

38 Dentro letto vi fan tenere erbette, ch’invitano a posar chi s’appresenta102. La bella donna in mezzo a quel si mette, ivi si corca ed ivi s’addormenta. Ma non per lungo spazio così stette, che un calpestio le par che venir senta: cheta103 si leva e appresso alla riviera vede ch’armato un cavallier giunt’era.

36 Quivi parendo a lei d’esser sicura e lontana a96 Rinaldo mille miglia, da la via stanca e da l’estiva arsura, di riposare alquanto si consiglia97: tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura98 andare il palafren senza la briglia; e quel va errando intorno alle chiare onde, che di fresca erba avean piene le sponde.

39 Se gli è amico o nemico non comprende: tema e speranza il dubbio cor le scuote104; e di quella aventura il fine attende, né pur d’un sol sospir l’aria percuote105. Il cavalliero in riva al fiume scende sopra l’un braccio a riposar le gote106; e in un suo gran pensier tanto penètra, che par cangiato in insensibil pietra107.

92 Qual pargoletta… o ’l petto: Come una cucciola o di daino (damma) o di capriolo, che nel boschetto dove è nata abbia visto la madre azzannata alla gola dal ghepardo, o (abbia visto) squarciarle il ventre o il petto. 93 dal crudel s’invola: fugge dalla bestia feroce, cioè il ghepardo. Più sotto empia fera sta per “belva spietata”. 94 adorno: leggiadro, grazioso. 95 rendea… il correr lento: il lento scorrere dei due ruscelli che passavano fra piccole rocce produceva un suono armonioso (dolce concento) per l’orecchio che ascoltava.

96 a: da. 97 da la via... si consiglia: stanca per la

104 tema... le scuote: il cuore dubbioso è

strada e per la calura estiva decide (si consiglia) di riposare un poco. 98 pastura: pascolo. 99 de le liquide… siede: si specchia nelle limpide acque del ruscello. 100 chiuso dal sol: coperto dal sole. 101 la foglia… minor vista: le foglie sono talmente intrecciate coi rami che non vi passa il sole, nonché lo sguardo (minor vista, “occhio meno penetrante”). 102 s’appresenta: si avvicini. 103 cheta: in silenzio.

105 né pur… percuote: e non si lascia

278 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

combattuto fra timore e speranza. sfuggire un solo respiro, per paura d’essere scoperta. 106 sopra... le gote: a posare la guancia (le gote) a una mano. 107 e in un suo gran pensier… insensibil pietra: ed è talmente assorto in un suo profondo pensiero, che sembra essere trasformato in pietra, incapace di avvertire alcunché.


40 Pensoso più d’un’ora a capo basso stette, Signore108, il cavallier dolente; poi cominciò con suono afflitto e lasso a lamentarsi sì soavemente, ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso, una tigre crudel fatta clemente. Sospirando piangea, tal ch’un ruscello parean le guance, e ’l petto un Mongibello109.

43 Ma non sì tosto dal materno stelo rimossa viene e dal suo ceppo verde, che quanto avea dagli uomini e dal cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che ’l fior, di che più zelo che de’ begli occhi e de la vita aver de’, lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti perde nel cor di tutti gli altri amanti114.

41 – Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci ed ardi, e causi il duol che sempre il rode e lima110, che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, e ch’altri a côrre111 il frutto è andato prima? a pena avuto io n’ho parole e sguardi, ed altri n’ha tutta la spoglia opima112. Se non ne tocca a me frutto né fiore, perché affligger per lei mi vuo’ più il core?

44 Sia vile agli altri, e da quel solo amata a cui di sé fece sì larga copia115. Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia116. Dunque esser può che non mi sia più grata?117 dunque io posso lasciar mia vita propia? Ah più tosto oggi manchino i dì miei118, ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –

42 La verginella è simile alla rosa, ch’in bel giardin su la nativa spina mentre sola e sicura si riposa, né gregge né pastor se le avicina; l’aura soave e l’alba rugiadosa, l’acqua, la terra al suo favor s’inchina: gioveni vaghi113 e donne inamorate amano averne e seni e tempie ornate.

45 Se mi domanda alcun chi costui sia, che versa sopra il rio lacrime tante, io dirò ch’egli è il re di Circassia, quel d’amor travagliato Sacripante119; io dirò ancor, che di sua pena ria sia prima e sola causa essere amante120, e pur121 un degli amanti di costei: e ben riconosciuto fu da lei.

108 Signore: il poeta si rivolge al dedicatario della sua opera, il cardinale Ippolito d’Este. 109 Mongibello: l’Etna. Il petto del cavaliere scosso dai sospiri è simile a un vulcano. 110 Pensier… e lima: Diceva il cavaliere: «O pensiero che mi agghiacci il cuore e poi lo fai bruciare, e sei causa di quel dolore che lo tormenta e consuma in continuazione». 111 côrre: cogliere. 112 a pena avuto io… spoglia opima: io ne ho avuto a malapena qualche parola e pochi sguardi, mentre qualcun altro

ha potuto goder di tutto quanto il ricco bottino. 113 vaghi: innamorati, presi dal desiderio. 114 La vergine… amanti: è la seconda parte della similitudine, nella quale la vergine, che permette a qualcuno di cogliere quel fiore (la verginità), del quale dovrebbe avere maggior cura anche degli occhi e della propria stessa vita, dinanzi a tutti gli altri che l’amano perde il valore che prima aveva. 115 Sia vile... larga copia: Sia disprezzata dagli altri e amata solo da colui a cui fece dono così generoso di sé. 116 inopia: mancanza, privazione.

117 Dunque… grata?: E così potrebbe mai avvenire che lei non mi piaccia più? 118 manchino i dì miei: finiscano i miei giorni, arrivi la morte. 119 Sacripante: il re di Circassia, una regione del Caucaso; aveva portato aiuto ad Angelica, assediata in Albracca da Agricane, re dei Tartari. Era già comparso come personaggio nell’Orlando innamorato del Boiardo. 120 io dirò… amante: io dirò ancora che prima e sola causa del suo crudele tormento (pena ria) sia l’essere innamorato. 121 pur: soprattutto, in particolar modo.

L’Orlando furioso 3 279


46 Appresso ove il sol cade, per suo amore venuto era dal capo d’Oriente122; che seppe in India con suo gran dolore, come ella Orlando sequitò in Ponente123: poi seppe in Francia che l’imperatore124 sequestrata l’avea da l’altra gente, per darla all’un de’ duo che contra il Moro più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro125.

49 Con molta attenzion la bella donna al pianto, alle parole, al modo133 attende134 di colui ch’in amarla non assonna135; né questo è il primo dì ch’ella l’intende: ma dura e fredda più d’una colonna, ad averne pietà non però scende, come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno.

47 Stato era in campo, e inteso avea di quella rotta crudel126 che dianzi ebbe re Carlo: cercò vestigio127 d’Angelica bella, né potuto avea ancora ritrovarlo. Questa è dunque la trista e ria novella che d’amorosa doglia fa penarlo128, affligger, lamentare e dir parole che di pietà potrian fermare il sole.

50 Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola le fa pensar di tor136 costui per guida; che chi ne l’acqua sta fin alla gola ben è ostinato se mercé137 non grida. Se questa occasione or se l’invola138, non troverà mai più scorta sì fida139; ch’a lunga prova conosciuto inante s’avea quel re fedel sopra ogni amante140.

48 Mentre costui così s’affligge e duole, e fa degli occhi suoi tepida fonte129, e dice queste e molte altre parole, che non mi par bisogno esser racconte130; l’aventurosa sua fortuna vuole ch’alle orecchie d’Angelica sian conte131: e così quel ne viene a un’ora, a un punto, ch’in mille anni o mai più non è raggiunto132.

51 Ma non però disegna de l’affanno che lo distrugge alleggierir chi l’ama141, e ristorar d’ogni passato danno con quel piacer ch’ogni amator più brama: ma alcuna finzione, alcuno inganno di tenerlo in speranza ordisce e trama142; tanto ch’a143 quel bisogno se ne serva, poi torni all’uso suo144 dura e proterva.

122 Appresso… d’Oriente: Dall’Estremo

129 fa… tepida fonte: fa scendere calde

Oriente era venuto, per amore, fino a Occidente (cioè fino alle terre dove il sole tramonta). 123 che seppe… in Ponente: dacché aveva saputo, in India, con gran dolore, che ella aveva seguito (sequitò, “seguì”) Orlando a Ponente (Occidente). 124 l’imperatore: Carlo Magno. 125 i Gigli d’oro: campeggiano nello stemma dei reali di Francia. 126 rotta crudel: grave sconfitta. 127 vestigio: tracce. 128 Questa... penarlo: Questa è la triste e dolorosa notizia che lo fa patire per pene d’amore.

lacrime dagli occhi. 130 racconte: narrate. 131 sian conte: giungano. 132 così quel... è raggiunto: così accade in un momento quel che non può accadere in mille anni o mai. 133 modo: atteggiamento. 134 attende: presta attenzione. 135 non assonna: non smette, non si stanca. 136 tor: prendere. 137 mercé: aiuto. 138 se l’invola: si lascia scappare.

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139 sì fida: così fidata. 140 ch’a lunga... amante: perché, per averne avuto una serie di prove, aveva sperimentato in precedenza (inante) che quel re era fedele più di ogni altro (suo) innamorato. 141 Ma non però… chi l’ama: Ma non ha intenzione di sollevare colui che l’ama da quel tormento che lo consuma. 142 alcuna... trama: ordisce e progetta una finzione, un inganno con cui tenere accesa la sua speranza. 143 tanto ch’a: finché per. 144 all’uso suo: come suo solito.


52 E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco fa di sé bella ed improvvisa mostra, come di selva o fuor d’ombroso speco Diana in scena o Citerea si mostra145; e dice all’apparir: – Pace sia teco; teco146 difenda Dio la fama nostra, e non comporti147, contra ogni ragione, ch’abbi di me sì falsa opinione. –

55 Ella gli rende conto pienamente156 dal giorno che mandato fu da lei a domandar soccorso in Oriente al re de’ Sericani e Nabatei157; e come Orlando la guardò158 sovente da morte, da disnor, da casi rei: e che ’l fior virginal così avea salvo, come se lo portò del materno alvo159.

53 Non mai con tanto gaudio o stupor tanto levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, ch’avea per morto sospirato e pianto, poi che senza esso udì tornar le squadre148; con quanto gaudio il Saracin, con quanto stupor l’alta presenza149 e le leggiadre maniere, e il vero angelico sembiante150, improviso apparir si vide inante.

56 Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore160; ma parve facilmente a lui possibile, ch’era perduto in via più grave errore. Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, e l’invisibil fa vedere Amore. Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole.

54 Pieno di dolce e d’amoroso affetto, alla sua donna, alla sua diva151 corse, che con le braccia al collo il tenne stretto, quel ch’al Catai152 non avria fatto forse. Al patrio regno, al suo natio ricetto153, seco avendo costui, l’animo torse154: subito in lei s’avviva la speranza di tosto riveder sua ricca stanza155.

57 – Se mal si seppe il cavallier d’Anglante pigliar per sua sciocchezza il tempo buono161, il danno se ne avrà; che da qui inante nol chiamerà Fortuna a sì gran dono162 (tra sé tacito parla Sacripante): ma io per imitarlo già non sono, che lasci tanto ben che m’è concesso, e ch’a doler poi m’abbia di me stesso163.

145 come di selva... si mostra: come Diana (dea della caccia) entra in scena o si mostra Citerea (Venere, nata dalla schiuma del mare presso l’isola di Citera) nel bosco o fuori da un antro ombroso (speco, “grotta”). 146 teco: davanti a te. 147 non comporti: non permetta. 148 le squadre: gli eserciti di soldati. 149 l’alta presenza: la nobile figura. 150 sembiante: aspetto. 151 diva: dea. 152 al Catai: in Cina, nella sua patria. Ariosto parla di lei come di una “principessa dell’India”.

153 ricetto: rifugio. 154 l’animo torse: rivolse il pensiero. 155 stanza: dimora. 156 gli rende conto pienamente: gli racconta nei dettagli (ciò che gli è accaduto). 157 Sericani e Nabatei: popoli d’Oriente (della Cina del Nord e arabi), entrambi governati dal re Gradasso. 158 la guardò: la difese. 159 alvo: grembo. 160 a chi... signore: a chi fosse padrone di sé stesso. 161 Se mal si seppe... il tempo buono: Se Orlando (il cavallier d’Anglante) per la sua

ingenuità non ha saputo cogliere la buona occasione. 162 da qui inante... gran dono: d’ora in avanti la Fortuna non gli riserverà più un dono tanto prezioso. 163 ma io per... stesso: io non intendo certo fare come lui, da lasciarmi sfuggire un bene così grande come quello che mi è offerto, e poi rimproverare me stesso (di aver perso l’occasione).

L’Orlando furioso 3 281


58 Corrò la fresca e matutina rosa, che, tardando, stagion perder potria164. So ben ch’a donna non si può far cosa che più soave e più piacevol sia, ancor che se ne mostri disdegnosa165, e talor mesta e flebil166 se ne stia: non starò per repulsa o finto sdegno, ch’io non adombri e incarni il mio disegno167. –

61 Come è più presso, lo sfida a battaglia; che crede ben fargli votar l’arcione172. Quel che di lui non stimo già che vaglia un grano meno, e ne fa paragone173, l’orgogliose minacce a mezzo taglia174, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone. Sacripante ritorna con tempesta175, e corronsi a ferir testa per testa176.

59 Così dice egli; e mentre s’apparecchia al dolce assalto, un gran rumor che suona dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia, sì che mal grado168 l’impresa abbandona: e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia di portar sempre armata la persona), viene al destriero e gli ripon la briglia, rimonta in sella e la sua lancia piglia.

62 Non si vanno i leoni o i tori in salto177 a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto, che parimente si passar gli scudi178. Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi179; e ben giovò che fur buoni e perfetti gli osberghi180 sì, che lor salvaro i petti.

60 Ecco pel bosco un cavallier venire, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero: candido come nieve è il suo vestire, un bianco pennoncello169 ha per cimiero. Re Sacripante, che non può patire che quel con l’importuno suo sentiero170 gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea, con vista il guarda disdegnosa e rea171.

63 Già non fero i cavalli un correr torto181, anzi cozzaro a guisa di montoni: quel del guerrier pagan morì di corto182, ch’era vivendo in numero de’ buoni183; quell’altro cadde ancor, ma fu risorto tosto ch’al fianco si sentì gli sproni184. Quel del re saracin restò disteso adosso al suo signor con tutto il peso.

164 Corrò… potria: Coglierò la rosa fresca, nata al mattino che, se tardassi (a farlo), potrebbe perdere la sua freschezza. 165 ancor che… disdegnosa: benché si mostri sprezzante. 166 flebil: lamentosa, piagnucolosa. 167 non starò... mio disegno: non mi fermerò, per un rifiuto o uno sdegno simulato, dall’intraprendere e realizzare il mio proposito. 168 mal grado: suo malgrado, contro la sua volontà. 169 pennoncello: pennacchio. 170 sentiero: passaggio.

171 con vista... rea: lo fissa con sguardo (vista) sprezzante e ostile. 172 fargli votar l’arcione: farlo cadere da cavallo. 173 Quel che... ne fa paragone: Quello (quell’altro cavaliere) che non credo che valga neppure una briciola meno di lui, e ne dà prova con le armi. 174 a mezzo taglia: interrompe a metà. 175 con tempesta: tempestosamente, con impeto furioso. 176 testa per testa: fronte a fronte, frontalmente. 177 in salto: in amore.

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178 parimente... gli scudi: allo stesso modo si trapassarono l’un l’altro gli scudi. 179 poggi ignudi: colline senza alberi e arbusti. 180 osberghi: corazze. 181 non fero… torto: i cavalli non si schivarono l’un l’altro (letteralmente “non corsero in modo tortuoso”). 182 di corto: sul colpo. 183 in numero de’ buoni: tra i migliori destrieri che ci fossero. 184 ma fu risorto… gli sproni: ma si rialzò subito, non appena avvertì gli sproni pungergli i fianchi.


64 L’incognito campion che restò ritto, e vide l’altro col cavallo in terra, stimando avere assai di quel conflitto185, non si curò di rinovar la guerra186; ma dove per la selva è il camin dritto, correndo a tutta briglia si disserra187; e prima che di briga esca188 il pagano, un miglio o poco meno è già lontano.

67 – Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca! che del cader non è la colpa vostra, ma del cavallo, a cui riposo ed esca meglio si convenia che nuova giostra197. Né perciò quel guerrier sua gloria accresca; che d’esser stato il perditor dimostra: così, per quel ch’io me ne sappia, stimo, quando198 a lasciare il campo è stato primo. –

65 Qual istordito e stupido aratore189, poi ch’è passato il fulmine, si leva di là dove l’altissimo fragore appresso ai morti buoi steso l’aveva; che mira senza fronde e senza onore190 il pin che di lontan veder soleva: tal si levò il pagano a piè rimaso, Angelica presente al duro caso191.

68 Mentre costei conforta il Saracino, ecco col corno e con la tasca199 al fianco, galoppando venir sopra un ronzino200 un messagger che parea afflitto e stanco; che come a Sacripante fu vicino, gli domandò se con un scudo bianco e con un bianco pennoncello in testa vide un guerrier passar per la foresta.

66 Sospira e geme, non perché l’annoi192 che piede o braccio s’abbi rotto o mosso, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi193 né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più194, ch’oltre il cader, sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso. Muto restava195, mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella196.

69 Rispose Sacripante: – Come vedi, m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora; e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi, fa che per nome io lo conosca ancora201. – Ed egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi io ti satisfarò senza dimora202: tu dei saper che ti levò di sella l’alto valor d’una gentil donzella.

185 stimando… conflitto: ritenendo di aver ottenuto abbastanza da quello scontro. 186 rinovar la guerra: rinnovare l’assalto. 187 si disserra: si slancia. 188 di briga esca: si tolga dall’impaccio. 189 Qual... aratore: Come un contadino stordito e sbigottito. 190 senza onore: l’ornamento dei rami e del fogliame (in riferimento al pin al v. 6, che è il complemento oggetto di mira).

