N° 11 - Novembre 2021 - Supplemento del periodico Valsugana News
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L’Italia in controluce di Armando Munaò
Allarme povertà in Italia
Fenomeno davvero preoccupante
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el nostro paese, il Covid e la pandemia globale hanno messo in evidenza le forti disparità tra i privilegiati e chi non riesce ad arrivare a fine mese, Infatti, secondo i dati diffusi dalla Caritas, nel Rapporto 2021 sulla povertà ed esclusione sociale, intitolato “Oltre l’ostacolo”, ci sono oggi oltre un milione in più di poveri assoluti rispetto al pre-pandemia 2020. Fino ad oggi la Caritas ha prestato soccorso a oltre 1,9 milioni d’italiani, una media di quasi 300 individui per ciascuno dei 6.780 servizi gestiti dallo stesso circuito delle Caritas diocesane e parrocchiali (al cui interno operano circa 95mila volontari laici e più di 800 ragazzi in servizio civile). Nei centri di ascolto e servizi le persone incontrate sono state complessivamente 212mila e delle persone sostenute nell’anno di diffusione del Covid19, quasi la metà, il 44% ha fatto riferimento alla rete Caritas per la prima volta. Un aumento di circa l’8%, rispetto al primo periodo Covid, e che nello specifico riguarda gli italiani che sono stati assistiti dall’Associazione umanitaria,
mentre sale al 28% circa, la quota di chi, purtroppo, vive ancora le diverse forme di povertà croniche. E in merito a questa particolare situazione preoccupano anche i cosiddetti poveri “intermittenti” (19,2%), ovvero coloro che oscillano tra il “dentro-fuori” la condizione di bisogno, ponendosi non di rado- evidenzia la Caritas – appena sopra la soglia di povertà e che appaiono in qualche modo in balia degli eventi, economici/occupazionali (perdita del lavoro, precariato, lavoratori nell’economia informale) e/o familiari (separazioni, divorzi, isolamento relazionale, ecc.). Tra le regioni con più alta incidenza di “nuovi poveri” troviamo la Valle d’Aosta (61%), seguita dalla Campania (57%) dal Lazio (53%) dalla Sardegna (51,5%) e dal Trentino Alto Adige con il 50,8%. E sono anche altri numeri, preoccupanti, che ci presentano una situazione che merita particolare e urgente attenzione. Sono oltre 5,6 milioni le persone che vivono in povertà assoluta pari a due milioni e più di nuclei familiari. Non solo, ma negli ultimi dodici mesi si è quantificato anche un notevole aumento a svantaggio di giovani e under 30 per un totale di oltre 1milione e 350mila minori che non hanno le risorse economiche necessarie per condurre una vita quotidiana dignitosa. Per i giovani adulti di età compresa tra i 18 e
i 34 anni le nuove povertà sono salite al 57,7%. La crisi socio-sanitaria ha inoltre acuito le povertà già esistenti: la quota di “poveri cronici” (che frequentano cioè i circuiti Caritas da circa 5 anni) è salita dal 25,6% nel 2019 al 27,5% nel 2020, una persona su quattro. Dai dati Caritas evince anche che l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta é più alta nel Mezzogiorno (9,5%) anche se la crescita maggiore - in questi anni di pandemia - ha interessato le regioni del Nord (dal 5,8% al 7,6%). Tornando al rapporto che si riferisce ai nuovi poveri, per effetto della pandemia, quasi il 30% che mai si era rivolto alla Caritas, prima e durante il 2020, ha, purtroppo, dichiarato di “non farcela” e di avere ancora bisogno di aiuto in questo 2021, mentre, dato confortante, il 70% circa (oltre i due terzi), rispetto al 2020, non ha fatto più ricorso all’assistenza umanitaria. Una percentuale che lascia ben sperare che, secondo gli esperti, è principalmente dovuta alla ripartenza e al miglioramento della situazione economica italiana. Sfogliando i dati del rapporto si legge anche che l’età media delle persone che hanno usufruito dei servizi umanitari è di 46 anni e che oltre la metà di quelle che hanno chiesto aiuto al circuito Caritas (circa il 57%) ha al massimo la licenza di scuola media inferiore, percentuale che tra gli italiani sale al 65,3% e che nel Mezzogiorno arriva al 77,6%. Il 64,9% degli assistiti ha dichiarato di avere figli (percentuale che corrisponde a oltre 91.000 persone) e tra loro quasi un terzo vive con figli minori (pari a 29.903 persone).
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Novembre 2021
L’Italia in controluce
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Gli acquisti online
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Sommario
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Moda oggi: Le riviste di moda in Italia
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L’editoriale: si protesta, ma la povertà cresce 6
I Miracoli di Val Canzoi
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Le donne libere dell’Afghanistan
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Il personaggio di ieri: Chiara Varotari
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La vita e lo sport a suon di musica
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Tra passato & presente
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La storia siamo noi
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L’avvocato risponde: la rinegoziazione del mutuo 70
Papa Luciani: un Beato ladino 14
Attualità: il decreto riaperture
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La nuova Babele al tempo dei social
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Fatti & misfatti. Le piazze in rivolta
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La politica della penisola
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Medicina & Salute: i rimproveri fanno crescere 76
Racconti d’Arte: Venezia e la realtà virtuale
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Medicina & Salute: la Logopedia 78
Accadde nel mondo
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Medicina & Salute: l’Onicofagia 81
Il personaggio: Romano De Gan
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L’Haiku, la poesia che cura
Il senso religioso: la chiamata alla libertà
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La pagina verde 83
Ieri avvenne: Vajont 9 ottobre 1963
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Non solo animali: i cani soldato
La comunità degli Scalzi alle Laste
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La festa dell’amicizia a Rasai 87
Aprono le Funivie Lagorai
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Fatti & Misfatti: la riforma del catasto
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La Storia parlata : i Ladini 34
Arte & Società: la Pixel Art
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Uomo e società
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Black Mirror: la tecnologia cambia la vita 94
Novembre: le date da ricordare
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Che tempo che fa: la plastica riempie gli oceani 96
Referendum: la parola ai cittadini
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Uomo & Natura: l’origine del linguaggio parlato 98
Uomo e natura: la caccia d’autunno
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Speciale Sci Club Croce D’Aune 47 Economia & Finanza: alla scoperta del PIL
Un Beato ladino PAPA LUCIANI Pagina 14
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Internet, finestra sul mondo: gli Hikikomori
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Il Documento Unico di Circolazione
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Il personaggio ROMANO DE GAN Pagina 24
Non solo animali I CANI SOLDATO Pagina 84
COMUNICATO DI REDAZIONE
Inizia con questo numero la collaborazione con il dott. Emanuele Paccher, laureato presso l'Università degli studi di Trento nel corso “Amministrazione aziendale e diritto”, con valutazione di 110 e lode. Attualmente è studente presso l'Università degli studi di Padova per il conseguimento della laurea in Giurisprudenza. Il dott. Paccher curerà le rubriche di politica, attualità, economia e finanza.
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L'editoriale di Armando Munaò
E MENTRE SI PROTESTA
LA POVERTÀ CRESCE
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us Soli, decreto Zan, NO e PRO Vax, estremisti di destra e di sinistra, centri sociali, manifestazioni di tutti i tipi e generi, e chi più ne ha più ne metta. E' questa, ahinoi, la quotidianità che da parecchio tempo si vive in Italia, non considerando che altri, e più impellenti, sono i problemi che interessano gli italiani, specialmente quelli che riguardano i meno abbienti e di coloro i quali, non di rado, mendicano un pranzo o una cena. Certo, alcune manifestazioni sopracitate per molti saranno anche importanti, ma non tali da richiedere urgente soluzione. Eppure a dispetto di una situazione veramente drammatica, i nostri politici, nessuno escluso, perdono tempo a parlare di temi e sviscerare
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problemi che andrebbero posizionate tra le ultimissime pagine nel libro del nostro vivere dimenticandosi che oggi più di otto milioni d’italiani vivono in povertà, tra assoluta e relativa. Si organizzano mega manifestazioni per protestare contro il possibile ritorno del fascismo (e chi ci crede), contro il Green pass, avverso decisioni delle istituzioni che andrebbero contro la libertà e il popolo o per combattere le scelte del governo, compresa quella, che a ragione, spinge e raccomanda la vaccinazione per tutti gli italiani allo scopo di combattere la pandemia che ha causato oltre 130mila morti. Ultimamente si riempiono le piazze e si chiamano a raccolta le più svariate classi sociali, ma non per mettere
un vero freno alla crescente povertà nel nostro paese o per trovare soluzioni a problemi reali quali il lavoro e l’occupazione giovanile, la difesa delle imprese, la sicurezza e la legalità, bensì per urlare ai quattro venti argomentazioni che, a mio modesto avviso, lasciano il tempo che trovano e che saranno destinate a cadere nel dimenticatoio. Fateci caso, ma nelle settimane prima delle elezioni amministrative non si è parlato altro che di fascismo, antifascismo, sovranismo e via discorrendo. Poi, però, come puntualmente avviene da decenni e chiuse le sedi elettorali, quella che prima era considerata un’emergenza vera e un pericolo assoluto, cade nel dimenticatoio per poi puntualmente riemergere alla prossima tornata elettorale. Sarà strano, ma il pericolo fascismo scatta come la par condicio e magicamente spunta prima di ogni elezione, sia essa nazionale o regionale, per poi sparire a urne chiuse. E su questa mia posizione, per fortuna, non sono solo perché tantissimi opinionisti, ben più competenti del sottoscritto, ospiti dei vari talk show nelle tv, sono della stessa idea. Paolo Mieli, che di certo non è un simpatizzante di Meloni, Salvini e del Centro Destra, (si è autodefinito
L'editoriale «antifascista per tradizione familiare), ha espressamente detto: «Com'è possibile che questo tema, il pericolo fascismo, spunti magicamente in ogni tornata elettorale», ricordando come già nel 1946 un simile trattamento era toccato ad Alcide De Gasperi, e da allora in poi "fascisti sono diventati Fanfani, Craxi, Berlusconi e persino Renzi". Stessa sorte è toccata a quasi tutti gli avversari della sinistra post-comunista. Una dichiarazione, quella di Mieli, che ha trovato concorde Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, il quale, dopo il dire dell'ex direttore del Corriere della Sera, ha aggiunto che il “pericolo fascismo è come il conflitto d’interesse di Berlusconi: lo tiravano fuori solo quando il Cavaliere era al governo e spariva magicamente quando tornava all'opposizione". E l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro? “È chiaro che il dramma italiano del secolo scorso, ha scritto, non potrà riproporsi in mezzo all'Europa delle costituzioni liberali e nel cuore dell'Occidente democratico. Nessuno lo pensa». E ha sottolineato questo suo pensiero quando, nell’ articolo, e a suo avviso, ha voluto evidenziare le ambiguità e le non chiare prese di posizioni di Giorgia Meloni e del suo partito rispetto all'eredità del fascismo come qualcosa che ancora sopravvive nei rituali, nei gesti e nel linguaggio dei militanti, e alla contiguità con gruppi e organizzazioni che esplicitamente si richiamano all'esperienza nazifascista. E Massimo Cacciari? Anche lui rigetta la "farsa dolorosa” del fascismo ovvero la presunzione di certa sinistra secondo cui l’Italia, ciclicamente, e sempre vicino alle elezioni, viva un vero e proprio “pericolo fascista”. Secondo il filosofo veneziano, questo timore “è altrettanto realistico
dell’entrata di un’astronave in un buco nero”. Ovvero quasi impossibile. “Le condizioni storiche, sociali, culturali di quel caratteristico fenomeno totalitario - ha scritto Cacciari sulla Stampa - non hanno alcun remoto riscontro nella realtà attuale di nessun Paese”. È innegabile che l’attacco alla CGIL di Roma sia stato un attacco violento e squadrista, ma da qui a parlare di un possibile ritorno al fascismo, ce ne vuole. E sono certo, che al di là di ogni ragionevole dubbio, non ci credono nemmeno coloro i quali sostengono questa tesi. Se lo fanno è solo e solamente per convenienza elettorale o marcati interessi di partito. Per la cronaca alla fine del mese di ottobre la Camera dei Deputati ha approvato (con 225 voti a favore, 198 astenuti e 1 contrario) la mozione del Centro Sinistra che chiedeva al Governo di operarsi per lo scioglimento di Forza Nuova e di tutte le formazioni neofasciste. Il Centro Destra si è astenuto. Approvata anche quella del Centro Destra che chiedeva al Governo, invece, di agire per contrastare “tutte le realtà eversive, anche quelle di sinistra” nessuna esclusa. Il risultato è stato di 193 voti a favore, 224 astenuti (tra cui i deputati del Centro Sinistra e 3 contrari. E sempre nel mese di
ottobre il Senato ha dato il suo ok a entrambe le mozioni presentate, sia quella dove sono confluite le quattro depositate da PD, M5S, Liberi e Uguali e Italia Viva e sia quella del Centro Destra. E’ utile precisare che sebbene le mozioni del Centro Sinistra siano state approvate e di fatto indirizzano politicamente il Governo ad applicare la Legge Scelba (è una legge della Repubblica Italiana Repubblica di attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana che, tra l'altro, introdusse il reato di apologia del fascismo) queste votazioni non sono vincolanti ovvero l’esecutivo presieduto da Draghi non è obbligato a procedere rispetto a quanto deciso dal Parlamento.
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Le donne e la società di Laura Mansini
LE DONNE LIBERE DELL'AFGHANISTAN
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ell’osservare quanto è accaduto nel mese di ottobre nelle nostre città italiane, nella nostra bellissima e libera nazione, colpita come tutto il mondo dal Covid, dal quale stiamo uscendo grazie alla scienza, al Governo e soprattutto all’intelligenza e generosità dell’ ottantacinque per cento degli Italiani che si sono fatti vaccinare, sono rimasta sconvolta. Come può essere che un gruppuscolo di no vax, no green pass, ai quali si sono aggiunti facinorosi di estrema destra e di estrema sinistra, in un periodo di elezioni, con le quali i cittadini di grandi città e di una regione stavano per votare, possa mettere
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la Capitale ed altre città come Trieste, Genova sotto scacco, assaltando a Roma la sede della CIGL, bloccando porti, cercando di creare una situazione di completa anarchia. Fortunatamente la democrazia ha vinto e tutto si è svolto correttamente. Ha vinto comunque l’astensionismo e questo è un male. Mi sembra che si rinunci a delle scelte fondamentali per la vita delle future generazioni. Questo mi ha fatto ricordare quello che è accaduto in Afghanistan negli scorsi mesi quando sono giunte le prime notizie del ritiro delle truppe americane e dell’ONU da questa martoriata regione. In quell’occasione ho iniziato
a scrivere alcune riflessioni, perché era giunta voce che l’esercito Afgano aveva perso la guerra contro i Talebani, i quali, dopo vent’anni, sono tornati padroni della Capitale. Le mie paure più recondite si sono avverate. Sono brani tratti da un mio diario personale, scritto per non dimenticare e per aiutarmi a riflettere su che cosa mi sembra stia accadendo, certamente in modo meno cruento anche da noi che per ora godiamo di una bella democrazia, nella nostra bellissima Italia; tuttavia anche qui inizia ad entrare il tarlo della violenza, lo si è visto, come dicevo sabato 9 ottobre a Roma. A Kabul come a Roma, sta accadendo quanto, con un po’ di attenzione, si poteva presagire. “Osservando ciò che sta accadendo, in queste giornate estive, in Afghanistan, scrivevo in agosto, siamo colti da improvvise ataviche paure. Vedere Kabul invasa da carri armati, fucili e giovani barbuti con copricapi antichi, come antiche ci sembrano queste invasioni barbariche, ci riempie il cuore di una grande tristezza e di timore per il nostro futuro. Quando lunedì 16 agosto, alla sera, ho visto su RAI 2 i
Le donne e la società filmati che la Fondazione Pangea Onlus inviava con le immagini di donne e bambini nascosti in case, per ora sicure, frutto di un progetto di asilo-centro donna, create con lo scopo di offrire servizi indispensabili alle donne ed ai loro figli, ho provato un forte senso di impotenza. Ancora una volta le donne ed i bambini, sono le prime vittime di queste battaglie apparentemente insensate, frutto di una cultura religiosa barbara. In nome di Allah, di una Sharia, che impone un complesso di regole di vita e di comportamenti per la condotta morale e religiosa dei fedeli e soprattutto delle donne, le quali divengono proprietà dei padri, dei fratelli, dei mariti. “ Eppure ricordiamo che dal 26 gennaio 2004 le Afghane hanno ottenuto gli stessi diritti dell’uomo, rifacendosi alla Costituzione del 1964 . “ Che dire, non spetta a me giudicare culture così lontane, tuttavia mi chiedo perché non sia stato possibile in questi ultimi 20 anni di egemonia occidentale, creare
le situazioni per allargare la cultura dalle città come Kabul, che ha visto le donne studiare, laurearsi, diventare dottoresse, avvocate, giornaliste, ottenendo riconoscimenti sociali e politici , anche alla campagna. Le mie paure più recondite si sono avverate. Ora non c’è più nessuno a difendere i diritti acquisiti in questi ultimi anni. Le prime a soccombere, come sempre sono le donne, quelle colte, emancipate, che hanno perso immediatamente il lavoro, che si stanno nascondendo sotto il Burka, che hanno trovato la morte fuggendo, o meglio cercando di fuggire.” Queste mie riflessioni, nate nei primi giorni dell’apocalisse di Kabul, si stanno evolvendo. Ho osservato quanto sta accadendo ora e sto scoprendo, con immenso orgoglio, che questi vent’anni non sono trascorsi invano perché la cultura della democrazia si è fatta strada soprattutto nelle giovani donne che ho visto prendere decisioni importanti scendendo in piazza, davanti agli ospedali, affermando il diritto-dovere di curare i loro ammalati, e poi sono scese le insegnanti, le giornaliste, donne di cultura, lavoratrici, col velo ma senza Burka, a volto scoperto. Brave e coraggiose, capaci di sfidare vecchi sacerdoti della Sharia, anziani di un antico regime che rispondendo alle domande dei giornalisti se ci saranno donne nel nuovo governo Talebano rispondono “ No nel governo, forse in altri ruoli non di potere”. Non la pensa così Zahama Ahmad, trentaduenne imprenditrice , costretta
a fuggire dal suo paese perché colpevole di lavorare con successo e di aver contestato il nuovo potere. “Io credo che le donne debbano andare al potere - ha dichiarato, intervenendo alla presentazione del festival del Cinema Religion Today- ” Anzi spero che presto in Afghanistan venga eletta una donna Presidente di un paese finalmente libero e democratico” Il mio diario ora si ferma qui, ma tornando ai fatti di casa nostra antichi timori si sono risvegliati in me, non solo paure di violenze, ma del ruolo della donna in politica. La cosa più sconcertante è che non abbiamo donne sindaco in questa tornata elettorale, la famosa quota rosa non conta, e sembra lontano il tempo in cui potremo vedere una donna Presidente della Repubblica italiana.
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Musica e vita di Gabriele Biancardi
LA VITA E LO SPORT A SUON DI MUSICA
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a musica e il cibo hanno mille proprietà. Sul secondo punto lascerei stare, so fare a malapena un toast, per cui non metto becco. Sulla musica mi permetto un ragionamento. Non è una banalità ricordare che esiste una melodia per ogni situazione, un sottofondo per una cena romantica o un'infuocata serata, brani adatti alle riflessioni. Canzoni per combattere la tristezza o per accentuare la gioia. Si sfocia anche nella cura con la musicoterapia. Insomma, la musica è il filo conduttore di tutto ciò che ci accompagna e viviamo. Solo una volta in tutta la mia vita, ho incontrato una persona che mi ha confessato di non amare e quindi non ascoltare nulla. Devo dire che è stato scioccante, mai avrei pensato che si potesse non sentire mai nulla di nessun genere. Se ogni tanto i gusti differenti hanno scatenato discussioni, anche piuttosto accese, mi permetto di sottolineare che la musica è democrazia. Il mio giudizio ha lo stesso peso di chiunque altro. Secondo me non esiste bella o brutta, tuttalpiù suonata male. Ecco questo si. Qualunque orecchio anche non allenato, percepisce suoni stonati, fuori tempo e questo procura fastidio. Conosco fior fiore di professionisti in grado di snocciolare testi di Gigi d'Alessio o Claudio Baglioni, (da molti ritenuti autori banali) e allo stesso tempo, rudi boscaioli mostrare tutta la collezione di Salomon Burke o Dizzie Gillespie. Ma se torniamo a parlare di uso della musica, voglio fare un parallelismo con lo sport. Da venti anni ho il piacere di fare lo speaker al volley provinciale di eccellenza. A1 maschile e ora anche A1
femminile. So che può sembrare irrilevante, ma ad ogni stagione, uno degli argomenti più seguiti dagli atleti e atlete è la musica per il riscaldamento. Sì, proprio quella che va a tutto volume nei 45 minuti che precedono la partita. Nella mia immaginazione, ho sempre pensato che una scaletta fatta da grandi classici del rock, Ac/Dc, Deep Purple, Living Colour e altri totem, andassero bene. Magari una spruzzatina un filino paracula con inserti di pop commerciabilissimi e sfruttati all'osso. Jump dei Van Halen, Final countdown degli Europe. Tutti noi abbiamo fatto qualche esercizio in palestra, con le cuffie a tutto volume su “gonna fly now”, brano che accompagna gli sforzi cinematografici di Rocky Balboa. Invece nel corso degli anni, i gusti si sono modificati, si sono plasmati attorno ai gusti e soprattutto all'età degli atleti. Ho visto una sorta di evoluzione e cambio di “tonalità”. Allora, pur soffrendo nell'autostima, da qualche anno faccio scegliere a loro. La tecnologia in questo senso aiuta moltissimo. Venti anni fa si andava i compact disc con un lavoro manuale piuttosto intenso. Ora arrivano loro con un cellulare e una scaletta fatta seguendo quelli che, secondo loro, sono i pezzi che possono, anzi devono, infondere carica agonistica. Ho dovuto ricredermi sullo stile, ero convinto che non si potesse scendere sono i 130 bpm, invece mi ritrovo, sopratutto con le ragazze, ad ascoltare insospettabili e reggaetton, qualche ballata trap. Gli uomini sono un pochino più basic, brani che attingono dalle classifiche pop con venature di indie. Non
sono comunque convinto che valga per tutti. Mi sono accorto nel tempo che alcuni si estraniano completamente da ciò che echeggia al palatrento. Trovano o cercano la concentrazione in un silenzio interiore. Ma, da quando i Queen hanno scritto “We are the champions”, non c'è evento sportivo, dai mondali di calcio alla gara di briscola da Giggi er pataccaro, che non suoni a tutti volume! Ecco perché sono convinto che non solo la musica, ma tutta l'arte sia democrazia pura. Certo, puoi essere un musicista preparato che tecnicamente puoi spiegare le scale pentatoniche, oppure un arrangiatore che ti sa dire il perché vanno usati gli archi invece che i fiati. Ma alla fine, sei tu. Se “avrai” del già citato Baglioni è riuscito ad intaccare certe venature della tua sensibilità, puoi essere macho finché vuoi. Quando sei in macchina e parte con “avrai sorrisi...” tu muovi la testa e canti a squarciagola. Perché la bellezza è tutta qui. Nel poter immergersi in ciò che più ti emoziona.
