Adò - Laboratorio Adolescenza - Vol. 3 - n. 1 - 2020

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ISSN 2704-5633

Volume 3 - Numero 1

2020

Social insonnia Le notti troppo brevi degli studenti

CRESCERE CON L’EPIDEMIA Gli adolescenti e il virus

DOSSIER

Come comunicare con i ragazzi

SCUOLA

La grande crisi degli abbandoni

MITI GIOVANILI

Da grande farò il fumettista


Per i grandi problemi dei piccoli.

Integratore alimentare a base di:

MELATONINA CAMOMILLA, MELISSA


www.adoweb.org

Adò

Quadrimestrale

Volume 3 - Numero 1

2020

Chi

siamo - Laboratorio Adolescenza è una Associazione libera, apolitica ed aconfessionale, senza fini di lucro che ha come obiettivo quello di promuovere e diffondere lo studio e la ricerca sugli adolescenti, sotto il profilo sociale, psicologico e medico. L’Associazione nasce dall’idea di creare un punto di riferimento scientifico e culturale, per chi si occupa di adolescenza, che avesse nella multidisciplinarietà il proprio connotato distintivo. Ne fanno parte psicologi, sociologi, pediatri, insegnati, giornalisti, esperti di comunicazione, genitori che a vario titolo, professionale o personale, sono a stretto contatto con l’adolescenza. L’associazione è aperta al contributo di idee e impegno di chiunque abbia interesse - condividendone finalità e statuto - sia a livello individuale che associativo, allo studio e alla ricerca sull’adolescenza.

Sito internet: www.laboratorioadolescenza.org

e-mail: laboratorio.adolescenza@gmail.com

L’INDICE L’EDITORIALE ORGANO UFFICIALE di

LA RICERCA CORONAVIRUS

Direttore Editoriale Riccardo Renzi

IL DOSSIER

Comitato di Redazione Gianni Bona Carlo Buzzi Rocco Cafarelli Teresa Caputo Francesco Dell’Oro Alessandra Marazzani Roberto Marinello Gianluigi Marseglia Simona Mazzolini Marina Picca Roberta Quagliuolo Gian Paolo Salvioli Fulvio Scaparro Maurizio Tucci

3 GLI ADOLESCENTI BULLIZZATI DAI MASS MEDIA 4 L’INSONNIA È SOCIAL 10 SARANNO LORO A DARCI IL BUON ESEMPIO PARLARE AI RAGAZZI (E FARSI DAR RETTA) 15 COME Per passare dalla chat al dialogo Riccardo Renzi Maurizio Tucci Maurizio Tucci

bisogna dare valore alle parole Alessandra Marazzani

La quotidiana fatica di superare la barriera del linguaggio Teresa Caputo

L’ardua conquista della fiducia Marina Picca

L’importante è farlo parlare, meglio da solo Maria Teresa Zocchi

Abbiamo bisogno di ballare un “lento”

Redazione Junior Cecilia Alberti Isabella Liburdi

Cecila Alberti

Staff Editoriale Direttore Responsabile Pietro Cazzola Direzione Marketing e PR Donatella Tedeschi Comunicazione e Media Ruben Cazzola Grafica e Impaginazione Cinzia Levati Affari Legali Avv. Loredana Talia (Milano) Stampa ÀNCORA s.r.l. - Milano

Isabella Liburdi

Ma perché volete sempre sminuirci? Chi l’ha detto che la storia è noiosa? Intervista a Paolo Colombo

LA SCUOLA

NUMERI CHE SPIEGANO LA CRISI 22 IDEGLI STUDENTI Rocco Cafarelli

MITI GIOVANILI

26 DA GRANDE VOGLIO FARE IL FUMETTISTA Edoardo Rosati

HAI MAI INCONTRATO JOKER? Maria Francesca Basoni

magazineado@gmail.com Tutti i diritti di riproduzione in qualsiasi forma avvenga, sono di proprietà dell’Editore. Registrazione Tribunale di Milano n. 01 del 04.01.2018

Perché una rivista online? sfogliabile e scaricabile su: www.adoweb.org - Perché rappresenta la rivoluzione del concetto di rivista, di aggiornamento, di letteratura, accelera la diffusione di idee ed esperienze e sostiene in tempo reale l’evoluzione del pensiero; - Perché fornisce un accesso facilitato ed immediato ad articoli, argomenti, approfondimenti sui temi più vari, a portata di mano senza alcun pagamento; - Perché condivide la conoscenza, attraverso un nuovo approccio alla lettura: la rivista diventa uno strumento fondamentale, che migliora l’innovazione, l’efficienza e l’interazione culturale tra lettori ed Autori; - Perché realizza l’espansione oltre misura della conoscenza, ne permette condivisione e diffusione, attraverso i dispositivi palmari e portatili che ormai appartengono a tutti.

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L’EDITORIALE

Riccardo Renzi Giornalista.

GLI ADOLESCENTI BULLIZZATI DAI MASS MEDIA G

li adolescenti bevono, si drogano, maltrattano gli insegnanti (quando non intrecciano relazioni intime con loro), bullizzano i compagni, sono colpevoli di atti di violenza, razzismo, omofobia e vandalismo. E ne combinano di tutti i colori sul web. Stando alle notizie che leggiamo, sembra che sia così. Le seguo con interesse professionale, visto che sono un giornalista e sono anche membro di Laboratorio Adolescenza. E devo ammettere che il quadro che emerge è sconfortante. Ma anche che è troppo brutto per essere vero. Sia chiaro, la gran parte di quelle notizie ha un fondo di verità, ma non c’è dubbio che forse quelle cronache godono di enfasi eccessiva. C’è naturalmente il solito vecchio problema dell’uomo che morde il cane. E che notizia sarebbe quella di un adolescente che si comporta bene? Si possono trovare su Youtube (ho passato un pomeriggio a cercare) molti video di bravi ragazzi, di buone azioni da boyscout: per esempio alunni che festeggiano affettuosamente insegnanti che vanno in pensione o che rientrano dopo una grave malattia. Roba francamente impubblicabile. Ma se il prof. viene picchiato o umiliato, beh allora… Mi sembra tuttavia che ci sia qualcosa di più della classica distorsione mediatica. Siamo un Paese di vecchi e ho come l’impressione che i media si siano conformati a un atteggiamento da nonni brontoloni che se la prendono con i giovani “delinquenti” e che, dai tempi di Plinio, appunto, il Vecchio, prevedono di conseguenza un nero futuro. Personalmente frequento e conosco un po’ di adolescenti e nessuno di loro mi sembra Joker (vedi a pagina 28), ma so benissimo che le esperienze personali non contano e non fanno statistica. Affidiamoci allora alle statistiche, quelle per esempio delle ricerche condotte in questi anni da Laboratorio Adolescenza, di cui mi fido, e che abbiamo via via pubblicato in questo giornale. Emerge un quadro che segnala qualche criticità (e quando mai l’adolescenza non ha avuto criticità?), ma complessivamente vediamo ragazzi abbastanza consapevoli dei problemi, sensibili per esempio ai temi ambientali, salutistici e al rispetto di genere (che

significa poi rispetto per le persone). D’accordo, le nostre ricerche riguardano un ambiente scolastico e sappiamo che nel frattempo, prima del diploma, la scuola si perde il 14,5% dei nostri ragazzi (vedi a pagina 22). Ma è davvero colpa loro? D’accordo, emerge spesso una certa ignoranza, un abbassamento di livello culturale, anche tra quelli che a scuola ci restano. E anche di questo sono loro gli unici responsabili? Spesso ci si accontenta (e assolve) dando tutta la colpa a Internet. I giornali strillano scandalizzati che molti ragazzi (dal 30 al 40%, nei diversi rilevamenti) passano “più di tre ore al giorno” al telefonino. Questo intanto significa che la maggioranza ci sta per meno tempo. E chiediamoci anche: quanto tempo ci passano gli ex-adolescenti? Si dà per scontato però che il loro è tutto tempo buttato via, passato, nella migliore delle ipotesi, a giocare e chattare con fidanzati e fidanzate. Ma quanto tempo passavamo noi al telefono, e, parlo da maschio, ai giochi da bar? L’unica differenza (beati loro…) è che possono farlo anche di notte, anche se si crea un problema di scarsità di sonno. E questa è appunto una delle “criticità” che affrontiamo in questo numero. Una recente ricerca di Save the Children-Italia, pubblicata in occasione del Safer Internet day, rileva peraltro che il 67% degli adolescenti segue attraverso la rete cause sociali e ambientali. Sorpresa: non si limitano quindi a chattare di baggianate. Ne abbiamo infatti visti tanti riempire le piazze, magari accompagnati dai genitori, per aderire a un flash-mob di Greta o delle Sardine o di chiunque altro. Abbiamo visto persino ricomparire a Venezia i mitici “angeli del fango”. Forse non sono davvero tutti così egoisti e indifferenti, come si dice. Troppo “buonista” dirà qualcuno. Può darsi. Ma dopo tutto il compito di Laboratorio Adolescenza è anche quello di difenderli, anche dalle malelingue dei colleghi.

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LA RICERCA

L’INSONNIA È SOCIAL Troppo brevi, secondo una nostra indagine, le notti degli adolescenti. Illuminate da smartphone e tablet, tra internet e serie Tv. E così il sonno fatica ad arrivare Maurizio Tucci Presidente Laboratorio Adolescenza

U

no dei temi più interessanti affrontati nell’edizione 2018-2019 dall’indagine sugli stili di vita degli adolescenti – realizzata da Laboratorio Adolescenza e Istituto di Ricerca IARD su un campione nazionale rappresentativo di 2000 studenti frequentanti la terza media (fascia di età 12-14 anni) – ha riguardato “il sonno”. Argomento delicato, di cui si sa e si parla poco, perché sono pochi gli studi scientifici sulla materia, specie riguardo la fascia d’età adolescenziale. Le indagini di Laboratorio Adolescenza e IARD – che non sono indagini epidemiologiche ma “sociali” – rappresentano comunque un buon punto di osser-

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vazione e sono di sicuro aiuto per chi segue gli adolescenti dal punto di vista medico e psicologico. Lo è stata l’indagine sulla “cefalea” (realizzata lo scorso anno) e crediamo che lo sarà anche questa sul sonno, come pure quella in corso di realizzazione sul rapporto con il medico e l’utilizzo dei farmaci. Venendo alle evidenze emerse dall’approfondimento sul sonno – che si è avvalso del supporto scientifico della Associazione Culturale Pediatri (ACP) – troviamo che gli adolescenti dormono meno di quanto sarebbe necessario alla loro età, vanno a letto molto tardi, fanno fatica ad addormentarsi ed

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hanno un sonno spesso disturbato da frequenti risvegli. E si scopre anche – quale sorpresa – che una delle cause di questo dormire poco e male risiede nella costante “connessione” – effettiva e/o psicologica – con il loro ambito relazionale, attraverso Internet e i Social. Solo il 6,8% del campione intervistato afferma di dormire almeno 9 ore per notte (“dose” di sonno che gli esperti indicano come opportuna a quell’età), mentre il 20% dorme addirittura meno di 7 ore. D’altra parte, andando a letto tra le 22.00 e le 23.00 (55%) o dopo le 23.00 (28%), di tempo per riposare adeguatamente, specie se si è in periodo scolastico, non ne resta molto.


All’andare a letto tardi spesso contribuisce proprio lo studio. Non che studino a ciclo continuo: la media di ore di studio è – alle scuole superiori – di 2,5 ore al giorno (generalmente sale ai licei e scende alle scuole tecniche), ma è sempre più diffusa – i genitori confermano – la pessima abitudine di studiare la sera, dopo cena. Troppi compiti o pessima gestione del tempo? Il dibattito è aperto e acceso, anche se non è azzardato rispondere come avrebbe fatto un memorabile personaggio di Corrado Guzzanti: “la seconda che hai detto”. In ogni caso, una volta spenta finalmente la luce, il 72% delle femmine e il 58,5% dei maschi sostiene di avere problemi ad addormentarsi (al 13% il problema si presenta spesso). Oltre il 40% passa da mezz’ora a più di un’ora prima di riuscire a prendere sonno. Anche i risvegli notturni risultano più frequenti di quanto non sarebbe ragionevole aspettarsi da ragazze e ragazzi di quell’età e al 66% (72,3% delle femmine) capita (qualche volta o spesso) di svegliarsi durante la notte e di non riuscire più ad addormentarsi.