191 Angelica... caso: mentre Angelica assiste alla sfortunata vicenda. 192 l’annoi: lo addolori, gli rincresca. 193 a’ dì suoi: in tutta la sua vita. 194 e più: e in più, come se non bastasse. 195 restava: sarebbe restato. 196 favella: parola. 197 a cui... giostra: per cui sarebbe stato meglio riposarsi e mangiare (esca, “cibo”) che affrontare un nuovo duello. 198 quando: dal momento che.

199 tasca: sacca (per i dispacci). 200 ronzino: è un cavallo da trasporto. Il destriero, invece, è da torneo o combattimento e il palafreno da viaggio. 201 ancora: anche. 202 senza dimora: senza indugio.

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70 Ella è gagliarda ed è più bella molto; né il suo famoso nome anco t’ascondo: fu Bradamante quella che t’ha tolto quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. – Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto il Saracin203 lasciò poco giocondo204, che non sa che si dica o che si faccia, tutto avvampato di vergogna in faccia. 203 il Saracin: complemento oggetto di lasciò (soggetto è il messaggero). 204 poco giocondo: poco contento. L’e-

71 Poi che gran pezzo al caso intervenuto205 ebbe pensato invano, e finalmente si trovò da una femina abbattuto, che pensandovi più, più dolor sente; montò l’altro destrier, tacito e muto: e senza far parola, chetamente tolse Angelica in groppa, e differilla a più lieto uso, a stanza più tranquilla206.

spressione è ovviamente ironica.

205 intervenuto: che gli era accaduto. 206 tolse... tranquilla: fece salire Angelica

in sella e ne rimandò la conquista (differilla) a un momento più felice, in un luogo più tranquillo.

Analisi del testo La struttura Il canto si sviluppa per segmenti, secondo una struttura lineare che permette di distinguerne facilmente le diverse parti. • Antefatto (ott. 5-9): prima di dare il via all’azione, Ariosto presenta velocemente la sequenza di fatti che hanno generato la situazione in cui si trova Angelica, il primo personaggio che vediamo agire sulla scena del poema. • Narrazione (ott. 10-71): si entra nel vivo della vicenda, con l’immagine di Angelica in fuga attraverso un bosco. Da questo primo momento si dipanano tutte le vicende parallele che compongono il tessuto del primo canto, e che proseguiranno poi intrecciandosi variamente nei successivi. Vediamole in particolare: 1. Angelica fugge da Rinaldo e s’imbatte in Ferraù (ott. 11-15); 2. combattimento e successiva tregua fra Rinaldo e Ferraù (ott. 16-22); 3. Ferraù, incamminatosi per il bosco alla ricerca di Angelica fuggiasca, si ritrova al punto di partenza, sulle rive del ruscello dove aveva perduto l’elmo; lì gli appare il fantasma di Argalia (ott. 23-31); 4. Rinaldo, anch’egli impegnato nell’inseguimento di Angelica, s’imbatte nel suo destriero Baiardo (ott. 31-32); 5. Angelica in fuga trova rifugio in un boschetto adorno, dove sopraggiunge Sacripante; la fanciulla sente, non vista, i lamenti del guerriero e pensa di poter ottenere da lui un aiuto; da parte sua, anche Sacripante ha in mente di approfittare della situazione («Corrò la fresca e matutina rosa») per ottenere quello che brama (ott. 33-59); 6. arriva un misterioso cavaliere, che affronta Sacripante e lo disarciona, «qual istordito e stupido aratore»; per sua massima vergogna, Angelica lo soccorre e lo consola (ott. 60-67); 7. arriva a cavallo d’un ronzino lo scudiero dell’incognito campion, il quale rivela che quel misterioso personaggio altri non è che la bella e intrepida Bradamante: Sacripante è stato battuto da una gentil donzella. Il guerriero pagano, mortificato, prende in groppa al suo cavallo Angelica e rimanda ad altro momento la conquista della fanciulla (ott. 68-71).

Un geniale compendio dell’universo del Furioso In questo primo canto del Furioso Ariosto ha voluto presentare ai suoi lettori quello che potremmo definire, con espressione manzoniana, “il sugo” di tutta quanta l’opera, dal punto di vista sia del contenuto sia dello stile e delle tecniche narrative. Leggendo questo canto d’esordio ci troviamo immediatamente immersi in quella particolare atmosfera fantastica e lieve di cui è permeato l’intero poema, oltre che nel rapido ritmo narrativo che ci trasporta da una scena all’altra e ci permette di incontrare alcuni tra i suoi personaggi più importanti, come in una specie di carrellata cinematografica. Vediamo i principali aspetti che emergono in questo felicissimo “compendio”. • L’impiego esasperato dell’entrelacement Nel primo canto Ariosto sembra voler dare una dimostrazione esemplare del procedimento narrativo che dominerà la narrazione del Furioso: l’entrelacement. Le avventure di un personaggio a un certo punto si interrompono in modo

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brusco e inaspettato, per lasciar spazio a quelle di un secondo personaggio, che a loro volta si intersecheranno con quelle di un terzo, per poi interrompersi ed essere sostituite e così via. Le interruzioni possono aver luogo o per un intervento esterno da parte del narratore, che decide di spostare il riflettore da un personaggio a un altro («ma seguitiamo Angelica che fugge…», ott. 32); o per un fattore interno al racconto stesso: incontri casuali, imprevisti, colpi di scena. Il caso, con l’incontrastabile potere che esercita sulla vita dell’uomo, è infatti uno dei motivi più significativi del poema, e in questo primo canto lo si può vedere assai bene: l’azione procede grazie all’energia incontrollabile della sorte, che domina e determina tutti i movimenti dei personaggi, quasi come se fossero pedine su di una scacchiera. • La ricerca e l’attesa delusa Il principale motore di tutto quanto il movimento narrativo, come abbiamo detto, è la ricerca (la quête della narrativa bretone), una ricerca il cui appagamento viene immancabilmente differito. Tutti, in questo canto così come nell’intero poema, cercano qualcosa: Angelica il ritorno a casa, Ferraù l’elmo caduto nel ruscello, Rinaldo il suo destriero Baiardo... Ma, tranne Angelica, le cui azioni sono tutte mirate con opportunistica tenacia al raggiungimento del primo scopo (ritornare in patria), nessun altro fra i personaggi è costante nel perseguire il proprio oggetto di desiderio: tutti, prima o poi, si fanno distrarre, cambiano idea, ritornano sui propri passi o si scoraggiano. E, dopo tanto movimento, alla fine del canto nessuno sarà riuscito a ottenere quello che cercava. Questo inconcludente affannarsi dei personaggi diventa metafora di una visione della vita velata dal pessimismo, sia pur temperato dall’ironia. L’uomo, sembrerebbe suggerire l’Ariosto fin da questo primo canto, consuma i suoi giorni nell’inseguimento di qualcosa che non potrà mai raggiungere e magari perde quel poco che la sorte avara e beffarda sarebbe magari disposta a concedergli. È proprio quello che accade a Ferraù, che per inseguire l’irraggiungibile Angelica perde di vista il prosaico, ma anche più realistico, obiettivo dell’elmo; o a Rinaldo, che per lo stesso motivo si lascia scappare il destriero Baiardo.

Un ritmo narrativo frenetico Il ritmo narrativo del canto è improntato a un estremo dinamismo; si potrebbe quasi definire frenetico: cambi di scena frequenti e veloci, netta preponderanza di verbi ed espressioni di movimento. Si tratta, come abbiamo visto, di un movimento quasi a vuoto, privo di una meta vera e propria: un movimento circolare, come nel caso di Ferraù che si ritrova al punto di partenza; o di Rinaldo, che lascia Baiardo alla sua fuga per inseguire Angelica, ma alcune ottave più avanti torna a imbattersi nell’animale.

Gli interventi del narratore Il narratore non si trincera dietro l’autorità della propria posizione onnisciente, ma interviene in maniera scoperta, o per sottolineare certi snodi della narrazione o per commentare, spesso in modo ironico, quanto accade ai suoi personaggi. Attraverso i propri interventi Ariosto stabilisce un contatto diretto con i lettori, invitati a loro volta a stabilire un distacco ironico dalla materia narrata. Celeberrimi i versi che accompagnano l’anomala alleanza tra Rinaldo e Ferraù, inopinatamente amici per inseguire Angelica fuggiasca («oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!», ott. 22); o ancora lo smaliziato commento che accompagna l’accorata rivendicazione di verginità da parte della fanciulla («Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore», ott. 56).

L’“abbassamento” ironico della materia cavalleresca Già da questo primo canto possiamo vedere come Ariosto modelli la materia cavalleresca per trasmettere ai lettori la sua visione del mondo smagata e lontana da qualsiasi idealismo. Lo scrittore considera ormai lontani gli ideali e i valori della cavalleria; i suoi personaggi perdono dunque lo statuto di eroi epici e cavallereschi per acquistare un’umanità inedita attraverso lo sguardo divertito e disincantato del poeta, che ne svela le debolezze e li riporta sul piano di una comune umanità: ecco che allora, alla sua prima apparizione sulla ribalta del poema, il prode Rinaldo in corsa per la foresta viene paragonato al «villan mezzo ignudo» che gareggia per ricevere in premio il pallio rosso; a sua volta il cavaliere saraceno Ferraù viene colto in un momento assolutamente antieroico, quando, «di sudor pieno e tutto polveroso», cerca un po’ di refrigerio nelle acque di un fresco ruscello e, da vero sbadato, vi lascia cadere l’elmo; o ancora Sacripante, guerriero fiero e ardimentoso che, disarcionato da Bradamante, appare come un «istordito e stupido aratore» dopo che è stato colpito dal fulmine.

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Un’ottica antidealistica e pragmatica Oltre al sistematico abbassamento ironico della materia cavalleresca, emerge in più punti di questo canto (e attraverserà l’intero poema) anche un atteggiamento di totale pragmatismo, che incrina i pilastri su cui si fondava l’etica cortese. Il momento in cui con maggior evidenza si manifesta questa posizione del poeta si incontra alle ott. 19 e 20, quando Rinaldo interrompe il combattimento con Ferraù per fargli notare che, quale che sia l’esito del loro duello, Angelica sarebbe comunque perduta per entrambi, dal momento che se ne sta fuggendo indisturbata. Di qui la proposta “sensata” e appunto pragmatica (del tutto incompatibile con l’ottica cavalleresca), di raggiungere una tregua e unire le loro forze per lanciarsi all’inseguimento della fanciulla; e la concretezza prosaica dimostrata da Rinaldo spicca ancora di più, se rapportata all’aulicità del lessico amoroso che lui stesso utilizza per descrivere il sentimento di Ferraù per Angelica («se questo avvien perché i fulgenti rai / del nuovo sol t’abbino il petto acceso»). Giungerà poi a suggellare il raggiunto accordo l’ironico commento del poeta: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!». Analogo pragmatismo caratterizza anche Angelica, la figura femminile-chiave del poema. Angelica è sempre mossa esclusivamente dalla volontà di perseguire il proprio scopo: si veda ad esempio l’ott. 50, che la dipinge mentre valuta attentamente l’opportunità di avvalersi di Sacripante come guida nella selva («Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola / le fa pensar di tor costui per guida; / che chi ne l’acqua sta fino alla gola / ben è ostinato se mercé non grida»); solo in quest’ottica va letta la sollecitudine con cui si affanna a rivendicare il proprio onore intatto davanti al saraceno.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza la scena dello scontro tra Sacripante e il cavaliere misterioso. 2. Rintraccia nel canto gli interventi diretti da parte dell’autore e riassumine il contenuto. Ti sembra di poter individuare in essi un tono comune? COMPRENSIONE 3. La prima azione che vediamo svolgersi sulla scena dell’Orlando furioso è la fuga di Angelica attraverso un bosco: quali vicende costituiscono l’antefatto all’incessante fuga della fanciulla? In particolare, in questo canto, da chi fugge Angelica? 4. In quale punto del canto emerge il tema della magia? ANALISI 5. In quale punto del testo e con quale funzione compare il motivo canonico del locus amoenus, ereditato dalla tradizione classica? 6. Che cosa indica nel mondo poetico ariostesco il tema della quête, che emerge già qui? STILE 7. A chi viene paragonato Rinaldo al suo primo apparire in scena? Rintraccia i versi in questione e fanne la parafrasi; quindi rispondi: come si spiega l’uso di un paragone così prosaico e addirittura irriverente per un paladino?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 8. Il personaggio di Angelica compare da subito accompagnato dal canonico epiteto di bella; la fanciulla è presentata come l’oggetto dello sconfinato amore di Orlando, ma nel corso del canto il suo personaggio si arricchisce di caratteri e connotazioni proprie. Quale idea ti sei fatto di questa donzella in fuga perenne? Tracciane un breve ritratto. TESTI A CONFRONTO 9. Ti proponiamo un brano tratto dalla Presentazione dell’Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, che tra l’altro è una lettura molto piacevole per chi voglia tentare un approccio diretto e “amichevole” al poema di Ariosto (naturalmente non può sostituire la lettura diretta dell’opera!). Rifletti sulle acute osservazioni di Calvino, cercando di calarle nella lettura di questo primo canto del Furioso. Dall’inizio l’Orlando Furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirlo il primo canto tutti inseguimenti, disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma.

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È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto.

VERSO IL NOVECENTO

I. Calvino, Orlando Furioso di Lodovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Mondadori, Milano 1995

Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato Il poema dell’Ariosto attraversa anche il Novecento, e in particolare costituisce un punto di riferimento centrale per uno dei più importanti scrittori del secolo, Italo Calvino. Fin dai primi anni della sua attività letteraria, egli avverte una forte affinità con il poeta dell’Orlando furioso, di cui scrive: «Tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante è Ludovico Ariosto, e non mi stanco di rileggerlo». Calvino si è occupato di Ariosto innanzitutto in sede critica, analizzando in numerosi saggi le caratteristiche della poesia dell’Ariosto. Nel 1968 tiene una serie di trasmissioni radiofoniche, dalle quali nasce in seguito la celebre antologia Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino (1970). Si tratta di una scelta di canti del poema, che vengono introdotti e collegati attraverso affascinanti riassunti-racconti, ispirati a una vera e propria mimesi dello “sguardo” e della “leggerezza” dello stile di Ariosto (Il lamento di Sacripante e la rosa). Nelle ormai celebri Lezioni americane – un ciclo di sei conferenze che lo scrittore era stato invitato a tenere nel 1984 dall’università di Harvard e che furono pubblicate postume per l’improvvisa morte di Calvino l’anno dopo – si fa riferimento all’Ariosto solo nella lezione dedicata appunto alla “leggerezza”, ma l’ispirazione ariostesca traspare anche nelle altre (dedicate a rapidità, esattezza, molteplicità, visibilità).

Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa I. Calvino, Orlando Furioso di Lodovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1970

Il brevissimo passo che proponiamo può dare almeno un’idea dell’operazione condotta da Calvino nella sua rilettura e insieme antologizzazione dell’Orlando furioso: il passo si riferisce al momento in cui, nel primo canto del poema, il guerriero saraceno Sacripante – innamorato, come tanti altri, della bella Angelica – si lamenta che la sua verginità (la rosa) possa essere stata colta da altri.

Angelica scruta tra gli arbusti e vede un guerriero enorme, dai lunghi baffi spioventi, armato di tutto punto, che se ne sta sdraiato come lei dall’altra parte del cespuglio, la guancia posata su una mano, e lamentandosi mormora delle frasi senza senso: la verginella... la rosa... Sta parlando di rose, questo pezzo di soldataccio: annusa una rosa appena sbocciata, e dice che sarebbe un peccato coglierla, che una volta spiccata dal suo stelo perde ogni valore; a lui sfortunato capita così ogni volta, che le rose le colgono sempre gli altri; ma sarà proprio vero, che la rosa già colta perde di valore? E perché lui allora non riesce a dimenticarla? online

Entra in scena la magia T6a Ludovico Ariosto Un anello, un mago, un cavallo alato... Orlando furioso IV, 4-8 T6b Ludovico Ariosto Un duello a colpi di magia: Bradamante sfida il mago Atlante Orlando furioso IV, 16-39

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Ludovico Ariosto

T7

Rinaldo difensore dei “diritti delle donne”

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Orlando furioso IV, 51-67 L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

Nella seconda parte del canto IV, Ariosto dà spazio a un’avventura dall’esibito “colorito bretone”: ne è protagonista Rinaldo, che va a finire nella selva Caledonia, teatro per eccellenza, nella tradizione, delle avventure cavalleresche degli eroi arturiani. Quasi ispirato dalla suggestione del luogo, Rinaldo si sente in dovere di andare in cerca di avventure cortesi. Capita in un convento dove viene amabilmente accolto dai frati, che gli propongono un’impresa veramente degna di un cavaliere: la giovane figlia del re, Ginevra, è ingiustamente accusata di lussuria e, secondo le leggi del luogo, se non trova un cavaliere che la difenda e la scagioni dall’accusa, dovrà morire. Rinaldo, pronto ad assumersi l’onere, fa alcune interessanti riflessioni...

51 Rinaldo l’altro e l’altro giorno scòrse1, spinto dal vento, un gran spazio di mare, quando a ponente e quando contra l’Orse2, che notte e dì non cessa mai soffiare. Sopra la Scozia ultimamente sorse3, dove la selva Calidonia4 appare, che spesso fra gli antiqui ombrosi cerri5 s’ode sonar di bellicosi ferri6.

53 ed altri cavallieri e de la nuova e de la vecchia famosi: restano ancor di più d’una lor pruova li monumenti e li trofei pomposi11. L’arme Rinaldo e il suo Baiardo12 truova, e tosto si fa por nei liti ombrosi13, ed al nochier comanda che si spicche14 e lo vada aspettar a Beroicche15.

52 Vanno per quella i cavallieri erranti, incliti in arme7, di tutta Bretagna, e de’ prossimi luoghi e de’ distanti, di Francia, di Norvegia e de Lamagna8. Chi non ha gran valor, non vada inanti9; che dove cerca onor, morte guadagna. Gran cose in essa già fece Tristano, Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano10,

54 Senza scudiero e senza compagnia va il cavallier per quella selva immensa, facendo or una ed or un’altra via, dove più aver strane aventure pensa16. Capitò il primo giorno a una badia, che buona parte del suo aver dispensa in onorar nel suo cenobio adorno le donne e i cavallier che vanno attorno17.