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La Storia siamo noi di Cesare Scotoni
Il Ritorno al “Dividi et Impera” (che non è mai andato via)
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a Storia degli Imperi è tornata di estrema attualità dopo la Caduta del Muro il 9 novembre 1989. La Prima Guerra Mondiale aveva visto il tramonto dell’Impero Austroungarico, dell’Impero Russo, dell’Impero Turco e dell’Impero Tedesco e l’abbandono da parte degli Stati Uniti d’America di quella decisa Neutralità verso le vicende europee che aveva ispirato la Costituzione del 1778. Il Secolo Breve (copyrigth di Eric Hobsbawm) dunque iniziava in quel 1914 e finiva con il ritorno sui pennoni del Kremlino della Bandiera della Grande Russia. Nel frattempo anche il Regno Unito aveva ceduto il Suo Impero e, come la Francia per il suo ed entrambe i Paesi avevano rimodulato il modo di declinare quella Sovranità sovranazionale e colonialista. Il patto di Varsavia, costituito nel 1955, in contrapposizione ad un’Alleanza Atlantica costituita in chiave anticomunista già nel 1949 ed a cui anche la Germania aveva aderito poi
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nel maggio del 1955, si scioglieva e ricominciava così quel Grande Gioco (dal libro di Peter Hopkirk) cui la Guerra Fredda aveva messo la sordina e destinato a modificare i rapporti di forza tra gli alleati che riscoprivano i propri interessi sovrani, pensando ad una Russia sempre più permeabile all’Occidente consumista e ad una Cina che avrebbe impiegato anni per diventare protagonista economica e militare nello scacchiere asiatico e centro asiatico. Come sempre le cose presero pieghe assai diverse e gli scenari si rivelarono diversi, ma non le ambizioni dei giocatori. Perché questa digressione su Imperi ed Imperialismo? Perché pur declinandosi ora le Teorie Imperiali con modalità più moderne alcune logiche ne restano elemento costitutivo e la Storia può insegnarci molto. Per quello, in Italia, Storia e Geografia son sempre più neglette: il conoscerle potrebbe evitare il ripetersi degli errori più eclatanti che accompagnano le scelte del nostro Paese proprio
dal termine del Secolo Breve, che l’autore fissa nel 1991. Otto Von Bismarck scriveva: “Nei conflitti europei, per i quali non c'è un tribunale competente, il diritto si fa valere soltanto con le baionette.” ed oggi possiamo tranquillamente dargli ragione. In un’Unione Europea incapace di darsi una Costituzione e normata solo sulla base di un’accozzaglia di accordi bilaterali il regolamento di conti cominciò in Jugoslavia già nel 1991 e si protrasse fino al 1999 con gli accordi di Daytona e lo scandalo del Kossovo (più uno scontro in Macedonia nel 2001). E quella vicenda vide Germania e Turchia ritrovarsi nuovamente alleate. Veniamo al Dividi et Impera, il modo più semplice che i Romani utilizzavano per “tenere i confini dell’Impero” senza immobilizzarvi troppe truppe. La Corruzione, l’intervenire nella Politica locale, il fomentare conflitti che evitassero a potenziali avversari di coalizzarsi, le Alleanze a Geometria Variabile, i legami commerciali ed il Mito Imperiale cui ancorarsi. Son solo 22 secoli che se ne scrive e che si praticano. Purtroppo c’è chi lo fa per mantenere una propria Sovranità Nazionale e chi invece il Dividi et Impera lo applica solo per distruggerla e sopravvivere politicamente e con profitto al disastro. La dissoluzione Jugoslava
La Storia siamo noi fu per l’Italia un passaggio ferale in cui il porto d’approdo poteva essere solo un’Unione Europea che divenisse un soggetto politico. A trazione Franco Tedesca e contro gli inglesi. La Presidenza Prodi della Commissione Europea dal 1999 al 2004 fallì nel tentativo di allargare l’Unione per farne coincidere gli interessi con quelli di un’alleanza Atlantica in cerca d’autore. L’affondamento del Progetto di Pratica di Mare con le vicende giudiziarie di Berlusconi furono un successo inglese e con il fallimento del referendum in Francia sulla Costituzione Europea il 29 maggio 2005 l’Italia perse la possibilità di quel ruolo centrale nel Mediterraneo. La crisi subprime del 2009 e le vicende Libiche, Siriane lo certificarono e solo l’insuccesso tedesco a Kiev, con le vicende di piazza Maidan ed il ruolo di un’Inghilterra a quel
punto espressamente “fuori” dell’Unione offrono ora ad un Paese con più Padroni che Servi, la possibilità di offrirsi come testa di ponte di un’Alleanza Atlantica dove la Polonia sta già sostituendo la Germania nello scacchiere e l’Italia la politica gioca
con la testa rivolta alle elezioni amministrative piuttosto che ad aumentare il proprio peso in un’Europa che non sarà quella sui cui Prodi perse la partita. Il Dividi et Impera in ogni caso lo inventammo noi e forse dovremmo farne tesoro.
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Protagonista della Fede di Walter Laurana
PAPA LUCIANI:
UN BEATO LADINO
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apa Giovanni Paolo Primo, al secolo Albino Luciani: un beato ladino. Non ne sono sicuro ma dovrebbe essere l'unico ad appartenere a questa minoranza etnica che unisce la provincia di Belluno a quelle di Bolzano e Trento. Nasce infatti a Canale d'Agordo, nell'area del bellunese dove vengono allocati geograficamente e linguisticamente i ladino-veneti, il 17 ottobre del 1912.
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Il padre è operaio, socialista, mangia preti, già emigrante in Svizzera; la madre è cattolica molto religiosa. A 11 anni Albino entra in seminario, prima a Feltre poi a Belluno. Per cultura è molto vicino ai cugini della valle di Fassa e del SudTirolo dove si reca quasi ogni anno in pellegrinaggio al Santuario di Pietralba o Weissenstein, in ladino Santuarie de Baissiston, di Nova Ponente. Il fratello ha raccontato al periodico del Santuario l'episodio dove il futuro Papa, nella secondo metà degli anni Venti, si perse lungo i sentieri che
Protagonista della Fede da Canale d'Agordo salgono fino a Monte San Pietro dove nel 1547 al contadino Leonardo Weissensteiner apparve la Madonna. Proprio alla Madonna Papa Luciani era devotissimo e arrivò, con grande sopresa di parte della Chiesa, ad affermare che Dio era Madre. Albino Luciani, laureatosi in teologia nel 1947, nel 1954 diventa vicario generale della diocesi di Belluno e poi vescovo di Vittorio Veneto dove acquista meriti e stima fino a diventare nel 1969 Patriarca di Venezia. Infine, nel 1978, Papa per soli 33 giorni. Chi lo ha conosciuto lo ricorda quale sacerdote coerente e ricco di fede, un uomo buono. Molte le testimonianze di fiducia e stima raccolte anche dal quotidiano Messaggero Veneto. «Una persona di grande saggezza e umiltà. Ascoltarlo era un piacere", ricordano i suoi fedeli.
Felici perché il Papa del sorriso verrà proclamato beato. "Fu nostro vescovo a Sacile, dicono. e lo ricordiamo con affetto. Colpiva tutti per il suo amorevole carisma" Un fedele – racconta che il Beato Luciani lo cresimò nel 1966. Nel momento in cui Papa Francesco, un altro Papa buono, annuncia l'avvio del processo di beatificazione sono in molti gli ex ragazzi degli anni Sessanta disposti a raccontare alla stampa la loro stima ed amicizia. Luigi Gasperotto presidente della Filarmonica di Sacile confessa al Messaggero Veneto di conservare ancora, con grande affetto, l’attestato della cresima ricevuto dal vescovo Albino. Di Papa Giovanni Paolo Primo parlava spesso monsignor i Pietro Mazzarotto, morto lo scorso marzo, che per 11 anni è stato il suo autista. «Luciani, diceva, è stato un grande esempio di
umiltà cristiana». Non a caso una volta eletto Papa scelse come motto la parola Humilitas. Umiltà, la virtù per la quale l'uomo riconosce i propri limiti, rifuggendo da ogni forma d'orgoglio, di superbia, di emulazione o sopraffazione. Viene ricordato anche per la sua fermezza contro la corruzione di prelati e porporati. Per chi l'ha conosciuto Papa Luciani è un faro spirituale, un simbolo di cristianità autentica che vale al di là della brevità del suo pontificato. Molti già lo pregano da sempre come santo. Ha fatto bene Papa Francesco a farlo beato, dicono, ma lui era già santo per tutta l’umanità. Un grande uomo e, dopo che Papa Francesco ha autorizzato il riconoscimento di un miracolo grazie all'intercessione di Giovanni Paolo Primo, il processo di beatificazione va avanti.
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In filigrana di Nicola Maccagnan
Quando tutti (o molti) sono convinti di “sapere”:
la nuova Babele al tempo dei social.
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i è sempre rimasta impressa nella mente sin dai tempi del liceo una frase attribuita (ma anche su questo le opinioni non sono concordi) a Socrate, pensatore greco che a ragione possiamo definire come uno dei padri del pensiero occidentale. “So di non sapere”, ovvero “So di non sapere nulla” avrebbe detto Socrate (che forse proprio per questo non lasciò ai posteri nulla in forma scritta) davanti all’Areopago, il tribunale che lo stava per condannare a morte con l’accusa di empietà e corruzione dei giovani (!!!). Correva l’anno 399 avanti Cristo, eravamo – naturalmente – ad Atene. Non c’è dubbio che in questi 24 secoli abbondanti, e soprattutto nell’ultimo, l’uomo abbia fatto passi da gigante in tutti i campi della conoscenza, da quella tecnica a quella scientifica, senza dimenticare le meravigliose realizzazioni nel campo delle arti. Siamo stati sulla luna e nello spazio, in fondo agli abissi e al centro della particella atomica più piccola; abbiamo sondato le più imperscrutabili vie del corpo e della mente umana, abbiamo catalogato miglia di specie viventi, e non, del pianeta. Eppure. Eppure, oggi più che mai, la lezione socratica del “so di non sapere” mi pare attuale, urgente e necessaria. E questo per due ordini di ragioni. Il primo, di natura diciamo più “scientifica”, riguarda il fatto che più ci spingiamo alle frontiere del sapere e più scopriamo come questi limiti si dilatino a dismisura verso nuovi e ancor
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più larghi confini. Ce lo testimoniano molti studiosi e ricercatori, per i quali il percorso della conoscenza non solo non termina mai, ma addirittura si allunga e si arricchisce di nuove sfide ogni giorno di più. Il secondo motivo per cui il motto socratico mi pare oggi più attuale che mai è invece legato alla natura umana di tutti noi, è insomma di carattere antropologico e sociale. Ovunque ci giriamo, a cominciare dalla sterminata steppa dei social, è tutto un florilegio di pareri ed opinioni, se non addirittura di proclami e autentiche “sentenze”, a volte “sputate” addirittura con violenza e cattiveria gratuita. E finché si parla della formazione inopinatamente schierata dall’allenatore della nostra squadra del cuore o dell’errore grossolano commesso dall’arbitro la domenica va tutto bene. In fondo, ci hanno campato le pagine sportive dei quotidiani e i bar-sport per decenni e decenni: gli Italiani? 60 milioni di commissari tecnici! Il problema, tutt’altro che secondario, nasce quando la Babele appunto di pareri contrastanti e abbozzati, riportati da non si sa dove e non verificati, si scatena su temi ben più sensibili e delicati. Cade il ponte Morandi a Genova? Ecco un esercito di ingegneri, esperti di calcoli e di costruzioni stradali all’opera. Arrivano i fondi del nuovo Pnrr? Stuoli di economisti ed
esperti di finanza e programmazione pubblica scendono in campo. E così via. Mi taccio qui, per amor di patria, sulla galassia di fumo, spesso tossico, generata dal dibattito della strada su vaccini, green pass e quant’altro. Sia ben chiaro: la libertà di opinione e di pensiero è sacra. Ma dovremmo parlare, per l’appunto, con opinioni e pensieri, che si formano a ragion veduta e (specialmente su tematiche tecniche o scientifiche) sulla base di precise conoscenze acquisite. Banalizzo: se chiamo un idraulico a casa per sostituire un rubinetto, mi guardo bene dall’andare a mostrargli come
In filigrana deve fare il suo lavoro; nell’immensa platea di Facebook ci sentiamo invece autorizzati a dire la nostra, sempre e comunque, su tutto. E questo con il rischio di fomentare e ampliare una confusione che può avere effetti molto pesanti. Mi è capitato di leggere l’altro giorno tra i commenti ad un post sui social, letteralmente, la seguente frase: “Condivido questo trovato in internet. Non so se sia vero, ma intanto lo condivido”. No comment. “Ci sono persone che sanno tutto e purtroppo è tutto quello che sanno”, scriveva Oscar Wilde, un altro che l’animo umano lo aveva sondato in diverse direzioni. Evidentemente certi comportamenti non sono patrimonio solo dell’epoca digitale, ma affondano le proprie radici ben più in dietro nel tempo. Il 21esimo secolo ha portato con sé,
tra le altre cose, la straordinaria possibilità di collegare le persone (in maniera virtuale), abbattendo distanze geografiche e azzerando quelle temporali. Al tempo stesso, però, sembra averci fatto credere che questa nuova facilità di comunicazione ci dia per se stessa l’autorizzazione a farne un uso incontrollato, a volte compulsivo, senza senso di responsabilità. Tradotto: avere un’auto ed una strada non equivale a poter guidare a 200 chilometri all’ora, a destra o a sinistra, senza tener conto dei pedoni. Si possono fare danni enormi. A se stessi e agli altri. Scriveva, ancora, Isaac Asimov: “Si è diffuso il pericoloso e falso concetto che democrazia significhi che la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”.
“So di non sapere” potrebbe bastare, almeno, a mettersi in discussione.
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L'Italia allo specchio di Caterina Michieletto
“La politica della penisola” Nessun uomo è un'isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte del tutto; se una sola zolla di terra viene portata via dal mare, l'intera Europa ne è sminuita, come se si trattasse di un intero promontorio,
Quando il poeta, religioso e avvocato inglese John Donne partorì questa riflessione, probabilmente ignorava la fortuna letteraria che avrebbe avuto questo sermone e la modernità del suo significato. J. Donne non si rivolgeva ad un singolo individuo, ma la sua volontà era depositare un messaggio universale nel destinatario e nel contenuto, perché rivolto all’umanità di ogni tempo e di ogni luogo e perché espressione di un valore di unità sociale, ossia il senso civico. Ebbene il senso civico e il dovere di solidarietà sono stati lo scudo con il quale difendersi dall’emergenza pandemica. L’Italia, intesa come comunità-Stato, ha dimostrato che il proverbio “l’unione fa la forza” non è soltanto uno slogan propagandistico, ma è un dovere sociale 18
di una intera tenuta di un nostro amico o nostra. La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce, poiché noi siamo parti pulsanti dell'intera umanità; e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana e chi sta chiamando; sei tu che lei continuamente chiama. (Meditazione XVII John Donne)
che appartiene a ciascuna persona allontanando provocazioni, divisioni e strumentalizzazioni. Se quanto detto è vero, perché proporre una riflessione sul senso civico e sulla funzione della politica? Perché le virtù civiche sono come il fuoco del caminetto che ci scalda durante l’inverno: per continuare a produrre calore quella fiamma dev’essere costantemente alimentata con la legna e possibilmente con legna buona che brucia lentamente. Allo stesso modo il senso civico per crescere e consolidarsi dev’essere regolarmente incoraggiato e motivato con l’attenzione e l’unità da parte delle istituzioni politiche, specialmente a fronte di congiunture economiche e sociali difficili. Le manifestazioni che hanno reso incandescenti le piazze italiane, il record negativo di astensionismo alle elezioni amministrative in Italia (1 cittadino su 2 ha votato) impongono di mettere a fuoco cosa si è rotto nel rapporto tra una parte della cittadinanza e la politica. Quello che è emerso vistosamente è stato il prepotente sopravvento dell’ideologia nelle piazze di Roma e Milano e Trieste e la crisi della rappresentanza politica alle urne.
Credo che ambedue i fenomeni, pur nella loro diversità, siano legati dal medesimo fattore: la frammentazione e la contraddittorietà della politica. Quando il baricentro del discorso politico, di qualsiasi fazione, si sposta da un’idea ad un’ideologia, perde il fondamento di ragione e sfocia in una “crociata” a favore della propria causa ideologica. Questo è vero tanto nell’ala estrema della Destra quanto nella frangia radicale della Sinistra, perché la matrice è la medesima: la resistenza a qualsiasi regola percepita come un’imposizione alla propria libertà e non come un presupposto necessario per la governabilità e l’ordine all’interno di un Paese. Gli estremi si toccano. C’è poi una corposa fetta di cittadinanza che già da tempo ha perso ogni fiducia nella capacità della politica di rispondere alle problematiche economiche, sociali e di pubblica sicurezza. Queste persone non credono più che
Italia allo specchio il proprio voto possa incidere nelle decisioni pubbliche, che possa determinare il cambiamento che si rinnova nelle promesse delle campagne elettorali. Come risvegliare il “sonno dogmatico”? Come riportare fiducia nei cittadini? Come restituire credibilità alla politica? Nel pormi e tentare di rispondere a queste domande ho incrociato la lettura sul conflitto arabo-palestinese del libro “Contro il fanatismo” dello scrittore israeliano Amos Oz (1939-2018). Amos Oz cita testualmente il sermone di J. Donne e aggiunge: “siamo tutti delle penisole, legati per metà alla famiglia e agli amici, alla cultura e tradizione e al Paese, alla lingua e a molte altre cose”. Essere penisole significa vivere ricercando la misura tra noi stessi e gli altri, il compromesso tra i diritti propri e quelli altrui, essenzialmente “vivere sapendo che la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri”. È questo il pilastro del-
lo Stato di diritto, dello Stato che fa in modo che ciò che è giusto diventi forte e non che ciò che è forte diventi giusto. Nella metafora della penisola è possibile cogliere l’autentico significato di quella che Aristotele, alla fine del IV sec a. C. chiamava “politica”, intesa come “l’arte del saper vivere insieme”. “L’uomo è un animale sociale” scriveva Aristotele e nella misura in cui la vita associata è un’esigenza connaturata all’essere umano, si può dire con certezza che “l’uomo è un animale politico”. Dunque, in questi termini, la politica non era semplicemente un fatto individuale, ma per sua natura una questione sociale, che riguardava tutti e tutto: era una chiamata sociale che esigeva una risposta
corale. La politica lasciava spazio al singolo, ma non al suo egoismo, al confronto costruttivo, ma non alla discussione selvaggia, perché in ogni cosa il fine era il “giusto mezzo”, ossia il punto di incontro tra opinioni opposte. “Lo scopo della vita etica è la politica”, e l’etica per Aristotele era esattamente la virtù del giusto mezzo, la ricerca dell’equilibrio. La socialità dell’uomo, il saper vivere insieme, cioè la politica, l’etica del giusto mezzo sono la base di quello che definiamo “senso civico”: quell’insieme di comportamenti e di azioni che si riferiscono al rispetto degli altri e l’adesione ad un sistema di regole condivise.
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Racconti d'arte di Daniela Zangrando*
VENEZIA e la REALTÀ VIRTUALE
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tavolta andiamo a farci un viaggio fuoriporta, a Venezia. Proprio mentre pensavo a questo pezzo, ho letto una cosa bellissima, scritta in una newsletter da Alessandro Giammei, italianista, critico e scrittore che insegna letteratura italiana al Bryn Mawr College, negli Stati Uniti. Racconta un verso del Paradiso dantesco, che si trova nel passaggio dal cielo del Sole a quello di Marte, «quando Dante si domanda se i beati non vedano l’ora di riavere il proprio corpo dopo il giudizio universale “forse non pur per loro, ma per le mamme”. L’idea chiaramente è che senza corpo, pur in paradiso, non si può del tutto esprimere il proprio amore: non si può abbracciare, non si può accogliere». Quello di cui ci parla Dante, è un desiderio di fisicità che non ha nulla di erotico. È quel bisogno che conosciamo tutti, di esser abbracciati e accolti appunto. Di esser presi per mano. Aver letto queste parole mentre stavo pensando all’articolo è stato importante. Adesso vi spiego perché. Guardate le immagini. Quella che vi sta di fronte è una veduta di Venezia del 1887. È una tempera su carta. Conservata nell’Accademia dei Concordi di Rovigo, è stata esposta fino a
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metà ottobre scorso alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Ha delle dimensioni molto particolari: è alta poco più di un metro e settanta e si sviluppa per ben ventidue metri di lunghezza. Più che una veduta, è un panorama. Il suo autore, Giovanni Biasin (18351912), si forma all’Accademia di Venezia, per trasferirsi poi a Rovigo e diventare il decoratore principe del Polesine lavorando in palazzi di città, ritrovi pubblici, uffici e ville – interessante, ad esempio, il caso delle decorazioni ad affresco di Villa Ca’ Conti. Con il figlio crea anche una piccola azienda che porta in giro i brevetti della tecnica particolare che utilizza, il papier paint panoramique, che dovete immaginare come una via di mezzo tra gli spettacolari panorami ottocenteschi – che erano cresciuti fino ad assumere le dimensioni notevoli di un palazzetto dello sport, di un teatro – e una forma decorativa simile a quella che chiamiamo carta da parati, in uso nelle abitazioni private. Il panorama di Biasin ha dato del filo da torcere ai ricercatori. Si sa per certo che è stato realizzato nel 1887 per l’Esposi-
zione Nazionale Artistica, ma sfugge a qualsiasi altra documentazione. Non ce n’è alcuna traccia, né tra le foto di Giovanni Battista Brusa, incaricato di fotografare tutte le opere e le fasi di allestimento dell’esposizione, né in altro supporto iconografico. Eppure, un elemento di quelle dimensioni non passa inosservato. Probabilmente, hanno supposto i curatori della mostra veneziana, non è stato considerato opera facente parte della mostra e non è stato quindi fotografato, trovando invece spazio come decoro nel grande Atrio dell’ingresso da terra. Utilizzando un lungo rotolo di carta rinforzata e di colori a tempera, Biasin ci mostra Venezia, a 360°. La guarda a pelo d’acqua, riprendendola più o meno dal centro del bacino di San Marco, partendo dai Giardini di Castello e proseguendo tutt’intorno, fino a chiudere il cerchio, includendo monumenti, edifici, giardini e imbarcazioni. Non mi sfugge la vostra perplessità. Forse obbietterete che non è di grande fattura tecnica. Qualcuno potrebbe anche dirmi che è sufficiente andare a Venezia e impostare la fotocamera dello Smartphone in
Italia allo specchio modalità “panorama” per ottenere in pochi istanti lo stesso risultato, senza scomodarsi ad utilizzare ventidue metri di carta. Magari i più tecnologici tra voi mi faranno notare che per avere quel colpo d’occhio su Venezia non serve nemmeno alzarsi dal divano. Basta fare un giro virtuale, affidandosi a Google Earth, possibilmente con dei visori VR. Anzi, l’esperienza sarà ancora più vivida… sembrerà di nuotare nell’acqua, di incrociare i vaporetti, di accarezzare le facciate degli edifici, di guardar dentro alle finestre. Sicuramente navigando a destra e a manca si apriranno anche dei box informativi, dandovi la possibilità di conoscere aspetti di Venezia di cui non eravate a conoscenza, il tutto rimanendo beatamente in ciabatte. C’è una cosa che però fa Giovanni Biasin e Oculus non sa ancora fare: ci prende per mano e ci mette al centro.
Non ci racconta tutto, non spiega date e riferimenti. Ci lascia liberi di immaginare cosa si stiano dicendo gli uomini col giornale sottobraccio, cosa si raccontino le donne sedute a terra. Ci permette di sentire lo sforzo dei gondolieri, lo sbuffare dei vaporetti. Di tender le orecchie per sentire i richiami del lavoro. Di sbirciare nelle calli. Per questo ve ne ho parlato. Perché credo sia potentissimo che l’arte abbia ancora il coraggio di prenderci per mano, di distoglierci dalle nostre occupazioni e preoccupazioni, dai selfie e da Insta-
gram. Per trascinarci, e farci ficcare il naso in qualcosa che sembrava lontano e che, grazie anche alla complicità della nostra immaginazione, diventa una realtà. *Daniela Zangrando è direttrice del Museo BUREL
Via Paradiso, 42 - Feltre (BL) - Tel e fax 0439 80477 www.cartoleriapossiedi.it - info@cartoleriapossiedi.it 21
Accade nel mondo di Guido Tommasini
TAIWAN: UN' ISOLA
AL CENTRO DI OPPOSTE STRATEGIE
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'egemonia era una caratteristica dei rapporti con l'estero dell'antica Cina per la quale i paesi limitrofi e viciniori riconoscevano la supremazia dell'imperatore cinese inviando periodicamente dei tributi. Taiwan(Formosa), un'isola rientrante in quell'area era stata anticamente popolata da popolazioni austronesiane e frequentata da pirati coreani. Poi, dopo un periodo di colonizzazione spagnola, portoghese e soprattutto olandese, a partire dalla fine del Seicento s'integrò gradatamente nell'impero cinese della dinastia Qing. Fu quindi conquistata dai giapponesi nella guerra sino-giapponese del 1895, ma alla fine della seconda guerra mondiale divenne la Repubblica di Cina, che di fatto consisteva nella ricostituzione sotto forma di regime di ciò che restava del Kuomitang di Chiang Kai Shek il quale aveva ivi
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trovato rifugio. Le origini della Cina di oggi si possono far risalire al 1924, quando venne istituita l' Accademia militare di Whampoa su iniziativa del rivoluzionario cinese Sun Yat Sen, ma organizzata dal Comintern sovietico che inviò in Cina il comandante “Maring”. Era un' accademia per ufficiali del Kuomitang(partito nazionalista cinese) formata allo scopo di strappare il territorio ai cosiddetti – Signori della Guerra – . Nella stessa circostanza venne approvata l'alleanza dell'Unione Sovietica con il Partito Comunista Cinese. La Cina di oggi ha quindi le sue origini dentro Whampoa, perché in quell'accademia passarono, fra nazionalisti e comunisti, tutti i principali protagonisti della sua storia del secolo scorso: Chu En Lai, Lin Piao, Mao Tse Tung(come conferenziere), unitamente a Chiang Kai Shek, prima alleati, poi nemici.