NOTTI TRA NETFLIX E FACEBOOK Compagno di questo riposo notturno “frastagliato” – come abbiamo già accennato – è l’immancabile telefonino, attraverso il quale gli adolescenti continuano a rimanere connessi con il loro mondo “social”. Connessione che va dal “Non spegnere il cellulare neanche di notte” (66% delle femmine e 56% dei maschi), all’avere l’abitudine di inviare messaggi sui social anche di notte (60% delle femmine e 56% dei maschi). E gli effetti negativi di questa connessione H24 hanno un chiaro riscontro “numerico”: dorme meno di sette ore per notte il 14,7% di quelli che lo spengono e il

32,9% di quelli che lo lasciano acceso; così come tra chi lo tiene acceso aumenta la percentuale di chi fa fatica a prendere sonno (69,2% vs 61%). Ma cosa fanno i teen-insonni quan-

do non riescono ad addormentarsi o si svegliano nel cuore della notte? La maggioranza (44% delle femmine e 36% dei maschi) si rituffa in Internet tentando di utilizzare come “sonnife-

Ti capita, durante la notte, di messaggiare con i tuoi amici sui social network? %

2019

MASCHI

FEMMINE

Mai

42,0

44,2

39,7

Qualche volta

40,9

37,5

44,5

Spesso

15,8

16,7

14,7

I motivi per cui dormono male – risposta multipla %

Totale

MASCHI

FEMMINE

La sera mi vengono tanti pensieri

63,8

56,1

71,8

Non ho sonno all’ora giusta

60,5

59,1

62,0

Sono preoccupato/a per la scuola

55,1

48,8

61,6

Mi sento nervoso/a

47,1

39,5

54,8

Mi sento triste

37,9

26,3

49,9

Sono preoccupato/a per gli amici

26,0

21,1

30,9

Altro

9,5

10,5

8,5

Cosa fare per migliorare il riposo notturno – risposta multipla %

Totale

MASCHI

FEMMINE

Ritmi di vita regolari

82,0

81,6

82,5

Attività sportiva durante il giorno

79,0

79,0

79,0

Alimentazione sana

73,0

71,9

74,2

Cellulare spento e lontano dal letto

65,9

63,9

68,0

Non assunzione di bevande eccitanti (tè, cola...)

57,1

54,5

59,7

Studio non eccessivo di sera

53,3

52,6

54,1

Utilizzo contenuto di cellulare, tablet, PC…

44,6

42,6

46,7

Non essere da solo/a in camera

21,6

20,4

22,9

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Adò - Laboratorio Adolescenza - 2020; 3, 1.


CELLULARE SPENTO PERCHÉ

Martina, 2° liceo Scientifico Perché me lo impone mia madre, o meglio, le sue paranoie. Se per sbaglio lascio acceso il cellulare, mia madre lo percepisce, sente la puzza delle radiazioni, la sente sulla sua pelle! Quindi con la delicatezza di Bud Spencer entra in camera mia, accende le luci, mi sveglia, mi fulmina con lo sguardo e mi chiede come abbia osato lasciare quel maledetto affare acceso. Io mezza addormentata lo spengo; si accerta che sia davvero spento e se ne va sbattendo la porta! A parte gli scherzi, credo sia giusto spegnerlo almeno di notte. Penso di usarlo troppo e non voglio esserne dipendente più di quanto lo sia già.

ro” una delle cause dell’insonnia, in una sorta di bizzarra terapia omeopatica. I Social sono sempre il primo pensiero, se non altro per controllare se il bottino di like e followers è aumentato, ma fanno la loro parte anche le piattaforme (Netflix e simili) in cui poter vedere i film e le serie televisive di tutto il mondo. Molti di loro poi si mettono almeno a messaggiare con gli amici: spesso (15,8%) o qualche volta (40,9), sono comunque una larga maggioranza. Meno del 10% – e non ci stupisce – prova a leggere qualche pagina di un libro.

TROPPI “PENSIERI”

CELLULARE ACCESO PERCHÉ Miranda, 3° liceo scientifico

“Dormo con il cellulare acceso perché ho la sveglia” è la scusa più comune che si potrebbe sentir dire per non riconoscere la realtà dei fatti. Perché potremmo comprare delle radio sveglie e spegnere, almeno quando dormiamo, quei dannati cellulari. Invece non lo facciamo; vi siamo così attaccati che ci siamo dimenticati come era vivere senza. Sono diventati una parte importante delle nostre vite in cui custodiamo ogni ricordo e memoria. Questa assidua presenza ci ha fatto anche perdere il gusto del “dolce far niente” quando, ad esempio, siamo in una sala d’attesa o aspettiamo l’autobus. Apriamo inesorabilmente il primo social network che ci capita e siamo bombardati da qualsiasi tipo di informazione possibile. C’è sempre qualcosa che gli altri hanno fatto e tu no. È il famoso FOMO (fear of missing out), ovvero, la paura di essere “tagliati fuori”. Il risultato è che ci sentiamo sempre indietro rispetto al mondo che corre mille volte più veloce di noi. Per restare al passo ci stremiamo, non dormiamo e siamo sempre più stanchi. A volte basterebbe solo spegnere il telefono per cercare di spegnere i pensieri che ci tengono svegli. Altrimenti finiremo per diventare degli insonni in un mondo che non sa più dormire.6 Adò eterni - Laboratorio Adolescenza - 2020; 3, 1.

Agli albori del terzo millennio, il “garzoncello scherzoso” dell’età fiorita di Leopardi non sembra essere così scherzoso se riferisce che il principale motivo per cui dorme male sono i “pensieri”. Pensieri riguardo se stessi, gli amici, la famiglia, la scuola… che tengono sveglie addirittura il 72% delle ragazze. Ma tra le cause principali indicano anche il non avere sonno all’ora giusta. Dopo aver faticato ad alzarsi la mattina (82%) e aver sonnecchiato durante le prime ore a scuola (vedi box), proseguono nel corso della giornata con difficoltà – causa sonno – a svolgere le abituali attività quotidiane (55%), spesso col mal di testa (40%), fino a che, col calar delle tenebre, i figli di Halloween si svegliano perfettamente e iniziano a navigare nel web guidati non dalla stella polare, ma dall’influencer di turno. Sul come venir fuori da questa pericolosa inversione giorno-notte, in teoria sono bravissimi e consapevoli, e indicano correttamente gli stili di vita virtuosi quali “ritmi di vita regolari”, “attività sportiva quotidiana”, “alimentazione sana” e – soprattutto – “cellulare spento durante la notte”. Peccato che poi razzolino molto peggio di come predicano.


EMERGENZA “PRIMA ORA”

Le pediatre

IL RITARDO NON VA SCUSATO Nella stragrande maggioranza dei casi dei casi l’insonnia non viene affrontata. E rischia di essere sottovalutata

L

a carenza di sonno, specie durante l’età dello sviluppo, non è un dettaglio da sottovalutare. Ma non è solo un problema strettamente quantitativo. Maria Luisa Zuccolo, responsabile del Gruppo di lavoro adolescenza dell’Associazione Culturale Pediatri, che ha direttamente collaborato nella progettazione dell’approfondimento di indagine sul sonno, spiega: “Ritardare più del dovuto il momento di andare a letto può determinare la comparsa di un vero disturbo del ritmo sonno-veglia dovuto alla mancata sincronizzazione tra ritmo interno (tentativo di dormire in un momento incompatibile col proprio orologio interno) e ritmo imposto dalle esigenze sociali (alzarsi per andare a scuola). Le dimensioni di questo problema, chiamato Sindrome da fase del sonno ritardata, risultano essere maggiori rispetto alle conoscenze legate ai pochi dati di letteratura al riguardo, che attribuiscono alla sindrome una prevalenza nella popolazione adolescente tra il 7 e il 16%. Secondo invece i dati dell’indagine da noi condotta – seppure non si tratti di una indagine epidemiologica – il problema ha un impatto enormemente maggiore e la cosa deve farci riflettere”. A questo si aggiunge che il dormire poco e male spesso non viene affrontato con la dovuta attenzione. Dall’indagine emerge che anche quando l’insonnia non è occasionale gli adolescenti ne parlano poco. Oltre il 40% non avvisa della cosa i genitori e nel 78% dei casi il problema non viene

sottoposto all’attenzione del medico. Tra i rimedi utilizzati il 44% si affida, per lo più, a camomilla e tisane, mentre meno del 10% utilizza prodotti non farmacologici (a base di valeriana, melatonina o altro), e il 3% afferma di essere ricorso anche all’utilizzo di farmaci. Ma anche in questi casi non sempre si consulta il medico. “Una evidenza – come sottolinea Marina Picca, Presidente della SICuPP (Società Italiana Cure Primarie Pediatriche) Lombardia e membro del Consiglio direttivo di Laboratorio Adolescenza – che deve spingere noi pediatri a trattare l’argomento “sonno” con maggiore attenzione. È necessario, con gli adolescenti, porre attivamente domande sul loro sonno e sulle difficoltà che eventualmente riscontrano nell’addormentarsi o nel riaddormentarsi in caso di risveglio notturno, e sottolineare l’importanza del dormire per favorire una crescita sana e il benessere psicofisico. Dobbiamo inoltre cercare di correggere i comportamenti che possono influire negativamente su un corretto riposo – primi tra tutti telefonini e tablet che, almeno di notte, andrebbero rigorosamente spenti – e, qualora i consigli e le strategie educative non fossero sufficienti, suggerire, in situazioni particolari, l’assunzione di prodotti specifici in grado di favorire l’addormentamento e migliorare la quantità e la qualità del sonno”.

M.T.

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Vanno a letto tardi, si svegliano durante la notte, la mattina fanno fatica ad alzarsi, a scuola arrivano tardi, trafelati e senza aver fatto colazione E poi, alla prima ora, finalmente, dormono. Non è una boutade: l’emergenza “prima ora” esiste eccome, segnalata da insegnanti e dirigenti scolastici. Sono finiti i tempi in cui le prime ore erano sempre quelle di italiano, matematica e latino, perché si approfittava del momento di massima concentrazione degli studenti. Adesso la concentrazione, semmai arriva, la si racimola dopo la ricreazione. Tra le possibili soluzioni si è anche ipotizzato di posticipare l’orario di inizio delle lezioni (oggi generalmente compreso tra le 8.00 e le 8.30) per far guadagnare un’ora di sonno mattutina ai nostri eroi del Social notturno. Certo, sarebbe una sorta di resa incondizionata, ma al di là di questo (ci arrendiamo a cose molto peggiori) innescherebbe un processo a catena. La scuola inizia più tardi, finisce più tardi, si torna a casa più tardi, si mangia più tardi e via percorrendo l’intero arco della giornata fino ad arrivare al fatidico… si va a dormire ancora più tardi. E ci risiamo. Ma in attesa che si compia questo progressivo spostamento in avanti di tutto, ci poniamo una domanda. Assodato che i genitori in costante stato d’ansia regalano lo smartphone ai loro figli a dieci anni, se non prima, per poterli controllare nei movimenti e farsi mandare decine di WhatsApp al giorno che attestino l’esistenza in vita del pargolo (ma i nostri genitori come facevano a sopravvivere alla nostra assenza?), possiamo chiedere alle mamme e ai papà di “fare i genitori” almeno dopo le 21.00 e vietare l’uso di tablet e cellulare quantomeno fino a colazione? È chiedere troppo? Sembra di sì.

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LE PSICOLOGHE: NOTTURNO IN CRESCENDO Le ore rubate al sonno servono anche a costruire una dimensione personale, in silenzio e libertà. Purchè non diventi, durante il giorno, una “narcolessia” Alessandra Marazzani e Giorgia Pierangeli Psicologhe - Info@psichemilano.com

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e giornate dei ragazzi sono piene d’impegni legati alla scuola, allo studio, allo sport, agli amici: sappiamo che questa attività aiuta a crescere, a sperimentare nuove regole, a misurare le proprie energie per raggiungere sicurezze e definirsi come grandi e non più bambini. In questa continua attività psichica e fisica di trasformazione, la notte potrebbe essere vista come l’anello di congiunzione tra sé e il mondo esterno, un luogo e un tempo che aiuti a fare spazio tra la capacità immaginativa interiore e quella di adattamento alla realtà. Per fare spazio ai sogni, alle fantasticherie, andando alla ricerca di esempi ideali o grandiosi a cui ispirarsi, i ragazzi necessitano di un mondo che fa silenzio, che scorra ignaro della loro presenza, senza richieste da parte degli adulti. Ma allora potrebbero aver ragione gli adolescenti che, privandosi di ore di sonno, si appropriano di una dimensione personale, gestendo un tempo tagliato a misura su loro stessi? Seguendo questa prospettiva possiamo dire che la notte offre un tempo dilatato, fuori da ogni ritmo e organizzazione famigliare e in quanto tale può diventare libero di essere riempito o rimanere vuoto a piacimento. Solo nella sperimentazione, in questa libertà di scelta su come occupare il tempo notturno si apre la possibilità di esprimere quello che si è, dando sfogo a

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turbamenti, ad emozioni, senza timore di essere visti dagli adulti e senza porsi obiettivi da raggiungere. Quando alla domanda della nostra ricerca sui motivi dell’insonnia, la maggioranza risponde “la sera mi vengono tanti pensieri”, forse è questo che intendono. Oltretutto riuscire ad abbandonarsi all’indefinitezza del sonno prevede una propria solidità o perlomeno un abbozzo di struttura di personalità. Se è vero, come dice un vecchio detto, che “dormire è come morire”, allora

bisogna essere certi di essere vivi, ingaggiati a godere dei propri interessi per poter affrontare questa esperienza solitaria. Pertanto, il sonno “rubato” dei ragazzi può diventare l’occasione di oziare dopo una vita diurna tutta all’insegna della prestazione e dell’efficienza in mezzo agli altri. Forse, è proprio nel silenzio della notte che ci si scopre di più, che il pensiero o le emozioni che emergono nella solitudine risultano più autentiche.