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 scòrse: percorse. 2 contra l’Orse: verso nord. 3 ultimamente sorse: alla fine sbarcò. 4 selva Calidonia: la selva di Darnantes, teatro delle principali imprese dei cavalieri arturiani. 5 cerri: alberi simili alle querce. 6 s’ode… ferri: si sente risuonare dei rumori delle armi. 7 incliti in arme: famosi per le loro imprese militari. 8 Lamagna: Alemagna, cioè la Germania.

9 inanti: innanzi. 10 Vanno per quella... Galvano: in una dimensione spazio-temporale sospesa e magica, Ariosto evoca gli antichi cavalieri erranti della Tavola Rotonda (più avanti cita la vecchia del padre di Artù e la nuova e più celebre: appunto quella di re Artù), ai quali nel tempo ne sono succeduti altri che si aggirano affascinati nello spazio dell’avventura. 11 restano ancor... pomposi: rimangono le splendide testimonianze («li monumenti e li trofei pomposi») di più di una loro impresa (pruova). 12 Baiardo: è il cavallo di Rinaldo. 13 tosto... ombrosi: subito si fa sbarcare

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sulle spiagge ombrose. 14 si spicche: se ne vada da lì. 15 Beroicche: Berwick, fra Scozia e Inghilterra. 16 Senza scudiero... pensa: Rinaldo, pienamente investito del ruolo di cavaliere errante, come se il luogo dove è capitato glielo imponesse, si immette consapevolmente nello spazio dell’avventura. 17 Capitò... attorno: una ben strana badìa, questa dove capita Rinaldo: i monaci spendono buona parte dei loro averi per accogliere degnamente e allietare nel bel monastero (cenobio) «le donne e i cavallier». Più che una badìa sembra una corte rinascimentale.


55 Bella accoglienza i monachi e l’abbate fero18 a Rinaldo, il qual domandò loro (non prima già che con vivande grate avesse avuto il ventre amplo ristoro)19 come dai cavallier sien ritrovate spesso aventure per quel tenitoro20, dove si possa in qualche fatto eggregio l’uom dimostrar, se merta biasmo o pregio. 56 Risposongli ch’errando in quelli boschi, trovar potria21 strane aventure e molte: ma come i luoghi, i fatti ancor son foschi22; che non se n’ha notizia le più volte. – Cerca (diceano) andar dove conoschi che l’opre tue non restino sepolte, acciò dietro al periglio e alla fatica segua la fama, e il debito ne dica23. 57 E se del tuo valor cerchi far prova, t’è preparata la più degna impresa che ne l’antiqua etade o ne la nova giamai da cavallier sia stata presa24. La figlia del re nostro or se ritrova bisognosa d’aiuto e di difesa contra un baron che Lurcanio si chiama, che tor le cerca e la vita e la fama25. 58 Questo Lurcanio al padre l’ha accusata (forse per odio più che per ragione) averla a mezza notte ritrovata trarr’un suo amante a sé sopra un verrone26. 18 fero: fecero. 19 (non prima... ristoro): non prima però che il suo ventre si fosse ben saziato con piacevoli vivande. 20 tenitoro: territorio. 21 trovar potria: avrebbe potuto trovare. 22 come i luoghi... son foschi: come i luoghi sono in ombra, così anche le imprese (come spiegano i frati al verso successivo) sono rimaste sconosciute. Invitano perciò Rinaldo a scegliere un’impresa che possa essere conosciuta, dandogli la fama. 23 acciò... ne dica: affinché al pericolo e alla fatica segua l’onore (la fama) e li celebri debitamente. 24 presa: affrontata. 25 che tor... la fama: che cerca di toglierle sia la vita sia l’onore.

Per le leggi del regno condannata al fuoco fia, se non truova campione che fra un mese, oggimai presso a finire, l’iniquo accusator faccia mentire27. 59 L’aspra legge di Scozia, empia e severa, vuol ch’ogni donna, e di ciascuna sorte28, ch’ad uomo si giunga, e non gli sia mogliera29, s’accusata ne viene, abbia la morte. Né riparar si può ch’ella non pera30, quando per lei non venga un guerrier forte31 che tolga la difesa32, e che sostegna che sia innocente e di morire indegna. 60 Il re, dolente per Ginevra33 bella (che così nominata è la sua figlia), ha publicato34 per città e castella, che s’alcun la difesa di lei piglia, e che l’estingua la calunnia fella35 (pur che sia nato di nobil famiglia), l’avrà per moglie, ed uno stato, quale fia convenevol dote a donna tale36. 61 Ma se fra un mese alcun per lei37 non viene, o venendo non vince, sarà uccisa. Simile impresa meglio ti conviene, ch’andar pei boschi errando a questa guisa38: oltre ch’onor e fama te n’aviene ch’in eterno da te non fia divisa, guadagni il fior di quante belle donne da l’Indo sono all’Atlantee colonne39;

26 averla... verrone: di averla scoperta a mezza notte mentre faceva salire su un balcone un suo amante. 27 Per le leggi… faccia mentire: Secondo le leggi del regno sarà (fia) condannata al rogo (al fuoco) se non trova un valoroso cavaliere che entro un mese, termine ormai vicino a finire, smentisca (faccia mentire) il malvagio accusatore. 28 ciascuna sorte: qualsiasi condizione. Quindi anche una principessa, come in questo caso. 29 ch’ad uomo... mogliera: che si unisca a un uomo senza essergli moglie. 30 Né... pera: E non si può in alcun modo evitarle la morte. 31 quando per lei... forte: a meno che non venga in suo soccorso un valente cavaliere.

32 tolga la difesa: ne assuma la difesa. 33 Ginevra: la fanciulla porta dunque un nome importante nella tradizione cavalleresca: nientemeno che quello della sposa di Artù, amata da Lancillotto. 34 ha publicato: ha fatto un editto. 35 e che... fella: e che sappia toglierle di dosso la malvagia calunnia. 36 ed uno stato... tale: e riceverà dal re una condizione che possa costituire una dote adeguata a chi ne sposa la figlia. 37 per lei: per aiutare lei. 38 a questa guisa: in questo modo. Cioè attendendo la casuale comparsa di qualche avventura degna. 39 oltre… colonne: oltre al fatto che te ne derivano (dall’impresa di difendere Ginevra) onore e fama, che saranno sem-

L’Orlando furioso 3 289


62 e una ricchezza appresso, ed uno stato che sempre far ti può viver contento; e la grazia del re, se suscitato per te gli fia il suo onor, che è quasi spento40. Poi per cavalleria tu se’ ubligato a vendicar di tanto tradimento costei, che per commune opinione, di vera pudicizia è un paragone41. –

65 Non vo’ già dir ch’ella non l’abbia fatto; che nol sappiendo, il falso dir potrei: dirò ben che non de’ per simil atto punizion cadere alcuna in lei46; e dirò che fu ingiusto o che fu matto chi fece prima li statuti rei47; e come iniqui rivocar si denno48, e nuova legge far con miglior senno.

63 Pensò Rinaldo alquanto, e poi rispose42: – Una donzella dunque de’ morire perché lasciò sfogar ne l’amorose sue braccia al suo amator tanto desire? Sia maladetto chi tal legge pose, e maladetto chi la può patire! Debitamente muore una crudele43, non chi dà vita al suo amator fedele.

66 S’un medesimo ardor, s’un disir pare inchina e sforza l’uno e l’altro sesso a quel suave fin d’amor, che pare all’ignorante vulgo un grave eccesso; perché si de’ punir donna o biasmare, che con uno o più d’uno abbia commesso quel che l’uom fa con quante n’ha appetito, e lodato ne va, non che impunito?49

64 Sia vero o falso che Ginevra tolto s’abbia44 il suo amante, io non riguardo a questo: d’averlo fatto la loderei molto, quando non fosse stato manifesto. Ho in sua difesa ogni pensier rivolto: datemi pur un chi mi guidi presto, e dove sia l’accusator mi mene; ch’io spero in Dio Ginevra trar di pene45.

67 Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti; e spero in Dio mostrar che gli è gran male che tanto lungamente si comporti50. – Rinaldo ebbe il consenso universale, che fur gli antiqui ingiusti e male accorti, che consentiro a così iniqua legge, e mal fa il re, che può, né la corregge.

pre con te («ch’in eterno da te non fia divisa»), conquisti il fior fiore delle belle donne che abitano le terre fra l’Indo (l’Oriente) e le colonne d’Ercole, (lo stretto di Gibilterra). Cioè tutto il mondo allora conosciuto. 40 la grazia... spento: la gratitudine del re se, grazie a te, gli sarà ripristinato (susci-

online T8 Ludovico Ariosto

Ruggiero all’isola di Alcina Orlando furioso VI, 20-22; 27-44; 47-51 T9 Ludovico Ariosto Una terribile invenzione di guerra: l’archibugio Orlando furioso IX, 28-31 e 89-91; XI, 21-27

tato) il suo onore, che ora è quasi svanito. 41 paragone: esempio. 42 Pensò... rispose: si aprono qui e si sviluppano per le successive quattro ottave le riflessioni personali di Rinaldo su quanto ha appena udito. 43 Debitamente... crudele: È giusto che muoia una donna che non si concede all’amore. 44 tolto s’abbia: abbia ammesso (alla sua camera). 45 datemi pur… trar di pene: datemi pure uno che mi faccia in fretta da guida, e mi conduca (mi mene) dove si trova l’accusatore, perché io spero, con l’aiuto di Dio (in Dio), di poter liberare Ginevra dal tormento. 46 in lei: su di lei. 47 chi... rei: chi stabilì queste leggi assurde.

290 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

48 come... si denno: si devono revocare perché inique.

49 S’un medesimo... impunito: Se è vero che uno stesso ardente desiderio inclina e spinge (inchina e sforza) l’uno e l’altro sesso a quella dolce meta dell’amore (il congiungimento carnale) che appare al volgo ignorante un eccesso dannoso, perché si deve punire o biasimare una donna che abbia commesso con uno o più uomini quello che l’uomo fa con quante donne desidera (n’ha appetito) e (addirittura) viene lodato e certo non punito? 50 Son fatti... si comporti: In questa legge diseguale vengono fatti alle donne torti evidenti (espressi) e io spero, nel nome di Dio, di mostrare che è un gran male il fatto che si sopporti (la legge) per così lungo tempo.


Analisi del testo L’impresa di Rinaldo Rinaldo arriva nella selva di Darnantes, teatro delle principali imprese dei cavalieri arturiani, e dopo aver percorso varie vie si imbatte in una strana badìa, che sembra avere le caratteristiche di una corte rinascimentale. Dopo aver ricevuto una buona accoglienza dai monaci, Rinaldo chiede loro in quale impresa possa dimostrare il proprio valore, ma non prima di essersi saziato con piacevoli vivande. Il desiderio di nobili avventure non implica certo in lui la rinuncia a soddisfare i prosaici bisogni del corpo, commenta ironicamente Ariosto. I monaci spiegano a Rinaldo che molte valide imprese sono rimaste nell’ombra e che se vorrà conquistare fama dovrà scegliersi un’impresa che possa essere conosciuta: così gli narrano la storia di Ginevra.

Le riflessioni di Rinaldo A questo punto iniziano le riflessioni di Rinaldo, che occupano ben quattro ottave. L’eroe maledice chi ha redatto le leggi del regno, arrivando ad affermare che dovrebbe invece morire una donna che non si concede all’amore. A Rinaldo non interessa se Ginevra abbia commesso o meno ciò di cui viene accusata, ma considera assurde le norme, che secondo lui dovrebbero essere revocate perché ingiuste. La cosa interessante è che per Rinaldo è ingiusto il fatto che si punisca una donna per aver ceduto all’amore, quando invece non viene punito, ma anzi viene lodato, l’uomo che si congiunge a tutte le donne che più desidera. Attraverso il personaggio di Rinaldo, Ariosto arriva ad affermare che con queste regole, che non contemplano uguaglianza tra i sessi, vengono fatti espressi torti alle donne.

La descrizione dell’amore Molto interessante è la descrizione dell’amore (ott. 66), la cui meta è il congiungimento carnale, giudicato invece dannoso dal volgo ignorante. Dietro questa idea dell’amore sembra di cogliere lo stesso pensiero che Boccaccio esprime in numerose novelle del Decameron.

Esercitare le competenze comprendere e analizzare

tecnica narratiVa 1. Suddividi l’episodio in sequenze. ParaFraSi 2. Fai la parafrasi delle ottave 56-62. SinteSi 3. Sintetizza le considerazioni di Rinaldo sul caso di Ginevra. anaLiSi 4. C’è un punto del testo in cui si comprende chiaramente che Ariosto non crede più che i valori della società cavalleresca possano rivivere nella società a lui contemporanea, e anzi pratica un abbassamento della materia cavalleresca. Rintraccia il passo nel testo da cui si evince un tale cambiamento rispetto allo stesso Boiardo, che guarda con nostalgia a quel mondo. LeSSico 5. Rintraccia, trascrivi e commenta le espressioni riconducibili al codice cortese-cavalleresco.

interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

Letteratura e noi

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

6. Le ottave 66 e 67 fanno comprendere quanto possa essere giudicato moderno il poema di Ariosto: in esse Rinaldo rivendica l’uguaglianza tra il sesso maschile e quello femminile e giudica ingiuste le leggi che prevedono un diverso trattamento tra uomo e donna; tanto più se la punizione deriva dall’aver ceduto all’amore, visto come una forza naturale. Vengono utilizzate espressioni quali «statuti rei e iniqui», e si arriva ad affermare «Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti». Grandi passi in avanti sono stati compiuti dal periodo in cui Ariosto pubblica il suo Orlando furioso, ma ancora ne debbono essere fatti se, tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030, il n. 5 è dedicato alla parità di genere. Cerca in Internet il contenuto dell’Obiettivo 5 e commenta le parti che ti colpiscono maggiormente e sulle quali secondo te c’è ancora bisogno di porre l’attenzione.

L’Orlando furioso 3 291


Collabora all’analisi

T10

Ludovico Ariosto

Il palazzo dei desideri Orlando furioso XII, 4-22

L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

Il prode paladino Orlando ha percorso quasi tutta la Francia sulle tracce dell’amata Angelica, sempre sfuggente; ora la sta cercando in Italia, in Germania, in Spagna, addirittura fino in Libia. Ma all’improvviso una voce supplichevole lo distoglie dai suoi propositi e lo attrae in una dimensione meravigliosa: la voce sembra proprio quella di Angelica, che lo chiama dentro uno strano palazzo, dove tutti cercano qualcosa o qualcuno… È il palazzo di Atlante, una delle invenzioni più suggestive del poema.

4 L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia1 per Italia cercarla e per Lamagna2, per la nuova Castiglia e per la vecchia3, e poi passare in Libia il mar di Spagna4. Mentre pensa così, sente all’orecchia una voce venir, che par che piagna: si spinge inanzi; e sopra un gran destriero trottar si vede innanzi un cavalliero,

6 Non dico ch’ella fosse, ma parea Angelica gentil ch’egli tant’ama. Egli, che la sua donna e la sua dea vede portar sì addolorata e grama11, spinto da l’ira e da la furia rea, con voce orrenda il cavallier richiama; richiama il cavalliero e gli12 minaccia, e Brigliadoro a tutta briglia caccia.

5 che porta in braccio e su l’arcion davante per forza5 una mestissima donzella. Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante di gran dolore6; ed in soccorso appella7 il valoroso principe d’Anglante8; che come mira alla giovane bella9, gli par colei, per cui la notte e il giorno cercato Francia avea dentro e d’intorno10.

7 Non resta quel fellon13, né gli risponde, all’alta preda, al gran guadagno intento14, e sì ratto ne va per quelle fronde15, che saria tardo a seguitarlo il vento16. L’un fugge, e l’altro caccia17; e le profonde selve s’odon sonar d’alto lamento18. Correndo usciro in un gran prato; e quello avea nel mezzo un grande e ricco ostello19.

La metrica Strofe di ottave: quattro cop-

6 fa sembiante di gran dolore: rivela

14 all’alta... intento: tutto intento a por-

pie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 s’apparecchia: si prepara. 2 Lamagna: Germania. 3 per la nuova... la vecchia: regioni della Spagna. 4 passare... Spagna: passare il mar di Spagna (lo stretto di Gibilterra), per andare in Libia (cioè in Africa). 5 per forza: trattenendola con la forza, contro la sua volontà.

nell’aspetto una grande sofferenza. 7 appella: chiama. 8 il valoroso principe d’Anglante: Orlando. 9 come mira... bella: non appena guarda verso la bella giovane. 10 colei… e d’intorno: la perifrasi indica l’oggetto della sua ricerca, Angelica. 11 grama: infelice. 12 gli: lo. 13 Non resta quel fellon: non si ferma quel vigliacco.

tar via la sua nobile preda, il suo prezioso bottino. 15 fronde: metonimia per indicare il bosco. 16 saria... il vento: il vento sarebbe lento nell’inseguirlo. 17 caccia: insegue. 18 sonar d’alto lamento: risonare di un acuto lamento. 19 ostello: palazzo.

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8 Di vari marmi con suttil20 lavoro edificato era il palazzo altiero21. Corse dentro alla porta messa d’oro22 con la donzella in braccio il cavalliero. Dopo non molto giunse Brigliadoro, che porta Orlando disdegnoso e fiero. Orlando, come è dentro, gli occhi gira; né più il guerrier, né la donzella mira.

11 E mentre or quinci or quindi invano il passo movea, pien di travaglio36 e di pensieri, Ferraù, Bradamante e il re Gradasso, re Sacripante ed altri cavallieri vi ritrovò, ch’andavano alto e basso37, né men facean di lui vani sentieri38; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio.

9 Subito smonta, e fulminando23 passa dove più dentro il bel tetto s’alloggia24: corre di qua, corre di là, né lassa che non vegga ogni camera, ogni loggia25. Poi che i segreti d’ogni stanza bassa26 ha cerco27 invan, su per le scale poggia28; e non men perde anco a cercar di sopra, che perdessi di sotto, il tempo e l’opra29.