La Repubblica di Cina, comunemente nota come Taiwan rappresenta quindi anch'essa un residuo di quel periodo storico in quanto dopo le vittorie dei comunisti di Mao contro gli invasori giapponesi e contro il Kuomitang di Chiang Kai Shek, quest'ultimo si trasferì nel 1949 proprio in quell'isola con il suo apparato politico e molti fuggiaschi dal comunismo, fondando uno stato indipendente che poi fece anche parte del' ONU fino al 1971 quando venne estromesso e sostituito proprio dalla Repubblica Popolare Cinese. La Cina Popolare anche dopo la vittoria continentale aveva sempre mantenuto un atteggiamento da conquistatore contro quel regime. Famosa è la risposta di Chu En Lai quando nel 1949, a guerra finita, gli chiesero in una rara intervista che tipo di rapporti avessero con Formosa: “Certo che abbiamo dei rapporti. La
Accade nel mondo
bombardiamo”, disse. Attualmente la Cina Popolare rivendica ancora Taiwan come parte integrante del proprio territorio, nell'ambito complessivo di 200 punti chiave fra isolette e scogli e ciò anche per il fatto che essa occupa una posizione strategica senza la quale la stessa Cina Popolare rimarrebbe confinata all'interno della cosiddetta – Prima Catena di Isole -. D'altro canto Taiwan è anche un caposaldo della strategia degli Stati Uniti in quell'area perché se l'abbandonassero, ciò si ripercuoterebbe su tutti gli altri stati come Giappone, Singapore, Corea del Sud, Filippine che stanno sotto il loro ombrello difensivo. Sarebbe una catastrofe ma non comprometterebbe la sovranità degli Stati Uniti. Al contrario secondo il politologo Deng Yuwen del China Strategic Analysis Center la rinuncia della Cina Popolare a Taiwan comprometterebbe sia la sopravvivenza del Partito Comunista sia la sua identità nazionale. La partita è aperta e come potrà
finire è difficile da prevedere. Si può averne una vaga idea attraverso paragoni con situazioni similari, ma non analoghe. Un esempio potrebbe essere la vicenda delle isole dell'arcipelago Hoang Soa(Isole Paracels) che si svolse nel modo seguente: nel 1974 a guerra ancora in corso fra Repubblica Democratica del Vietnam (Hanoi ) compreso il Fronte Nazionale di Liberazione da una parte e Repubblica del Vietnam(Saigon) dall'altra, quest'ultima ormai praticamente sconfitta stava per arrendersi. Il 19 Gennaio di quell'anno, la Cina, alleata della R.D.V. Inviava allora forze navali ad aeree a conquistare il citato arcipelago da sempre vietnamita, ma che in quel momento stava ancora sotto l'autorità di Saigon. Lo scopo era quello di accaparrarsi il controllo del Mar Orientale ed anche il possesso degli enormi giacimenti petroliferi sottoma-
rini sottostanti e questo avvenne con il tacito consenso di Washington. Bisogna premettere qui un discorso e cioè il fatto che agli inizi della guerra americana in Vietnam(1963), la stessa veniva ancora considerata una guerra indiretta contro la Cina per cui fra i due paesi c'era un'alleanza perfetta. Successivamente l'Unione Sovietica acquisì anch'essa un ruolo importante quanto ad appoggio e rifornimenti al Vietnam, tanto che nelle manifestazioni di allora a favore del Vietnam si udiva spesso declamare la seguente parola d'ordine: “Russia, Cina, unite in Indocina”, ma le cose a quel punto non stavano più così, perché alla fine le mire della Cina si erano fatte anche territoriali, tanto da permettersi un atteggiamento da grande potenza, frodando l'alleato vietnamita. Nelle isole Truong Soa (Spratly), successe la stessa cosa, con la Cina che s'impadroniva di altre isole secolarmente vietnamite. Questo per dire che, quando si presenta il momento favorevole, la Cina si è trovata già una volta pronta per fare il balzo in avanti.
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Il personaggio di Nicola Maccagnan
Romano De Gan, 80 anni vissuti... di corsa tra l’attività di panettiere e la grande passione per i motori.
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i chiama Romano De Gan, ma per tutti è il “panettiere volante” di Pedavena. Qui, dove ha gestito per molti decenni il panificio di famiglia, vive oggi brillantemente i suoi 80 anni e custodisce gelosamente la sua ultima monoposto, oltre a una miriade di premi e trofei vinti durante tutta una vita di passione dedicata ai due e ai quattro motori. Romano non dimentica gli esordi da garzone di bottega nell’attività del padre: “Avevo appena 11 anni (!!!) quando la Polizia mi fermò per la prima volta mentre dal forno di Villa di Villa
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stavo andando a Trichiana a consegnare il pane con la moto! Un mestiere, quello del panettiere, che mi sono portato appresso per 42 anni, prima in sinistra Piave e poi qui a Pedavena, dove ho condotto la gran parte della mia attività. Un lavoro duro, che mi ha permesso però di coltivare anche la mia grande passione per i motori”. Una vera e propria “malattia”, quella per moto e autovetture, sbocciata in tenerissima età. “Ad appena 7 anni presi parte ad una gimkana in quel di Lentiai piazzando-
mi tra l’altro ai primi posti; fui premiato naturalmente anche come concorrente più giovane. A 18 anni, una volta conseguita la patente, fu poi la volta del go-kart, realizzato in casa, utilizzando un motore recuperato da una vecchia motocicletta”. La carriera vera e propria del “panettiere volante” ha però una data d’inizio ben precisa e coincide con la prima partecipazione alla cronoscalata Bassano-Monte Grappa a bordo di una fiammante Autobianchi Primula Coupé nel 1968. Da lì in poi sarà un continuo, tra
gare dei campionati triveneto e italiano di corsa in salita, sino al 2012 quando per un acciacco Romano De Gan sarà costretto a sospendere la sua attività agonistica, dopo aver “cavalcato” anche due esemplari di “Barchetta 1.000” e la quasi mitica Gi.Pi. Cosworth 1300. Il prototipo azzurro fa ancora bella mostra di sé in garage, dove Romano lo attornia di tutte le cure e le attenzioni possibili: “E’ una macchina che mi ha dato grandi
Il personaggio
soddisfazioni e non è escluso che in futuro torni a sfrecciare sulle strade delle cronoscalate italiane, questa almeno è l’intenzione di mio figlio Stefano” (che dal padre ha ereditato evidentemente la
stessa passione). La Pedavena-Croce d’Aune, la corsa “di casa”, è per Romano De Gan un vero e proprio scrigno di ricordi e di emozioni. Racconta De Gan: “Ne ho corso una trentina di edizioni, nel 1971 e 1972 e, dopo il lungo periodo di sospensione della corsa, dal 1984 al 2012. Del resto era una delle poche gare che non prevedeva lunghe trasferte e mi consentiva di abbinare l’attività lavorativa alla mia passione sportiva. Ricordo che in altri casi partivo il sabato per tornare la
domenica sera, magari verso mezzanotte o l’una e qualche minuto dopo ero già al forno per preparare il pane del lunedì. Quanti ricordi, anche per mia moglie che ora non c’è più e, tra un borbottio e un rimprovero, mi ha sempre permesso di coltivare la mia passione sportiva”. Il ricordo va all’edizione del 1984, quella della ripartenza. “Con un gruppo di amici decidemmo che bisognava “tornare in pista”, ma la preoccupazione per la sicurezza era davvero molta: quell’anno lungo il tracciato fissammo a terra con i puntoni qualcosa come 3.000 (!!!) balle di fieno.” Incidenti gravi? “Soltanto uno, racconta Romano De Gan, proprio nel 1984. All’uscita della curva che immetteva sul rettilineo del Pian d’Avena la macchina toccò il cordolo e strisciò via di lato prima di capovolgersi nel fossato. L’auto era distrutta, ma il roll bar fece a pieno il suo dovere e io ne uscii indenne. Quando portai la vettura in officina per tentare di ricostruirla mi dissero che ero stato miracolato”. Si dice che sia uno sport estremamente costoso… “In verità io facevo parecchie cose “in casa” grazie anche all’aiuto
di alcuni amici. Ho sempre eseguito le manutenzioni ordinarie in economia; la spesa maggiore era quella per il treno di gomme, ma spesso andavo a prendere quelle dismesse da altri team e cercavo di farmele bastare per tutta la stagione. Poi con gli anni c’è stato l’aiuto di alcuni sponsor che sostenevano la nostra scu-
deria Halley Team”. Ricordi in libertà, tra fotografie, ritagli di giornale, coppe e trofei di una carriera che lo ha visto protagonista in quasi 200 gare. La passione di una vita che Romano non ha certo archiviato, basta vedere la sua officina, ancora fornitissima, le mensole cariche di premi, i suoi occhi felici e quasi emozionati mentre sfiora la Gi.Pi. parcheggiata in garage, ma pronta a far sentire di nuovo il ruggito degli 11 mila giri del proprio motore. Anche se, su questo non ci sono dubbi, a Pedavena e in tutta la vallata il panettiere volante resterà sempre lui, Romano De Gan.
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Il senso religioso di Franco Zadra
La CHIAMATA alla LIBERTÀ
Ai lettori di questa rubrica sarà forse del tutto chiarito l'intento di chi scrive, quel ricercare, cioè, le ragioni della scelta di fede come un atto personale in cui il credente esprime al meglio il suo desiderio di libertà e la sua forza di esercitarla. Non c'è nulla, infatti, come lo scegliere di credere che consenta di comprendere la propria vita come una chiamata alla libertà. Ma libertà da che cosa? E, soprattutto, per quale scopo? Guardare con un'apertura all'Infinito alla nostra realtà, risponde con l'evidenza di un fatto a queste domande che solo l'uomo, in quanto umano, si pone e può porsi tra tutti gli esseri animati di questo mondo.
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omande che oggi rifuggiamo sbadigliando, come “metafisiche”, eliminandole d'istinto dalle preoccupazioni di ogni giorno, dando per assodato che il nostro “bisogno metafisico” non potrà mai essere soddisfatto, condannandoci così a una sofferenza eterna, quasi che l'uomo fosse una specie di “Tantalo spirituale”. Per chi non avesse dimestichezza con i miti greci, spiego subito che Tantalo è una figura retorica utile a definire una persona che desidera qualcosa
che non può raggiungere. La libertà è una esigenza originale che urge nel nostro spirito, ma diventando adulti, e scoprendoci ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, finiamo per adattarci a una quasi libertà, incapace di soddisfarci veramente. Vivere consapevolmente la dimensione religiosa – dalla quale non è possibile sottrarsi se si vuole rimanere umani, cioè, si potrà essere a favore o contro il fatto religioso, ma non esiste chi si possa dire “extra” religioso – ci promette, e ci permette, di superare quelle situazioni che ci opprimono, avendo ben chiaro un termine di paragone (Infinito) che la mentalità comune ci sottrae quasi in maniera sistematica, con il supporto spontaneo di chi detiene il potere. Parliamoci chiaro: chi vuole che diventiamo capaci di un giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime? «La tradizione familiare – scrive Giussani ne Il senso religioso -, o la tradizione del più vasto contesto in cui si è cresciuti, sedimentano sopra le nostre esigenze originali e costituiscono come una grande incrostazione che altera l'evidenza di quei significati primi, di quei criteri, e, se uno vuol contraddire tale sedimentazione indotta dalla convivenza sociale e
dalla mentalità ivi creatasi, deve sfidare l'opinione comune». Uno sfidare che appare semplice, ma non è mai scontato, e Giussani indica con la parola “ascesi”, cioè «l'opera dell'uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino», una fatica che fa parte della conversione. Chi oggi pensa più a queste cose? E chi è impegnato in questo? Vi invito a mettervi davanti a uno dei quadri più popolari e conosciuti di Vincent Van Gogh, quello che ritrae i mangiatori di patate, tra i suoi primissimi quadri, quando ancora doveva trovare il suo stile, considerato però uno dei suoi migliori risultati. Guardatelo bene, immergetevi in quella scena, e poi provate a rispondere a voi stessi dicendovi che l'uomo non è altro che un animale un po' più evoluto degli altri, che non ha nulla di metafisico. Non so voi, ma quelle patate riescono a nutrirmi più di un pranzo di nozze. Rimane da scegliere tra una realtà che ci appare immediatamente e una realtà approfondita, più vera e concreta, l'unica che duri. Ma poi, ridete! Vedrete che cosa vi distingue dagli animali, che sapore ha la libertà, e capirete perché un cabarettista berlinese fu giustiziato dal “tribunale della barzelletta” di Hitler per aver chiamato Adolf il suo cavallo. A proposito, questa volta vi consiglio “Racconti da ridere”, a cura di Marco Rossari, Einaudi, 2017.
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Ieri avvenne di Alex De Boni
VAJONT 9 OTTOBRE 1963
UNA TRAGEDIA DA NON DIMENTICARE
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rano le 22:45 del 9 ottobre 1963 quando dal monte Toc si staccò una frana che precipitò sul lago del Vajont riversando un volume d'acqua alto oltre 200 metri che scavalcò la diga (finita di costruire soli due anni prima) e cancellò i paesi di Longarone, Erto e Casso provocando migliaia di morti. Per molti è il più grande disastro avvenuto sul territorio italiano ed ancora oggi sulle cause rimangono molti misteri. Furono quasi 2000 i morti di questa sciagura che segno per sempre l’Italia ed il territorio bellunese. Nei giorni della memoria molteplici sono stati gli interventi delle maggiori istituzioni locali e nazionali a riguardo. "Vajont nella memoria collettiva. Guardando oggi la ridente e operosa Longarone, e le altre comunità dell'area pare impossibile che, 58 anni fa, il 9 ottobre del 1963 tutto, comprese quasi duemila persone, fu spazzato via da una delle più grandi tragedie della storia del Veneto e delle sue montagne. Montagne d'acqua seminarono in pochi secondi lutti e distruzione. Da quel giorno, il nome Vajont è e resterà sempre nei nostri cuori, nella memoria collettiva, nei libri di storia. Anche quest'anno, ancora una volta, rivolgiamo alle vittime e alle loro famiglie un deferente ricordo, ai soccorritori un grazie colmo di gratitudine, a chi seppe rimboccarsi le maniche e
ricostruire, ammirazione totale”, questo l'intervento del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. "Per chi c'era”, prosegue il governatore, “ si tratta di un dolore immenso e indelebile, ma è alle giovani generazioni che ora Istituzioni e società civile devono rivolgersi perché, dalla storia del Vajont, fatta anche di errori, sottovalutazioni, scelte e comportamenti assai discutibili, traggano una lezione per il futuro, magari partendo da una visita al cimitero di Fortogna, simbolo primo del dolore per una tragedia determinata dalle mani dell'uomo". "Piano piano la lezione sembra entrare nel comune sentire”, dice il Zaia, “ in un momento storico come questo, in cui sembra unanime l'esigenza di una maggiore sensibilità nel rispetto del pianeta e la tragedia del Vajont rimane un monito affinché l'indispensabile sfruttamento della natura sia sempre equilibrato, in condizioni di sostenibilità per il territorio e di sicurezza per la comunità. Ciò vale in primis per
le Istituzioni chiamate a programmare e realizzare le infrastrutture necessarie allo sviluppo. Si continui a operare, ma lo si faccia con un approccio diverso, totalmente eco-compatibile, anche se questo può comportare studi impegnativi e, in qualche caso maggiori costi. Dobbiamo farlo, perché le nostre decisioni di oggi ricadranno poi sui nostri figli". Anche il Sindaco di Longarone e presidente della provincia Roberto Padrin ricorda la tragedia del Vajont con l’annuale commemorazione tenutasi al cimitero di Fortogna: “questa giornata per tutti noi presenti in questo cimitero è legata alla Memoria, presente nei pensieri di ognuno di noi, quasi a rendersi palpabile, in un’atmosfera intrisa di commozione e di un dolore segnato da una verità mai cicatrizzata, sempre aperta. E’ questa la nostra Croce e nello stesso tempo la testimonianza che alimenta la speranza di una società più sobria e preparata a offrire il sacrificio di queste comunità alle nuove generazioni, affinché il profitto possa essere perseguito senza prevaricazioni. E’ questa la ragione per la quale ci ritroviamo annualmente in questo luogo che rappresenta per ognuno di noi e per quelli che ne raccolgono il messaggio, un momento di grande intensità ed emozione, sino a suscitare un risveglio spirituale che ci coinvolge tutti”.
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Anche la preghiera contro il Covid di Claudio Girardi
La COMUNITÀ degli SCALZI alle LASTE Come un santuario può aiutare nel 2021
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utto comincia nella seconda parte del 1500, con un capitello posto poco fuori Trento, al bivio delle strade per la Valsugana e il Nord; il capitello è decorato da uno splendido affresco raffigurante la Madonna con il Bambino: lo stesso di oggi! Con il tempo, Il capitello è diventato chiesetta in legno; la chiesetta è diventata poi il santuario di oggi. Nel 1641 i Carmelitani Scalzi di Austria assumono la cura pastorale del santuario e edificano un
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grande convento. A seguito degli sconvolgimenti della rivoluzione francese, il convento fu requisito e i frati espulsi; l’edificio del convento fu usato per svariate funzioni. Nel 1941 i Carmelitani della Provincia Veneta, in accordo con il Vescovo di Trento, tornano a servizio del Santuario, provvedendo a un sostanzioso restauro del convento. Oggi la comunità è composta da un decina abbondante di religiosi, con il compito di curare la formazione dei giovani desiderosi di
consacrarsi al Signore nel Carmelo. Ne parliamo con padre Gianni Bracchi, maestro dei Novizi del convento di Trento. Padre Gianni chi frequenta il santuario? Il santuario della Madonna delle Laste è ufficialmente riconosciuto come santuario diocesano; la devozione alla Madonna delle Laste è molto diffusa e sentita, sia in città che nelle valli del Trentino. Vengono persone di ogni età, singolarmente, come famiglie o
Anche la preghiera contro il Covid
gruppi di pellegrini. Non si tratta di grandi numeri; ma il raccoglimento e la preghiera sono certamente intensi. Molti vengono per essere accolti in confessione e nel colloquio dai Padri, sempre presenti. A volte si tratta di incontri occasionali e brevi; a volte di un cammino che tende a diventare stabile e duraturo. Per accogliere bisogna essere preparati. Come si svolge la vostra vita quotidiana? Il ritmo della vita è dettato dall’amore per Gesù, dall’attenzione ai confratelli e dalla cura per del santuario e del popolo di Dio. La preghiera comunitaria scandisce la vita dei frati: mattina, mezzogiorno, tardo pomeriggio e sera. Ogni giorno c’è la celebrazione Eucaristica con la presenza dei fedeli;
non manca mai una breve riflessione sulla Parola di Dio. Ma al cuore di tutto, ci sono i due momenti di Orazione Mentale: è la preghiera personale, il rapporto di intimità con Il Signore, che deve estendersi in tutti i gesti della giornata: affinché preghiera e vita arrivino a coincidere! Ci sono momenti settimanali di verifica della vita comunitaria; tempi di fraternità e di ricreazione; tempo per lo studio e la preparazione all’apostolato; la cura e la manutenzione della casa e del grande giardino, l’attenzione ai bisogni degli anziani e degli ammalati, le spese a fare, ecc. Ognuno dei fratelli ha un suo compito, all’interno o all’esterno della comunità, tutto vissuto nell’obbedienza al Priore che “tiene il posto” di Gesù. Dopo il covid secondo Lei sono aumentati i poveri che bussano al convento? Certamente; c’è chi aiuta noi frati, e noi aiutiamo altri che hanno bisogno: con una mano si riceve, con l’altra si dona. Un mio confratello ama spiegare che ci sono te categorie di poveri: i poveri che non hanno niente per vivere; i poveri che non hanno nessuno con cui vivere; i poveri che non hanno perso le ragioni per vivere. Da noi vengono soprattutto le ultime due
categorie di poveri. Noi cerchiamo di offrire loro accoglienza e compagnia, per seguire insieme Gesù: Via, Verità e Vita. C’è qualche cosa di particolare nel vostro santuario? Un aspetto interessante è quello della cura del canto liturgico. Abbiamo due corali: una di adulti,
e una di giovani, che animano le Messe della Domenica mattina. Oltre che essere un momento aggregativo e formativo per i coristi stessi, la corale diventa uno strumento di evangelizzazione e di testimonianza: sia nel santuario, sia in altre chiese. Abbiamo avuto molte richieste di Concerti-meditazione in giro per la Diocesi di Trento e anche altrove. Dopo la pausa dovuto all’obbligo distanziamento, speriamo che questa bella attività possa riprendere.
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La storia parlata di Waimer Perinelli
LADINI
UNA LINGUA UN POPOLO
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a signora Maria, persona intelligente e cortese, negli anni 70 abitava in via Grazioli a Trento. Era nata a Cortina d'Ampezzo quando regnava Francesco Giuseppe,ma non si sentiva austriaca, era molto trentina, ma soprattutto ladina. Nei primi anni del 900 parteggiava per l'Italia, con i sostenitori di Cesare Battisti, ma con moderazione perché non amava le cose urlate e le manifestazioni di piazza. A vent'anni aveva sposato un imprenditore di Trento, uno spirito inquieto, da cui ebbe due figli prima che partisse per il Sud America in cerca di fortuna. Vi trovò la morte e Maria non tornò più nell'ampezzano fra i ladini, ma di questi il Trentino, l'Alto Adige, cosi' come la provincia di Belluno, abbondano. Ladine sono quelle comunità che parlano e scrivono una lingua con antiche reminiscenze latine non sempre uguali fra i diversi territori abitati. Nell'area centro- orientale della regione Trentino-Alto Adige, in Val Gardena (Gherdeina), la usano 8148 abitanti, 80-90 per cento della popolazione; in valle
di Fassa è parlato dall'82, 8 per cento degli abitanti, 7.553 persone, che usano ben tre varianti: la moenat, la brach e la caset. A queste comunità ladine consolidate, unite geograficamente e culturalmente ai ladini dell'Aldo Adige-Sud Tirol, cercano di aggregarsi da una ventina d'anni i nonesi, abitanti della Valle di Non con addentellati della Valle di Sole e di Rabbi. A trascinarli nell'avventura culturale è l'associazione Retia (Rezia) guidata da Caterina Dominici, la rossa di capelli e, un tempo, di pensiero. La politica conservatrice li classifica però come discendenti dalla cultura celtica preromana. Ma i nonesi insistono e le opposizioni al loro progetto sembrano più amministrative che culturali, perché lo Statuto di autonomia assicura ai ladini trentini almeno un seggio sicuro nel Consiglio Regionale e i ladini dell'area fassana, che ne hanno finora sempre usufruito, non sono disposti a cederlo e nemmeno a vederselo contendere. Hanno meno privilegi ma uguale forte sentimento di appartenenza i ladini del Veneto alpino, delle valli
Badia e Marebbe, 9.222 abitanti fra i quali il 95% ha come lingua madre il ladino-badioto, classificata come Cadorino. Abitano a Cortina, a Calanzo, Auronzo..Borca. Usano il Fedom o ladino dell'alta val Cordevole o Livinallese, gli abitanti di Livinallongo del Col di Lana e del colle di Santa Lucia. Queste zone, classificate come ladino-atesine, secondo gli studiosi, soffrono di contaminazioni venete. Da questi monti, a cascata si scende infatti nell'Agordino, ad Alleghe, Falcade-Falciade, in piena provincia di Belluno, dove viene classificata anche una lingua o parlata, semi ladina. La questione non è di poco conto. Anzi. Recentemente anche in provincia di Belluno, grazie alla normativa sulle minoranze linguistiche storiche (legge 482/1999), sono stati riconosciuti ladini i comuni del Cadore, del Comelico, dell'Agordino, della valle del Biois, dell'alta val Cordevole, e della val di Zoldo. È attivo l'Istituto Ladin de la Dolo-
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La storia parlata mites- istituto "Cultural Cesa de Jan", (Istituto Culturale delle Comunità dei Ladini Storici delle Dolomiti Bellunesi), con sede a Borca (Borcia) di Cadore. Recentemente è stato concluso il progetto SPELL che mira ad una lingua ladina standard. Si è iniziato con la standardizzazione e l'informatizzazione del patrimonio lessicale e successivamente si sono realizzati un dizionario e una grammatica di base. L'obiettivo, per nulla segreto, è di agguantare le norme già esistenti nella Provincia autonoma di Bolzano dove la lingua ladina è ufficialmente riconosciuta in base all'articolo 102 dello Statuto di autonomia sulla valorizzazione delle iniziative ed attività culturali e la minoranza ladina viene tutelata con l'insegnamento nelle scuola pubbliche e la facoltà di usare la lingua ladina nei rapporti con la pubblica amministrazione. In
Alto Adige nelle scuole delle località ladine la lingua si insegna al pari dell'italiano e del tedesco. Con un limite, sulla base della delibera n 210 del 27 gennaio 2003, è possibile usare la lingua ladina negli atti degli enti pubblici e normativi, solo nelle forme del ladino unificato della Val Badia e della val Gardena. Un esempio per i cugini veneti, con l'invito a fare presto e bene uniformando le diversità e lottare insieme per salvaguardare identità, lingua, cultura. In tempi di Euregio non sarebbe male avere un congresso a Cortina d'Ampezzo, nell' Ampez-
zan, all'ombra del monte Cristallo di Cortina, quello a cui guardava, con affetto, la signora Maria.
