Estate al via Plus - Il lungo viaggio di Einar - cl3

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Gruppo Editoriale

Il piacere di apprendere

ELi

Silenzio…

Tutto intorno regnava un silenzio assoluto. Si udiva solo lo scricchiolio della neve sotto i passi di Einar.

Tutto a un tratto riecheggiò un frastuono infernale e prese a farsi sempre più vicino. Erano i lupi, che ululavano al cielo la loro fame. All’improvviso ammutolirono. Dovevano essere arrivati nei pressi della slitta. Einar si voltò.

A circa duecento metri di distanza un intero branco trotterellava silenzioso. Circa un’ora dopo si voltò di nuovo: il branco era ancora sulle sue tracce.

Alberto Manzi, noto a tutti come Il Maestro Manzi, docente, pedagogista e scrittore, è stato uno dei volti più noti della televisione italiana in bianco e nero.

Negli Anni Sessanta conduceva la trasmissione Non è mai troppo tardi, che ha permesso a un milione e mezzo di italiani di prendere la licenza elementare. Esempio di cittadinanza attiva e di impegno civile a favore del diritto all’infanzia e all’istruzione, il suo metodo educativo ha rappresentato una rivoluzione per la didattica e il pensiero pedagogico. Illustrazione e grafica di copertina: Margherita Travaglia / studio pym

UAO

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Alberto Manzi

Il lungo viaggio di Einar

dello stesso autore in queste edizioni: Testa Rossa

Titolo originale dell’edizione tedesca del 1963: Der lange Weg nach Arjeplog traduzione di Angela Ricci

Le illustrazioni di questo libro sono state elaborate dai disegni di Heino Meissl pubblicati nell’edizione originale tedesca del 1963.

© 2024 Gallucci editore srl - Roma

Edizione speciale per Gallucci - Cetem, Gruppo editoriale ELi © 2025 Gallucci - Cetem, Gruppo editoriale ELi

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Alberto Manzi Il lungo viaggio di Einar

disegni di Heino Meissl traduzione di Angela Ricci

Care lettrici e cari lettori, dovete sapere che l’eroe di questa storia è esistito veramente, nel Nord della Lapponia. I nomi degli altri personaggi del libro, per esempio Eskil e Angol, sono inventati, quello del “dottor Einar” invece è reale, così come è reale anche la sua lotta contro le forze e la furia della Natura, per alleviare le sofferenze degli altri esseri umani.

Qualcuno di sicuro penserà che quel che racconto in questo libro sia impossibile, ma se alla fine di questa storia non sarete ancora convinti che il dottor Einar è realmente esistito, vi invito a pensare che al mondo ci sono tantissimi Einar, i cui nomi rimangono molto spesso nell’oblio. I pionieri infatti camminano davanti a tutti e la folla non li riconosce mai per quello che sono.

È a tutti questi Einar che dedico il mio lavoro.

Ma lo dedico anche a voi, care lettrici e cari lettori, perché possiate ricordarli.

Alberto Manzi

Al dottor Einar Wallquist Arjeplog – Svezia

Capitolo 1

«Einar! Einar!»

Il ragazzo scosse delicatamente l’uomo addormentato.

Questi si mosse un poco, voltò la testa e mormorò senza aprire gli occhi: «Che c’è?»

«Ha telefonato Angol. Ha detto che è urgente»

«Angol?» L’uomo ricacciò indietro uno sbadiglio. «Quale Angol?»

«L’Angol che ha tutte quelle renne. Ha camminato quattro ore prima di trovare un telefono per chiamarti. Quasi gli scoppiava il cuore dalla fatica» disse il ragazzo.

«E cosa voleva?» borbottò Einar, drizzandosi a sedere sul letto.

«Dice che Eskil ha urgente bisogno di te, è gravemente ferito».

Sempre borbottando, l’uomo cominciò a vestirsi mentre il ragazzo lo guardava.

«Dottore…» mormorò.

«Che c’è, figliolo?»

«Io non andrei se fossi in lei. I folletti delle montagne sono inquieti e anche la neve è di cattivo umore».

L’uomo rise.

«Io non andrei» ripeté il ragazzo. «I cani sono andati a nascondersi e non la smettono di abbaiare. Le renne si sono messe al riparo nella capanna».

L’uomo sembrò non dargli ascolto e continuò a vestirsi in fretta e furia. Il ragazzo ripeté allora il suo avvertimento una seconda volta, poi una terza, e infine gridò rosso in viso: «Ma cosa ti importa di Eskil?»

Il medico si voltò di scatto e lo guardò dritto negli occhi.

«Non volevo dire così» balbettò il ragazzo chinando il capo. «È solo che è pericoloso e tu non puoi morire»

«Perché mai?»

«Perché ci sei solo tu»

«Proprio perché sono solo, potrò pur morire quando mi pare, o no?» scherzò il medico.

«Ma tu sei l’unico dottore che abbiamo qui.

Non puoi morire… Posso venire con te?»

«Hai detto che i folletti sono inquieti e i cani abbaiano»

«Sì, è vero, l’ho detto, e fosse per me non andrei. Ma se tu vai, ti accompagno»

«Nick…»

«Non sarò un peso per te e magari potrei aiutarti»

«No, tu rimani qui!»

«Non mi hai mai portato con te, anche se me lo hai promesso tante volte»

«Quando sarai più grande…»

«Sono già più alto di te, e sono nato e cresciuto da queste parti»

«Cerca di capire, Nick! Devi ancora studiare molto se vuoi sostenere l’esame di Medicina. Non puoi permetterti il lusso di perdere del tempo prezioso»

«Ma così non farò mai pratica!»

«Quando sarai all’università ne riparleremo».

L’uomo prese lo zaino, legò per bene la borsa con gli strumenti e finì di vestirsi.

Il ragazzo uscì e tornò poco dopo con del caffè caldo.

«Ecco, bevi!» disse.

Einar posò una mano sulla sua spalla e gli disse:

«Ascoltami, Nick. Un giorno dovrai prendere il mio posto. È per questo che non ti porto con me ora, per non esporti ai rischi. E poi… non sono ancora così vecchio, ce la faccio anche da solo».

Una volta fuori, mise gli sci ai piedi, raddrizzò lo zaino sulla schiena e infine sfrecciò

giù per la collina. Nick rimase sulla porta e lo seguì con lo sguardo. Per lui Einar era anche più di un padre, considerando che spesso i padri si limitano solo a dare la vita. Qualche anno prima Einar la vita gliel’aveva restituita, scaldandolo con il calore del suo corpo mentre lo portava nel suo piccolo ambulatorio, con una temperatura esterna di quarantatré gradi sotto zero. In seguito gli aveva fatto dono del suo affetto e gli aveva trasmesso le sue conoscenze. Einar era per lui un vero e proprio dio, e non lo era solo per lui, ma per tutti i lapponi.

Allo stesso tempo era davvero un folle! Sfidare i maligni folletti e le foreste imbiancate di neve, le divinità perennemente tempestose e roboanti dei fiumi! E farlo da solo, per di più!

Dopo tre ore, Einar giunse alla capanna di Hoomei, nei pressi della quale c’era una vasta palude.

Hoomei attizzò il fuoco e vi mise dell’acqua a bollire.

«Da chi devi andare?»

«Da Eskil»

«L’Eskil che ha tutte quelle renne?»

«Sì, lui»

«Hmm»

Hoomei versò l’acqua calda in una tazza e aggiunse un paio di foglioline di tè.

«Non è molto» disse «ma ti farà bene. E se ripasserai di qui ce ne sarà dell’altro»

«Grazie, Hoomei»

«Vengo con te?»

«No, non sarà una bella nottata»

«Mia moglie dorme e vedrai che la nottata sarà bella. Posso venire»

«Non c’è bisogno. Lassù c’è già qualcuno»

«Va bene»

«Allora a presto, Hoomei!»

«Aspetta, ti metto un po’ di cera sugli sci»

«Grazie! E arrivederci!»

«Ehi, dottore» gli gridò dietro Hoomei mentre rientrava in casa. «Il ghiaccio nella palude gracchia come un corvo quando ci si passa sopra»

«Ma resiste!»

Einar viaggiava ora nell’oscurità più nera, perché le enormi montagne tutto intorno gettavano la loro ombra sulla palude a fondovalle.

A ogni scricchiolìo del ghiaccio saltava da un cumulo di neve all’altro. Era “il passo del burat-

tino”, questo era il nome che aveva dato a quel modo di avanzare la prima volta che era passato da quelle parti. Un salto, un altro salto, e un altro salto ancora, da una zolla asciutta alla successiva, sempre che si potessero chiamare zolle quei minuscoli scampoli di terreno ricoperti da mezzo metro di neve. Andò avanti così per sei chilometri.

«Devo dire a questa gente che sarebbe meglio spianarle quelle montagne, così ci si potrà vedere qualcosa quaggiù» mormorò tra sé e sé, per poi ridere di quel bizzarro pensiero. «Chissà se lo farebbero per me». L’idea, in ogni caso, gli sembrava pur sempre meno campata in aria che ottenere dal governo la costruzione di una nuova strada.

Nella Valle degli Elfi fu costretto a mettersi a quattro zampe per poter avanzare nella tempesta. Ma andò avanti lo stesso, senza mai riposarsi.

Dopo quattro ore trovò il vecchio Angol ad attenderlo davanti alla stazione telefonica.

«Salute, Einar! Attacco le renne alla slitta e ho fatto. Là c’è del caffè».

Einar si scaldò accanto al fuoco, mangiò

rapidamente qualcosa e si sentì di nuovo in forze.

«Pronto?» chiese Angol. «Allora andiamo!»

Al suo grido le renne si misero in movimento.

Per cinque ore la slitta scivolò attraverso foreste innevate e sopra campi gelati, e i due non scambiarono neanche una parola. Solo quando, dalla cima di una collina, videro aprirsi davanti a loro un’ampia valle, Angol disse: «Mentre macellavamo una renna, il coltello è scivolato di mano a Eskil e lo ha ferito qui». Indicò un punto all’altezza del fianco.

«Ha perso molto sangue?»

«Parecchio. Ho ricucito il taglio come hai fatto tu con me l’anno scorso»

«Ah, è vero!»

Quella volta Angol si era ferito un piede con una scure.

«Ora vedremo» mormorò Einar.

Alcune donne uscirono da una capanna e tirarono un sospiro di sollievo quando scorsero Einar. La moglie di Eskil aveva pianto, lo si capiva dagli occhi, ma ora sorrise.

«Adesso che sei qui, lui starà bene» disse.

Einar entrò nella capanna buia e si inginocchiò accanto al cuscino del paziente.

«Mi servono luce e acqua calda!» ordinò.

Lavò la ferita e tagliò il filo con cui Angol l’aveva ricucita. Poi la osservò con attenzione.

L’arteria della gamba destra era quasi del tutto recisa, l’unico modo per salvare quell’uomo era sottoporlo a una difficile operazione chirurgica.

Il medico tamponò e fasciò la ferita.

«Vestitelo e avvolgetelo per bene nelle pellicce» ordinò alle donne.

«Sul serio?» chiese Angol.

«Sì, devo portarlo in ospedale»

«Nel tuo?»

Einar sorrise. Come si poteva chiamare “ospedale” la stanzetta con quattro letti che aveva sistemato nella sua casetta?

«No, un ospedale più grande. Dobbiamo portarlo a Stoccolma».

La moglie di Eskil si avvicinò e chiese al medico: «Perché vuoi portarlo via?»

«Non posso guarirlo da solo»

«Ah!»

«Ma devi stare tranquilla»

«Lo sono. Adesso che sei qui, lui starà bene»

«Farò tutto il possibile» disse Einar «ma solo Dio sa se…»

«Lui starà bene, perché ci sei tu» ripeté fiduciosa la donna.

«D’accordo» borbottò Einar. Lui era lì, e per i lapponi rappresentava speranza e salvezza allo stesso tempo. Come spiegare loro che era soltanto un povero dottore e non poteva far altro che tagliare, suturare e praticare iniezioni?

“Adesso che sei qui, lui starà bene”. Questo era quel che dicevano tutti, ormai da più di vent’anni. Come se lui fosse in grado di compiere qualsiasi miracolo!

«Svelto, Angol, mettiamolo sulla slitta!»

«Se fossi da solo non credo che ripartirei. Il vento ora tace, ma tra poco tutti gli dèi soffieranno la loro furia su questa terra»

«Che ululino pure quanto vogliono!» rispose Einar, salendo sulla slitta insieme ad Angol.

Le renne partirono al trotto.

Einar rimase a guardare le donne, ferme immobili davanti alle loro capanne, finché la slitta non scese ai piedi della prima collina e loro sparirono alla vista.

Eskil si era assopito sotto un mucchio di pellicce.

«Più veloce, Angol!»

«Ae! Ae!»

La slitta fece un balzo in avanti, sulla neve resa dura e scivolosa dal gelo. Un flebile scintillio di luce rivelava che il sole era ancora alto nel cielo.

Einar guardò gli zoccoli delle renne, si muovevano così veloci che gli vennero le vertigini. Per due volte Angol dovette fermarsi per togliere frammenti di ghiaccio dalle zampe degli animali.

All’improvviso lunghe ombre coprirono tutta la superficie innevata e anche la volta celeste.

Le spaccature del ghiaccio non scintillavano più e dal cielo fattosi plumbeo ora penetrava pochissima luce.

«Ae! Ae!» Angol incitava le renne.

Poi scoppiò a ridere, perché per tre volte aveva provato a sputare, e per tre volte lo sputo congelato gli era caduto sulla pelliccia.

«Neanche il tempo di arrivare a terra!»

«Già, fa davvero freddo… Eskil!»

«Ae! Ae!» gridò Angol. «Attenzione!»

Ma era troppo tardi. La slitta si ribaltò ed Einar finì sopra al compagno più anziano. Insieme si rialzarono e la raddrizzarono.

«Succederà spesso di ribaltarci» borbottò Angol. «Il ghiaccio è accidentato e irregolare».

Le renne ripresero la marcia. Angol si spostò in testa per condurle, mentre Einar rimase

dietro e avanzando tra i frammenti di ghiaccio spaccati tentò di mantenere l’equilibrio in quel continuo su-e-giù, su-e-giù, che era il loro viaggio.

«No, non possiamo andare più veloci di così» rispose Angol alla domanda del medico. «Ma tra poco la pista migliorerà, e allora potremo accelerare»

«Ae! Bene» disse Einar. Aveva i nervi a fior di pelle per quell’avanzata così lenta, ma trovava comunque il modo di gioire, pensando che ogni passo in avanti era un altro passo verso la salvezza di Eskil.

«Nel frattempo il tuo branco è cresciuto?»

chiese al malato.

«Ae. Sono quasi mille renne adesso, e sono tutte bellissime»

«Allora hai di che essere contento. Quando torneremo avranno partorito i loro cuccioli e te ne ritroverai il doppio»

«Però c’è un demonio che incombe su di loro, o almeno così sembra» mormorò Eskil.

