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travolgente
rigo fu determinante. «Nell’autunno del 1982 portai Jean-Michel alla Factory», ricorda Bruno Bischofberger. «Avevo un accordo con Warhol che mi autorizzava a proporre articoli per Interview - una rivista che avevamo fondato insieme nel 1969 - su giovani artisti che mi sembravano interessanti e anche a portarne per farsi ritrarre da lui. Quando gli feci il nome di Jean-Michel Basquiat, sembrò piuttosto sorpreso. Non conosceva il suo lavoro recente e, in un paio di occasioni in cui lo aveva visto, lo aveva trovato troppo sfacciato. Fidandosi del mio giudizio accettò: il giorno della sessione, il 4 ottobre 1982, Warhol fotografò Basquiat con la sua Polaroid. Jean-Michel fece altrettanto e mi chiese di ritrarli anche in qualche scatto insieme. Poi si congedò rapidamente senza partecipare al tradizionale buffet freddo che conclu- deva queste occasioni. Avevamo appena finito di pranzare quando l’assistente di Basquiat comparve con un doppio ritratto di Warhol e Basquiat su una tela di 150 x 150 centimetri, ancora fresca», ricorda il gallerista. Il quadro, che tutti i visitatori e dipendenti della Factory ammirarono, venne battezzato Dos Cabezas, ed è quello che apre oggi il percorso della mostra. Subito dopo Warhol contraccambiò ritraendo Basquiat. La scintilla era innescata.
In prima battuta ne nacque, su proposta di Bischofberger, un progetto a distanza che coinvolgeva anche un terzo artista della sua scuderia, l’italoamericano Francesco Clemente: sul modello del cadavre exquis surrealista, diede origine a una quindicina di lavori che espose poi nella sua galleria e che costituiscono un nucleo di grande interesse anche dell’odierna mostra. Entusiasti, i due decisero di proseguire, loro soltanto, e la collaborazione si fece più assidua e organica, portandoli a dipingere fianco a fianco alla Factory.
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Celeberrimo, uno fra gli scatti iconici realizzati dal fotografo Michael Halsband per promuovere la mostra che a New York presentava per la prima volta, nel 1985, le opere frutto della collaborazione fra Warhol e Basquiat (Andy Warhol and Jean-Michel Basquiat #143 NY City, 10 luglio 1985, stampa ai sali d’argento ed. 1/1, 2019-2023, 152,4 x 121,92 cm). Altrettanto efficace nel cogliere le due personalità, il dipinto con cui Jean-Michel si era conquistato l’attenzione di Andy, il 4 ottobre 1982: Dos Cabezas, acrilico e matita grassa su tela, 152,4 × 152,4 cm, Collezione privata.
«Quando incontrai nuovamente Warhol, nella primavera del 1985, mi disse che lui e Jean-Michel stavano collaborando intensamente alla Factory da diversi mesi. Sembrava un po’ imbarazzato, probabilmente perché nessuno dei due me ne aveva parlato prima. Dato che ero sia il suo mercante che quello di Basquiat, malgrado non avessi questa volta commissionato io i lavori, accettarono di affidarmeli. Mi mostrò un buon numero di queste opere - grandi, la maggior parte intorno ai 200 × 300 centimetri, alcune di 300 x 500 o 600 cm - che mi sorpresero e mi entusiasmarono. Nel complesso, Warhol aveva adottato uno stile da poster, con ingrandimenti araldici dipinti a mano di immagini pubblicitarie, titoli di giornali e loghi aziendali, ma anche aggiungendo pennellate molto libere, come in alcune delle sue prime opere, quelle del 1961 e dell’inizio del 1962. Basquiat, che di solito era il secondo a intervenire, fondeva la sua iconografia spontanea, espressiva ed espansiva con quella di Warhol. Gliene comprai un intero gruppo, che decidemmo di esporre a New York, alla Tony Shafrazi Gallery», racconta Bruno Bischofberger. Fu però anche l’episodio che portò all’allontanamento: colpito dalle recensioni negative, Basquiat rimase infastidito soprattutto che lo si presentasse come la mascotte di Warhol e preferì proseguire per la propria strada, pur senza che la stima venisse meno e si mantennero sempre in contatto e attenti alle rispettive opere. «Dopo la scomparsa di Warhol, nel febbraio del 1987, Basquiat era così sconvolto che mi chiese di selezionare per lui, alla Factory, metà dei dipinti che non avevo ancora comprato, perché non era in grado di farlo da solo. Fu così che ebbi la possibilità di acquisire altre di queste opere straordinarie», spiega il gallerista. Come all’epoca il suo ruolo è stato determinante per far nascere una grande amicizia e collaborazione, lo è stato adesso per allestire la mostra della Fondation Louis Vuitton, di cui è consulente speciale, nonché prestatore di una trentina fra le ottanta collaborazioni esposte.
Due fra le opere più iconiche del sodalizio artistico di Basquiat e Warhol: dall’alto, 6.99, 1985, acrilico e pastelli a cera su tela, 297,2 x 410 cm, Collection Nicola Erni, e OP OP, 1984-85, acrilico su tela, 287 x 417 cm, Collection Bischofberger, Männedorf-Zurich.



Sotto, uno scatto d’epoca li ritrae con il loro gallerista Bruno Bischofberger e, alla sua destra, Francesco Clemente, coinvolto nell’iniziale collaborazione a tre.
«Il fatto che due artisti così importanti abbiano lavorato insieme è un unicum. Soprattutto Warhol, che sono sempre stato convinto sia l’artista più importante della seconda metà del XX secolo: attraverso tutto ciò che ha realizzato, ha influenzato una moltitudine di persone, incoraggiandole a sviluppare un modo diverso di guardare il mondo. Basquiat, all’epoca del loro primo incontro, vendeva le sue cartoline per strada e non riusciva a guadagnare con i graffiti che firmava SAMO© sui muri delle case. Ma la sua carriera è decollata grazie alla sua pittura, che è stata straordinaria fin dall’inizio, soprattutto quando, dopo i primi lavori, quasi monocromatici e ancora vicini alla scrittura dei graffiti, ha iniziato a dipingere a colori, alla fine del 1981 o all’inizio del 1982. È stato allora che ho capito che aveva un talento incredibile», rivela Bruno Bischofberger.
Il percorso allestito negli spazi della Fondation Louis Vuitton riesce finalmente a testimoniare in tutto il loro valore artistico gli esiti di questo potente connubio: le 160 opere presentate includono una ottantina di dipinti firmati congiuntamente, e dieci realizzati con Clemente, oltre a lavori individuali, e una serie di opere di altri grandi nomi come Keith Haring, Jenny Holzer e Kenny Scharf che evocano l’energia della scena artistica della downtown newyorkese di quegli anni. Una chicca è la Sezione 5 che presenta la celebre serie di scatti Boxing Gloves realizzata dal fotografo Michael Halsband, in cui i due artisti vengono ritratti mentre si atteggiano a boxeur, rivelando una complicità giocosa. Splendide immagini in bianco e nero che Basquiat aveva commissionato per promuovere la fatidica mostra alla Tony Shafrazi Gallery. È stata scelta proprio una rielaborazione grafica, virata sulle tonalità pop del giallo e del fucsia, del più iconico fra questi scatti come locandina della mostra: braccia incrociate sul petto con i guantoni ben in evidenza sotto il mento, espressioni fisse e serie, un improbabile maglioncino a collo alto sopra i calzoncini da pugilato per Andy, scolpito anche nella sua pettinatura afro Basquiat, guardano dritto negli occhi lo spettatore. Per un incontro che lascia il segno.
Mirta Francesconi