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Profilazione e valore economico dell’informazione
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hi utilizza computer o smartphone per ricerche su temi o prodotti specifici, oltre che per l'attività sui social network, si è sicuramente imbattuto in situazioni che possono apparire “diaboliche” o sostenere un complottismo sul controllo a cui siamo sottoposti. Ciò a cui mi riferisco è una situazione piuttosto comune e banale: mi connetto alla pagina web di un qualsiasi sito di vendite online per verificare il costo di un cacciavite professionale oppure dell’ultimo modello di scarpe da basket; poi, magari dopo alcune ore, smartphone alla mano, mi dedico a una rilassante lettura di quanto condiviso dai miei contatti sul social network preferito. Qui, ossessivamente, mi vedo riproposta la pubblicità di quel cacciavite e di quelle scarpe. Il grande fratello ci osserva? Da un certo punto di vista le cose stanno esattamente così, benché ciò avvenga in modo più palese di quanto saremmo portati, di primo impulso, a pensare. Vi ricordate quando, in un altro articolo, abbiamo parlato dei dati? Ciò che
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la nostra ricerca sul sito di vendite online ha prodotto, oltre a soddisfare la curiosità personale è l’aver fornito un dato: a noi interessa il prodotto oggetto della nostra ricerca. Un dato che non ci è stato “rubato” (condizione che potrebbe essere vera per alcuni siti di dubbia rispettabilità), ma più in generale è stato sottoposto al nostro consenso, nel momento in cui abbiamo accettato le politiche di gestione dei cosiddetti cookie. Per noi potrebbe essere di scarso rilievo il fatto che qualcuno sia consapevole di ciò che ci interessa, almeno fino a che ciò non investa una sfera più personale e riservata, ma per altri questo dato assume comunque un elevato valore economico, tanto più se associato all’analoga conoscenza degli interessi di altre migliaia o milioni di utenti del web. Il valore economico si realizza nel momento in cui i dati vengono ceduti, o anche solo utilizzati, per favorire l’attività promozionale di prodotti commerciali, del mio cacciavite come delle scarpe. Un’insistente proposta che non è casuale e indirizzata a un utente generico, ma a chi, come me, aveva già espresso interesse verso quello spe-
cifico prodotto. Una condizione che incrementa la possibilità che l’insistenza del marketing produca i frutti sperati. L’esempio proposto è semplice e banale, riprende quel concetto di dato che in un precedente articolo era stato rappresentato, nonché il suo uso più immediato. Un tassello di base che rende possibile la produzione di informazioni più articolate e ci avvicina alla frontiera più spinta dell’analisi delle nostre tracce digitali, non altro che tasselli, siano esse ricerche su Google o su altri motori, siano valutazioni sui portali che propongono beni di consumo, hotel, ristoranti o viaggi oppure i like sui social network. Quel meccanismo che permette di associare una molteplicità di dati a noi riferiti per produrre informazioni più complete sulla nostra persona, è noto, nell’ambito del mondo digitale, con il termine di profilazione dell’utente. Un’azione che in passato avrebbe richiesto un’incredibile mole di risorse, ma che oggi è eseguita con grande velocità e a livello massivo, dai server che ospitano i siti o i portali a cui ci riferiamo. Un’analisi che, oltre alla banalità dell’esempio sopra descritto, può spingersi molto oltre. Così può accadere che ad una ragazza vengano proposte promozioni su beni connessi ad una gravidanza a seguito di una analisi che intreccia il sesso e un’età potenzialmente fertile (dati spesso usati nella registrazione ai portali), con l’essersi interessata a determinati integratori alimentari (ricerche o acquisti online) e l’avere una particolare propensione nell’assegnare dei
Uomo & Società like a determinati post (interazione con i social network). In generale nessuna di tali azioni, presa nella sua singolarità, potrebbe condurre a considerare il caso di una gravidanza, ma letti nel loro complesso potrebbero invece corrispondere a ricorrenze che l’algoritmo di profilazione riconosce come tipiche e riscontrabili in condizione di “dolce attesa”. Un’interpretazione passibile di errori, ma che si affina via via che noi aggiungiamo singoli dati e che, nel momento in cui colga nel segno, genera quel notevole vantaggio commerciale prima accennato. La profilazione dell’utente si è talmente spinta e ha invaso un tale numero di campi che è dovuta rientrare anche nei termini della regolamentazione a tutela della privacy. Così il Regolamento Europeo n. 679/16, noto come DGPR ha intro-
dotto esplicite posizioni rispetto ai processi di profiliazione dell’utente, restringendone l’applicazione a ben determinati casi, contenendo il numero di dati utilizzabili nel processo stesso e prevedendo un’azione di consenso da parte dell’utente, spesso associata ai cookie e alle finalità che essi si prefiggono. Nulla di diabolico o complottistico dunque, ma una potenzialità che può essere vista anche a favore di noi utenti, nel momento in cui la pubblicità a cui siamo sottoposti anziché essere massic-
cia e generalizzata, sia più contenuta e mirata ai soli nostri interessi. Al contempo è dovuta un’esigenza di consapevolezza su come ciascun dato che noi forniamo e autorizziamo divenga parte della descrizione che i sistemi digitali realizzano sulla nostra persona
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Le date da ricordare di Monica Argenta
Novembre: occasione per ripensare ai nostri avi, alle nostre radici.
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erto che nelle nostre vite frenetiche non è semplice trovare un momento per ricordare i defunti, per riflettere almeno qualche minuto sulle persone che ci hanno preceduto e in particolar modo su quelle persone sono state parte della famiglia in passato. Forse l'unico appuntamento che un pochino ci riavvicina alla commemorazione dei nostri antenati è la giornata del 2 novembre che da oltre un millennio, grazie all'iniziativa di un abate benedettino dell'Abbazia di Cluny poi estesa a tutta la comunità della Chiesa Cattolica Romana, ci può offrire questa occasione. Da dopo l'anno 1000 c.a. infatti venne istituita la giornata “pro requie omnium defunctorum” e da allora tutti i cattolici hanno avuto l'usanza di visitare i cimiteri, risistemare la tomba dei propri avi, mettere fiori nuovi e, presumibilmente, volgere loro una preghiera o semplicemente un pensiero. Purtroppo, anche in Italia questo rituale sta scemando, vuoi per una minore considerazione dei dettami della Chiesa, vuoi per un numero sempre maggiore di persone dislocate geograficamente, per scelta o necessità, oramai è difficile raggiungere il luogo di sepoltura dei propri avi. Ne consegue che anche quell'opportunità di riflessione individuale su un tema generale che il rito collettivo è capace di generare, si dissolva del tutto. Ovvero non vi sia più nulla per rimpiazzarlo. Meditare sulle nostre “radici” per le nuove generazioni è sempre più difficile, anzi peggio. Negli ultimi decenni l' Occidente vive l'elogia del futuro, sempre più spesso declinata (e sovra semplificata) dal dictat del “qui e
ora”. E non importa più a nessuno perdere del tempo a ricordare le vite dei nonni e dei bisnonni, e soprattutto, a cercare di capire e re-attualizzare al nostro presente le loro esperienze. Poco importa che in realtà nell'estremo oriente- da dove alcuni sostengono esista la panacea del vivere “nel qui ed ora”- il culto degli antenati è ancora molto sentito e presente. Pochi sanno, o vogliono ammettere, che in moltissime case orientali esistono degli altarini davanti ai quali ci si siede con estrema umiltà e quotidianamente si prega e si pensa ai propri avi. Simili all'avere le fotografie sul frigorifero dei cari defunti e accendere lumini ponendo dei fiori come facevano le nostre nonne, quest'abitudine in Occidente è oramai abbandonata. Dedicare uno spazio, se pur piccolo, sia mentale o fisico, alla commemorazione di quelli che non ci sono più invece è importante e probabilmente intrinseco nel DNA dell' homo sapiens. Di recente è apparso un articolo divulgativo sul prestigioso quotidiano britannico The Guardian: vi si legge che secondo le ultime investigazioni di paleo-antropologi sugli spostamenti stagionali dei popoli di tutta Europa di 15,000 anni fa, grande attenzione veniva riposta a specifiche “tombe”. Per ragioni ancora (forse mai)
chiare, i nostri antichissimi avi transitavano ritualmente e stagionalmente su percorsi che includevano luoghi sepolcrali particolari. Sorprende quindi che in quest'epoca di un Occidente che si proclama attenta alla rivalutazione dei valori e delle risorse naturali invece ci sia così poca attenzione e rispetto verso il percorso fisico o mentale per quelli che ora non ci sono più. In fin dei conti, novembre è il mese quando alle nostre latitudini la natura si ritrae: le foglie degli alberi oramai son cadute, le poche piante di ortaggi dell'orto son ripulite. Chiunque abbia ancora il piacere di dedicarsi a queste faccende agricole è conscio che a novembre c'è spazio solo per le radici che sopravviveranno e permetteranno alle piante di rifiorire la prossima primavera: novembre è quindi il giusto per ragionare e pensare a quel che fu e domani sarà. Siamo tutti frutti caduti vicino alle nostre piante: meditarci sopra, almeno ogni tanto, non potrà far altro che favorire la nostra fioritura.
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La parola ai cittadini di Emanuele Paccher
Referendum sulla giustizia:
facciamo chiarezza
La Lega, assieme al Partito radicale, sta raccogliendo le firme per indire sei referendum abrogativi. Ma qual è il procedimento da seguire? Quali norme si vogliono abrogare?
I
l 2 luglio è ufficialmente partita la campagna per la raccolta delle firme. Lega e Partito radicale vogliono portare al voto dei cittadini sei referendum abrogativi, tutti in tema di giustizia. Questa possibilità è prevista dall’articolo 75 della Costituzione, secondo il quale 500.000 cittadini o 5 Consigli regionali possono proporre l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge. Successivamente, dopo il deposito
delle firme, la Corte Costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità del referendum. Per fare un esempio, non sarebbe ammissibile un referendum abrogativo in materia tributaria, così come sarebbe inammissibile un quesito espresso in modo non chiaro, tale da indurre in errore i cittadini. Piercamillo Davigo, già Presidente della seconda Sezione Penale della Corte suprema di Cassazione, ha dichiarato che vi sono dubbi di ammissibilità sul referendum in
questione, poiché potrebbe minacciare l’indipendenza della magistratura. Ma la questione è controversa, e non mancano autorevoli voci contrarie. Se verrà superato il vaglio della Corte, ci si rivolgerà ai cittadini, di norma tra il 15 aprile e il 15 giugno. Per ottenere l’abrogazione della legge dovranno partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto, e la votazione dovrà dare una maggioranza di “sì” al quesito abrogativo. Questo punto
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La parola ai cittadini probabilmente sarà il più delicato: nelle ultime tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016) ha sempre prevalso il non voto. Come si capisce, l’iter è complesso e piuttosto lungo. Ma andiamo ora ad analizzare nel merito le proposte, soffermandoci su alcuni nodi cruciali della riforma. Innanzitutto, si vuole introdurre la responsabilità diretta dei magistrati. Al giorno d’oggi il cittadino colpito da accuse inesistenti o che finisce in carcere da innocente non può chiedere direttamente conto al magistrato dei suoi errori. Il cittadino può presentare domanda di riparazione solamente allo Stato, in particolare rivolgendosi al Presidente del Consiglio. Lo Stato poi farà domanda di rivalsa nei confronti del colpevole. L’eccezione a tale procedura si ha nel caso di danno da reato (come nel caso di corruzione in atti giudiziari), in cui il
magistrato è direttamente responsabile. Un altro punto riguarda la separazione delle carriere di pubblico ministero e di giudice, poiché in Italia le due figure fanno parte dello stesso corpo giudiziario, e i giudici possono diventare Pm, e viceversa, più volte nel corso della loro carriera. La legge attualmente fissa un limite di quattro passaggi, con alcune restrizioni, come ad esempio l’impossibilità di cambiare ruolo all’interno dello stesso distretto. Poi, si vuole modificare il sistema di elezione del consiglio superiore della magistratura: al momento un magistrato che voglia candidarsi deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme. Con il referendum si vorrebbe eliminare tale vincolo. Infine, si vorrebbe dare più spazio alla
componente non togata nella valutazione professionale dei magistrati, limitare la possibilità di ricorrere al carcere preventivo e abrogare la cd legge Severino, eliminando pertanto l’automatismo dell’incandidabilità alle cariche politiche in caso di condanna per specifici reati. Vale la pena di ricordare che i quesiti referendari sono “indipendenti”, nel senso che l’insuccesso di uno dei sei referendum non preclude la possibilità che un altro giunga all’abrogazione di una norma.
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l verde delle colline, che caratterizzava l’estate, prima si è opacizzato per poi trasformarsi gradatamente nel caleidoscopio di colori tipico della stagione autunnale, quella sicuramente più spettacolare da un punto di vista naturalistico e paesaggistico. E così i boschi ottobrini e novembrini si tingono di giallo, marrone, viola, arancione, tutti di mille tonalità, mescolati tra loro. Anche le vigne di prosecco della Pedemontana della Marca Trevigiana hanno cambiato
volto: nel mese di settembre sono state spogliate dei grandi grappoli dorati che, a breve saranno, vino graditissimo, sulle tavole di milioni di persone. di tutto il mondo. In questi splendidi contesti ambientali si muovono lentamente ed in silenzio, ma con lo sguardo attento e l’udito in allerta, tanti seguaci della dea Diana, spesso accompagnati dai loro fedeli cani da caccia. Matteo Codemo, trentatreenne residente ad Alano di Piave, ha fama di essere un bravo, etico, aggiornato cacciatore di selezione, disciplina questa che si prefigge il compito dell’abbattimento sostenibile e controllato degli ungulati, in modo da mantenere le varie specie in un numero congruo ed in buono stato sanitario. “Nella vallata feltrina e, più in generale, nella provincia di Belluno – spiega Codemo - si possono cacciare caprioli, cervi, camosci e perfino i mufloni, che appartengono ad una specie alloctona e cioè non originaria del territorio. Ogni primavera si fanno i censimenti per capire lo stato di salute delle diverse specie nelle varie località; quindi, tenendo anche conto del numero delle catture nell’annata precedente, viene deciso il quantitativo stagionale degli abbattimenti individuati per
classe, sesso ed età.” Il territorio viene, dunque, controllato e monitorato, in modo da evitare inutili stragi e di preservare l’equilibrio naturale, eliminando così anche i danni ambientali che qualche specie, in soprannumero, potrebbe arrecare. Le tecniche messe in atto nella caccia agli ungulati sono essenzialmente due: l’appostamento e la cerca. Nel primo caso, individuato un punto, solitamente più elevato rispetto al territorio circostante e dotato di buona visibilità, ci si mimetizza e si rimane in attesa del passaggio della possibile preda. Nella cerca, invece, ci si muove piano ed in silenzio, camminan-
do con passo felpato tra boschi, prati e radure. Una volta individuato l’animale ci si avvicina il più possibile, spesso strisciando sul terreno a pancia in giù tra erba, sassi ed arbusti vari. “In entrambi i casi – ribadisce con orgoglio Matteo Codemo – prima di imbracciare il fucile, di prendere la mira e di premere il grilletto, il selezionatore deve capire, con grande precisione e senza
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Uomo e Natura
margine di errore, a che specie appartenga l’animale che ha davanti, il sesso, l’età, ed il suo stato di salute. Se l’ungulato, studiato rientra nel piano di abbattimento si può passare all’azione, altrimenti si lascia stare." E’ da sottolineare come, la maggior parte delle volte, l’appostamento e la cerca non sfociano nello sparo. Questa è, però, la vera caccia, quella che ha l’etica alla sua base, l’unica che può e che deve avere un futuro. Ma i cinghiali non popolano la vallata feltrina? “Assolutamente sì –conferma il trentatreenne di Alano – sono sparsi un po’ ovunque ed, a volte, se in soprannumero, possono arrecare gravi danni agli agricoltori. Anche questo animale, per altro dalle carni estremamente gustose, si può insidiare con diverse tecniche, comprese quelle che prevedono l’ausilio dei cani e dei battitori.” Ma la caccia non è solo quella agli ungulati. Esistono, infatti, molte specie di piccola selvaggina, insidiabili con i cani da ferma o da seguita. Per secoli nelle vallate bellunesi, oltre che nella Pedemontana trevigiana starne, lepri e beccacce sono stati prede ambitissime dai cacciatori.
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Certamente, tra esse, non rientrava quella dei fagiani, animale alloctono, importato in diversi momenti storici dall’Estremo Oriente che, però, con il tempo si è adattato bene ai nostri territori. Imbattersi in una brigata di starne, che poteva comprendere anche una quindicina di esemplari, fino agli anni Trenta del secolo scorso, era un’emozione ricorrente per i cacciatori feltrini e pedemontani. Dall’istinto altamente gregario questi bellissimi volatili manifestavano la loro presenza, specialmente all’alba ed al tramonto, tramite il tipico canto “ceruèe” o “ chir-ich-chiric”, una sorta di grido aspro, simile al rumore di una scure. Per scovarli si utilizzavano cani dotati di grande olfatto e di ferma solidissima. Ma parlare oggi di caccia alle starne assume un tono malinconico, purtroppo il ceppo selvatico si è praticamente estinto, principalmente a causa delle profonde trasformazioni, prodotte dall’uomo, nell’assetto e nell’uso del territorio rurale,
oltre all’impiego massiccio di pesticidi. Si tratta di un patrimonio venatorio, naturalistico, ecologico e culturale quasi sicuramente perso per sempre. Ne parla ancora, con emozione, qualche anziano cacciatore. Fortunatamente nell’autunno 2021 si possono ancora praticare, nella nostra Regione, due cacce tradizionali emozionanti e coinvolgenti come quelle della lepre e della beccaccia. La prima si esercita generalmente con l’ausilio dei segugi, come lo facevano nell’Ottocento i poveri contadini dell’epoca, che traevano dalla cattura della lepre un’importante integrazione alla misera alimentazione delle loro famiglie. Questa importante razza canina da seguita quando individua la traccia del selvatico lo segnala con alcuni colpi di coda, cui fanno seguito molteplici scagni. Tanto più il cane si avvicina alla preda, tanto più si fa concitato l’abbaio. Lo scovo è il momento finale e magico della ricerca; ciò avviene quando la lepre, incalzata da vicino dai cani, sentendosi ormai scoperta, si alza in piedi scattando
Uomo e Natura verso una via di fuga a volte bloccata dal cacciatore. In questi ultimi anni il numero dei segugisti anche nel bellunese è aumentato notevolmente grazie ad una più oculata gestione della lepre, Questa veloce carrellata dei vari tipi di caccia autunnale non può che chiudersi con la beccaccia, che non è soltanto la “Regina del bosco” per la maestosità dell’aspetto e del volo che la contraddistinguono e per la difficoltà nella cattura, ma è qualcosa di magico che da sempre fa sognare i cacciatori cinofili che la considerano il selvatico per elezione. Tra gli amanti di questa disciplina rientra, a pieno titolo, Luciano Merlo grandissimo appassionato di setter inglesi e, naturalmente di beccacce. Risiede a Farra di Soligo, tra le colline che l’Unesco ha incluso tra il Patrimonio dell’Umanità. “Quando mi addentro tra i boschi alla ricerca di questo straordinario migratore – spiega – sono sempre accompagnato
dai miei bellissimi e fantastici setter ed in quei momenti mi sembra che si concretizzi perfettamente la simbiosi tra uomo, animali e natura.” La Regina del bosco raggiunge le colline bellunesi e trevigiane verso metà ottobre proveniente dai Paesi nordici, ma soprattutto dalla zona balcanica e del nord – est europeo, Russia compresa e vi rimane fino quasi a Natale. “Anno fungaio, anno beccacciaio!” ripetevano i cacciatori di un tempo convinti, giustamente, che fossero le piogge di agosto e settembre a creare sul terreno l’humus tanto gradito sia ai funghi che alle beccacce. “Si tratta di un proverbio – sottolinea il cacciatore trevigiano – che ha sicuramente un suo fondo di verità, ma bisogna precisare che un peso importante sulla presenza di questo selvatico è
costituito anche dalle condizioni meteorologiche. La beccaccia è, infatti, sensibile al calo della temperatura e quando il terreno superficiale ghiaccia si sposta più a sud perché fatica a scovare i vermi ed lombrichi di cui è ghiotta.” Secondo Luciano Merlo, che di professione fa il commercialista, la cerca della beccaccia “è la competizione, ovvero, la sfida più sana e sportiva che ci possa essere tra uomo e selvatico.”
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a stagione invernale 2020/21 è stata condizionata pesantemente dalle problematiche legate al Covid con la quasi totalità degli impianti chiusi e lo sci consentito solo all’attività agonistica. Una deroga questa che ha permesso alle squadre delle varie società di non perdere la stagione. L’ironia della sorte ha voluto però che sia stato uno degli inverni più nevosi degli ultimi anni anche a quote basse. Ciò ha permesso al Monte Avena, la base della nostra attività, di diventare il luogo di allenamento per numerosi sci club, non solo del feltrino, che solitamente gravitano su altre località. E’ mancato però lo sci per tutti e soprattutto per tutti quei bambini che partecipano ai corsi di avviamento e perfezionamento, alle settimane bianche private e organizzate dalle scuole, per imparare a sciare, ma soprattutto per divertirsi e stare all’aria aperta. Questo vuoto va assolutamente riempito, serve contribuire al recupero di quella
di Lovat Martina
socialità che questa pandemia ha pesantemente compromesso. Ci auguriamo, quindi, che dopo i sacrifici e le limitazioni sostenuti con grande responsabilità da tutti noi, quella che sta per arrivare sia la stagione del ritorno alla “normalità”, anche se condizionata dalle nuove regole maturate in questo lungo periodo pandemico. Tenendo fede alla propria tradizione, lo Sci Club Croce d’Aune è pronto a ripartire con i programmi di promozione dello sci alpino, che comprenderanno l’attività agonistica giovanile e master; due corsi di avviamento e perfezionamento durante i pomeriggi delle vacanze di Natale e uno nei sabati di gennaio e febbraio riservati ai bambini e ragazzi delle scuole elementari e medie. Per i master il momento clou sarà l’organizzazione del campionato Veneto Master sabato 12 marzo 2022. La speranza è anche di poter dedicare dei momenti alla solidarietà organizzando la fiaccolata con la quale, in collaborazio-
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ne con altre tre associazioni del feltrino, vogliamo riunire numerosi amici nel ricordo di Matteo e Sabrina con devoluzione del ricavato in beneficienza. L’importanza del passato, con i ricordi dei momenti più significativi, per guardare al futuro, viene sottolineata dallo Sci Club Croce d’Aune assieme alla famiglia De Bortoli con l’assegnazione di una borsa di studio in ricordo di Sabrina De Bortoli ai 10 bambini più piccoli che ogni anno si dedicano con costanza e impegno all’attività di avviamento all’agonismo. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i nostri associati, i volontari, le famiglie dei ragazzi e gli sponsor per il puntuale sostegno che ogni anno manifestano. Per concludere, un fiducioso saluto a tutti gli appassionati che leggendo Il Feltrino News si soffermeranno sul nostro inserto e magari saranno attratti dal nostro bellissimo gruppo.