«Ho già portato i miei proiettili in chiesa per due domeniche, ma…»

Einar sorrise. Appena conclusi gli studi aveva fatto domanda per essere assegnato in quella regione, per la quale non c’era mai nessun candidato (del resto cosa c’era di più folle che far domanda per una regione di ventiseimila chilometri quadrati, il cui capoluogo, Arjeplog, distava centottanta chilometri dalla stazione del treno più vicina?) e da quando era lì, circa trent’anni ormai, aveva sentito ripetere a ogni singolo abitante della Lapponia questa superstizione: “Per abbattere un lupo non basta sparargli normalmente, bisogna farlo con dei proiettili che siano stati portati per due domeniche consecutive in chiesa”.

«E lo hai preso?» chiese.

«Chi? Il demonio? Non sono nemmeno riuscito a vederlo. Solo una volta ho visto passare la sua ombra. Ma sparare alle ombre non serve a niente»

«Eh sì!»

«Ho tentato di raggiungerlo per colpirlo sulla punta del naso con il bastone…»

Anche questo era un modo ben strano di vedersela con i lupi: inseguirlo sugli sci e colpirlo

sul naso. A quel punto, così si diceva, il lupo cadeva a terra morto.

«…ma quel figlio del diavolo me l’ha fatta

vedere lui! Mi avrebbe seminato anche se avessi avuto venti renne a trainarmi!»

«Eppure tu e Angol siete degli abili cacciatori»

«Sì, ma contro un demonio non ne bastano due, né duecento. Al momento buono quello sa sempre il fatto suo e… Ahi!»

All’improvviso la slitta aveva ricevuto un violento colpo.

«Ti fa male?» chiese Einar, ma solo per dire qualcosa, perché sapeva già cosa avrebbe risposto l’altro. «Presto avremo del ghiaccio più liscio sotto i pattini e scivoleremo veloci come la corrente»

«Ae, dottore… è profonda la ferita?»

Eskil parlava solo per opporsi alla sonnolenza provocata dalla febbre e dal dolore.

L’oscurità nel frattempo avanzava, il vento soffiava più forte, e dalla superficie ghiacciata si levò una fitta nebbia.

«Abbastanza» rispose Einar. Gli facevano male le braccia per tutto quel sollevare, soste-

nere, raddrizzare e frenare la slitta, che continuava a sobbalzare sul ghiaccio gibboso.

Angol, davanti, tirava una corda per aiutare le renne. Anche lui doveva essere stanchissimo, ma non lo diceva.

«Ae!» gridò dopo circa mezzora. «Ce l’abbiamo fatta!»

Piccoli ghiaccioli gli pendevano dai baffi.

«Adesso possiamo riprendere la corsa, la pista qui è buona».

Einar sospirò. Solo in quel momento si rese conto che non avrebbe potuto resistere un minuto di più.

«Bene» disse «saliamo anche noi a bordo allora!» E mentre prendeva posto aggiunse: «Il cielo ha un aspetto che non mi piace». Fiocchi di neve turbinavano nell’aria, foschia e nebbia avvolgevano ogni cosa.

«Tra poco non riusciremo a vedere più nulla»

«Eh già!»

Le renne percepivano l’arrivo del maltempo e fecero un paio di tentativi di filarsela. Angol dovette ricorrere alla frusta.

«Uh! Uh!» gridava, ma la tempesta era così

violenta che nemmeno Einar, seduto accanto a lui, riusciva a sentirlo.

«Che giornata terribile» gli gridò Angol all’orecchio. «L’avevo detto!»

Einar annuì. Aveva ragione, ma dovevano continuare lo stesso, perciò gli fece cenno con la mano di proseguire.

«Ah, bene» esclamò ancora Angol. «Un mezz’uomo, sì, ma duro come una roccia».

Il medico rise. Quando era arrivato nella regione, molti lapponi lo avevano preso in giro chiamandolo “mezz’uomo”, perché era alto appena un metro e cinquanta ed era esile come una fanciulla.

In quei trent’anni però aveva dimostrato loro di che pasta era fatto, ogni volta che era andato a visitarli coprendo faticosamente ampie distanze sugli sci oppure a piedi. Avevano dunque preso a chiamarlo anche “il nostro folletto” – un soprannome ispirato dai lineamenti del suo viso – ma per loro era un folletto buono, un folletto che dispensava vita, e tutti erano felici di frequentarlo.

«Presto arriveremo alla foresta di Skjankhi» gridò Angol.

Bene. Lì almeno il vento sarebbe stato meno feroce e finalmente avrebbe potuto riaprire gli occhi. Adesso doveva tenerli chiusi per via dell’aria gelida e pungente, e ciò non attenuava affatto il dolore, anzi lo tramutava in un vero e proprio tormento.

Capitolo 2

Se già prima si vedeva poco, adesso non si vedeva davvero più nulla. La foresta di larici assomigliava a una caverna buia. Il vento soffiava tra i tronchi enormi degli alberi, mentre i gemiti e gli scricchiolii dei rami aumentavano la sensazione di andare incontro a una catastrofe.

«Che Dio protegga il buon lappone in una notte come questa!» gridò Einar.

Angol gli lanciò un’occhiata perplessa.

Un’esclamazione del genere, uscita di bocca a quell’uomo sempre serio e sicuro di sé, gli suonava davvero bizzarra. Infine rise.

«È proprio una nottata terribile» disse. «Una capanna dove ripararsi sarebbe davvero un gran regalo. A due ore da qui c’è Kimshjou, dove ci sono caffè bollente, un letto caldo e un fuoco abbastanza grande da arrostirci una renna»

«Ma abbiamo Eskil con noi!» rispose Einar.

«Sì, lo so. Dev’essere per forza Stoccolma?»

«Sì, per forza lì… Da Arjeplog si raggiunge in un attimo» disse il medico.

«Bene. Allora si va ad Arjeplog! Ae, ae!»

Dagli alberi cadevano enormi cumuli di neve, che liberavano i rami dal loro notevole peso e scivolavano al suolo silenziosi. Si sentiva soltanto un tonfo sordo quando piombavano a terra.

«Mio padre diceva» cominciò a raccontare Angol «che in una notte come questa il diavolo accompagnato da un lupo aveva dato la caccia a un povero lappone. Già, proprio in una notte così. Conosci questa storia, Einar?»

«No» rispose lui. In realtà la conosceva, ma voleva che Angol la raccontasse. Quando la furia della natura si scatena, le persone reagiscono in modi diversi ed era chiaro che parlare aiutasse Angol a stare più tranquillo. Forse perché immaginava di starsene nella sua capanna, al caldo davanti al caminetto, a fumare la sua pipa corta con le scarpe di pelle di renna e le balle di fieno che si asciugavano vicino al fuoco.

Raccontare una storia, pensò Einar, è un po’ come trovare un riparo. E finse di ascoltarlo.

Forse aveva ragione, era meglio andare al villaggio più vicino e aspettare che il maltempo cessasse. Ma quanto avrebbero dovuto aspettare? Quante volte, all’inizio della sua carriera, aveva perso dei pazienti perché aveva aspettato, senza osare avventurarsi fuori? All’epoca non era ancora avvezzo all’ululato delle tempeste, alle tormente di neve e a tutto ciò che poteva rendere l’esercizio della sua professione un inferno.

No! Niente villaggio! Per portare Eskil al sicuro era disposto anche a percorrere la strada a piedi! Ormai da anni, il suo lavoro era una continua sfida contro la morte. Che vincesse il più forte! Del resto tutta la sua carriera non era forse cominciata con una lotta?

Se avesse esaudito il desiderio di suo padre, in quel momento sarebbe stato al calduccio in un laboratorio di chimica. Avrebbe proseguito e ampliato l’attività paterna e sarebbe diventato un ricco fabbricante di carta di Langed, in Svezia. Ma non era questo che voleva, lui aveva

desiderato diventare a tutti costi un medico. E si era rivelato più forte di quanto lui stesso pensasse, così forte da completare gli esami in otto anni, quando gli altri di norma ne impiegavano dieci.

All’inizio, quando ancora lavorava in clinica con le provette, alla ricerca di nuove sostanze e composti, si era pentito di quella scelta. Poi però era arrivata una svolta nella sua vita: l’influenza spagnola aveva cominciato a diffondersi in Lapponia con la velocità di un incendio, e in quella landa sconfinata non c’era nemmeno un medico! Al diavolo la vita alla clinica! La sua decisione fu netta e nessuno tentò di contestargli il posto. Ma fu proprio perché tutti lo deridevano con tanta malignità, che decise di andare via.

«È una cosa da pazzi» diceva uno «sprecare così la propria vita e i propri studi!»

«Tra un mese tornerà qui» rispondevano gli altri.

Da allora erano passati trent’anni e lui non era più tornato.

L’inizio era stato così duro che chiunque altro

avrebbe messo la testa a posto e avrebbe abbandonato presto i sogni di sfide e avventure. Invece erano state proprio le difficoltà a indurlo a restare. I lapponi si erano dimostrati particolarmente ricettivi al virus dell’influenza spagnola e morivano come mosche, forse perché accompagnavano i loro branchi di renne su terreni impervi, vivevano in semplici tende ed erano esposti a terribili freddi, alle tempeste e al maltempo. Einar combatteva non solo contro la malattia, ma anche contro il vento, la neve, le paludi, le montagne, i mesi invernali in cui il sole a malapena sorgeva e la temperatura precipitava a quarantacinque gradi sotto zero. Doveva raggiungere le sperdute capanne dei lapponi equipaggiato solo di una rudimentale mappa e di una bussola. Lavorava giorno e notte. Nonostante questo, di influenza erano morti a migliaia! Quando giunse la primavera, le persone ancora morirono a causa di imprudenze, malattie, incidenti e attacchi di bestie selvatiche. La natura infuriava incontrastata, senza che nessuno le opponesse resistenza. I lapponi restavano in piedi solo grazie al loro coraggio; ma cosa può fare il coraggio, se non è sorretto dalla

speranza? E la speranza di tutti loro era Einar. Questo donava al medico forza e fiducia, e così il suo zelo non era mai venuto meno e lui non era mai uscito sconfitto dalla lotta.

«Io o il ghiaccio, io o la malattia, io o il freddo, io o la morte». Questo era il suo motto.

Spesso la lotta era dura e aspra.

Un uomo solo contro la vastità della natura, uno soltanto, che doveva aiutare migliaia e migliaia di persone!

«Ehi, dottore!» Angol lo chiamò ed Einar aprì gli occhi.

«Sì…? Che cosa c’è?»

«Non mi stavi ascoltando?»

«Sì, certo, ma stavo anche pensando»

«Volevo sapere se conoscevi Turi»

«Turi? Il vecchio Turi?»

«Sì, lui. Ecco, lui una volta ha incontrato un uomo lupo…» riprese a raccontare Angol.

Einar non aveva mai sentito quella storia, perciò chiese: «E cosa accadde?»

«Lo ipnotizzò e lo fece addormentare…»

«Ma chi?»

«L’uomo lupo. Turi stava sorvegliando il suo

branco quando l’uomo lupo lo ipnotizzò. Accadde in una notte come questa. O forse anche peggiore. Prese a fissarlo con i suoi occhi di fiamma e Turi si addormentò. Quando riaprì gli occhi trovò diciotto renne morte. Solo un uomo lupo poteva fare qualcosa del genere»

«E tu ci credi?»

«Turi ha detto così, lo sguardo che aveva negli occhi basta a confermarlo. E io sono convinto che sia tutto vero. Se un uomo si porta un altro sulla coscienza e non confessa i suoi peccati, il diavolo lo trasforma in un lupo, lo sanno tutti. Dev’essere terribile trovarsi faccia a faccia con un uomo lupo»

«Ne hai mai visto uno?» chiese Einar divertito.

«No, non ancora… Penso che se ne vedessi uno morirei sul colpo. Ae, ae! Stanotte ci sono parecchi animali che se ne vanno in giro… Ae, ae!»

Ora tacevano entrambi, solo Eskil ogni tanto gemeva ed era l’unico suono estraneo che si mescolava a quelli della natura.

Di tanto in tanto si udiva il tramestio degli zoccoli delle renne e lo scivolare crepitante dei pattini della slitta sulla neve. A un tratto però uno schianto attutito sovrastò ogni altro rumore: un cumulo di neve era caduto giù dai rami di un albero.

«Per fortuna che i lupi non si sono accorti di noi» disse Angol dopo aver taciuto a lungo.

«In una notte così» scherzò Einar «non escono nemmeno dalle loro tane».

L’ululato della tempesta, catturato dalle chiome dei larici, avrebbe sovrastato anche il più violento dei tuoni.

«Ae, ae!» gridò Angol, piegandosi di lato per evitare che la slitta si ribaltasse. «Mi chiedo se…»

Le renne scartarono a destra all’improvviso, ma non abbastanza da schivare il pericolo che avevano percepito d’istinto.

Un mostruoso cumulo di neve mista a ghiaccio si staccò dai rami e crollò a terra. Uno schianto, un colpo attutito, un grido di dolore, e un istante dopo si ritrovarono sotto un fitto strato di neve. Solo le corna di una renna, tremanti, spuntavano di pochi centimetri dalla

superficie. L’animale tentava disperatamente di sollevarsi. Einar e Angol si rialzarono. La slitta era stata violentemente scaraventata all’indietro

di alcuni metri e si era capovolta.

«Eskil!» Il medico raddrizzò la slitta e osservò il suo paziente.

«Ehi, dottore» mormorò il ferito. «Niente di grave, ho solo preso un colpo»

«Le renne!» gridò Angol disperato.

Cominciò a scavare con le mani nella neve per liberare gli animali. Spuntò fuori un muso. La renna inspirò a fondo e fece per alzarsi, ma riuscì solo a inarcare il dorso e a tendere il collo e le zampe anteriori, dopodiché guardò gli uomini con occhi imploranti.

«Su! Su, vecchia mia!» la incoraggiò dolcemente Angol.

Nel frattempo Einar spostava la neve che ricopriva l’altro animale. Dopo qualche manciata liberò la testa, le corna erano già fuori. Ma quando scorse un occhio si rialzò in piedi lentamente. La pupilla lucida fissava un punto in lontananza, forse quel pascolo verde che sognava da sempre, un prato sconfinato e disseminato di muschio.

«Einar!» mormorò Angol. Il medico si voltò. «Einar, si è rotta una zampa».

Mentre Angol accarezzava delicatamente la testa dell’animale, Einar si avvicinò alla slitta e slegò la corda di traino dal timone. Poco dopo

il vecchio ritornò, e il medico lo vide ripulire il coltello prima di infilarlo nuovamente nel fodero.

«Sulla via del ritorno le porterò con me» disse Angol. «Se non saranno arrivati prima i lupi».

Gli tremava la voce.

«Abbiamo sbagliato strada!» gridò Einar al compagno.

Procedevano uno accanto all’altro, spingendo la slitta di fronte a loro. La tempesta ululava così forte che Angol udì a malapena la voce di Einar. Il medico guardò la bussola e ripeté: «Siamo usciti dalla pista, dobbiamo spostarci di più verso sinistra»

«Sì» rispose Angol «ma è il vento a spingerci da questa parte. È troppo forte per andarci contro».

