Estate al via Plus - Valerio e il professor Boatigre cl4

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Gruppo

Il piacere di apprendere

disegni di Manola Caprini

UAO

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Luca Poldelmengo

Valerio e la scomparsa del professor Boatigre disegni di Manola Caprini

della stessa serie:

Valerio nella tana del varano

della stessa illustratrice, in queste edizioni: La canzone della felicità, Le 10 tabelline, La filastrocca non si tocca!

Progettazione lettering del titolo: Pemberley Pond

© 2020 Gallucci editore srl - Roma

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Con il fantasioso contributo del giovane Valerio Poldelmengo Disegni di Manola Caprini

A Lorenzo, la pulce di casa

L’uomo che viene

dall’Australia

«Valerio, sveglia!»

No, non può essere vero, è solo un brutto sogno! Non faccio in tempo a capire che quella è la vera voce di mamma e non un incubo, che lei ha già acceso la luce.

«Dài, alzati, faccio tardi in ufficio!»

Mi ha tirato via le coperte! Dove trova le energie per essere così crudele di primo mattino?

«Mamma…»

No, non aprirò gli occhi, non starò al suo gioco. Afferro le coperte e me le tiro sulle spalle.

«Ancora 5 minuti». È un mio diritto.

Sento il suo alito alla menta sulla faccia. Si deve essere già lavata i denti.

«Ti avevo detto che il documentario di Boatigre finiva troppo tardi. Domenica prossima…»

Mi tiro su come uno zombie per impedirle di terminare la minaccia, dato che mia madre ha il brutto vizio di mantenere ciò che promette. Pur di sviare il discorso inizio a parlare, anche se è tanto faticoso appena sveglio.

«Ognuno ha i suoi ritmi. Lo sai per esempio che il koala dorme anche ventidue ore al giorno?»

«Ma passa la vita su una pianta e mangia solo foglie, vuoi fare a cambio con lui?»

Ho usato un pessimo esempio, io odio le verdure.

Mamma è lì che mi sorride con il ghigno di chi sa di aver vinto la prima sfida della giornata.

«La colazione è pronta» mi dice soddisfatta.

«Hai comprato i cereali al cioccolato?» Almeno questo mi sarà dovuto.

«No, stamattina solo foglie di eucalipto per il mio koala».

Non le basta vincere, infierisce! Le lancio uno sguardo offeso che lei non coglie perché è già uscita dalla stanza.

Alla fine sono rimasto solo con Boatigre, che mi fa l’occhiolino dal poster appeso alla parete.

Chissà se anche lui ha avuto una madre spietata come la mia.

Il professor Boatigre è il mio eroe, un biologo documentarista, uno che per lavoro incontra gli animali più pericolosi del mondo: grandi felini, pescecani e soprattutto serpenti. E io un giorno sarò come lui!

A mia madre piace fare la dura, ma nel latte trovo i cereali al cioccolato. Nonostante la bella sorpresa, rischio di addormentarmi sulla tazza.

Mi lavo e mi vesto a fatica, ho gli occhi ancora pesanti. Poi però apriamo la porta di casa, e il vento gelido mi sveglia.

È un ottobre più freddo del solito a Roma e mamma deve

aspettare che si sciolga il ghiaccio sui vetri prima di uscire dal parcheggio. Sento l’aria calda rimbalzarmi addosso dal parabrezza, è una bella sensazione. Mi rilasso sul sedile e guardo un buco aprirsi sulla sottile lastra di ghiaccio che ricopre il vetro. Sembra il varco in un muro, uno spiraglio segreto: solo da lì è possibile individuare il punto esatto dove è nascosto il tesoro. Ecco, ora il buco si allarga e si vede un albero in lontananza, forse là sotto… Mamma esce dal parcheggio prima che io possa memorizzare un’immagine precisa della mappa del tesoro. Peccato!

La scuola è vicina: se mamma non dovesse proseguire per il suo ufficio potremmo andare a piedi, e infatti arriviamo subito.

La saluto con un bacio e scendo dall’auto, sospiro e mi infilo a testa bassa dentro al grande cancello grigio. Quando entro nella quinta B, i miei compagni sono già quasi tutti in classe, ma per fortuna la maestra non è ancora arrivata. Mi dirigo verso il mio banco e passo vicino al gruppetto dei maschi. Come ogni lu-

nedì, parlano di calcio. L’argomento non mi appassiona, ne conosco il minimo indispensabile per non essere considerato un alieno. Lancio un mezzo saluto a cui nessuno risponde. Mi siedo e li osservo, li sento pronunciare nomi e risultati che per loro sembrano di vitale importanza. Sanno recitare cognomi stranieri impronunciabili e intere formazioni comprese di riserve, ma se io gli nomino un serpente meno comune della vipera sono strano.

Ma perché loro sarebbero normali?

Mi sento fuori posto, e non mi piace per niente. Alle volte è così faticoso!

Matteo si avvicina, si spinge gli occhiali sul naso.

«A ricreazione c’è la sfida con la quinta A, Alessio vuole sapere se giochi».

Alzo le spalle, come a dire “se non c’è proprio niente di meglio da fare…”. Matteo mi sorride. A lui il calcio piace, ma non è un campione e il fatto che io sarò in campo lo rassicura: ci divideremo i rimproveri di tutti gli altri, a partire da quelli di Alessio.

Alessio è alto e magro, ha la carnagione scura e i capelli neri ricci. È il più forte a giocare a calcio, quello al quale tutti vogliono sedere vicino al tavolo della mensa, mentre io finisco sempre accanto alle maestre. Eppure, nonostante la sua popolarità, Alessio ha sempre sul viso quell’espressione che hanno i cani quando ti avvicini loro mentre mangiano, come se avesse paura che tutti vogliano rubargli qualcosa.

«ALLORA GIOCHI?»

Alessio me lo urla alle spalle facendomi sobbalzare. Mi volto di scatto: «Ma sei scemo?»

«Ah ah, si è spaventato!»

Lo dice rivolgendosi platealmente agli altri per prendermi in giro. Mi verrebbe da rispondergli di sì, dal momento che non sono un pappagallo, capace di girare completamente il collo per guardarsi alle spalle. Ma non farei che peggiorare la situazione.

«Sì, gioco» gli rispondo mentre guardo Matteo.

«Cercate di non farci perdere». Alessio lo dice come se dal risultato della partita

dipendesse il destino del mondo. Se solo si rilassasse un po’, vivrebbe meglio lui e soprattutto farebbe vivere meglio noi.

«Forza, tutti seduti!» La maestra Sonia, entrando con il suo passo corto e veloce, pronuncia le parole in maniera frenetica, elettrizzata, come il cespuglio di capelli castani che ha in testa.

Alessio e Matteo si mettono seduti ai loro posti. Ci aspettano due ore interminabili di geometria. Tutti e tre ci scambiamo uno sguardo complice, da vittime designate. Ma almeno in questo momento mi sento come loro, e per un istante sono felice.

La maestra Sonia traccia poligoni alla lavagna e blatera di angoli e vertici, ma io mi perdo con lo sguardo sul planisfero attaccato alla parete. È vecchio e ingiallito, alcuni nomi ormai nemmeno si leggono più, ma il mio obiettivo è così imponente che nemmeno il tempo è stato in grado di sbiadirlo: l’Australia.

Stasera verrà a cena un vecchio amico di papà. Sono giorni che in casa non si parla d’altro. Hanno fatto tutte le scuole insieme,

dalle elementari all’università, poi Corrado – così si chiama – si è trasferito in Australia e solo da un mese è tornato a vivere in Italia. Sono contento che si ritrovino. Papà mi dice sempre che l’amicizia è importante e che bisogna imparare a prendere il meglio dagli altri, e io provo a dargli retta. E da Corrado vorrei prendere tutti i racconti che potrà farmi sulla fauna dell’Australia, la nazione in cui vive il maggior numero di specie animali potenzialmente mortali per l’uomo!

La notte degli imbrogli

Corrado non è come me lo immaginavo. Non ha niente di avventuroso da raccontarmi e non sa nulla sugli animali. E ha un aspetto repellente: magrissimo, con le sopracciglia folte, i denti gialli e un alito pestilenziale, forse per quella sigaretta elettronica che continua a mettersi in bocca. E poi ha il brutto vizio di toccarti quando parla. Secondo me è antipatico anche a mamma, ormai lo capisco quando lei ride per educazione e quando qualcuno le piace per davvero.

Papà invece sembra non badare a niente

all’infuori dei loro ricordi. È come se non vedesse la sigaretta, i denti gialli, se non sentisse l’alito fetido. Deve avere ancora davanti a sé l’immagine del vecchio compagno di banco, perché ha gli occhi che sorridono mentre gli parla.

«Posso andare in camera mia?»

«Certo» si sbriga mamma a rispondere per anticiparlo.

Papà, che a questo punto evita di contraddirla davanti all’ospite, si limita a chiedere: «Ti chiamiamo per il dolce?»

Ma si capisce che se fosse dipeso da lui avrebbe preferito che rimanessi ad ascoltare i loro aneddoti noiosissimi. Grazie mamma, ti voglio bene.

«Ok».

Scappo via prima che papà ci ripensi.

Ho letto sulla biografia di Boatigre che è nato e vive a Roma, in un quartiere che si chiama Borgo Pio. Qualche giorno fa ho chiesto a papà se fosse lontano da casa nostra e lui mi ha portato sulla terrazza del palazzo.

Lì mi ha indicato un punto lontano all’oriz-

zonte, dove si distingueva a fatica parte di una grossa cupola bianca. Quando mi ha passato il cannocchiale che mi hanno regalato per Natale, sono riuscito a vederla meglio: era San Pietro, dove vive il Papa. Papà mi ha spiegato che Borgo Pio è lì vicino, quindi parecchio lontano da casa nostra. Lì per lì ci sono rimasto male, speravo di poter incontrare Boatigre al bar o al supermercato, perché io gli devo parlare! Devo farmi spiegare come fa a sapere tutto sugli animali, quali studi devo fare per diventare come lui, se gli va di portarmi con sé la prossima volta che andrà in Amazzonia a filmare gli anaconda e se può regalarmi un fazzoletto blu come quello che porta legato al collo nei suoi documentari. Comunque, non mi sono fatto scoraggiare. Nonostante Borgo Pio sia lontano, io continuo ad allenarmi, perché so che prima o poi incontrerò Boatigre e quando accadrà voglio essere pronto per accompagnarlo nelle sue avventure.

“L’isola è ormai vicina!” Sto per raggiungere finalmente la terra ferma sulla mia

scialuppa fatta con cuscini e lenzuola. Scruto l’orizzonte attraverso il cannocchiale.

Come Boatigre andrò alla ricerca dei feroci predatori che abitano la fitta vegetazione.

Vedo gli alambicchi del piccolo chimico allineati sulla scrivania e subito sotto l’orologio del lettore dvd che indica le 21:10.

Ma un momento! Qualcosa di peloso mi ostruisce la visuale. Quale belva affamata avrò avvistato?

Ha il muso di un roditore, ma deve essere grande come un elefante! Una specie sconosciuta che sta… annusando gli alambicchi del piccolo chimico!

«Vai via, Spugna!»

È un attimo: senza rendermi conto della reale distanza che c’è tra me e il tavolo, con un gesto maldestro faccio cadere le provette per evitare che Spugna le annusi.

I liquidi cadono sopra il lettore dvd acceso, la luce dell’orologio sembra friggere e poi si spegne. Si alzano dei fumi puzzolenti che mi fanno lacrimare gli occhi. La stanza comincia a ondeggiare, quasi fosse diventata liquida e venisse risucchiata verso il cen-

tro, come quando nella vasca da bagno si toglie il tappo. Poi va via la luce e non vedo più nulla. Ed è strano a dirlo ma è un sollievo, perché mi stavo spaventando.

Però il buio dura poco. Sento la porta spalancarsi e una luce buca l’oscurità fino a trovare il mio viso.

«Tutto bene?»

È papà, con una torcia in mano.

Gli faccio segno di sì con la testa, ma non ne sono convinto.

«Cos’è questa puzza?»

Papà allunga il passo, mi supera e va verso la finestra, la spalanca. Temo l’istante che sta per arrivare.

Si volta e mi punta di nuovo la torcia contro, ma stavolta la voce ha un tono inquisitorio.

«Cosa hai combinato?»

Una punizione ingiusta

«Ma dove hai la testa?»

Papà è furioso, mi indica le provette rovesciate e il lettore dvd spento, da cui esce ancora del fumo biancastro. La luce è tornata, ma preferivo quando era spenta. Come se non bastasse, sento un odore di marcio, lo stesso di quando mamma mi manda a buttare la spazzatura dell’umido e la sera prima abbiamo mangiato del pesce. Mi viene da vomitare. Forse è il fumo? Ma sento una leggera pressione sulla spalla…

Allungo la coda dell’occhio e vedo

una mano talmente rinsecchita che potrei contarne le ossa. Una voce mi soffia nell’orecchio: «L’importante è che tu non ti sia fatto male».

Mi volto. Il viso scheletrico di Corrado è così vicino da spaventarmi.

«Vieni qui!» mi chiama papà.

So che non mi aspetta nulla di buono perché quando papà è veramente arrabbiato, non urla: più il suo tono è pacato, più temo quello che dirà. Ma lo assecondo con sollievo: farei di tutto pur di allontanarmi dal suo amico.

«Niente documentari per un mese e il piccolo chimico te lo requisisco»

«Ma è stato un incidente!»

Cerco l’appoggio di mamma, ma questa volta è lei a non voler contraddire papà. Mi lancia uno sguardo per chiedermi di non peggiorare la situazione, poi tenta di allentare la tensione: «Lasciamo che la camera prenda aria. Valerio, tu vai a metterti il pigiama in bagno e metti quei vestiti nella cesta dei panni sporchi».

Ubbidisco, ma è un’ingiustizia.

Dopo che Corrado finalmente è andato via, vado a cercare la mia cavia peruviana per sgridarla. Guardo sotto il letto, ma non c’è. Non c’è neppure dietro il divano, il suo nascondiglio preferito quando vuole stare al calduccio.

«Spugna, dove sei, vieni fuori!»

Lo cerco per tutta la casa, ma non lo trovo.

«Di sicuro si è rifugiato nella sua gabbia in giardino» dico a mamma. «Vado a vedere lì»

«No, è tardi, ora vai a dormire. Ci guarderai domattina»

«Ma mamma…»

«Che cosa ho detto?»

Non mi sembra la serata adatta per insistere e batto in ritirata.

A letto mi rigiro il cannocchiale tra le mani e conto le chiazze che i fumi chimici hanno lasciato sulla vernice. Per fortuna papà non se n’è accorto, altrimenti mi avrebbe sequestrato anche questo. Domani dovrò trovare il modo di pulirlo senza dare nell’occhio. Ma non è giusto!

Sono arrabbiato con papà perché è stato troppo duro. Sono arrabbiato con Cor-

rado perché ha l’alito che gli puzza come una fogna. Sono arrabbiato con mamma perché non mi ha difeso. Ma soprattutto sono arrabbiato con Spugna!

È furbo il roditore, sa di averla combinata grossa. Ma se pensa di essersela cavata così… Da domani le verdurine fresche extra che gli metto tutte le mattine se le può anche scordare! Non avrà un singolo sedano né un peperone fino a quando papà non mi restituirà il piccolo chimico.

La scomparsa di Spugna

Apro gli occhi per vedere l’ora, ma il lettore dvd non c’è più: purtroppo non è stato solo un brutto sogno. E Spugna dov’è?