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Naturalmente i pericoli ci sono e potrebbero portare ad una mancanza di sonno notturno, e a vivere una sorta di “narcolessia” durante il giorno. Succede infatti che i ragazzi si addormentano spesso in qualsiasi posto e questo tipo di stanchezza potrebbe essere l’altra faccia del non riuscire a stare con i propri pensieri, come un modo per spegnere l’interruttore e piombare in un non-esserci per timore di non essere all’altezza delle proprie e altrui aspettative di realizzazione. Probabilmente i ragazzi ricercano inconsapevolmente qualsiasi occasione affinché i sogni e i desideri possano emergere. E forse avrebbero bisogno di trovare una maggiore fiducia in se stessi e una guida per capire meglio chi sono in questa fase di crescita. Ancora una volta gli adulti sono chiamati a dare un senso ai tanti segnali muti che arrivano. Perché se è verissimo che delle buone abitudini, correlate a dei buoni esempi, possono ridurre e in alcuni casi eliminare i disturbi del sonno, altre volte il problema è altrove, nascosto tra le pieghe delle lenzuola stropicciate, nelle occhiaie e negli schermi dei telefonini accesi nell’oscurità. Se gli adulti riuscissero anche solo ad intravedere che c’è dell’altro oltre ai comportamenti scorretti, legittimerebbero l’adolescente nelle sue fatiche, dandogli forza per sostenere il cammino che lo porterà a definirsi come persona adulta.


IL NEUROLOGO: LA TENDENZA A DIVENTARE GUFI Lo spostamento del sonno è fisiologico in adolescenza. Proprio per questo è meglio intervenire sugli eccessi: per evitare che diventi un’abitudine cronica Intervista a Luigi Ferini Strambi Direttore del Centro di Medicicna del Sonno, San Raffaele Milano

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avvero oggi tanti ragazzi soffrono di insonnia? “Ho visto aumentare il loro numero in modo importante negli ultimi dieci anni”, dice il professor Luigi Ferini Strambi, neurologo e ricercatore, responsabile del Centro di Medicina del Sonno dell’ospedale San Raffaele di Milano. “Una volta gli adolescenti erano una percentuale minima. Poi c’è stata una vera esplosione: attualmente posso valutare che circa il 15% dei nostri pazienti sono giovanissimi. Ci sono molti casi di ragazzi che non riescono a dormire fino alle sei del mattino, e questo naturalmente comporta il fatto che non possono più andare a scuola”. Quindi dobbiamo chiederci perché… “Penso che le cause principali siano quelle comportamentali, quelle che avete messo in luce nella vostra ricerca e in particolare l’uso fino a tarda ora degli strumenti elettronici. L’adolescenza è un momento delicato, anche dal punto di vista della fisiologia del sonno, perché si verifica un cambiamento importante. Dopo la pubertà, c’è un ritardo, uno spostamento di orario, nella produzione da parte del corpo della melatonina, l’ormone che regola il sonno. Noi diciamo che gli adolescenti tendono a gufizzare, mentre i bambini sono normalmente allodole. Questo fenomeno è del tutto normale, naturale. Ma se in questa fase si innescano comportamenti eccessivamente gufizzanti, allora si innesca il

problema dell’insonnia. Va tenuto presente che telefonini e computer non significano solo impegno mentale e nervoso. C’è anche il fatto che la luminosità degli schermi diminuisce la produzione di melatonina”. Quali sono le conseguenze della scarsità di sonno in età adolescenziale? “In primo luogo una diminuzione del rendimento scolastico, ma non pensiamo che quello cognitivo sia il problema più grave. Molti studi hanno dimostrato che la riduzione delle ore di sonno può portare disturbi d’ansia e depressivi o una vera e propria depressione. È interessante notare poi che sono più colpite le ragazze dei maschi, anche perché l’età puberale è generalmente più precoce. Si è verificata in particolare una diminuzione del sonno profon-

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do più marcata che nei ragazzi”. È importante allora intervenire… “La prima terapia deve essere comportamentale, come le cause. Non deve riguardare soltanto telefonini e computer, ma anche l’alimentazione e in particolare l’uso di bevande a base di caffeina. Poi in molti casi può essere utile l’integrazione di melatonina, per favorirne l’azione. Ma è necessario assumerla con largo anticipo, non alle due di notte, perché richiede il suo tempo. In generale è bene ricordare che l’insonnia va affrontata subito, anche a questa età, perché sappiamo che la maggior parte degli adulti insonni hanno cominciato a soffrirne proprio durante l’adolescenza. Si tratta quindi di prevenire un futuro pieno di problemi”.

Riccardo Renzi

Adò - Laboratorio Adolescenza - 2020; 3, 1.


CORONAVIRUS

SARANNO LORO A DARCI IL BUON ESEMPIO Gli adolescenti sono, per fortuna, meno coinvolti nell’emergenza sanitaria, ma lo sono di più in quella sociale, perché la loro vita è cambiata radicalmente Maurizio Tucci Presidente Laboratorio Adolescenza

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uesto numero di Adò va online in piena emergenza “coronavirus”. Anche se non siamo una rivista scientifica e non abbiamo le competenze per fare previsioni di carattere epidemiologico (difficili, al momento, anche per gli esperti), riteniamo che qualche considerazione, con gli occhi rivolti agli adolescenti, vada fatta. In una situazione come quella che stiamo vivendo, dove l’unica certezza è che bisogna “navigare a vista”, giorno per giorno, gli adolescenti – anche se non se ne conosce la ragione – sembrerebbero (il condizionale è d’obbligo) più al riparo dal contagio. Ma se appaiono meno coinvolti nell’emergenza sanitaria sono, come tutti, e per alcuni aspetti anche di più, al centro di una “emergenza sociale” che è uno dei principali effetti collaterali del coronavirus. Scuole chiuse, attività sportive ferme, luoghi di aggregazione contingentati, timore di utilizzare i mezzi pubblici. E, come se non bastasse, anche la “distanza interpersonale” di sicurezza da rispettare con conseguente stop a quella fisicità nei contatti (dal darsi il cinque a tutte le manifestazioni di affetto) che è l’essenza dell’adolescenza. Ad ascoltarli – come abbiamo fatto

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noi di Laboratorio Adolescenza – appaiono consapevoli e maturi. Per alcuni aspetti anche più solidi di noi adulti che come prima risposta all’emergenza siamo andati a svuotare i supermercati per prepararci ad un inquietante quanto inutile letargo sociale. Né ci risulta – sul fronte opposto – che ci siano adolescenti tra gli “evasi” della “zona rossa” per andare a fare shopping Oltrepò. Così come nessuno di loro sta prendendo l’inaspettata chiusura delle scuole come una “vacanza” e con la scuola stanno mantenendo stretti contatti attraverso la tecnologia che hanno

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a disposizione e che certamente padroneggiano meglio di tanti insegnanti. Là dove la scuola scopre – nell’emergenza – quanto sia importante poter utilizzare le piattaforme informatiche che consentono la comunicazione a distanza con gli studenti e si sta attrezzando con encomiabile buona volontà, seppure dovendo registrare che spesso mancano, all’interno, preparazione diffusa e strumenti efficaci. In questa sorta di contrappasso dantesco creato dal coronavirus, dove siamo noi – e non i migranti – quelli che portano le malattie, quelli da mettere in quarantena, quelli da guardare


con sospetto, anche il fatidico telefono cellulare, il “padre” di tutte le sciagure adolescenziali, ha il suo momento di riscatto, perché smartphone e computer sono gli unici ambienti “virus-free” che ci consentono di salvare lavoro, studio e socialità. E il tedioso lamento dei genitori “passa le ore a casa col telefonino in mano invece di uscire”, è diventato, d’un tratto, un auspicio. Il virus, quello che sta accadendo in Cina lo dimostra, prima o poi passerà, ma c’è da chiedersi: tutto tornerà come prima o nulla sarà più come prima? È una domanda che vale per tutti, a prescindere dall’età, e la risposta sarà strettamente correlata a quanto questa emergenza durerà e a quanto “graffierà”. Ci piacerebbe che questa esperienza drammatica ci facesse rendere conto che siamo tutti potenzialmente fragili – nord e sud d’Italia, nord e sud del mondo – e che ci facesse mettere da parte un po’ di arroganza. Che ci facesse capire che non sapere neanche “accendere” un computer o non avere un indirizzo e-mail non è qualcosa di cui vantarsi con spocchia. Così come vorremmo che ad emergenza terminata riprendessimo a spostarci e a viaggiare come prima e che non continuassimo a vedere negli “altri” – per chissà quanto – solo dei potenziali untori. Che riprendessimo ad andare al bar, al ristorante, al cinema e ai musei. Che riprendessimo a maledire tram e metropolitane strapiene all’ora di punta. Ci piacerebbe che ricominciassimo a vivere come prima, ma con qualche consapevolezza in più. E gli adolescenti? In genere sosteniamo che la prima cosa che un adulto deve fare – se vuole avere successo nel difficile lavoro di formazione di un adolescente – è dare il buon esempio. In questo caso, ad emergenza terminata, non ce ne sarà bisogno, perché sono convinto che saranno loro a dare il buon esempio a noi.

UNA DURA PROVA PER LA NOSTRA SOCIETÀ L’epidemia in poche settimane, entrando di prepotenza nella quotidianità degli individui e delle famiglie, ha sconvolto il normale comportamento delle persone. Gli effetti sono ormai evidenti a tutti: paura, isteria, psicosi, insicurezza, incertezza, contraddizione dilagano a vista d’occhio. In un contesto dove la ragione lascia spazio all’emozione si acuiscono gli estremi. Da una parte la spinta solidaristica di chi si impegna in questa lotta, e non mi riferisco solo ai medici e agli operatori ma anche alla gente comune che si muove orientata da uno spirito di collaborazione e di unità nei confronti del male. Dall’altra i comportamenti egoistici, dove il mio interesse prevale su tutto, e quando c’è un “noi” questo è limitato ai miei stretti contesti di riferimento, che si vorrebbero difesi da confini impenetrabili, salvo poi scandalizzarsi quando sono gli altri ad alzare muri intorno a noi. Da un punto di vista più generale le reazioni individuali e collettive al Coronavirus possono essere spiegate con la paura dell’ignoto. La rappresentazione di un pericolo sconosciuto, di cui non si ha consapevolezza, è emotiva e irrazionale in misura assai maggiore dei rischi che si conoscono. Pur non volendo trarre conclusioni inopportune sul decorso dell’epidemia, per quel che oggi sappiamo prendendo in considerazione la situazione cinese, possiamo dire che contrarre il virus per un singolo individuo sia tutto sommato evento improbabile: nella provincia dell’Hubei si sono avuti circa 70mila contagi a fronte di 60 milioni di abitanti, quindi un po’ meno di uno su mille. In Italia è presto per fare un confronto, ma quanti nostri concittadini già da

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ora terrorizzati dal Coronavirus bevono abitualmente alcolici, fumano, non si vaccinano contro la comune influenza, guidano spericolatamente l’automobile? Tutte queste condotte comportano rischi gravi per la propria salute assai elevati e in alcuni casi ben superiori a quelle del nuovo virus. Ad esempio nel nostro Paese nel 2019 si sono verificati 82.048 incidenti stradali (in media, 453 al giorno: 19 ogni ora), che hanno causato 1.505 morti (8 al giorno: 1 ogni 3 ore) e 113.765 feriti (628 al giorno: 26 ogni ora). Per l’influenza normale è possibile stimare mediamente 8.000 decessi all’anno comprendendo ovviamente le complicanze connesse, dieci volte tanto (circa 80.000) sono le morti per fumo, mentre i decessi alcol-correlati sono stimati all’incirca 20.000 all’anno. Eppure la paura legata a tali comportamenti è assai limitata. La situazione odierna quindi riflette la nostra capacità, o incapacità, di vivere situazioni di insicurezza e di affrontare situazioni sfavorevoli ed avverse. Va da sé che il comportamento più auspicabile rimane quello razionale. E gli adolescenti? Non sappiamo ancora come stanno reagendo. Questa epidemia ha delle caratteristiche di unicità per tutti. Certo è che le nuove generazioni, sottoposte precocemente allo stress della precarietà esistenziale e dell’incertezza del futuro, sembrano in grado, molto più degli adulti, di adattarsi agli incessanti e rapidissimi ritmi con i quali la nostra quotidianità si trasforma: potrebbero cioè dimostrarsi in qualche modo più adeguati a rispondere anche a questo nuovo evento. Carlo Buzzi Sociologo, Università di Trento

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CORONAVIRUS

IL CAOS (QUASI) CALMO DEGLI AMBULATORI Cronache d’emergenza dagli studi di pediatri e medici di famiglia. Dove soprattutto ci si affida al telefono e i ragazzi si dimostrano ottimi consulenti informatici Simona Mazzolini