Una nuova folata li costrinse a saltare sopra la slitta per tenerla ferma a terra.

«Dobbiamo assolutamente spostarci a sinistra!» ripeté Einar. Il vecchio Angol scosse la

testa, ma girò comunque la slitta in quella direzione.

Ora il vento soffiava lateralmente e la sua potenza era tale che dovevano entrambi tenersi ben stretti alla slitta per non volare via.

«Non ce la farebbero nemmeno le renne»

gridò Angol guardando il suo compagno che spingeva, con la schiena curva come lui e i denti stretti.

«Che testa dura!» brontolò. «Proprio una testa dura!»

Lasciata alle spalle la foresta erano giunti in una valle, ma non ne avevano percorso neanche un terzo quando la tempesta cominciò a prendersi gioco di loro. Prima si placò, al punto che il vento soffiava appena. Poi cessò del tutto. I due uomini chiamarono all’appello tutte le forze per avanzare più veloci che potevano. A quel punto la tempesta riprese vigore e soffiò ancora più violenta di prima, sollevando gigantesche folate di neve, che rimescolò e riversò in pieno volto su coloro che avevano osato sfidarla.

Per dieci, venti volte, Einar e Angol finirono sepolti sotto la neve; e per dieci, venti volte, li-

berarono con fatica se stessi e la slitta dal manto ghiacciato, pronti a riprendere il cammino.

«Ha deciso di ucciderci» disse Angol, dopo essere riemerso per l’ennesima volta da un cumulo di neve.

Non ce la facevano più, ma restare fermi significava morte certa, perciò, chini sopra la slitta, proseguirono la marcia.

E il vento riprese a trastullarsi con loro.

«Ae, ae!» cercava di spronarsi Einar. «Siamo più testardi noi del vento».

Sentì un brivido corrergli lungo la schiena quando all’improvviso cominciarono a dolergli le mani. Ma se anche gli si fossero spaccate per il freddo, avrebbe continuato a spingere!

Su quella slitta c’era Eskil e lui doveva portarlo in salvo. Non poteva permettere che diventasse l’ennesima vittima delle intemperie; né il vento, né il gelo, né la neve, né la stanchezza glielo avrebbero portato via. Non doveva più accadere ciò che era successo con il piccolo Enie, che gli era morto tra le braccia perché aveva atteso la fine di una tempesta prima di portarlo in una capanna e sottoporlo a un’operazione.

«Ae, ae!» mormorava.

Quando giunsero vicino a un gruppetto di betulle, sfruttarono il riparo per riposarsi qualche istante. E allora anche il vento tacque.

«Figlio d’un cane!» gridò Angol. «Ma te la vedrai con noi!»

Dopo un po’ Einar disse: «Ripartiamo». E ripresero a camminare.

Nemmeno venti passi e furono circondati da una nuova tempesta di neve. Il vento sembrava aver ripreso tutte le sue forze e avere intenzione di seppellirrli una volta per tutte. Ma riuscirono a tirarsene fuori e a proseguire. E infine il vento cessò.

Per due ore avevano lottato contro la tempesta, ma alla fine avevano vinto. Avrebbero potuto percorrere senza fatica l’ultimo tratto della valle, ma non gli restavano più forze. Spinsero lentamente la slitta in avanti fino ai piedi della montagna e si inoltrarono in una gola.

«Ae!» sospirò Angol fermandosi.

«Ae!» ripeté Einar.

Entrambi si appoggiarono alla parete di roccia a riprendere fiato. Poi Angol tirò fuori dalla

sua sacca un po’ di sterco di renna e lo usò per accendere il fuoco. Qualche minuto dopo ebbero dell’acqua calda con cui preparare il tanto agognato caffè.

«Piegando a destra, a un’ora di distanza c’è Kimonoski» disse Angol, quasi tra sé e sé.

«Arjeplog è a sinistra» rispose Einar.

Non si dissero più nulla. Solo Eskil, quando gli portarono del caffè, chiese: «Dove siamo?»

«La maggior parte del viaggio è alle spalle» gli rispose Angol. «Sei al caldo?»

«Sì, perfettamente».

Einar intanto fissava il fuocherello. Se avesse dato retta al suo corpo si sarebbe accasciato e addormentato all’istante. Avvicinò le mani alle fiamme, ma le ritrasse subito perché la pelle spaccata durante la faticosa marcia gli bruciava. Rimise perciò i guanti e percepì una punta di rancore nei confronti di Angol, intento a fumare accanto al fuoco non lontano da lui. «La maggior parte del viaggio è alle spalle». L’aveva detto con estrema tranquillità e non era che una semplice frase, peccato però che mancassero ancora due terzi del cammino.

«Sono solo nervoso» brontolò Einar. Da tempo sapeva che spesso finiva per chiedere troppo al suo corpo e allora veniva colto da un senso di inferiorità. Talvolta persino dall’invidia. La maggior parte del viaggio è alle spalle! Bene, riusciremo a percorrere anche il resto!

Quindi sorrise, e si sentì pronto a proseguire.

«Andiamo, Angol?»

Il vecchio lo guardò, spense la pipa e lasciò cadere la cenere.

«Io sono pronto» disse. «Testa dura che sei!»

***

«Se scendiamo lungo il canale» disse Einar «possiamo deviare e risparmiare qualche ora di cammino. Tagliamo da qui».

Si trovavano in cima a un pendio, intorno a loro enormi blocchi di ghiaccio erano disseminati dappertutto, simili a onde del mare tramutate in pietra.

«Ma non c’è una pista» disse Angol.

«Perché? Finora ne abbiamo forse seguita una?» rise Einar.

«Per me va bene, ma ci sarà da ballare parecchio»

«Magari servirà a riscaldarci. Andiamo allora!»

«La scorciatoia ci farà guadagnare qualche ora, hai detto. Quindi certo, andiamo!»

Si tennero stretti alla slitta e presero a scivolare giù dal pendio. Per una buona mezz’ora sfrecciarono sopra un bel ghiaccio liscio, senza alcuna fatica. Poi attraversarono un boschetto di betulle e all’improvviso si ritrovarono su del ghiaccio gibboso, con picchi alti come non ne avevano mai visti.

«Che posto è questo?» gridò Einar.

«Siamo sopra un lago» rispose Angol. «Non senti il vento in faccia?»

L’avanzata fu difficile. Una volta la slitta scivolò giù da un pendio ghiacciato con tale violenza che temettero potesse rompere la superficie. Ma quella rimase intatta.

Poco dopo dovettero fermarsi un momento, erano troppo stanchi per proseguire.

All’improvviso Eskil gridò: «Angol!» «Che c’è?»

«Non senti niente?»
Il vecchio tese l’orecchio, poi si rialzò imme-

diatamente ed esclamò: «Presto dottore, presto! Dobbiamo spostarci subito da questo ghiaccio instabile!»

Il ghiaccio aveva infatti preso a muoversi e ondeggiava su e giù.

Dopo aver gettato via tutto il carico che ritennero superfluo, i due ripresero a spingere la slitta, più veloce che potevano. Giunti sulla sponda opposta si accasciarono sul terreno gelato, incapaci di muoversi, tanto la paura gli era entrata nelle membra.

Fu la sensazione di essere osservato che indusse Einar ad alzare la testa. A un centinaio di passi da loro, tre ombre si muovevano silenziose, scomparendo di tanto in tanto dietro i tronchi degli abeti. Il medico si alzò lentamente in piedi, estrasse la pistola, tolse la sicura e prese la mira. Quando il primo lupo fu abbastanza vicino, premette il grilletto.

Un ululato e la bestia crollò a terra. Gli altri due sparirono.

«Che succede?» chiese Angol spaventato, balzando in piedi.

«I figli del diavolo sono venuti a farci visita»

rise Einar. «Se avessi i miei sci ai piedi me ne occuperei io» mormorò il vecchio.

«Uno non è più un problema»

«Uno non conta niente. Dobbiamo andarcene subito. Il suo sangue richiamerà gli altri»

«Ti senti abbastanza in forze?» chiese Einar.

«Non chiedere. Andiamo!»

Mentre riprendevano a spingere la slitta davanti a loro, Einar scorse due ombre alla sua sinistra.

Anche Angol le aveva notate.

«Bene» disse «adesso cominceranno a far baccano e dobbiamo sperare che il branco non li senta, altrimenti le cose si faranno pericolose e ci faranno comodo un paio di ali ai piedi!»

Più di una volta Angol crollò in avanti sulla slitta per la stanchezza, ma ogni volta rispose

«Andiamo avanti!» alla domanda di Einar se

avesse bisogno di riposarsi. Quando però cadde per l’ennesima volta, Einar lo caricò sopra e proseguì a spingere da solo.

A quel punto le due ombre spuntarono fuori di nuovo e li seguirono per un po’. Quella più grossa superò la slitta tenendosi a una ventina di metri di distanza e si fermò a circa duecento passi davanti a loro, nella fessura tra un abete e una roccia. L’altra continuò a seguire la slitta.

«Vogliono stringermi in una tenaglia» mormorò Einar. «Hanno escogitato un bel piano da generali, mentre io sono soltanto un soldatino semplice».

Proseguì e tenne pronta la sua arma.

«Se pensano che mi fermerò si sbagliano di grosso, però devo essere pronto a tutto».

Rallentò il passo, ma solo per prendere un profondo respiro. Quando giunse nei pressi del lupo che lo attendeva dietro la roccia cominciò a correre. Il lieve pendio lo aiutò nella sua impresa.

Il lupo vide la slitta venire verso di lui, ma non si mosse dal suo posto. Chinò il capo e attese il momento giusto per balzare addosso all’uomo.

Era ciò che Einar si aspettava. Sparò solo quando vide il lupo a mezz’aria, poi si voltò subito e fece fuoco una seconda volta su quello che lo inseguiva alle spalle.

Si era mosso così rapidamente che il primo animale ancora non aveva fatto in tempo a cadere a terra. Einar gli aveva lacerato la pelliccia all’altezza della spalla. Il lupo era solo ferito, ma un altro colpo pose fine alla sua vita. Il suo compagno fece un ultimo balzo in avanti e sparì nella foresta.

Angol, risvegliato dal rumore, scese dalla slitta e aiutò di nuovo Einar a spingere.

«Ci hanno sfidato, vero?»

«Eh sì, conoscevano il terreno e hanno provato a tenderci una trappola»

«Ti eserciti con la pistola anche in ambulatorio?»

«Sì, certo» rispose Einar «per difendermi dai topi»

«Allora la tua è stata solo fortuna!»

Entrambi scoppiarono a ridere.

«Sei stanco, vecchio mio?» chiese Einar, notando come camminava il suo compagno.

«Un po’»

«Sali sulla slitta!»

«Per farti fare doppia fatica? No, amico mio, continuiamo insieme!»

A un certo punto però Angol smise di spingere e rimase indietro. Einar si voltò e lo vide trascinarsi avanti lentamente.

È stanco, pensò tra sé e sé, e questa è una nottata terribile!

Andò avanti ancora per un quarto di miglio e quando si voltò di nuovo Angol non c’era più.

Si fermò, lanciò un’occhiata a Eskil e attese.

Poco dopo Angol rispuntò fuori e si avvicinò piano piano. Einar lo osservò meglio: il vecchio zoppicava!

«Che hai?» gli chiese quando lui lo raggiunse.

«Niente»

«Dimmi la verità. Che hai?» ripeté Einar, abbassando lo sguardo sul piede destro del compagno.

Angol tentò di sorridere.

«Credo sia una distorsione, o qualcosa del genere»

«E quando te la sei procurata?»

«Quando eravamo sul lago e la slitta è scivolata giù da quel grande blocco di ghiaccio. Non so cosa sia successo esattamente, ma ha cominciato a farmi male»

«E non potevi dirmelo subito, bestia che non sei altro? Fammi vedere!»

Angol si tolse lo stivale e abbassò i ciuffi di fieno che gli facevano da calza.

Einar tastò lo stinco, era gonfio, doveva trattarsi di una slogatura. Angol non poteva proseguire.

«Sali sulla slitta» gli ordinò.

«Sei matto?» rispose Angol.

«Siediti lì. Non puoi continuare a camminare!»

«Perché restare qui fermi come stoccafissi?

Avanti, dottore! Che sarà mai? Una slogatura non è niente di grave. Dobbiamo portare in salvo Eskil e tu non devi perdere altro tempo. Io ti verrò dietro»

«Sì, per far da colazione ai lupi»

«Ho la pellaccia dura»

«E loro hanno i denti affilati»

«Ma non…»

«Se continui così, tra un quarto d’ora non riuscirai più a muovere il piede. E le cose si metteranno piuttosto male per te»

«Allora ne riparleremo tra un quarto d’ora».

Angol era testardo e riprese a camminare accanto alla slitta, ma per quanto cercasse di dominare il dolore, zoppicava sempre di più.

«Sali sulla slitta!» gli ordinò Einar dopo un po’.

Il vecchio ubbidì, ma si sedette in modo da poter almeno aiutare spingendo con il piede sinistro.

Adesso Einar doveva faticare il doppio. Le sue scarpe affondavano nella neve fresca e spesso doveva fermarsi per riprendere fiato.

«Maledizione!» brontolò Angol. «Ma non poteva capitarmi un’altra volta questa sfortuna?

Lasciami qui, Einar. In qualche modo me la caverò».

Ma avrebbe fatto la stessa fine di quel polacco in fuga che durante la guerra aveva attraversato le stesse zone in cui si trovavano adesso.

Aveva vagato per giorni, finché non si era accasciato a terra sfinito. I lapponi l’avevano trovato

e l’avevano portato da Einar, che aveva dovuto amputargli le gambe.

«No!» disse il medico. «Non ti lascio qui. Ti

porterò da Hoomei, nelle paludi»

«Le paludi? Ma ci vorranno almeno tre ore

e tu…»

«Sta’ zitto, gufaccio!»

Il vecchio rise e scosse il capo. Non riusciva più a camminare. Nelle sue condizioni, nessuno avrebbe potuto.

Proseguirono il cammino senza dire più una parola. Il loro stesso fiato congelato aveva ricoperto completamente ciglia, guance e labbra, trasformando i loro volti in una maschera.

Una quiete assoluta calò tutto intorno a loro, schiacciandoli sotto il peso di tanta immensità.

Questo è il regno di Katai, il regno del Gelo. Un regno in cui le forze della natura si scatenano per annientare qualsiasi cosa si muova. L’acqua si ghiaccia e non fluisce più verso il mare, gli alberi vengono

privati della linfa e non crescono più, gli animali sono costretti al letargo nelle loro tane e gli uomini subiscono terribili attacchi. Katai, il Gelo, aizza contro di loro ogni bestia ringhiante e affamata dal freddo. Prova a sconfiggere gli uomini con ghiaccio e neve, con crepacci e tempeste. Li sottopone a terribili torture con tutta la sua ferocia, vuole sottometterli e annientarli, perché li teme. L’uomo è la più indomabile di tutte le creature a lui note, quella che lotta più accanitamente per infrangere e superare la legge di Katai, che è l’immobilità. Questo è Katai. Questo è il Gelo. Non sempre però gli riesce di vincere contro gli uomini, perché a volte si imbatte in giganti più forti di lui…

Era questa una lettera che Einar aveva scritto anni prima a un amico e che ora gli era ritornata in mente. Con gli occhi della memoria rivide tante scene di quella lotta: uomini che crollavano sotto i colpi di Katai, e uomini che dopo lunghe e violente battaglie lo sconfiggevano. Come quell’ufficiale ucraino, per esempio, che durante la guerra voleva attraversare un fiume e vi era caduto dentro, perché il ghiaccio aveva ceduto.