Poggio i piedi per terra e sento il pavimento gelato, mi infilo le ciabatte e raggiungo il salone cercando di non fare rumore.

Mamma è già in piedi, beve un caffè mentre è impegnata nella sua attività preferita: mandare messaggi su WhatsApp. Non capirò mai perché io devo avere degli orari per usare tablet e videogiochi e lei può stare attaccata al telefono ogni volta che ha un momento libero. Se vedesse me con il tablet in mano alle sette del mattino sarebbe capace di togliermelo per tutto il giorno. Il bello è che quando glielo faccio

notare mi risponde che è per lavoro, o che sta rispondendo a gruppi che riguardano me. Dice che non si sta divertendo e che è solo una grande scocciatura, di cui però ormai non si può fare a meno. Ma a me non sembra proprio. Ho la netta sensazione che me la stia raccontando, e che forse se la racconti anche lei.

Approfitto della situazione e svicolo in giardino senza farmi vedere. Mi sento in colpa, voglio fare pace con Spugna. Deve essersi spaventato molto ieri sera con tutto quello che è successo.

Arrivo fino alla gabbia e la apro. Mi metto a quattro zampe sull’erba ancora umida di brina e infilo la mano nella casetta di plastica dove è solito nascondersi. Niente, è vuota.

Mi guardo intorno, ma del mio amico peloso non sembra esserci traccia. Poco male, so io come stanarlo.

Rientro in casa e mi dirigo in cucina cercando di non fare rumore. Mamma è sempre impegnata col telefono, ora sorride. Si vede proprio che per lei è un tormento usare WhatsApp!

Prendo tutto il necessario e torno in giardino. Metto del fieno nella gabbia, aggiungo un cucchiaio di mangime nella ciotola e poi concludo con tre pezzi di peperone, il suo ortaggio preferito. Spugna è un goloso, non saprà resistere. Salterà fuori con quel suo squittio inconfondibile non appena sentirà l’odore del cibo.

«Amore, sei già in piedi?» Mamma mi ha scoperto.

«Cercavo Spugna. L’hai visto?»

«No. Vatti a vestire che qui fuori fa freddo» mi risponde dopo aver rituffato gli occhi sul telefono, richiamata dall’irritante suono che ha scelto per i messaggi.

Faccio del mio meglio per lavarmi, vestirmi, fare colazione e preparare lo zaino nel più breve tempo possibile. Se mamma non fosse così distratta dai suoi messaggini, sarebbe fiera di me. Controllo l’orologio: sono le otto e venti. Ho ancora due minuti. Scappo in giardino e…

Niente. Di Spugna non c’è traccia. Il fieno, il mangime, il peperone, tutto è lì dove l’ho lasciato, senza neppure un

morso. Inizio a essere preoccupato sul serio. Ieri sera deve essersi spaventato davvero, lui che è così piccolo, una preda.

Ricordo ancora il giorno in cui lo abbiamo comprato lo scorso Natale: abbiamo dovuto metterlo dentro una scatola di cartone per trasportarlo fuori dal centro commerciale senza che si spaventasse troppo. E anche quando è arrivato a casa, i primi tempi, ogni volta che lo prendevo in braccio tremava tutto. Poi si è abituato, ma quello che è accaduto ieri sera deve averlo traumatizzato. Se solo lo avessi cercato prima, se lo avessi tenuto in braccio, se lo avessi rassicurato.

«Andiamo, è tardi»

«Mamma, ma Spugna…»

«Con questo freddo si sarà nascosto dentro, vedrai che quando ritorni da scuola verrà lui a cercarti».

Guardo mamma e spero tanto che sia una di quelle volte in cui ha ragione, ma ho un bruttissimo presentimento.

L’incarico

Entro in classe con il pensiero fisso a Spugna. Sfilo di fianco ai miei compagni riuniti nel consueto gruppetto animato dal chiacchiericcio, alzando un braccio svogliato per salutarli. All’improvviso tra di loro cala il silenzio. Arrivo al banco, mi volto per sedermi e mi accorgo che tutti mi stanno guardando. Mi controllo i vestiti: forse ho indossato qualche indumento al contrario per la fretta? I miei compagni si radunano tutti di fronte a me. Alzo lo sguardo con timore.

«Santiago è scomparso» dice Matteo quasi con le lacrime agli occhi. Santiago è il suo bassotto.

«Anche Frisbee non si trova» aggiunge Florian, il più alto e grosso della classe. Per

rivendicare la scomparsa del suo gatto scansa Matteo e quasi lo fa cadere in terra per la foga.

«E pure Briciola»

«Sammy»

«Ricky»

Ormai le voci si accavallano: il gatto di Stefan, la tartaruga di Gabriele, il criceto di Alessandro.

«Anche Spugna non si trova…» rispondo d’istinto, anche se ancora non ho capito cosa stia succedendo.

«Seduti!»

La maestra Sonia è entrata, ma nessuno di noi se n’era accorto. Tutti raggiungono i loro posti.

Devo avere un’espressione sbigottita disegnata sulla faccia, perché la maestra mi chiede: «Allora Valerio, che succede?»

«I nostri animali sono fuggiti tutti, questa notte»

«Non mi stupisce…»

commenta la maestra Sonia catturando la nostra

attenzione. Non le capita di frequente di vederci pendere così dalle sue labbra. Sarà anche per questo che si prende una lunga pausa. Si siede sulla cattedra e accavalla le gambe. Le parole, diversamente dal solito, le escono ordinate, calme, come se fosse lei la prima a volerle ascoltare.

«Ieri sera alle 21:10 un’eccezionale onda gravitazionale ha attraversato il pianeta Terra, concentrando il massimo della sua energia proprio sul Sud dell’Europa»

«E cos’è?» le chiedo.

Lei sorride in un modo che non le avevo mai visto fare prima.

«La voce dell’universo». Ci guarda godendosi le nostre bocche aperte dallo stupore. Poi continua.

«Immaginate che l’universo sia un tappeto, e su questo tappeto camminino degli animali: stelle, buchi neri, pianeti e comete. Questi animali si muovono e, soprattut-

to quando accelerano o si scontrano, lasciano delle increspature sul tappeto. Solo che sono delle pieghe piccolissime, difficili da vedere. Ma se noi riuscissimo a individuarle, beh, potremmo capire dove stanno andando gli animali, e soprattutto da dove arrivano…»

Forse sbaglio, ma mi sembra che la maestra indirizzi un sorriso proprio verso di me, come se mi avesse voluto dedicare l’esempio sugli animali.

«Le piccole pieghe sul tappeto sono le onde gravitazionali, e da qualche parte nel l’universo devono esserci stati dei corpi celesti che si sono scontrati, generando un’onda così forte che ha fatto impazzire molti strumenti elettronici. A casa mia è persino andata via la luce. A casa vostra non si è verificato niente del genere?»

Sto per risponderle che sì, certo che è suc cesso, che allora io non c’entro nulla, che potrò riave re il piccolo chimico. Ma una voce mi precede.

«Ma questo cosa c’entra con i nostri animali?» chiede Carlotta da sotto i suoi lunghi capelli biondi con l’aria da saputella che la contraddistingue.

«Con ogni probabilità la fuga in massa degli animali domestici deve essere legata a questo evento eccezionale. Gli animali hanno una sensibilità molto sviluppata per certi fenomeni, come accade ad esempio con i terremoti».

Io e i miei compagni ci scambiamo degli sguardi poco convinti. Vorremmo esprimere le nostre perplessità, ma la maestra ha già ripreso il suo monologo.

«Gli scienziati ora la stanno studiando, potrebbe rivelare molto sulla nascita dell’universo».

Per la ricreazione usciamo in giardino.

La giornata è fredda, ma il cielo è limpido e non tira vento. Ho intenzione di trovarmi un posticino tranquillo e assolato, voglio riflettere sulle cose che ha detto la maestra e capire dove può essersi rifugiato Spugna per andare a cercarlo.

Ma nessuno sembra avere intenzione di giocare a calcio oggi. I miei compagni fanno di nuovo capannello intorno a me.

«Tu ci credi a quello che ha detto la maestra?» mi chiede Florian col tono arrabbiato di chi lancia una sfida.

«Non lo so»

«Dobbiamo cercarli!» piagnucola Matteo.

«Prima dovremmo capire dove»

«Questo sei tu che ce lo devi dire, sei tu quello che sa tutto sugli animali!»

È quasi un coro, e finalmente capisco il perché di tutta questa attenzione a cui non sono abituato. Io sono l’esperto. Ma all’improvviso mi assalgono anche i dubbi.

Non so da dove cominciare, Boatigre non ha mai fatto una puntata sugli animali in fuga dalle onde gravitazionali!

Eppure tutti mi fissano, attendono che io dica qualcosa, che trovi una soluzione.

«Aspettiamo di vedere se tornano stasera: avranno fame, non sono abituati a procacciarsi il cibo da soli, sono sempre stati in cattività».

È il meglio che riesco a dire. Lo so che non è un gran che, ma pare che funzioni. Tutti sono concordi, ricevo persino qualche pacca sulla spalla. Sembra che l’intera classe giri intorno a me. È una sensazione bellissima. Nemmeno lo sguardo in cagnesco che mi manda Alessio, ridotto da solo a tirare calci al pallone contro il muro, riesce a rovinarmela.

Non capisci niente, papà!

Non presto attenzione quasi mai al telegiornale, mi annoia. Per la maggior parte del tempo parlano di politica. C’è sempre un servizio su Trump, che fa delle gaffe e indossa dei capelli che non sono i suoi, oppure sul capo dei coreani del Nord, il ciccione che scherza con i missili anche se non sono dei giocattoli. E poi ci sono tante notizie tristi: poveri che arrivano dal mare e terroristi che mettono le bombe.

Però questa sera il telegiornale mi interessa molto: la maggior parte delle notizie riguarda l’onda gravitazionale e i disagi che ha provocato. Intervistano persone qui a Roma, ma anche in altre città italiane ed europee. Tutti raccontano di elettrodomestici

impazziti, di blackout. Una signora spiega di aver visto lo specchio del soggiorno diventare liquido e venire risucchiato dentro la parete, un po’ com’è accaduto a me con il pavimento.

«Hai visto, papà, che non è stata colpa mia?»

«Quindi vuoi dire che tu non hai rovesciato le ampolle del piccolo chimico sul lettore dvd?»

«Sì, ma non è per quello che è andata via la luce. L’ora è la stessa, le 21:10».

Sto per aggiungere di esserne certo perché quando è successo stavo vedendo l’orario attraverso il cannocchiale, ma mi mordo la lingua. Ho ancora paura che papà mi possa requisire anche quello.

«Forse gli sono cadute proprio perché si è distratto a causa dell’onda gravitazionale…» Mamma mi sta suggerendo una via d’uscita.

«È così?» chiede papà osservandomi con quello sguardo che vuole dire: “mi fido di te”. E

io quando fa così non ce la faccio proprio a mentirgli. Secondo me invece dell’avvocato avrebbe dovuto fare il giudice.

«No…»

Mamma manda un’occhiata a papà, sta invocando clemenza per me.

«Puoi tornare a vedere i documentari, ma il piccolo chimico lo tengo io fino a quando non mi dimostrerai di essere più responsabile».

Meglio di niente. In un momento diverso sarei felice di come sono andate le cose, ma stasera proprio non ce la faccio. Mamma se ne accorge. «Ancora quel muso lungo?»

«Non è per la punizione, sono preoccupato per Spugna»

«Dovevi pensarci prima di lasciare il cancello del giardino aperto» interviene papà con quel suo tono saccente.

«Io non ho lasciato il cancello del giardino aperto!»

«E allora com’è uscito?»

«Magari lo hanno rapito…»

«Spugna?» papà chiede ridendo. E mi fa veramente arrabbiare.

«Spugna, Santiago, Ricky, Sammy, Briciola… tutti gli animali domestici dei miei compagni di classe, tutti scomparsi, tutti ieri sera. Abbiamo dimenticato tutti la porta aperta?»

Mi alzo e me ne vado in camera mia. Quando fa così non lo sopporto. Ripensandoci bene sarebbe un pessimo giudice!

È una faccenda da bambini

Quando entro in classe, mi basta guardare le facce dei miei compagni per capire che anche i loro animali non sono tornati a casa. E le cose vanno anche peggio, perché durante la notte ne sono scomparsi altri.

Ripenso alla risata odiosa di mio padre.

La rabbia mi dà la forza di parlare prima ancora di essere interrogato.

«La maestra ha torto»

«Lo penso anch’io» ribatte Florian con tono di rimprovero. Per i suoi gusti devo averci messo anche troppo ad arrivarci.

«Questa notte sono scomparsi anche il cane di Carlotta, quello di Miriam e il furetto di Tommaso» aggiunge Matteo mentre mi fa vedere un foglio dove ha segnato

i nomi di tutti gli animali scomparsi. Il primo della lista è il suo bassotto Santiago.

«Al telegiornale nessuno ha parlato di animali spariti. L’onda gravitazionale ha colpito tutta l’Italia e gli animali scappano solo dal nostro quartiere?» chiedo agli altri e capisco che anche loro hanno fatto il medesimo ragionamento.

«C’è una sola spiegazione…»

Tutti aspettano che parli e io faccio una pausa, come la maestra. Godere di tutta questa considerazione mi fa provare una bella sensazione, l’assaporo.

«Sono stati rapiti!»

Vedo un luccichio di approvazione nei loro occhi.

«Sono d’accordo con te».

La voce mi arriva dalle spalle, ed è una voce da femmina.

il gruppo delle mie compagne. Mi sposto il tanto che basta per potermi rivolgere anche a loro.

«Ho provato a spiegarlo ai miei genitori che c’è un rapitore, ma non mi credono. Dicono che se Spugna è fuggito, è colpa mia»

«Anche mamma dice che Santiago è scappato per colpa mia»

«Anche mio padre» aggiunge Florian stringendo i pugni di fronte al viso.

Gli fanno eco tutti gli altri.

Sembra che i genitori si siano messi d’accordo per dare la stessa versione: se gli animali sono scappati, la colpa è nostra.

«I grandi non saprebbero riconoscere un rapimento neanche se gli avvenisse sotto gli occhi» dice Carlotta facendosi avanti. Lei ha il papà e la mamma in polizia e quando si parla di reati si considera un’esperta.

«Dovremmo provare a scriverglielo su WhatsApp che sono stati rapiti, ci cre-

dono sempre a quello che c’è scritto lì, molto più che a quello che diciamo noi» aggiunge Florian con il suo tono arrabbiato.

«Chissenefrega di quello che pensano i grandi. Oggi pomeriggio ci vediamo al parco e iniziamo le ricerche. Troveremo il rapitore. Chi ha dei walkie talkie li porti, e anche delle torce».

Tutti mi guardano e annuiscono. Il calore dell’emozione mi sale dalla pancia.

«Io posso portare la cartina del quartiere per capire dove cercare» propone Carlotta facendo un altro passo verso di me, ma Florian la blocca.

«Non è una cosa da femmine questa».

Florian le si piazza davanti dandole le spalle: il discorso è chiuso. Io non sono d’accordo ma non intervengo, e stavolta è Carlotta a indirizzarmi uno sguardo minaccioso come ieri aveva fatto Alessio.

Alla ricreazione, mentre usciamo in giardino, ci accorgiamo subito che nei corridoi c’è una strana atmosfera. Le bidelle sono molto agitate.