12 Tutti cercando il van39, tutti gli dànno colpa di furto alcun che lor fatt’abbia: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno40; ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia41; altri d’altro l’accusa: e così stanno, che non si san partir di quella gabbia42; e vi son molti, a questo inganno presi, stati le settimane intiere e i mesi.

10 D’oro e di seta i letti ornati vede: nulla de muri appar né de pareti30; che quelle, e il suolo ove si mette il piede, son da cortine ascose e da tapeti31. Di su di giù va il conte Orlando e riede32; né per questo può far gli occhi mai lieti33 che riveggiano34 Angelica, o quel ladro che n’ha portato35 il bel viso leggiadro.

13 Orlando, poi che quattro volte e sei tutto cercato ebbe il palazzo strano43, disse fra sé: – Qui dimorar potrei, gittare il tempo e la fatica invano: e potria il ladro aver tratta costei da un’altra uscita, e molto esser lontano. – Con tal pensiero uscì nel verde prato, dal qual tutto il palazzo era aggirato.

20 suttil: raffinato. 21 altiero: superbo, splendido. 22 messa d’oro: dorata. 23 fulminando: correndo veloce come un fulmine.

24 dove… s’alloggia: nelle stanze più interne del palazzo.

25 né lassa... ogni loggia: e non tralascia di ispezionare ogni camera, ogni portico. 26 bassa: situata al pianterreno. 27 ha cerco: ha cercato. 28 poggia: sale. 29 non men... il tempo e l’opra: non perde meno tempo e fatica a cercare anche di sopra, di quanto ne abbia persi (che perdessi) di sotto. 30 nulla... de pareti: nulla si vede dei muri e delle pareti. 31 son... tapeti: sono coperte (nascose “nascoste”) da tendaggi e tappeti. 32 riede: ritorna.

33 può... mai lieti: può mai rallegrare gli occhi. 34 riveggiano: riveggano. 35 portato: rapito. 36 travaglio: angoscia. 37 andavano alto e basso: andavano su e giù, salivano e scendevano. 38 né men… sentieri: e non seguivano percorsi meno inutili di (quanti ne facesse) lui. 39 Tutti cercando il van: tutti lo vanno cercando vanamente. 40 altri è in affanno: uno è preoccupato. 41 ch’abbia... arrabbia: un altro è adirato per aver perduto la propria donna. 42 gabbia: trappola. 43 poi che... strano: dopo che un gran numero di volte (quattro volte e sei) ebbe esplorato (cercato) il palazzo misterioso.

Il palazzo di Atlante in un’incisione di Gustave Doré da un’edizione ottocentesca del Furioso.

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14 Mentre circonda la casa silvestra44, tenendo pur45 a terra il viso chino, per veder s’orma appare, o da man destra o da sinistra, di nuovo camino46; si sente richiamar da una finestra: e leva gli occhi; e quel parlar divino gli pare udire, e par che miri il viso, che l’ha da quel che fu, tanto diviso47. 15 Pargli Angelica udir, che supplicando e piangendo gli dica: – Aita48, aita! la mia virginità ti raccomando più che l’anima mia, più che la vita. Dunque in presenza del mio caro Orlando da questo ladro mi sarà rapita? più tosto di tua man dammi la morte, che venir lasci49 a sì infelice sorte. – 16 Queste parole una ed un’altra volta fanno Orlando tornar per ogni stanza, con passione50 e con fatica molta, ma temperata pur d’alta speranza51. Talor si ferma, ed una voce ascolta, che di quella d’Angelica ha sembianza (e s’egli è da una parte, suona altronde52), che chieggia aiuto; e non sa trovar donde53. 17 Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando dissi che per sentiero ombroso e fosco il gigante e la donna seguitando, in un gran prato uscito era del bosco54;

io dico ch’arrivò qui dove Orlando dianzi55 arrivò, se ’l loco riconosco. Dentro la porta il gran gigante passa: Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa56. 18 Tosto che pon dentro alla soglia il piede, per la gran corte e per le logge mira; né più il gigante né la donna vede, e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira. Di su di giù va molte volte e riede57; né gli succede mai quel che desira: né si sa imaginar dove sì tosto con la donna il fellon si sia nascosto. 19 Poi che revisto ha quattro volte e cinque di su di giù camere e logge e sale, pur di nuovo ritorna, e non relinque58 che non ne cerchi fin sotto le scale. Con speme al fin che sian ne le propinque selve, si parte59: ma una voce, quale60 richiamò Orlando, lui chiamò non manco61; e nel palazzo il fe’ ritornar anco. 20 Una voce medesma, una persona che paruta era Angelica ad Orlando, parve a Ruggier la donna di Dordona62, che lo tenea di sé medesmo in bando63. Se con Gradasso o con alcun64 ragiona di quei ch’andavan nel palazzo errando, a tutti par che quella cosa sia, che più ciascun per sé brama e desia65.

44 circonda... silvestra: gira attorno all’e-

51 temperata... speranza: addolcita co-

dificio posto in mezzo al bosco. 45 pur: continuamente. 46 per veder... nuovo camino: per veder se si nota un’orma di (che indichi) un passaggio recente (nuovo camino), a destra o a sinistra. 47 che l’ha… diviso: che l’ha fatto diventare un altro uomo. Perifrasi canonica nel lessico della tradizione lirica per indicare la donna amata o l’Amore. 48 Aita: Aiuto. 49 venir lasci: mi abbandoni. 50 passione: tormento.

munque da una grande speranza. 52 altronde: altrove. 53 donde: da dove. 54 ch’io lasciai… del bosco: a Ruggiero era parso di vedere Bradamante rapita da un gigante violento e malvagio, che il cavaliere stava inseguendo (seguitando) nel tentativo di salvare la donna amata (canto XI, ott. 13-21). 55 dianzi: prima di lui. 56 non lassa: non smette. 57 riede: ritorna. È un’eco del v. 5, ott. 10. 58 non relinque: non tralascia. È un latinismo.

294 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

59 Con speme… si parte: alla fine, Ruggiero esce dal castello (si parte), con la speranza che il gigante e Bradamante possano essere nascosti nei boschi vicini (propinque selve). 60 quale: simile a quella che. 61 non manco: non meno, anche. 62 la donna di Dordona: Bradamante. 63 di sé medesmo in bando: fuori di sé (per amore). 64 alcun: qualcuno. 65 a tutti... desia: a ciascuno pare di vedere nella medesima cosa ciò che desidera ardentemente per sé (brama e desia).


21 Questo era un nuovo e disusato incanto66 ch’avea composto Atlante di Carena67, perché Ruggier fosse occupato tanto in quel travaglio68, in quella dolce pena, che ’l mal’influsso n’andasse da canto, l’influsso ch’a morir giovene il mena69. Dopo il castel d’acciar, che nulla giova, e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova70.

66 disusato incanto: straordinario incantesimo. 67 Atlante di Carena: il mago-indovino che ha allevato Ruggiero. La fonte è, al solito, Boiardo; la Carena è una catena montuosa della Mauritania. 68 travaglio: affanno.

22 Non pur costui, ma tutti gli altri ancora, che di valore in Francia han maggior fama, acciò che di lor man Ruggier non mora, condurre Atlante in questo incanto trama71. E mentre fa lor far quivi dimora, perché di cibo non patischin brama72, sì ben fornito avea tutto il palagio, che donne e cavallier vi stanno ad agio.

69 che ’l mal’influsso… mena: così da allontanare (n’andasse da canto) l’influsso funesto del destino (’l mal’influsso), che lo conduce a una morte prematura (ch’a morir giovene il mena). 70 ancor fa pruova: ci prova ancora. 71 Non pur costui... trama: Atlante pro-

getta di condurre in questo luogo incantato non solo Ruggiero, ma anche tutti gli altri cavalieri che in Francia hanno fama maggiore per il loro valore, affinché Ruggiero non muoia ucciso da loro. 72 non patischin brama: non soffrano la mancanza.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

L’episodio, per la parte qui presentata, si struttura in due sequenze principali: la prima riguarda Orlando (ott. 4-16), la seconda Ruggiero (ott. 17-20), che in questo importante episodio confermano il ruolo primario che Ariosto assegna loro nel poema. 1. Riassumi il contenuto delle due sequenze. Noti delle somiglianze? Nell’episodio torna in scena il mago Atlante, che già abbiamo incontrato in uno dei primi canti del poema. Anche in quel caso c’era un castello incantato dove Atlante recludeva, ma in un soggiorno piacevole, belle dame e cavalieri rapiti sul suo ippogrifo. 2. Indica l’obiettivo che muove il mago Atlante a creare un nuovo castello. In quali versi lo ritrovi enunciato? Ariosto crea precise simmetrie tra le due sequenze di Orlando e Ruggiero, sia a livello dello schema narrativo sia nel tono, ma anche attraverso la ricorrenza, certo non casuale, di termini ed espressioni analoghe. 3. Rintraccia e scheda, in particolare, la presenza, nelle due sequenze, di sintagmi che appartengono all’ambito spaziale e che traducono l’affannoso e vano girovagare dei due cavalieri (e non solo di questi) dentro il palazzo. Il gioco delle apparenze in uno spazio-tempo magico Il castello è una “fabbrica di artifici”, dove niente è quello che sembra e tutto si moltiplica e rifrange in un’infinita girandola di apparenze, come in una grande galleria degli specchi. E a riprova di ciò, questi versi sono un proliferare di

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verbi ed espressioni appartenenti all’area semantica dell’“apparire”. Il palazzo stregato è uno spazio labirintico in cui ci si ritrova varie volte al punto di partenza, senza aver compiuto un reale itinerario; ma anche il tempo non è scandito da un “prima” e da un “dopo”, così che sembra regnare nella magica dimora una dimensione temporale circolare più che lineare, potenzialmente infinita. D’altra parte il palazzo è anche raffigurato dal narratore con dettagli verosimili: a differenza del primo castello, che vediamo solo dall’esterno ed è simile a un’inespugnabile roccaforte medievale, il secondo, descritto in modo più analitico, ricorda le sontuose dimore rinascimentali. 4. Individua e scheda i verbi che alludono all’inganno e all’apparenza. 5. Individua e commenta il punto in cui Ariosto allude a una sorta di tempo potenzialmente infinito, circolare e sempre uguale a sé stesso. 6. Commenta la descrizione che il poeta fa del castello, da quella essenziale della sua ubicazione e del suo aspetto esteriore a quella più dettagliata dei suoi interni. Quale impressione il poeta vuole creare nel lettore?

Interpretare

Le valenze simboliche del secondo castello di Atlante Il secondo castello di Atlante è certo l’ideazione più celebre e affascinante dell’Orlando furioso, vero fulcro simbolico del poema e tema chiave dell’opera. Vi confluiscono le molte “inchieste”, amorose e non, dei personaggi, cristiani e saraceni. Se le ricerche nel corso del poema sono destinate quasi sempre a essere frustrate, a non raggiungere il proprio obiettivo, nell’episodio del castello di Atlante esse si rivelano addirittura illusorie, proiezione fantasmatica creata dalla magia dei vani desideri che conducono i personaggi, senza che ne siano consapevoli, entro una vera e propria prigione, anche se dorata: non a caso il poeta usa per il castello il sinonimo significativo di gabbia («e così stanno, / che non si san partir di quella gabbia»). L’incantesimo del mago ci appare allora innanzitutto una grande metafora dell’esistenza, che condanna gli uomini a rincorrere senza tregua obiettivi instabili e illusori, prigionieri dei propri desideri come i cavalieri di Ariosto. Solo pochi sono in grado di vedere gli inganni, di smascherare il gioco delle illusioni: qui è Angelica che, grazie all’anello che l’assicura da l’incanto, passerà indenne (in una parte successiva di questo stesso episodio) attraverso la labirintica costruzione prendendosi gioco dei propri spasimanti; sarà lei a togliere dai loro occhi il velo che li teneva irretiti. In un altro punto del poema Ariosto assimila significativamente l’anello svelatore alla ragione: «Chi l’anello d’Angelica, o più tosto / chi avesse quello de la ragion, potria / veder a tutti il viso, che nascosto / da finzione e d’arte non saria» (VIII, 2). Se dunque tutti avessimo il prezioso dono della ragione, sembra dirci Ariosto, potremmo vedere la realtà al di sotto delle illusioni che noi stessi, anche senza maghi, ci creiamo. 7. Scrive Calvino (nel suo Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino), introducendo l’episodio del castello: «Nel cuore del poema c’è un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi [...] in mezzo a un prato non lontano dalle coste della Manica, vediamo sorgere un palazzo che è un vortice di nulla, nel quale si rifrangono tutte le immagini del poema […] il palazzo è deserto di quel che si cerca, e popolato solo di cercatori». Dietro il palazzo di Atlante si può leggere una visione certo non ottimistica della realtà e dei comportamenti umani, che rispecchia l’incipiente crisi della civiltà rinascimentale. Spiega perché. Un secondo significato simbolico attribuibile all’immagine del castello è l’allusione alla corte, presenza continua nel poema. Alla corte rimanda espressamente la dittologia, ricorrente per tutto il Furioso, «donne e cavallier» (ott. 22, v. 8) e, come si è detto, il palazzo incantato è ideato a immagine del palazzo rinascimentale. Se in altri punti del poema (ad es. nell’episodio del vallone lunare ➜ T17 ) i riferimenti alla corte sono espressamente critici e polemici, qui (ma anche nel primo castello) sembra prevalere piuttosto l’idea della corte come luogo seduttivo da cui è difficile uscire, una volta entrati. 8. Riguardo al rapporto tra la corte e il castello di Atlante, prova a commentare le parole del critico Corrado Bologna (La macchina del «Furioso»): «Egli [Ariosto] giunge dove mai Boiardo avrebbe osato spingersi: all’azzeramento, di fatto, della realtà storica della corte (di quella estense, di quella gonzaghesca) e alla sua riproposizione in termini di realtà virtuale, come astratto riferimento onirico, pura categoria spazio-temporale proiettata fuori della storia». 9. Cos’è oggi il castello di Atlante? La Rete, il virtuale in cui tutti siamo immersi, può essere considerato “un nuovo castello di Atlante”?

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Infine il castello di Atlante può essere interpretato come immagine simbolica del poema stesso, così come il mago Atlante può essere un “doppio” di Ariosto: come il mago, anche il poeta si diverte a convocare i suoi eroi ad appuntamenti solo apparentemente casuali; ma in realtà, come un abile burattinaio, egli tiene le fila delle vicende e le fa muovere dove e come vuole secondo direzioni prima centripete, come in questo caso, e poi ancora centrifughe (alla fine dell’episodio i cavalieri escono infatti di nuovo in groppa ai loro cavalli fuori dal castello per inseguire Angelica). Scrive Calvino: «La parte dell’incantatore che vuol ritardare il compiersi del destino e la parte del poeta che ora aggiunge personaggi alla storia, ora ne sottrae, ora li raggruppa, ora li disperde, si sovrappongono fino a identificarsi. La giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo». 10. Nel canto II, ott. 30, Ariosto esibisce particolarmente il suo ruolo di narratore-regista di una materia intricata e multiforme che si diverte a interrompere e riannodare: «Ma perché varie fila a varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo, / lascio Rinaldo e l’agitata prua, / e torno a dire di Bradamante sua». Individua anche in questo episodio la presenza esibita del ruolo registico dell’autore. Quindi spiega con le tue parole, dall’idea che te ne sei fatta leggendo fin qui il poema, in che senso il castello di Atlante possa rappresentare un’immagine del poema stesso dietro cui si profila Ariosto-Atlante.

Sguardo sulla letteratura e il teatro L’Orlando furioso di Ronconi Ideato e messo in scena per la prima volta a Spoleto nel 1969, lo spettacolo teatrale tratto dall’Orlando furioso dell’Ariosto è il risultato della collaborazione tra il regista Luca Ronconi (1933-2015), una delle personalità più innovative della scena teatrale italiana, e il poeta e critico Edoardo Sanguineti (1930-2010), entrambi esponenti, dall’inizio degli anni Sessanta, dello sperimentalismo nella letteratura e nel teatro. La scelta del poema ariostesco è motivata dai due artisti con il suo carattere “drammatico”, nel senso di continuo movimento narrativo, che lo rende particolarmente adatto alla trasposizione scenica. Uno spettacolo non convenzionale Sulla scia di esperienze già in atto, Luca Ronconi progetta uno spettacolo che si svolga non in teatro ma in luoghi nuovi (a Spoleto in una chiesa sconsacrata, successivamente in spazi aperti, come piazze o cortili, o chiusi, ma comunque diversi da quelli convenzionali), che consentano una partecipazione attiva e dinamica del pubblico: il testo (la cui elaborazione è affidata a Edoardo Sanguineti) dovrà essere solo un pre-testo (nel senso letterale del termine) per lo spettacolo nel suo farsi, come indica il sottotitolo L’azione-testo. La caratteristica dominante e rivoluzionaria dello spettacolo teatrale è costituita dalla simultaneità degli episodi, proposti contemporaneamente sulla base dei loro collegamenti. È un procedimento che intende riprodurre una struttura fondamentale del poema, e cioè lo svolgimento in simultanea di molte vicende: ad esempio Bradamante insegue Ruggiero mentre Orlando cerca Angelica e così via. La rappresentazione, infatti, si svolge in uno spazio con due palcoscenici e alcune piattaforme mobili: in questo modo viene stravolta la concezione convenzionale dello spazio teatrale, facendo sì che lo spettatore si trovi nel centro di una scena costituita da azioni simultanee, a

stretto contatto con gli attori (ne sono coinvolti più di 40). La particolare messa in scena favorisce il movimento del pubblico verso le scene che gli piacciono di più, inducendolo quindi a una partecipazione dinamica che rivoluziona anche l’abituale fruizione. La realizzazione, che enfatizza le componenti favolose e fantastiche del poema, ne accentua la dimensione magica: coniugando sperimentazione (le macchine da scena in vista, gli elementi scenografici dichiaratamente finti come l’ippogrifo e l’orca, i carrelli che trasportano gli attori in acrobazie aeree) e recupero della grande tradizione figurativa rinascimentale, essa trasforma i personaggi in figure irreali, immersi in una dimensione favolistica. La collaborazione Sanguineti-Ronconi L’Orlando furioso di Sanguineti e Ronconi, valutato positivamente dai settori più innovativi della critica teatrale, sarà rappresentato in molte città italiane ed europee e a New York, con grande partecipazione di pubblico. In occasione del quinto centenario della nascita dell’Ariosto (1974), il regista predispone una versione in cinque puntate per la Rai: trasmessa la domenica in prima serata, suscita più di una perplessità e stupore nel pubblico, abituato a trasmissioni di più facile intrattenimento, ma anche polemiche per quello che viene considerato un tradimento dell’ideazione iniziale, dovuto peraltro alle caratteristiche tecniche del mezzo televisivo. Si deve anche ricordare una versione per il grande schermo, incentrata su due dei cinque episodi televisivi (Ruggiero salva Angelica e la follia di Orlando). Il copione predisposto dallo scrittore ligure trascrive le vicende del poema, che nell’originale sono disperse dalla tecnica dell’entrelacement, in alcuni blocchi narrativi, ciascuno a sé stante, in corrispondenza all’interesse, condiviso con Ronconi, per una rappresentazione nello stesso

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tempo frantumata (cioè senza un continuum narrativo) e simultanea, corrispondente a una sorta di mappa ideale, spaziale e temporale, dell’opera. L’obiettivo dei due autori è infatti quello di evidenziare nell’Orlando furioso – attraverso lo smontaggio della trama e la disposizione, poi, in parallelo nella messa in scena degli episodi con caratteristiche simili – i collegamenti tra storie diverse. L’altra importante modifica apportata al testo dell’Ariosto è rappresentata dal cambiamento della voce narrante dalla terza persona, prevalente nell’opera, alla prima; procedimento che valorizza, insieme all’uso dominante del tempo

presente, il ruolo primario dell’attore nell’opera teatrale: in questo modo i personaggi descrivono sé stessi nel momento stesso dell’azione, con un effetto autoironico che riproduce una delle caratteristiche fondamentali del poema. Proponiamo, per esemplificare la rielaborazione testuale attuata da Sanguineti, il passo in cui Ruggiero («Signor che voli»), sorvolando sull’ippogrifo l’isola di Ebuda, vede dall’alto Angelica che, legata a uno scoglio, sta per essere divorata dall’orca, un mostro marino: mentre nel poema la narrazione è in terza persona, con alcuni interventi del narratore che palesa la sua presenza, nella sceneggiatura sono i personaggi (qui Angelica) a raccontare la vicenda.