Con uno sforzo inenarrabile aveva raggiunto la riva, si era sdraiato per riprendere le forze e si era subito tramutato in un blocco di ghiaccio.

Era dunque rimasto lì, immobile, avvolto nel letale mantello di Katai. Ma quando Katai già si rallegrava del suo trionfo, ecco che era arrivato Einar, insieme a una pattuglia di lapponi. Nonostante fossero passate già ventiquattr’ore, era riuscito a sconfiggere Katai e a restituire all’ufficiale la vita. Katai aveva ottenuto il suo tributo (le gambe del giovane avevano dovuto essere amputate), ma non la vittoria finale.

«Einar!»

La voce risuonò roca e irreale.

Einar guardò Angol.

«A tre chilometri da qui, se non mi sbaglio, c’è una stazione telefonica. Puoi lasciarmi lì.

Anche se dovrai deviare un po’ dalla tua strada…» disse lui.

Einar annuì. Se voleva salvare Eskil, la cosa migliore era lasciare lì Angol.

E dunque spinse avanti la slitta, lentamente, mentre intorno a lui calava un silenzio che avvolgeva e soffocava ogni cosa.

Capitolo 3

In un angolo della capanna c’era della legna da ardere. Zoppicando, Angol si occupò di accendere il fuoco.

«Angol!» lo chiamò Einar. «Aiutami a portare dentro la slitta!»

Impiegarono circa un quarto d’ora per riuscirci. Poi Angol tornò a sedersi accanto al fuoco, dove aveva messo a bollire una pentola piena di neve.

«Non c’è caffè» disse il vecchio.

«Peccato, ma non fa niente. Io ho un po’ di cognac. Un bicchierino di quello con un po’ di acqua calda ci rimetterà in sesto». Einar era così stanco che dovette sedersi anche lui.

«Devo riscaldarmi un po’» disse per giustificarsi.

«Ae, dottore. C’è una scatoletta di carne». An-

gol aveva frugato nell’armadietto accanto al telefono e aveva trovato quel piccolo tesoro. «Vedrò di riscaldarla».

Dopo averla fatta scaldare un po’, non la divise in porzioni, ma la offrì tutta al medico.

«Prendine metà!» gli ordinò Einar.

«Io resterò qui al caldo in questa stanzetta, potrò fumare e dormire. Tu invece… mangia! Ti farà bene».

Einar divorò il contenuto di mezza scatola in pochi istanti, poi porse il resto al vecchio.

«Ti ho detto che…»

«Dovrai rimanere qui per due o forse tre giorni, a meno che qualcuno non passi da queste parti per caso. Mangia!»

«Ma tu…»

«Io mi sento bene adesso».

Angol mangiò la sua porzione e poi porse al compagno la pipa carica. Einar fece un paio di tiri e gliela restituì.

«Grazie!»

Trascorse circa una mezz’ora, poi Angol ruppe il silenzio.

«Einar, non vuoi telefonare?»

«Non ha senso attendere che arrivino i soccorsi… Eskil non può aspettare per giorni».

Si alzò e si avvicinò al ferito. La fasciatura era intrisa di sangue.

«Come procede?» chiese Eskil.

«Bene. Adesso cambiamo la fasciatura e ripartiamo».

Angol dovette cedere un lembo della sua camicia, perché Einar non aveva più ovatta e gli erano rimaste pochissime bende.

«A cosa pensi?» chiese Angol a bassa voce.

«Sta perdendo troppo sangue, devo sbrigarmi! Allora?» disse rivolto a Eskil. «Sei pronto per riprendere la nostra passeggiata?»

«Come vuoi» mormorò il ferito. «Lo sai tu cosa bisogna fare».

Nonostante il forte dolore, Eskil non aveva mai detto una parola e non si era mai lamentato. Aveva sonnecchiato per tutto il viaggio, senza rivolgere la parola ai compagni per non stancarli ulteriormente e non farli preoccupare.

Sapeva che le renne erano morte.

Sapeva che erano stati inseguiti dai lupi.

Sapeva della violenta tempesta che li aveva

colti nella valle e sapeva anche che Einar avrebbe tentato di portarlo fino ad Arjeplog da solo.

«Sei stanco, dottore» mormorò. «È meglio se rimaniamo qui e aspettiamo. Io non sono poi così importante, tu invece lo sei per tutti noi»

«Arriveremo fino ad Arjeplog» disse Einar sorridendo. «Puoi contarci».

Anche Eskil tentò di sorridere. Se dubitava delle parole del dottore, non lo diede a vedere.

Einar andò al telefono e compose un numero.

Poco dopo rispose una voce squillante che sembrava arrivare da lontanissimo. Era la voce di Nick.

«Pronto!»

«Pronto Nick! Sono io… Di’ a Martha di allertare il personale di volo, devono tenersi pronti. Bisogna portare un ferito a Stoccolma»

«Dove sei adesso, dottore?»

«Alla stazione 12»

«Buon Dio!» Il ragazzo non era riuscito a trattenere quell’esclamazione. «Nel bel mezzo dell’inferno»

«Lo so, ma dovevo per forza passare di qui»

«Chi verrà con te?»

«Solo il ferito. Spero di essere a casa tra sette o al massimo otto ore. Fa’ in modo che sia tutto pronto quando arriverò!»

«Sì, certo… ma davvero sei solo?»

«Per adesso con me c’è ancora Angol, sì… il vecchio Angol. Un’altra cosa: devi avvisare una delle squadre di soccorso di venirlo a prendere qui, il prima possibile. Si è slogato una caviglia»

«Ma dottore… sei impazzito forse? Possiamo venire a prendervi tutti quanti, non appena la tempesta si placherà»

«Benissimo, venite a prendere lui. Tra sette o otto ore io sarò a casa. Speriamo che vada tutto bene!»

«Ma è…»

Einar riattaccò.

«È proprio un bravo giovane» mormorò. «E un giorno diventerà un bravo dottore».

Angol scosse la testa.

«Non c’è dottore migliore di te!»

«Non è vero! Ci sarà senz’altro e sarà uno di voi! Lui diventerà molto meglio di me. Adesso aiutami a tirare fuori la slitta!»

Ricominciò a nevicare, così fitto che in pochis-

simo tempo la slitta fu ricoperta da una coltre di fiocchi. Einar dovette fermarsi a liberare il ferito da tutto quel peso.

«Per tutti i demoni del Nord» mormorò scrollandosi di dosso la neve. «Non poteva esserci giornata peggiore!»

Non sapeva più ormai da quanto tempo si fosse rimesso in cammino, ma gli sembrava un’eternità. Come in sogno, vide se stesso agganciare gli sci ai piedi, con Nick davanti a sé che lo guardava; poi si ricordò di Hoomei e della sua capanna.

«Terrò pronto del tè per quando ripasserai, ma sarà piuttosto leggero» gli aveva detto sorridendo.

Ah, santo cielo! Quanto ci voleva ancora?

Doveva già essere spuntato il nuovo giorno.

Si passò una mano sul viso per liberarlo dal ghiaccio e dalla neve e si spostò da un lato della slitta all’altro, perché gli si era addormentata la spalla destra.

«Non bisogna arrendersi, mai mai mai!»

Un minuscolo barlume di luce rischiarò le nuvole e la terra, ma il pensiero del nuovo giorno non gli portò alcun sollievo.

«A quest’ora dovevo essere già arrivato, invece sono appena a metà strada».

Si fermò di nuovo per liberare la slitta dalla neve, poi tentò di sistemarsi la corda sulla spalla in modo che non toccasse i punti dolenti.

Tentò anche di smettere di pensare, tutto il suo corpo doveva essere concentrato su un unico compito: trascinare la slitta sulla quale giaceva Eskil.

Eskil non poteva diventare preda di Katai. Doveva vivere.

Einar era stanco.

Eskil lo chiamò e lui riuscì con grande fatica a raggiungerlo, sebbene fosse a soli due metri di distanza.

«Un po’ d’acqua, per favore!» gli chiese.

Einar aprì la borraccia, ma il cognac era congelato. La mise quindi sotto le pellicce che coprivano il ferito e nel frattempo gli mise tra le labbra un pezzetto di ghiaccio.

Il caldo scongelò il cognac ed entrambi ne bevvero una bella sorsata. Il liquido penetrò come

fuoco nei loro corpi irrigiditi, e il calore generò nuove forze.

«Non manca molto, ce l’abbiamo quasi fatta»

mormorò Einar al suo compagno.

Eskil sorrise ed Einar gli tirò di nuovo sul capo le pellicce calde.

Guardò quindi la bussola: avevano deviato troppo a destra, ma con quel vento turbinoso e la tormenta di neve poteva ritenersi fortunato anche solo a essere riuscito ad avanzare.

«Bene» disse. «Ora pieghiamo a sinistra!»

E ricominciò a tirare.

Quando la tormenta si placò un po’, si fermò presso un gruppetto di larici contorti, che lo protessero dal vento, e accese un fuoco.

Dopo aver fatto bollire l’acqua la offrì anche a Eskil. Entrambi bevvero a grandi sorsate, poi

Einar si sedette sull’orlo della slitta e si asciugò il viso al calore del fuoco.

«Come va vecchio mio?» chiese a Eskil mentre tirava fuori la pipa.

«E come deve andare?» rispose il ferito. «Con una renna saremmo già arrivati e tutto questo ce lo saremmo lasciato alle spalle»

«Eh sì, ma Katai non ci ha voluto concedere questa comodità!»

Eskil sorrise.

«Ci vorrà molto tempo?» chiese.

«No, il grosso del viaggio è fatto»

«No, non intendevo adesso, ma dopo. Ci vorrà molto tempo per guarire?»

«Questo dipenderà da te»

«O da te, dottore?»

«Diciamo da tutti e due»

«Bene! Allora faremo in fretta». Tacquero entrambi.

Einar si chiese se i suoi colleghi a Stoccolma sarebbero riusciti a salvare Eskil. Non era un’operazione semplice. Doveva riuscire a portarlo

fin lì! Già tante volte aveva strappato un paziente dalle grinfie della beffarda morte dopo aver lottato per ore contro il freddo, la neve e il gelo e dopo aver tagliato, suturato e fasciato!

Eskil interruppe il corso dei suoi pensieri.

«Ehi, dottore! Ti ricordi di quel polacco che incontrammo al confine?»

Einar si domandò come mai a Eskil era tornato in mente adesso quell’uomo che aveva

incontrato per un giorno soltanto, tanti anni prima.

«Non so perché ci ho ripensato» aggiunse

Eskil, come se avesse letto nella mente del medico. «Era senza scarpe, vero?»

«Hai freddo forse?» chiese Einar.

«No, non è questo, però a volte sento un brivido su tutta la schiena, come quando qualcuno ti mette del ghiaccio sul collo. Però freddo non ne ho»

«E perché pensavi a quel polacco?»

«Non lo so. Mi frulla nella testa da un po’, me lo vedo continuamente passare davanti agli occhi»

«Siamo riusciti a salvarlo» disse Einar.

«Sì, ma me lo vedo camminare davanti a piedi scalzi!»

«Infatti era scalzo!»

«Lo era davvero?» Eskil si tirò su e si sostenne

sui gomiti. «Sul serio?»

«Che strana domanda! Certo che era scalzo, scalzo e mezzo morto. Quando finalmente è riuscito a parlare ha raccontato di aver camminato scalzo per diciannove giorni. Si era tolto le scarpe

per strofinarsi le dita dei piedi congelate e non era più riuscito a rimetterle»

«Insomma, era davvero scalzo» disse Eskil con un sospiro.

«Sì, e quando siamo arrivati nella tua capanna gli ho dovuto amputare sei dita»

«Per fortuna che era scalzo» ripeté Eskil, tornando a sdraiarsi nella slitta.

Einar gli lanciò un’occhiata perplessa.

«Non pensarci più» gli disse. «Hai un po’ di febbre e la fatica del viaggio ti fa venire questi pensieri. Cerca di dormire»

«Ae, dottore! Ci proverò»

«Bene»

«Ma dimmi, tu ci credi a quelle cose che vengono in mente all’improvviso, come un lampo davanti agli occhi?»

«Alle visioni? No!»

«Eppure sono vere, io lo so bene. Anche mia moglie lo sa, e persino Angol e tutti gli altri. I piedi scalzi significano…»

«Te l’ho già detto che il polacco era scalzo per davvero!»

«Sì, sì, ci credo; ma vedere dei piedi scalzi con

l’occhio della mente non significa niente di buono. I piedi scalzi sulla neve o su una superficie ghiacciata portano male»

«Sei proprio un gufo, Eskil, e non fai che ripetere le chiacchiere degli altri»

«No, ti sto dicendo che cosa ho visto»

«Non era una visione. Ti sei solo ricordato di un episodio di qualche anno fa»

«Va bene, mi hai detto e ridetto che quello lì era davvero scalzo. Ma se invece non lo fosse stato, saremmo di sicuro stati colpiti dalla sfortuna»

«Tra un paio d’ore saremo ad Arjeplog… Bevi un altro po’ di cognac e copriti bene. E ora riprendiamo il viaggio».

Einar si rialzò, batté i piedi sulla neve e spense il fuoco. Prese la borraccia, fece per porgerla a Eskil e rimase immobile, con il braccio teso, in ascolto. Si udiva in lontananza un ansimare e un tramestio di zampe. Anche Eskil si era sollevato un po’ e aveva teso l’orecchio. Infine mormorò: «È una renna!»

«Che tira una slitta?»

«No, è da sola».

Adesso il rumore degli zoccoli della renna si

era fatto più chiaro, ma ancora di più lo erano gli ansiti dell’animale.

«È stata attaccata da un ghiottone!» esclamò Eskil.

Non si sbagliava. Da dietro la collina comparve una maestosa renna, che bramiva e scuoteva disperatamente la testa. Nonostante tutti i suoi sforzi non riusciva a scrollarsi dal collo il suo nemico mortale, che si teneva stretto alla preda con gli artigli affilati e tentava di arrivare alla giugulare. Non aveva fretta. Mentre la sua vittima tentava di sfuggire alla morte, il ghiottone ne beveva il sangue, per lui fonte di vita.

«Gli spari, dottore! Spari a quel predatore!» esclamò agitato Eskil.

Einar scosse il capo. Era inutile. La renna già barcollava e a breve sarebbe morta. Perché sprecare un colpo sul suo predatore? Quello stava solo difendendo se stesso, cercava di conservare la propria vita togliendola a un altro animale. Era nato per questo. Obbediva a una legge più forte di lui.