Per capire cosa sta succedendo chiediamo a Gabriele di indagare: sua mamma è molto amica di Marisa, la più anziana delle bidelle. Gabriele è piccolo di statura, ha i capelli neri così fitti che sembrano disegnati. Di solito mostra uno sguardo furbo, ma quando torna verso di noi la sua espressione ci dice che ha scoperto qualcosa di grosso. Anche se nessuno immagina quanto.

La scomparsa di Pitagora

Pitagora è scomparso. La mascotte della scuola, un gatto soriano che vive da sempre nel cortile accudito dalle bidelle, è introvabile. L’ennesima vittima che va ad allungare la lista compilata da Matteo. Cerco di non farmi prendere dall’apprensione perché i miei compagni contano su di me. Cosa farebbe Boatigre?

«Questo ci dà la possibilità di iniziare subito con le indagini. Possiamo partire proprio dal luogo dell’ultima sparizione, magari il rapitore ha lasciato qualche traccia».

Sono fiero di me, mi sembra un’ottima idea.

«Giusto!» replica Matteo, che per l’agitazione continua a spingersi gli occhiali sul naso.

«Si chiama scena del crimine» puntualizza Carlotta, che sembra non abbia nessuna intenzione di farsi escludere.

Florian sta per ricordarle che lei non farà parte della squadra investigativa, ma Carlotta lo anticipa e si rivolge direttamente a me: «Se non ci fate indagare insieme a voi, vado dalla maestra e le dico che mi avete fatto male»

«Ma non è vero!» A Florian esce involontariamente una voce acuta che su di lui ha un effetto buffo.

Anche se è nato in Italia, Florian ha i genitori polacchi. Come il padre, ha una corporatura massiccia e un viso squadrato che gli conferisce un’aria severa. È il più alto tra noi e se si arrabbia fa davvero paura. Solo che proprio quando si infervora,

la voce gli esce acuta e stridula, generando un involontario effetto comico, di fronte al quale però nessuno ha il coraggio di ridere.

Carlotta invece modifica l’espressione del viso con la naturalezza con cui un camaleonte cambierebbe il colore del corpo: sembra davvero che stia per scoppiare a piangere, poi torna a una fisionomia normale e ci dice con aria di sfida: «Vogliamo vedere se crederà a me o a voi?»

Con gli altri maschi ci scambiamo uno sguardo sconfitto: sappiamo sin troppo bene che la maestra darebbe ragione a lei.

Carlotta interpreta il nostro silenzio per quello che è, una resa: «Bene, andiamo prima che qualcuno comprometta la scena del crimine».

Iniziamo a ispezionare il punto del giardino dove Pitagora ha la cuccia, un tratto di verde vicino al muro di cinta in cui le sterpaglie si abbassano mostrando una piccola conca. Lì c’è la coperta dove dorme, la ciotola di metallo per l’acqua e quella di plastica dove le bidelle gli mettono il cibo.

«Ci sono ancora dei croccantini» dico agli

altri che formano un cerchio alle mie spalle.

«Sai quando lo hanno visto l’ultima volta?» chiedo a Gabriele senza distogliere lo sguardo dalla cuccia.

«Ieri pomeriggio quando hanno chiuso la scuola. Stamattina non lo ha visto nessuno»

«Sarà stato rapito stanotte…»

«Valerio, vieni a vedere» mi chiama Carlotta. Sta piegata sulle ginocchia qualche metro più in là e mi indica qualcosa per terra. Io mi avvicino per guardare meglio quel pezzettino di materiale marrone grande come una moneta da un euro. Quando sto per toccarlo, Carlotta mi blocca la mano. «Non così. Prima prendiamo un sacchetto di plastica per metterci il reperto. Altrimenti rischiamo di rovinarlo».

Mi blocco e la guardo: devo ammettere che sa il fatto suo.

Un destino crudele

Non voglio perdere nemmeno un minuto. Mi chiudo in camera, tiro fuori il microscopio dalla scatola e lo metto sopra la scrivania. Con delle pinzette di metallo estraggo il reperto dal sacchetto. Carlotta sarebbe fiera di me se vedesse che ho preso questa precauzione. Poggio il reperto su un vetrino, quindi lo copro con un altro vetrino identico formando una specie di panino trasparente. Lo metto sotto alla lente. Accendo la luce del microscopio e appoggio l’occhio all’oculare: vedo solo una grossa chiazza chiara. Inizio a ruotare con molta cautela

le manopole che regolano la messa a fuoco.

La chiazza diventa più nitida e da un lato scorgo un contorno scuro. Sposto con delicatezza il vetrino per centrare il reperto. Eccolo! Sembra un pavimento: tante mattonelle rossastre dalla forma irregolare.

Stacco l’occhio dal microscopio stando attento a non urtarlo e afferro il tablet. Anche se ci mette lo stesso tempo di sempre ad accendersi, a me sembra che impieghi un’eternità! Ho bisogno di risposte e le voglio in fretta.

Vado su Google, digito le parole per la ricerca e faccio tap su “Immagini”. Scorro verso il basso con il cursore, controllo velocemente i risultati che appaiono. Niente! Alle parole della ricerca aggiungo “al microscopio” per essere più preciso. Escono altre immagini, scorro verso il basso per controllarle tutte, e alla fine trovo quello che stavo cercando. Porto a tutto schermo la foto che m’interessa, la confronto con quello che vedo dentro al microscopio. No, non mi sbagliavo, sono identiche. Quella che abbiamo trovato vicino alla cuccia di Pitagora è

una squama di pitone reticolato. Il serpente

costrittore più grande del mondo!

Sdraiato sul letto, fisso il poster da cui

Boatigre mi sorride. Sarebbe fiero di me, di come ho risolto il mistero. C’è un pitone reticolato che si aggira libero per il mio

quartiere, e io sono stato il primo a scoprirlo. Un istante dopo però il mio cervello arriva all’unica possibile conclusione a cui conduce questa sensazionale scoperta:

Pitagora, Spugna, Santiago e tutti gli altri animali non sono scappati, né sono stati rapiti. Sono stati divorati!

è mai interessato nulla, tu non hai un animale che non c’è più»

«La verità è che ti sei inventato questa bugia perché non sei capace di trovare chi li ha rapiti. Sai solo dire nomi assurdi di animali e darti arie da scienziato, ma non sai fare nulla»

«Perché non te ne torni a giocare a pallone invece di romperci le scatole?»

«Perché non sopporto i bugiardi»

«Non sono un bugiardo!» gli urlo in faccia con la voce rotta dalla rabbia. So che non dovrei dargli soddisfazione, che più mi arrabbio più faccio il suo gioco, ma è più forte di me.

Anche Alessio si fa avanti mentre continua a urlarmi: «Sei un bugiardo!»

«Smettila, Alessio!»

Carlotta si mette in mezzo per dividerci, e io vorrei che non l’avesse fatto.

«Ah ah, ti fai difendere dalle femmine!»

Ora Alessio ha un’altra scusa per prendermi in giro.

«Sei davvero sicuro, Valerio?» Florian tenta di non dare a vedere quanto sia in

pena per il suo gatto. L’idea di Frisbee stritolato dal pitone deve fargli davvero male.

«Te lo giuro, Florian, anche se mi piacerebbe tanto sbagliarmi».

Era meglio quando non conoscevamo la verità, perché ora nessuno è felice. Avrei fatto meglio a tenerla per me.

«È tornato, è tornato!»

Gabriele corre verso di noi dall’altro lato del cortile e, nonostante il fiatone, continua a urlare: «Pitagora è tornato!»

Lo seguiamo tutti verso la cuccia di Pitagora. Il gatto è lì, tra le braccia di Marisa.

La bidella lo coccola come se fosse un figlio che non vede da anni.

«Cos’è? Il pitone lo ha vomitato? Ve lo avevo detto che è solo un bugiardo!»

Vorrei difendermi, rispondere ad Alessio, ma non so cosa dire. Non so spiegarmi quello che è successo e, anche se sono felice che Pitagora sia sano e salvo, mi sento bruciare addosso gli sguardi dei miei compagni.

«Non sono un bugiardo!» grido, anche se nessuno è più disposto a credermi.

Uno strano cannocchiale

Mamma mi aspetta all’uscita da scuola

come tutti i giorni, ma oggi ha una faccia strana. Non mi chiede com’è andata, come mai sono triste, niente. E poi ha fretta di andare a casa, non si ferma neppure a fare le solite chiacchiere con gli altri genitori. Meglio così, non ho voglia di restare lì un minuto di più.

Apre la porta ed entriamo, io mi tolgo il giubbotto e lei rimane in mezzo al salone con un’espressione che sembra quella della Gioconda: ha un sorriso nascosto. Poi sento un rumore inconfondibile.

Uno squittio.

Mi volto verso la porta che dà sul giardino: gli occhi rossi di Spugna brillano subi-

to fuori dalla gabbia. Guardo mamma che ora ha liberato un sorriso enorme: «È tornato mentre tu eri a scuola».

Corro da Spugna che si spaventa e prova a scappare, ma io sono più veloce e agguanto la mia palla di pelo. Lo porto vicino al viso. «Come stai? Mi sei mancato. Credevo che fossi…»

Mi fermo, non voglio che mamma sappia del pitone. Non mi crederebbe nemmeno lei.

Spugna trema come il primo giorno che l’ho portato a casa.

Lo accarezzo e gli parlo con la voce bassa.

«Sono io, stai calmo, ora sei a casa».

Spugna si sta tranquillizzando. Mi siedo continuando a tenerlo in braccio, carezzo il suo pelo lungo, mi godo il calore del mio unico amico.

Nel giro di un paio di giorni tutti gli animali sono tornati alle loro case. Sarebbe stata una bella notizia se non avesse avuto come conseguenza il fatto che nessuno mi rivolge più la parola, neppure Matteo, se non per dirmi che sono un bugiardo. Me lo sono sentito ripetere così tante volte che ormai inizio a crederci anche io.

Non sono più sicuro di nulla. Forse ho sbagliato la ricerca su Google, oppure quella che tengo tra le dita è una squama finta, il brandello di un giocattolo di gomma che ho scambiato per vero. Deve essere

così: un pitone reticolato non avrebbe mai lasciato sopravvivere i nostri animali.

Lascio cadere la squama nel cassetto e lo chiudo scocciato.

Alla fine aveva ragione la maestra Sonia: gli animali sono scappati per via dell’onda gravitazionale. Avevano ragione i nostri genitori: sono riusciti a fuggire a causa della distrazione di noi bambini. Aveva ragione Alessio: sono un buono a nulla capace solo di riempirsi la bocca con nomi di animali impossibili.

A letto guardo il mio orologio da polso: è mezzanotte e ancora non riesco a prendere sonno. Troppi pensieri.

Accendo la torcia che uso per leggere, prendo il cannocchiale dal cassetto e mi metto alla finestra. Spero che guardare fuori mi distragga.

Devo essere davvero stanco, perché non vedo nulla là dove dovrebbe essere.

Forse nell’incidente dell’altra sera il cannocchiale si è rotto. Riprovo. Lo inclino fino a inquadrare il palazzo in fondo alla strada.

Non è possibile!

Mi stropiccio l’occhio e provo ancora. No, sto impazzendo.

Mi stacco dall’oculare e osservo incredulo il cannocchiale. Forse dovrei avvisare mamma e papà.

Apro la porta della mia camera cercando di non fare rumore. La luce nella loro stanza da letto è spenta, mamma già dorme. Il bagliore muto che accende il corridoio mi spinge ad arrivare fino in salone. Mi tremano le gambe.

Papà si è addormentato sul divano con il televisore acceso. Ha le cuffie alle orecchie: ecco perché non si sente l’audio.

Se lo sveglio e poi mi sbaglio come col pitone? Si innervosirebbe e poi si accorgerebbe delle macchie sul cannocchiale e me lo toglierebbe. No, meglio fare finta di niente.

Torno in camera, poso il cannocchiale e mi rimetto a letto.

Meglio dormirci sopra.

Un nuovo alleato

Il cannocchiale!

Mi risveglio al mattino con gli stessi dubbi con cui sono andato a dormire. Papà è già uscito, ma potrei parlarne con mamma. Ci rifletto mentre inzuppo i cereali nel latte: lei sembra di buon umore.

«Mamma…»

Risuona il solito odioso rumore, il display del suo telefono si accende e lei corre a controllare chi le ha scritto.

«Un secondo».

Sorride e risponde al messaggio.

Aveva ragione Florian, forse dovrei scriverglielo su WhatsApp cosa è successo al mio cannocchiale, così magari mi crederebbe.

«Dimmi, amore»

«Niente, è che la maestra Sonia oggi vuole farci fare un esperimento di scienze e io dovrei portare il mio cannocchiale a scuola» «Va bene, ma fai attenzione che è delicato».

Certo, torna pure a scrivere, non vorrei disturbarti troppo.

Mentire a mamma è stata la parte semplice: il vero problema ora è trovare qualcuno a cui confidare il mio segreto, qualcuno che mi dica che non sto diventando pazzo.

Anche perché i miei compagni continuano a fingere che io non esista.

La maestra oggi non ci fa uscire in giardino a ricreazione perché piove. Un piccolo colpo di fortuna! Ho il cannocchiale nello zaino: se riuscissi a convincere qualcuno a guardarci dentro, potrei finalmente capire se sono diventato pazzo.

Florian e Gabriele stanno giocando a dama. Mi faccio forza e vado verso di loro.

Respiro profondamente e provo a chiedere come se nulla fosse: «Chi vince?»

Gabriele mi guarda di traverso, poi rivolge lo sguardo a Florian, che si alza in piedi.

«Muto, bugiardo, che mi sconcentri!» mi dice Florian e poi torna dietro la scacchiera.

Ho scelto le persone sbagliate.

Mi fermo sulla soglia della porta e mi guardo intorno in cerca dell’unico con cui so di avere una speranza. In fondo alla classe Carlotta chiacchiera con le sue amiche. Quando si accorge che la sto osservando, mi fissa, ma io distolgo subito lo sguardo.

Nell’androne Alessio e altri tre giocano a calcio con il cancellino. Dietro di loro, Matteo sta andando verso i bagni. Non posso lasciarmi sfuggire quest’occasione.

«Ti devo far vedere una cosa» gli dico mentre beve dal lavandino.

Lui si rialza e va verso la porta facendo finta che io non esista.

Non può farmi questo, non lui. Gli afferro il braccio e lo costringo a voltarsi.

«Smettila!» mi urla.

«Devo solo farti vedere una cosa. Non te ne pentirai, giuro!»

«Non ti credo. E poi se Alessio mi vede parlare con te, non mi fa più giocare a calcio con loro, lo ha detto a tutti».

Lascio la presa e Matteo scappa fuori dal bagno.

Ho addirittura una condanna che pesa sulla mia testa. Alessio mi vuole così male, ma perché?

Dalla finestra del bagno vedo la pioggia cadere sulle macchine incolonnate sul Grande Raccordo Anulare. Sembrano un enorme pitone di metallo, immobile. Scaccio quel pensiero, basta serpenti! È colpa di questa ossessione se sono rimasto completamente solo. Sento le urla degli altri che si divertono, mentre a me non resta che abbassare lo sguardo sul cortile, dove si sono formate delle pozze così grandi che la scuola vi appare riflessa dentro.

Rientro in classe per ultimo, i miei compagni sono già tutti seduti. La maestra aspettava me per chiudere la porta.

Un foglio di carta che prima non c’era spunta dal diario. Di certo contiene qualche disegno o qualche frase scritta per insultarmi: non è stato abbastanza avermi escluso da tutto.

Mi siedo. Quasi quasi porto il foglio alla maestra, così imparano. Tanto cosa ho da perdere?