Una scena dallo spettacolo teatrale di Luca Ronconi tratto dall’Orlando furioso.

Orlando (Massimo Foschi) e il cavallo Baiardo nell’Orlando furioso di Luca Ronconi per la Rai, andato in onda nel 1975.

online

Video L’Orlando furioso di Ronconi

Odilon Redon (1840-1916), Angelica liberata da Ruggiero sull’ippogrifo.

298 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto


Orlando furioso

Al nudo sasso, all’Isola del pianto1; che l’Isola del pianto era nomata quella che da crudele e fiera tanto ed inumana gente era abitata, che (come io vi dicea sopra nel canto2) per vari liti sparsa iva in armata3 tutte le belle donne depredando4, per farne a un mostro poi cibo nefando5. Vi fu legata pur quella matina dove venìa per trangugiarla viva quel smisurato mostro, orca marina, che di aborrevole esca si nutriva. Dissi di sopra, come fu rapina di quei che la trovaro in su la riva dormire al vecchio incantatore a canto, ch’ivi l’avea tirata per incanto6. Canto X, 93-94 1 Isola del pianto: Ebuda. 2 sopra nel canto: nel canto precedente. 3 iva in armata: se ne andava ordinata in schiere.

4 depredando: rapendo. 5 cibo nefando: pasto scellerato. Nell’ottava seguente (v. 4) aborrevole esca sta per “cibo abominevole”.

6 fu rapina… per incanto: fu preda dei pirati che la trovarono sulla spiaggia accanto a un vecchio mago, l’eremita che l’aveva rapita, attirandola con un incantesimo.

Testo di Sanguineti

Angelica Signor che voli, or guarda tu, qui, a basso, Angelica legata al nudo sasso: al nudo sasso, all’Isola del pianto; ché l’Isola del pianto era nomata questa, che da crudele e fiera tanto et inumana gente è abitata: le belle donne vanno depredando, per farne a un mostro poi cibo nefando. Qui fui legata pur questa mattina, e qui verrà per trangugiarmi viva il smisurato mostro, orca marina, poi che m’hanno trovata in su una riva, dormendo a un vecchio incantatore a canto, che là m’ avea tirata per incanto. online T11 Ludovico Ariosto

La preghiera di Carlo Magno e il viaggio dell’angelo Michele: la dimensione religiosa entra nel poema? Orlando furioso XIV, 68-73; 78-82

L’Orlando furioso 3 299


Sguardo sull'arte

La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano La nuova visione umanistica considera positivo tutto ciò che è naturale; perciò, a differenza del Medioevo, rivaluta l’elemento corporeo, vedendo nella persona umana un’armonica sintesi di corpo e di anima. Cambiando la tipologia del modello femminile di riferimento, muta di conseguenza anche la rappresentazione letteraria della donna, sempre più spesso improntata a fisicità e sensualità, com’è nel ritratto ariostesco della maga Alcina, tratto dall’Orlando furioso. Questo tipo di descrizione letteraria trova un corrispettivo nella pittura, in cui emerge il motivo rinascimentale della

Venere, quasi sconosciuto alla pittura medievale. Il mito di Venere, prediletto dagli umanisti, simboleggia il ritorno alla natura, di cui la dea dell’amore è tradizionalmente simbolo; tuttavia, dietro alle tante Veneri mitologiche della pittura rinascimentale, ci sono anche, per la prima volta, donne vere e reali nella loro bellezza e sensualità. Fai un confronto tra la descrizione che Ariosto fa della maga Alcina e il dipinto di Tiziano che rappresenta Venere che esce dalle acque di Cipro.

Tiziano Vecellio, Venere Anadiomene, 1520 ca. (National Gallery of Scotland, Edimburgo). Il dipinto rappresenta la nascita di Venere dalle acque del mare di Cipro, lo stesso soggetto della celebre Nascita di Venere di Botticelli.

300 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto


11 Di persona era tanto ben formata, quanto me’ finger san pittori industri1; con bionda chioma lunga ed annodata: oro non è che più risplenda e lustri. Spargeasi per la guancia delicata misto color di rose e di ligustri2; di terso avorio era la fronte lieta, che lo spazio finia con giusta meta3.

14 Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte; il collo è tondo, il petto colmo e largo: due pome16 acerbe, e pur d’avorio fatte, vengono e van come onda al primo margo17, quando piacevole aura il mar combatte. Non potria l’altre parti veder Argo18: ben si può giudicar che corrisponde a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde.

12 Sotto duo negri e sottilissimi archi4 son duo negri occhi, anzi duo chiari soli5, pietosi a riguardare, a mover parchi6; intorno cui par ch’Amor scherzi e voli, e ch’indi tutta la faretra scarchi7 e che visibilmente i cori involi8: quindi il naso per mezzo il viso scende, che non truova l’invidia ove l’emende9.

15 Mostran le braccia sua misura giusta; e la candida man spesso si vede lunghetta alquanto e di larghezza angusta19, dove né nodo appar, né vena escede20. Si vede al fin de la persona augusta21 il breve, asciutto e ritondetto piede. Gli angelici sembianti nati in cielo non si ponno celar sotto alcun velo22.

13 Sotto quel sta, quasi fra due vallette10, la bocca sparsa di natio cinabro11; quivi due filze son di perle elette12, che chiude ed apre un bello e dolce labro: quindi escon le cortesi parolette da render molle13 ogni cor rozzo e scabro14; quivi si forma quel suave riso, ch’apre a sua posta15 in terra il paradiso. 1 quanto... industri: quanto meglio (me’) la sanno rappresentare pittori abili, capaci (industri). 2 ligustri: fiori bianchi e profumati. 3 lo spazio... meta: si estendeva nello spazio con una misura esatta (perfettamente proporzionata). 4 archi: sopracciglia. 5 son duo... soli: sono due occhi neri, anzi due soli luminosi. La metafora degli occhi simili a soli luminosi è un topos della poesia amorosa petrarchesca. 6 pietosi... parchi: gli occhi mostrano un sentimento di pietà verso l’amante e sono lenti nel volgersi, cioè si fissano in quelli dell’innamorato, con uno sguardo seducente. 7 indi... scarchi: di lì (dagli occhi della

donna) Amore lancia tutte le sue frecce, svuotando la faretra. Il motivo topico di Amore con arco e frecce è accentuato in maniera iperbolica, rivelando una certa ironia nella descrizione. 8 involi: rubi. 9 che... emende: tale che neppure l’invidia potrebbe trovare nulla per cui possa criticarlo (perché non ha alcun difetto). 10 due vallette: le fossette delle guance. 11 natio cinabro: colorito rosso naturale. Il cinabro è un minerale di colore rosso vermiglio. 12 due filze... elette: ci sono due file di perle. 13 render molle: addolcire, ammorbidire. 14 scabro: insensibile.

L. Ariosto, Orlando furioso VII, 11-15

15 a sua posta: quando lo desidera. 16 pome: seni. 17 vengono... margo: ondeggiano come le onde del mare sul margine (al primo margo) della spiaggia. 18 Non... Argo: Argo (essere mitologico dai cento occhi) non potrebbe vedere le altre parti (perché sono celate dalla veste). 19 di larghezza angusta: stretta, piccola. 20 né nodo... escede: dove non ci sono nodosità, né appaiono vene in rilievo (escede, “eccede”). 21 augusta: nobile. 22 non si ponno... velo: non si possono nascondere sotto nessun velo.

L’Orlando furioso 3 301


Analisi passo dopo passo

T12

LEGGERE LE EMOZIONI

Ludovico Ariosto

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: Cloridano e Medoro Orlando furioso XVIII, 165-173; 182-192; XIX, 1-15

L. Ariosto, Orlando furioso, Garzanti, Milano 1974

Ci troviamo di nuovo nello scenario della guerra: si è appena conclusa una sanguinosa battaglia tra le due armate, nella quale ha perso la vita il giovanissimo re saraceno Dardinello, figlio di Almonte. Il suo corpo giace chissà dove e due suoi fidi soldati, Cloridano e Medoro, decidono, a costo della propria vita, di cercarlo per dargli degna sepoltura. Il racconto dell’avventurosa uscita notturna dei due amici alla ricerca del loro re e degli eventi che ne conseguono è uno dei segmenti narrativi più noti del poema. È un episodio dal sapore epico, in cui Ariosto gareggia con una fonte illustre: l’Eneide di Virgilio, da cui è ripreso, ma con spirito tutto diverso, l’episodio di Eurialo e Niso.

CANTO XVIII, 165-173 165 Duo Mori ivi1 fra gli altri si trovaro, d’oscura stirpe nati in Tolomitta2; de’ quai l’istoria, per esempio raro di vero amore, è degna esser descritta. Cloridano e Medor si nominaro3, ch’alla fortuna prospera e alla afflitta4 aveano sempre amato Dardinello, ed or passato in Francia il mar con quello. 166 Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era ed isnella: Medoro avea la guancia colorita e bianca e grata5 ne la età novella6;

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 ivi: qui. La scena si svolge ai margini del campo saraceno posto fuori delle mura di

Parigi. Le truppe di Carlo Magno, grazie all’intervento di Rinaldo, hanno avuto la meglio, costringendo i Saraceni a battere in ritirata e minacciandoli di un assedio che potrebbe essere risolutorio. 2 Tolomitta: Tolmetta, città della Cirenaica.

302 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

165 Il narratore presenta i due eroi di una vicenda esemplare che si annuncia espressamente come “epica” (l’istoria... è degna esser descritta). In conformità con questa prospettiva e con la scelta del modello illustre a cui l’episodio si ispira (la vicenda virgiliana di Eurialo e Niso), la narrazione seguirà un andamento lineare, anomalo rispetto alle consuete interruzioni e riprese che caratterizzano il modo ariostesco di raccontare. 166 Il ritratto dei due eroi privilegia il più giovane, Medoro, di cui evidenzia l’adolescenziale bellezza.

3 si nominaro: si chiamavano. 4 ch’alla… afflitta: i quali, nella buona come nella cattiva sorte.

5 grata: gradevole. 6 novella: giovane.


e fra la gente a quella impresa uscita7 non era faccia più gioconda e bella: occhi avea neri, e chioma crespa d’oro: angel parea di quei del sommo coro8. 167 Erano questi duo sopra i ripari9 con molti altri a guardar gli alloggiamenti10, quando la Notte fra distanze pari11 mirava il ciel con gli occhi sonnolenti. Medoro quivi in tutti i suoi parlari12 non può far che ’l signor suo non rammenti, Dardinello d’Almonte, e che non piagna che resti senza onor ne la campagna13. 168 Volto al compagno, disse: – O Cloridano, io non ti posso dir quanto m’incresca del mio signor, che sia rimaso al piano14, per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca15. Pensando come sempre mi fu umano16, mi par che quando ancor questa anima esca in onor di sua fama, io non compensi né sciolga verso lui gli oblighi immensi17.

168-169 Medoro è il rappresentante dell’etica cavalleresca antica, che impone la fedeltà al proprio signore anche a costo della morte (in questo caso è una fedeltà che riguarda addirittura un morto). Cavalleresco (ma anche proprio dell’epica antica) è anche il desiderio di Medoro che la sua impresa sia ricordata. I nobili valori di Medoro sono attribuiti da Ariosto a un Saraceno: sarebbe stato possibile al tempo della Chanson de Roland?

169 Io voglio andar, perché non stia insepulto in mezzo alla campagna, a ritrovarlo: e forse Dio vorrà ch’io vada occulto18 là dove tace il campo del re Carlo. Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto19 ch’io vi debba morir, potrai narrarlo: che se Fortuna vieta sì bell’opra, per fama almeno il mio buon cor si scuopra20 –

7 a quella impresa uscita: venuta a partecipare alla guerra contro i cristiani. 8 sommo coro: la schiera degli angeli del Paradiso più vicini (sommo coro) a Dio, i Serafini. 9 ripari: fortificazioni. 10 a guardar gli alloggiamenti: a far la guardia agli accampamenti. 11 fra distanze pari: a metà strada tra oriente e occidente. Era mezzanotte, dunque. 12 parlari: discorsi. 13 che resti… campagna: che il suo cor-

po resti insepolto sul campo di battaglia, senza aver ricevuto gli onori che merita. 14 al piano: sul campo. 15 per lupi… esca: cibo troppo nobile per lupi e corvi (corbi). 16 come… umano: come è sempre stato generoso verso di me. 17 mi par che… oblighi immensi: mi sembra che anche quando questa mia anima abbandoni il corpo per rendergli onore, io non avrei ancora compensato quanto gli devo, né sciolto gli obblighi immensi che sento verso di lui. Si noti la

rima equivoca tra il sostantivo esca (v. 4) e il verbo esca (v. 6). 18 occulto: di nascosto, senza che nessuno mi veda. 19 sculto: scolpito. Cioè “stabilito” dal cielo. 20 se Fortuna… si scuopra: se la Fortuna non concede che un’impresa tanto onorevole sia portata a termine, che almeno si sappia, attraverso la fama che mi daranno le tue parole, quale sia stato il mio coraggio (buon cor). Lo stesso per core al v. 1 dell’ottava seguente.

L’Orlando furioso 3 303


170 Stupisce Cloridan, che tanto core, tanto amor, tanta fede21 abbia un fanciullo: e cerca assai, perché gli porta amore, di fargli quel pensiero irrito e nullo22; ma non gli val23, perch’un sì gran dolore non riceve conforto né trastullo24. Medoro era disposto o di morire, o ne la tomba il suo signor coprire25.

170-171 Cloridano invece è caratterizzato esclusivamente da un sentimento individuale: l’amicizia verso Medoro, che gli rende impossibile immaginare la propria vita senza l’amico. Con questo sentimento si spiega la decisione di accompagnarlo nell’ardua impresa.

171 Veduto che nol piega e che nol muove26, Cloridan gli risponde: – E27 verrò anch’io, anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove28 anch’io famosa morte29 amo e disio. Qual cosa sarà mai che più mi giove30, s’io resto senza te, Medoro mio? Morir teco con l’arme è meglio molto, che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto31. – 172 Così disposti, messero in quel loco le successive guardie32 e se ne vanno. Lascian fosse e steccati, e dopo poco tra’ nostri son, che senza cura stanno33. Il campo dorme, e tutto34 è spento il fuoco, perché dei Saracin poca tema35 hanno. Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi, nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi36. 173 Fermossi alquanto37 Cloridano, e disse: – Non son mai da lasciar l’occasioni. Di questo stuol che ’l mio signor trafisse, non debbo far, Medoro, occisioni38? Tu, perché sopra alcun non ci venisse39,

21 fede: fedeltà. È un latinismo. 22 cerca… nullo: cerca in ogni modo, poiché gli vuole bene, di dissuaderlo dal proposito. Letteralmente: “rendendo quella sua intenzione vana e senza effetti”. 23 non gli val: non gli riesce. 24 trastullo: distrazione. 25 coprire: seppellire. 26 nol... move: non lo convince (piega) e non lo smuove. 27 E: allora. 28 vuo’... pruove: voglio sottopormi a una prova così lodevole.

29 famosa morte: una morte gloriosa. 30 Qual cosa... mi giove: che cosa ormai potrebbe piacermi.

31 Morir teco… mi sii tolto: è molto meglio morire insieme a te, con le armi in pugno, che di dolore in seguito, se succede che tu mi sia tolto (perché ucciso). 32 Così disposti... guardie: avendo così deciso, collocano nella postazione in cui erano le sentinelle del turno successivo. 33 senza cura stanno: se ne stanno tranquilli, senza preoccuparsi di possibili incursioni nemiche.