«Ae» mormorò Einar «proseguiamo!»

Adesso il cielo si era rischiarato.

Il riverbero delle stelle scintillava sulla coltre di neve e la luce grigia dell’alba permetteva di spingere lo sguardo molto lontano. Gruppetti sparsi di larici ricoprivano le alte rocce del pendio che scendeva piuttosto ripido nella valle.

Einar guardò giù.

«Il fiume» mormorò contento.

Doveva scendere giù per il pendio, risalire in alto dall’altra parte del fiume, superare alcune colline e poi avrebbe raggiunto la palude e la capanna di Hoomei. Si sentiva già quasi a casa.

Si strofinò il naso per riattivare la circolazione e cominciò la discesa. Nonostante le cautele, la slitta si rovesciava spesso. La seconda volta Eskil fu sbalzato fuori e gridò di dolore. Einar dovette penare a lungo per rimetterlo su. Anche il minimo movimento aumentava la perdita di sangue.

La discesa fu lunga e faticosa.

Sfinito, il medico raggiunse infine la riva del fiume, quindi si allontanò dalla slitta e andò ver-

so un macchione di abeti rossi a tagliare legna per il fuoco. Aveva appena affondato l’accetta su un grosso ramo, quando Eskil lo chiamò.

«Ehi, dottore!»

Einar si fermò.

«Ehi, dottore!» ripeté Eskil.

«Che c’è?» chiese Einar di rimando.

«Non senti niente?»

Il medico tese l’orecchio. Si sentiva solo lo scrosciare della cascata che a circa quattro chilometri a sud precipitava in una gola.

«Non senti?» ripeté Eskil. «Ascolta il ghiaccio!»

Adesso Einar udì un lieve brontolio, quasi impercettibile. Si avvicinò al compagno di viaggio e chiese: «Cosa pensi che sia?»

«È il fiume, il ghiaccio sul fiume»

«Vuoi dire che…»

«Non voglio dire niente. Ma il vento soffia sul ghiaccio e lo scioglie, e non ci sono imbarcazioni che possiamo usare».

Se il ghiaccio si fosse rotto non avrebbero avuto modo di proseguire. Il guado più vicino era a quaranta chilometri di distanza, un uomo nel

pieno delle forze avrebbe impiegato un giorno intero di cammino per raggiungerlo.

“Non ce la farei” disse Einar tra sé e sé. Eskil espresse ad alta voce il contenuto dei suoi pensieri: «Non ci resta che tornare da Angol e aspettare lì la squadra di soccorso».

Tornare indietro? No!

Voleva dire perdere almeno due giorni, sempre che la squadra arrivasse presto. E due giorni potevano essere fatali per Eskil. No! Questo no!

«C’è un’altra possibilità: attraversare il fiume» disse Einar.

Eskil gli lanciò un’occhiata sbalordita e penetrante.

«Il ghiaccio si romperà prima ancora che raggiungiamo il centro»

«Ma non abbiamo altra scelta. Questa è l’unica possibilità di raggiungere velocemente Arjeplog» ripeté il medico.

«Ae, ae!» mormorò Eskil. «Ci serve una cosa allora: dei bastoni o dei rami da disporre a croce, nel caso il ghiaccio dovesse aprirsi».

Einar annuì e tornò nel macchione, dove tagliò quattro robusti rami dai quali ricavò due croci.

«Tienili tu» disse a Eskil. «Se dovessi sentire il ghiaccio rompersi prenderò il mio»

«Ae!»

Einar aveva sperato di poter riposare una mezz’ora per rimettersi in forze, invece si trovò ad affrontare un passaggio particolarmente faticoso.

Di tanto in tanto si udiva il forte scricchiolio del ghiaccio, che però tenne, mentre Einar trascinava la slitta più veloce che poteva. Dopo essersi lasciati alle spalle circa un terzo dell’ampiezza del fiume, si ritrovarono all’improvviso su del ghiaccio più fresco. Sentivano l’acqua scorrere sotto di loro e ne udivano il gorgoglìo attutito. La corrente lì era così intensa da impedire il formarsi di un robusto manto ghiacciato.

Einar fu costretto ad avanzare sempre più velocemente, perché bastava rimanere nello stesso punto più di una frazione di secondo per rischiare che il lastrone si rompesse. Quando finalmente percepì di nuovo del ghiaccio solido sotto i piedi rallentò un po’ il passo. E allora sentì avvicinarsi uno scricchiolio forte e prolungato.

«Ae, dottore! Ae, ae!» lo incitò Eskil. «Il ghiaccio si rompe».

Einar prese a correre e a trascinare la slitta disperatamente.

Tutto a un tratto il ghiaccio sotto i suoi piedi prese a tremare e infine si divise con un forte schiocco. Si aprì una crepa ed Einar vi affondò

dentro. Eskil gli lanciò immediatamente i rami a croce che avevano preparato, il medico vi si aggrappò e con grande fatica riuscì a issarsi sul lastrone dove si trovava la slitta. Si era bagnato fino al petto e per riscaldarsi dovette correre avanti e indietro lungo i quattro metri del lastrone, che nel frattempo veniva sospinto dalla corrente.

Avanti e indietro ininterrottamente!

«Speriamo che non si spacchi ancora più di così» gridò a Eskil senza fermarsi.

«Speriamo, sì».

Eskil teneva d’occhio gli altri blocchi di ghiaccio e tentava di non avvicinarcisi troppo, perché bastava una minuscola collisione per far finire entrambi in acqua. E questa volta i rami a croce non sarebbero serviti a nulla. La corrente li trascinò per oltre mezzo miglio, poi si fece più rapida e infine il rombo attutito di una cascata sovrastò ogni cosa.

«Che Dio protegga il buon lappone in una notte come questa!» esclamò Eskil, convinto che ormai non ci fosse più alcuna via d’uscita.

Einar gli lanciò un’occhiata irritata.

Eskil chinò il capo imbarazzato e alzò una

mano come per dire qualcosa, ma poi la lasciò ricadere.

Einar non poté evitare di ridere di quel gesto e dell’atteggiamento del suo compagno di viaggio.

A pronunciare quell’esclamazione era stato lui stesso, ventiquattr’ore prima, quando la tempesta si era abbattuta sul gruppo. Allora Angol era ancora con loro e il dottore aveva creduto che Eskil dormisse.

«Che Dio protegga il buon lappone in una notte come questa!» ripeté quindi ridendo.

Eskil gli sorrise.

In quel momento il lastrone di ghiaccio si avvicinò alla sponda opposta del fiume.

«Adesso!» gridò Eskil. «Adesso!»

Einar afferrò la slitta e la spinse sulla riva. Non appena i pattini toccarono il terreno solido, il lastrone di ghiaccio sul quale si trovava ancora il dottore prese ad allontanarsi. E dunque Einar dovette saltare di nuovo nell’acqua gelata del fiume. Questa volta però trovò un fondale solido sotto i piedi. Immerso nell’acqua fino ai fianchi, finì di spingere la slitta sulla terraferma.

A una cinquantina di passi dalla riva si inol-

trò in un macchione di abeti e qui fece fermare il veicolo. Lui però continuò a correre tutto intorno al compagno, perché rimanere fermo – bagnato com’era – con quarantacinque gradi sotto zero voleva dire tramutarsi inevitabilmente in un blocco di ghiaccio.

Mentre correva gridò a Eskil: «Accendi il fuoco!»

In fretta e furia gli gettò qualche ramo.

Quando il fuoco cominciò a bruciare, Einar si svestì completamente, si avvolse in una delle pellicce di Eskil e appese i vestiti ad asciugare.

Mezz’ora più tardi poté indossarli di nuovo e bere l’acqua messa a bollire.

«Bene» disse buttando giù il liquido caldo. «Alla fine ce l’abbiamo fatta!»

Eskil gli rivolse un debole sorriso. Aveva di nuovo la febbre.

Capitolo 4

Einar non riusciva a muoversi. Stava dormendo, ma la sua mente era sveglia e attiva. Un paio di volte il crepitìo del fuoco lo aveva fatto scattare all’improvviso, poi si era subito riaddormentato.

Mentre il corpo si godeva il meritato riposo, nella sua mente danzavano frenetiche tante immagini diverse, che lo facevano gemere e sussultare.

Vento, neve e gelo, betulle verdi, odore di muschio e profumo di fiori… tutto questo percepiva e vedeva.

Rivisse una seconda volta la lunga marcia, il tragitto con gli sci e l’attesa snervante.

Gemette nel sonno e allora a quell’incubo si sostituirono immagini più quiete, momenti più felici. Poi si profilò chiara la sagoma di un cacciatore preso tra le zampe di un orso.

Lui, Einar, voleva salvarlo, ma l’orso trascinò via la sua preda. Lo seguì, quasi impazzito per la disperazione. Tentò ancora di raggiungere l’orso, ma le gambe cedettero, incespicò e cadde.

Quando si rialzò, l’orso era solo un puntino all’orizzonte, e mentre quel puntino svaniva davanti ai suoi occhi, comparve all’improvviso il villaggio di Turi. Gli abitanti tornavano dai campi: gli uomini con in spalla il lazo per le renne, le donne trascinando grossi secchi di legno di betulla pieni di latte. A ogni passo e a ogni movimento qualche goccia cadeva a terra e la macchia bianca si faceva dapprima gialla e poi rossa come il sangue. I vitellini muggivano lamentosi e accompagnavano il cammino della grande mandria, che ora aveva raggiunto il recinto.

Il fumo si levava dalle tende. Ce n’erano tantissime, come se quella fosse stata una grande città. Lui, Einar, non aveva mai visto tante tende tutte insieme, né un villaggio così vasto. Dalle tende emersero Turi, Ellkan, Angol, Eskil, Hoomei, Nick e centinaia di altri: tutti i suoi lapponi, vivi e morti, compresi i più piccoli, tra

cui Tangol, che solo sei giorni prima era venuto alla luce grazie al suo aiuto.

Tutti uscirono fuori e guardarono il cielo.

Nessuno diceva una parola.

Anche le renne avevano smesso di brucare e persino i cani avevano rivolto i musi verso l’alto.

Solo l’urlo acuto di un barbagianni interruppe quel profondissimo silenzio.

Anche Einar guardò in alto, ma non riuscì ad alzarsi, era troppo stanco. Quando sollevò una seconda volta lo sguardo vide una grande montagna che incombeva sopra il villaggio. Era azzurra, con chiazze purpuree e gialle. Meravigliosa.

Sulla cresta della montagna, tutto a un tratto, si mostrò Katai, il Gelo. Non aveva volto né corpo, ma Einar sapeva che era lui e lo sapevano anche tutti i lapponi. Bastò che si mostrasse perché la splendida montagna si tramutasse in ghiaccio. Quindi un enorme masso di roccia scura si staccò e precipitò sul villaggio.

Ci fu un solo grido. Quello di Einar. Gridò e nello stesso istante balzò in piedi.

La zampata dell’orso gli sfiorò una spalla, lacerando la spessa pelliccia.

Einar tornò subito presente a se stesso.

La bestia selvatica, un enorme orso bruno, lo fissava con i suoi occhi intelligenti.

Il medico non si mosse. Il balzo improvviso con cui si era alzato aveva sorpreso l’animale, adesso però sarebbe stato sufficiente anche il più piccolo indietreggiare per finire nell’abbraccio mortale delle sue gigantesche zampe. Estrasse lentamente la pistola, chiedendosi come avesse fatto l’orso ad avvicinarsi tanto.

«Forse sto impazzendo a poco a poco» mormorò. «Ma a che serve domandarselo? Ora è qui e devo liberarmene. O lui o io».

L’animale brontolò.

Era il momento.

Mantenendo il sangue freddo prese la mira, premette il grilletto e svuotò l’intero caricatore.

Agli spari rispose un ruglio e la bestia, con occhi contorti e iniettati di sangue, si lanciò su Einar. Avrebbe potuto stritolarlo, aveva ancora abbastanza forze per farlo.

Einar tentò di balzare di lato, ma scivolò e cadde a terra.

L’enorme animale rugliò una seconda volta

e stava per stringere a sé Einar, quando all’improvviso crollò a terra accanto alla slitta.

All’ultimo istante, Eskil gli aveva lanciato contro l’accetta e lo aveva colpito alla gola.

Einar si rialzò e toccò l’orso con la punta del piede: era morto.

«Mi sono addormentato» disse avvicinandosi al suo compagno.

«E il fuoco si è spento»

«Sì»

«Era proprio un gran bell’animale»

«Ti ringrazio per avermi salvato la vita. Senza il tuo aiuto mi avrebbe stritolato. Chissà perché non lo ha fatto subito»

«Forse sospettava che ci fosse una trappola. La preda era troppo facile, eravamo entrambi immobili»

«Tu l’avevi visto quindi?»

«Sì, l’ho visto arrivare, ma era troppo tardi per chiamarti. Mi sono detto che se ci fossimo finti morti magari ci avrebbe lasciati in pace. Ci ha annusati a lungo. Due volte ha sollevato le zampe davanti al mio viso e due volte le ha lasciate ricadere. Credo che mi siano venuti i capelli bianchi. Poi è venuto da te, che sei saltato in piedi come un pupazzo a molla»

«Stavo sognando»

«Per fortuna la sua prima zampata ti ha solo sfiorato. Dev’essere rimasto molto sorpreso»

«Per fortuna!»

«Ae, dottore… la carne d’orso ha un buon sapore e il fuoco si può riaccendere». Eskil si distese di nuovo sulla slitta, sfinito.

«Come ti senti?»

«Bene, considerate le circostanze».

Ma aveva il viso troppo arrossato per nascondere la verità.

Einar tagliò un ramo e accese un fuoco più grande.

Poi sollevò le pellicce che coprivano Eskil e tolse la fasciatura.

“Troppo sangue” mormorò tra sé e sé. “Devo sbrigarmi!”

«Come va, dottore?»

«Bene. Stringi i denti ancora per un po’ e ce la faremo!»

«Ae!»

Einar divorò con avidità un pezzo di carne che aveva messo ad arrostire sul fuoco con tutta

la pelle. Da tante, troppe ore, il suo stomaco chiedeva di essere nutrito. Gli sembrò di non aver mai mangiato nulla di più buono di quel pezzetto di carne semicruda. Ne diede un po’ anche al suo compagno, che però riuscì a mandar giù solo un boccone e lasciò il resto.

«È ora di ripartire» disse infine il medico, alzandosi in piedi nonostante l’insopprimibile desiderio di dormire.

«Ae, dottore» mormorò Eskil con un filo di voce.

Quel debole incoraggiamento liberò Einar dalla sonnolenza e gli diede la forza di guardare avanti.

Il pendio correva tra gli abeti per circa un miglio, poi gli alberi si fecero man mano sempre più piccoli e radi e infine lasciarono il posto alle rocce, che si levavano scure verso il cielo.

