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Ricordi 13 -

II

serie

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Maria Giunco Tra i banchi di scuola ha lasciato qualcosa che non è rimasto solo lì, ma è stato preso da ogni suo alunno. E quando ci sono le rimpatriate, i bimbi di allora la chiamano per ricordarle quanto bene hanno ricevuto di William Di Marco

Maria Giunco

I

Essere maestra nel dopoguerra ha significato per la nostra protagonista vivere una dimensione di un’altra epoca, non solo perché ormai sono passati diversi anni da quelle esperienze, ma soprattutto perché la povertà di alcune zone si rifletteva anche sui bambini che frequentavano le sue classi. Ma l’affetto, quello sì, è stato sempre lo stesso, legato indissolubilmente anche all’educazione e al rispetto delle regole

ricordi

l lato amorevole non può mancare in una donna. Soprattutto se questa è costantemente a contatto con dei bambini. Allo stesso tempo occorre essere decisi e farsi rispettare, come se le regole non fossero scritte in nessun libro o testo sacro, ma dipendessero unicamente dalla voce e dagli insegnamenti di chi queste le deve impartire. Non giriamoci oltremodo intorno al nostro obiettivo, perché la maestra unica di un tempo è radicata nell’immaginario dei nostri racconti, in quello più esaltante del periodo dei giochi della nostra infanzia, una figura che rimane nell’olimpo dei ricordi, nel mondo che Platone volle indicare con l’Iperuranio, che altro non è che la sfera più intima della nostra esistenza. Per Maria Giacomina Giunco quel vestito di educatrice dei bambini e bambine rosetane sembra esserle stato cucito addosso da uno statista della II Guerra Mondiale, lei che quel conflitto lo visse intensamente. E se Winston Churchill indicava quello che necessitava usare per gli Italiani che un po’ birichini lo erano stati, lei ripete che quel “bastone e la carota” bisogna saperli modulare, in modo particolare quando di fronte si ha un giovane arbusto che necessita di aiuto per farlo crescere nel modo migliore possibile. E se scalziamo la metafora da questo linguaggio con sfumature allusive, ci rimane lo scarno pragmatismo utile a indicarci del perché tantissimi suoi ex scolari ancora oggi la invitano alle rimpatriate oppure la fermano e nel salutarla rimarcano tutto il riconoscimento per ciò che lei ha fatto per loro. «Il “bastone e la carota” è stato il mio principio illuminante per far crescere i giovani che mi erano stati assegnati, sapendo che dovevo essere dolce con loro e allo stesso tempo severa quando occorreva esserlo». Una regola semplicissima, antica come il mondo, ma sempre valida e attuale, superiore a qualsiasi pedagogismo teorico e alle volte pedante. La sua è stata una scuola all’antica, non

tanto perché legata a un periodo storico che oggi va visto con la lente di chi osserva le decadi passate, quanto per quel ruolo così centrale che aveva la maestra unica. Molto dipendeva dalle abilità che questa possedeva nell’insegnare le nozioni fondamentali a colui o colei che sarebbe stato il futuro studente delle Medie Inferiori e Superiori o di chi già iniziava una vita lavorativa. Quella fascia di età è così “spugnosa” che un bambino dai sei ai dieci anni assorbe una quantità infinita d’informazioni e di atteggiamenti. Ecco perché quella figura, ormai anche mitizzata dalla letteratura di settore, era così importante. E la maestra Maria Giunco tutto questo onere non lo sentiva sulle proprie spalle come un dovere, ma come una responsabilità umana di una persona che doveva relazionarsi con altre persone, certo piccole d’età, ma che avevano una forte anima in fieri. E così lei curava questi teneri fiori per farli crescere nel migliore dei modi e se ogni tanto bisognava essere duri per farsi rispettare, la volta successiva lei tornava ad essere la donna dalla bontà che poi nella vita ha dimostrato di essere. Verrebbe da dire: “Che bel lavoro la maestra!”, ma sorvoliamo la caduta retorica, anche se ci piacerebbe che ognuno dei nostri lettori, nel proprio intimo, si appropriasse di tale esclamazione. Campli, Roseto, Campli: un’infanzia ping-pong tra questi due paesi. Potremmo dire che i luoghi citati sono stati quelli in cui sono nata, sono cresciuta e dove mi sono rifugiata. Venni al mondo a Campli il 25 luglio 1929. La mia famiglia stava abbastanza bene, poiché papà Amilcare lavorava nell’ambito delle imposte di consumo, cioè il dazio, e girava per diversi paesi della provincia. Siccome curava anche le riscossioni di Roseto e dell’entroterra, decise di venire ad abitare sulla costa. Io non seguii subito i miei genitori. Rimasi con i nonni a Campli, ma


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