Apro il diario con apprensione, certo che sto per ricevere l’ennesima pugnalata.

Devo parlarti. Ci vediamo al parco oggi pomeriggio

Non è firmato, ma non importa. È comunque un cenno di vita: qualcuno si preoccupa di comunicare con me.

Rivolgo un sorriso a Matteo, che però si volta dall’altra parte.

Certo, non vuole testimoni. Per ora mi va bene persino così.

Il rapimento

Il parco del quartiere è una macchia di verde lasciata crescere intorno a un vecchio casale, una manciata di pini e qualche aiuola risparmiati dal cemento. A un’estremità c’è uno spiazzo di sabbia con i giochi per i bambini più piccoli e le panchine, all’altra un anfiteatro con i gradoni che ospita più spesso partitelle di calcio che spettacoli.

Lascio mamma a parlare con le sue amiche e mi dirigo verso il casale. Di Matteo non c’è traccia, e non vedo neppure i suoi genitori. Sul messaggio non era indicato un luogo preciso, ma se io volessi incontrare qualcuno di nascosto lo farei nella parte meno in vista del parco, alle spalle del casale, lontano da occhi indiscreti.

Il piccolo piazzale d’asfalto che separa il retro del casale dalla recinzione infatti è deserto. Mi siedo su un gradino e aspetto.

Ogni tanto sfreccia qualche bambino in sella a una mountain bike, ma di Matteo nemmeno l’ombra.

Uno stormo muta forma nel cielo grigio.

Gli uccelli si allargano fino a diventare puntini distanti e poi si stringono di colpo come se qualcuno li guidasse con un radiocomando.

Il tempo passa e non arriva nessuno.

Quel biglietto è stato solo uno scherzo crudele, più perfido di qualsiasi insulto.

Mi ha dato una falsa speranza che ora mi lascia solo l’amarezza della delusione.

Come ho fatto a crederci? Come ho fatto a non pensarci?

Scommetto che se giro l’angolo, li trovo tutti lì, i miei compagni, pronti a prendermi in giro. Mi sembra di sentirla la voce di Alessio che mi sbeffeggia, di vedere

Gabriele piegato in due dalle risate e Florian che mi punta contro il dito mentre dice che sono uno stupido bugiardo.

Stringo i pugni per la rabbia mentre sento una cosa che mi brucia dentro e mi sale fino agli occhi.

«Ah, sei qui, ti ho cercato dappertutto». Non è la voce che mi aspettavo. Mi si gela il sangue.

Attendo un istante prima di voltarmi, voglio essere certo di non avere gli occhi lucidi.

Carlotta è lì in piedi che mi guarda.

«Giurami che quello che sto per dirti rimarrà un segreto».

Veramente ero convinto che sarei stato io a raccontare un segreto, ma ero anche sicuro che sarebbe stato Matteo ad ascoltarlo.

Carlotta sta aspettando una risposta, mi fissa con un’espressione solenne. Cos’ho da perdere? «Giuro».

E per dare forza al mio impegno bacio due volte le dita formando una “X” sulle labbra, come ho visto fare in un film.

Carlotta alza gli occhi al cielo, ma si viene a sedere vicino a me. Deve aver apprezzato la buona volontà.

«Hai presente quei microfoni che si mettono nelle camere dei bambini piccoli, così i genitori possono sentirli quando si svegliano di notte?»

Le rispondo di sì con la testa, ma ammetto che sono confuso.

«Beh, ho ripreso dalla soffitta quello che usavano per mio fratello e l’ho nascosto sotto il loro letto».

Sgrano gli occhi e lei sorride.

«Spii i tuoi?» le chiedo.

«No, spio la polizia…»

Sono ammirato, io non ci avrei mai pensato.

E mentre per la prima volta mi accorgo che i capelli di Carlotta profumano di vaniglia, non vedo l’ora che continui.

La storia si sta facendo davvero interessante.

«È così che ho scoperto del rapimento di Boatigre…»

Rimango senza parole.

Carlotta fa una pausa. Anche lei sembra aver imparato il trucchetto della maestra Sonia.

«Papà e mamma stanno seguendo un’indagine segreta sul suo rapimento. Il tuo eroe è introvabile da una settimana, anche se non vogliono ancora dare la notizia. Prima che lo rapissero stava studiando una razza molto particolare di pitone. E indovina? È sparito anche lui!»

Carlotta annuisce, come se ora per me dovesse essere tutto chiaro.

«Un pitone ipnotizzatore, così hanno detto. Ma del serpente nemmeno mamma che è commissario ne sa di più. Hai capito adesso perché volevo parlarti?»

Ho capito benissimo, ho capito che l’unica persona che mi degna della sua attenzione ha qualche rotella fuori posto.

«Carlotta!» L’urlo di Matilde, la mamma di Carlotta, arrivata di colpo alle nostre spalle, ci fa sobbalzare dallo spavento.

«Hai visto tuo fratello?»

«No, perché?» le risponde Carlotta con un tono apprensivo visto lo stato di agitazione in cui versa la mamma.

«È scomparso!»

Non siamo pazzi!

Matilde è tornata a cercare Luca, il fratellino di tre anni di Carlotta. Anche la mia amica ora è agitata, vuole correre anche lei a setacciare il parco, ma la blocco prendendole una mano. L’ho fatto d’istinto, senza pensare.

Quando Carlotta mi chiede con lo sguardo “cosa stai facendo?”, lascio subito la presa, come se le sue dita fossero di colpo diventate incandescenti.

Ho avuto un’idea per trovare suo fratello, ma non riuscirei mai a spiegargliela a parole, e comunque non mi crederebbe. Quindi non mi rimane che un’alternativa: mostrargliela.

«Fammi vedere dov’era tuo fratello l’ultima volta che l’hai visto» le chiedo con un tono sicuro che stupisce anche me.

Carlotta si incammina e la seguo. Giriamo intorno al casale, superiamo l’anfiteatro, fino ad arrivare nei pressi dei giochi dei più piccoli. Carlotta mi indica un angolo con palette, camion e secchielli.

Mi tolgo lo zaino dalle spalle e tiro fuori il cannocchiale, lo punto verso i giochi di Luca.

Ora è Carlotta a rimanere perplessa. Prima di guardare dentro l’oculare sospiro: è giunto il momento di capire se sono pazzo. Poi mi dico che tanto è un po’ folle anche Carlotta, e mi butto.

Dentro il cannocchiale vedo quello che speravo. Mi faccio coraggio e ruoto la ghiera fino al punto giusto… o forse sarebbe meglio dire fino al momento giusto.

«Mi spieghi cosa stai facendo?» mi chiede Carlotta scocciata.

Le passo il cannocchiale.

«Puntalo verso i giochi…»

Carlotta lo afferra e lo porta all’occhio.

«È quello tuo fratello?»

Sulla sua bocca si apre una “O” di stupore mentre annuisce.

Attraverso il cannocchiale Carlotta sta vedendo suo fratello che gioca con la sabbia e le palette, e sua madre lì vicino che armeggia con il cellulare. Ma se toglie l’occhio dall’oculare vede quello che vedo io: i giochi abbandonati e sua madre che si aggira per il parco chiamando Luca a squarciagola.

«Ma cosa…?»

«Continua a guardare e sposta di poco in avanti la ghiera». Carlotta stavolta esegue senza tentennamenti.

«Cosa vedi?»

«Luca si alza, passa vicino a mamma che è presa dal telefono e non se ne accorge, si allontana!»

Io non vedo né Luca che si allontana, né la mamma che è impegnata a chattare al telefono, ma so che è tutto accaduto davvero, solo che è successo qualche minuto fa. Il cannocchiale funziona come una macchina del tempo, e spostando le ghiere si può decidere quanto guardare indietro.

«Non lo perdere!»

Carlotta muove il cannocchiale per seguire il fratello. Poi si blocca e stacca l’occhio.

«Andiamo!»

Inizia a correre e io le vado dietro con il cuore che mi rimbomba nel petto. Passiamo davanti a sua madre che ci urla qualcosa, ma Carlotta non le risponde e io continuo a seguirla.

Arriviamo di fronte a un anfratto che si apre in una siepe, una sorta di piccola caverna tra le foglie. Luca è nascosto lì dentro.

Una macchia sui pantaloni rivela che si è fatto la pipì addosso. Forse è proprio per quello che si è nascosto: temeva che sua madre lo sgridasse.

«Mi hai fatto prendere un colpo!» urla

Matilde mentre lo prende in braccio. Ma basta guardarla in faccia per capire che il suo è un grido di sollievo.

Matilde porta Luca nei bagni per cambiarlo.

Io e Carlotta siamo di nuovo soli. A dire il vero non proprio soli, perché ci fanno compagnia un bel po’ di domande.

«Come mai il tuo cannocchiale vede indietro nel tempo?»

«La sera che siamo stati colpiti dalle onde gravitazionali ho rovesciato delle fialette del piccolo chimico sul cannocchiale. Non so altro».

Rimetto il cannocchiale nello zaino, poi le chiedo: «Secondo te dovremmo dirlo agli adulti?»

«E perché? Loro non ci raccontano mai

nulla! Se i grandi avessero detto la verità su Boatigre e sul pitone, ora nessuno ti chiamerebbe bugiardo».

Allora non scherzava, Boatigre è stato veramente rapito mentre faceva degli studi su un pitone. Non mi mentirebbe ora, non dopo che le ho mostrato il cannocchiale e l’ho aiutata a ritrovare suo fratello.

«E poi non ti crederebbero».

Ha ragione, non mi crederebbero, come non mi hanno creduto sulla fuga di Spugna.

Carlotta non è pazza, o lo siamo tutti e due.

Al ladro!

Mentre io e mamma torniamo a casa dal parco, il mio cervello non ne vuole sapere di stare fermo. Sono successe talmente tante cose in un pomeriggio che faccio fatica a metterle in fila. Tanto per cominciare l’altra notte non avevo avuto un’allucinazione: il mio cannocchiale davvero guarda indietro nel tempo. Ecco perché vedevo il palazzo ormai finito da anni ancora in costruzione e gli alberi erano poco più che degli arbusti. Quella sera le esalazioni provenienti delle mie provette e le onde gravitazionali devono avergli conferito questo potere. Ed è mitico che io possegga una macchina del tempo! È una specie di superpotere! Devo pensare a come usarlo. Tanto per comin-

ciare potrei vendicarmi dei miei compagni, primo fra tutti Alessio: magari guardando nel suo passato trovo qualcosa di cui si vergogna da raccontare agli altri, così lo zittisco, quel prepotente!

Non hanno nessun diritto di dire che sono un bugiardo! La squama di pitone non me la sono immaginata e, alla luce della notizia che mi ha dato Carlotta, acquista un senso: se Boatigre è stato rapito insieme al suo serpente e pochi giorni dopo trovo una squama di pitone reticolato nel giardino della scuola, non può essere una coincidenza. Devo trovare il modo di dimostrare… «Aaaah!»

L’urlo di mamma interrompe il flusso dei miei pensieri appena entriamo in casa. Mi guardo intorno con la sensazione di avere un capogiro. Il salone è a soqquadro: soprammobili e sedie in terra, cassetti aperti, vestiti sparsi ovunque. Mentre eravamo al parco sono entrati i ladri.

Ci hanno rubato tutto: soldi, gioielli, persino il cellulare che mamma aveva incredi-

bilmente dimenticato a casa e per cui ora non riesce a darsi pace. Papà è tornato in fretta e furia dallo studio, discute al telefono col tizio che ci ha istallato l’impianto di allarme che non ha suonato. Io mi faccio piccolo piccolo, sto da una parte e tento di rendermi invisibile.

«La porta d’ingresso non presenta segni di effrazione. Devono essere passati dal giardino ed entrati dalla finestra. Per questo non hanno portato via cose ingombranti come il televisore» fa notare Corrado a mia madre che lo ascolta senza entusiasmo.

Ha saputo del furto ed è venuto a portare una parola di conforto. Si accorge di me e mi viene vicino. Purtroppo non sono stato abbastanza bravo a rendermi invisibile.

«Non devi avere paura, Valerio» dice mentre mi stringe con le braccia ossute e spigolose, soffiandomi addosso il suo alito fetido. Al peggio non c’è mai fine.

Tutto torna

Al mio arrivo in classe vengo accolto con il solito mix di astio e indifferenza. Florian mi fissa con un’espressione cattiva, Alessio mi squadra dalla testa ai piedi e poi dice qualcosa all’orecchio di Gabriele che scoppia a ridere. Non mi sforzo più nemmeno di abbozzare un saluto.

Basta! Mi costringo ad apparire superiore e tiro dritto senza abbassare lo sguardo. Ma purtroppo è solo una recita. La verità è che è una profonda ingiustizia, e sento verso di loro una rabbia che mai avevo provato prima. Li odio!

Matteo parla con gli altri e ha un’espressione affranta, sembra che debba scoppiare a piangere da un momento all’altro mentre

si spinge gli occhiali sul naso. In un altro momento mi sarei precipitato da lui a chiedergli cosa ha. Ora invece sono quasi contento che lui stia male.

Comunque voglio saperne di più. Strappo un foglio dal quaderno e lo appallottolo, mi avvicino a loro per buttare la carta nel cestino e tendo le orecchie. Anche casa di Matteo è stata svaligiata: i ladri hanno portato via il tablet che aveva ricevuto per la prima comunione.

Ben gli sta!

Mentre torno al mio banco, Carlotta mi lancia un’occhiata per dirmi che mi vuole parlare. Lei deve avere informazioni riservate sui furti, visto che spia la polizia, ma non le chiedo nulla. Non è questo il posto né il momento. Non possiamo rischiare che qualcuno venga a conoscenza dei nostri segreti.

Durante la ricreazione Gabriele arriva in classe con il fiatone. Richiama l’attenzione di tutti battendo un colpo sulla porta, ma deve aspettare di prendere fiato prima di parlare.

«Hanno rubato i soldi del campo scuola!»

Le sue parole esplodono tra le pareti della classe come una bomba.

I miei compagni sgranano gli occhi, ma nessuno osa mettere in dubbio che Gabriele stia dicendo la verità, e solo per questo lo invidio. Se l’avessi detto io, mi avrebbero lanciato addosso i diari.

Gabriele ha saputo dalla sua amica bidella che durante la notte dei ladri sono entrati nella scuola e hanno rubato i soldi che i nostri genitori avevano versato. Il campo scuola ora rischia di essere annullato.

Tutti sono arrabbiati e delusi, non io: per quanto mi riguarda, è la prima buona notizia che ascolto tra queste mura da non so quando. Non avevo nessuna intenzione di trascorrere un’intera settimana dalla mattina alla sera con persone che odio. Avevo pensato di fingermi malato il giorno della partenza: non ho voglia di spiegare a mamma e papà perché non desidero più andare. Non capirebbero e alla fine insisterebbero per mandarmici comunque, vi-

sto che hanno già pagato. I ladri mi hanno risolto il problema.

Mentre metto in bella mostra il mio ghigno soddisfatto in contrappunto ai loro musi lunghi, percepisco un odore che mi sembra di riconoscere: è profumo di vaniglia.

Carlotta ha approfittato della distrazione generale per mettermi un biglietto nella tasca del grembiule.

«La ricreazione è finita, tornate al posto.

Alessio, chiudi la porta».

Per una volta ubbidisco subito alla maestra Sonia, mi siedo e infilo il biglietto nel diario per leggerlo senza essere visto:

Chiedi di andare in bagno dopo che sarò uscita io. Ti aspetto in corridoio.