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om’è cambiato, sul territorio, il rapporto medico-paziente, e medico-paziente adolescente in particolare, in periodo di coronavirus? Lo abbiamo chiesto a Maria Teresa Zocchi e Maria Grazia Manfredi, entrambe medici di medicina generale, e a Marina Picca e Roberto Marinello, pediatri di famiglia. Tutti e quattro operano in Lombardia. “Dal 22 febbraio – afferma Maria Teresa Zocchi – l’obiettivo indicato dalle Agenzie per la tutela della salute (Ast) a noi medici che operiamo sul territorio è univoco: evitare affollamenti nelle sale d’attesa e incontri tra e con potenziali pazienti infetti”. Chiarissimo, ma in partica come si traduce? “Prima di tutto – prosegue Zocchi – niente più accesso libero allo studio del medico, ma solo visite su appuntamento. E anche queste vengono limitate allo stretto necessario”. “Quanto all’individuazione dello stretto necessario – spiega a sua volta Maria Grazia Manfredi – il paziente (o il genitore del paziente) che telefona segnalando qualunque tipo di problematica viene sottoposto a un triage telefonico accurato per capire se manifesta sintomi influenzali o problemi respiratori e se è stato a contatto con soggetti malati o a rischio Covid-19, cioè sintomatici e/o provenienti dalle aree classificate “Zona rossa”. In caso positivo, invitiamo l’interlocutore a contattare il numero unico regionale per segnalare la situazione e anche noi facciamo la stessa

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cosa. In caso negativo, si valuta la necessità di una visita a seconda dei problemi riscontrati e si stabilisce se la visita sarà effettuata a domicilio o in studio, in questo caso al di fuori dei normali orari di apertura al pubblico”. In sintesi, medici di medicina generale e pediatri di famiglia passano molto più tempo di prima al telefono, in un orario lavorativo per forza di cose prolungato rispetto alla norma. In questo contesto, le chiamate che riguardano gli adolescenti sono piuttosto rare, anche perché l’assenza forzata dalle scuole riduce i contatti sociali e la trasmissione di qualunque tipo di virus, inclusi quelli influenzali tipici della stagione, responsabili della maggior parte dei contatti con il medico in questo periodo dell’anno. “Ma c’è anche qualche adolescente che chiama allarmato – racconta Maria Teresa Zocchi – per segnalare di aver avuto contatti, diretti o mediati da altre persone, con presunti portatori del virus. Dopo le verifiche del caso e la comunicazione di informazioni adeguate, la preoccupazione rientra, il ragazzo si tranquillizza e la ragionevolezza riprende il sopravvento”. “Molti genitori – aggiunge Maria Grazia Manfredi – chiamano anche per chiederci se sia opportuno o meno che i ragazzi effettuino visite di controllo, anche specialistiche, già programmate”. “Anche il pediatra di famiglia ha modificato l’organizzazione della propria attività: appuntamenti molto distanziati per

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evitare la presenza di più persone, orari differenziati, nell’ambulatorio via i giochi e i libri a disposizione dei bambini: ognuno porterà il proprio gioco o il proprio libro”, spiega Marina Picca, che aggiunge: “L’allarme, da parte delle famiglie, scatta in genere quando il bambino o l’adolescente ha febbre, tosse, raffreddore, i cosiddetti sintomi simil-influenzali che in questo periodo preoccupano particolarmente, e allora la prima cosa da fare è capire, attraverso il triage telefonico, quali sono le situazioni che meritano attenzione e una valutazione medica. Spesso bisogna anche fare chiarezza sul fatto che non è il pediatra di famiglia o il medico di medicina generale a stabilire se un paziente deve essere sottoposto al tampone per la ricerca del Coronavirus, ma sono gli operatori sanitari che rispondono ai numeri dedicati”. Ma torniamo agli adolescenti. In questo frangente, ragazze e ragazzi finiscono per assumere un ruolo congeniale alle loro competenze digitali e funzionale a ridurre gli accessi fisici agli studi medici e pediatrici. “Anche accogliendo un’istanza degli Ordini professionali – spiegano Manfredi e Zocchi in qualità di Consigliere dell’Ordine provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano – le ATS lombarde hanno consentito, in questa situazione specifica, di ‘dematerializzare’ le prescrizioni per evitare che il ritiro delle ricette generi affluenza non necessaria verso gli studi”. In pratica, il medico comunica via mail al


DAL FRONTE DI LODI

paziente il codice univoco della ricetta e, dietro presentazione di quest’ultimo, le farmacie attrezzate per stampare la prescrizione (purtroppo non tutte) consegnano i relativi farmaci. “Non è raro che i pazienti più in là con gli anni – aggiunge Zocchi – abbiano poca dimestichezza con i dispositivi informatici e la posta elettronica: personalmente, ne ho sentito più d’uno dire “aspetti un momento, le passo mio nipote”. Inutile aggiungere che la nipote o il nipote del caso capisce immediatamente il da farsi. Consulenti informatici, ma per fortuna meno contagiati. “La chiusura delle scuole – spiega Roberto Marinello – ha di fatto frenato la circolazione di tutte le patologie infettive, per cui di adolescenti, in studio, se ne vedono veramente pochissimi anche per tutte le altre solite patologie di stagione. Ciò che è importante, invece, è che anche ragazze e ragazzi si abituino a seguire rigorosamente le norme di prevenzione: dalla distanza interpersonale ai contatti fisici. Niente strette di mano, baci e abbracci, almeno finché la situazione non si sarà stabilizzata ed usciremo dall’emergenza”. L’emergenza coronavirus ha comunque portato, in modo naturale, dei cambiamenti virtuosi nelle abitudini dei pazienti. La tendenza a chiamare il pediatra o il medico di famiglia anche per situazioni piuttosto banali è da sempre una caratteristica degli ansiosi pazienti italiani, specie quando ci sono di mezzo bambini o adolescenti,

ma medici e pediatri sono unanimi nel rilevare, da quando si è diffusa questa epidemia, una diminuzione delle chiamate e delle richieste di vista medica “per futili motivi”. “Evidentemente i cittadini si rendono conto che siamo davanti ad un problema nuovo e di proporzioni significative, e che ciascuno deve contribuire nell’affrontarlo. Quindi si rivolgono al medico per situazioni in cui realmente hanno difficoltà o in cui hanno necessità di consiglio o chiarimenti” sintetizza per tutti Maria Teresa Zocchi. “C’è anche grande collaborazione, da parte dei pazienti, nel rispettare le regole di accesso allo studio medico che naturalmente sono più rigorose” aggiunge Maria Grazia Manfredi. E Roberto Marinello sottolinea come in questo periodo uno dei compiti più delicati sia proprio quello di rassicurare, ma senza sottovalutare la situazione. “Anche al di là della grave contingenza – conclude Marina Picca – la situazione sanitaria attuale, nuova per tutti, ci ha fatto comprendere l’importanza di rispettare le precauzioni che tante volte ci vengono ricordate per ridurre la diffusione delle malattie contagiose: ci ricorderemo sicuramente quanto sia importante l’igiene dei luoghi in cui viviamo e lavoriamo, evitare i luoghi affollati, lavarsi accuratamente le mani, usare la mascherina se si è ammalati e cosi via”. L’augurio di tutti, e per tutti, è che una volta passata l’emergenza i comportamenti responsabili restino.

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Antonella Giancola è una pediatra di famiglia di Lodi; tecnicamente ai confini dell’originaria zona rossa, ma la maggior parte dei suoi colleghi – con i quali è in costante contatto – erano all’interno. E a lei abbiamo chiesto come si vive l’emergenza sul fronte dell’epidemia. “Con grande attenzione e grande prudenza cercando di adattarci a questa difficile situazione, senza panico, ma certamente con tangibile preoccupazione. Siamo dotati dei dispositivi di protezione (mascherine, camici, guanti) per svolgere il nostro lavoro, seguiamo con grande scrupolo ogni indicazione che ci viene data dalle autorità sanitarie, affrontando la crisi in funzione degli eventi. Registriamo grande collaborazione da parte dei genitori dei nostri pazienti nel rispettare le restrizioni imposte su orari di accesso agli ambulatori, prenotazioni delle visite, possibilità di visitare il bambino accompagnato da un unico genitore dotato di mascherina. Tuttavia dalle testimonianze che ricevo dalle colleghe e colleghi che operano in piena zona rossa emerge un quadro più impegnativo che ci suggerisce di mantenere alto il livello di guardia”. La testimonianza di Antonella Giancola è molto importante, perché ci descrive una realtà abbastanza simile – seppure ovviamente più critica – a quella raccontata dagli altri suoi colleghi, il che aiuta ad attenuare un immaginario apocalittico. La situazione che vivono i cittadini che abitano nelle zone più “calde” ancora non lascia sufficientemente tranquilli, ma in questo momento di oggettiva emergenza, nulla è più dannoso dei “fantasmi” che una paura irragionevole può generare.

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CORONAVIRUS

EPIDEMIA DAVVERO VIRALE La crisi del coronavirus è qualcosa di nuovo non solo per i più giovani, ma anche per chi ne ha già sperimentate altre. Perché è cambiata completamente l’informazione Riccardo Renzi

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e io fossi un adolescente, penso che porrei queste domande: “Ma allora, è questo quello che succede quando scoppia un’epidemia? E perché i nostri genitori, o gli insegnanti, non ci hanno mai detto quello che sarebbe successo? La risposta è semplice. Non vi abbiamo mai parlato di un evento come quello attuale, perché è del tutto nuovo anche per noi. Non tanto, chiariamo subito, per la sua gravità, ma per le conseguenze che sta provocando. Ci sono state, lo sapete anche voi dalla letteratura, epidemie ben più gravi, quando la parola pandemia non esisteva nemmeno, se non altro perché nessuno sapeva se in quel momento si ammalassero anche in Cina o in Africa. Persino nel secolo scorso, cento anni fa, c’è stata una pandemia, la famigerata “spagnola”, ben più grave di quella attuale (si calcola che abbia fatto 50 milioni di morti), ma la situazione era diversa, perché, almeno in Europa, si sovrapponeva ai disastri e ai massacri di una guerra mondiale. E si chiamò “spagnola” perché i giornali spagnoli (paese non belligerante) furono gli unici a parlarne, mentre tutti gli altri subivano la censura militare. Poi, a cadenza annuale, ci sono state altre pandemie influenzali. Nel 1957 (c’erano già gli antibiotici e per la prima volta un vaccino fu pronto in meno di un anno) ci fu l’“asiatica”, che fece due milioni di morti nel mondo. Io ero bambino, ne sentii parlare, ma la mia vita non cambiò. Nel 1968 ci fu la cosiddetta Hong Kong, una variante dell’“asiatica”, che in Italia, uno dei Paesi meno colpiti, fece almeno 20mila morti

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più della media stagionale. Io ho vissuto quell’anno, lo ricordo per altri motivi, ma in verità, mi vergogno a dirlo, non mi sono nemmeno accorto dell’epidemia. Successivamente, nel mio lavoro di giornalista medico-scientifico ho seguito tutte le pan-epidemie che ci sono state. Soprattutto la più grave, l’Aids, lenta ma micidiale, che ha distrutto diversi Paesi africani e che non è ancora stata sconfitta, perché il virus è stato domato ma non vinto. E nel mio ruolo sono stato accusato più volte di aver creato “epidemie mediatiche”, cioè inventate.

Eppure anche per me quel che sta accadendo oggi, a fronte di un’infezione più grave di un’influenza, ma meno grave dell’Aids, è una cosa nuova. Perché le epidemie sono tutte diverse tra loro, ovviamente sul piano biologico, medico e scientifico, ma soprattutto per il contesto nel quale avvengono. E questa è la prima infodemia, come l’ha definita l’Oms. Avviene cioè in un contesto in cui l’informazione è ampia, rapida e diffusa, come non si è mai visto prima. Il mondo scientifico si è evoluto, quello dell’informazione è cambiato radicalmente. Ci sono, ovviamente, vantaggi e svantaggi in questo fenomeno. Io sono di quelli che pensano che i vantaggi siano

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superiori, perché credo che più la gente è informata meno è soggetta a lasciarsi andare a reazioni irrazionali. Ma ci sarà tempo per discutere di questo. Intanto noto, insieme a voi, alcune novità. C’è chi obbietta che esiste una buona e una cattiva informazione. È vero, come sempre. Anche stavolta, come sempre, ci sono quelli che hanno detto o scritto sciocchezze e idiozie. Ma in questo caso il livello di informazione è così alto e globale che si è attivata, mi sembra, una specie di autoregolazione, in cui gli errori e le fake news vengono rapidamente compensati. Noto anche che la famigerata coppia “media e social” si sta finalmente chiarendo, nei rispettivi ruoli. I media, quelli cioè che funzionano attraverso, appunto, una mediazione professionale, su Internet, in Tv o su carta, stanno riconquistando autorevolezza e fiducia nel campo dell’informazione. E i social stanno finalmente facendo quello per cui sono stati creati, cioè collegare la gente. Una funzione altrettanto preziosa contro una malattia che si cura con l’isolamento. Non mi dispiace peraltro che gli “influencer” (nome, in verità, poco fortunato in questo momento) annaspino: quelli scarsi non sanno più che dire, quelli buoni usano i loro like per raccogliere fondi per la Sanità. Emergono d’altra parte nuovi “contro-influencer”: scienziati, ricercatori, medici che finalmente hanno imparato a parlare con la gente e che comunicano come mai era avvenuto. Bene. Come vedete, c’è sempre bisogno di (buoni) maestri.