Einar sentiva la corda affondargli nella schiena, dura come l’acciaio, ma non la spostò sull’altra spalla, perché ormai gli faceva male dapper-

tutto allo stesso modo. Usciti dal boschetto di abeti erano ricominciati problemi e difficoltà. Il medico sprofondava così tanto nella neve fresca e soffice che per fare un passo doveva tirar fuori il ginocchio quasi senza piegarlo. Come se non bastasse, spesso doveva anche sollevare la slitta per superare cumuli di ghiaccio o massi che bloccavano il cammino. Aveva l’impressione che spuntassero dal terreno appositamente per fermarlo e prese gradualmente a considerarli nemici quasi impossibili da sconfiggere. Ma proprio lottare contro quegli avversari invincibili rafforzava la sua volontà e il suo desiderio di andare avanti. Li superava affrontandoli dal lato più favorevole e continuava a tirare la corda sempre un pezzetto più in là, appoggiandosi alla roccia o cercandovi un appiglio. Dieci, cento volte, ancora e ancora.

Quell’immane battaglia durò tre ore, poi Einar si trovò di fronte l’ultimo tratto roccioso di quel baluardo.

Sfinito dal tremendo sforzo si fermò a riprendere fiato, e poi ricominciò a tirare. Tutto a un tratto la slitta gli sembrava più pesante di pri-

ma, la corda liscia come un’anguilla gli sfuggiva continuamente dalle mani. Due volte i pattini scivolarono su un blocco di ghiaccio, il veicolo minacciò di ribaltarsi ed Eskil dovette trattenere un grido di dolore.

Einar chiamò a raccolta tutte le forze che gli restavano e riprese a tirare.

Sapeva che se non fosse riuscito a giungere dall’altra parte non ce l’avrebbero mai fatta.

Le mani gli sanguinavano e la stanchezza gli provocò un senso di nausea. Il desiderio di riposare e recuperare le forze si fece sempre più pressante. A tratti gli si annebbiava la vista, vedeva di fronte a sé tanti puntini luminosi e le lacrime congelate premevano sugli occhi come aguzze schegge di diamante.

Ma continuò a trainare.

A un certo punto dovette afferrare direttamente i pattini. Li tirò a sé sfruttando il peso del proprio corpo, con le ultime forze che gli restavano! Incespicò e cadde sulla schiena, la slitta gli finì addosso, scivolò sul suo petto, e quando si fermò un braccio di Einar rimase incastrato sotto i pattini.

«Ehi, dottore!» gridò Eskil mettendosi a sedere. «Dottore!»

La voce del compagno lo infastidiva, riecheggiava nella sua testa con la stessa violenza di un martello sull’incudine. Adesso era sdraiato e voleva solo dormire. Dormire, nient’altro! Finalmente poteva riposare le gambe e con esse anche il resto del corpo e la mente.

Era tutto finito.

Dormire, dormire e basta, e poi tornare nel Sud del paese. Al diavolo tutto! Lo avrebbe fatto davvero!

«Dottore! Dottore!»

«Sì, arrivo subito!» rispose. «Non puoi aspettare un momento?»

«Dottore… se non ce la fai…»

«Ce la faccio, ce la faccio! È solo che…»

All’improvviso si rese conto che stava sbraitando. Che sciocco che era! Sgridava Eskil come se fosse stata colpa sua!

«Sì» disse allora con il suo solito tono pacato.

«Adesso mi alzo»

«Se vuoi ti aiuto»

«Rimani seduto tranquillo, ce la faccio da solo»

«Volevo solo dire che…»

«Ce la faccio».

Facendo leva con la spalla riuscì a sollevare la slitta e a liberare il braccio.

Dio mio! Speriamo che non sia rotto, pregò in silenzio.

Il dolore era fortissimo. Provò a muovere il braccio con cautela, lo tastò e lo fece ruotare avanti e indietro. No, grazie al cielo non era rotto.

«Bene» disse tra sé e sé. «Dovrai lavorare lo stesso, caro il mio braccio, anche se non ti va!

E tu» proseguì rivolto a Eskil «torna a sdraiarti. Come ti senti?»

«Come se avessi il fuoco dentro»

«Più avanti faremo una sosta» disse Einar. Si sfilò un guanto e posò la mano sulla fronte del compagno. Bruciava di febbre.

«Che ne pensi, dottore?»

«Va tutto bene»

«Ae!»

Einar doveva sbrigarsi se non voleva perdere Eskil. Poteva fare affidamento sulla robusta costituzione del ferito, ma non doveva abusarne.

Afferrò di nuovo la corda e riprese a tirare. Questa è l’ultima volta! giurò a se stesso. L’ultima, davvero! Ne ho abbastanza di questo inferno! Ne ho abbastanza! ***

Quegli stessi sentimenti lo coglievano anche quando operava. Tutto il suo essere trovava ripugnante il pensiero di dover incidere, amputare e suturare, veniva colto dalla nausea e da una stanchezza mortale, eppure le sue mani – come fossero state staccate dal resto – aprivano e richiudevano le ferite, incidevano con sicurezza finché non raggiungevano l’obiettivo. E gli occhi, duri e freddi, ne seguivano i movimenti e notavano ogni singolo dettaglio. Era la mente a coordinare tutto e a prevenire gli imprevisti. Così era anche adesso. Quando adoperava gli strumenti del chirurgo tentava di estirpare il male dai pazienti, e allo stesso modo adesso, tirando la slitta con tutta l’anima, tentava di sconfiggere Katai.

Forse adesso riuscirò a salvarlo, ma tra un paio

d’anni Eskil sarà sconfitto. Quando arriverà il momento, nemmeno la sapienza di tutti i dottori del mondo potrà regalargli qualche attimo di vita in più. Lo salverò, ma domani, o in un altro giorno qualunque, qualche sciocco rimetterà in moto la più grande macchina di sterminio del mondo, quella che hanno inventato gli uomini: la guerra, ed Eskil morirà. Perché allora mi sforzo così tanto per salvarlo adesso? Le braccia mi fanno male; il petto, la schiena e le gambe non collaborano più: non sarebbe meglio anche per lui morire oggi? Chi è Eskil per me? Perché dovrei sacrificarmi e rischiare di soccombere insieme a lui?

Nonostante queste riflessioni, il suo corpo continuava a tirare. La corda penetrava dura e spietata oltre la pelliccia e il maglione e premeva così forte sulla sua schiena che la sentiva bruciare come il fuoco.

Ma Einar non ci badava. In quel momento conduceva una battaglia molto più feroce, sapeva che era causata dalla stanchezza, ma non poteva farci nulla.

Andò avanti a tirare la corda. Tirava senza più riflettere e senza pensare al dolore, perché

la lotta contro se stesso era molto più dura di quella contro la Natura.

Lascialo qui! Lascialo qui e vattene! Perché sei venuto in questo inferno di ghiaccio? Questa gente è nata per morire in qualche modo terribile, travolta da una tempesta o sotto le zanne dei lupi! Vattene via! Sei ancora in tempo. Ci sono tante cliniche in cui potresti lavorare, magari potresti persino averne una tutta tua. Sì, a quest’ora ce l’avresti già, e che clinica! Avresti anche una moglie e magari anche dei bambini. Ogni anno trascorreresti le vacanze in Francia oppure in Italia. Sì, persino in Italia. Il tuo amico Karl non si è sposato proprio lì? E tu invece? Tu sei qui!

Qui in questo deserto di ghiaccio e neve, solo e abbandonato!

A volte qualcuno gli chiedeva cosa ci fosse andato a fare lì. Oppure era lui stesso a porsi quella domanda, al sicuro tra le mura di casa sua, in una stanza calda, protetto dal vento e dal freddo. Nei momenti più malinconici si dava una risposta molto bella. Non la ripeteva mai in pubblico, ma dentro di sé si rallegrava quando la sentiva dire a qualcun altro: «Sono qui per

salvare la vita di questa gente. Se non ci fossi, che ne sarebbe di loro?»

Quale aspirazione!

Ma adesso che il tuo corpo non ce la fa più e avanzi barcollando nella neve, senza poterti permettere di dormire per non tramutarti in un blocco di ghiaccio: che risposta daresti adesso, grand’uomo? Quanto vorresti essere al caldo, sotto in una coperta pesante, a dormire dopo aver bevuto una tazza di caffè caldo?

Cosa direbbe la gente? Chi potrebbe dir nulla di male sul tuo conto? Eskil è morto e tu hai dovuto lasciarlo lì. Così, quando arriverai a casa, potrai andartene via, tornare in patria, al caldo, alla vita comoda e al denaro. Te lo sei dimenticato il denaro?

Il denaro è tutto a questo mondo!

E adesso sei ancora in tempo: va’!

Da queste parti la gente viveva e moriva da prima che arrivassi tu. Adesso non muoiono forse allo stesso modo? Vivono forse di più? Per quale motivo vuoi prolungare la loro esistenza? Per farli soffrire più a lungo? Smettila con tutte queste belle parole! Vattene e dedicati a far soldi, come tutti gli

altri, e goditi la vita! I tuoi lapponi non ce l’hanno un ospedale? Certo che ce l’hanno, ha cinquanta letti! Aggiungici le tue due cliniche, che ti sono costate trent’anni di lavoro! Tu poi le chiami cliniche, ma lo sono davvero? Non hai nemmeno un altro medico, solo due infermiere, sciocche quanto te. Quale medico vorrà mai venirci a lavorare? Chi altro c’è che sia matto come te?

Sai bene che il tuo compagno di studi, Eugenes, dirige un ospedale con trecento letti e una clinica per gran signori. Non si limita a curare la gente, fa anche un sacco di soldi. Tu invece cos’hai? Lui è un medico ricco e stimato, tu un povero diavolo. Lui ha una macchina, una villa, servitori e tutti gli onori, soprattutto gli onori. La gente si toglie il cappello quando lo incontra. E tu? Qui in tanti non ti chiamano nemmeno dottore, solo Einar. E chi è che ti paga? Dove hai investito il tuo patrimonio? Nelle tue mani e nella tua testa, certo, ma da nessun’altra parte! Quando infine morirai diranno: «Ae, è morto» invece quando morirà Eugenes ne parleranno tutti, lo annunceranno alla radio e sui giornali. Tu hai scritto otto volumi di medicina. Molto bene. Ma poiché sei

qui in questo inferno, Einar, un singolo articolo di Eugenes vale più di tutta la conoscenza che hai riversato in quegli otto volumi. E perché? Perché

lui è ricco e invece tu non possiedi nulla!

Lascia qui Eskil. Lascia qui questo bambinone che ti trascini dietro! Ormai non serve più a niente e a nessuno, non sa nemmeno adoperare un coltello senza ferirsi da solo! Va’ via!

Da quanto tempo ormai sogni di avere una famiglia? Eppure sei solo, perché qui non potrai mai portarcela una moglie. A volte ti dispiace, eppure non cambi idea. Ma per chi fai tutta questa fatica? Per i lapponi? Hai già regalato loro trent’anni della tua vita, rammollito!

Einar ansimò e fu costretto a fermarsi.

Che razza di pensieri erano quelli? Quale sdegno, quale lotta? Sapeva che riflessioni del genere aprivano la strada al crollo finale. Erano pensieri lisci e taglienti come acciaio affilato, laceravano la rete di menzogne di cui era fatta la vita, cancellavano visioni dorate e sogni a occhi aperti e mettevano a nudo l’essenza di ciascuno.

E lui aveva quasi ceduto.

Però perché, allora, aveva sofferto così tanto

sciacalli? L’uomo continuava la sua lotta contro tutto e tutti. Contro i fiumi, il mare, gli animali selvatici, il vento, le tempeste, i microbi, le malattie e le grandi distanze; contro l’ignoranza, l’egoismo e la falsità, e alla fine avrebbe conosciuto e saputo dominare tutto questo. E dunque anche Einar lottava. Lottava perché si sentiva legato a Eskil, ad Angol e a tutte le persone d’animo più o meno ferreo. Quello era il suo campo di battaglia, se lo era scelto da solo anni prima, senza ascoltare i consigli degli altri, certamente dati in buona fede. E dal momento che era felice così, aveva davvero senso chiedersi il perché? Era felice quando Angol gli stringeva la mano, quando Hoomei lo accoglieva nella sua capanna, quando Turi gli offriva la sua pipa.

«Ae, Eskil!» gridò ridendo al suo compagno di viaggio. Poi riprese a tirare, anche se tutto il corpo gli doleva come se stesse per morire, anche se la corda gli affondava nella carne e anche se davanti agli occhi vedeva danzare tanti piccoli puntini luminosi. Il suo animo adesso era allegro e gioioso.

Ae! Ancora avanti!

Avanzava con gli occhi semichiusi perché non riusciva più ad aprirli del tutto e vedeva a malapena dove metteva i piedi. Fu così dunque che si accorse troppo tardi del crepaccio e vi precipitò dentro.

Rimase stupefatto nel constatare che i suoi occhi – benché in preda al panico – notavano ogni singolo dettaglio della parete di roccia: il pendio scuro, le macchie di verde che spiccavano sul rosso delle rocce e il contrasto tra quel rosso e la neve bianca. Anche le sue orecchie sapevano distinguere con precisione i diversi rumori: i cumuli di neve che cadevano, la ghiaia che scivolava, il cigolare della slitta che rimbalzava da una sporgenza all’altra, e il sordo schiocco dei pattini che si spezzavano.

Peccato, pensò, che debba andare a finire così.

In previsione dell’inevitabile schianto finale chiuse gli occhi e rilassò le membra, per tentare di assorbire meglio il colpo.

Proprio quando…

Non riuscì a concludere quel pensiero. Sbatté violentemente contro qualcosa di duro e non sentì più nulla.

A poco a poco riprese i sensi.

Qualcuno lo stava schiaffeggiando. La voce di Eskil lo riportò alla realtà.

«Einar! Mi hai fatto prendere un colpo!»

Eskil era in piedi al suo fianco e lo prendeva a schiaffi; le botte; gli schiaffi però si affievolirono piano piano.

«Bene dottore, ora che hai aperto gli occhi, apri anche la bocca!»

Einar sollevò il capo e guardò il compagno.

«Ae, ae!» esclamò. «Smettila di colpirmi, ho già le guance in fiamme! Cos’è successo?»

«E cosa ne so io? Ti sei buttato a capofitto in questo inferno e mi hai trascinato giù con te…»

Einar si mise a sedere.

«Perché sei qui in piedi? Dov’è la slitta?»

«È finita in pezzi. Per fortuna io sono caduto su un cumulo di neve. Se non avessi questa ferita che continua a dolermi, direi che sto benissimo. E tu, dottore?»

Einar si tastò in tutto il corpo e infine provò

Eskil, che aveva scrutato con apprensione ogni suo movimento. «Solo lividi. Santo cielo, mi è andata proprio bene!»

Il ginocchio destro era pesante come il piombo.

Tentò di camminare. I primi passi furono molto sofferti, ma a poco a poco le articolazioni si fecero più mobili ed elastiche e gli consentirono di muoversi meglio.

«Se mi avessero pestato a sangue forse sarei stato meno dolorante di così» disse.