Seduta su una cattedra appoggiata alla parete del corridoio, Carlotta fa ciondolare le gambe nel vuoto mentre aspetta che io mi avvicini.

Alle sue spalle la finestra manda una luce così forte da impedirmi di vedere le sue labbra muoversi mentre mi parla.

«Hai capito cosa sta succedendo?»

Stropiccio gli occhi e mi siedo vicino a lei, così riesco a guardarla in faccia.

«Più o meno». Resto sul vago perché con Carlotta non si sa mai dove può andare a finire il discorso e non voglio fare brutta figura.

«Tutte le case che sono state derubate sono le stesse da cui erano spariti gli animali. La tua, casa di Matteo, di Florian, persino la scuola!»

Quando Carlotta parla così, mi sembra di avere accanto a me il detective di una serie tv americana che i miei genitori guardano la sera. E ha ragione, cavolo! La mia amica poliziotta ha ragione. In quell’istante un pensiero mi attraversa il cervello come un fulmine, così velocemente che arriva alle labbra prima ancora che io stesso riesca a elaborarlo.

«Il pitone ipnotizzatore…»

«Esatto! Non può essere una coincidenza! Il rapimento di Boatigre e del suo pitone sono legati alla scomparsa degli animali e ai furti. E se riusciamo a dimostrarlo, nessuno ti darà più del bugiardo»

«Ma come facciamo? Se diciamo che tu hai spiato i tuoi genitori, ti metti nei guai. E comunque non ci crederebbero»

«Allora non ci resta che trovare Boatigre».

Lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo, una bazzecola! Che vuoi che sia trovare il mio eroe rapito? Rapito da chissà chi, tenuto chissà dove. Un gioco da ragazzi! Provo a non fare il disfattista e mi limito a un semplice: «Sì, ma come?»

«Fatti portare al parco oggi, ci vediamo al solito posto, forse ho la soluzione».

Carlotta smette di far ciondolare le gambe e spicca un salto. Si incammina verso la nostra classe e mi dice senza voltarsi: «Aspetta cinque minuti prima di rientrare».

Vorrei trovare qualcosa di simpatico da replicare, o almeno che dia l’idea che anche io so il fatto mio. Ma alla fine il massimo che riesco a fare è stare zitto mentre la vedo scomparire dietro l’angolo.

Una dura sconfitta

In cielo non c’è neppure una nuvola, il vento freddo degli ultimi giorni se le è portate via, lasciando spazio a un sole tiepido che fa sembrare questo ottobre più romano. In molti aspettavano una giornata così dopo un inverno arrivato troppo in fretta. Il parco è stracolmo e il frastuono si leva alto. Tra i tanti che lo affollano questo pomeriggio, c’è anche mezza classe.

Carlotta deve tenere d’occhio suo fratello che gira in tondo con il triciclo. Seduti sui gradoni dell’anfiteatro a parlare, io e lei non passiamo inosservati così isolati. Non posso sentire quello che dicono, ma tra un calcio al pallone e l’altro è evidente che i nostri compagni non perdono occa-

sione per prenderci in giro. Anche Carlotta se n’è accorta, ma i loro sfottò le scivolano addosso: lei è totalmente concentrata sulla nostra missione impossibile.

«Il telefono di Boatigre ha ripreso a funzionare» mi dice senza staccare lo sguardo dal fratello.

Ora ho occhi e orecchie solo per lei.

«La polizia è riuscita a rintracciarlo e stanno preparando un piano per andarlo a liberare, un’irruzione».

Immagino uomini vestiti di un nero più scuro delle tenebre che si calano dagli elicotteri, muniti di visori notturni e fucili mitragliatori a puntamento laser. Sarebbe bellissimo poter essere lì per vederli all’opera.

«Noi dobbiamo fare in modo che ci sia anche la televisione, o terranno tutto segreto e nessuno saprà mai del pitone».

Carlotta riesce a stupirmi ogni volta: dà sempre l’impressione di non avere dubbi e di sentirsi all’altezza di qualunque compito.

«Conosci l’indirizzo?» le chiedo.

«Papà e mamma questo non lo hanno detto, ma prima di uscire sono andata sul loro

computer e ho trovato una mappa. Ho dovuto sbrigarmi per non essere scoperta, quindi non ho potuto capire in che zona sia» risponde mostrandomi orgogliosa una chiavetta usb. «Ma ho fatto in tempo però a farne una copia qui. Devi capire tu l’indirizzo preciso, ma c’è poco tempo, l’irruzione è stasera» dice mentre mi passa la chiavetta.

«E quelli della tv ci crederanno?»

«Mia cugina lavora per un’emittente locale e non sopporta i miei genitori. Tu dammi l’indirizzo e al resto penso io».

Certe volte Carlotta è così risoluta che arriva a farmi paura. Ma è una paura bella, come quella che provo quando vedo i film horror: so che non potrebbe mai farmi del male.

«Dico a mamma che non mi sento bene e mi faccio riportare subito a casa»

«Appena hai l’indirizzo mandami un messaggio».

Le sorrido.

Poi qualcosa mi colpisce la mano in cui tengo la chiavetta.

L’impatto è forte e le mie dita si aprono. La chiavetta cade, rimbalza su un gradone,

poi su un altro e finisce dritta nel tombino sotto di noi.

«Nooo!»

Mi precipito sopra il tombino, ma ormai è troppo tardi.

Alessio mi passa vicino e va a riprendersi il pallone con cui mi ha colpito la mano. Ride, soddisfatto.

«Hai perso l’anello di fidanzamento?» mi sfotte.

Mi sale una rabbia che quasi mi soffoca. «È tutta colpa tua» gli urlo scagliandomi contro di lui.

Lo prendo di sorpresa e lo costringo con la schiena a terra, a cavalcioni sopra di lui. Poi però mi blocco. Se prima sono balzato come un predatore, ora sono immobilizzato come un gatto davanti ai fari di un’auto.

Alessio si riprende dallo stupore e mi tira uno schiaffo che mi fa voltare il viso. E poi ancora uno, con l’altra mano.

Non ho il tempo di rendermene conto che Alessio è sopra di me, mi stringe una mano al collo e con l’altra carica un nuo-

vo colpo. Sua madre me lo toglie di dosso mandando a vuoto l’ennesimo ceffone. Mia mamma corre da me e mi dice qualcosa, ma non la sento. La sua voce mi arriva da lontano, dal fondo di una caverna.

Mi tiro su e vedo intorno a me le facce dei miei compagni. Ridono, sono eccitati. Il

viso di Florian, quello di Gabriele, gli occhi bassi di Matteo e quelli infervorati di Alessio, che continua a fissarmi malgrado sua madre gli urli contro. Ma è tutto confuso, ovattato, come se fosse un incubo.

Inizio a camminare verso gli alberi, passando in mezzo a tutto e a tutti, senza guardare nessuno. Riesco solo a sentire la ferita che mi brucia dentro, l’urlo disperato del mio fallimento. Provo rabbia verso tutto e tutti, me compreso, per l’ennesima sconfitta subita. Poggio una mano su un albero, respirando a fatica. La luce che passa tra le fronde mi scalda il viso.

E poi finalmente arriva una voce che mi sveglia.

«Valerio, tutto bene?» È Carlotta, la prima che vedo e ascolto per davvero.

«No!» le urlo contro, ed è una liberazione, anche se la realtà non è migliore dell’incubo. Scoppio a piangere, un pianto sfrenato che mi rende persino difficile parlare.

«Stai tranquillo, troveremo una soluzione» mi dice posandomi una mano sulla spalla, ma io la scanso.

La trappola

Ho lo stomaco chiuso per il nervoso, ma mamma ha voluto comunque che mi sedessi a tavola. Anche se non alzo gli occhi dal piatto, so che lei e papà mi fissano preoccupati per quello che è successo al parco. L’unica cosa che si sente nel salone è il telegiornale, che oggi ha almeno il merito di rompere un silenzio pesante.

«Ma quella non è Matilde?» chiede papà sorpreso e quasi si strozza.

«Oh, mio Dio, è proprio lei, e quello è Aldo!» Anche a mamma scappa da ridere.

Non riesco a impedirmi di sollevare lo sguardo: sulla tv scorrono le immagini di alcuni poliziotti sorpresi dalle telecamere all’uscita di una stalla alle spalle della quale

spiccano le rovine di un antico acquedotto romano; sono ricoperti dalla testa ai piedi da una poltiglia marrone che sembra proprio…

«La polizia è caduta in una trappola. Dopo aver fatto irruzione in una cascina nelle vicinanze del Parco degli Acquedotti sulla via Appia a Roma, gli agenti agli ordini del commissario Matilde Marra sono stati letteralmente ricoperti da un fiume di letame che si è riversato su di loro».

Lo dice anche la giornalista, non mi sbagliavo, è proprio cacca! Cavolo! Devono puzzare più del fiato di Corrado.

«Gli agenti avevano fatto irruzione per liberare il famoso documentarista noto al pubblico televisivo con lo pseudonimo di professor Boatigre. Sembra che lo scienziato sia scomparso da giorni, e che il suo rapimento sia stato tenuto segreto per ragioni di sicurezza».

Mamma e papà sgranano gli occhi e si voltano verso di me, temendo la mia reazione. Non possono immaginare che io so già tutto. Alzo un braccio verso di loro per impedire che parlino.

«Fatemi sentire».

Per una volta sono io che voglio ascoltare il telegiornale.

«Il condizionale è d’obbligo, perché al momento non ci sono dichiarazioni ufficiali, né rispetto alla dinamica dell’irruzione, né sul presunto rapimento di Boatigre. Vi possiamo soltanto mostrare il filmato che ci è giunto in redazione e che ci ha permesso di essere presenti sul luogo a girare le immagini che avete appena visto».

Sullo schermo la giornalista è sostituita da uno sfondo nero dal quale avanza una sagoma indistinta che via via diventa sempre più riconoscibile.

È spaventoso!

Ha una coda lunga e tozza, una testa affusolata come quella di un serpente, con la lingua rosa biforcuta che gli scende da un lato della bocca e delle flaccide squame marroni che gli penzolano dal collo mentre cammina. Si avvicina così tanto alla telecamera che ora si possono vedere i suoi piccoli occhi neri.

Mamma manda un urlo. «Ma che schifo!»

E ha ragione, perché questo lucertolone è veramente orrendo. Anche se a dirla tutta più che una lucertola sembra proprio…

«Mi chiamo Jack Varano».

Un varano! Lo dicevo io! Se c’è un animale che non sopporto, che odio e che mi terrorizza, quello è proprio il varano. Il costume è talmente realistico che, se non fosse che cammina su due zampe e parla, sarei portato a credere che sia davvero un drago di Komodo.

«Ho rapito il vostro amico e collega, il professor Boatigre. Se non mi credete, provate a chiamarlo».

Varano stringe nel suo zampone un cellulare: deve essere quello di Boatigre, grazie al quale la polizia lo ha rintracciato.

«Dopo però correte con una troupe alla cascina Magliazzi, sulla via Appia, ma fate in fretta. La festa sta per cominciare».

Jack Varano ha usato il cellulare di Boatigre per tendere una trappola alla polizia. Ora tutti sanno del rapimento del mio eroe, ma non del pitone. Chissà come si sentirà

Carlotta: non deve essere piacevole vedere i

propri genitori ricoperti di cacca al telegiornale! Domani in classe la massacreranno. Mi dispiace. L’unica cosa positiva di tutta questa faccenda è che Alessio con la sua pallonata non ha rovinato un bel niente, anzi ci ha fatto un favore. Se fossimo stati noi a mandare la tv alla cascina, Carlotta avrebbe dovuto sostenere anche il rimorso di aver contribuito a mettere in ridicolo i propri genitori.

«Tutto bene?» mi chiede mamma con gli occhi pieni di preoccupazione.

«Sì» le dico, e mi sforzo di sorriderle. Non voglio che stia in pena per me.

«Vedrai che lo troveranno presto Boatigre. Quel pagliaccio travestito da lucertola è stato solo fortunato» aggiunge papà.

Non è una lucertola, vorrei dirgli, è un varano. E i varani sono furbi, senza scrupoli e pericolosi. In un do cumentario Boatigre spie gava che sono velenosi pur non possedendo ghiandole velenifere: si lasciano

marcire in bocca dei resti di cibo con cui si riempiono i denti di batteri, così quando mordono una preda o un rivale lo infettano. Ma soprattutto sono furbi. Per esempio, c’è un uccello che condivide il loro stesso habitat ed è bravissimo a costruire delle incubatrici con la sabbia: delle buche in cui deposita le sue uova e di cui regola la temperatura aumentando o diminuendo la quantità di sabbia con cui le ricopre.

Beh, il varano sfrutta le abilità di questo straordinario ingegnere nascondendo le proprie uova tra quelle dei suoi cuccioli. Poi, quando le uova si schiudono, mamma varano mangia mamma uccello, e i cuccioli di varano fanno il loro primo pasto con le uova di uccello che si schiudono di fianco a loro. Per questo lo odio. Per questo non possiamo sottovalutarlo.

immagini di cosa sono capace!” Spero che il professore tenga duro e che non si lasci impressionare da quell’orrendo costume.

Toc toc. Bussano alla porta.

«Avanti»

Papà entra e si viene a sedere ai piedi del letto.

«Come stai?» mi chiede, e io alzo le spalle. Come a dire “così”.

«Mamma mi ha raccontato quello che è successo al parco con Alessio».

Ecco, ci siamo: ora papà vorrà sapere perché ci siamo azzuffati, chi è stato a cominciare, di chi è la colpa. Dovrei inventare una storia credibile, visto che non posso dirgli la verità, ma non ne ho proprio la forza.

«Quando ero bambino c’era questo Fabio, aveva solo un anno più di me, ma era più alto e più grosso, e mi tormentava».

Invece papà non mi chiede nulla. Sembra che abbia capito il mio stato d’animo, e così è lui che inizia a raccontarmi una storia.

«Ci eravamo trasferiti da Bologna a Roma quando avevo la tua età. Iniziai qui le

medie. Quindi per i bambini del quartiere ero un forestiero».

Papà abbassa gli occhi per essere sicuro che lo stia seguendo, poi continua.

«Vivevo dove ancora oggi vivono i nonni, solo che allora, negli Anni Settanta, quella era estrema periferia, e quartieri come questo ancora non esistevano. E per quanto possa sembrarti strano, i bambini scendevano da soli a giocare in strada sin da quando avevano otto, nove anni».

Papà alza gli occhi al cielo mentre parla.

Gli capita sempre quando racconta qualcosa a cui è legato. È come se vedesse i ricordi nella mente.

«I primi tempi non sono stati facili: ero solo, parlavo un dialetto diverso, ero uno straniero. Piano piano però sono riuscito a farmi volere bene: me la sono sempre cavata con le persone. Però c’era questo Fabio che continuava a darmi il tormento.

Oggi direbbero che mi bullizzava. Non saprei dirti quanti dispetti mi ha fatto, quante volte me le ha date. Per rubarmi il pallone, un giorno, insieme a un suo ami -

co mi hanno buttato nel secchione dell’immondizia».

“Che schifo, papà!” Lo penso ma non lo dico, mi limito a fare un’espressione disgustata.

«Poi un giorno ho deciso che basta: era meglio prenderle tutte in una volta ma fargli capire che si sarebbe fatto male anche lui. Avevo scelto con attenzione un sasso, grande abbastanza da essere tenuto in una mano. Poi lo avevo scheggiato con cura contro il muretto sotto casa per renderne i lati affilati, come le pietre che gli uomini primitivi mettevano in testa alle loro lance.