304 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

34 tutto: del tutto, completamente. 35 tema: paura. 36 Tra l’arme... immersi: stanno riversi fra le armi e i carri, immersi fino agli occhi nel vino (cioè “ubriachi fradici”) e nel sonno (ossia “profondamente addormentati”). 37 Fermossi alquanto: si fermò un momento. 38 occisioni: uccisioni, stragi. 39 perché… venisse: affinché non sopraggiunga nessuno.


gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni40; ch’io m’offerisco farti con la spada tra gli nimici spaziosa strada41. – […] [Cloridano e Medoro danno inizio alla strage, che sembra non risparmiare nessuno; i due Saraceni si aggirano per il campo cristiano, immerso nel sonno e nei fumi dell’alcol, e come angeli vendicatori sgozzano e squartano quanti soldati incontrano sul loro cammino, finché non giungono nei pressi della tenda di re Carlo…] CANTO XVIII, 182-192 182 E ben che possan gir di preda carchi, salvin pur sé, che fanno assai guadagno42. Ove più creda aver sicuri i varchi43 va Cloridano, e dietro ha il suo compagno. Vengon nel campo, ove fra spade ed archi e scudi e lance in un vermiglio stagno44 giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, e sozzopra45 con gli uomini i cavalli. 183 Quivi dei corpi l’orrida mistura, che piena avea la gran campagna intorno, potea far vaneggiar la fedel cura dei duo compagni insino al far del giorno46, se non traea fuor d’una nube oscura, a’ prieghi di Medor, la Luna il corno47. Medoro in ciel divotamente fisse48 verso la Luna gli occhi, e così disse: 184 – O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme49; 40 perché sopra… parte poni: affinché

44 vermiglio stagno: lago rosso (di san-

nessuno ci sorprenda, tieni occhi e orecchie ben aperti. 41 m’offerisco… strada: mi offro di aprirti una larga strada tra i nemici, facendone strage con la spada. 42 E ben che… guadagno: e anche se potrebbero andarsene carichi di bottino, è meglio che pensino a salvare sé stessi, che già sarebbe un guadagno sufficiente. 43 Ove… varchi: laddove pensa che ci siano i passaggi più sicuri.

gue). 45 sozzopra: sottosopra. 46 Quivi dei corpi… al far del giorno: l’orribile intrico di cadaveri che c’era in quel luogo, avrebbe potuto rendere vana la sollecitudine fedele (cioè ispirata dalla fedeltà al loro re) dei due giovani finché non fosse giunta la luce del giorno. Tanti sono i corpi lì ammassati, che Cloridano e Medoro nel buio della notte non riescono a individuare quello di Dardinello.

182 Il pragmatico intervento esortativo del narratore («salvin pur sé, che fanno assai guadagno») smorza il tono epico. Anche nelle ottave precedenti non riportate, che descrivono l’uccisione dei cristiani da parte dei due amici, non mancano veri e propri stralci comicogrotteschi.

184 La preghiera di Medoro alla Luna è ricca di riferimenti mitologici. Ariosto non si preoccupa della scarsa verosimiglianza nel porre in bocca a un giovanissimo guerriero saraceno dotte immagini classicistiche.

47 se non traea… il corno: se, rispondendo alle preghiere (a’ prieghi) di Medoro, la Luna non avesse fatto uscire la propria falce (il corno) da una nube scura che le copriva. 48 fisse: rivolse. 49 triforme: nell’antichità la Luna era designata con nomi diversi, a seconda del luogo in cui si manifestava; precisamente “Cinzia” se in cielo, “Diana” in terra ed “Ecate” agli inferi.

L’Orlando furioso 3 305


ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri l’alta bellezza tua sotto più forme, e ne le selve, di fere50 e di mostri vai cacciatrice seguitando51 l’orme; mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti, che vivendo imitò tuoi studi santi52. – 185 La luna a quel pregar la nube aperse (o fosse caso o pur la tanta fede), bella come fu allor ch’ella s’offerse, e nuda in braccio a Endimion si diede53. Con Parigi a quel lume si scoperse l’un campo e l’altro54; e ’l monte e ’l pian si vede: si videro i duo colli di lontano, Martire a destra, e Lerì all’altra mano55. 186 Rifulse lo splendor molto più chiaro ove d’Almonte giacea morto il figlio. Medoro andò, piangendo, al signor caro; che conobbe il quartier bianco e vermiglio56: e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro pianto, che n’avea un rio57 sotto ogni ciglio, in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, che potea ad ascoltar fermare i venti58.

185 Il tono lirico e solenne dell’invocazione alla Luna è smorzato ironicamente dall’inciso («o fosse caso o pur la tanta fede») in cui si palesa il rinascimentale scetticismo dell’autore nei confronti di tutto ciò che è trascendente.

186 Riconosci la figura retorica attraverso cui Ariosto enfatizza il dolore di Medoro?

187 Ma con sommessa voce e a pena udita59; non che riguardi a non si far sentire, perch’abbia alcun pensier de la sua vita, più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire60: ma per timor che non gli sia impedita l’opera pia che quivi il fe’ venire61. Fu il morto re sugli omeri sospeso di tramendui62, tra lor partendo63 il peso.

50 fere: fiere. Diana è infatti la dea cacciatrice. 51 seguitando: seguendo. 52 che vivendo… santi: che (riferito a Dardinello, ’l mio re) quando era in vita fu cacciatore anche lui, come te. 53 bella come… si diede: bella come quella volta in cui si offrì nuda tra le braccia di Endimione, unico giovane mai amato dalla Luna. 54 l’un campo e l’altro: quello pagano e quello cristiano.

55 Martire… all’altra mano: Montmartre a destra, e Montlhéry dall’altra parte. Sono due colline di Parigi. 56 che conobbe… vermiglio: poiché aveva riconosciuto lo scudo a quartieri bianchi e rossi. 57 rio: rivo. 58 in sì dolci… i venti: con gesti e lamenti tanto dolci, che anche i venti si sarebbero fermati, se l’avessero udito. 59 Ma... udita: sott. “si lamenta”. 60 non che riguardi… vorrebbe uscire:

306 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

non che non voglia farsi sentire perché nutre qualche preoccupazione per la propria vita, che ora piuttosto la odia, e vorrebbe abbandonarla. 61 ma per timor… fe’ venire: ma per paura che gli venga impedito di compiere la pia opera che l’ha spinto a venire fin qui. per timor che è il solito costrutto alla latina. 62 Fu il morto re... tramendui: Il re morto fu sollevato sulle spalle (omeri) di entrambi. 63 partendo: dividendo.


188 Vanno affrettando i passi quanto ponno64, sotto l’amata soma che gl’ingombra65. E già venìa chi de la luce è donno66 le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra67; quando Zerbino68, a cui del petto il sonno l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra, cacciato avendo tutta notte i Mori, al campo si traea nei primi albori69. 189 E seco alquanti cavallieri avea, che videro da lunge i dui compagni. Ciascuno70 a quella parte si traea, sperandovi trovar prede e guadagni. – Frate71, bisogna (Cloridan dicea) gittar la soma, e dare opra ai calcagni72; che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto. –

188 Il dotto latinismo donno e il riferimento all’alta virtude di Zerbino, capitano cristiano degno di confrontarsi con i due eroi saraceni, nuovamente introduce il tono epico.

189-190 La pragmatica riflessione di Cloridano, a cui segue l’abbandono prudente del corpo del re, abbassa vistosamente l’“aura epica”. Quale termine in particolare è impiegato a questo scopo? Medoro invece rimane fedele al proprio idealismo cavalleresco e si carica il corpo del re sulle spalle.

190 E gittò il carco, perché si pensava che ’l suo Medoro il simil73 far dovesse: ma quel meschin, che ’l suo signor più amava, sopra le spalle sue tutto lo resse. L’altro con molta fretta se n’andava, come l’amico a paro o dietro avesse74: se sapea di lasciarlo a quella sorte, mille aspettate avria, non ch’una morte75. 191 Quei cavallier, con animo disposto che questi a render s’abbino o a morire76, chi qua chi là si spargono, ed han tosto preso ogni passo77 onde si possa uscire. Da loro il capitan poco discosto, più degli altri è sollicito a seguire78; 64 ponno: possono. 65 amata soma che gl’ingombra: l’amato carico (del loro signore Dardinello) che li impaccia nei movimenti. 66 donno: signore. Si tratta del Sole, signore della luce. 67 le stelle… l’ombra: a togliere le stelle dal cielo e l’ombra da terra. 68 Zerbino: personaggio d’invenzione ariostesca; è un cavaliere cristiano, figlio del re di Scozia. 69 a cui del petto... nei primi albori: Zerbi-

no, al quale il valore, quando ci sia necessità, scaccia il sonno dal petto (cioè “fa passare il sonno”), stava tornando al campo alle prime luci dell’alba, dopo aver fatto strage di Mori per tutta la notte. 70 Ciascuno... si traea: ciascuno (degli uomini di Zerbino) si dirige da quella parte, sperando di trovarvi prede e bottino. 71 Frate: fratello, qui sta per “amico”. 72 gittar... ai calcagni: abbandonare il corpo (la soma è “il peso”; più sotto il carco) e mettersi a correre.

73 il simil: la stessa cosa. 74 come… avesse: convinto che l’amico fosse insieme a lui, o subito dietro. 75 mille… morte: sarebbe rimasto ad aspettare non una sola, ma mille morti. 76 con animo disposto… o a morire: con animo determinato a far sì che questi (Cloridano e Medoro) debbano arrendersi (render) o morire. 77 preso ogni passo: occupato ogni passaggio. 78 sollicito a seguire: rapido a inseguire.

L’Orlando furioso 3 307


ch’in tal guisa vedendoli temere79, certo è che sian de le nimiche schiere. 192 Era a quel tempo ivi una selva antica, d’ombrose piante spessa80 e di virgulti, che, come labirinto, entro s’intrica di stretti calli e sol da bestie culti81. Speran d’averla i duo pagan sì amica, ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti82. Ma chi del canto mio piglia diletto, un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

192 Gli ultimi due versi dell’ottava ospitano il consueto intervento del narratore, finalizzato a rilanciare il movimento del poema.

CANTO XIX, 1-15 1 Alcun non può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota siede83: però c’ha i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede84. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, ed ama il suo signor dopo la morte85.

1-2 L’intervento commentativo del narratore, che apre il canto XIX, riconduce la vicenda dei due giovani a una prospettiva più generale, illuminandone il carattere esemplare. La seconda ottava introduce un riferimento puntuale alla corte, come al solito polemico: negli ambienti cortigiani dominano l’adulazione e l’ipocrisia.

2 Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme86. Questo umil diverria tosto il maggiore87: staria quel grande infra le turbe estreme88. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che ’n vita e in morte ha il suo signore amato.

79 ch’in tal guisa vedendoli temere: che vedendo la loro reazione spaventata. 80 spessa: folta. 81 entro s’intrica ... culti: dentro si fa intricata con sentieri stretti e frequentati (culti) solo dalle fiere. 82 Speran… occulti: i due pagani sperano che la selva si dimostri tanto amica da offrir loro un nascondiglio tra le sue fronde. 83 Alcun... siede: nessuno può sapere da chi sia veramente amato quando si trova

al colmo della fortuna. Letteralmente: “si trova sulla ruota della Fortuna”. 84 però... fede: perché ha accanto sia i veri sia i finti amici, che gli dimostrano tutti la medesima fedeltà. 85 Se poi... la morte: se poi la condizione felice si muta in triste, la massa degli adulatori si allontana; mentre colui che ama sinceramente (di cor) rimane costante nell’amare il proprio signore anche dopo la morte.

308 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

86 Se, come il viso... insieme: se il cuore potesse mostrarsi così come il viso, chi (tal) è importante nella corte e umilia (preme) gli altri e chi è poco nelle grazie del signore si scambierebbero le rispettive condizioni. 87 il maggiore: il più importante (nella corte). 88 turbe estreme: le ultime schiere (dei cortigiani).


3 Cercando già nel più intricato calle il giovine infelice di salvarsi89; ma il grave peso ch’avea su le spalle, gli facea uscir tutti i partiti scarsi90. Non conosce il paese, e la via falle91, e torna fra le spine a invilupparsi. Lungi da lui tratto al sicuro s’era l’altro, ch’avea la spalla più leggiera. 4 Cloridan s’è ridutto92 ove non sente di chi segue lo strepito e il rumore: ma quando da Medor si vede assente, gli pare aver lasciato a dietro il core. – Deh, come fui (dicea) sì negligente, deh, come fui sì di me stesso fuore, che senza te, Medor, qui mi ritrassi, né sappia quando o dove io ti lasciassi! – 5 Così dicendo, ne la torta via de l’intricata selva si ricaccia; ed onde era venuto si ravvia, e torna di sua morte in su la traccia93. Ode i cavalli e i gridi tuttavia94, e la nimica voce che minaccia: all’ultimo ode il suo Medoro, e vede che tra molti a cavallo è solo a piede.

4 Nota l’espressione patetica con cui Ariosto allude allo smarrimento di Cloridano quando si accorge di aver perso l’amato Medoro.

5 Domina l’ottava una sequenza affannosa di verbi relativi soprattutto alle impressioni uditive.

6 Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: Zerbin commanda e grida che sia preso. L’infelice s’aggira com’un torno95, e quanto può si tien da lor difeso, or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, né si discosta mai dal caro peso. L’ha riposato al fin su l’erba, quando regger nol puote96, e gli va intorno errando:

89 Cercando... di salvarsi: il giovine infelice andava (gìa) nei sentieri più intricati cercando di salvarsi. 90 gli facea... scarsi: gli rendeva vani tutti i tentativi.

91 falle: sbaglia. 92 ridutto: rifugiato. 93 torna... la traccia: torna sulle tracce

94 tuttavia: sempre. 95 torno: tornio. 96 nol puote: non lo può.

della propria morte.

L’Orlando furioso 3 309


7 come orsa, che l’alpestre cacciatore ne la pietrosa tana assalita abbia, sta sopra i figli con incerto core97, e freme in suono di pietà e di rabbia: ira la ’nvita e natural furore a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia98; amor la ’ntenerisce, e la ritira a riguardare ai figli in mezzo l’ira.

7 Nota l’efficacia rappresentativa del paragone scelto da Ariosto per descrivere lo stato d’animo di Medoro accerchiato dai cavalieri cristiani.

8 Cloridan, che non sa come l’aiuti, e ch’esser vuole a morir seco ancora, ma non ch’in morte prima il viver muti, che via non truovi ove più d’un ne mora99; mette su l’arco un de’ suoi strali acuti100, e nascoso con quel sì ben lavora, che fora ad uno Scotto101 le cervella, e senza vita il fa cader di sella. 9 Volgonsi tutti gli altri a quella banda ond’era uscito il calamo omicida102. Intanto un altro103 il Saracin ne manda, perché ’l secondo a lato al primo uccida; che mentre in fretta a questo e a quel domanda chi tirato abbia l’arco, e forte grida, lo strale arriva e gli passa la gola, e gli taglia pel mezzo la parola. 10 Or Zerbin, ch’era il capitano loro, non poté a questo104 aver più pazienza. Con ira e con furor venne a Medoro, dicendo: – Ne farai tu penitenza105. – Stese la mano in quella chioma d’oro, e strascinollo a sé con violenza: ma come gli occhi a quel bel volto mise, gli ne venne pietade, e non l’uccise.

97 con incerto core: indecisa (se assalire il cacciatore o difendere i piccoli). 98 ira... le labbia: l’ira e l’istintiva ferocia la inducono a sfoderare le unghie e a insanguinare il muso (cioè ad azzannare). 99 Cloridan… ne mora: Cloridano, che non sa come aiutarlo (Medoro) e che vuole

essere con lui (seco) anche nella morte, ma non trasformare la vita in morte (cioè senza morire) prima di aver trovato modo (via) per uccidere più di un nemico. 100 strali acuti: frecce acuminate. 101 Scotto: scozzese. 102 a quella... omicida: verso quella parte

310 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

(banda) da dove era uscita la freccia (calamo) omicida. 103 un altro: un’altra freccia. 104 a questo: a questo punto. 105 Ne farai tu penitenza: pagherai tu per queste morti.


11 Il giovinetto si rivolse a’ prieghi106, e disse: – Cavallier, per lo tuo Dio, non esser sì crudel, che tu mi nieghi ch’io sepelisca il corpo del re mio. Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi, né pensi che di vita abbi disio107: ho tanta di mia vita, e non più, cura, quanta ch’al mio signor dia sepultura108.

11-12 La preghiera di Medoro a Zerbino, che risulta molto convincente, è incentrata ancora una volta sul tema della fedeltà al proprio signore che connota il personaggio fino alla fine.

12 E se pur pascer vòi fiere ed augelli, che ’n te il furor sia del teban Creonte109, fa lor convito di miei membri110, e quelli sepelir lascia del figliuol d’Almonte. – Così dicea Medor con modi belli, e con parole atte a voltare un monte111; e sì commosso già Zerbino avea, che d’amor tutto e di pietade ardea. 13 In questo mezzo112 un cavallier villano, avendo al suo signor poco rispetto, ferì con una lancia sopra mano113 al supplicante il delicato petto. Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano114; tanto più, che del115 colpo il giovinetto vide cader sì sbigottito e smorto, che ’n tutto giudicò che fosse morto. 14 E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, che116 disse: – Invendicato già non fia! – e pien di mal talento117 si rivolse al cavallier che fe’ l’impresa ria118: ma quel prese vantaggio, e se gli119 tolse dinanzi in un momento, e fuggì via. Cloridan, che Medor vede per terra, salta del bosco a discoperta guerra120. 106 si rivolse a’ prieghi: si rivolse alle preghiere. 107 che di vita abbi disio: che abbia desiderio di vivere. 108 ho tanta… sepultura: mi interessa vivere per seppellire il mio signore. Letteralmente: “ho una preoccupazione pari (tanta… quanta) e non superiore (più) a quella di dare sepoltura al mio signore”. 109 E se pur… Creonte: ma se proprio vuoi far mangiare belve e uccelli (rapaci),

in modo che sia in te la follia del tebano Creonte. Costui era il tiranno di Tebe che aveva stabilito per legge la pena di morte per chi seppellisse i nemici uccisi. 110 fa lor… membri: dai loro come pasto il mio corpo. 111 atte a… monte: capaci di capovolgere una montagna. 112 In questo mezzo: Nel bel mezzo. 113 sopra mano: che era impugnata sopra la spalla.