Eskil scoppiò a ridere, alzò le braccia e indicò verso l’alto. Si trovavano nel letto in secca di un fiume.

«Abbiamo fatto un bel salto» disse «e possiamo dire che per fortuna ce la siamo cavata piuttosto bene»

«Ero accecato dalla neve e la tempesta mi ha costretto a chiudere gli occhi. Non vedevo più nulla. Quando mi sono accorto del crepaccio era ormai troppo tardi»

« Ae , dottore, sarebbe potuto accadere anche a me».

Einar sorrise. Sapeva che a Eskil non era mai

accaduto niente del genere, ma lo ringraziò con lo sguardo per aver parlato in sua difesa.

«Tu cosa ti sei fatto?» chiese.

«Io? Niente. Ho solo avuto un po’ di paura». Il tentativo di Eskil di rivolgere un sorriso a Einar fallì. Il dolore lo tramutò in una smorfia.

«Dov’è la slitta?» chiese di nuovo Einar.

«I pezzi sono qui intorno».

Einar seguì le tracce lasciate da Eskil quando si era trascinato fin da lui e a dieci passi di distanza vide la sua borsa degli strumenti e le coperte. Raccolse tutto e tornò dal suo compagno.

«Ma tu…»

«Sono caduto laggiù e quando mi sono accorto che non ti muovevi mi sono trascinato da te. Dovevo pur fare qualcosa, o no?»

«No!»

«Sei rimasto immobile per tanto tempo, dovevo venire a vedere. Non mi sgridi, dottore!»

Eskil tacque per un momento e poi aggiunse esitante: «Hai visto? Piedi scalzi sulla neve significano sfortuna in agguato. Lo sapevo!»

Einar scoppiò a ridere, poi distese una co -

perta su un cumulo di neve, vi fece sdraiare il compagno e lo avvolse per bene nelle pellicce.

«Ora vediamo cosa possiamo fare» disse cominciando a raccogliere i pezzi sparpagliati della slitta e usandoli per accendere un fuoco.

«Dovrebbe esserci rimasta circa metà slitta» disse. In effetti trovò quel che restava del veicolo incastrato tra due rocce. I pattini non erano più utilizzabili, c’erano solo la corda e pochi frammenti di legno.

Il problema adesso era venire fuori dal crepaccio e continuare a trasportare Eskil.

Non può camminare, si disse Einar. Magari potrei trasportarlo sulle due stecche… Prima però vediamo come sta…

Si avvicinò al fuoco e vi tenne sopra le mani per riscaldarle, poi aprì la borsa e cominciò a preparare l’occorrente.

«Eskil, ora dovrò farti un po’ male, ma ho bisogno di sapere come sta la ferita»

Eskil strinse i denti mentre il dottore operava.

«Ae!» mormorò infine Einar. «Sei più resistente di un demonio!»

Lo coprì di nuovo e mise a bollire un pentolino pieno di neve.

Bevvero entrambi l’acqua calda a grandi sorsate, poi Einar disse: «Ora dobbiamo pensare a come proseguire»

«Proverò a camminare!»

«Posso fare una lettiga con le coperte, dove potrai sdraiarti»

«Ma non hai più la slitta» borbottò Eskil.

«La struttura però è integra, forse posso usarla in qualche modo»

«Forse».

Einar si aspettava qualche consiglio da parte del compagno, ma Eskil si era già assopito.

Se avessi chiodi e martello saprei come fare, ma così…

Perso nei suoi pensieri, posò lo sguardo sul compagno e notò le ampie pellicce di renna che lo coprivano. Ne prese una e la distese sopra lo scheletro della slitta. Poteva andare.

Trascinò il tutto accanto al fuoco e svegliò Eskil.

«Dimmi un po’, per caso hai delle cinghie di cuoio con te?»

Mezzo addormentato, Eskil indicò la tasca destra della giacca. Einar intanto tirò fuori ago e filo. Con pazienza cucì le cinghie di cuoio intorno alle stecche della slitta e la provò. Legò quindi la corda intorno ai piedi del nuovo veicolo, rivolti verso l’alto, e sistemò la coperta. Infine vi adagiò sopra Eskil, gli mise sotto la testa la borsa degli strumenti e lo coprì con le pellicce rimaste.

«Adesso possiamo proseguire».

Prima però dovette fasciarsi stretto il ginocchio, che si era gonfiato fino a diventare grande quanto la coscia. Avanzando a zig-zag risalì dal crepaccio, ma impiegò tutto il giorno per arrivare in cima. Più volte dovette lasciare Eskil sulla neve, trasportare a braccia la slitta oltre un certo punto, tornare indietro, afferrare il compagno per le spalle e trascinarlo su. Disseminati lungo il percorso in salita rimasero i lembi lacerati dei suoi pantaloni e della giacca, e persino tracce di sangue. Era al limite delle forze, ma nulla poté distoglierlo dal suo proposito: né le mani gonfie, né gli innumerevoli graffi e tagli procuratigli dalle rocce aguzze su tutto il corpo.

Si trascinò avanti, aggrappandosi a ogni sporgenza pur di tirare su Eskil anche solo di mezzo passo.

Infine terminò la scalata. Afferrò il compagno per le spalle e lo sollevò per deporlo sulla slitta già pronta.

«Ahi! Eskil! Che dolore!» gridò prima di accasciarsi all’indietro, incapace di muoversi.

Sentì qualcuno che gli parlava, come in sogno, e aprì gli occhi. Non se l’era immaginato, era Eskil che gridava parole incoerenti. Erano faccia a faccia ed Einar poté sentire il calore della febbre che emanava dal volto del compagno.

Doveva agire subito, senza perdere tempo… Eskil non poteva aspettare ancora a lungo.

Barcollando riprese tra le mani la corda. I pattini aggiustati alla bell’e meglio affondarono di alcuni centimetri nella neve fresca e soffice.

Einar zoppicava, il ginocchio destro gli doleva a ogni passo, le mani gli sanguinavano per via delle ferite riportate sulle rocce taglienti e

la spalla, protetta a malapena dalla pelliccia a brandelli e schiacciata dal peso del carico legato alla corda, era diventata insensibile. Aveva

l’impressione che la corda gli penetrasse nella carne, fino alle ossa.

Capitolo 6

Silenzio…

Tutto intorno regnava un silenzio assoluto. Si udiva solo lo scricchiolio della neve sotto i passi di Einar e i pattini della slitta provvisoria.

Tutto a un tratto riecheggiò un frastuono infernale che prese a farsi sempre più vicino. Erano i lupi, che ululavano al cielo la loro fame. All’improvviso ammutolirono. Dovevano essere arrivati nei pressi della slitta. Einar si voltò.

A circa duecento metri di distanza un intero branco trotterellava silenzioso dietro di loro. Circa un’ora dopo si voltò di nuovo: il branco era ancora sulle sue tracce.

Poi i lupi si fecero sfrontati. Finché Einar continuava ad avanzare si limitavano a seguirlo, ma se si fermava a riprendere fiato si avvicinavano e si disponevano a semicerchio intorno a lui.

Regnava un silenzio inquietante e opprimente. Einar si affrettò a proseguire, con le ultime forze che gli restavano, prima che il branco lo circondasse completamente.

Più veloce, Einar, più veloce… Devo lasciarmi i lupi alle spalle, devo andare avanti, sempre avanti, e non fermarmi mai! O vuoi forse sentire le zanne penetrare nella carne come la corda nella spalla? Chissà cosa si sente quando si viene dilaniati. Forse nulla. Forse è come adesso: la corda affonda nella mia carne e la lacera, ma io non sento più niente; le mani mi sanguinano, ma io non me ne accorgo nemmeno. Il peso della slitta mi schiaccia, mi sembra di dover tirare una slitta diversa con ciascuna delle articolazioni, eppure non sento nulla. O meglio, mi sento a pezzi, eppure il mio corpo continua obbedire alla mia volontà. Sarà così anche quando le zanne caleranno su di me per strapparmi via la vita? Forse sono in grado di lacerare anche la volontà di un uomo? Deve pur esserci una differenza! Le zanne appartengono a una creatura vivente, sono lo strumento di un’altra volontà, una volontà che uccide perché vuole vivere. Sono

oggetti, ma pur sempre oggetti viventi. E dunque è possibile che siano in grado di annientare la volontà di qualcun altro.

Se non fosse così, si potrebbe sopravvivere a qualsiasi cosa, com’è successo a Komoin, che viveva ancora sebbene il suo corpo avesse smesso di farlo. Fu solo la sua volontà a farlo arrivare da me, solo la sua volontà poteva donare quelle ultime forze a un corpo che era già morto.

«Ehi, straccioni!»

Cinque o sei lupi gli erano scivolati accanto, silenziosi come ombre.

Adesso la loro volontà è una sola: nutrirsi di me e di Eskil. Ogni fibra del loro essere è tesa verso questo obiettivo. Ma io mi oppongo. Facciamogliela vedere, Einar! Mostriamo a questi figli di un cane che anche un medico sa prendere bene la mira! Forza! Spara!

Più veloce, Einar, più veloce! Il sangue chiama sangue e un lupo chiama l’altro. Non appena calerà il buio balzeranno addosso a te e all’uomo che stai trasportando. E allora avrai lottato invano. Avanti, Einar, più veloce!

«No, non ci riuscirete» disse Einar ad alta

voce, per rompere il silenzio opprimente. «Sono pronto a lottare contro tutti voi, contro centinaia o anche migliaia di voi!»

A ogni sparo un lupo si accasciava a terra. Mantenendo il sangue freddo e la mente lucida, Einar sparava non appena scorgeva un lupo che cercava di superarlo. Non dovevano passargli davanti e non l’avrebbero fatto finché lui avesse potuto dire la sua con un’arma.

Uno sparo, un altro e un altro ancora.

Un lupo, un altro e un altro ancora.

«Dio mio, quanto vorrei poter fare una sosta!»

Si strofinò energicamente il naso fino a farselo dolere. Provava il fortissimo bisogno di fermarsi una volta per tutte, di riposare, di stare anche solo per un attimo accanto a un fuoco, ma soprattutto di mangiare. Mangiare e poi dormire!

Se si fosse fermato ora però non avrebbe mai più ripreso la marcia, il suo riposo sarebbe stato il riposo eterno.

«No!!» esclamò.

Non avrete Eskil, mai! Lui deve vivere, e vivrà, perché io voglio così! Avanti Einar! Avanti!

Il sangue che mi cola dalle mani macchia la neve, la corda mi taglia la spalla, Eskil sta delirando… Ma devo andare avanti, sempre avanti.

Il vento tace e non nevica più. La superficie chiara della neve è di un bianco abbagliante e le ombre cominciano ad allungarsi.

«Tra poco sarà notte, un’altra notte» mormora Einar voltandosi indietro, sempre senza fermarsi.

Il branco lo segue ancora: ombre nell’ombra, fauci ansimanti, occhi bramosi.

Avanti, Einar! Non perderti d’animo! E voi, gambe, fatevi forza! Un passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Avanti, avanti!

La spalla si è tramutata lentamente in un’unica ferita che tinge la corda di rosso.

«Ma devi farcela, Einar! Devi!» grida il medico rivolto a se stesso, mentre incespica. «Devi!»

Piange per il dolore e le lacrime bruciano come fuoco sul volto, divenuto una maschera congelata.

«Smettila di delirare, Eskil! Smettila!» urla a Eskil. Vorrebbe correre da lui, da quel carico immobile che gli sembra di tirarsi dietro da un’eternità, per sollevarlo, scuoterlo e schiaffeggiarlo. Ma è tre passi alle sue spalle, e lui non può arretrare. Deve continuare a tirare la slitta avanti.

Lo salverò dalla tomba. Lo farò! Voi, gambe, aiutatemi. Tu, corpo, smettila di soffrire! Avanti!

Stringi i denti, Einar, e va’ avanti, sempre avanti! Mi avete fatto inciampare, gambe, non volete più portarmi? Non fa niente, io andrò avanti lo stesso!

Adesso avanza carponi su gambe e braccia, ma continua a tirarsi lentamente dietro la slitta.

Attendete, lupi! Tra poco quest’uomo non vi opporrà più alcuna resistenza. Non è la prima volta che vedono un uomo cadere, trascinarsi avanti su braccia e gambe e infine fermarsi.

Adesso è Einar che avanza a quel modo. Il momento si avvicina. Affilate i denti, lupi! Si può già fare un tentativo. Un balzo in avanti e...

Ma Einar lo vede e lascia parlare la pistola.

No, lupi, il momento non è ancora arrivato. Dovete avere ancora un po’ di pazienza.

Aspettate solo che mi fermi, lo so. Lo so bene. Ma voi sapete che sono armato. Finché avrò forza e fiducia in me stesso non vi avvicinerete, e io andrò avanti.

Tira Einar, tira! Tira avanti i rottami di questa slitta, sulla quale giace un uomo in preda al delirio. Tira!

Vedo la neve colorarsi di rosso. È il sangue delle tue mani, Einar. Tira! Non importa se la corda si fa sempre più dura e tagliente. Non fa niente se ti lacera la spalla. Tira!

Cosa sono adesso questi puntini luminosi che danzano davanti ai suoi occhi? Se li strofina, nel tentativo di scacciarli. Lo preoccupano. Si costringe a pensare alla casa, alla gente e alla vita. Sarebbe davvero crudele, giunto fin qui, cedere alle illusioni.

Strofina di nuovo gli occhi, ma i puntini luminosi non se ne vanno. Einar si aggrappa alla speranza. Forse il suo momento è davvero arrivato. All’improvviso però capisce che non è così! Il branco rimane indietro e scompare,

inghiottito dall’oscurità. I lupi ricominciano a ululare la loro fame al cielo.

Avanti, Einar, avanti!

«Arjeplog! Arjeplog!» grida Einar, ridendo come un pazzo.

Ce l’ha fatta!

È arrivato!

La corda non brucia più, la slitta non pesa più. Ride e grida di gioia.

Eskil non morirà!

«Ti ho sconfitta, morte! Ti ho sconfitta ancora una volta!»

«Dottore!!!»

«Nick, mio piccolo amico!»

Com’è dolce la voce di Nick. Einar lo guarda avvicinarsi. Che bello vederlo camminare.

«Nick!»

«Dottore!»

Il ragazzo lo guarda inorridito, sembra sul punto di piangere!

«Dottore!» dice, e non riesce ad aggiungere altro. La gola gli si chiude.

Altre persone si avvicinano. Gli tolgono la corda dalle mani.

«Un momento» mormora Einar. Si china sopra Eskil, accostandosi al volto del compagno preda della febbre, e gli dice: «Eskil! Adesso sta a te! Fa’ di tutto per sopravvivere!»

«Fatemi luce!» ordina poi. Vorrebbe tanto accasciarsi a terra e lasciarsi portare a letto, ma il suo compito non è ancora terminato. Apre la borsa degli strumenti, tira fuori un foglio di carta e scrive qualche riga per i suoi colleghi a Stoccolma. La penna trema tra le sue mani gonfie e ferite, il foglio si tinge di rosso.

«All’aereo, presto!» ordina. «Fate in fretta!»