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COME PARLARE AI RAGAZZI (E FARSI DAR RETTA) P

erché è un problema farsi capire dai ragazzi? Se l’ostacolo fosse soltanto nel fatto che si esprimono con “stai tranqui” o “bella zia”, sarebbe semplice da superare. O si impara ad esprimersi come loro, o, meglio, si insegna loro l’italiano, che non fa mai male, fuori e dentro la scuola. Ma, come sempre, la comunicazione non è una questione di linguaggio. Comunicare significa costruire un quadro, un ambiente in cui ci si trova a proprio agio, dove possano esserci empatia e fiducia reciproca, pur continuando a conservare ciascuno il proprio ruolo. Su questo almeno concordano coloro (insegnanti, medici, psicologi) che hanno accettato di rispondere alla nostra domanda. E anche i ragazzi concordano, dicendo: perché non rispettate i nostri tempi e non avete fiducia in noi?

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IL DOSSIER

Per passare dalla chat al dialogo bisogna dare valore alle parole Prima di chiederci come dobbiamo definire perché e che cosa vogliamo dire Alessandra Marazzani Psicologa

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iviamo nel tempo delle immagini, spesso proposte più per amplificare le percezioni sensoriali che per offrire contenuti che incentivino la riflessione dei ragazzi. In questo contesto generale la comunicazione verbale, il dialogo diretto tra adulti e adolescenti rischia di diventare un’operazione di scarso interesse, poco coinvolgente e praticata più per scambio d’informazioni. Trovare uno spazio e un tempo che metta in silenzio gli stimoli esterni e dia la giusta attenzione alla parola non è per nulla facile. Ma da qui bisogna passare per sviluppare un dialogo utile che attivi un pensiero critico sulle reciproche differenze. Noi psicologi sentiamo spesso i genitori che raccontano di come abbiano rinunciato a parlare con i figli, affidandosi più facilmente al linguaggio scritto, ritenendo indispensabile almeno raggiungerli rapidamente via whatsapp, per sapere cosa fanno e dove sono. Ma che tipo di scambio relazionale avviene attraverso le chat? Innanzitutto la parola scritta “incanala” la comunicazione verso un pensiero unico, dovendo far sintesi intorno ad un argomento. L’assen-

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za dell’interlocutore porta a scrivere per slogan, a fare battute accattivanti o perentorie: è una comunicazione obbligata nella sua brevità a essere asciutta, tra un “bravo, wow” e un “non fare così...”. Chattare è lo stile comunicativo preferito dai ragazzi: li aiuta a sapere, senza tanti fronzoli, cosa noi adulti vogliamo da loro. Ma questo non implica uno scambio e un confronto diretto. E quindi come fare per riattivare o rendere un dialogo interessante con i ragazzi? Potremmo trovare alcuni modi efficaci da utilizzare per parlare con i ragazzi ma quello che non funziona non è il come. Prima dovremmo definire il perché e che cosa vogliamo esprimere di importante, esplicitando le motivazioni che sono alla base di un nostro desiderio di dialogo. Invece spesso succede che gli adulti raccontano con difficoltà l’obiettivo degli scambi e, involontariamente, creano incomprensioni. Come? Per esempio facendo preamboli astratti o mille piccoli esempi, che esprimono poco di quello che per un genitore è veramente importante: se per una mamma ritenere che dare una mano in casa, aiutare in cucina con la tavola sia un impegno che riguarda anche i figli, andrebbe affrontato direttamente. Spiegando che essere una famiglia e dare una mano nella gestione spicciola di casa è parte dello stare insieme e un modo tangibile di volersi bene. Oppure, se un papà ha bisogno di esprimere la propria preoccupazio-

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ne rispetto ad alcuni comportamenti che non approva del figlio (uscite continue, uso della PlayStation eccessivo, coricarsi e dormire molto tardi ecc.), è bene che il dialogo avvenga mettendo a fuoco quali siano gli impegni che ritiene di valore per il proprio figlio, dando il giusto ordine di priorità (lo studio, maggior presenza in famiglia, ritmo del riposo). Solo successivamente potrà aprirsi a un dialogo con suo figlio. La prima parte dell’incontro per essere efficace non è dialogica, ma deve offrire una cornice di senso sui valori da seguire e sul perché sono importanti. Definita la cornice valoriale in cui l’adulto esprime chiaramente la propria visione, è possibile, e solo allora, poter ascoltare e cogliere le obiezioni dei ragazzi cercando una mediazione. Certo, se come adulti vi è stata una ridotta abitudine al dialogo, la conseguenza potrebbe essere che i ragazzi si pongano sulla difensiva. Per esempio la richiesta di maggiore impegno verrà vista come un ordine dettato da regole ingiuste, o una maggiore condivisione famigliare potrà suonare come controllo. La via del dialogo diretto e parlato non è immediata, essere adulti di riferimento per gli adolescenti è un incarico insidioso, che richiede “superpoteri”. Ma, oggi più di prima, siamo tutti chiamati ad essere guide autorevoli per i ragazzi proprio perché stanno crescendo nel mondo incerto che noi gli abbiamo dato.


IL DOSSIER

La quotidiana fatica di superare la barriera del linguaggio C’è la tentazione di usare il loro lessico. E invece: Prof, lei deve fare la Prof! Teresa Caputo Insegnante all’IIS Claudio Varalli di Milano

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rof, e i giornali?” “Andate a prenderli, ma prima di fare il cruciverba ricordate che dovete sfogliarli, trovare e leggere almeno un articolo che riguardi il tema che stiamo studiando!” Questo succede regolarmente in 2^C Turistico al martedì, giorno in cui la lezione si fa con il quotidiano. Il cruciverba: definizioni da risolvere con una parola, che i miei allievi faticosamente, ma con divertimento, stanno imparando a completare. Con “il quotidiano in classe” ho scoperto che la maggior parte di loro non ha mai fatto un cruciverba, perciò oltre a non saper risolvere le definizioni, non ha idea di come sia strutturato e di come si debba procedere. Ecco quindi che nell’ultimo quarto d’ora di lezione la classe si anima ed è tutto un domandare. E poi: “Prof, ma lei quante cose sa? Come fa a capire che a “Inizio di temporale” si deve scrivere “TE”? Sorrido e rifletto: siamo arrivati a questo? Il loro lessico si è talmente impoverito che non gli permette neanche di divertirsi con le parole crociate. Con il loro “whatsappare” e “postare”, il loro scrivere tutto abbreviato, con simboli ed emoticon, i nostri ragazzi stanno perdendo il gusto di usare un patrimonio linguistico ricco di sfumature e di significati. La ne-

cessità di dare sempre maggiore rapidità a ogni tipo di processo o di relazione sembra aver ormai relegato in seconda o in terza fila l’esigenza di parlare e scrivere bene: quello che importa ormai è il risultato, il “far passare” il messaggio, a scapito di lessico, sintassi, punteggiatura, ortografia e grammatica. Si parla poco, mentre si scrive, o meglio si digita, senza curarsi della forma e della coerenza logica di un contenuto. Come si spazientiscono i miei allievi quando durante le interrogazioni chiedo loro di ripetere il concetto con termini più adeguati. Non sono un’insegnante che tiene le distanze, che sale su un piedistallo e che pretende di avere davanti a sé tante belle statuine; ma nelle mie classi il rispetto reciproco, anche nell’uso del linguaggio, è la regola fondamentale. “Minchia” ogni tre parole sarebbe la loro regola, “Bella zio/ zia” l’espressione più diffusa, perché comunque in classe si contengono, per esprimere il loro apprezzamento, “Stai tranqui”, “Amo”, cioè amore, e così via. Per docenti come me, della stessa età dei nonni, la distanza generazionale è ormai tanta, i modelli di riferimento dei nostri ragazzi sono altri, sempre più spesso fuori dalla scuola, i genitori stes-

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si sono più adolescenti dei figli e ai colloqui è tanta la voglia di riprendere e di correggere pure loro… Nonostante ciò, poiché il dialogo educativo non funziona senza un reale investimento affettivo, senza empatia o desiderio di porsi su un terreno comune, senza apertura mentale verso qualcosa o qualcuno che ci costringe a mettere in discussione costantemente i nostri valori e il nostro agire quotidiano. Anche se non mi rispecchio più negli allievi di oggi, come in passato continuo pazientemente ad ascoltarli, mi sforzo di capirli per trovare connessioni, per confrontare sguardi e punti di vista, per cercare di avvicinarmi al loro mondo. Eppure, quando cerco di “agganciarli” col loro stesso linguaggio, all’inizio i miei allievi si divertono, ridono, ma poi mi guardano strano e si capisce che non gradiscono, che insomma “Prof, lei deve fare la Prof!” Ho parlato con alcuni di loro e mentre Chiara afferma che non le dispiacerebbe se i professori usassero un linguaggio più “disinvolto”, Giulia non è d’accordo e non ha dubbi: gli insegnanti non sono i compagni di scuola, ci deve essere la giusta distanza tra allievo e insegnante, troppa confidenza nuoce al dialogo educativo.

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IL DOSSIER

L’ardua conquista della fiducia Serve una comunicazione chiara e leale. Con disponibilità all’ascolto Marina Picca Pediatra di famiglia

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ccogliere un paziente in età adolescenziale, parlare con lui, visitarlo, proporgli eventuali approfondimenti diagnostici, dare indicazioni al fine di modificare stili di vita potenzialmente nocivi, motivarlo a rivolgersi, se necessario, ad altri specialisti è per il medico compito non facile. Il “medico dei bambini” o “il medico degli adulti” può avere difficoltà a instaurare o mantenere una relazione di fiducia con chi, per meccanismi tipici della sua fase di vita, sta compiendo un movimento di distacco dal mondo dell’infanzia e fatica a fidarsi dell’adulto. La bussola per muoversi in questo complesso territorio passa attraverso la conoscenza dell’adolescente e dei suoi genitori e l’attenzione a modulare le modalità di ascolto e comunicazione. Una premessa che, come pediatra, ritengo indispensabile è la necessità, nel corso delle visite mediche, di coinvolgere attivamente il bambino, futuro adolescente, il prima possibile, già nei primissimi anni di vita. Ad esempio spiegare in modo semplice la sua malattia, le medicine che dovrà assumere (i bambini sono straordinari nel comprendere i messaggi!) e rivolgersi con il desiderio di instaurare un rapporto con lui e non solo con i genitori. Que-

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sto potrà rappresentare una premessa importante per renderlo sempre più consapevole che la salute è un bene da proteggere, che deve essere lui stesso protagonista del proprio benessere psico fisico e che per questo potrà chiedere aiuto al suo pediatra. Qualche suggerimento pratico: • per quanto possibile porre attenzione al contesto e agli aspetti organizzativi dell’ambulatorio pediatrico, in particolare a eccessivi richiami all’età infantile. Considerare la possibilità di dotare la sala d’attesa di pubblicazioni, libri, comunicazioni di interesse per l’adolescente e i suoi genitori, anche da portare a casa e riconsegnare la volta successiva; • la comunicazione deve essere chiara e leale, l’adolescente deve sentire di potersi fidare senza timore di essere giudicato o rimproverato. In questa situazione, il pediatra ha un ruolo molto privilegiato nei confronti del suo giovane paziente: lo conosce da quando è bambino, ha seguito il suo sviluppo, inoltre conosce il nucleo familiare da cui proviene, conquista nel tempo la fiducia della famiglia e del bambino futuro adolescente; • bisogna ascoltare l’adolescente, porre domande così da favorire il racconto e la narrazione del suo vissuto fisco o psicologico per arrivare a una migliore comprensione del problema, accogliere la sua preoccupazione, senza banalizzarla, individuare le difficoltà, ma anche le potenzialità e le risorse. Ma soprattutto trovare gli elementi per giungere ad una soluzione possibile e condivisa;

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• il linguaggio deve essere comprensibile ma professionale, sono convinta che i ragazzi vogliano la presenza autorevole di un adulto (non di un altro amico!) che si faccia carico delle sue difficoltà e in qualche modo cerchi di aiutarlo. Forse non ha il “coraggio” di chiedere aiuto, dobbiamo imparare a trovare le modalità di far emergere le sue problematiche; • il colloquio e la visita devono esser fatti con i genitori o da solo? Non credo si possano dare delle regole: si deciderà a seconda delle situazioni e delle esigenze dell’adolescente. Spesso c’è una scelta condivisa del genitore e del ragazzo di svolgere la vista medica separatamente richiamando poi il genitore al termine della visita/colloquio, o al contrario di restare insieme. Qualunque sia la modalità credo sia importante esplicitare a entrambi la posizione del medico che vuole e deve ascoltare entrambi (la tua mamma mi ha detto che…, suo figlio mi ha raccontato una situazione diversa..), raccogliere le informazioni, trovare e condividere con il ragazzo e il geni-


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L’importante è farlo parlare, meglio da solo tore/genitori una possibile soluzione. Potrà inoltre essere utile offrire all’adolescente un appuntamento da solo, la possibilità di telefonare direttamente al pediatra negli orari indicati, per dubbi o chiarimenti; • può capitare che il medico si trovi a dover navigare tra movimenti di delega del genitore (glielo faccia capire lei, forse lei che è un medico riesce meglio a dire queste cose …) e offerta di insidiose alleanze (mi raccomando, non gli dica che glielo ho detto io…), la cui accettazione può minare la possibilità di stabilire una buona relazione con il proprio giovane paziente. È bene impostare da subito l’alleanza con il ragazzo non sul segreto, ma sul suo bene, su quello che è utile per lui, proponendosi in modo leale per aiutarlo; • in caso di possibilità di prolungamento assistenziale fino a 16 anni, o comunque di fronte a una richiesta in tal senso da parte dei genitori, valutare con il ragazzo/a la sua disponibilità e il suo gradimento per il mantenimento dell’assistenza da parte del pediatra.