Il presidente Luca Fontanive
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l Monte Avena si trova all’ingresso del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, e si pone in posizione panoramica sulla vallata feltrina e sulla valbelluna. Oasi placida ed incantata capace di offrire una dimensione della montagna davvero particolare, vicinissima alle città, con ottima esposizione al sole, capace di combinare il piacere delle piste da sci con il candore dei grandi pianori sommitali, ideali per concentrare tutte le discipline degli sport invernali con la quiete e il relax di paesaggi ariosi e rilassanti. Il Monte Avena è una località famigliare: accogliente e intima, il giusto per magnifiche giornate sulla neve lontano dalle grandi masse di sciatori, ma con davvero tutto a portata di mano: circa 20 km di piste da discesa, boschi e spazi per
l’esplorazione freeride con lo snowboard, ampi tracciati dedicati allo sci di fondo, vaste distese boscose per passeggiare a piedi o con le ciaspole e tanto spazio sicuro per il divertimento dei bimbi. Senza scordare… la calorosa accoglienza e la cucina tipica delle malghe e degli chalet in quota. Nel periodo estivo, è un luogo ideale per piacevoli passeggiate in solitaria tra ampi pascoli intervallati dall’accoglienza delle varie malghe d’alpeggio. Il Monte Avena, sede dei Mondiali di Parapendio
2017, inoltre, è frequentato dagli amanti del volo libero, punto di riferimento per avvicinarsi alla magia dello sport dell’aria. Nel 2019 è stato protagonista con la tappa più rappresentativa del Giro d’Italia.
Consiglio Direttivo Luca Fontanive - Presidente Luca De Biasi - Vicepresidente Giambattista De Bortoli - Segretario Fulvio De Bortoli - Consigliere Luca Carazzai - Consigliere Enzo De Biasi - Consigliere Alberto Perera - Consigliere Alex Fabiane - Consigliere
Responsabile Corsi Giulia Pauletti
Responsabile Baby/Cuccioli Stefano Gris
Responsabile Ragazzi/Allievi Alberto Perera
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harles Pierre de Frédy, barone di Coubertin, meglio conosciuto come Pierre de Coubertin, deve essere uno che nelle gare sportive arrivava sempre secondo, quando andava bene. Forse per questo s'inventò il motto, famoso ed universale: l'importante non è vincere ma partecipare, diventato il filo conduttore di tutto lo sport e delle Olimpiadi moderne in
particolare. Non è vero, arrivò senz'altro primo assoluto quando, nel 1896, diede vita al Comitato Olimpico Internazionale, del quale fu presidente fino al 1925, ideando fra l'altro il motto Citius, Altius, Fortius Communiter, che significa "Più veloce, più in alto, più forte - insieme" dove l'invito è a vincere con la parola chiave "Communiter", comunità.
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Lo sport è questo, una competizione con gli altri, fra gli altri, ma anche con sé stessi. Harpee Lee nel suo libro "Il buio oltre la siepe" scrive: "Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare e cominciare ugualmente e arrivare fino in fondo qualsiasi cosa succeda." E' l'invito a rispettare il motto di de Coubertin ma attenzione: qualche volta succede di vincere comunque,
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CROCE D'AUNE: UNO SCI CLUB NELLA STORIA
l villaggio di Aune (dal latino Alnus-Ontano), frazione di Sovramonte nel Feltrino, meno di duecento abitanti a 900 metri d'altitudine, sorge sulla strada che fino al Diciannovesimo secolo è stata la principale per il Primiero. Il paese è piccolo ma caratteristico e le belle vette circostanti alimentano orgoglio ed ambizione. In particolare per lo sci. E' grazie a ciò che nell'autunno del 1962 è nata l'idea dello Sci Club Croce D'Aune resa ufficiale nel 1963 dal parroco don Remo Pasa. Il primo consiglio direttivo era formato da: Piero De Cia presidente, Don Remo segretario, De Bortoli Argillo (Tita Tiola) cassiere, De Bortoli Cirillo vice presidente. I primi atleti provengono dalla stessa Aune e dalla vicina frazione di Salzen. Sempre nel ’63 avviene l’affiliazione alla FISI e la partecipazione alla prima gara a Tambre D’Alpago con tre atleti: De Bortoli Vilmo, Facchin Fausto e Facchin Wolf. Le gare a quel tempo venivano effettuate nel Feltrino: Seren Del Grappa, Celarda, Cart, Villaga e Monte Avena, dove ancora le risalite avvenivano a piedi e i viaggi si facevano su autobus di linea. La prima vittoria individuale arriva nel 1966 a Celarda. Nell'inverno 68/69 arriva la prima vittoria della società: il Club vince ad Enego il trofeo Castello D’Oro. Il club cresce. A Piero De Cia, primo presidente, succede Pietro Gorza che sarà poi riconfermato. La presidenza più longeva spetta a Vilmo De Bortoli che, anche con il sostegno e l’amicizia della famiglia Marazzato, porta il Club tra le società più rinomate vincendo per la prima volta nel 2000 il Trofeo Delle Regioni (campionato italiano per club), seconda Società del Veneto, dopo Cortina, ad aver vinto nella stessa stagione, la fase provinciale, la fase regionale e diventando campione d’Italia sulle nevi di Piancavallo. Gli atleti non sono più solo delle frazioni di Aune e Salzen, ma si iscrivono da tutta la Provincia e anche da fuori, raggiungendo il numero attuale
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di cento tesserati FISI e venti tesserati sociali. In cinquanta anni di attività i risultati sono stati molteplici e prestigiosi. Nel 1987 la vittoria ai mondiali in Giappone di sci d’erba di Cinzia Valt; le 6 vittorie del trofeo delle regioni ora trofeo delle società (Piancavallo 2000, Zoldo 2002 e 2009, Sestriere 2003 Falcade 2013 e 2014), oltre ad innumerevoli podi individuali nelle varie categorie. Numerose sono pure le gare organizzate con grande passione e dedizione, tanto da ricevere per due volte l’assegnazione della Fase Finale del trofeo delle Regioni organizzate in entrambe le occasioni a Falcade nel 2004 e nel 2013. Non va dimenticata neanche la finale del Grand Prix Lattebusche organizzata in collaborazione con le altre società del Feltrino a Pescul nel 1998. Attualmente lo Sci Club Croce d’Aune, fra i forti d'Italia, conserva l’attaccamento alle proprie tradizioni e origini nel paese di Aune dove mantiene la sede, ma nel quale non si è mai rinchiuso cercando di portare avanti la propria attività di promozione dello sci alpino a volte trovando sinergie con altre realtà. Spirito sportivo, passione e voglia di divertirsi sono i principi che uniscono i propri associati impegnati anche in attività di volontariato nella comunità. La Società ha unito più generazioni e grazie ad un bel gruppo di giovani e master, è stato conquistato nel 2017 il secondo prestigioso posto alla Fase Finale del Trofeo delle Società sulle nevi di Sestola. Un successo che, ancor di più, esalta lo spirito di squadra, la capacità organizzativa dei dirigenti e l'affetto dei sostenitori. Ed è comprensibile che per una piccola realtà come quella della frazione di Aune di Sovramonte, avere un sodalizio sportivo come lo Sci Club Croce D’Aune, possa essere motivo di orgoglio. Se è stato possibile raggiungere certi risultati, lo si deve ad atleti e dirigenti e sostenitori, che hanno saputo dare il loro contributo in ogni attività dello sci club. VIENI A VISITARE IL NUOVO SITO: WWW.EMPORIODELLAUTO.NET FELTRE - Via CULIADA, 208 Tel. 0439 305338 WHATSAPP: 349 7708346 info@arafeltre.it SEDICO - Via Feltre, 63 Tel. 0437 852282 WHATSAPP: 345 3693494 info@emporiodellauto.net
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Economia e finanza di Emanuele Paccher
Alla scoperta del PIL
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l prodotto interno lordo (PIL) è il valore dei prodotti e dei servizi realizzati all’interno di uno Stato in un determinato periodo di tempo, generalmente di un anno. Nel calcolo conta la realtà geografica in cui un prodotto o servizio viene realizzato: se un’impresa tedesca vende nel territorio italiano, il valore delle sue vendite entrerà a far parte del PIL dell’Italia; così come se un’impresa italiana opera nel territorio francese, il valore delle sue prestazioni entrerà a far parte del PIL della Francia. Tale indicatore economico è definito “lordo” poiché comprende anche gli ammortamenti, ossia il deprezzamento di tutti gli apparati che compongono il sistema produttivo, i quali perdono
valore con il decorso del tempo e con il loro utilizzo. Andando un po’ più nello specifico, il PIL è dato dal seguente calcolo: consumi delle famiglie + spese per investimenti + spesa pubblica + esportazioni – importazioni. In sostanza, il PIL è il reddito complessivo che un paese è in grado di produrre nel corso di un anno solare. Ma a cosa serve il PIL? Il PIL è uno dei principali indicatori di salute di un sistema economico, dato che rappresenta la capacità del sistema di produrre e vendere beni. Spesso è poi utile ricavare il PIL pro capite, ossia il PIL diviso per il numero di abitanti del Paese, in modo da ottenere la ricchezza media annua prodotta da ciascun individuo.
Questo indicatore è particolarmente importante poiché sull’andamento passato e presente del PIL gli economisti possono fare stime sugli andamenti futuri, decidendo come e dove destinare le risorse economiche. In prima battuta possiamo dire che avere un elevato prodotto interno lordo significa poter godere di una migliore qualità della vita all’interno di uno Stato. Il confronto, tanto discusso specialmente in ambito europeo, tra deficit e PIL consente di comprendere la capacità di uno Stato di fare fronte agli impegni presi. Compresa quindi l’indubbia rilevanza che il prodotto interno lordo ha sulla salute della nostra economia, occorre porsi una domanda fondamentale: ma
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Economia e finanza un PIL elevato comporta necessariamente un maggiore benessere sociale? Molti aspetti ci inducono a rispondere negativamente. Innanzitutto il PIL tiene conto solo delle transazioni in denaro, tralasciando tutte le prestazioni a titolo gratuito, come quelle svolte in ambito familiare e quelle di volontariato. In alcuni Stati in via di sviluppo, in cui l’economia è prevalentemente familiare, una strategia di sviluppo basata esclusivamente sulla crescita del PIL può far diminuire il benessere di questa popolazione. Dopodiché, e forse questo è l’aspetto prioritario, il PIL non fornisce alcuna misura della distribuzione del reddito all’interno della società. Una società in cui vi è una enorme ricchezza, la quale però è distribuita tra pochi ricchi e moltissimi poveri, ben difficilmente potrà considerarsi felice. Stati con PIL simile possono avere differenze notevoli in termini di distribuzione del reddito, e
quindi differenze enormi in termini di benessere. Infine il PIL tratta tutte le transazioni come positive: anche il riciclaggio del denaro entrerà a farne parte, così come i profitti generati da imprese che provocano un grandissimo inquinamento atmosferico e persino i ricavati delle imprese funerarie. Con un po’ di sarcasmo il filosofo Zygmunt Bauman ha detto: “Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il PIL non cresce”.
In conclusione, il PIL è ancora oggi un importantissimo indicatore economico capace di fotografare quella che è la ricchezza di un Paese, specialmente guardando al PIL pro capite e confrontandolo poi con il deficit di bilancio. Tuttavia, non bisogna elevarlo ad indicatore salvifico e portatore sempre e comunque di benessere. Un PIL elevato non per forza ci rende più felici.
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Attualità di Alex De Boni
Gli acquisti online M ai come negli ultimi anni lo sviluppo degli acquisti online ha avuto un così sensibile aumento di utilizzatori. Basti pensare alla fortuna e alla popolarità acquisita da una piattaforma come Amazon, tra le prime grandi imprese a vendere merci su Internet e una delle aziende simbolo della bolla speculativa delle dot-com riguardante Internet alla fine degli anni novanta. Dopo che la bolla scoppiò, Amazon affrontò un certo scetticismo nei confronti del suo modello di business, ma nel 2003 raggiunse per la prima volta un utile d'esercizio, fino a divenire oggi una azienda con un fatturato di 350 miliardi di dollari (anno 2020). In Trentino è nata è la prima scuola online di E-commerce Marketing in Italia che insegna a progettare, realizzare e sviluppare un E-commerce di successo. Di questo team fa parte anche il bellunese Matia Vergerio, legalista con anni di esperienza nello sviluppo di prodotti, gestione logistica e gestione amministrativa delle vendite sia online che offline. Realizza e gestisce da anni con successo Account Amazon di piccole e medie imprese, oltre ad essere Co-founder della Amazon Masterclass.
Vergerio ci spiega in cosa consiste il suo lavoro e per quale motivo può divenire importante per tutte le aziende che vogliano ampliare la loro gamma di clienti: “l’e-commerce è un’opportunità da cogliere. Dal canto mio, ho voglia di fare, di crescere, di trasmettere quello che ho imparato e di divulgare il mio know-how tecnico. La Scuola E-commerce è nata con l’obiettivo d’insegnare tutte le strategie e le metodologie necessarie per aprire un negozio online di successo. Sulla rete si trovano tanti corsi online e blogger che mostrano come fare per guadagnare diventando imprenditori del digitale. Nessuno, però spiega davvero, e neppure utilizza strategie e tecniche reali. Tante startup falliscono, magari dopo avere sborsato migliaia di euro, perché non sono state capaci di elaborare le strategie giuste, perché hanno investito nella direzione sbagliata oppure perché mancavano quelle conoscenze indispensabili allo sviluppo di un e-commerce con tutti i crismi. In questo scenario, mi muovo per condividere quello che so, per aiutare chi vuole rea-
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Moda oggi di Laura Paleari
Riviste di Moda in Italia:
storia ed Evoluzione
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e prime riviste di moda nacquero in Francia, intorno al XVII secolo, più precisamente alla corte di Luigi XIV e consistevano in una raccolta di raffigurazioni di tutti gli abiti e accessori indossati dall’aristocrazia del tempo: ad utilizzarle largamente erano soprattutto le sarte, che potevano in questo modo copiare i modelli più in voga. Così come per notizie e narrativa, la stampa e il giornalismo di moda presero ben presto piede soprattutto in Francia e Inghilterra, i due paesi europei dove lo sviluppo delle società democratiche stava pian piano prendendo piede. L’abito dunque, non era più solo un modo per indicare il proprio lignaggio sociale, ma un veicolo per affermare se stessi, come individui singoli. Una piccola curiosità: prima delle riviste di moda, si utilizzavano le cosiddette Bambole di Pandora, delle bambole abbigliate come persone in miniatura, con
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abiti e accessori realistici che servivano per promuovere la moda parigina in tutto il mondo. Nel 1804 nacque, a Milano, ispirandosi al francese “Journal des Dames”, la rivista il “Corriere delle Dame”: fondato da Carolina Arienti Lattanzi, che, grazie anche all’influenza del marito, il giornalista Giuseppe Lattanzi, divenne a sua volta giornalista, oltre che scrittrice e poetessa. La rivista presentava articoli di educazione civica, teatrali, politica e moda, in maniera lungimirante, essendo Carolina conscia del fatto che la moda non è altro che lo specchio della società. I bozzetti di moda illustrati presenti erano, inizialmente, francesi ma ben presto vennero affiancati a modelli disegnati da sarte/i italiani, tanto da arrivare a pubblicare una raccolta acquistabile a parte con all’interno tutti gli schizzi e bozzetti. Una delle novità che introdusse la rivista, grazie ai numerosi aspetti trattati, furono le inserzioni a pagamento da parte di attività desiderose di vedere il proprio nome sul celebre Corriere, quindi una delle prime forme di pubblicità. Nel 1848 poi, l’Italia cominciò a distaccarsi dalle mode francesi, favorendo i creativi partenopei; citava il numero del “Corriere delle Dame” del 20 luglio del 1848: ”il potere della moda esercitò sempre la sua influenza; ebbe vita attiva nei grandi movimenti politici, si mischiò nei partiti, si mostrò come l’espressione del pensiero, ora adottando le fogge di una nazione guerriera, ora i colori della libertà, dell’indipendenza, or quelli di una nazione prospera e tranquilla. […]”: l’Italia cominciava finalmente a far sentire la sua voce. La stampa di moda italiana divenne propriamente e definitivamente tale negli
anni tra la prima e la seconda grande guerra. Il regime fascista in particolare, cercò di portare l’Italia sempre più verso un’indipendenza economica e sociale dagli altri Stati e così, anche la stampa di moda si fece sempre più italiana. Nel 1927 nasce “Sovrana”, quella che oggi conosciamo come “Grazia”, dove l’argomento principale, ossia la moda, veniva e viene ancora oggi contornato da attualità, viaggi, hobby. Nel 1920 a Milano venne pubblicato “Novella”, che dal 1966 venne rinominato con il titolo di “Novella 2000”. Nel 1964 è la volta di “Vogue Italia”, in seguito all’acquisto della rivista “Novità”, la quale trattava di moda, arredamento e stile. Il nome Vogue Italia venne assunto nel 1966 sotto lo storico direttore Franco Sartori, il quale ne rivoluzionò completamente l’impostazione: dalla tipologia di carta ai contenuti, alle fotografie. Anche se dovremo attendere gli anni ’70 per avere un vero e proprio boom della rivista,
Moda oggi anche grazie all’intervento dell’iconica direttrice Franca Sozzani, che rivoluzionò non solo il magazine ma l’immagine della moda italiana in tutto il mondo. Fece la storia, ad esempio, l’edizione speciale di “Vogue Italia" intitolata “Black Issue” (2008): la Sozzani pubblicò un mensile con interviste, fotografie e servizi con sole modelle black, per cercare di sensibilizzare il pubblico al tema, attualissimo tutt’oggi oggi, della rappresentazione di più ideali di bellezza. Anche “Harper’s Baazar” contribuì a fare la storia del giornalismo di moda in Italia: fin dai suoi albori, si è distinto nell’individuare il nuovo, il diverso, quella persona o fenomeno che avrebbe fatto la storia, e viene ricordato ancora oggi per le magnifiche illustrazioni dell’illustratore russo Ertè, tramutate dagli anni ’50 in fotografie tra cui quelle di Helmut Newton e Richard Avedon. Nel 1962 viene inaugurato il settimanale
“Amica”, ideato da alcuni giornalisti de “Il Corriere della Sera”: il nome del giornale fu proposto dall’inviato Dino Buzzati e la prima copertina venne dedicata a Sophia Loren; si tratta di un giornale che si è fatto strada parlando di femminismo ed emancipazione. Dagli anni 2000, le riviste e i periodici iniziano ad utilizzare la forma degli abbonamenti digitali. Ecco dunque che fanno la loro comparsa magazine online, blog e siti, ampliando il numero di lettori e quindi di progetti e articoli, dando vita ad un nuovo modo di fare giornalismo, immediato e per tutti. A differenza di quello che si possa pensare, anche i social e i contenuti online si dimostrano ogni giorno sempre più validi e creativi: i nuovi contenuti, risultano infatti freschi ed accattivanti per il lettore. In un paese come l’Italia, legato alle tradizioni, la recente pandemia ad esempio ha costretto anche i più tenaci sostenitori del
cartaceo a prendere in considerazione una versione online. Blog, siti, magazine online, social e podcast… L’informazione di moda continua, così come ha sempre fatto, ad evolversi con la società, e ci chiediamo quale sarà il prossimo passo delle sempre nuove, e sorprendenti, forme di comunicazione.
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Tra storia, leggenda e sogno di Nicola Maccagnan
Il viaggio tra “I miracoli di Val Canzoi” di Giovanni Trimeri e GianAntonio Cecchin.
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n omaggio a “I miracoli di Val Morel” di Dino Buzzati, nel 50esimo della prima edizione, ma non solo. “I miracoli di Val Canzoi”, edito da Edizioni DBS di Rasai, è un vivace e colorato viaggio che trae spunto da racconti e suggestioni della tradizione locale per sfociare in una raccolta molto ben curata e ricca di trame e personaggi, nonché di possibili letture. La rivisitazione aggiornata dell’opera buzzattiana, che elegge però a luogo di riferimento la non distante Val Canzoi, vede protagonista un sodalizio culturale e artistico ormai consolidato, ovvero quello costituito da Giovanni Trimeri, autore dei testi, e dal pittore GianAntonio Cecchin. Il volume si compone di 25 testi e altrettante illustrazioni, come ex voto, che ampliano e “spiegano” in forma pittorica l’intento delle diverse brevi narrazioni. Pur ispirandosi al lavoro buzzatiano, i
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miracoli della Val Canzoi, come ben rileva Fabio Atzori nella prefazione, hanno origine e sviluppi diversi e autonomi. “Nel nostro caso, racconta Giovanni Trimeri, i testi sono nati prima delle immagini. Verso la fine del 2019, risfogliando per l’ennesima volta il libro di Buzzati, pensai che mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa del genere, ma rivisto alla luce della nostra attualità. La copertina della prima edizione completa dei Miracoli di Val Morel riporta l’ex voto del Gatto Mammone, apparso a Cesio Maggiore: ecco che avevo trovato dove ambientare … nuovi miracoli… che dovevano essere lo specchio dei nostri giorni: in Val Canzoi, comune di Cesiomaggiore”. Prosegue Trimeri: “A differenza di Buzzati, che ha chiesto l’ausilio della sola santa Rita
da Cascia, tradizionalmente invocata per le “situazioni impossibili”, ho pensato di ricorrere all’aiuto di più Santi, sia perché in Val Canzoi ci sono diverse chiesette a loro dedicate, sia perché questa opzione mi permetteva di creare situazioni varie e sempre verosimili. Con i miracoli ho voluto mettere in evidenza i vizi e i pregiudizi, le manie, le presunzioni, le debolezze e le credenze, persistenti e spesso dannose. Non potevo dimenticare poi fenomeni importanti per la società locale quali l’emigrazione definitiva e quella di ritorno dei discendenti, i danni provocati alla natura e dalla natura, le vecchie e le nuove paure. Così - aggiunge l’autore - non propongo questi miracoli come opera di un intervento divino, come il segnale di una presenza Superiore; anzi, in essi ricorre sovente un contradditorio tra la spiegazione miracolosa dei fatti a opera dei protagonisti e l’interpretazione razionale di chi ne ascolta la narrazione. Il protagonista vuole credere al miracolo, mentre l’ascoltatore vuole spiegare razionalmente quanto è avvenuto, in un ideale dialogo e rimpallo tra letture
Tra storia, leggenda e sogno
diverse dello stesso fatto accaduto. In ogni caso, i miracoli di Val Canzoi inducono il lettore alla riflessione sui rapporti dell’uomo con gli altri, con la natura, gli animali, le norme e i limiti, i danni del passato e quelli del presente, sulle paure e i pregiudizi.” I luoghi della Val Canzoi sono indicati con esattezza, così come sono precisi i riferimenti alla storia e alle tradizioni del territorio, alla sua economia, ai tanti lavori che contribuivano a creare il reddito familiare: agricoltura, lavori boschivi, produzione della calce, del carbone,
ecc.. Ogni elemento che contribuisce a creare una storia è stato studiato e scelto per una particolare pregnanza o evocazione. Racconta ancora Giovanni Trimeri: “Ci sono parecchi riferimenti a Buzzati anche al di fuori dei suoi Miracoli di Val Morel, come la citazione dei fumetti Killing e Kriminal, nel miracolo La danza macabra della maestra. Gli stessi protagonisti, come in Buzzati, hanno nomi verosimili, frutto di scelte e di ampie commistioni per riferimenti culturali, geografici e della tradizione. Un’analoga attenzione va posta poi nell’osservare gli “ex voto” con cui - tra i cartigli, il mostro ricorrente, la rivisitazione o il richiamo in cammei di figure sfuggenti - il pittore amplia la narrazione. Tutti gli ex voto sono introdotti da didascalie pensate dallo stesso GianAn-
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tonio Cecchin; con la loro ridondanza fonetica e il loro tono enfatico creano un assetto parodistico delle dediche degli ex voto popolari.” Una lettura, quella de I miracoli di Val Canzoi, gustosa e accattivante, che va dunque affrontata con il sorriso sulle labbra e la mente aperta ai tanti sentieri su cui gli autori vogliono accompagnare i lettori… tra storia, leggenda e sogno, appunto.