L’ho tenuto in tasca per due giorni, poi è arrivato il momento di tirarlo fuori…»

Papà annuisce verso di me, come per dire: attento che ora arriva il bello.

«Fabio era annoiato, e vedendomi passare aveva deciso che sarei stato io il suo intrattenimento. Prima ha iniziato a prendermi in giro, poi, visto che non gli rispondevo, si è avventato su di me. In quel momento ho estratto il sasso dalla tasca alzandolo sopra la testa».

Papà è talmente preso dal racconto che ora mima anche il gesto. È buffo vederlo così.

«Avevo una paura come mai ne ho più provata in vita mia mentre gli dicevo che se si azzardava a toccarmi, glielo avrei spaccato in testa. Fabio si è messo a ridere, per darsi un tono, però si è fermato. Poi mi ha lasciato andare con la scusa che altrimenti avrebbe dovuto farmi male per davvero. Ma da quel giorno le cose sono cambiate. Gli avevo dimostrato che anche lui avrebbe avuto qualcosa da perdere se continuava a tormentarmi».

Papà è soddisfatto della sua storia e, vera o inventata che sia, devo ammettere che è carina. Per lui il problema è solo che suo figlio le ha prese. Fosse solo quello, sarei un pezzo avanti. Non ha capito nulla. E del resto come potrebbe? Non sa cosa mi sta accadendo e, a dire il vero, a volte mi sembra che sappia poco anche di me. Di quello che provo e di quello che mi fa star male, di questo sentirmi sempre fuori posto, in qualsiasi luogo, che è molto peggio degli schiaffi di Alessio. E non credo proprio che riuscirò a risolvere tutto

girando con una pietra in tasca, per quanto io riesca a renderla appuntita. Perché io, a differenza di papà, con le persone non sono bravo, nemmeno un po’. Certo però che tutta la fiducia in se stesso che dice di aver dimostrato, quella sì, mi farebbe comodo. Mi aiuterebbe. Sempre che le cose siano andate proprio come racconta… Per me sarebbe facile scoprirlo: mi basterebbe farmi indicare da papà dove è avvenuto questo famigerato scontro tra lui e il bullo, chiedere di andare a trovare i nonni e, una volta lì, puntarci contro il cannocchiale e mandare indietro la ghiera fino a rivedere…

Ma certo!!! Come ho fatto a non pensarci prima!

«Grazie, papà!»

Gli butto le braccia al collo e lo stringo forte come non ho mai fatto prima. Papà rimane incredulo.

«Piano… sono contento di esserti stato d’aiuto» mi dice ridendo.

Sì papà, mi sei stato d’aiuto, anche se non nel modo che immagini tu. Mi hai fatto venire un’idea geniale!

La folgorazione

È ormai più di mezz’ora che non sento più un rumore. Il mio orologio segna mezzanotte e un quarto. Sposto piano le coperte e mi alzo. Faccio un giro di perlustrazione per assicurarmi che nessuno sia ancora sveglio camminando scalzo per non fare baccano. Attraverso il piccolo disimpegno che divide la mia camera da quella dei miei genitori passando davanti al bagno. Scosto leggermente la loro porta fino a ricavarmi lo spazio necessario per spiare: dormono. Torno sui miei passi, infilo le scarpe che ho lasciato di fianco alla scrivania, la felpa che ho nascosto sotto il cuscino e il giacchetto. Percorro il corridoio in punta di piedi, facendomi luce con la torcia che ho

messo ieri sera nella tasca, e arrivo in soggiorno. La portafinestra che dà sul giardino è chiusa, e anche l’inferriata in metallo che i miei hanno fatto montare dopo il furto è sprangata. Ho previsto anche questo: ho rubato i doppioni delle chiavi dal baule nello studio di papà mentre lui e mamma guardavano una serie tv. Apro sforzandomi di fare piano.

Appena esco in giardino vengo aggredito da un’aria fredda che mi gratta la gola ogni volta che respiro. In cielo ci sono poche nuvole e una luna piena enorme e così bassa che sembra appoggiarsi sulla gabbia di Spugna. Faccio luce con la torcia nel fitto di una siepe fino a quando non vedo il cannocchiale che ho nascosto lì dopo la mia chiacchierata con papà. Per paura che lo scoprissero, l’ho infilato nel fondo di un rovo, così per tirarlo fuori mi riduco le mani come se avessi litigato con un gatto selvatico.

Spengo la torcia. Per quello che mi resta da fare, la luce della luna è più che sufficiente. Punto il cannocchiale contro la

gabbia di Spugna, poi inizio a girare all’indietro la ghiera.

Lo spettacolo è magnifico, sembra un cartone animato. La notte e il giorno si rincorrono alla rovescia, Spugna entra ed esce dalla sua gabbia, mangia, scorrazza. Il tutto a una velocità supersonica e con il verso opposto a quando è accaduto per davvero. È come vedere un dvd indietro veloce, solo che qui non ci sono salti.

Conto per sette volte il giorno rincorrere la notte, poi rallento. Esattamente una settimana fa Spugna è sparito da casa. I pochi movimenti presenti nella notte si fanno morbidi, fino a quando non vedo Spugna rientrare nel giardino di casa camminando all’indietro. C’è un animale con lui, che striscia al contrario: è un enorme pitone reticolato! È persino più grande di quanto immaginassi! A vederlo così da vicino, a non più di un metro da me, mi fa paura.

Devo smettere di guardare per ricordare a me stesso che tutto ciò è accaduto in passato, che quel serpente ora non è lì e non mi può attaccare. Con l’occhio lonta-

no dal cannocchiale continuo un pochino a girare all’indietro la ghiera, poi mi fermo. Ora almeno potrò vederli muovere nel giusto senso, senza farmi venire il mal di mare. Mi riaccosto all’oculare e osservo l’istante in cui il pitone arriva di fronte alla gabbia

di Spugna, che lo osserva pietrificato. Il serpente si solleva di mezzo metro da terra con la testa e continua a muovere la lingua senza sosta. La lingua va da una parte all’altra, da una parte all’altra, e gli occhi di Spugna la seguono, fino a spegnersi.

Il pitone ipnotizzatore!

A quel punto il serpente si volta e striscia da dove è arrivato. Spugna lo segue fuori dal giardino come un cucciolo seguirebbe la madre.

Scuse

«Tutto bene?»

Mamma me lo chiede mentre sto finendo di fare colazione. Ha notato i segni che l’avventura di stanotte mi ha lasciato sul viso, gli occhi gonfi dal sonno. Comunque ne è valsa la pena, la missione è stata un successo!

«Sì, certo» le rispondo in modo deciso.

Da quando le hanno rubato il cellulare è più attenta. Non ha voluto ricomprarne subito uno nuovo. Va dicendo che la polizia glielo ritroverà, ma secondo me sta prendendo tempo perché vuole trovare l’offerta giusta. Quando torna dal lavoro, fruga nella cassetta della posta in cerca dei volantini dei negozi di elettronica.

Intanto ha ripiegato su un modello di vecchia generazione che conservava per le emergenze, su cui non si possono istallare né WhatsApp né Facebook. In un momento diverso sarei contento di queste rinnovate attenzioni nei miei confronti, ma ora che sono costretto ad agire di nascosto anche da lei, devo ammettere che quel telefono ipnotizzatore mi avrebbe fatto comodo. “Telefono ipnotizzatore”, questa devo ricordarmela.

In effetti sulla mamma il cellulare aveva lo stesso effetto della lingua del pitone su Spugna. Devo raccontarla a…

Poi mi ricordo che non ho più nessuno a cui raccontare un bel niente e mi scende il gelo sulle spalle.

In classe, per raggiungere il mio banco, l’ultimo della fila di centro, sono costretto a passare di fianco a quello di Alessio, il secondo della fila di destra, dal lato della porta, intorno al quale si riuniscono i maschi. Non oggi.

Entro e vado dritto verso il primo banco della fila di sinistra, quella sotto le finestre.

«Ti devo parlare».

Carlotta appare sorpresa. A Michela e Claudia, le due amiche che la stanno consolando, scappa un risolino.

«Vi lasciamo soli» fa Michela, che è tonda come una mela, con le guance che sembrano scoppiare da un momento all’altro e diventano tutte rosse quando sorride.

«Io con te non ci parlo» mi risponde Carlotta.

«Non sei molto originale, ora ti metti a fare come loro?»

Indico con gli occhi il gruppo dei maschi, che guarda verso di noi. Tra me che le ho prese da Alessio e i genitori di Carlotta ricoperti di letame in diretta tv, oggi hanno solo l’imbarazzo della scelta su chi accanirsi.

«No, perché, a differenza loro, io ho ragione».

So che è vero, ed è come se mi avesse tirato un pugno nella pancia. Di colpo mi sgonfio. E come un palloncino a cui si è sciolto il nodo, vorrei volare via in una pernacchia, fino ad atterrare sul mio banco per nascondere la testa dietro un libro.

«Allora ci lasci stare, bugiardo?», infierisce Claudia. È la più alta della classe e forse anche per questo ha il vizio di guardarti con quell’aria di superiorità che la rende odiosa.

Non le rispondo neppure, fingendo che non esista, e questo le provoca un gran fastidio. Diventare cattivo ha i suoi lati positivi.

Sto iniziando a capire dove toccare gli altri se voglio far male. Sì, perché tutti gli esseri viventi hanno un punto debole, persino il grande squalo bianco ne ha uno. È sufficiente colpirlo sulla punta del naso, dove sono concentrati la maggior parte dei suoi recettori, per disorientare il più feroce predatore dei mari.

«Scusa» dico a Carlotta dando fondo alle mie ultime energie e guardandola dritta negli occhi, fregandomene di tutto e di tutti.

«Seduti».

La maestra Sonia è entrata in classe, lasciando in sospeso il mio ultimo, disperato tentativo.

Mi siedo e provo ad ascoltarla, a concentrarmi sulle sue parole, ma le espressioni in

questo momento sono quanto di più inutile possa immaginare.

«Questa mattina faremo una verifica di matematica».

Ecco, ora ci voleva anche la verifica a sorpresa, la fucilazione no?

«Carlotta, distribuisci queste schede ai tuoi compagni» le ordina la maestra.

Tengo lo sguardo basso mentre Carlotta si avvicina. Mi accorgo che sta arrivando perché percepisco il suo odore già da quando è al banco davanti al mio. Mi lascia la verifica.

Deve essersi sbagliata, perché i fogli sono due e io sono solo al banco. Scosto il primo, quello con le espressioni, e sull’altro trovo scritta una sola frase:

A ricreazione, ti concedo cinque minuti.

Il cielo anche oggi è senza nuvole e il sole è dolce, sembra quasi che sia tornata la primavera. La maestra ci ha portati in giardino, e io ho impiegato molto più dei cinque minuti che mi aveva concesso Carlotta per

spiegarle la mia intuizione e l’esperimento che ho fatto la notte passata.

«Capisci, basterà seguire Spugna e il pitone. Solo così potremo ritrovare Boatigre e vendicare i tuoi genitori».

Ho parlato talmente tanto che ho la gola secca. Toccherebbe a Carlotta ora dire qualcosa, ma se ne sta lì muta.

Tutt’intorno si sentono le urla dei nostri compagni. Matteo, Miriam, Michela e Claudia stanno giocando ad acchiappafulmine. Dall’altro lato del cortile c’è la solita partita di calcio. Tutti sembrano felici, sereni, come il cielo.

«L’idea è buona, ma non è questo il problema».

Carlotta ha rotto il silenzio. Mi volto verso di lei e la trovo ad aspettare i miei occhi.

«Il problema sei tu!» dice infilzandomi l’indice nel petto come fosse una freccia.

«Chi mi dice che anche stavolta non ti tirerai indietro alla prima difficoltà?»

«Devi fidarti di me» le rispondo ingoiando la saliva.

«E tu ti fidi di te?»

È come se mi leggesse dentro, se avesse capito con esattezza dove sta il punto, quello che nemmeno papà e mamma sono mai davvero riusciti a comprendere. «Ci sto provando» le rispondo.

«Beh, vedi di riuscirci, perché quelle di oggi sono le ultime scuse che accetto».

Il piano

Prima di uscire da scuola, Carlotta ha voluto che sincronizzassimo gli orologi. Ci avevo pensato anch’io, ma non mi sono azzardato a proporlo. Quando si va in missione, ci si assicura sempre che tutti abbiano gli orologi che segnano la medesima ora, al secondo, tutto qui. Però dire “sincronizziamo gli orologi” è molto fico, ed è stato solo l’inizio!

Il resto dei preparativi ciascuno li ha dovuti fare per conto proprio. Appena tornato a casa mi sono chiuso in bagno e ho scritto la lista, per essere certo di non dimenticare nulla. Subito prima di andare a letto l’ho buttata nel water e ho tirato lo sciacquone.

Quello era il punto numero uno: non lasciare tracce.

Non so se sto sudando per l’eccitazione o perché, malgrado ormai abbia sollevato le coperte, indossare il pigiama sopra la tuta da ginnastica mi fa sentire troppo caldo. Ma questo prevedeva il punto numero due: mettere i vestiti sotto il pigiama.

Al punto numero tre avevo scritto: preparare uno zaino con il tablet carico al 100% e il cannocchiale. Fatto.

Il quarto e ultimo punto esigeva che mi incontrassi con Carlotta all’ingresso del mio giardino alle 01:30 in punto.

Seguo la lancetta dei secondi da non so quanto e, se potessi farmi piccolo piccolo, entrerei nella cassa dell’orologio e mi metterei a spingerla. Il tempo non è mai stato così pigro. Ecco. Mancano due minuti esatti all’appuntamento.

Scendo dal letto leggero come una piuma, tolgo il pigiama e lo metto

sotto le coperte insieme a dei peluche per far sembrare che ci sia qualcuno, nel caso mamma o papà si svegliassero per andare in bagno mentre sono fuori e gettassero un occhio nella mia stanza.

Infilo le scarpe, il giubbetto, inforco lo zaino. Le chiavi sono ancora lì dove le avevo lasciate ieri notte. Apro la finestra, poi l’inferriata ed entro in giardino senza fare il minimo rumore. Nemmeno Spugna si affaccia dalla gabbia. Carlotta invece è già dietro il cancello che mi aspetta in sella alla mountain bike. Spacca il secondo.

Insieme ripetiamo quello che ho fatto la notte scorsa. Punto il cannocchiale verso la gabbia e, quando vedo il pitone e Spugna uscire dal giardino, li seguiamo in sella alle biciclette. Dal momento che non posso guidare mentre guardo nel cannocchiale, di tanto in tanto mi fermo per controllare che gli animali non abbiano cambiato strada. Per fortuna il pitone percorre la pista ciclabile che conduce all’uscita del quartiere, facilitandoci il pedinamento. Che poi è un pedinamento per modo di dire, perché

ogni volta che tolgo l’occhio dal cannocchiale, del pitone e di Spugna non c’è più traccia e, malgrado io ormai ne sia perfettamente consapevole, non riesco ancora ad abituarmi all’idea.

Non ero mai stato sulla ciclabile a quest’ora della notte. Se si escludono i rumori delle auto che sfrecciano sul Grande Raccordo

Anulare che passa qui di fianco, non si sente nulla. Ogni tanto c’è qualcosa che muove la vegetazione ai margini della pista, probabilmente un animale, forse una volpe, o un cinghiale. Ormai sempre più spesso gli animali selvatici, spinti dalla fame e dalla presenza dei rifiuti, abbandonano la campagna per avventurarsi in città alla cerca di cibo. Ma ora è talmente buio che non riesco a distinguere nulla tra l’erba nera: le luci delle nostre bici illuminano a malapena il metro di asfalto che ci precede.