Chiedo ai ragazzi di fermarmi, se non capiscono quello che dico. E io faccio lo stesso Maria Teresa Zocchi Medico di Medicina Generale

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a cosa cambia quando l’adolescente arriva dal Medico di Medicina Generale: succede al massimo a 14 anni, ma in molti casi anche prima, quando “per comodità” o per una gestione familiare più “facile” il ragazzo viene affidato al medico che segue tutta la famiglia. Comunicare con un quattordicenne e conquistare la sua attenzione e la sua fiducia non è semplice; diverso è seguire un bambino da piccolo, vederlo crescere, conoscerlo e farsi conoscere. Alla prima visita in genere viene accompagnato dal genitore e la tentazione di rivolgersi all’adulto per avere da lui notizie anamnestiche certe, già organizzate e ordinate, è forte. È invece importante parlare direttamente al ragazzo, mostrarsi disposti all’ascolto e pronti a capire le sue richieste, che il più delle volte non sono esplicite. A quattordici anni si va dal medico per una faringite, per una diarrea, oppure per un certificato sportivo; io riservo sempre uno spazio adeguato per la prima visita, con tutto il tempo necessario perché possano emergere dubbi, domande, richieste o semplicemente racconti spontanei. È per

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questo che bisogna lasciar parlare il giovane paziente, interrompendolo il meno possibile e facendo attenzione – senza turbare equilibri familiari – a eventuali interruzioni proprio della mamma! I ragazzi però sono quasi sempre in grado di difendersi e di zittire il genitore che parla al posto loro, spesso con modalità non proprio educatissime. In questo caso di solito decido di fissare un altro appuntamento e faccio capire a entrambi che preferirei vedere il giovanissimo da solo. Naturalmente li rassicuro che sarò poi disponibile a parlare con l’adulto e chiarisco che, salvo casi veramente eccezionali, non sarà mai possibile tradire eventuali confidenze del ragazzo. Non dico nulla di nuovo constatando che il linguaggio dell’adolescente non è lo stesso mio… non ho mai paura di sembrare una anziana retrograda nel chiedere spiegazioni o traduzioni di certi atteggiamenti o vocaboli. Nello stesso identico modo in cui dico “se non capisci fermami e chiedi”. Mai comunque fingersi amici, complici, usare lo stesso linguaggio: è inutile, faticoso e dannoso. Si può essere vicini, comprensivi e adeguati anche mantenendo la (giusta) distanza! Ho però imparato negli anni a non stupirmi delle modalità più colloquiali che invece loro utilizzano con me, dandomi tranquillamente del tu o mandandomi messaggi via mail o WhatsApp.

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IL DOSSIER

Abbiamo bisogno Ma perché volete di ballare un “lento” sempre sminuirci? Gli adulti devono essere dr. Jekyll e mr. Hyde

Viviamo tempi diversi con valori diversi

Cecila Alberti

Isabella Liburdi

Studentessa

Studentessa

L

A

’adolescente è un pendolo che oscilla tra passione e razionalità, tra follia e ragione, perché ‘adolescenza’ potrebbe essere un sinonimo di “crisi”. Ma non la crisi del mondo degli adulti; non quella economica, non quella di mezz’età, non quel momento di panico che si vorrebbe evitare. La “crisi” del periodo adolescenziale è quella che nasce della radicale riformulazione della visione del Mondo, perché in adolescenza ogni incontro, ogni sguardo, ogni bacio, ogni parola, sono un passo nel vuoto; sono il piede che si poggia sul prato e che schiacciando l’erba crea un sentiero. Così i giovani, noi giovani, ci ritroviamo a vagare su questa terra sconosciuta, sbandando più o meno volontariamente e andando fuori strada, ed è proprio per questo che “andiamo presi” così come siamo. Con tutta la follia che ci portiamo dietro dall’infanzia, con la passione che stiamo scoprendo giorno dopo giorno e la ragione che stiamo acquisendo gradualmente. Andiamo presi in tutta la nostra leggerezza da ragazzini e la nostra angoscia del futuro da quasi adulti. Cosi un adulto non può che oscillare a sua volta per favorire il percorso dell’adolescente, non può che alternare presenza e assenza, giocare al Dr. Jekyll e Mr. Hyde, incarnare una figura autoritaria che rassicuri, di cui ci si possa fidare e a cui ci si possa affidare e, dall’altro lato, mettersi sul suo stesso piano, come un eguale. L’adulto ha il compito di accompagnare per mano senza camminare davanti per guidare la scarpinata della crescita, ha il compito di sussurrare all’orecchio tutta la propria saggezza senza comandare dall’alto, ha il compito di lasciar soffrire senza essere troppo protettivo, ha il compito di giudicare senza etichettare. L’identità dei giovani si forma anche attraverso il riconoscimento che viene dato loro, per cui “i grandi” dovrebbero sentire la responsabilità di non incrinare quest’identità ancora acerba, di non guardarla di sbieco, ma di accompagnarla. L’adolescenza andrebbe affrontata come un “lento”, dove uno oscilla a destra e a sinistra, mentre l’altro accompagna ogni suo movimento.

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lla tua età i tuoi nonni non mi avrebbero mai permesso di fare una cosa del genere”. Ecco, è questo il momento in cui io, come credo il 99,9% degli adolescenti, decido di scollegare il cervello e riaccenderlo solo dopo la fine del solito discorso su quanto la mia generazione sia peggiore di quella di ‘un tempo’. Come sia possibile che gli adulti ancora non abbiano trovato un modo per comunicare con noi ragazzi, che non implichi per forza il dover sminuire tutto quello che facciamo? Innanzitutto non sopportiamo la tendenza sempre più frequente a generalizzare. Troppe volte ci sentiamo dire che siamo pigri, viziati, “sdraiati” e dotati di una soglia d’attenzione da invertebrati, ovviamente a causa del telefonino. Ma è davvero così? Mi viene in mente Greta Thunberg, per esempio, o Malala, ma non c’è bisogno di dar vita a grandi scioperi per il clima o di vincere un premio Nobel. Basta infatti pensare ai tantissimi ragazzi della mia età, o anche più piccoli, che dedicano settimanalmente ore del loro tempo per aiutare gli immigrati o le persone più povere. “Se fossi stato al tuo posto non lo avrei fatto, sai a me è successa la stessa cosa alla tua età e...”. Bene, finché questa affermazione rimane tale, o se è l’inizio di una riflessione che mi porta a maturare nuove consapevolezze. Il problema si pone, invece, nel momento in cui diventa un voler imporre a priori i frutti di un’esperienza già vissuta da altri, che può sembrare simile alla mia, ma che evidentemente non lo è. Con questo non sto dicendo che i genitori dovrebbero smettere di aiutare i figli, né che siamo alla ricerca di una ‘mamma per amica’. Ma per farlo davvero, smettetela di sminuire sempre i nostri “problemi”, solo perché ai vostri occhi non lo sono più. Viviamo in tempi diversi con problemi diversi, che si dovrebbero risolvere strada facendo e non applicando modelli prefabbricati. Sorrido quando sento dire che siamo una generazione ‘senza valori’: anche i valori sono cambiati, e forse bisognerebbe impegnarsi per cercare di capire i nuovi piuttosto che rimpiangere i vecchi. Quanti italiani in “Comizi d’amore” di Pasolini dicono di rimpiangere i vecchi tempi? Ma questo non ha impedito al tempo di passare e al mondo di cambiare.


IL DOSSIER

Chi l’ha detto che la storia è noiosa? Dipende da come la racconti. Bisogna “agganciare” i ragazzi e poi chiamarli in causa Intervista a Paolo Colombo Docente di Storia, Università Cattolica di Milano

I

l Teatro Carcano di Milano propone agli studenti delle scuole superiori cicli di spettacoli a metà tra lezione e performance teatrale. Performer e ideatore del format “Storia&Narrazione” è Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna anche Storia contemporanea. Chiediamo a lui se considera questa esperienza una modalità efficace di comunicazione con gli adolescenti. “Storia&Narrazione” racconta la Storia attraverso le storie con la ‘s’ minuscola, quelle di chi la Storia l’ha solo vista passare. E la fonde con musica, immagini, diari, romanzi, poesie... Sono ingredienti adatti per comunicare con i ragazzi? Comunicare con gli adolescenti è difficilissimo. Prima c’è da abbattere un muro che per noi adulti rischia di essere impenetrabile. Come si apre la breccia? A teatro, per aprire un canale di comunicazione con i ragazzi funziona bene combinare due fattori, riconoscibilità e riferimenti culturali transgenerazionali. Mi spiego: la musica di Game of Thrones o un brano di Harry Potter, nel mezzo della narrazione, fa scattare qualcosa perché loro li riconoscono

come propri, e nello stesso tempo sono riferimenti anche per noi. Se usassimo un rap di oggi li agganceremmo lo stesso, ma resteremmo noi tagliati fuori. Addio comunicazione. E una volta ‘agganciati’? Agli adolescenti, l’adulto che rompe i cliché piace, la disponibilità all’ascolto aumenta. Non è un caso se anche gli insegnanti ricorrono a questi strumenti: multimedialità, contaminazione con ciò che anche i ragazzi vivono in presa diretta, attualità, sport… se c’è qualcosa in cui possono immedesimarsi, scatta il fattore emotivo e, se provano un’emozione, quello che stanno vedendo o ascoltando gli resta più impresso. E poi c’è il “chiamare in causa”, la richiesta di pensarsi nei panni di chi è al centro della situazione che si sta raccontando. Innesti e contaminazioni non rischiano di amplificare il rumore che ‘disturba’ il processo di comunicazione? Io ho l’impressione che oggi i ragazzi abbiano, delle cose, una conoscenza esplosa. Un esempio: la Seconda Guerra Mondiale non la assorbono solo dalle lezioni e dai libri di scuola, ma la captano dai film, dai fumetti, dalle serie tv, dai viaggi che fanno, dai racconti del nonno, dai documentari, dalle canzoni... E la archiviano a pezzi e in modo diffuso, in tanti file mentali diversi. L’intermezzo orchestrale del III Atto della Manon Lescaut non lo classificano sotto “lirica”, ma sotto “colonne sonore” o “cinema”, come tema di Star Wars. Per comunicare con loro non si può non tenerne conto. Qual è l’obiettivo di “Storia&Narrazione” nei confronti degli adolescenti?

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Farli riflettere: per questo va attivata la loro curiosità. Ci riusciamo? Un feedback sono le discussioni a fine spettacolo. Ma per capire se l’intento comunicativo è raggiunto dovremmo sapere cosa fanno ‘dopo’, quando tornano a casa. Se cercano su Google qualcosa di cui si è parlato, o che hanno visto o ascoltato in teatro, allora sì, la comunicazione c’è stata. Ha accennato alla multimedialità... Almeno sul palcoscenico, la multimedialità più efficace nella comunicazione con gli adolescenti è quella che introduce un elemento manuale, analogico. Staccare con una canzone che esce dagli altoparlanti o farlo con una chitarra è molto diverso. In un caso allenti la tensione, nell’altro i ragazzi cantano insieme a te. In sala, la narrazione di Paolo Colombo prende forma su uno schermo: è la proiezione delle immagini che Michele Tranquillini, illustratore e grafic designer, disegna in diretta dal palco. Chiediamo a lui come spiega l’impatto di qualcosa di manuale come il disegno o la pittura sugli adolescenti. Nel mondo di Internet, loro per primi danno per scontato che sullo schermo apparirà qualcosa che esce dal web: non si emozionano. Se mentre ascoltano raccontare un fatto, un personaggio, questo gli si forma davanti agli occhi, li sorprende e li stupisce. Un po’ è il bello della diretta, un po’ è l’effimero che connota anche molti dei loro modi di comunicare.