114 strano: immotivato. 115 del: per il. 116 se ne… dolse, che: se ne sdegnò e addolorò al punto che. 117 mal talento: istinto malvagio. 118 l’impresa ria: il gesto scellerato. 119 se gli: gli si. 120 discoperta guerra: scontro diretto.

L’Orlando furioso 3 311


15 E getta l’arco, e tutto pien di rabbia tra gli nimici il ferro121 intorno gira, più per morir, che per pensier ch’egli abbia di far vendetta che pareggi l’ira. Del proprio sangue rosseggiar la sabbia fra tante spade, e al fin venir si mira122; e tolto che si sente ogni potere, si lascia a canto al suo Medor cadere. 121 il ferro: la spada. 122 Del proprio sangue... si mira: vede (si mira) la sabbia diventare rossa del proprio sangue e (si vede) giungere alla fine della vita.

Simone Pederzano, Angelica e Medoro, 1560-1596.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Dopo aver analizzato il testo proposto, dividilo in sequenze e sintetizza il contenuto di ogni sequenza. 2. Cloridano e Medoro: due amici, come si è visto, legati da un sentimento profondo, ma assai diversi l’uno dall’altro. Dopo aver riletto attentamente l’episodio, tratteggia un ritratto per ciascuno di loro, a partire dall’aspetto fisico e approfondendo, poi, anche le caratteristiche psicologiche. COMPRENSIONE 3. Quali sono le motivazioni che muovono rispettivamente Medoro e Cloridano all’impresa? Confronta l’ottava 168, vv. 7-8 e l’ottava 171, vv. 2-4 e 7-8. 4. Come termina l’avventura dei due amici? ANALISI 5. Come riescono a riconoscere il corpo di Dardinello? 6. Individua i punti del testo in cui il narratore-autore interviene direttamente con il suo commento: quali ti sembrano le finalità di questi interventi? STILE 7. Individua il punto dell’episodio in cui Ariosto fa ricorso alla figura retorica della prosopopea e spiegane il significato in rapporto al contesto.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

TESTI A CONFRONTO 8. Ariosto e Virgilio: rintraccia l’episodio virgiliano di Eurialo e Niso a cui Ariosto si è ispirato (Eneide IX, v. 176 e sgg.) e approfondisci il confronto tra i due testi, indicando quali siano le differenze che ti sembra di riscontrare nel rapporto fra i due amici. Come si conclude la vicenda, nell’uno e nell’altro caso? 9. Nell’ottava 1 del canto XIX il narratore interviene per affermare che nessuno può sapere da chi sia amato veramente finché siede sulla ruota della Fortuna, ma quando la condizione da lieta diventa negativa, a rimanere sono solo i veri amici. Ti è mai capitato di essere abbandonato da un amico nel momento del bisogno? O, al contrario, ti è capitato di vivere un momento negativo nella tua vita nel quale sei stato confortato da un amico?

312 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto


Ludovico Ariosto

T13

Ricompare Angelica… ma è una nuova Angelica Orlando furioso XIX, 20-30; 33

L. Ariosto, Orlando furioso, Garzanti, Milano 1974

Come si è visto (➜ T12 ), Cloridano e Medoro giacciono insieme a terra. Medoro in realtà non è morto, ma è ferito così gravemente da essere condannato a morte certa. Il caso gli fa incontrare una donzella (ben nota al pubblico dei lettori, anche se – precisa il narratore – è tanto che non sentono più parlare di lei): è Angelica che, da quando è rientrata in possesso dell’anello magico sottrattole da Brunello, pare diventata ancora più ritrosa e altera del solito. Amore decide quindi di punirla per la sua arroganza, scoccando una delle sue frecce (ott. 17-19): inaspettatamente la bella e irraggiungibile principessa si troverà, così, follemente innamorata di un oscuro soldato saraceno. Dopo averlo guarito, Angelica sceglie Medoro come sposo e celebra con lui le nozze nell’idillico contesto della capanna di un pastore. La vicenda, che ha al centro la ricerca della fanciulla, conosce quindi uno snodo fondamentale: da qui prenderà le mosse il grande tema della follia di Orlando.

20 Quando Angelica vide il giovinetto languir1 ferito, assai vicino a morte, che del suo re che giacea senza tetto, più che del proprio mal si dolea forte2; insolita pietade in mezzo al petto si sentì entrar per disusate porte3, che le fe’ il duro cor tenero e molle, e più, quando il suo caso egli narrolle4. 21 E rivocando alla memoria l’arte ch’in India imparò già di chirugia5 (che par che questo studio in quella parte nobile e degno e di gran laude sia6;

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 languir: giacere esanime. 2 che del suo re… si dolea forte: che si lamentava molto per il suo re, che giaceva privo di sepoltura (senza tetto “senza riparo”) più che delle proprie sofferenze. 3 disusate porte: attraverso porte poco usate, insolite per lei, ossia quelle per cui passa Amore, che Angelica finora ha rigettato. 4 e più… narrolle: e, ancora di più, quando Medoro le raccontò la propria storia.

e senza molto rivoltar di carte, che ’l patre ai figli ereditario il dia7), si dispose operar con succo d’erbe, ch’a più matura vita lo riserbe8. 22 E ricordossi che passando avea veduta un’erba in una piaggia amena; fosse dittamo, o fosse panacea9, o non so qual, di tal effetto10 piena, che stagna il sangue, e de la piaga rea11 leva ogni spasmo12 e perigliosa pena13. La trovò non lontana, e quella colta, dove lasciato avea Medor, diè volta14.

5 chirurgia: medicina. 6 par… sia: pare che in quella parte del mondo sia ritenuto nobile e degno di grande lode. In effetti, in molti romanzi cavallereschi si incontrano personaggi versati nelle conoscenze di medicina o abili nell’arte di medicare. 7 senza molto… il dia: senza bisogno di far ricorso a tanti libri (cioè si parla di conoscenze trasmesse a memoria), (pare) che (il soggetto è ancora questo studio al v. 3) lo passi (il dia) in eredità il padre ai figli. 8 si dispose... lo riserbe: decise di utilizzare del succo di erbe che possa conservarlo in vita fino a un’età più matura.

9 dittamo… panacea: due erbe medicamentose, la prima efficace nella cura delle ferite da freccia, la seconda per gli antichi rimedio per tutti i mali. “Panacea” è parola che deriva dal greco e significa “che tutto guarisce”. 10 effetto: potere. 11 piaga rea: terribile ferita. 12 spasmo: dolore. 13 perigliosa pena: sofferenza pericolosa, perché può condurre a morte. 14 La trovò... diè volta: La trovò non lontana e, dopo averla colta, fece ritorno (diè volta) dove aveva lasciato Medoro.

L’Orlando furioso 3 313


23 Nel ritornar s’incontra15 in un pastore ch’a cavallo pel bosco16 ne veniva, cercando una iuvenca, che già fuore duo dì di mandra e senza guardia giva17. Seco lo trasse ove perdea il vigore18 Medor col sangue che del petto usciva; e già n’avea di tanto il terren tinto, ch’era omai presso a rimanere estinto19.

26 Né fin che nol tornasse in sanitade30, volea partir: così di lui fe’ stima31, tanto se intenerì de la pietade che n’ebbe, come32 in terra il vide prima. Poi vistone i costumi33 e la beltade, roder si sentì il cor d’ascosa lima34; roder si sentì il core, e a poco a poco tutto infiammato d’amoroso fuoco.

24 Del palafreno Angelica giù scese, e scendere il pastor seco fece anche. Pestò con sassi l’erba, indi la prese, e succo ne cavò fra le man bianche; ne la piaga n’infuse20, e ne distese21 e pel petto e pel ventre e fin a l’anche: e fu di tal virtù questo liquore22 , che stagnò23 il sangue, e gli tornò24 il vigore;

27 Stava il pastore in assai buona e bella stanza35, nel bosco infra duo monti piatta36, con la moglie e coi figli; ed avea quella tutta di nuovo e poco inanzi fatta. Quivi a Medoro fu per la donzella la piaga in breve a sanità ritratta37: ma in minor tempo si sentì maggiore piaga di questa avere ella nel core38.

25 e gli diè forza, che25 poté salire sopra il cavallo che ’l pastor condusse. Non però volse indi26 Medor partire prima ch’in terra27 il suo signor non fusse. E Cloridan col re fe’ sepelire; e poi dove a lei piacque si ridusse28. Ed ella per pietà ne l’umil case del cortese pastor seco29 rimase.

28 Assai più larga piaga e più profonda nel cor sentì da non veduto strale39, che da’ begli occhi e da la testa bionda di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale40. Arder si sente, e sempre il fuoco abonda41; e più cura l’altrui che ’l proprio male: di sé non cura, e non è ad altro intenta, ch’a risanar chi lei fere e tormenta42.

15 s’incontra: s’imbatte. 16 pel bosco: attraverso il bosco. 17 una iuvenca… giva: una giovenca, che già da due giorni era uscita dalla mandria ed era in giro senza pastore che la guardasse. Nell’Orlando furioso tutti cercano qualcosa o qualcuno. 18 Seco… il vigore: Lo portò con sé (soggetto è Angelica) dove perdeva l’energia vitale. 19 già n’avea… estinto: col suo sangue aveva oramai tanto intriso il terreno attorno a sé che era prossimo a rimanere privo di vita. 20 n’infuse: ne versò. 21 ne distese: ne spalmò. 22 fu... liquore: questo succo ebbe tale potere (virtù).

23 stagnò: fece fermare. 24 tornò: restituì. 25 che: tanto che. 26 indi: di là. 27 in terra: ossia prima che gli fosse stata data sepoltura. 28 si ridusse: andò. 29 seco: con lui. 30 nol tornasse in sanitade: non tornasse in salute. 31 fe’ stima: si interessava. 32 come: va unito a prima nello stesso verso. 33 i costumi: gli atteggiamenti, il modo di comportarsi. 34 d’ascosa lima: di un assillo nascosto. 35 stanza: casa. 36 piatta: nascosta.

314 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

37 Quivi a Medoro... ritratta: Letteralmente: “qui, in breve, a Medoro la ferita fu guarita (a sanità ritratta “riportata alla guarigione”) dalla (per la) giovane. 38 ma in minor tempo… nel core: ma in un tempo più breve (di quello impiegato dalla ferita per guarire) Angelica si sentì crescere nel cuore una ferita ancora più grande di quella di Medoro. 39 da non veduto strale: da una freccia invisibile. È quella lanciatale da Amore. 40 aventò l’Arcier c’ha l’ale: scagliò Amore, rappresentato secondo l’iconografia tradizionale. 41 abonda: cresce. 42 chi lei fere e tormenta: colui che è causa della sua ferita e della sua pena.


29 La sua piaga più s’apre e più incrudisce43, quanto più l’altra si ristringe e salda44. Il giovine si sana: ella languisce di nuova febbre, or agghiacciata, or calda. Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce: la misera si strugge, come falda strugger di nieve intempestiva suole, ch’in loco aprico abbia scoperta il sole45. 30 Se di disio46 non vuol morir, bisogna che senza indugio ella se stessa aiti47: e ben le par che di quel ch’essa agogna48, non sia tempo49 aspettar ch’altri la ’nviti. Dunque, rotto ogni freno di vergogna, la lingua ebbe non men che gli occhi arditi: e di quel colpo domandò mercede, che, forse non sapendo, esso le diede50. […]

43 incrudisce: si aggrava. 44 l’altra… salda: quella di Medoro, si restringe e si richiude.

45 falda… il sole: come uno strato di neve fuori stagione (intempestiva), che il sole abbia scoperto in luogo esposto (aprico), di solito si scioglie. 46 disio: desiderio. 47 aiti: aiuti. 48 di quel ch’essa agogna: quanto a quel-

33 Angelica a Medor la prima rosa coglier lasciò, non ancor tocca inante51: né persona fu mai sì aventurosa52, ch’in quel giardin potesse por le piante53. Per adombrar, per onestar la cosa54, si celebrò con cerimonie sante il matrimonio, ch’auspice ebbe Amore, e pronuba la moglie del pastore55.

Sebastiano Ricci, Angelica e Medoro, olio su tela, 1716 (Muzeul Naţional Brukenthal, Sibiu, Romania).

lo che ella desidera ardentemente. Cioè unirsi a Medoro. 49 non sia tempo: non sia il caso. 50 di quel colpo… le diede: chiese (a Medoro) il risarcimento (mercede) per quella ferita che lui, forse senza rendersene conto, le aveva inferto. 51 non ancor tocca inante: mai toccata prima di allora. 52 aventurosa: fortunata.

53 ch’in quel… le piante: da poter mettere piede, entrare in quel giardino. 54 Per… la cosa: per coprire e legittimare onorevolmente l’accaduto. 55 ch’auspice… del pastore: ebbe come patrono, cioè testimone dello sposo (auspice), Amore e testimone della sposa (pronuba) la moglie del pastore. Presso i Romani, i due termini designavano coloro che conciliavano le nozze e facevano da testimoni.

Analisi del testo Angelica al bivio: da “personaggio” a “persona” grazie all’amore Con questo episodio siamo giunti al momento culminante della parabola narrativa concepita da Ariosto per la sua eroina, Angelica. Monocorde, sempre uguale a sé stessa – il suo movimento sulla scena narrativa è determinato, più che dalla volontà, dalle brame dei vari cavalieri che inutilmente la inseguono – in questo episodio chiave del poema Angelica si trasforma in modo radicale, sovvertendo la propria natura di personaggio schematico. Nel processo ha un ruolo primario l’amore, che giunge in modo del tutto imprevedibile e suscita nella donna reazioni inimmaginabili. Dapprima l’evento è dipinto, con ironia leggera, come la vendetta di Amore, non più disposto a tollerare l’alterigia della bella principessa; ma poi, ottava dopo ottava, Ariosto tratteggia con notazioni realistiche, sul piano psicologico, le tappe di un processo interiore che, in un crescendo di emozioni, porta la fanciulla al fatale innamoramento.

Un’Angelica “nuova”, che si prepara a uscire di scena Il punto culminante di questo suo nuovo dinamismo si raggiungerà quando, contravvenendo a ogni regola dell’amore cortese, sarà lei a dichiararsi a Medoro (ott. 30), concedendogli poi di cogliere la prima rosa (cioè la verginità) già inutilmente bramata da tanti altri (ott. 33). Ma proprio questo gesto di suprema autonomia, se da un lato la libera dalla sua rigida ma-

L’Orlando furioso 3 315


schera di oggetto irraggiungibile dei desideri, dall’altro determina la sua uscita dalla trama romanzesca: concedendosi a Medoro, Angelica diventa donna e moglie, e abbandona così lo statuto di “oggetto del desiderio” che fa muovere tutti gli altri personaggi. La “rosa” è stata colta, e Angelica si prepara ad abbandonare definitivamente i tortuosi sentieri narrativi dell’Orlando furioso.

Il silenzio di Medoro E Medoro? Come vive questo successo amoroso che lo vede primeggiare, lui, oscuro fante, fra tutti i paladini più celebri, cristiani e saraceni? Inaspettatamente, Medoro non dice una parola. Eppure ha avuto una fortuna inaspettata e straordinaria, come sottolinea maliziosamente Ariosto attraverso trasparenti metafore – «né persona fu mai sì aventurosa, / ch’in quel giardino potesse por le piante». La sua voce ricomparirà, ma in forma indiretta, solo nel canto successivo, quando un Orlando ormai avviato sulla strada della follia leggerà i versi tracciati sulla roccia dal giovane Saraceno per cantare le sue fortune amorose. Ma qui, quasi a fare da contraltare all’intraprendenza appena conquistata da Angelica, Medoro tace e subisce in tutto e per tutto l’iniziativa della fanciulla: ogni suo gesto, la narrazione del suo triste caso, la sua sofferenza, così come il suo rifiorire a guarigione avvenuta, sono visti attraverso lo sguardo della donna, vera protagonista di questo stralcio romanzesco.

La selva come “paradiso dell’amore” e fuga dal dramma della guerra L’ambiente che fa da teatro allo sbocciare dell’amore tra Angelica e Medoro è la stessa selva antica (canto XVIII, ott. 192, v. 1) nella quale si erano inoltrati Cloridano e Medoro in cerca di scampo; là labirinto intricato e infido, qui essa diventa rifugio amico, secondo gli schemi propri del locus amoenus. La selva, ambiente simbolico polivalente, è uno spazio dove tacciono le voci della guerra e della violenza, in cui l’uomo può riappropriarsi della condizione naturale e della gioia dell’amore: il luogo dove una principessa, abbandonata qualsiasi remora di convenienza sociale, può concedersi a un umile soldato, dopo essersi negata, nel corso di ben diciotto canti, ai cavalieri più illustri di entrambi gli schieramenti. Nel canto seguente, come vedremo, la stessa selva farà invece da sfondo all’improvvisa pazzia di Orlando, e subirà una nuova variazione di significato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi delle ottave 26-30, che mostrano il divampare della passione in Angelica. SINTESI 2. Riassumi l’episodio in 10 righe. COMPRENSIONE 3. Qual è il primo aspetto presente in Medoro da cui Angelica rimane colpita? ANALISI 4. Il canto ospita una parentesi realistica nelle ottave in cui sono descritte le iniziative con cui Angelica si prende cura di Medoro ferito (ott. 21-25). Di che cosa si tratta? LESSICO 5. Spiega il significato dei seguenti termini nel contesto del canto, indicando la differenza rispetto all’uso corrente: tetto, virtù, aventurosa, chirurgia, liquor, stanza. STILE 6. Ariosto fa ricorso a numerose figure retoriche per descrivere il progressivo innamoramento di Angelica per Medoro, soprattutto metafore e similitudini. Rintracciane la presenza e la funzione nel testo.

Interpretare

SCRITTURA 7. La metafora della rosa o del fiore (ott. 33) ricorre più volte all’interno del poema, e anche in alcuni passi antologizzati (in particolare nel canto I, “Il lamento di Sacripante” ➜ T5 ). Fai un confronto tra il testo citato e il passo del canto XIX qui proposto, evidenziando come questa immagine metaforica s’inserisca nella trama narrativa e le diverse valenze che assume (max 25 righe).