È umido e fa freddo. Me ne accorgo soprattutto quando smettiamo di pedalare. Finita la pista ciclabile, percorriamo un sentiero tra due file di alberi. Il fondo sterrato è gibboso, pieno di ciottoli, il che rende

la guida più insidiosa. Mi fermo di nuovo, inforco il cannocchiale e scruto il sentiero davanti a noi.

Dei due animali non c’è traccia! Eppure non abbiamo superato nessun bivio.

«Li abbiamo persi» dico a Carlotta. E intanto allargo la ricerca anche ai lati del sentiero. Mi sembra di vedere…

Mi sporgo sulle punte dei piedi, alzandomi sopra la sella, e quasi perdo l’equilibrio, ma quel che conta è che li ho trovati.

Eccoli lì, sul pendio che scende alla destra del sentiero, tra gli alberi. Il pitone e Spugna puntano verso il basso, illuminati a fatica dalla luce giallognola di un lampione. In fondo alla discesa s’intravede una casa di campagna scalcinata che sembra disabitata.

«Stanno scendendo di là» dico sottovoce a Carlotta indicandole la direzione.

«Riesci a seguirli da qui?» mi chiede.

Le rispondo di sì senza staccare gli occhi dal cannocchiale per paura di perderli di nuovo.

«Possibile che Boatigre sia prigioniero in un posto così vicino a casa nostra?» le sussurro. Il contachilometri della bicicletta indica infatti che abbiamo percorso meno di sei chilometri.

«Perché no? Mi sembra abbastanza isolato per tenerci un prigioniero».

E infatti il pitone e Spugna si infilano nel portone mezzo divelto della casa sotto di noi.

Io e Carlotta mettiamo le bici sul cavalletto e tiriamo fuori i tablet. Usiamo l’app torcia per farci luce nel ripido pendio tra la boscaglia che conduce alla casa.

Arrivati in piano, Carlotta si porta il dito indice davanti alla punta del naso: da quel momento avremmo parlato solo a gesti.

Spegne il suo tablet e mi invita a fare lo stesso. Poi mi mostra la mano aperta per dirmi di aspettare lì, al riparo dell’ultimo albero prima della piana brulla che ci divide dalla casa.

Carlotta si assicura che io abbia capito e poi, abbassando il busto per farsi più piccola, corre fino a raggiungere il muro dell’edificio

e ci si appiattisce contro come un geco. Si è appoggiata con la schiena vicino a una grossa finestra con le persiane di legno socchiuse.

Mi fa segno col braccio di raggiungerla.

Prendo un respiro e corro, ma mi dimentico di abbassarmi. Ci penso a metà strada e provo a rimediare, mi chino goffamente senza interrompere la corsa e perdo l’equilibrio. Vado in terra rovinando tra i sassi e l’erba a due metri dalla casa.

Le persiane si aprono di colpo!

Per fortuna ho fatto in tempo a trascinarmi contro il muro! Un’anta si allarga e quasi mi sbatte sulla testa. Carlotta è di fianco a me, ci stringiamo la mano e tratteniamo il fiato per non fare rumore, mentre ascoltiamo una voce che ci gela il sangue.

«Maledette bestiacce!»

Poi le persiane si richiudono e io credo di svenire. Ho il cuore in gola, un ginocchio sbucciato e la caviglia che mi pulsa.

Carlotta invece non perde tempo e si alza fino ad arrivare con la testa al davanzale.

Fingo di non sentire il dolore alla gamba e la imito.

Tutti e due ci solleviamo lentamente il tanto che basta per sbirciare nella casa attraverso le persiane socchiuse.

Quello che vediamo ci lascia a bocca aperta: il professor Boatigre è prigioniero in una gabbia; di fianco a lui il pitone rinchiuso in un terrario. Una grossa coda marrone striscia sul pavimento polveroso allontanandosi da noi, trascinata dalla camminata stanca di due tozze zampe squamose, e si ferma davanti a Boatigre.

Il momento della verità

«Investirai il bottino in caramelle per l’alito?» chiede Boatigre indicando un tavolo alle spalle di Jack Varano.

Solo allora io e Carlotta ci accorgiamo che lì sopra ci sono accatastati soldi, gioielli, piccoli elettrodomestici, telefoni, illuminati dall’unica lampada presente nella stanza. Un cellulare ha una cover che riconosco. Ma sì, è quello di mamma. È quello di mamma!

Preso dall’impeto mi volto verso Carlotta, lei intuisce che sto per aprire bocca a sproposito rischiando di farci scoprire e me la tappa con una mano. Poi muove piano le labbra per farmele leggere: «la refurtiva» dice annuendo. E io faccio sì a mia

volta, mentre lei allontana le dita dalla mia bocca lasciandomi un sapore che non riesco a riconoscere.

Torniamo a spiare dentro la casa: Jack Varano cammina verso il tavolo e si ferma di fronte alla lampada. La sua ombra si allunga sull’intero pavimento fino ad arrampicarsi sulla parete, rendendone la figura ancor più minacciosa. Solleva le banconote con noncuranza e poi le fa cadere in terra come se per lui non avessero nessun valore.

«Ti riferisci a questi spiccioli? Era solo un esperimento, per assicurarmi che quanto avevo sentito sulle tue ricerche fosse vero. E visto che andava fatto, mi è sembrato sensato ricavarci qualcosa. Sai, il mio piano è ambizioso, e comporta ingenti spese»

«Cosa hai in mente allora?» chiede Boatigre aggrappandosi con le mani alle sbarre della gabbia.

«I cattivi mascherati che rivelano i loro piani ai prigionieri li trovi solo nei vecchi fumetti. Ora ci siamo evoluti».

Varano si allontana dal tavolo con la refurtiva e viene verso la finestra. Io e Carlotta ci accovacciamo di colpo.

Rimaniamo così in ginocchio, temendo che Jack Varano possa aprire di nuovo le persiane e scoprirci. Ora possiamo solo ascoltare la sua voce sbiascicata mentre si rivolge al professore.

«Insegnami il modo con cui riesci a impartire ordini al pitone ipnotizzatore e ti lascerò andare: non sai chi sono né dove siamo, per me saresti solo un peso».

Io e Carlotta ci scambiamo uno sguardo di assenso: Varano non ha scoperto come

Boatigre comunica col pitone, per questo lo tiene prigioniero.

«Sai, tutto sommato qui mi trovo bene».

Dopo la risposta del professore ascoltiamo i passi di Varano allontanarsi dalla finestra. Torniamo a sollevare la testa fino a spiare di nuovo dentro la casa. Boatigre si è stravaccato sulla branda, ostentando la posa di chi potrebbe rimanere lì per tutta una vita.

Varano invece apre lo sportello di un vano sulla parete opposta a quella da dove lo os-

serviamo. È troppo lontano e troppo buio, così non riusciamo a capire cosa contenga. «Hai ragione, è il caso che inizi a toglierti qualche comodità» dice Varano.

Poi sentiamo uno stock e di colpo una luce abbagliante inonda tutta la stanza fino a colpire anche noi. Ci ritiriamo giù e per qualche secondo non vediamo nulla, se non dei lampi indistinti. A poco a poco i nostri occhi si riprendono dallo shock procurato dal bagliore. Iniziamo a rivedere delle sagome nel buio circostante, seppure ancora avvolte da un alone biancastro e sfocato.

Non senza difficoltà proviamo a ributtare lo sguardo nella casa, proteggendoci dalla luce con una mano. Scopriamo così la presenza di enormi fari, più grandi di quelli di un campo da calcio, ancorati a una trave del soffitto, puntati verso la gabbia di Boatigre. Il mio eroe è costretto a te nere un braccio davanti al volto per non rimanere accecato.

«Ora vediamo se riesci a dormire. E da domani pane e acqua».

Varano lo saluta con questa minaccia ed esce dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Sto ancora cercando di riprendere il pieno controllo della vista quando sento Carlotta alzarsi in piedi.

«Io entro, tu fai il palo».

Non faccio in tempo a dirle che è troppo pericoloso: lei ha già aperto le persiane e si sta arrampicando sul davanzale.

Carlotta è dentro, ma neppure Boatigre se n’è accorto, costretto com’è a tenersi il viso coperto.

Carlotta vuole richiamare la sua attenzione senza urlare, così avanza nella stanza stando attenta a non fare rumore, e io trattengo il fiato anche per lei. Quando arriva alla gabbia infila la testa tra le sbarre per quello che può e chiama il professore sottovoce: «Boatigre…»

Di colpo la porta si spalanca e Varano rientra con il passo pesante puntando dritto verso di lei. Attraverso la porta aperta

riesco a vedere nell’altra stanza: un enorme monitor rimanda le immagini di Boatigre e Carlotta. Sposto lo sguardo verso la gabbia e solo ora mi accorgo della telecamera. Ecco come l’ha scoperta!

Varano è alto il doppio della mia amica e vederlo muoversi con impeto davanti a lei lo rende ancora più spaventoso.

Anche se entrassi, che cosa potrei fare?

E poi ho la caviglia che continua a pulsarmi, il ginocchio sanguinante. E se tornassi di corsa alla bici?

Potrei chiamare aiuto. Potrei far accorrere qualcuno in grado di affrontarlo...

Ora o mai più

È un attimo, una frazione di secondo.

Come quando eravamo in piscina e avevo detto a papà che volevo tuffarmi dal trampolino, poi arrivati in cima ero stato preso dal panico e volevo tirarmi indietro.

L’unico modo che hai per sconfiggere la paura è di buttarti nel momento in cui la provi, mi aveva detto.

E così, nell’istante in cui sto per voltare le spalle a Carlotta, mi lancio nella direzione opposta.

Scavalco la finestra e non sento male né alla caviglia né al ginocchio. Piombo dentro la stanza e sono tra Jack Varano e la mia amica prima che lui riesca ad allungare quelle zampe schifose su di lei.

Poi mi blocco, consapevole di non poter fare altro se non frapporre i miei trentatré chili tra Carlotta e il mostro.

Varano mi solleva prendendomi da sotto le ascelle, portandomi la faccia all’altezza del suo muso. Mi sento tagliuzzare sotto le

braccia e mi rendo conto a mie spese che il suo costume è ruvido come la carta vetrata. Dalla bocca gli pendono dei filamenti di bava schifosi che rendono il travestimento ancora più verosimile. Ma è solo quando mi soffia in faccia il suo alito pestilenziale che il disgusto mi impone di reagire. Afferro l’unica cosa che ho sottomano per provare a colpirlo, il cannocchiale che mi esce dallo zaino.

È un tentativo goffo, che Varano schiva limitandosi a indietreggiare con il collo, mentre la sua lingua flaccida gli sbatte contro i lati della bocca.

Che sia veramente un varano, con questo fiato asfissiante causato dai batteri che si lascia proliferare in bocca?

E qui mi accade di nuovo. Un lampo.

Una serie di pensieri che si sovrappongono come una slavina. Varano, rettile, serpente, pitone. E ancora prima che io mi renda conto di quello che sto facendo, lancio il cannocchiale contro la teca. Infrangendola.

«Che diavolo…»

Mi soffia in faccia Varano, ma ormai il pitone è uscito dal terrario e striscia sul pavimento, per poi bloccarsi. Dei puntini rossi si accendono a intermittenza sul muso del rettile. Mi volto e vedo che Boatigre impugna un piccolo laser: è lui che sta proiettando i raggi verso la testa del serpente.

Anche Varano se ne accorge e mi molla in terra.

Va verso Boatigre per fermarlo, ma il pitone gli si para davanti, alzandosi con la testa e assumendo una posa minacciosa.

Carlotta corre da me, mi abbraccia. Per la prima volta avverto che non sa cosa fare, che non si sente pronta, che ha paura.

Varano si blocca, intimidito dall’enorme pitone.

«Gli ho appena ordinato di attaccarti» dice Boatigre da dentro la gabbia.

«Menti» risponde Varano facendo un passo verso di lui.

Non fa in tempo a poggiare lo zampone a terra che il serpente gli si

scaglia contro allargando le fauci. Per schivare l’attacco Jack cade, ma si rialza prontamente e con una torsione repentina del busto muove l’enorme coda verso la testa del pitone, allontanandola da sé e fugge.

Ma prima di scomparire nella notte lancia la sua minaccia: «Ci rivedremo presto! È una promessa».

«La luce…» implora Boatigre, con una mano sugli occhi socchiusi.

Carlotta ha ripreso il controllo di sé, si alza di scatto e va a spegnere l’interruttore nel vano della parete. I fari appesi al soffitto si spengono in uno stock, riportando la stanza nella penombra impostagli dalla sola lampada sul tavolo.

«Complimenti, ragazzo, sei stato furbo e coraggioso».

Mi alzo e sono ancora stordito.

Jack Varano è fuggito, ho un enorme pitone reticolato accovacciato ai miei piedi che sembra mi stia facendo le fusa, e il mio mito mi ha appena riempito di elogi.

Poi succede qualcosa di ancora più incredibile: un odore di vaniglia precede l’umido delle labbra di Carlotta sulla mia guancia.

«Mi hai salvato» dice.

E io non so cosa provo in questo momento, ma mi gira la testa.

La leggenda del re degli animali

Jack Varano ha perduto le chiavi cadendo, così abbiamo potuto far uscire il professore dalla gabbia.

Ora Boatigre è proprio di fronte a me e mi sorride: non è un poster!

Dal vivo è più basso e più magro, e ha la barba lunga. I capelli, a differenza di quando appare in televisione, sono quasi completamente bianchi e lo fanno sembrare più vecchio.

«Siete stati davvero bravi, ragazzi!» ci dice mentre si china per accarezzare la testa del pitone come se fosse un gatto soriano.

Sono sempre più convinto che da un momento all’altro sentirò mia madre urlare “Sveglia!”, vedrò la luce accendersi

e mi coprirò con le coperte chiedendo di poter rimanere a letto ancora cinque minuti. Perché tutto questo non può che essere un sogno.

«Ho trovato Shesha inseguendo una leggenda» dice Boatigre continuando ad accarezzare l’enorme pitone, che ora gli si è acciambellato sui piedi.

Io e Carlotta ci sediamo in terra di fianco a loro. La mia amica preferisce lasciare me dal lato più vicino al rettile, che continua a guardare con diffidenza.

«Per gli induisti il serpente è da sempre un animale sacro: lo considerano un’estensione del dio Vishnu, anche se in quel caso lo raffigurano come un cobra con sette code e sette teste. Ma esplorando la giungla mi sono imbattuto in un’altra leggenda, più antica e meno nota: quella del Grande Rettile, il serpente re di tutti gli animali»

«Un pitone reticolato!» esclamo indicando Shesha, spinto dall’impeto del racconto.

«Esatto! Ho trascorso mesi appostato nella giungla profonda dell’India alla sua ricerca e poi finalmente l’ho trovato. Ma la

cosa più difficile per me è stata credere ai miei stessi occhi…»

Boatigre ci vede pendere dalle sue labbra e così si interrompe per acuire il nostro

interesse. Possibile che anche lui conosca la maestra Sonia?

«Alla fine però mi sono dovuto arrendere all’evidenza che avrei voluto confutare: Shesha, il grande pitone reticolato, era in grado di imporre la propria volontà sugli altri animali con una sorta di ipnosi»

«Muovendo la lingua davanti ai loro occhi». Questa volta è Carlotta a intervenire: la sua indole da prima della classe è stata più forte persino del timore che le incute la vicinanza del serpente.