Simona Mazzolini

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LA SCUOLA

I NUMERI CHE SPIEGANO LA CRISI DEGLI STUDENTI

I dati sull’abbandonano scolastico (e sulla qualità della preparazione) ci dicono che la scuola italiana va drammaticamente peggiorando. Ma si deve e si può cambiare Rocco Cafarelli Dirigente scolastico

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’è una costante nel comportamento della politica, dei media e dell’opinione pubblica del nostro Paese: ad ogni nuova pubblicazione dei dati sulla disastrosa situazione dell’abbandono scolastico tutti si allarmano e sembrano stracciarsi le vesti, non ultimo il Presidente del Consiglio nel discorso di insediamento del suo secondo mandato a Palazzo Chigi. Verrebbe da pensare, quindi, che si agirà di conseguenza a tutti i livelli e responsabilità, trattandosi di una importante emergenza nazionale. Invece dopo qualche giorno si mettono in soffitta i buoni propositi, le promesse e tutto, purtroppo, torna come prima. Eppure si tratta di una vera, grave, emergenza. Cerchiamo di capire perché.

I FATTI Confrontando i numerosi dati pubblicati nell’ultimo anno da diversi istituti e agenzie – MIUR, INVALSI, ISTAT, Corte dei Conti, CGIA (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, Save the Children, la rivista Tuttoscuola e OXFAM (Confederazione di organizzazioni non profit) – scopriamo che in Italia negli ultimi vent’anni sono

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stati esclusi dalla scuola tre milioni e mezzo di studenti su undici! È come se fosse scomparsa un’intera città come Roma. Seicentomila sono gli studenti tra i 18 e i 24 anni che non terminano gli studi. Secondo il Rapporto SDGS (Sustainable Development Goals) dell’ISTAT 2019, nonostante la fuga dalla scuola sia in calo in tutta Europa, l’Italia risulta invece al terzo posto tra i 19 paesi dell’area dell’euro per abbandono scolastico: la quota di studenti che hanno abbandonato la scuola prima del diploma è salita al 14,5%, quattro punti in più della soglia limite del 10% posta come traguardo in ambito europeo. L’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione, sottolinea l’ISTAT, è aumentata negli ultimi due anni. Fan-

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no peggio di noi solo Romania e Malta. Persino il Portogallo e la Bulgaria stanno contrastando più efficacemente dell’Italia la dispersione scolastica. Ma non ci fermiamo qui. Secondo le rilevazioni annuali somministrate dall’INVALSI (Istituto di valutazione del Ministero dell’Istruzione) del 2019, le competenze alfabetiche, numeriche e per la lingua inglese risultano inadeguate per una percentuale significativa di studenti. I ragazzi del terzo anno delle Scuole Superiori che non raggiungono la sufficienza sono il 34,3% nelle competenze alfabetiche e il 40,1% nella matematica. Sempre dalla rilevazione sui livelli di apprendimento effettuata sugli studenti dell’ultimo anno un mese prima degli esami di Stato, risulta che ben il 7,1% non è ancora in grado di capire un libretto delle istruzioni di modesta difficoltà, non sa applicare semplici nozioni matematiche ai compiti della vita quotidiana, ha una conoscenza assai modesta della lingua inglese. Questo vuol dire che al 14,5% di studenti che abbandonano la scuola prima del diploma bisogna aggiungere quest’ultimo 7,1%, portando il livello di dispersi complessivo, tra espliciti ed impliciti, al 21,6%. La scuola cioè perde lungo il suo percorso più di un ragazzo su


LE CONSEGUENZE

cinque! C’è poi da aggiungere il fatto che tutti gli studenti ammessi agli esami finali vengono generalmente promossi. Quindi saranno sì diplomati ma con competenze al di sotto della soglia considerata di accettabilità, che non gli permetteranno cioè di superare un test di accesso all’Università, né di accedere ai settori qualificati del mondo del lavoro, e neppure di esercitare una cittadinanza attiva. Solo il 27,9% dei giovani tra i 30-34 anni è laureato o ha un altro titolo terziario, un livello molto inferiore alla media europea e superiore solo a quello della Romania. Proseguendo nell’analisi dei dati, la CGIA ci dice che tra gli studenti che si diplomano e quelli che si iscrivono all’Università, uno su due non ce la fa. Complessivamente su 100 iscritti alle superiori solo 18 si laureano! Ma poi un quarto dei laureati va a lavorare all’estero. Solo nel 2018 sono stati 62.000 i cosiddetti “cervelli in fuga”: un impoverimento culturale enorme per il nostro Paese. Il 38% dei diplomati e laureati che resta in Italia non trova un lavoro corrispondente al livello degli studi svolti.

Un quadro che fa sì che nel nostro Paese il 26% dei ragazzi e delle ragazze tra i 15 e i 29 anni, 2 milioni e quattrocentomila, non studi e non lavori, che raggiunge addirittura il 37% tra i 25 e i 29 anni. Sono i cosiddetti NEET, rispetto a una media dei Paesi dell’area OCSE del 13%: esattamente il doppio! A fronte di tale emergenza, l’Italia è da un ventennio uno dei Paesi con i più bassi investimenti nell’istruzione in rapporto al PIL. Secondo il rapporto ASVIS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) 2018, l’Italia investe appena il 4% del PIL in educazione rispetto alla media europea del 5% e, in termini di quota sulla spesa pubblica, l’Italia è passata dal 9,1% del 2008 al 7,9% del 2015, a fronte di valori del 9,6% di Germania e Francia e del 9,3% della Spagna: un risultato che ci pone dietro alla gran parte dei Paesi Ue. Sono tutti dati allarmanti sull’alto numero di giovani che continuano ad abbandonare prematuramente la scuola, anche quella dell’obbligo, concorrendo così ad aumentare la disoc-

ABBANDONI: PIÙ MASCHI E PIU’ AL SUD Dati ISTAT 2018

21 18,8 16,5

10,7 SUD

NORD

8,6 CENTRO

NORD

CENTRO

NORD

Totale Maschi16,5

10,1

SUD

12,2

Totale Femmine12,3

CENTRO

12,7 SUD

14,1

Totale 14,5

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TENGONO DI PIÙ LE SCUOLE STATALI

Analizzando nel dettaglio i dati pubblicati dal Ministero dell’Istruzione, notiamo che nella Scuola Secondaria di I grado (Scuola Media), trattandosi di studenti di età inferiore, il dato della dispersione scende allo 0,8. Più elevato nelle isole e nel sud Italia, tra i maschi rispetto alle femmine; più elevato tra gli studenti che sono in ritardo nel loro percorso scolastico (4,85%) e tra gli alunni stranieri che non sono nati in Italia (4%). Dai dati del MIUR emerge che nell’istruzione superiore, invece, nell’anno scolastico 2016/17 hanno abbandonato la scuola più di 35.000 studenti, che nel successivo anno 2017/18 sono addirittura raddoppiati fino a 64.000! Con una marcata differenziazione di genere: 4,6% tra gli studenti e 3% tra le studentesse, e un abbandono complessivo al primo anno delle superiori del 6,2%. Anche qui le percentuali si impennano nelle isole e nel sud e tra gli studenti stranieri non nati in Italia. Sempre nella Scuola Secondaria di II grado il tasso di abbandono complessivo è più elevato nelle scuole paritarie, con una percentuale del 7%, doppio rispetto a quello registrato nelle scuole statali, pari al 3,7%. Dal punto di vista della regolarità del percorso scolastico gli alunni maggiormente interessati dal fenomeno della dispersione sono quelli in ritardo scolastico, per i quali l’abbandono complessivo è pari al 13,7% contro l’1% degli alunni in regola. Il tasso di abbandono per indirizzo scolastico va dall’1% del Liceo classico e scientifico fino al 9% degli Istituti Professionali.

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cupazione giovanile, il rischio povertà e l’esclusione sociale. Una persona che non ha un livello minimo di istruzione, infatti, è destinata a un lavoro dequalificato, spesso precario e con un livello retributivo basso. Un problema, quello degli studenti descolarizzati, che il nostro Paese sta sottovalutando, visto che nei prossimi anni, anche a seguito della denatalità in atto, il mondo del lavoro rischia di non poter contare su persone sufficientemente preparate. Eppure, continua l’analisi della CGIA, studiare conviene: “la disoccupazione tra chi ha solo la licenza media è quasi doppia rispetto a chi è arrivato al diploma e quasi il quadruplo di chi è laureato; l’istruzione incide sulla salute, riducendo i costi per la sanità; comporta meno criminalità e meno costi per la sicurezza. Prevenire la dispersione scolastica avrebbe costi molto più bassi di quelli che derivano dalla necessità di gestirne le conseguenze sociali”.

COME INTERVENIRE Fin qui l’analisi impietosa dei dati sull’abbandono scolastico precoce e sulle conseguenze disastrose per il futuro

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dei nostri studenti e del nostro Paese. Le cause che determinano l’abbandono scolastico sono molteplici, principalmente culturali, sociali, economiche: i ragazzi che provengono da ambienti a basso reddito, socialmente svantaggiati e da famiglie con uno scarso livello di istruzione hanno maggiori probabilità di non terminare il percorso di studi. Un fenomeno quindi complesso e pluridimensionale. Occorre pertanto adottare una visione organica complessiva, prendere consapevolezza dell’entità del fenomeno e delle sue conseguenze multisettoriali e multilivello. È necessaria una vera assunzione di responsabilità individuali e collettive: dagli insegnanti ai dirigenti scolastici, dalle famiglie agli Enti territoriali, dal Ministero dell’istruzione al Governo, dalle fondazioni ai corpi intermedi, dalle imprese al Terzo settore, alle parrocchie. Bisogna quindi impegnarsi per un nuovo “patto formativo” tra tutti gli attori interessati, perché l’educazione è un compito dell’intera società, non delegabile ad una singola agenzia. La scuola non può essere lasciata sola. Bisogna che finalmente la politica – Governo, Parlamento, amministrazione scolastica nazionale e decentrata – pro-

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grammi strategie e interventi significativi di lunga durata. Conoscendo la scuola dal suo interno sono convinto che è l’intero sistema scolastico italiano a dover essere riformato nella sua architettura, perché non più in grado di rispondere alle sfide del XXI secolo. Vediamo, allora, alcuni interventi necessari per migliorare il sistema scolastico italiano nel suo insieme: 1. Rendere obbligatoria la Scuola dell’Infanzia portandola a rango di “prima vera scuola” del sistema scolastico nazionale. 2. Completare il processo, rimasto incompiuto con la sola abolizione dell’esame di quinta elementare, di una completa unificazione tra la Scuola Primaria e la Secondaria di I grado (Scuola Media), riducendo il percorso complessivo a sette anni. Questo, oltre a rendere più coerente il percorso scolastico attraverso un curricolo verticale unico, permetterebbe ai nostri studenti di recuperare il ritardo di un anno nel terminare le scuole superiori rispetto ai coetanei europei. 3. Estendere a tutto il Paese un model-


lo di “scuola a tempo pieno” qualificata con la mensa. 4. Istituire nelle Scuole Superiori il biennio unico obbligatorio che permetta agli studenti di scegliere consapevolmente quale indirizzo di studio poi proseguire. 5. Portare l’obbligo scolastico a 18 anni, come già avviene nella maggior parte dei Paesi europei. 6. Non da ultimo: migliorare la qualità professionale degli insegnanti attraverso una seria formazione iniziale che preveda momenti di tirocinio nelle scuole ed un Piano nazionale di aggiornamento obbligatorio e continuo per gli insegnanti in servizio, con impegni e orari definiti. Solo così si potrebbero contrastare le sacche di inerzia e approssimazione professionale che purtroppo ancora convivono nella scuola accanto a molti docenti qualificati, impegnati e motivati. È esattamente il contrario di quello che, invece, è accaduto negli ultimi vent’anni con interventi di breve durata, palliativi, linee d’azione discontinue con modifiche ad ogni nuovo governo, politiche mirate solo a “mettere bandierine”, a catturare il consenso immediato. Chi opera nel campo dell’istruzione sa che la scuola italiana è esausta per il turbinio di progetti e interventi calati dall’alto, spesso estemporanei o contraddittori. Nello specifico, per riuscire a contrastare l’abbandono scolastico occorre,

invece, l’elaborazione di un Piano pluriennale contro la dispersione scolastica, come indica persino la Corte dei Conti nella sua ultima relazione 2019 “La lotta alla dispersione scolastica: risorse e azioni intraprese per contrastare il fenomeno”. Occorre mettere in atto misure di prevenzione e compensazione adeguate alla gravità del problema. Adottare strategie efficaci che consentano di intercettare il disagio e che riescano a rimotivare lo studente attraverso percorsi di istruzione basati sull’esperienza dell’apprendimento e non soltanto sul contenuto, partendo già dalla prima classe della Media, non limitandosi alle Superiori, quando il fenomeno dell’abbandono si rende visibile. Scopriamo infatti dalle rilevazioni INVALSI che il livello di apprendimento di una quota significativa dei ragazzi che terminano la terza Media è al di sotto della soglia di accettabilità. È già dalla Scuola Media, quindi, che bisogna programmare interventi mirati sui ragazzi che hanno accumulato deficit tra la quarta classe della Scuola Primaria, dove iniziano a manifestarsi le lacune, e le tre classi della Media, attraverso azioni di compensazione e di rafforzamento per gli studenti coinvolti, anche con “gruppi di livello di apprendimento”, almeno in italiano, matematica e inglese. Occorre prevedere progetti di rimotivazione all’esperienza scolastica, di ricostruzione dell’interesse, della curiosità, della capa-

cità di concentrazione e della responsabilità, organizzando laboratori innovativi, introducendo meccanismi di “mentoring”, dove gli studenti “più avanti” negli studi possano aiutare i compagni in difficoltà. È oramai accertato, infatti, che ridurre drasticamente la dispersione scolastica portandola al livello fisiologico è possibile. Ci sono Paesi come la Norvegia, il Giappone, la Corea che sono riusciti ad azzerarla per gli studenti quindicenni e ridurla fino al 3-4% per i diciottenni (dati OCSE-PISA). Intervenire oggi è possibile perché, fra l’altro, si stanno per liberare risorse economiche e professionali significative dovute alla diminuzione costante degli studenti, determinata dal forte calo demografico (95.000 unità nell’ultimo anno, un milione nel prossimo decennio). Sta cadendo insomma l’alibi della mancanza di risorse che avrebbe impedito finora di intervenire. Si potrà finalmente investire in modo significativo fornendo un’offerta formativa di qualità a tutti, a condizione che l’istruzione venga assunta come una priorità nazionale attraverso un “Piano strategico pluriennale” di investimenti e interventi coordinati. Vogliamo costruire per i nostri giovani un futuro migliore dando la possibilità a tutti di conseguire un diploma o una qualifica professionale? Far sì che dietro ai titoli di studio conseguiti ci siano conoscenze, competenze e abilità effettive? Almeno questo, noi adulti, glielo dobbiamo!