Il gruppetto parte.

Adesso è solo, ma non deve più trascinarsi dietro la slitta, solo il suo corpo stanco.

Si getta una coperta sulle spalle, trascina i piedi feriti uno davanti all’altro e va a casa.

«Anche questa è fatta» mormora felice. È tutto dimenticato, ogni promessa e ogni fatica.

Il fuoco arde nella stufa, Nick ha pensato a tutto, anche a riscaldargli il letto.

Einar si addormenta all’istante, senza sentire più nulla.

La mattina dopo il telefono prese a squillare, senza alcuna intenzione di smettere. Nick imprecò.

«Lasciatelo in pace» rispose. «Ha trascinato Eskil su una slitta per settantadue ore; sì, l’Eskil che ha tutte quelle renne. Per settantadue ore infernali!»

Ma il suo interlocutore non si arrese, continuò a pregarlo e a implorarlo…

«Einar… Einar… Dottore!»

Il ragazzo scosse delicatamente l’uomo addormentato.

Questi si mosse un poco, voltò la testa e mormorò senza aprire gli occhi: «Che c’è?»

«Ha telefonato Arbey. Sua moglie aspetta un bambino e ci sono delle complicazioni… Ma non puoi andare, dottore! Non te lo permetto!»

«Portami un caffè, Nick! Un caffè bello forte e i miei vestiti!»

Nella stessa collana Uao - letture intermedie Gallucci:

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 1. Il cuore sul prato (cinque edizioni)

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 2. Tutti in campo (due edizioni)

Cee Neudert, Pascal Nöldner Caccia ai mostri (cinque edizioni)

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 3. La coppa dell’amicizia (tre edizioni)

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia (sei edizioni)

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 2

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 3

Sabina Colloredo Fuoco nel bosco. I ragazzi della Quercia Storta (due edizioni)

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 4

Cee Neudert, Pascal Nöldner Caccia ai mostri 2. Salva la scuola dalle orribili creature (due edizioni)

C. Acerbi, E. Caillat, M. Guidi Millo & Cia - Avventure scout. Il mistero del palazzo maledetto

Reggie Naus, Mark Janssen I pirati della porta accanto (due edizioni)

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Morde! (due edizioni)

Christelle Chatel Il lupo e il leone (tre edizioni)

Sabina Colloredo SOS messaggio in mare. I ragazzi della Quercia Storta

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 5

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Sbava!

C. Acerbi, E. Caillat, M. Guidi Millo & Cia - Avventure scout. L’ombra della sera

Angelo Di Liberto Lea (cinque edizioni)

Eva Grynszpan Among Us (otto edizioni)

Reggie Naus, Mark Janssen I pirati della porta accanto. Alla conquista del parco!

Sabina Colloredo L’uragano. I ragazzi della Quercia Storta

Pippa Curnick Indaco Wilde e le strane creature di Jellybean Crescent

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Azzanna!

Bertrand Puard Agenzia del brivido. La scuola del terrore

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 6

Clémentine Mélois, Rudy Spiessert Notte di paura. Troppo sale nella pasta (due edizioni)

Pippa Curnick Indaco Wilde nelle Terre Sconosciute

Marco Cattaneo Casa Monelli

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Una matrioska di misteri

Annalisa Strada, Ivan Bigarella Gatti a catinelle

Beppe Tosco, Francesco Tosco, Alessandro Sanna La notte delle spazzature viventi

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Azzanna!

Susanna Isern, Laura Proietti Malvarina. Voglio essere una strega (due edizioni)

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 13. Il sogno americano

Clémentine Mélois, Rudy Spiessert Notte di paura. Lo scienziato pazzo

Eva Grynszpan Among Us 2. L’accademia (tre edizioni)

Brigitte Kernel Mi chiamo Charlie Chaplin e darò gioia ai tempi moderni

Susanna Isern, Laura Proietti Malvarina. Apprendista strega

C. Acerbi, E. Caillat, M. Guidi Millo & Cia - Avventure scout. Il tesoro sepolto

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 7

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 14. Sotto i riflettori

Sara Cristofori Cassey Almond e la lega delle anime perdute

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 15. La festa della Scuola

Christelle Chatel Emma e il giaguaro nero (due edizioni)

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Una cattedrale di ragnatele

Estelle Mialon Among Us 3. L’attacco zombi (due edizioni)

Alberto Manzi Testa Rossa

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 16. Un incontro inatteso

Marino Bartoletti La squadra dei sogni 4. Momenti di gloria

Angelo Di Liberto Il coraggio di Giovanni (tre edizioni)

Sara Cristofori Cassey Almond e l’Ordine del Caos

Cuca Canals Il giovane Poe. Il mistero di Morgue Street

Anne Goscinny, Catel Il mondo di Lucrezia 8

Cuca Canals Il giovane Poe. Lo strano caso di Mary Roget

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Un labirinto di specchi

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 17. L’incredibile piroette

Marco Cattaneo Casa Monelli. Il castello stregato

Alberto Manzi Il lungo viaggio di Einar (due edizioni)

Baccalario - Gatti - Stipari Maud West. Una matrioska di misteri

Charlotte Habersack, Fréderic Bertrand Non aprire questo pacco. Brilla!

Elizabeth Barféty, Magalie Foutrier Sarò una stella 18. E la tua danza qual è?

Cuca Canals Il giovane Poe. La casa degli orrori

Dello stesso autore:

Alberto Manzi

TESTA ROSSA

ISBN 979-12-221-0479-9

144 pagg. - euro 13,00

“Imparare a imparare, coltivare la curiosità e la fantasia, dare il meglio di sé da soli e in gruppo erano le regole non solo delle sue classi, ma anche dei personaggi dei suoi racconti d’avventura, come in Testa rossa”

Giulia Boero, Robinson – la Repubblica

“Con Alberto Manzi l’insegnamento è un raccolto”

Francesco Rigatelli, La Stampa

“Testa Rossa, un libro delizioso e scritto in un italiano magnifico che possono leggere anche i centenari”

Alberto Pezzini, Libero

Rudyard Kipling

STORIE PROPRIO COSÌ

traduzione e adattamento di Alberto Manzi disegni di Beatrice Galli

144 pagg.

ISBN 979-12-221-0781-3

euro 6,90

Com’è spuntata la gobba al Cammello? Perché il manto del Leopardo è maculato? Per quale ragione la proboscide dell’Elefante è tanto lunga? Com’è nata la scrittura?

Le Storie proprio così di Rudyard Kipling trovano una spiegazione magica e fiabesca a questi e molti altri interrogativi. L’osservazione della natura selvaggia diventa la poetica via d’accesso per scoprire non solo le peculiarità degli animali ma anche la legge morale dell’uomo che li osserva.

Robert Louis Stevenson L’ISOLA DEL TESORO

176 pagg.

ISBN 979-12-221-0681-6

euro 6,90

Jules Verne IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI

160 pagg.

ISBN 979-12-221-0680-9

euro 6,90

François Rabelais

LE AVVENTURE DI GARGANTUA

128 pagg.

ISBN 79-12-221-0683-0

euro 3,50

Rudyard Kipling

IL LIBRO DELLA GIUNGLA

224 pagg.

ISBN 979-12-221-0682-3

euro 6,90

Nella stessa collana:

Angelo Di Liberto LEA

disegni di Cecco Mariniello

196 pagg.

ISBN 978-88-3624-592-5 euro 12,50

“Lea, la storia (vera) di una cagnolina coraggiosa e dei suoi piccoli amici”

Giulia Ziino, 7Corriere

“La storia di Lea ha una svolta in giallo. La cagnolina si ritrova prigioniera, ma tirerà fuori una grinta prodigiosa che forse neppure lei sa di avere”

Rossana Sisti, Popotus - Avvenire

“Lea di Angelo Di Liberto è un romanzo che non risparmia la suspense e accende i fari su temi come amicizia e rispetto”

Carla Colmegna, Il Cittadino

“La storia di questa cagnolina insegna ad ascoltare, educa i piccoli lettori all’importanza del confronto e del rispetto dell’ambiente, li mette di fronte alla cronaca sui crimini contro gli animali. Perché è anche vedendo il male che si capisce il valore del bene”

Marta Occhipinti, la Repubblica

Angelo Di Liberto

IL CORAGGIO DI GIOVANNI

disegni di Damiano Rotella

96 pagg.

ISBN 979-12-221-0507-9

euro 10,00

“In questo romanzo Angelo Di Liberto racconta come il coraggio sia sempre stato un tratto del carattere di Giovanni Falcone”

Rossana Sisti, Popotus – Avvenire

“Una bella e interessante storia per far capire ai lettori più piccoli l’importanza della lotta alla mafia a cui Falcone dedicò con fermezza tutta la sua vita senza mai tirarsi indietro”

Alessandra Stoppini, Sololibri.net

“Raccontare Giovanni Falcone bambino significa mettere i lettori dagli otto anni nella condizione di immedesimarsi nel suo sentire, nelle sue paure e imparare, insieme a lui, a essere coraggiosi”

Francesca Cianfoni, Zebuk.it

Anne-Gaëlle Balpe

IL DIABOLICO LIBRAIO

disegni di Ronan Badel

240 pagg.

ISBN 979-12-221-0087-6

euro 13,50

Anne-Gaëlle Balpe MALIARDO DI UNO SCRITTORE

disegni di Ronan Badel

192 pagg.

ISBN 979-12-221-0591-8

euro 13,50

Sohan si precipita in libreria a comprare il libro appena uscito del suo autore preferito. Tra le pagine trova uno strano segnalibro dai riflessi cangianti: è un invito a entrare nella misteriosa “confraternita segreta dei lettori avventurieri”. Ma non sa che lui e i suoi amici stanno per essere risucchiati nella cospirazione del Diabolico Libraio…

Manolo vive in un circo, sogna di diventare domatore di otarie e i libri proprio non li sopporta. L’invito in classe al famoso scrittore Roland Dale si prospetta ora come il giorno più noioso della sua vita! Quell’autore, dicono tutti, è capace di stregarti. Il bello è che gli studenti vengono davvero ipnotizzati e rapiti…

Marco Cattaneo

CASA MONELLI

160 pagg.

ISBN 978-88-3624-830-8

euro 12,50

Marco Cattaneo

CASA MONELLI

LA CASA STREGATA

160 pagg.

ISBN 979-12-221-0642-7

euro 12,50

“Casa Monelli di Marco Cattaneo è un libro spassosissimo che piacerà da impazzire ai bambini”

Zebuk

“In Casa Monelli Marco Cattaneo fa ridere di gusto raccontando, con le parole e le vignette, i maldestri tentativi di tre fratelli decisi a mettere in fuga i nuovi sgraditi vicini”

Renata Maderna, Famiglia Cristiana L’appartamento di fianco a quello della famiglia Monelli, al quinto piano di un condominio signorile, viene improvvisamente messo in vendita. La notizia riempie di eccitazione i bambini di casa Monelli, due fratelli e una sorella, che convocano d’urgenza una riunione segreta nella loro tenda degli indiani. Devono escogitare un piano che permetta di scegliersi i nuovi vicini e mettere in fuga quelli sgraditi.

Susanna Isern MALVARINA

VOGLIO ESSERE STREGA

disegni di Laura Proietti

128 pagg.

ISBN 978-88-3624-805-6

euro 13,90

Susanna Isern MALVARINA APPRENDISTA STREGA

disegni di Laura Proietti

128 pagg.

ISBN 979-12-221-0096-8

euro 13,90

In cima al paesino di Villagrigia, circondato dal Bosco Incantato, sorge il Castello Proibito, dove vivono tre streghe malvagie: Mirta, Melania e Muschia. Tutti gli abitanti hanno una gran paura di loro e si tengono alla larga dal lugubre maniero… Tutti tranne Malvarina, una buffa bimba di nove anni con un sogno nel cassetto: diventare una strega!

Malvarina torna a Villagrigia, decisa a mettere in pratica tutto quello che ha imparato al Castello Proibito. Ma gli abitanti non credono che sia diventata una vera strega! Per dimostrarglielo, quale migliore occasione della festa di paese? In fondo, però, lei è ancora un’apprendista, e i guai sono sempre dietro l’angolo…

8

Eva Grynszpan AMONG US

disegni di Mathieu Demore

160 pagg., euro 11,50

ISBN 978-88-3624-656-4

3 EDIZIONI

Estelle Mialon AMONG US. L’ATTACCO ZOMBI

disegni di Mathieu Demore

160 pagg., euro 12,50

ISBN 979-12-221-0375-4

Eva Grynszpan AMONG US. L’ACCADEMIA

disegni di Mathieu Demore

160 pagg., euro 11,50

ISBN 978-88-3624-981-7

“Le situazioni paradossali di Among Us strappano sempre qualche risata, anche perché è una commedia di humour nero. È un’avventura che si può vivere da soli, senza connessione, al fresco sotto l’ombrellone. È un perfetto passatempo”

Gabriele Di Donfrancesco, Robinson - la Repubblica

“Il fine della scrittrice Eva Grynszpan è ammirevole, con Among us cerca di portar fuori dagli schermi luminosi i bambini, facendoli ritornare alla carta stampata, grazie ad interazione e personaggi che già conoscono”

Migliori Giochi

MILLO & CIA - AVVENTURE SCOUT

IL MISTERO DEL PALAZZO MALEDETTO

128 pagg. - euro 9,90

ISBN 978-88-3624-581-9

MILLO & CIA - AVVENTURE SCOUT

IL TESORO SEPOLTO

144 pagg. - euro 9,90

ISBN 978-88-3624-997-8

MILLO & CIA - AVVENTURE SCOUT

L’OMBRA DELLA SERA

144 pagg. - euro 9,90

ISBN 978-88-3624-759-2

“Con Millo & Cia brividi, fifa e divertimento sono garantiti” Rossana Sisti, Avvenire

“L’obiettivo era rappresentare due bambini reali e tutt’altro che perfetti in cui i coetanei si potessero riconoscere”

Camillo Acerbi a Il Resto del Carlino

“Gli ingredienti di Millo & Cia: avventura, divertimento e un pizzico di suspense” Zebuk

Camillo Acerbi, Emanuelle Caillat, Mauro Guidi
Camillo Acerbi, Emanuelle Caillat, Mauro Guidi
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Reggie Naus

2 EDIZIONI

Reggie Naus

I PIRATI DELLA PORTA ACCANTO disegni di Mark Janssen

128 pagg.

ISBN 978-88-3624-312-9

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I PIRATI DELLA PORTA ACCANTO NINJA ALL’ATTACCO! disegni di Mark Janssen

160 pagg.

ISBN 978-88-3624-647-2

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I PIRATI DELLA PORTA ACCANTO ALLA CONQUISTA DEL PARCO disegni di Mark Janssen

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ISBN 978-88-3624-471-3

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I PIRATI DELLA PORTA ACCANTO 1, 2, 3… ALL’ARREMBAGGIO! disegni di Mark Janssen

144 pagg.

ISBN 978-88-3624-905-3

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Stampa: Tecnostampa - Pigini Group Printing Division
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