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Il personaggio di ieri di Alice Vettorata
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Padova nel 1584 nasce Chiara Varotari, una di quelle donne che oggi verrebbe definita come una figlia d’arte, nata e cresciuta in un ambiente artisticamente e culturalmente florido. In una città, Padova, ancora sotto il dominio veneziano e che per questo godeva delle influenze artistiche barocche che contraddistinguono ancora oggi l’attuale capoluogo veneto. Oltre alla culla territoriale, Chiara poté sviluppare un interesse per il mondo dell’arte già in casa. Nata da Dario Varotari detto il Vecchio, pittore e architetto, e nipote da parte di madre di GianBattista Ponchino, anch’egli pittore. Non furono loro però a oscurare un po’ la futura figura artistica della Varotari. La pittrice entra nella categoria di artiste quasi ignote, delle quali non sono 66
pervenute molte informazioni, né tantomeno una quantità significativa di opere a lei certamente attribuite. Il suo caso è un emblema in questo ambito, dato che può essere considerata una portavoce delle artiste dimenticate. Diventa compito di questa rubrica quindi raccontare il suo operato, rendendola protagonista della scena, così come fatto per le sue colleghe, distanti nello spazio e nel tempo, ma accomunate dal medesimo ruolo di donna poco nota ai suoi contemporanei e ai posteri. Messa in ombra da qualcuno più influente di lei. Spesso questo ruolo, intenzionalmente o meno, viene ricoperto da una figura maschile. Abbiamo detto che nel caso di Chiara Varotari non dobbiamo pensare al padre o al nonno, bensì al fratello minore Alessandro. Quest’ultimo conosciuto come Il “Padovanino”, si formò studiando le opere del Tiziano presenti nella Scuola del Santo a Padova, scrigno architettonico che contiene tre affreschi narranti gli episodi dei Miracoli di Sant’Antonio, nonché il primo lavoro autonomo del grande pittore di origine cadorina. Lo stile del Maestro Tiziano influenzò notevolmente le opere del Padovanino, oggi visibili soprattutto a Venezia e in altre città italiane, fino a poter essere
ammirate anche al Museo del Prado di Madrid. Egli a differenza di Chiara non imparò l’arte pittorica direttamente dal padre, poiché l’uomo morì quando Alessandro era ancora un bambino. Chiara divenne così un’assistente collaboratrice del fratello, capace di dargli anche gli insegnamenti ricevuti da loro padre, accompagnando Alessandro nei suoi viaggi in Italia a scopi lavorativi. Insieme si trasferirono a Venezia in modo tale da poter immergersi nel nuovo clima in fermento e ricco di possibilità del rinomato centro culturale. Tutto ciò potrebbe far presagire che il ruolo della pittrice si limitò ad essere quello dell’aiutante del noto fratello, ma non fu così. Si specializzò nel ritrarre personalità appartenenti principalmente alla borghesia veneziana e padovana, rifinendole in modo preciso e curato i minimi dettagli. Vesti, gioielli e ornamen-
Il personaggio di ieri ti venivano cesellati minuziosamente, caratteristica che le permise di farsi rispettare e conoscere nell’ambiente artistico. Oltre alla sua abilità tecnica però non venivano riconosciuti altri pregi alla sua pittura, focalizzata in un unico soggetto, la borghesia, rappresentata in modo sterile e privo d’introspezione. Ciò non la frenò ma anzi, nel 1625 decise di sfruttare le sue abilità tecniche per fondare una scuola d’arte nel centro di Venezia, frequentata da allieve come Caterina Tarabotti e Lucia Scaligeri. Non solo. La Varotari non si limitò a far accrescere ulteriormente il settore artistico-culturale della città che la adottò, ma contribuì inoltre a creare un’ideologia ben precisa riguardante i temi della differenza di genere. In che modo? Scrivendo le proprie idee a difesa dei diritti delle donne nel libro “Apologia del sesso femminile”, un passo verso tematiche incredibilmente ancora
attuali. Chiara riuscì ad affermarsi e autorealizzarsi in molti modi. Fu l’aiutante del fratello, una pittrice autonoma, la fondatrice di una scuola d’arte, l’infermiera (lavoro per il quale venne premiata) e scrittrice con un obiettivo ben preciso. Divulgare i diritti fondamentali di chi, come lei, doveva avere un ruolo nel mondo. La sua tempra e abilità vennero riconosciute da suoi colleghi e critici contemporanei come Pietrucci e Boschini, il quale nel volume Navegar pittoresco menzionò l’artista, sottolineando la sua fama che la condusse fino in Toscana, per ritrarre i granduchi. Viene citata in un altro saggio pubblicato probabilmente nel 1792, Storia pittorica d’Italia scritto dall’Abate Luigi Lanzi, inserendola così negli artisti degni di nota, da ricordare. Chiara Varotari non fu solo una pittrice, ma una donna che riuscì a farsi largo tra le convenzioni so-
ciali distinguendosi, dando la possibilità ad altre donne di agire nel suo stesso modo.
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Tra passato e presente di Chiara Paoli
L’architettura preistorica
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el paleolitico e nel mesolitico gli uomini erano cacciatori che migravano e si spostavano continuamente per sopravvivere, adottando come riparo grotte naturali già esistenti o realizzando delle capanne di legno. All’età del bronzo risalgono invece i primi esempi di architettura megalitica, costruzione di pietra che a distanza di millenni possiamo ancora ammirare. Si tratta di costruzioni realizzate con enormi blocchi di pietra, diffuse per lo più nelle isole britanniche, in Bretagna , nelle Alpi Centro-orientali, in Sardegna, Puglia, e Sicilia. Queste architetture si dividono per tipologia in: dolmen, menhir, cromlech, e nuraghi. Dolmen in lingua bretone vuol dire proprio tavole di pietra, si tratta di costruzioni formate da due pietre che vengono collocate in posizione verticale, mentre una terza pietra viene disposta orizzontalmente, in modo da sormontarle. Si tratta di un sistema che può essere definito trilitico (cioè formato da 3 pietre), ma in realtà si possono aggiungere anche elementi laterali, uno di chiusura e uno munito di apertura - porta d’ingres-
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so. Originariamente erano ricoperti da cumuli di terra o pietrisco e venivano usati come tomba individuale o riservata alla collettività. Poteva essere utilizzato anche come luogo di culto e su alcune pietre che compongono l’architettura appaiono rappresentazioni incise, come curve concentriche, spirali, figure umane schematizzate, e in alcuni casi tracce di banchetti funebri. Menhir è ancora una volta una parola di lingua bretone che può essere interpretata come pietra lunga. Si tratta infatti di un unico blocco di pietra posto verticalmente nel suolo. Spesso li ritroviamo disposti in lunghissimi allineamenti che hanno la funzione di lastra tombale. I menhir si trasformano in alcuni casi in statue dalla forma antropomorfa che si completa per la figurazione maschile con
la presenza di un’arma, mentre quella femminile è connotata da piccoli seni. I cromlech sono invece dei circoli di pietra, si tratta di costruzioni realizzate con ogni probabilità per il culto del Sole, data la loro orientazione in base ai fenomeni astrologici. In questo caso le lastre vengono fissate nel terreno in verticale secondo una disposizione circolare, per poi essere sormontati da pietre in orizzontale che architettonicamente parlando potremmo definire trabeazioni. Il più famoso e suggestivo cromlech del pianeta è il complesso di Stonehenge, "antico osservatorio astronomico", che dista circa 13 km da Salisbury nello Wiltshire in Inghilterra. Nella prima metà del ‘900 le pietre di Stonehenge sono state erette nuovamente, raddrizzate e rinforzate per rendere il sito, che nel 1986 è entrato a far parte dell’Unesco ed è quindi considerato patrimonio dell'umanità, più sicuro. A Stonehenge giungono migliaia di turisti, ma anche moltissimi pellegrini, seguaci del Celtismo e di altre religioni neo pagane. Le tre tipologie appena
Tra passato e presente descritte si possono considerare quali luoghi di culto o costruzioni tombali, per conservare i corpi dei defunti durante il sonno eterno e alcune di esse si collocano anche in Italia, come il cromlech che si trova sul colle del Piccolo San Bernardo, al confine tra l’Italia e la Francia. Vi è poi ad Aosta un’importante zona archeologica che conserva testimonianze di architetture preistoriche, si tratta dell’Area megalitica di Saint-Martinde-Corléans, qui si trovano steli incise antropomorfe e un grande Dolmen. Ma la regione italiana con il maggior numero di costruzioni megalitiche è la Sardegna, dove possiamo trovare le cosiddette tombe dei giganti, ma dove sono presenti anche costruzioni in muratura utilizzate per la quotidianità. Le tombe megalitiche, sono costruzioni edificate nel secondo millennio avanti Cristo, utilizzando dei monoliti di pietra fissati a terra, secondo disposizione
rettangolare lunga fino a 30 metri e alta fino a 3. La struttura appariva un tempo ricoperta da un tumulo che la rendeva simile a una nave rovesciata. La facciata a semicerchio pare richiamasse alla mente le corna di un toro e al suo centro si collocava un megalite che poteva raggiungere i 4 metri di altezza, e nel mezzo del quale era posta un’apertura (porta) di accesso che poteva essere chiusa con un masso. Vicino all’ingresso era inoltre posto un betilo (o betile), pietra sacra volta a simboleggiare gli antenati o le divinità che vegliano sui morti. I più famosi betili al mondo sono costituiti dai monoliti che troneggiano sull’Isola di Pasqua. Vi sono poi in Sardegna, tipi particolari
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di costruzioni megalitiche realizzate nel secondo millennio: i nuraghi, costruzioni realizzate in pietra, dalla forma cilindrica, che appaiono come torri. Sull’isola si contano circa 7000 case-fortezza costruite dai pastori sardi, un immenso capitale architettonico che nel 1997 è entrato a far parte del Patrimonio mondiale dell'Unesco.
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L’avvocato risponde di Erica Vicentini*
LA RINEGOZIAZIONE DEL MUTUO tassi e piani di ammortamento più alti di quanto oggi potrebbe riscontrarsi ma dettati dalle condizioni del mercato immobiliare di allora e da condizioni economiche-reddituali spesso differenti: il riferimento corre, ad esempio, alle situazioni di perdita del lavoro o altri imprevisti che hanno condotto a egli ultimi anni spesso si sono regidover scegliere se pagastrate situazioni di precarietà ecore il mutuo di casa o sbarcare il lunario. nomica tali da rendere difficoltoso Ovviamente anche per gli Istituti di credito il pagamento persino delle rate del mutuo l’esposizione di passività rilevanti non è di casa. Mutui, magari, contratti anni fa a una situazione facile da gestire: anche se Logo con colori quadricromia applicati
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non sempre il Cliente trova la porta aperta per parlare di rinegoziazione del mutuo. Per questo, si sono susseguiti a livello normativo vari tentativi volti a incentivare questi tavoli di confronto fra Cliente (consumatore) e Banca mutuante. L’ultimo interessante strumento è stato previsto dall’art. 40 ter legge 60 del 2021, che ha tentato di introdurre un’ipotesi vincolata di Rinegoziazione del mutuo a vantaggio del Cliente-consumatore. Va detto, però, che i requisiti previsti dalla norma sono particolarmente stringenti, soprattutto con riferimento all’anticipo che viene richiesto al Cliente debitore per poter accedere alla rinegoziazione. Le condizioni prevedono, in primo luogo, che il Cliente debba rivestire la qualifica
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L'avvocato risponde di consumatore (e non essere, quindi, imprenditore o altro) e il creditore sia una banca, una società che ha acquistato crediti incagliati un intermediario finanziario autorizzato, garantito da ipoteca di primo grado su un immobile adibito ad abitazione principale. A ciò si aggiungono i requisiti di tipo economico, che sono certamente delicati: il debitore deve aver già rimborsato almeno il 5% della quota capitale e non solo della quota dovuta a titolo di interessi, su un credito complessivo di massimo euro 250.000,00 e deve offrire un importo specifico, pari al prezzo base dell’asta ridotto del 25% o, se l’immobile è stimato ma non si è ancora tenuta la prima asta, il prezzo di stima, oppure ancora nel caso in cui il debito residuo sia inferiore al valore dell’immobile anche con la riduzione del 25% va offerto l’intero importo del debito residuo comprensivo di spese di pignoramento e di interessi
L’istanza così redatta può essere presentata solo una volta entro il 31 dicembre 2022 e deve essere già pendente procedura di pignoramento immobiliare. Al ricorrere di queste condizioni si crea quello che possiamo considerare un diritto del soggetto cliente-consumatore di sedersi al tavolo con la Banca per rinegoziare il mutuo, facendo valere le contingenti condizioni economiche per riquantificare conseguentemente la rata di ammortamento. Spetta poi al creditore verificare il merito creditizio, nel senso soprattutto di verificare l’affidabilità del cliente debitore in rapporto a eventuali ulteriori posizioni di debito pendenti.
*Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84) , Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
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Attualità di Katia Cont
Decreto riaperture:
dall’11 ottobre piena capienza
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n data 8 ottobre 2021 il Consiglio dei ministri ha finalmente approvato il decreto legge che, a partire dall’11 ottobre, ha portato al cento per cento la capienza per i luoghi di cultura (cinema e teatri) di sport e per le discoteche. Misure attesissime da più di un anno, sia dagli addetti ai lavori che si sono sentiti abbandonati dalle istituzioni, sia dai fruitori dello spettacolo e più in generale degli ambienti di aggregazione. Grazie all’introduzione della certificazione Verde è stata quindi estesa la capacità di accogliere gli spettatori nei cinema, nei teatri e negli stadi. Il via libera è arrivato anche per la riapertura delle discoteche seppur con capienze ancora contingentate. Per il ministro della Cultura Dario Franceschini, “la decisione del Governo di consentire il ritorno al 100 per cento della capienza nei cinema, nei teatri, nelle sale
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da concerto, nei musei e in tutti i luoghi della cultura accoglie in pieno la proposta che abbiamo ripetuto e confermato nelle ultime settimane, anche nella nostra ultima audizione con il Cts”. Franceschini è infatti convinto “della totale sicurezza di questi luoghi con l’utilizzo del Green pass e di tutte le misure di prevenzione: dal controllo della temperatura all’utilizzo della mascherina. Invitiamo gli italiani a tornare a vivere la cultura in tranquillità e sicurezza”. Il ministro della Salute Roberto Speranza
parla di decisione frutto della gradualità. “Dopo le scelte sulle capienze – afferma – continua il percorso di graduali riaperture. Tutto ciò è possibile prima di tutto grazie ai vaccini e ai comportamenti corretti delle persone. Dobbiamo continuare su questa strada”. La tanto agognata decisione non ha tuttavia trovato impreparati gli operatori del settore che hanno sempre lavorato in questo periodo, cercando di mantenere attiva una coscienza culturale attraverso i canali alternativi, che durante la pandemia hanno conosciuto un notevole sviluppo e un utilizzo sempre maggiore. Le stagioni teatrali hanno così potuto ripartire con un sospiro di sollievo e il pubblico ha ricominciato a popolare le poltrone delle sale. Qualche timore per il ritorno alla vicinanza, una normalità dimenticata che si sta finalmente riappropriando delle nostre vite facendoci dimenticare la smania da telecomando e la noia del divano di casa. La speranza è quella di poter continuare di questo passo, rispettando prima di tutto noi stessi e gli altri, senza dimenticare la cultura come è successo in pandemia.
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Fatti & Misfatti di Patrizia Rapposelli
Piazze in rivolta, Paese che bolle D a Nord a Sud l’Italia è in rivolta. Rischiamo il punto di non ritorno? Le proteste contro le nuove misure imposte dal Governo sono terreno fertile per gli infiltrati estremisti o semplicemente i violenti. Forse serve uno sforzo d’interpretazione non comune. La piazza è da sempre democrazia, è partecipazione, è sana. Forse nell’idea di quella parte d’Italia a cui piace la piazza e non fa attenzione alla qualità dei piazzisti. A ritmi alterni, da Nord a Sud, la massa in platea è una brutta bestia. Non è il luogo migliore dove ragionare. I fatti sono stati una tragedia. Non sono emerse proposte ragionevoli, ma violenza e un Italia che bolle. Attacchi da condannare. Il governo rosso ha urlato fascisti. A Milano c’erano gli anarchici. A Roma i neofascisti hanno assaltato la Cgil e tutto quello che ne è seguito sembra avere segnato uno spartiacque tra un prima gestibile e un dopo carico di tensione sociale. Indiscusso, la piazza non era tutta fascista. Inevitabilmente però l’attenzione mediatica è caduta su questo grave fatto, forse aiutato anche dalle amministrative alle porte. A Milano, la controparte era pronta a fare lo stesso, ma è stata ben contenuta. La gigantografia del presidente Draghi brucia. I cortei sono gli scatti fotografici, nell’ultimo periodo, delle città italiane. E, lo fanno da mesi, sono eterogenei, senza una leadership evidente. In fondo, le masse che alcuni chiamano “no vax” non
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esistono. Abbiamo cattolici tradizionalisti e libertari, marxisti e indipendentisti, i delusi delle formazioni di destra ed ex M5S, difensori dei beni comuni e liberali schierati a difesa dei diritti dei singoli. E, i violenti. A cui piace creare violenza anche dove non c’è. Semplicistico sarebbe ricondurre le manifestazioni a delle parti opposte alla democrazia, o alle decisioni del governo. Nel Paese c’è una sofferenza reale. Al di là di una violenza sempre e comunque da rigettare, c’è poca voglia di parlare delle implicazioni, che il dramma della pandemia ha scatenato in una larga fascia di italiani, da parte di chi ricopre una responsabilità nelle amministrazioni, nelle istituzioni politiche, sociali e nei media. Forse quarant’anni fa si poteva parlare soltanto di una parte politica, sociale e sindacale del Paese che si oppone ad un’altra, organizza i movimenti e le proteste. Adesso, di mercato delle emozioni, del risentimento, della rabbia. Alcuni cittadini sono sopraffatti da collera e disagio, non irrazionali. Infatti, non tutto il Paese ha pagato e paga in egual modo
l’emergenza, è naturale dirlo. Il 62 per cento degli italiani non ha avuto alcuna conseguenza reddituale, mentre il restante ha visto l’introito ridursi vertiginosamente. All’interno di questo contesto fa da cornice l’irresponsabilità di chi non è riuscito a mandare un messaggio unitario fin dall’inizio del calvario emergenziale. Anzi i comunicati sono oscillati prima da una parte e poi dall’altra. Il clima ha creato confusione. È un Italia sfinita? Poi, inutile negare lo sfondo oscuro di chi ha speculato davanti alle turbolenze del Paese. La piazza diventa lo sfogo delle frustrazioni di chi non governa. Opinabili o meno le proteste, c’è da dire che il presente che avvolge l’Italia è chiaro. Gas + 30%, luce + 40%, benzine + 30%, gas e metano + 30/50%, alimenti + 30/50%. Ancora, una famiglia su 4 sotto la soglia di povertà; nel 2020 oltre trecentomila attività saltate, nel 2021 l’inizio del cedimento sociale. A fronte di tanto sfacelo, il Paese è forse schiacciato. Non si può escludere neppure che prima del 2023 lo slancio delle piazze si spenga, che magari torni la normalità e che qualche altra questione finisca per occupare le prime pagine dei giornali. E se così non fosse? Se le piazze, rivendicando controllo e monopolizzazione di alcune parti, continuassero a macinare una protesta a fronte di un’alleanza di culture e una costellazione di città? Potrebbe essere l’avvio di un vero e proprio punto di non ritorno.
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Medicina & Salute di Erica Zanghellini
I RIMPROVERI fanno CRESCERE
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no dei compiti dei genitori, fondamentali nella crescita di un figlio, è insegnargli dei principi e dei valori. Tutti noi a un certo punto riflettiamo su quello che vogliamo tramandare al nostro pargolo e in linea teorica tutto e molto semplice, e al livello pratico che tutto si complica. Uno dei mezzi a disposizione per insegnare ciò che è giusto e ciò che non lo è, sono i fantomatici rimproveri. Ma avete mai fatto caso che ci sono ammonimenti che vanno a buon fine mentre altri no, e che cos’è che può rende l’uno efficacie e l’altro parole al vento? Partiamo dal fatto che il rimprovero fa bene, aiuta il proprio figlio a crescere, l’importante è farlo bene. Se una volta il metodo principe era un urlo o un ceffone, ora sempre più genitori consapevolmente scelgono il confronto come metodo educativo e sebbene non esuli da difficoltà e controversie risulta indispensabile per disciplinare i comportamenti difficili, sbagliati e/o pericolosi.
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Il confronto non è facile, e in alcuni casi i genitori nonostante i loro sforzi si trovano a dover affrontare situazioni di stallo dove sembra proprio che i figli non vogliono modificarsi. A quel punto spesso assistiamo più che a un rimprovero, a sfoghi di genitori infastiditi, se non arrabbiati e quindi in quel momento la loro comunicazione più che efficace risulta essere solo ed esclusivamente un'esplosione della loro tensione. Inevitabilmente quindi, il rimprovero fallisce e risulta essere assolutamente inefficace. La situazione, se perpetrata nel tempo, diventa delicata e complicata, tanto da incorrere nel rischio che genitori sfiniti, perdano la speranza e quindi rinuncino a tramandare il senso morale e l’educazione civica ai propri figli. Dobbiamo, invece, sostenerli e spronarli a continuare nel loro percorso educativo. Ma quindi qual è il modo corretto per fare un rimprovero? La prima cosa da sapere è che i bambini hanno una capacità attentiva limitata nel tempo, quindi lunghi discorsi o paternali non sono per niente persuasivi. La comunicazione deve essere breve, incisa e soprattutto deve avvenire contestualmente all'episodio incriminato. Ricordiamoci che il bambino non è un adulto in miniatura, lui vive in un eterno presente, non è capace di riportarsi e riflettere sul passato o proiettarsi nel futuro. Quindi
farsi quali, “domani non andremo al parco” oppure “stasera ne parlerai col papà ” non hanno senso, il bambino nemmeno si ricorderà più dell’accaduto. Altra cosa importante è non pasticciare, è vietato mettere assieme più episodi nella sgridata. Quindi niente frasi del tipo: “oggi hai disturbato in classe, hai fatto arrabbiare la nonna e ora hai fatto cadere il vaso” . Il bambino si sentirà impotente e soprattutto demotivato, il messaggio che gli stiamo mandando potrebbe minare la sua autostima. La conclusione che ne potrebbe trarre è “non ne combino una giusta, non sono capace a far niente” e in più, sicuramente la nostra paternale risulterebbe troppo lunga perché il bambino ci segua. Ricordiamoci che la nostra disapprovazione deve contenere amore. Noi adulti sappiamo che ci arrabbiamo proprio perché lo amiamo e lo vogliamo crescere in un determinato modo, ma lui no. Per questo il rimprovero deve contenere anche un messaggio di stima e fiducia “Va bene, adesso hai capito e sono sicura che non lo rifarai più”. Il bambino deve arrivare alla conclusione che l’abbiamo sgridato a causa di quel tipo di comportamento e non perché è sbagliato lui. Altro elemento importante è dove avviene la sgridata, mi raccomando deve essere fatta in privato. Assolutamente banditi i richiami in pubblico, è avvilente e indebolisce il senso di competenza. Prendere il bambino da parte per rimproverarlo evita un’umiliazione. Piccola precisazione, una delle possibili conseguenza, se l’ammonimento invece viene fatto in pubblico, è che il bambino diventi aggressivo
Medicina & Salute oppure strafottente. Quello potrà essere il suo modo di vendetta per il rimprovero subito davanti a altre persone. Adesso che abbiamo in mente le caratteristiche generali che una romanzina dovrebbe rispettare, vediamo in dettaglio gli elementi linguistici che la rendono efficacie e che quindi facilitano l’apprendimento dei concetti che vogliamo insegnargli. Il richiamo dovrebbe: *Riportare i fatti *Riportare la regola che non viene rispettata *E infine esplicitare le possibili conseguenze negative che il comportamento può portare se continuamente messo in atto. Rendere esplicito al bambino che ci siamo arrabbiati per quel tipo di comportamento, per esempio “hai spinto il tuo compagno di classe”, e che quel comportamento non è accettabile, “e spingere gli altri non si deve fare” perché porta a del-
le conseguenze spiacevoli “altrimenti poi non vorranno più giocare con te” aiuta il bambino a metabolizzare il messaggio e capire il perché noi gli facciamo quell’appunto. Logicamente il messaggio deve arrivare puntuale ogni volta che avviene il comportamento, altrimenti il minore non capirà la regola e quindi non la interiorizzerà. Ci deve essere anche concordanza tra i genitori, quindi mamma e papà devono essere una squadra e tutti e due comportarsi coerentemente. Piuttosto parlatene in privato e concordate la regola assieme, altrimenti il bambino saprà a chi rivolgersi , o ve lo farà presente, o comunque non capirà l’importanza del principio e del ri-
spettarlo. E infine ricordiamocelo, ci vuole pazienza (e tanta), i risultati si ottengono con costanza e perseveranza. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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LA LOGOPEDIA Sulla punta della lingua Come posso curare il mio difetto di pronuncia? Perché balbetto? Perché non capisco quello che ascolto? Perché ho la voce rauca? Perché il mio bambino ancora non parla? Perché mio figlio pronuncia male alcune lettere? Perché non sa leggere e scrivere bene?