14,5%

7,1%

50%

18%

abbandona prima del diploma

si diploma senza adeguate capacità

degli iscritti all’università non la finiscono

degli iscritti alle superiori si laureano

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MITI GIOVANILI

DA GRANDE VOGLIO FARE IL FUMETTISTA Può sembrare strano, ma la “vecchia” arte di disegnare (e scrivere) fumetti è ambita da molti ragazzi. Un’esperta e un grande autore spiegano qual è la strada Edoardo Rosati

I

sogni di un adolescente potrebbero anche essere fatti di… segni. Anzi, tutto attaccato: potrebbero essere disegni. Nel senso che c’è chi aspira a trasformare in mestiere la personale passione per il mondo delle nuvole parlanti. Del resto, è innegabile: viviamo circondati dalla comunicazione visiva, in un’era in cui le immagini sono pervasive nelle modalità di trasmissione delle informazioni. E il disegno è un medium potente nel diffondere messaggi, tanto in campo artistico quanto in quello pubblicitario. E tra le professioni aventi a che fare con le immagini, il fumettista appare agli occhi di tanti adolescenti – bombardati da

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manga, supereroi e computer animation – una meta particolarmente vagheggiata. Magari lo è un po’ meno nel pensiero dei genitori, che, sondaggi alla mano, continuano a progettare per i loro figli carriere nel campo dell’ingegneria, della medicina, dell’architettura… Ma, si sa, le cose cambiano e di questi tempi la tradizionale “sicurezza” di tali mestieri non è più così garantita. Per cui non è affatto un’“anomalia” che le mamme e i papà vedano il proprio ragazzo scalpitare per intraprendere la carriera del disegnatore di fumetti. Ma diventare fumettista rischia oggettivamente di rivelarsi una mission impossible nell’attuale mercato editoriale così saturo di offerte? No. Michele Rech, in arte Zerocalcare, trentaseienne cavallo di razza del fumetto italico, è stato protagonista di una prestigiosissima mostra al MAXXI di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Ma prima di approdare in questa nobile istituzione dedicata alla creatività contemporanea ha sudato per otto lunghi anni. Insomma, il messaggio non troppo tra le righe è questo: chi ha veramente qualcosa da dire, da dimostrare, da esprimere attraverso il disegno deve farsi sempre accompagnare nel cammino professionale da fratello Impegno e sorella

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Costanza. E poi agli inizi, prima di tuffarsi nella mischia, l’aspirante fumettista dovrebbe imparare ad alimentare il proprio immaginario e ad “armare” la mano con la giusta dose di stimoli. «Leggere fumetti, tanti e vari, ampliare gli orizzonti con libri, mostre, film e telefilm, frequentare le fiere specializzate». Ecco la ricetta prioritaria secondo Laura Scarpa, rinomata autrice di fumetti, illustratrice per ragazzi, editor, studiosa della nona arte e docente. Insomma, per la professione del disegnatore è consigliabile una buona base culturale. Tutto ciò, dice Scarpa, è sicuramente propedeutico per conoscersi e conoscere/bazzicare questo settore lavorativo. Poi, se la volontà è quella di diventare un fumettista-che-disegna (intendiamo: non lo sceneggiatore), c’è una pratica da coltivare che in tal caso non è affatto deprecabile: copiare. «Proprio così. Si può conquistare un’ottima professionalità emulando tecniche e stili altrui», interviene Silver, alias Guido Silvestri, il celeberrimo papà di Lupo Alberto. «Cito il grandissimo Hugo Pratt. Ebbene, nella formazione di questo fuoriclasse disegnatore italiano ha esercitato una profonda influenza lo statunitense Milton Caniff con la sua famosa striscia a fumetti di genere avventuroso Terry e i pirati. Perché la verità è proprio questa: soltanto copiando gli altri impari. Anzi, io ho un suggerimento per l’adolescente che ha in animo di fare il fumettista:


prendere un qualsiasi disegno e ricalcare con attenzione tutti i contorni delle figure presenti nell’immagine. È un’educazione formidabile per familiarizzare con linee e tratteggi». Domanda: ma servono le scuole? «Sì, anche se non sono indispensabili», risponde Laura Scarpa. «C’è chi apprende da solo, è vero, ma le scuole di comics possono fornire le dritte giuste, consentire a un ragazzo di avvicinarsi ad altri aspiranti come lui, offrirgli la chance di confrontarsi e riconoscere i propri errori, mettergli a disposizione un panel di docenti che oltre a insegnare tecniche e teorie sapranno indirizzarlo nel modo più vantaggioso per sveltire i suoi progressi». È ciò che lo staff di Laura Scarpa propone con @ Scuola di fumetto on line per principianti e professionisti di ogni età (www.ascuoladifumetto-online.com). «È bello vedere come gli allievi si migliorino a vicenda e che qui scoprono strade innovative, inaspettate, capaci magari di rivelarsi più consone alla personalità del singolo ragazzo». Certo è che oggi la condivisione in tempo reale e la diffusione globale rese possibili dai social network stanno inculcando nei giovanissimi una percezione distorta: che bastano due schizzi online per trasformarsi in un fumettista cool… «In effetti, oggi sembra che prevalga la capacità di vendersi e pubblicizzarsi. Il mio parere? In genere dura poco se non c’è altro valore sotto», continua Scarpa. «Al tempo stesso, direi che oggi i social media sono piattaforme necessarie per farsi le ossa, anche se a volte illusorie. In ogni caso, se un adolescente decide di aprirsi un canale digitale deve produrre e postare con continuità i propri lavori: non solo è fondamentale per la comunicazione ma è anche un segno di professionalità pensando a un eventuale domani con gli editori». «Bisogna comunque avere la consape-

volezza che disegnare significa sgobbare e metterci l’anima», aggiunge Silver. «Tante volte mi è capitato di dire ai ragazzi che hanno bussato alla mia porta: “Volete essere dei fumettisti? Okay: adesso andate a casa e sfornatemi un tot di disegni che mi consentano di capire grosso modo quanto sapete lavorare e con quale grado di accuratezza”. Be’, la maggior parte di costoro si dilegua», commenta con amarezza Guido Silvestri. «E volete sapere perché? Perché l’umiltà è merce rara, purtroppo. E la fretta di emergere col minimo sforzo sta diventando un brutto andazzo. Chissà, forse un po’ di colpa è anche nostra: abbiamo inavvertitamente trasmesso la sensazione che questo mestiere è “super figo”, senza poi contare l’atteggiamento borioso da rockstar di certi artisti. Ragazzi miei, saper creare con matite e chine è bello e appagante, ma la vanità e l’improvvisazione non portano lontano!». Le prerogative che dovrebbero delineare ogni buon aspirante fumettista? Eccole: garbato, con le idee chiare, presente ma non insistente, buon ascoltatore, rapido a spiegare, pronto a eseguire/correggere, fedele alla linea editoriale dell’editore che decide di contattare ma con un misurato tocco di originalità e temperamento in più... Aggiungendo sempre «una sana quantità di modestia», dice Silver, «e la capacità di guardarsi attorno e cogliere il nostro tempo», conclude Scarpa. Mescolate ben bene e addizionate… un’inevitabile scorzetta di fortuna. Lupo Alberto, il personaggio di Guido Silvestri, in arte Silver, che ci ha donato questi disegni. È uno dei più popolari fumetti italiani.

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MITI GIOVANILI

HAI MAI INCONTRATO JOKER? Alter ego di Batman, con il quale condivide una storia simile: un trauma adolescenziale Maria Francesca Basoni Psicologa Psicoterapeuta di Psichemilano - mfbasoni@yahoo.it

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uante volte abbiamo incontrato Joker nella nostra vita? Quante volte ci siamo sentiti come si sente Joker? Escluso, emarginato, solo, vittima di ingiustizia. Sentimenti comuni, soprattutto tra i più giovani, che spesso vivono emozioni al limite e sono sempre alla ricerca di un eroe o antieroe, come in questo caso, in cui rispecchiarsi o con cui sentire comunanza. Il film di Todd Phillips è quasi disturbante nel suo mostrare in modo sfacciato, ma mai irriverente, i malesseri che colpiscono le persone e la società odierna. Nessuno è immune, nessuno rimane indifferente. La figura di Joker, così intrecciata con Batman, è stata oggetto di studio di numerosi psicologi: di che patologia soffre? Perché è così folle? È cattivo o malato? Crudele criminale, o psicopatico incapace di intendere e volere? E soprattutto, Batman potrebbe esistere senza Joker? A un primo sguardo Joker sembra incarnare la follia totale, il caos, l’imprevedibilità, in contrapposizione al suo nemico, alla sua nemesi, il Cavaliere dell’ordine, della giustizia e della moralità. Forse però sono entrambe maschere, quelle di Joker e quella di Batman, che in qualche modo nascondono qualcosa di molto più intimo, profondo. Da un punto di vista psicoterapeutico si potrebbe dire che quelle maschere sono vere e proprie “difese”, protezioni, che permettono di non sentire il dolore che tormenta e logora i personaggi. Quante volte si indossano delle maschere per nascondersi o per essere diversi da quello che si è veramente: i ragazzi in

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particolar modo hanno bisogno di celare insicurezze, fragilità, l’inconsistenza di un “io psichico” non ancora formato, dietro ad una “maschera”, aderendo a modelli o stereotipi che possano rappresentarli, in momenti diversi della loro vita. Pensiamo alla funzione fondamentale della maschera, dai tempi antichi, non solo per nascondersi ma per essere socialmente accettati. Le maschere odierne, i sorrisi e le pose sui social, i video su TikTok e i filtri delle foto su Instagram sono esattamente questo: non un modo di condividere (non si divide niente con l’altro, “non tolgo a me per dare a te”) ma di mentire e mostrare solo una parte di sé, più o meno realistica. Quindi Joker, cosi come il suo antagonista Batman, si nasconde: che cosa hanno in comune? Dal punto di vista psicologico, entrambi hanno sofferto di un trauma: quello dell’abbandono. La morte per uccisione dei genitori di Bruce Wayne, che compare anche in questo film, e la storia famigliare oscura di Arthur rimandano a un dolore che spezza in due, che cambia in modo definitivo le sorti dei due ragazzi. Se pensiamo ai due personaggi, cosa li porta a reagire diversamente? Il giovane Bruce ha il noto maggiordomo Alfred che lo aiuta e sostiene. Che lo “tiene al caldo”. Come spesso succede anche nella vita di tutti noi, sono le relazioni affettive o determinati incontri o presenze speciali a fare la differenza nella nostra storia. A volte a salvarci. Joker chi ha? Viene abbandonato da tutti, anche dai servizi sociali e nella solitudine cresce la sua follia, orientata quindi

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a vincere questa condizione; ed è quando ci riesce che si sente gratificato, perché effettivamente si sente meno solo. Follia che vira velocemente in crudeltà: più Arthur incarna Joker dando voce e vita a istinti biechi (nella città di Gotham, alias la società), più si sente visto, riconosciuto, amato. Di nuovo, pensiamo a tutte le volte che ci siamo imbattuti in questo tipo di dinamica, in cui c’è qualcuno, un adolescente emarginato o un ragazzino solo, che trova nell’interpretare il ruolo del “cattivo” la soluzione, la via d’uscita dall’angoscia e dal vuoto di una solitudine affettiva. Capire cosa prova Joker agevola un importante processo, l’identificazione, quasi catartica, scomoda da accettare, ma altrettanto liberatoria. E gli spettatori, non tutti forse, ma sicuramente buona parte, si sentono solidali con Joker, fanno il tifo… in una sorta di sentimento di rabbia e odio condiviso. Empatizzare con il protagonista ci aiuta a stare dalla sua parte, a comprendere meglio che i confini tra bene e male, tra sofferenza ed equilibrio, sono mobili e che nulla è definito.


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