Boatigre le annuisce sorridendo. «Sono riuscito a catturarlo. Volevo studiare questa incredibile creatura in laboratorio per poi rimetterla in libertà. Ed è stato allora che ho scoperto che Shesha è in grado di decodificare un vero e proprio linguaggio. Come tutti i serpenti, la sua principale forma di interazione con il mondo esterno è il calore. Partendo da questa unica certezza ho iniziato i miei esperimenti con questo…»

Boatigre ci mostra un piccolo puntatore laser grande quanto un accendino.

«È stato un lavoro lungo e complesso: per il momento riesco a impartirgli solo comandi molto semplici attraverso una specie di codice Morse, ma funziona. Se Varano non ci avesse rapiti, avrei continuato ad ammaestrarlo anche con istruzioni più complesse».

Il racconto ha acceso la mia immaginazione. Le domande iniziano a rimbalzarmi impazzite per la testa: quali erano i seguaci di Shesha nella giungla? Esiste qualche animale in grado di ribellarsi al suo potere? È un buon sovrano? Mi verrebbe persino da chiedergli che rapporti ha con i varani, ma poi mi ricordo che vivono in due zone molto distanti della Terra.

Alla fine però è Boatigre a porre un quesito a noi: «Come avete fatto a trovarmi?»

Io e Carlotta ci guardiamo: il professore dovrà ascoltare una storia che rischia di essere persino più incredibile della sua.

Boatigre segue il nostro racconto con grande attenzione, ha gli occhi che gli brillano per lo stupore. Non sembra neppure un adulto. E quando ci accorgiamo che

nell’urto con la teca il cannocchiale è andato completamente distrutto, rimane deluso quanto noi.

«Onde gravitazionali, carbonato di potassio, zolfo e solfato di rame. È incredibile quanto poco sappiamo dell’universo che ci circonda…» commenta.

Boatigre prende ciò che resta del cannocchiale e lo osserva con ammirazione mista a rammarico.

«Ho degli amici fisici che avrebbero venduto l’anima al diavolo per averlo tra le mani…»

«E adesso cosa facciamo?» chiede Carlotta, invitandoci a interrompere le nostre riflessioni e riportandoci a problemi più immediati.

«Semplice. Adesso voi due tornate a casa e vi mettete a letto prima che i vostri genitori si sveglino, qui penso a tutto io»

«Ma come?» proviamo a protestare.

«Volete veramente che raccontiamo al mondo intero la verità? Voi siete ancora giovani per capirlo, ma vi assicuro che la verità non è sempre l’opzione migliore. Provate a

immaginare quale sarebbe la reazione a questa storia: un cannocchiale che vede indietro nel tempo, che però guarda caso è andato distrutto; un cattivo vestito da varano, che ha un piano diabolico e che, per disgrazia, è fuggito; un serpente che ipnotizza altri animali e che si può ammaestrare, di cui – abbiamo imparato a nostre spese – il mondo è meglio che non conosca l’esistenza. Credo che ce ne sia abbastanza per far rinchiudere me al manicomio e per bollare voi come bugiardi fino all’età della pensione».

Guardo

Carlotta e le faccio segno che Boatigre ha ragione: so fin troppo bene quanto siano scomodi da indossare i panni del bugiardo, specie quando in cuor tuo sai di non aver mentito, ma soltanto che la verità è impossibile da dimostrare.

Un nuovo inizio

Come si fa a stare a scuola dopo l’avventura che abbiamo vissuto questa notte? Non riesco a concentrarmi su nulla. Le labbra della maestra si muovono come quelle di un pesce nell’acquario, perché io non sento niente, la mia mente è altrove. Sono così eccitato che non ho neppure sonno, malgrado non abbia chiuso occhio. Mentre pedalavamo verso casa, con Carlotta ci siamo raccontati di nuovo tutto, come si fa all’uscita dal cinema dopo aver visto un film entusiasmante.

Hai visto quando Varano ti ha sorpreso nella casa? Pensavo di morire!

E quando mi ha sollevato? Aveva la pelle così ruvida che mi ha graffiato sotto le ascelle, e poi quel fiato fetido!

E quando il pitone lo ha attaccato?!

E ancora. E ancora.

Perché dircelo ci aiutava a convincerci che era tutto vero.

Io ho continuato anche sotto le coperte, a pensare e ripensare a ogni singolo attimo della notte più bella che abbia mai vissuto, senza dormire un solo minuto.

Suona la ricreazione e usciamo in cortile, ma anche qui non riesco a scacciarmi dalla testa il professor Boatigre, la leggenda del grande serpente Re degli animali e Jack Varano. Già, alla fine l’unico mistero irrisolto è chi si cela dietro quell’orrendo costume, e quale piano avesse in mente.

La palla mi sbatte contro un piede. Sono tentato di non curarmene, ma le grida dei miei compagni mi distraggono: stanno giocando una partita e vogliono che gliela lanci.

Mi alzo e metto il piede sopra al pallone, poi lo lancio con la suola nella loro direzione, ma così piano che si ferma a un metro da me.

«Valla a prendere» Alessio ordina a Matteo, che obbedisce.

Io non mi muovo.

Matteo si avvicina e, solo quando è quasi arrivato, mi metto dietro al pallone. Lo sfido con un gesto della mano a togliermelo.

Matteo è goffo. E soprattutto gli pesa il fatto di avere tutti gli sguardi su di sé, il che lo rende ancora più scarso. Appena allunga un piede per prendermi la palla, io la colpisco e gliela faccio passare in mezzo alle gambe, per poi corrergli di fianco e riprenderla dopo che lo ha superato.

«Busta!» urlo.

E anche se non vedo in faccia Matteo, so di avergli fatto male, e che molto di più gliene stanno facendo le sghignazzate e le prese in giro che si sono levate alte alle sue spalle.

Perché comunque una cosa l’ho imparata: ora so essere cattivo quando voglio.

«Gioco anche io» dico a tutti.

Alessio mi si fa incontro.

«Pensi che perché hai fatto busta a quello scarso di Matteo ti facciamo giocare?»

«No, penso che stanotte ho affrontato e vinto un varano alto due metri, e che quindi non mi fai paura».

Detta così, la verità assomiglia a una bugia così grande, ma così grande, che ha come effetto quello di far scoppiare a ridere tutti. Persino Alessio.

«Dài, pagliaccio, mettiti in porta» mi dice mentre ancora sorride.

Carlotta è l’unica a sapere che non sto scherzando, ma questo rimarrà il nostro segreto. Incrociamo gli sguardi per un attimo, poi lei torna a giocare ad acchiappafulmine.

A dirla tutta, stanotte ho scoperto di custodire anche un altro segreto che non svelerei neppure sotto tortura. Un segreto che non posso condividere con nessuno, neppure con Carlotta.

No, nemmeno con te che stai leggendo.

Arrivederci…

Mamma è euforica: mentre ero a scuola è stata convocata in questura dalla polizia che le ha riconsegnato il suo prezioso smartphone. Appena entriamo in casa, si accascia sul divano senza staccare lo sguardo dal telefono: deve avere centinaia di messaggi in arretrato.

Anch’io ho fretta di accendere il tablet, devo controllare su internet cosa dicono i giornali di Boatigre. Stamattina prima che andassi a scuola non c’era scritto ancora nulla.

«Dove vai?» mi blocca la voce di mamma.

«In camera, perché?»

«Vieni qui».

Le siedo di fianco e mi mostra il suo telefono: su WhatsApp ha ricevuto un link al-

l’articolo di un quotidiano online. Lo apre davanti a me: “Famoso documentarista sventa traffico di animali esotici”.

La foto di Boatigre allegata all’articolo deve essere di repertorio: il professore vi appare in piena forma, con la barba appena accennata, i capelli quasi completamente neri, il viso paffuto e abbronzato, l’orecchino splendente e l’immancabile fazzoletto al collo. Il giornalista racconta che Boatigre ha messo in fuga il malvivente che lo aveva rapito e che si nascondeva dietro un costume da lucertola. L’articolo spiega anche che Boatigre ha fatto recuperare il bottino di una serie di furti in appartamento commessi dallo stesso delinquente mascherato. C’è anche un accenno all’agguato perpetrato da Varano alla polizia con il letame, ma non si parla né di me e Carlotta, né dell’esistenza del pitone ipnotizzatore, ma solo di sfuggita di un traffico di animali esotici.

«Non è incredibile, amore mio? Proprio il tuo eroe, ed è accaduto tutto qui vicino!»

Mamma, tu non hai idea di cosa sia davvero incredibile! Avrei tanta voglia di dirglielo, ma lo tengo per me. So che sto facendo la cosa giusta, che non mi crederebbe, ma comunque mi sento in difficoltà con lei.

Anche per questo quando suonano alla porta sono felice, almeno possiamo cambiare discorso.

«Vado io» le dico con enfasi, e corro ad aprire.

È papà. Sono contento di vederlo. Sto per abbracciarlo quando mi accorgo che non è solo: alle sue spalle scorgo la figura scheletrica di Corrado. Peccato, finora era stata una giornata perfetta.

Papà fa accomodare in casa il suo amico e poi si rivolge a noi con un tono funereo: «Corrado è venuto a salutarci, parte di nuovo per l’Australia».

Forse ho parlato troppo in fretta: questa è davvero la giornata perfetta!

«Che peccato, come mai?» gli chiede mamma. E mi rendo conto che anche lei

come Boatigre è dell’idea che non sempre la verità è l’opzione migliore, visto che non lo sopporta.

«Affari…» risponde lui.

Poi Corrado si abbassa su di me.

Ora siamo occhi negli occhi e io sento di nuovo quell’alito fetido mentre mi dice: «Ci rivedremo presto, Valerio. È una promessa».

Nella stessa collana Uao - letture intermedie Gallucci:

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 1. Il cuore sul prato (cinque edizioni)

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 2. Tutti in campo (due edizioni)

Cee Neudert, Pascal Nöldner Caccia ai mostri (cinque edizioni)

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 3. La coppa dell’amicizia (tre edizioni)

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia (sei edizioni)

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 2

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 3

Sabina Colloredo Fuoco nel bosco. I ragazzi della Quercia Storta (due edizioni)

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 4

Cee Neudert, Pascal Nöldner Caccia ai mostri 2. Salva la scuola dalle orribili creature (due edizioni)

C. Acerbi, E. Caillat, M. Guidi Millo & Cia - Avventure scout. Il mistero del palazzo maledetto

Reggie Naus, Mark Janssen I pirati della porta accanto (due edizioni)

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Morde! (due edizioni)

Christelle Chatel Il lupo e il leone (tre edizioni)

Sabina Colloredo SOS messaggio in mare. I ragazzi della Quercia Storta

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 5

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Sbava!

C. Acerbi, E. Caillat, M. Guidi Millo & Cia - Avventure scout. L’ombra della sera

Angelo Di Liberto Lea (cinque edizioni)

Eva Grynszpan Among Us (otto edizioni)

Reggie Naus, Mark Janssen I pirati della porta accanto. Alla conquista del parco!

Sabina Colloredo L’uragano. I ragazzi della Quercia Storta

Pippa Curnick Indaco Wilde e le strane creature di Jellybean Crescent

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Azzanna!

Bertrand Puard Agenzia del brivido. La scuola del terrore

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 6

Clémentine Mélois, Rudy Spiessert Notte di paura. Troppo sale nella pasta (due edizioni)

Pippa Curnick Indaco Wilde nelle Terre Sconosciute

Marco Cattaneo Casa Monelli

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Una matrioska di misteri

Annalisa Strada, Ivan Bigarella Gatti a catinelle

Beppe Tosco, Francesco Tosco, Alessandro Sanna La notte delle spazzature viventi

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Azzanna!

Susanna Isern, Laura Proietti Malvarina. Voglio essere una strega (due edizioni)

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 13. Il sogno americano

Clémentine Mélois, Rudy Spiessert Notte di paura. Lo scienziato pazzo

Eva Grynszpan Among Us 2. L’accademia (tre edizioni)

Brigitte Kernel Mi chiamo Charlie Chaplin e darò gioia ai tempi moderni

Susanna Isern, Laura Proietti Malvarina. Apprendista strega

C. Acerbi, E. Caillat, M. Guidi Millo & Cia - Avventure scout. Il tesoro sepolto

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 7

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 14. Sotto i riflettori

Sara Cristofori Cassey Almond e la lega delle anime perdute

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 15. La festa della Scuola

Christelle Chatel Emma e il giaguaro nero (due edizioni)

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Una cattedrale di ragnatele

Estelle Mialon Among Us 3. L’attacco zombi (due edizioni)

Alberto Manzi Testa Rossa

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 16. Un incontro inatteso

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 4. Momenti di gloria

Angelo Di Liberto Il coraggio di Giovanni (tre edizioni)

Sara Cristofori Cassey Almond e l’Ordine del Caos

Cuca Canals Il giovane Poe. Il mistero di Morgue Street

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 8

Cuca Canals Il giovane Poe. Lo strano caso di Mary Roget

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Un labirinto di specchi

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 17. L’incredibile piroette

Marco Cattaneo Casa Monelli. Il castello stregato

Alberto Manzi Il lungo viaggio di Einar (due edizioni)

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Una matrioska di misteri

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Brilla!

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 18. E la tua danza qual è?

Cuca Canals Il giovane Poe. La casa degli orrori

Della stessa serie:

Luca Poldelmengo

VALERIO NELLA TANA DEL VARANO

ISBN 978-88-3624-093-7

160 pagg. - euro 9,90

“Thriller, sogni e un pizzico di fantascienza fanno di questo romanzo per ragazzi un'avventura tutta da leggere"

Silvia D'Onghia, Il Fatto Quotidiano

“Una lettura ricca di colpi di scena e segreti svelati che intreccia situazioni reali con elementi di fantascienza e regala una grande avventura dove bambini e animali sono protagonisti”

Zebuk

“Il romanzo per chi è a caccia di un giallo con un pizzico di fantasia”

Francesco Musolino, Il Messaggero

Stampa: Tecnostampa - Pigini Group Printing Division
Loreto – Trevi
25.84.046.0

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Scopri i libri pensati per stimolare il piacere di leggere e per arricchire la didattica, riflettendo insieme su temi rilevanti. Le scuole e gli insegnanti interessati agli incontri con gli autori possono scrivere all’indirizzo: scuola@galluccieditore.com

Una mattina non si trovano più cani, gatti, furetti, cavie, tartarughe… La maestra dice di stare tranquilli, che un’onda gravitazionale ha investito la Terra ma gli animali domestici torneranno. I ragazzi della quinta B sono invece convinti che siano stati rapiti. Come se non bastasse, pure il professor Boatigre è sparito. Bisogna subito fare qualcosa. Valerio si butta nelle indagini con l’aiuto di Carlotta e di un cannocchiale dai poteri straordinari. Insieme scopriranno la chiave del mistero. Ma i grandi saranno in grado di reggere la verità?

«Il professor Boatigre è introvabile. Prima che lo rapissero stava studiando una razza molto particolare di pitone. E indovina? È sparito anche lui!»

Luca Poldelmengo (Roma 1973) è uno scrittore e sceneggiatore appassionato di storie nere. Ha scritto cinque romanzi e diversi soggetti per il cinema e la televisione. Con La scomparsa del professor Boatigre, grazie anche alla fantasiosa partecipazione del figlio maggiore Valerio e al tocco leggero dell’illustratrice Manola Caprini, l’autore dal nome impronunciabile fa una bella capriola all’indietro ed esordisce alla grande nella narrativa per bambini.

www.gruppoeli.it

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