316 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto


T14

E cominciò la gran follia sì orrenda Orlando furioso XXIII, 100-121; 126-136; XXIV, 1-7

L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Siamo giunti al momento culminante nella parabola narrativa del Furioso e all’episodio che dà il nome all’intero poema e in cui questo si identifica. Nelle sue peregrinazioni, Orlando giunge per caso proprio sul luogo che è stato teatro degli amori tra Angelica e Medoro (che la giovane aveva soccorso e di cui poi si era innamorata); qui il paladino vede i loro nomi intrecciati scritti ovunque. Inizialmente non vuole arrendersi all’evidenza e cerca di dare spiegazioni del tutto improbabili a quello che vede, ma il progressivo accumularsi di prove, fino a quella definitiva e inequivocabile, lo priva alla fine di ogni possibile illusione su quanto è accaduto. Impazzito, cade preda di una furia violenta che si abbatte sopra ogni cosa, trasformandosi da eroico paladino in una belva feroce.

100 Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin1 pel bosco senza via, fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo2, né lo trovò, né poté averne spia3. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le4 cui sponde un bel pratel5 fioria, di nativo color vago e dipinto6, e di molti e belli arbori distinto7.

102 Volgendosi ivi intorno, vide scritti14 molti arbuscelli in su l’ombrosa riva. Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti15, fu certo esser di man de la sua diva16. Questo era un di quei lochi17 già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi18 vicina la bella donna del Catai regina19.

101 Il merigge facea grato l’orezzo8 al duro9 armento ed al pastore ignudo; sì che né10 Orlando sentia alcun ribrezzo11, che la corazza avea, l’elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v’ebbe travaglioso albergo e crudo12, e più che dir si possa empio13 soggiorno, quell’infelice e sfortunato giorno.

103 Angelica e Medor20 con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede21. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch’al suo dispetto22 crede: ch’altra Angelica sia, creder si sforza, ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza23.

La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 Saracin: è Mandricardo, che Orlando stava inseguendo. Il loro duello era stato interrotto dal cavallo di Mandricardo che, imbizzarrito («Lo strano corso… pel bosco senza via»), era scappato via col il suo cavaliere. 2 in fallo: sbagliando strada, girovagando a vuoto. 3 averne spia: averne una traccia, un indizio. 4 ne le: alle. 5 pratel: praticello.

6 di nativo... dipinto: bello e colorato per i fiori che vi erano nati. 7 di molti... distinto: adorno di numerosi begli alberi. 8 Il merigge... l’orezzo: il caldo del pomeriggio rendeva gradita la frescura. 9 duro: resistente (alle fatiche). 10 né: neppure. 11 ribrezzo: brivido di freddo. 12 travaglioso albergo e crudo: un riparo angoscioso e crudele. 13 empio: spietato. 14 scritti: incisi. 15 Tosto che... fitti: Non appena vi ebbe posato gli occhi e fissato lo sguardo. 16 de la sua diva: della sua dea, Angelica.

17 lochi: luoghi. È un riferimento al canto precedente.

18 indi: a quel luogo. 19 la bella donna del Catai regina: altra perifrasi (è soggetto di veniva) per indicare Angelica. 20 Angelica e Medor: si intendono i loro nomi, che Orlando vede numerosissimi scritti ovunque (in cento lochi) intrecciati insieme (con cento nodi). 21 Quante lettere… fiede: Ognuna delle lettere che compongono quelle scritte sono chiodi con i quali Amore trafigge e ferisce (fiede) il cuore del misero Orlando. 22 al suo dispetto: suo malgrado. 23 scorza: corteccia.

L’Orlando furioso 3 317


104 Poi dice: – Conosco io pur queste note24: di tal’io n’ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote25: forse ch’a me questo cognome mette26. – Con tali opinion dal ver remote usando fraude a sé medesmo27, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando28.

107 Il mesto conte a piè quivi discese38; e vide in su l’entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea39, che parean scritte allotta40. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta41. Che fosse culta in suo linguaggio io penso42; ed era ne la nostra tale il senso43 :

105 Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto29: come l’incauto augel30 che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto31, quanto più batte l’ale e più si prova di disbrigar32, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s’incurva il monte a guisa d’arco in su la chiara fonte33.

108 – Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata44, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano45 amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità46 che qui m’è data, io povero Medor ricompensarvi d’altro non posso, che d’ognor lodarvi47:

106 Aveano in su l’entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti34. Quivi soleano al più cocente giorno35 stare abbracciati i duo felici amanti36. V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso37.

109 e di pregare48 ogni signore amante49, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante50, che qui sua volontà meni o Fortuna51; ch’all’erbe, all’ombre, all’antro52, al rio, alle piante dica: benigno abbiate53 e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia54 che non conduca a voi pastor mai greggia55. –

24 Conosco... note: eppure io riconosco questi caratteri; cioè la scrittura di Angelica. 25 Finger... si puote: ella può essersi inventata questo Medoro. 26 forse... mette: forse è a me che mette questo soprannome (cognome). 27 Con tali... medesmo: con queste idee lontane dalla realtà (dal ver remote), ingannando sé stesso. 28 stette... procacciando: l’infelice (malcontento) Orlando si cullò nella speranza che era riuscito a procurarsi («a se stesso ir procacciando»). 29 sempre più... rio sospetto: quanto più (Orlando) cerca di mettere a tacere (spenger “spegnere”) il terribile (rio) sospetto, tanto più gli dà forza ([lo] raccende) e lo rinnova (rinuova). 30 augel: uccello. 31 che si ritrova… di petto: che si ritrova a sbattere con il petto nella rete (in ragna) o nel vischio (in visco). Sono trappole per catturare gli uccelli, nelle maglie di una rete o in una sostanza appiccicosa. 32 disbrigar: sciogliersi.

33 ove s’incurva… fonte: dove il monte, sopra la limpida fonte, forma un’altura, curva come (a guisa) un arco. Cioè una specie di grotta. 34 Aveano... erranti: edere e viti rampicanti (erranti) avevano adornato (aveano adorno) il luogo, all’entrata, con i (loro) ceppi (piedi) storti. 35 al più cocente giorno: nel momento più caldo della giornata. 36 i duo felici amanti: Angelica e Medoro. 37 impresso: intagliato. 38 Il mesto conte a piè quivi discese: Orlando (Il mesto [“triste”] conte) scese qui a piedi (da cavallo). 39 distese Medoro avea: Medoro aveva tracciate. 40 allotta: proprio in quel momento. 41 Del gran piacere… ridotta: Medoro aveva messo in versi questo pensiero (sentenza) sul grande piacere di cui aveva goduto in quella grotta. 42 Che fosse culta... io penso: penso che fosse stato composto (il pensiero) nella sua lingua, ossia in arabo. Medoro proveniva infatti dalla Cirenaica.

318 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto

43 era... il senso: tale era il senso nella nostra (lingua). 44 spelunca... grata: grotta buia e gradevole per la fresca ombra che offre. 45 invano: inutilmente, perché non ricambiati. 46 commodità: riparo. 47 ricompensarvi... lodarvi: non posso ricompensarvi in altro modo, che lodandovi sempre (ognor). 48 e di pregare: e (non posso ricompensarvi) che pregando. 49 signore amante: nobile innamorato. 50 o paesana o viandante: o originaria di questo paese o qui solo di passaggio. 51 che qui... Fortuna: che qui (nella grotta, la spelunca dell’ott. 108, v. 2) porti la sua volontà o il caso. Cioè che qui giunga per sua volontà o condotto dal caso. 52 antro: grotta. 53 benigno abbiate: vi siano favorevoli. 54 proveggia: faccia in modo che. 55 non conduca... greggia: nessun pastore porti mai il proprio gregge (a pascolare) tra voi, deturpandovi. 56 arabico: arabo.


110 Era scritto in arabico56, che ’l conte intendea57 così ben come latino: fra molte lingue e molte ch’avea pronte58, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte59, che60 si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n’ebbe frutto61; ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto62.

113 L’impetuosa doglia71 entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l’acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta72; che nel voltar che si fa in su la base, l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta, e ne l’angusta via tanto s’intrica, ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica73.

111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur63 cercando invano che non vi fosse quel che v’era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano64: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente65.

114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera74: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera75, o gravar lui d’insopportabil some tanto di gelosia, che se ne pèra76; ed abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato77.

112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa66. Credete a chi n’ha fatto esperimento67, che questo è ’l duol68 che tutti gli altri passa69. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto70.

115 In così poca, in così debol speme78 sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco79; indi al suo Brigliadoro il dosso preme80, dando già il sole alla sorella loco81. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti82 uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare83 armento: viene alla villa84, e piglia alloggiamento.

57 intendea: capiva. 58 fra molte... pronte: fra le moltissime lingue che il paladino padroneggiava, conosceva benissimo quella. 59 gli schivò... onte: gli evitò danni e ignominia. 60 che: è riferito a più volte del verso precedente, nel senso di “allorché, tutte le volte che”. 61 se già n’ebbe frutto: se un tempo ne ricavò un vantaggio. 62 può scontargli il tutto: può compensare qualsiasi guadagno mai avuto. 63 pur: sempre. 64 piano: semplice, facile da capire. 65 al sasso indifferente: non diverso dal sasso. Cioè Orlando è diventato come un sasso, è come pietrificato. 66 Fu allora per uscir… si lassa: Allora fu sul punto di perdere la ragione, tanto si abbandona in preda al dolore. 67 n’ha fatto esperimento: l’ha provato

di persona. È un riferimento che Ariosto fa alla propria vita. 68 duol: dolore. 69 passa: supera. 70 né poté aver… al pianto: e dal momento che il dolore si era del tutto impadronito di lui, non riuscì a trovar voce per esprimere i propri lamenti (querele), né lacrime (umore “liquido”) per piangere. 71 L’impetuosa doglia: il violento dolore. 72 Così veggiàn… stretta: allo stesso modo vediamo che rimane all’interno il liquido contenuto in un vaso con il corpo largo e l’imboccatura stretta. 73 che nel voltar… a fatica: che quando si capovolge la base verso l’alto, il liquido che vorrebbe uscire va tanto veloce e si ingolfa nel passaggio stretto che ne esce a fatica, goccia a goccia. 74 pensa… la cosa vera: pensa in quale modo ciò che ha visto possa essere non vero.

75 che voglia... e spera: che qualcuno voglia in questo modo gettare discredito sul nome della sua donna, e lo crede, lo desidera, lo spera. Il soggetto è Orlando. 76 o gravar… che se ne pèra: o far ricadere su di lui il peso (some) di una gelosia tanto grande, da farlo morire (che se ne pèra “che se ne muoia”). 77 ed abbia quel... imitato: e (pensa che) costui, chiunque sia stato, abbia imitato la scrittura di Angelica (la man di lei). 78 speme: speranza. 79 sveglia... poco: ritorna in sé stesso e riacquista un po’ di coraggio. gli vale li (“gli spiriti”). 80 il dosso preme: monta in sella. 81 dando... loco: quando ormai il sole lasciava il posto alla sorella, la Luna. 82 da le vie... tetti: dalle aperture nel punto più alto dei tetti, ossia dai comignoli. 83 muggiare: muggire. 84 villa: fattoria.

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116 Languido smonta85, e lascia Brigliadoro a un discreto86 garzon che n’abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d’oro gli leva, altri87 a forbir va88 l’armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v’ebbe alta avventura89. Corcarsi Orlando e non cenar domanda90, di dolor sazio e non d’altra vivanda.

119 come esso a prieghi99 d’Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch’era ferito gravemente; e ch’ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla100: ma che nel cor d’una maggior di quella lei ferì Amor101; e di poca scintilla l’accese tanto e sì cocente fuoco, che n’ardea tutta, e non trovava loco102:

117 Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio91 e pena; che de l’odiato scritto92 ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete93; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia94.

120 e sanza aver rispetto103 ch’ella fusse figlia del maggior re ch’abbia il Levante, da troppo amor costretta104 si condusse105 a farsi moglie d’un povero fante. All’ultimo l’istoria si ridusse, che ’l pastor fe’ portar la gemma inante, ch’alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede106.

118 Poco gli giova usar fraude a se stesso95; che senza domandarne, è chi ne parla96. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla97, l’istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch’a molti dilettevole fu a udire, gl’incominciò senza rispetto a dire98:

121 Questa conclusion fu la secure107 che ’l capo a un colpo108 gli levò dal collo, poi che d’innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo109. Celar si studia Orlando il duolo110; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo111: per lacrime e suspir da bocca e d’occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi112.

85 Languido smonta: spossato, smonta da cavallo. 86 discreto: abile. 87 altri... altri: un altro garzone..., un altro..., un altro ancora. 88 a forbir va: va a lucidare. 89 v’ebbe alta avventura: vi trovò la fortuna grandissima (di ottenere l’amore di Angelica). 90 Corcarsi... domanda: Orlando va a coricarsi e non chiede di cenare. 91 travaglio: tormento. 92 de l’odiato scritto: delle incisioni odiate, con le scritte dei nomi intrecciati di Angelica e Medoro. 93 le labra chete: la bocca chiusa. 94 che teme… nuocer debbia: poiché ha paura che diventi troppo evidente (serena) e troppo chiara la cosa che lui cerca di tenersi nascosta («di nebbia cerca offuscar») perché non lo faccia soffrir troppo.

95 usar fraude a se stesso: ingannare se stesso. 96 che senza... ne parla: che c’è chi gliene parla senza bisogno che lui faccia domande. 97 levarla: darle sollievo. 98 l’istoria... a dire: incominciò a narrargli, senza riguardo (rispetto), la storia, a lui ben nota, dei due amanti che raccontava spesso a chi la voleva ascoltare, dato che fu un gran diletto per molti l’ascoltarla. 99 a prieghi: per le preghiere. 100 guarilla: la guarì. 101 nel cor... Amor: Amore la colpì al cuore con una ferita maggiore di quella (piaga). 102 loco: pace. 103 sanza aver rispetto: senza preoccuparsi. 104 costretta: vinta. 105 si condusse: giunse. 106 All’ultimo l’istoria… Angelica gli

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diede: il racconto giunse alla fine in questo modo, che il pastore si fece portare il gioiello donatogli da Angelica alla sua partenza, come segno di riconoscenza (per mercede) per la buona ospitalità (albergo) ricevuta. 107 secure: scure. 108 a un colpo: con un sol colpo. 109 poi che… satollo: dopo che quel carnefice di Amore si considerò soddisfatto (satollo “sazio”) per gli innumerevoli colpi inferti (a Orlando). 110 Celar... il duolo: Orlando si sforza di nascondere il dolore. 111 e pure… pòllo: ma il dolore si impone su di lui, ed egli riesce a nasconderlo male. pollo “lo può”. 112 convien... che scocchi: è inevitabile che alla fine esca fuori, volente o nolente.


[Dopo la terribile rivelazione, Orlando cerca pace invano. Senza riuscire a prender sonno, lascia nottetempo la dimora del pastore e, appena solo, dà libero sfogo al proprio dolore con urla e pianti. Fugge i luoghi abitati, dorme per terra nella foresta e si chiede come possa sopravvivere a tanto strazio.]

126 – Queste non son più lacrime, che fuore stillo113 dagli occhi con sì larga vena114. Non suppliron le lacrime al dolore115: finir, ch’a mezzo era il dolore a pena116. Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch’agli occhi mena117; ed è quel che si versa, e trarrà insieme e ’l dolore e la vita all’ore estreme118.

128 Non son, non sono io quel che paio125 in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra126. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch’in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l’ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza127. –

127 Questi ch’indizio fan del mio tormento119, sospir non sono, né i sospir sono tali120. Quelli han triegua talora; io mai non sento che ’l petto mio men la sua pena esali121. Amor che m’arde il cor, fa questo vento122, mentre dibatte intorno al fuoco l’ali123. Amor, con che miracolo lo fai, che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai124?

129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma128 lo tornò129 il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l’epigramma130. Veder l’ingiuria sua scritta nel monte l’accese sì, ch’in lui non restò dramma131 che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore132.

113 stillo: verso. 114 con sì larga vena: tanto abbondantemente. 115 Non suppliron... al dolore: le lacrime non furono abbastanza per il dolore. 116 finir... a pena: finirono, quando il dolore non era giunto che a metà. 117 Dal fuoco spinto... mena: spinto dal fuoco della passione amorosa, ora il liquido della vita esce attraverso quella via che porta (mena) agli occhi. Secondo la medicina antica, la vita e la salute risiedevano negli umori vitali (il vitale umore). Orlando crede che non siano più lacrime quelle che sta versando, perché è impossibile che tante ne escano dagli occhi, ma che sia l’umore vitale che sta abbandonando il suo corpo, fino a farlo morire, come dice subito dopo.

118 trarrà… estreme: condurrà alla fine sia il dolore che la vita. 119 Questi... mio tormento: questi (sospir) che rendono visibile il mio dolore. 120 né i sospir sono tali: e i sospiri non son come questi. 121 Quelli… esali: quelli (i sospiri) di quando in quando si placano, mentre io non sento mai che il mio dolore si esprima con minor sospirare. 122 fa questo vento: (Amore) produce questi sospiri. 123 mentre dibatte... l’ali: mentre sbatte le ali attorno al fuoco dell’amore, che arde dentro al misero Orlando, per ravvivarlo. 124 Amor, con che... nol consumi mai: Amore, con che portento (lo è pleonasmo) fai che (il cor , v. 5) bruci sempre, senza che mai si consumi?

125 paio: sembro. 126 sì, mancando... fatto guerra: tanto gli è stata nemica, non mantenendo la fedeltà. Cioè tradendolo. 127 acciò… speranza: affinché con la sua ombra, che è l’unica cosa che resta, sia d’esempio a quanti ripongono le proprie speranze in Amore. 128 la diurna fiamma: il Sole. 129 lo tornò: lo ricondusse. Il soggetto è il suo destin. 130 isculse l’epigramma: scolpì l’epigramma (ott. 108-109). 131 dramma: la più piccola quantità. 132 trasse il brando fuore: estrasse la spada.

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130 Tagliò lo scritto e ’l sasso133, e sin al cielo a volo alzar fe’ le minute schegge. Infelice quell’antro, ed ogni stelo134 in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch’ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge135: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura136;

133 Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo: l’arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo146. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l