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ono solo alcune delle domande a cui dà risposta la logopedia, disciplina che mira alla diagnosi, alla cura, e alla riabilitazione dei disturbi della parola, del linguaggio e della comunicazione. Un campo che abbraccia anche altri aspetti quali gesti, tempi di conversazione, intonazione della voce, costruzione della frase e tanto altro. Imparare a parlare non è sempre un percorso facile. I 18 mesi sono il momento in cui di solito il bambino inizia a parlare bene, passando da un numero limitato di parole a usarne circa 300. La comprensione infatti precede la produzione. Il lavoro del logopedista si rivolge a tutte le età e quindi si specializza in un settore. «Tra i 3 e i 5 anni s’individuano i primi disturbi del linguaggio – sottolinea Mercedes Caligiuri, logopedista ed ex docente all’Università Tor Vergata di Roma - tra i 5 e i 7 c’è l’approccio con la letto-scrittura e alla fine della III elementare si possono diagnosticare i disturbi d’apprendimento come dislessia, disgrafia e discalculia che possono essere migliorati notevolmente con la terapia. Sono in aumento i bambini che presentano difficoltà anche perché c’è ora una conoscenza maggiore verso i disturbi dell’apprendimento che un tempo venivano trascurati. Anche la terapia varia a seconda del problema, generalmente è breve per problemi come deglutizione atipica, difetti di pronuncia con lettere come S e Z, per altri non è possibile fare una previsione certa».
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Alcuni bambini mostrano difficoltà a parlare ed esprimere concetti. Le problematiche in età evolutiva possono essere neurologiche e neuropsicologiche come ritardi dello sviluppo del linguaggio, difetti di articolazione, di pronuncia, di strutturazione della frase, dislessia, disturbi fonologici, dell’attenzione, ritardi mentali oppure di natura neurocomportamentale come gli effetti di traumi cranici, patologie cerebrali e autismo. Il logopedista ancora cura difetti legati a deglutizione deviata per mal occlusioni dentali, balbuzia, difficoltà nell’apprendimento della letto-scrittura e disturbi sensoriali legati all’udito. È una figura ponte con altri professionisti come psicologo, otorinolaringoiatra, neuropsichiatra infantile, psicomotricista, fisioterapista ecc. «Quando i genitori si accorgono che il bambino mostra difficoltà si rivolgono a noi perché facciamo meno paura – ci spiega ancora Caligiuri – invece di andare da altri specialisti come neurologo o psicologo. Un disturbo del linguaggio può essere sintomo di altri problemi come autismo, ritardo mentale o disturbi audiometrici. Ecco che ci troviamo a svolgere l’importante compito di raccordo
suggerendo approfondimenti di altra natura e far seguire il paziente dallo specialista più adatto. Un bambino dislessico è bene che venga seguito anche da un optometrista, per esempio. Spesso nel nostro lavoro chiediamo anche il sostegno di altri specialisti per trattare problemi come la balbuzia che può avere dentellati psicologici importanti. Fondamentale è quindi l’anamnesi. Lo stesso sintomo può avere cause diverse necessitando di tempi e approcci diversi. Un bambino che non parla può essere affetto da un problema
Medicina & Salute motorio, auditivo, di disattenzione o da mutismo e va quindi trattato diversamente». L’attività del logopedista, che lavora in strutture sanitarie pubbliche e private, prevede la stimolazione delle labbra e della lingua con appositi esercizi, spesso giochi, come soffiamenti, smorfie, rotazioni con la lingua e il suo schioccamento contro il palato, arricciamenti delle labbra, e altri movimenti mirati e ripetuti con costanza. Si serve anche di giocattoli che attirino l’interesse del bambino e ausili come palline da mettere in bocca per insegnare l’impostazione della stessa ed emettere i suoni in modo corretto. Non solo i più piccoli si rivolgono al logopedista. Vengono trattati anche gli adulti con problemi di comunicazione legati a malattie degenerative come Parkinson o demenza senile. «In questo caso - conclude Mercedes Caligiuri - mettiamo in atto
terapie di mantenimento. Ci occupiamo anche del recupero di persone che hanno avuto ictus avvalendoci della cosiddetta Comunicazione Aumentativa Alternativa che con un insieme di conoscenze, tecniche, strategie e tecnologie cerca di dare al malato la voce che non ha».
Il logopedista inoltre si occupa della voce dei cantanti, insegnando all’artista a respirare nella maniera più adatta, attivare il diaframma, effettuare il riscaldamento vocale e assumere la postura migliore per facilitare l’uscita della voce.
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Medicina & Salute
L’ONICOFAGIA Il vizio di mangiarsi le unghie Classificato come un disturbo compulsivo si manifesta generalmente durante infanzia e adolescenza come abitudine transitoria e senza conseguenze e talvolta si può protrarre fino all’età adulta. La diagnosi spesso è ritardata in quanto chi si rosicchia le unghie nega il problema o ne ignora le conseguenze.
Le cause che inducono questo comportamento sono molteplici e spesso è difficile trovarne la vera ragione che può risalire all'infanzia. L'onicofagia è dunque il risultato di un’abitudine protratta nel tempo. Accade soprattutto in momenti di nervosismo, noia e stress, sintomi d’ansia ma anche di un disagio psicologico. Secondo la teoria freudiana portare qualcosa alla bocca richiama metaforicamente l’esperienza dell’allattamento e l’onicofagia avrebbe dunque il medesimo effetto calmante. La causa scatenante è sempre di natura psicologica legata alla tendenza a contenere reazioni e disagi soggettivi e se le cause vengono meno tende a scomparire. Per quanto sembri innocua rappresenta un atteggiamento autolesionista e un’espressione d’aggressività. Molti esprimono la rabbia rivolgendola a sé stessi piuttosto che verso l’esterno. Il paziente è portato a mangiare tutte le proprie
unghie nello stesso modo e la fase preliminare che precede l’onicofagia consiste nell’ispezionare l’unghia alla ricerca d’irregolarità e difetti da eliminare. Le conseguenze dell’onicofagia non sono infatti solamente estetiche. Può provocare dolore, sanguinamento e può danneggiare l’iponichio, la porzione di pelle alla base e ai lati dell’unghia e determinare l’infezione virale o batterica nota come “giradito”. L’onicofagia può inoltre portare a malocclusione dentale, danni gengivali e anche carie, in quanto viene intaccata la sostanza adamantina. Ingerire residui ungueali può inoltre determinare danni gastrici e nel lungo periodo a malformazioni delle dita. Esistono vari trattamenti. Quello più comune ed economico consiste nell’applicare uno smalto speciale, trasparente e dal sapore amaro che dovrebbe scoraggiare la pratica di mettersi le dita in bocca. Altri rimedi naturali sono la tintura madre di genziana da applicare sulle unghie, le tisane rilassanti oppure masticare un chewingum o un bastoncino di liquirizia quando si av-
verte la necessità di mordere le unghie sono valide alternative per tenere la bocca occupata. Per i più piccoli c’è l’uso di pigiami integrali che impediscono al bambino di mordersi le unghie di mani e piedi. Mantenere le unghie tagliate è un’altra misura utile affinché angoli e cuticole sporgenti non costituiscano una tentazione per l’onicofago. Una persona con le mani brutte può dare l’idea di un soggetto timido, con poca autostima e problemi nel gestire la rabbia. La cosmesi viene incontro a questo problema grazie al trattamento di ricostruzione unghie che aiuta non solo a superare gli effetti sociali, ma anche a prendersi cura delle mani, risolvere il problema e sentirsi più sicuri nella vita quotidiana. Smalti appositi, creme, gel specifici e l’applicazione di unghie artificiali può limitare il disturbo e permettere all’unghia naturale di crescere sana e forte.
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Il benessere psichico di Franco Zadra
L'haiku, poesia che cura Una cosa di cui serve fare continua memoria, soprattutto a beneficio delle famiglie, anche se ormai pare un'assodata acquisizione nell'approccio terapeutico ai soggetti con disturbi alimentari, in Italia seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, è che questi «non sono capricci – come scriveva su un quotidiano una giovane uscita dall'anoressia dopo 10 anni di alti e bassi fino a trovarsi a «un filo dalla morte» -, non sono un voler essere più magri, ma è un dolore dell'anima e un disperato urlo di aiuto! Non lo si cura solo mangiando, ma dando voce ai propri pensieri, affidandosi a professionisti!». Per questo la poesia haiku si sta dimostrando un efficace supporto terapeutico, adottato persino da qualche Asl in Italia.
S
i è da poco conclusa a Torino l'ottava edizione della kermesse “alternativa” Robe da matt* 2021 che pone l'accento sul benessere psichico anziché sulla malattia, con l'obiettivo di proporre in particolare agli operatori sanitari, ma a tutti gli utenti della Rete, le più recenti innovazioni in tema di salute mentale, focalizzando l’attenzione sulle “buone pratiche”, obbedendo al mandato che il Piano della Prevenzione Regionale Piemontese e l’Asl Città di Torino rinnovano ogni anno, invitando i servizi a promuovere azioni di sensibilizzazione su temi particolari raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Salute. Tra le novità di quest’anno, registrato in un Live di FaceBook, un webinar dal titolo “Poesia che cura: l'haiku nella medicina narrativa”, con la partecipazione di Simonetta Marucci, endocrinologa e ricercatrice che in un ospedale pubblico di Todi cura da 15 anni disturbi alimentari femminili anche con l’ausilio della poesia haiku, e di Mario Bolognese, scrittore, che conduce laboratori di introduzione all’haiku. Nell'occasione dell'e82
vento ha anche presentato il suo secondo libro su l'haiku, “Haiku dalla terra bambina”, Edizioni del Faro, Trento, «nel quale – dice Mario Bolognese - seguendo il consiglio di Gaston Bachelard, rivivo la mia infanzia facendone una “poetico-analisi” in haiku». L'haiku è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo, composto da tre versi per complessive diciassette “more” o suoni (non sillabe), secondo lo schema 5/7/5, che la dottoressa Marucci fa comporre con un certo successo terapeutico, alle adolescenti con disturbi alimentari, e Bolognese compone di suo, avvicinando a questa abilità espressiva bambini e bambine, anche facendo disegnare loro quello che lui chiama “il paesaggio emozionale interno”, coinvolgendo anche genitori e insegnanti, «non tanto con l'intento – dice Bolognese – di produrre haiku, perché ciascuno deve trovare la sua strada, ma solo come introduzione all'haiku per mettersi alla scuola di bambini e bambine, capaci di vibrare con l'Universo e diventare quello che vedono. Il mondo adulto ha una chiara difficoltà di vedere il mondo interiore che affiora dal disegno libero di bambini e bambine, ma lavorando sulla bellezza, e non sul giudizio, di quella emozione diventata paesaggio la persona trova da se un percorso
che è di guarigione». Per la dottoressa Marucci, «impegnarsi in un esercizio mentale per esprimere in un piccolo spazio le proprie emozioni, attraverso lo schema 5/7/5, ha un primo fondamentale effetto terapeutico in chi soffre di disturbi alimentari, dove la caratteristica principale è la presenza di un pensiero ossessivo che invade la mente e non lascia spazio ad altro, poiché porta a eliminare il superfluo e quello che non serve. Una meditazione sulla parola che si rivela estremamente utile». Nel corso del webinar, da vedere e rivedere, Marucci e Bolognese portano molte interessanti considerazioni sulla pratica terapeutica della poesia haiku, non solo rispetto all'ascolto delle adolescenti colpite da disturbo alimentare, ma anche al riguardo degli operatori che, per essere efficaci e portare aiuto ai pazienti, devono anch'essi avere consapevolezza del loro mondo interiore e conoscere bene le loro emozioni. È possibile contattare Mario Bolognese per laboratori di introduzione all'haiku, scrivendo a canticocreature@gmail.com.
Non solo animali di Monica Argenta
I cani soldato della Prima Guerra Mondiale
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bbiamo sempre in mente i cavalli o i muli come animali degli eserciti del passato. In realtà si hanno testimonianze che fin dall'antichità anche i cani furono utilizzati in battaglia e che soprattutto dalla fine del '800 l'uso di questo animale divenne di cruciale importanza grazie allo sviluppo di vere e proprie scuole di addestramento. Le innovative strategie militari, e non di meno anche una mutata sensibilità nei confronti dei combattenti, spinsero verso la necessità di recuperare i feriti lasciati su sempre più vaste aree di battaglia. Tale compito difficile e pericoloso, si rivelò particolarmente adatto al fiuto e all'intelligenza canina. Tutte le potenze europee istituirono campi di addestramento specifici e l'Italia non fu da meno grazie all'attività del Capitano Ernesto Ciotola (il destino in un nome), cinofilo d'eccellenza che a Roma
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fondò una scuola utilizzando i suoi amati Border Collies. Nacquero così ufficialmente anche in Italia le unità dei i cani “paramedici”, ovvero veri e propri soldati a 4 zampe preparati a perlustrare gli scenari desolanti del dopo battaglia in cerca di sopravvissuti: muniti di pettorine contrassegnate dal simbolo della Croce Rossa e corredati di acqua, cordiale e bende per offrire un primo soccorso ai feriti, furono di fondamentale importanza per recuperare migliaia di vite. Assieme a loro divennero celebri i Sanitatshunde tedeschi o i Mercy Dogs anglofoni, i cani della Misericordia, addestrati ad assistere e a segnalare i feriti ma, nei casi più gravi, a garantire ai soldati una presenza capace di accompagnarli verso una morte più dignitosa e meno sola. Il numero di cani impiegati durante la Prima Guerra Mondiale è incalcolabile. Non ci sono registri precisi per darne un numero, sappiamo solo che di certo furono tantissimi poiché oltre al citato ruolo paramedico, tantissimi furono anche impiegati in altri ruoli, altrettanto strategici. Vi furono cani d'assalto, sentinella, esploratore, staffetta. Non certo da dimenticare i “Ratter” da trincea, fondamentali per sbarazzarsi dei topi, o i cani da traino, che su certi terreni furono indubbiamente più duttili e meno dispendiosi dei muli. Alcuni cani divennero famosi, utilizzati non solo sul campo ma anche nella propaganda se non addirittura dallo star-system hollywoodiano: è il caso del celeberrimo Rin Tin Tin, pastore tedesco reso immortale da Lee Duncan,
soldato americano che trovò in un campo di militari teutonici in fuga dalla Francia il cucciolo e lo portò in patria per renderlo poi protagonista di film e fumetti famosi ancora oggi. O Stubby, pluridecorato Boston Terrier, promosso al grado di sergente dall'esercito americano, abilissimo tra le alte cose a fiutare in largo anticipo i gas mortali nelle battaglie del fronte occidentale. Meno nota, ma non meno notevole, invece è una storia nostrana di un piccolo meticcio nato a Seren del Grappa che divenne una leggenda tra gli Arditi. Un vero e proprio eroe del IX reparto d'assalto “Grappa” meritò più di un articolo nelle cronache del tempo. Un cane nero, quindi Fiamma Nera tra le Fiamme Nere, era piccolino ma capace di mordere le caviglie dei nemici, di scagliarsi senza paura in battaglia. Lui in realtà era semplicemente un “meticcio”
Non solo animali
di campagna ma che dentro a quella pazzia chiamata guerra , fu chiamato alla “causa”: cucciolo come tanti altri, quindi senza uno specifico addestramento, quando il suo padrone fu chiamato alle armi, in primis rimase a casa ma poi per necessità dell'esercito venne arruolato. Assegnatogli dall'esercito stesso il nome “Grappa”, dopo aver dimostrato la sua tenacia in diversi attacchi, divenne leggenda quando il suo conduttore fu dilaniato sull'omonimo Monte da un'esplosione di granata. Anche “Grappa” fu ferito al collo in quell'occasione ma si aggirò non curante del pericolo nel campo di battaglia tra una membra e l'altra dell'amato amico.
La leggenda, ma facile che sia una simil-verità, narra che il povero e valoroso cagnolino, trasferito per vivere serenamente nel giardino di un qualche generale a Bassano, ritornò sul Monte Grappa per ripercorrere in maniera ossessiva quegli spazi che al suo olfatto e al suo cuore potevano ricongiungerlo alla memoria del suo commilitone umano. Poi, dopo molto tempo, non si seppe più nulla neanche di lui.
Quest'articolo è stato reso possibile grazie al prezioso aiuto del Dott. Stefano Guderzo, Direttore del Museo delle Forze Armate di Montecchio Maggiore di Vicenza, e ai suoi collaboratori.
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La “Festa dell’amicizia” a Rasai
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La “Festa dell’amicizia” a Rasai
Rasai di Seren del Grappa 2 Ottobre 2021
13ª Manifestazione “4 calci per la vita...”
A
nche il tempo ha fatto un grandissimo dono alla Scuola dell’Infanzia di Seren del Grappa, contribuendo con una splendida giornata, in quel di Rasai, dove si è svolta la 13ª edizione del Torneo di calcio solidale “ 4 calci per la vita…” che Franco Rech, “Patron” del Team Glorie Feltre e con gli inseparabili amici, ha organizzato con il motto “per tutti quelli meno fortunati di noi, si può fare sempre di più”. Una importante e quanto mai qualificata manifestazione che come le precedenti dodici edizioni ha ottenuto un grande successo con lo scopo di sensibilizzare e raccogliere fondi per aiutare i più bisognoso. Quest’anno il ricavato dell’evento è stato devoluto alla scuola dell’Infanzia di Seren del Grappa. L’avvio delle partite è stato preceduto da una folcloristica sfilata di tutti i calciatori partecipanti ed amici ritrovatisi al centro del terreno disposti in modo da formare una grande cerchio, ripreso dal cielo
con un drone dall’amico Antonio da Sovramonte. Sono seguite delle esibizioni da una flotta ben orchestrata e diretta dal Presidente Paolo Rech del Para Delta Feltre rilasciando delle stupende colorite scie nel cielo sopra Rasai e infine atterrando magistralmente a centro campo. Le compagini sportive che hanno partecipato all’evento sportivo solidale di quest’anno sono state: gli storici amici romani calcio (ROMA), gli Alpini del Team Veneto, le vecchie stelle del Vittorio Veneto (TV), la Nazionale Carabinieri Veneto in congedo, gli amici Glorie Botter Roncade (TV), gli amici veterani Alpago (BL), gli amici della
Questura (BL), la nazionale Selecao sacerdoti, gli organizzatori del Team Glorie Feltre e il gruppo degli amici di Franco e Viviana. Impressionante il numero dei giocatori partecipanti fra i quali diversi ex giocatori professionisti e semiprofessionisti… Nell’intermezzo della manifestazione, si sono esibiti, in una partita, i piccoli campioni dell’A.S.S.I. Belluno condividendo i valori dello sport e coinvolgendo una selezione degli stessi giocatori di tutte le squadre. E i
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La “Festa dell’amicizia” a Rasai
piccoli campioncini hanno evidenziato grinta e schemi di buon gioco destando ilarità e simpatia nel folto pubblico partecipe. Archiviato il pomeriggio sul campo da gioco, la serata è proseguita nel salone del capannone della Prò Loco di Seren del Grappa dove le squadre, fra canzoni e gustando le ottime libagioni preparate dagli abili cuochi della medesima Pro Loco, hanno cenato e festeggiato fino a notte fonda. Nel corso della serata la premiazioni delle 10 squadre partecipanti con la consegna, ai rispettivi capitani, delle particolari e originali coppe tutte in legno intarsiato e lavorato con vera
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maestria da Ezio Fuss di Feltre. Sul campo ha vinto la squadra del
Team Alpini Veneto, diretta dal coach Mario Zorzetto, seguita dagli amici della Questura di Belluno del Mister Francesco Falco e terzo posto per i Veterani Alpago coordinati da Aldo Collazuol. Al 4° posto tutte le altre squadre a pari merito all’insegna della vera amicizia. Inoltre due premi speciali : a “Paolo Collarini“ degli amici veterani Alpago come miglior realizzatore della giornata con tre gool e a Raffaele Rocco delle Glorie Feltre come miglior portiere. Infine premio e
menzione speciale ai bravi direttori di giornata, storici arbitri e grandi amici delle Glorie Feltre: Giuseppe Moretto, Piergiorgio Rech, Francesco Vettorel, Maurizio Comiotto e il beniamino Angelo Barbieri. La serata è stata allietata dalla fantasia del cabarettista Alfonso e da una ricca lotteria, con lo speaker David Centeleghe. Una “fantastica” manifestazione dove hanno vinto l’amicizia, la spensieratezza e la gioia della vita, la voglia di stare insieme, la fratellanza, la solidarietà sincera verso chi è in difficoltà. Ma soprattutto hanno vinto i valori autentici dello sport a cui sempre si dovrebbe far riferimento. In chiusura si ringraziano: il comune di Seren del Grappa, gli organizzatori della Pro Loco di Seren, l’Associazione
la Cometa di Rasai, l’Union Feltre per la gentile concessione del campo di Rasai, Alfonso “cabarettista”, il dottor Leonardo e tutti gli sponsor che con il loro munifico contributo hanno permesso la riuscita della manifestazione. Un sincero ringraziamento a Daniele Bozzano per la preziosa collaborazione e per la gentile concessione delle foto. (www. Denielebozzano.com - A.C. Crocetta Academy 1920 – Alpini Veneto Team)
La “Festa dell’amicizia” a Rasai
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Fatti e misfatti di Franco Zadra
Una catastrofica riforma del catasto
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er uscire della pandemia l'Unione Europea ha imbastito un programma, noto come Next Generation EU (NGEU), mettendo sul piatto 750 miliardi di euro per sei anni, fino al 2026, dati in sovvenzione per circa la metà, mentre l'altra metà consiste in prestiti a tasso agevolato. In ordine a questo programma è nato per l'Italia il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) con la previsione di relativi investimenti e un coerente pacchetto di riforme, per un totale di fondi che ammonta a circa 250 miliardi, per la digitalizzazione e innovazione, la transizione ecologica, e l'inclusione sociale. Un intervento che intende riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica,
contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Un piano che destina 82 miliardi al Mezzogiorno su 206 miliardi ripartibili secondo il criterio del territorio, nel quale il Governo italiano ha inserito anche una riforma del fisco che negli intenti vorrebbe una sua
semplificazione e una progressiva riduzione dell'imposizione fiscale. Un'apposita Commissione bilaterale, tra Camera e Senato, ha redatto quindi un documento nel quale però non si individuano indicazioni
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Fatti e misfatti sulla riforma del Catasto che il Governo sta elaborando in palese contrasto con il Parlamento, per una revisione delle rendite catastali e, nello specifico, andrà a distinguere gli immobili tra ordinari, speciali, e culturali, cambiando tra l'altro l'unità di misura per determinarne il valore patrimoniale, passando dal numero di vani dell'immobile, ai metri quadri, aggiornando le banche dati immobiliari con i dati raccolti dalle dichiarazioni dei redditi. Un primo effetto di questa riforma, come denunciano i più avveduti ed esperti del settore, porterà a un incremento esponenziale sull'Imu per la seconda casa, e uno studio condotta da Uil, Servizio Lavoro, Coesione e Territorio, stima tale aumento addirittura al 128% come media nazionale, con punte del 183% su Roma, fino al 189% su Venezia. Una revisione delle rendite catastali,
come si apprende anche da precise e sconcertanti dichiarazioni fatte dal presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, a La Verità, impatterebbe inoltre sul peso che la prima casa ha nel calcolo dell'Isee che l'aggiornamento degli estimi gonfierebbe mediamente di 75mila euro escludendo di colpo molte persone che prima ne avevano diritto da varie agevolazioni, come sconti sulle mense scolastiche, rette degli asili nido, tasse universitarie, bonus affitti, bonus bollette, rette delle Rsa, residenze sanitarie assistite, mentre altri, senza che sia cambiato nulla nel loro contesto esistenziale, ma solo sulla carta, si vedrebbero esclusi dai programmi di sostegno alla povertà. Nonostante questa che appare agli addetti ai lavori «una disastrosa batosta annunciata» che inciderebbe inevitabilmente pure sulle compravendite, legate ovviamente
al valore catastale, il Governo Draghi continua a ribadire che la riforma del catasto non è una patrimoniale, e non ci sarà un aumento del carico fiscale sulle case degli italiani. Per Mario Draghi, si tratta di «un'operazione di trasparenza, dura 5 anni e sulle tasse una decisione ci sarà nel 2026, ed è anche possibile che la revisione delle rendite possa portare al calo dell'imposizione fiscale». I “conti della serva” però dicono un'altra cosa e pare evidente che ci sia da salvaguardare più un interesse europeo che vorrebbe delle solide (e più facili) garanzie in ordine all'ingente debito in capo agli italiani sdoganato con il nome di Recovery Found. Molto più complicato sembra andare a riscuotere le tasse mai pagate per oltre un milione di immobili invisibili al Catasto, che non appariranno nemmeno dopo questa riforma.
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Arte e società di Alice Vettorata
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el momento in cui siamo invischiati in una vicenda complessa, spesso persone amiche ci suggeriscono di provare a vedere la situazione in modo distaccato per poter valutare al meglio ogni singolo aspetto che compone l’insieme. Consiglio valido anche se non facilmente applicabile. Una volta riusciti ad osservare la vicenda vin questo modo, possiamo accorgerci dei vari dettagli che la compongono, delle sfumature che danno poi vita all’immagine totale. Non solo per le problematiche della vita, ma anche nell’arte questo meccanismo è indispensabile per poter comprendere al meglio ciò che stiamo osservando. Se siamo in un museo e notiamo una tela che ci cattura vogliamo subito saperne di più. Inizialmente la guardiamo a debita distanza, quasi intimoriti da quell’aura reverenziale, purtroppo difficile da eliminare. Poi ci avviciniamo a piccoli passi verso un dettaglio che ci rapisce e capiamo magari perché ci ha affascinati così tanto.
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Sentiamo però poco dopo il bisogno di allontanarci e tornare a guardare l’insieme per poter carpire come tutti questi dettagli possano risultare nell’opera completa. Ora la apprezziamo maggiormente. È un rituale necessario per comprendere le situazioni e l’arte, rituale che viene attuato anche da chi dà vita alle produzioni che il
pubblico può amare. Alcune correnti artistiche hanno basato il loro modus operandi proprio su queste azioni. Gli artisti che seguirono il Puntinismo e il Divisionismo lavoravano creando, con piccole linee e punti accostati tra loro quadri vibranti. Da ammirare sia da vicino sia a distanza, per percepirne la magia. Negli anni ‘80 dello scorso secolo troviamo un corrispettivo, la Pixel Art, una tecnica di arte digitale che non si differenzia molto dagli altri due movimenti. Un Pixel Artist, il grafico Gabriele Fratus che lavora nel mondo dei videogame, può facilmente spiegarcelo. Puntinismo, Divisionismo e Pixel Art. Sono davvero simili tra loro? Nelle due correnti artistiche Ottocente-
Arte e società sche, la scelta di dipingere servendosi di puntini era dettata dalla ricerca di nuovi metodi per ritrarre luce e natura in modo scientifico, non basandosi sul disegno preparatorio, bensì sul metodo pittorico. La Pixel Art invece è nata da una necessità, quella di dover disegnare utilizzando uno schermo composto da piccoli quadratini, i pixel appunto. Uno schema rigido dentro il quale dare vita ad altri mondi! Quindi il medium ha influenzato la resa di questa nuova corrente Sì, decisamente! Negli anni ‘80 erano presenti schermi a tubo catodico, con pixel più grandi rispetto a quelli che oggi troviamo negli schermi a cristalli liquidi. I primi pixel permettevano di sfumare i colori in modo graduale, rendendo difficile la distinzione tra i vari punti colorati. Oggi invece, lavorando su schermi con una risoluzione maggiore è possibile distinguere nettamente ogni singolo pixel, ora grandi come una punta di spillo, creando
un effetto nuovo, ma con un sapore rétro. Oggi l’estetica rétro funziona ancora? La Pixel Art viene particolarmente apprezzata proprio per il fattore nostalgico che si instaura con questo tipo di grafica. È un retaggio dei giochi che hanno accompagnato la nostra infanzia e adolescenza negli anni ‘80 e ‘90. Oggi il mercato dei videogame sfrutta questa scelta amarcord a proprio favore. Basti pensare all'esplosione di giochi indipendenti avvenuta una decina di anni fa. Come ti sei avvicinato alla Pixel Art? È stato un percorso insolito. Ero un fabbro
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Attualità di Nicola Maschio
Black Mirror:
quando la tecnologia cambia la vita
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na vita influenzata dalla tecnologia e non viceversa. È il (possibile?) futuro disegnato e raccontato da Black Mirror, serie che tanto ha fatto parlare di sé sul portale Netflix ma che ancora, dopo diverso tempo, lascia aperte molte interpretazioni. Black Mirror si costruisce su diversi episodi, ognuno dei quali ha vita propria. Non c’è una storia unica, ma tanti spunti di riflessione che hanno come filo conduttore la tecnologia, il cambiamento digitale e le ripercussioni (positive e negative) che questi elementi hanno nella vita di tutti i giorni. Sostanzial-
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mente, la serie spinge a chiedersi: in un mondo che giorno dopo giorno si sta incanalando sempre di più su una strada “devota alla tecnologia”, quanto ne saremo realmente dipendenti nel prossimo futuro? Black Mirror: le tante trame Come accennato in precedenza, non esiste una storia di Black Mirror, ma ci sono invece tante e diverse realtà che, un episodio dopo l’altro, vengono poste allo spettatore quasi come fossero degli interrogativi. Ogni puntata spinge a farsi delle domande. Qual è il ruolo della tecnologia oggi? Quale potrà
essere in futuro? E se davvero il mondo dovesse cambiare in una direzione digitale, quali conseguenze avrebbe questo sulla nostra socialità, sul nostro modo di essere e sulle nostre abitudini? Si parla infatti di social media, di dispositivi in grado di simulare emozioni o controllare la mente, di intere campagne elettorali fondate sull’apporto tecnologico. Insomma, le tematiche sono tante e le sfumature di ognuna veramente complesse, ma straordinariamente attuali. I personaggi Ancora una volta, occorre ragionare in termini generali. Ogni personaggio
Attualità ha una sua storia, i suoi trascorsi e le sue peculiarità. Tutti però sono legati dal sottile filo che, come già spiegato qualche riga più in alto, riguarda il tema della tecnologia. Le emozioni, i rapporti tra i protagonisti, addirittura la loro vita verte attorno all’influenza di quello che è a tutti gli effetti il mondo tecnologico, predominante nella loro esistenza. Il messaggio: Black Mirror ipotizza un futuro diverso: migliore o peggiore? Non è chiaro se l’intento di Black Mirror sia quello di sensibilizzare rispetto alle problematiche che l’eccesso di digitalizzazione e tecnologia potrebbe comportare alla specie umana o se invece, più generalmente, gli ideatori volessero azzardare diversi scenari per capire come ognuno di essi potrebbe influenzare la nostra vita. Quel che è certo è che Black Mirror rappresenta un incredibile punto di partenza per tantissimi
ragionamenti rispetto a tematiche che oggi vengono trattate quotidianamente. Ci sono coloro che fondano la propria vita sui social network e sull’approvazione degli altri, entrando così in un circolo vizioso dove consenso genera consenso e, di contro, la disapprovazione porta all’esclusione sociale. C’è poi chi sceglie di utilizzare la tecnologia per punire i colpevoli di terribili reati, ed in questo caso viene da chiedersi come possa evolvere il concetto di “giustizia” in un mondo ad alta influenza tecnologica. Ancora, altri scelgono di usare
quest’ultima per raggiungere obiettivi personali. I punti di vista su Black Mirror, le interpretazioni e le conclusioni che ogni persona elabora al termine di ogni episodio, sono fortemente personali. Ma è proprio qui che emerge la vera natura di una serie che, oltre a spingere a ragionamenti profondi, porta ognuno di noi ad interrogarsi sul futuro.
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Che tempo che fa di Giampaolo Rizzonelli*
CHI, COME E DOVE RIEMPIE GLI OCEANI DI PLASTICA?
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n questo numero non parlerò di clima o meteorologia ma di un argomento che mi sta particolarmente a cuore, ovvero quello dell’inquinamento da plastica negli oceani. A tal riguardo il sito www. ourworldindat.org ha presentato a maggio 2021 un report redatto da Hannah Ritchie i cui dati mi hanno stupito e fatto capire che quello che stiamo facendo noi in Italia e in Veneto non è altro che una goccia nell’oceano, tanto per stare in tema di mare. La maggior parte della plastica negli oceani proviene da fonti terrestri: dal 70% all'80% è plastica che viene trasportata dalla terra al mare attraverso i fiumi o le coste, il restante 20%-30% proviene da fonti marine come reti da pesca, lenze, corde e navi abbandonate. Se vogliamo contrastare l'inquinamento da plastica, dobbiamo impedire che entri nell'oceano dai nostri fiumi. Il problema è che abbiamo centinaia di migliaia di foci fluviali attraverso le quali la plastica raggiunge gli oceani. Per dare priorità agli sforzi di mitigazione dobbiamo capire quali di questi fiumi trasportano la plastica al mare e quali contribuiscono maggiormente. Il report esamina la distribuzione della plastica nei fiumi del mondo; perché alcuni fiumi trasportano molta plastica mentre altri ne hanno pochissima? Quali paesi rappresentano la quota maggiore di inquinamento da plastica? Studi preceden-
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ti suggerivano che la maggior parte della plastica provenisse solo da alcuni dei fiumi del mondo. L'ultima ricerca, appena pubblicata su Science Advances ha rivoluzionato questo approccio, Lourens Meijer ha sviluppato modelli a risoluzione più elevata da cui si è scoperto che i fiumi hanno immesso negli oceani circa 1 milione di tonnellate di plastica nel 2015 (con un'incertezza che va da 0,8 a 2,7 milioni di tonnellate). Circa un terzo delle 100.000 foci fluviali prese a campione hanno trasportato plastica in mare, mentre gli altri due terzi non immettevano quasi plastica nell'oceano, ma, soprattutto, l'ultima ricerca suggerisce che i fiumi più piccoli svolgono un ruolo molto più importante di quanto si pensasse in passato.
Nel grafico di figura n. 1 vediamo quali sono i dieci maggiori “fiumi contributori”, con la relativa percentuale rispetto al globale. Sette dei primi dieci sono nelle Filippine, due sono in India e uno in Malesia. L'inquinamento da plastica è dominante laddove le pratiche locali di gestione dei rifiuti sono carenti. Ciò rende chiaro che migliorare la gestione dei rifiuti è essenziale. In secondo luogo, i più grandi fiumi che trasportano plastica tendono ad avere città nelle vicinanze. Città come Giacarta in Indonesia e Manila nelle Filippine sono drenate da fiumi relativamente piccoli, ma sono responsabili di una quota consistente delle immissioni di plastica. Peraltro i bacini fluviali hanno alti tassi di precipitazioni, il che significa che la plastica viene riversata nei fiumi e la portata
Che tempo che fa dei fiumi verso l'oceano è alta. Gli autori illustrano l'importanza del clima, del terreno del bacino e dei fattori di prossimità con un esempio. Il bacino del fiume Ciliwung a Giava è 275 volte più piccolo del bacino del fiume Reno in Europa, genera il 75% in meno di rifiuti di plastica, tuttavia immette 100 volte più plastica nell'oceano ogni anno (da 200 a 300 tonnellate rispetto a solo 3/5 tonnellate). Il Ciliwung immette molta più plastica nell'oceano, nonostante sia molto più piccolo perché i rifiuti del bacino vengono generati molto vicino al fiume, il che significa che la plastica entra in primo luogo nella rete fluviale, per poi finire nel vicino oceano. Inoltre, piove molto di più, il che significa che i rifiuti di plastica sono più facilmente trasportabili rispetto al bacino del Reno. Passiamo quindi ad analizzare l’immissione globale per continenti i cui dati sono davvero impressionanti. Nel grafico vediamo la ripartizione delle immissioni di plastica globali nell'oceano per regione. L'81% della plastica oceanica viene immessa dall'Asia che ospita il 60% della popolazione mondiale. L'Africa è responsabile dell'8%; Sud America per il 5,5%; Nord America per il 4,5% e l'Europa e l'Oceania insieme meno dell'1%. Le Filippine rappresentano più di un terzo (36%) delle immissioni di plastica, non sorprende dato che ospita sette dei primi dieci fiumi. Questo perché le Filippine sono costituite da tante piccole isole dove la maggioranza della popolazione vive vicino alla costa. Ma è un importante aggiornamento sulla nostra precedente comprensione dove
si pensava che Cina e India dominassero. L'India rappresenta il 13% e la Cina il 7%. Le persone spesso trovano sorprendente questa distribuzione globale. Dal momento che i consumatori nei paesi ricchi tendono a usare molta più plastica, le persone si aspettano di contribuire molto di più all'inquinamento da plastica di quanto non facciano effettivamente. E non si tratta solo della popolazione: anche su base pro capite, i paesi ricchi contribuiscono con pochissima plastica all'oceano. I paesi europei, ad esempio, immettono meno di 0,1 chilogrammi di plastica a persona. Questo rispetto a 3,5 kg nelle Filippine o 2,4 kg in Malesia. I paesi ricchi producono molti più rifiuti di plastica pro capite rispetto ai paesi più poveri. La maggior parte produce da 0,2 a 0,5 kg per persona al giorno, rispetto a 0,01 in India o a 0,07 kg nelle Filippine. Anche quando moltiplichiamo per la popolazione i paesi ricchi generano molto. Il Regno Unito, ad esempio, genera il doppio dei rifiuti di plastica rispetto alle Filippine.
Quello che poi il report mette in evidenza è come vengono gestiti questi rifiuti, i paesi a reddito medio basso tendono ad avere scarse infrastrutture di gestione, con i rifiuti che possono essere scaricati al di fuori delle discariche e quindi più facilmente possono raggiungere i fiumi e finire quindi in mare. Il report quindi pone l’accento su cosa si può fare per migliorare questa situazione, i paesi ricchi possono sostenere i paesi a reddito medio-basso nel miglioramento delle infrastrutture di gestione dei rifiuti e vietare l'esportazione di qualsiasi plastica in altri paesi in cui potrebbe essere gestita male. Per fermare l'inquinamento da plastica nei nostri oceani abbiamo bisogno di un approccio globale per ridurre i rifiuti e gestirli in modo appropriato per impedirne la dispersione nell'ambiente naturale.
*Giampaolo Rizzonelli è appassionato di meteorologia e climatologia
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Uomo e natura di Elisa Corni
Nuove teorie sull’origine del linguaggio parlato
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ra noi e le altre specie animali esistono molte differenze, ma una di quelle che saltano subito all’occhio riguarda una capacità che è esclusivamente umana (o quasi): il linguaggio. Quasi perché alcune specie animali dalle capacità cognitive particolarmente articolate, soprattutto le scimmie antropomorfe, hanno mostrato in cattività di poter sviluppare sistemi comunicativi anche dotati di veri e propri vocaboli e di grammatiche anche se molto semplici. Ma questi sistemi, per quanto sorprendenti, sono lontani anni luce dalla complessità del nostro parlato. Vista la peculiarità del nostro sistema comunicativo gli scienziati e gli specialisti da decenni dibattono su quale sia l’origine del linguaggio. Si tratta di un fenomeno reso possibile dalle peculiari capacità cognitive del-
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la nostra specie? O forse sono stati fattori fisiologici come la posizione del collo e il conseguente sviluppo delle corde vocali a renderlo possibile? C’è chi sostiene che anche il fatto di essere degli animali sociali che vivono a stretto contatto abbia partecipato alla nascita delle lingue umane. Altri ancora fanno ricadere la responsabilità sul sistema dei neuroni specchio, quelli che fanno sì che vostro figlio imiti le vostre azioni. Insomma, moltissime teorie nessuna delle quali ha ancora trovato una conferma definitiva. A complicare la situazione un
articolo pubblicato su una prestigiosa rivista americana nella quale un gruppo di studiosi ha presentato una nuova ipotesi. Il team internazionale di ricercatori ha scoperto una connessione particolare tra la parte del nostro cervello che si occupa di proferire le parole e quella che le ascolta. Fino a qui nulla di strano, in
Uomo e natura fin dei conti le parole devono essere ascoltate; eppure la cosa particolare è che quel collegamento cerebrale è presente anche in altre specie di primati ma con funzione molto diversa. In particolare questo collegamento nei nostri cugini si occupa primariamente dell’ascolto, fa quindi parte del sistema uditivo. Nella nostra specie, per qualche ragione, questo ponte mette in collegamento aree del cervello deputate a funzioni molto diverse. Questo studio, per quanto controverso, confermerebbe alcune teorie sull’origine del linguaggio. Gli evoluzionisti definiscono questo fenomeno exaptation (exattamento), per distinguerla dall’adattamento. Nella prima, infatti, organi e caratteri specifici non cambiano per adattarsi a nuove necessità, ma, se inutili, ven-
gono riutilizzate per funzioni più utili. Certo questa è solo una teoria, ma è stata accolta con entusiasmo dagli esperti del settore perché, con buona pace di alcuni teorici che ritengono che il linguaggio sia esclusivamente umano e non abbia precursori in altre specie animali, getta le basi per l’esistenza di primitivi e abbozzati
organi del linguaggio anche nei nostri antenati. Addirittura i ricercatori si spingono ad affermare che il precursore del nostro articolato e complesso sistema per la produzione e l’ascolto del parlato potrebbe essere quindi presente in altre specie, anche potenzialmente molto lontane dalla nostra.
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Internet, finestra sul mondo di Patrizia Rapposelli
HIKIKOMORI:
GIOVANI ISOLATI
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tare in disparte e isolati. Nascosti in casa o in camera da letto, staccati da tutti tranne che dalla famiglia, per mesi o anni. È una condizione che negli ultimi anni degenera tra adolescenti e giovani adulti. Un fenomeno presente da tempo, ma poco studiato e ancora sconosciuto. La tecnologia rappresenta la connessione con l’esterno. Il monitor diventa l’oblò sul mondo. Un mondo individualista e competitivo. Una società popolata dal mito dell’influencer, modello di successo e popolarità. I ritirati sociali non sono riusciti a tenerci testa. Un ragazzo decide di interrompere il contatto con la società. Sempre quel ragazzo si abbandona al ritiro sociale. Lo stesso ragazzo isola sé stesso dal resto che lo circonda. Ha un nome. Hikikomori: eremiti dei tempi moderni. Un fenomeno individuato nel Giappone degli anni Ottanta, ma che negli ultimi anni si sta diffondendo anche in Europa. Attualmente in Italia, sebbene non ci siano dati ufficiali in merito, si stima che il numero di adolescenti e giovani adulti ritirati si aggiri intorno alle 100 mila persone. Ogni ragazzo ha una storia. Hikiko-
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mori occupa il tempo in internet, utilizza forum con cui tiene rapporti uni con gli atri, gioca ai videogame online o guarda semplicemente film. L’uso della tecnologia è causa dell’isolamento? La rete, in questo caso, non è la causa, ma la difesa. Il ritirato sociale utilizza questo mezzo come mediatore, protezione nei confronti di un dolore pervasivo che uno psichiatra direbbe portare a pensieri suicidari o break-down psicotico. L’immersione virtuale difende il ragazzo. Senza dare meriti eccessivi alla tecnologia, rappresenta una finestra sul mondo, un filtro per poter guardare all’esterno senza essere visti. Rimane difficile stimare il fattore di rischio, ma tra le cause precipitanti ci sono le problematiche legate alla famiglia, la scuola e i gruppi dei coetanei. Ad oggi le aspettative sui giovani sono molte, inutile negare la pressione del sistema scolastico, a volte famigliare e la pressatura di quello che la collettività si aspetta. Senza tralasciare i
disagi quotidiani diventati normalità come cyberbullismo, fobie self-cutting, sexting, ansie generali. La modernità è una selva di stimoli, di comportamenti e sollecitazioni cui quotidianamente l’adolescente è sottoposto. I ragazzi ritirati sono tendenzialmente coloro, che con le trasformazioni del corpo e la necessità di realizzare i compiti evolutivi, vanno incontro al fallimento rispetto ad un modello. Quando l’ideale è mancato, c’è l’incontro con la vergogna. I giovani d’oggi tendono ad essere meno trasgressivi e a crollare di fronte ai compiti evolutivi. Un mondo fragile che virtualizza l’esperienza con l’altro; l’emisfero virtuale diventa luogo sicuro, uno spazio cui rappresentare momenti grandiosi e onnipotenti, altre volte di rabbia, che all’hikikomori non è stato possibile esprimere nella vita reale. Internet è un anti-breakdown e va rispettato come fattore protettivo, ma i ragazzi devono essere aiutati, assieme ai genitori, a sentirsi autorizzati a vivere. Partecipare al mondo che credono di potere guardare solo affacciati alla finestra virtuale. Il fenomeno degli hikikomori è una condizione ancora poco conosciuta che ha molto da dire.
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Il Documento Unico di Circolazione Dal 1 ottobre 2021 è entrato in funzione il Documento Unico di Circolazione che, di fatto, unisce sia il libretto di circolazione, rilasciato dalla Motorizzazione civile e sia il certificato di proprietà rilasciato dall’ACI-PRA. Quindi, per tutte le operazioni espletate dall’ACI e dalla Motorizzazioni, è previsto questo documento e non saranno più emesse la carta di circolazione e di proprietà. Tale documento riguarda le auto, moto, rimorchi. Il nuovo DUC può essere considerato, a tutti gli effetti, come una carta d’identità del veicolo che contiene tutti i dati tecnici, l’intestazione del proprietario nonché la situazione giuridico patrimoniale del mezzo e quindi anche alla sua cessazione in conseguenza della demolizione o esportazione all’estero. Saranno, inoltre, riportati eventuali provvedimenti giuridici
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e amministrativi che possono incidere non solo sulla proprietà, ma anche su eventuali provvedimenti di una ipoteca o fermo amministrativo. La sostituzione del libretto e del certificato di possesso con il DU deve essere fatta alla prima occasione utile ovvero in caso di trasferimento di proprietà, furto, smarrimento, variazione dati. Per quanto sopra potranno coesistere veicoli dotati di carta di circolazione e certificato di proprietà e veicoli in possesso del documento unico già dotati di documento unico. Tutte le nuove immatricolazioni avvenute dopo il 1° ottobre sono possessori del DU e l’attuale normativa prevede il rilascio del documento unico di circolazione e di proprietà sul medesimo supporto cartaceo previsto per la carta di circolazione. Sempre da tale data ogni operazione effettuata sul veicolo, che comporti il duplicato
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della carta di circolazione, prevede che la motorizzazione Civile rilasci un documento propedeutico all’ottenimento del DU. A tal fine il proprietario dovrà recarsi presso una agenzia di pratiche auto per ottenere il DU prima di mettere in circolazione il veicolo. Per lo stesso motivo dal 01.10.2021 per tutte le operazioni effettuate presso il PRA (es. trascrizione di atti per i quali il libretto è stato emesso prima del 30.09.2021) verranno registrate ma non sarà emesso più nessun documento, neppure digitale.
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