Giorgio Foresto - Avventure a colori di un pittore fuggiasco

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Giorgio Foresto

Avventure a colori di un pittore fuggiasco a cura di Giovanni Scarpa


Giorgio Foresto – Avventure a colori di un pittore fuggiasco Edizione brossurata di Giovanni Scarpa 2021 © Giovanni Scarpa 2023 © Solone srl per questa edizione Collana L’arte delle nuvole, 51 Direttore Editoriale: Nicola Pesce Caporedattore: Stefano Romanini Ufficio Stampa: Gloria Grieco Coordinamento editoriale: Cristina Fortunato Service Editoriale: Valeria Morelli Correzione bozze: Roberto Flauto Grafica di copertina: a cura di Giovanni Scarpa Stampato presso Rotomail Italia S.p.A. – Vignate (MI) nel mese di dicembre 2023 Edizioni NPE è un marchio in esclusiva di Solone srl Via Aversana, 8 – 84025 Eboli (SA) edizioninpe.it facebook.com/EdizioniNPE twitter.com/EdizioniNPE instagram.com/EdizioniNPE #edizioninpe



In copertina

Il mondo della luna Foto di Riccardo Ciriello


Giorgio Foresto

Avventure a colori di un pittore fuggiasco

Testi a cura di

Giovanni Scarpa Foto di

Paolo Rossignoli Grafica di

Alberto Manfrinati



A Ivo, barbiere filosofo e Leido, gorilla dal cuore buono



“Vorresti dirmi di grazia quale strada prendere per uscire di qui?”, disse Alice “Dipende soprattutto da dove vuoi andare”, disse il gatto. “Non m’importa molto”, disse Alice. “Allora non importa che strada prendi”, disse il gatto. “Purché arrivi in qualche posto”, aggiunse Alice a mo' di spiegazione. “Ah per questo stai pure tranquilla – disse il gatto – basta che non ti fermi prima.” Lewis Carroll

Pennellate Pensavo fosse stata sua madre. Immaginavo il piccolo Giorgio sdraiato per terra, sulle piastrelle fresche di casa, disegnare su un foglio bianco mentre lei stirava e cantava: arie dolci da La bohéme, cori potenti da La Turandot. Pensavo fosse stata lei a portarlo in un giorno di pioggia per la prima volta alla Scala di Milano, ben vestito. Ad infondergli il seme della poesia, delle cose belle, fatte con cura, senza nessuno scopo. Invece è stato il babbo. Un uomo che avevo sempre ritenuto triste e impostato, curvo sul tavolo da disegnatore tecnico, serio, serissimo. Sorrideva, invece, sorrideva sempre e spronava un giovane talentuoso figlio a dare il meglio e farsi valere. Non so molto altro dell’infanzia di Giorgio. Altro che non siano film, montaggi personali, inutilizzabili. Ancora mi arrovello per cercare di trovare da qualche parte nomi e volti e luoghi che sempre mi sfuggono: di che colore era la casa dov’è cresciuto? C’erano alberi nel suo giardino? Chissà com’era sua madre. Non basta trovare scritto da qualche parte: “Giorgio De Gaspari nasce in provincia di Milano il 30 Gennaio 1927”, non basta mai. Nel 1947 si vedono pubblicati i suoi primi disegni. Ne ho visti alcuni affissi in una fumetteria del centro, a Torino, di quando Giorgio aveva quindici anni e cavoli se era forte! Si era trasferito a Milano in quegli anni e viveva assieme agli amici Mino Ceretti e Alberto

2006, 80 × 128 cm tecnica mista su legno

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Barbieri nella famosa “Torre” di Viale Pasubio: un appartamento a tre piani, collegati da una interminabile scala a chiocciola, dove ognuno aveva il suo studio. Grandi bevute, sigarette proibite sul tram vecchio, serate folli come quella in cui Giorgio, Luigi Grosso e Mino dovettero caricare il povero Alfredo Chighine, ubriaco fradicio, in un carretto trovato lì per lì per stradine buie di Brera e portarlo, ridendo, fino a casa. A Brera c’era l’Accademia, certo, ma soprattutto c’era la libertà: quell’atmosfera fatata da Montmartre che si respirava nell’aria, di giorno e di notte: le luci al neon dei bar, il panno verde del biliardo al bar della Titta, i disegni abbandonati e poi ripescati vicino ai cassonetti. Si parlava d’arte fino a notte fonda, si scrivevano poesie, si sorrideva alla vita che seguiva il ritmo leggero del tacchettio sui ciottoli tondi della via. E poi, Frances Martienssen. è uno di quei nomi che ti fanno innamorare appena li senti. Frances Martienssen: bruna, piacente, ama bere, dipingere, ride con gli amici di lui ed “è molto più brava di me” continua a dire Giorgio a chiunque l’incroci. Non conosco i dettagli di questa storia, forse non li conosce nessuno, forse sono più belli così, sbiaditi. Sta di fatto che nel 1954 si sposano: lui e quella ragazza che parla inglese e lo fa sorridere mentre sbuffa da un lato il fumo della sigaretta. Hanno due figli: un maschio, Paolo, e una femmina, Caterina. Dunque, immaginate di entrare in una stanza completamente vuota, bianca. Aggiungeteci una panca rubata in chiesa, i resti di un focolare sul pavimento, degli avanzi di cibo, dei pennelli e colori più o meno ovunque. Ora fate un piccolo sforzo per provare ad aggiungere alle pareti dei graffiti, dei disegni: un armadio, una cucina, un divano, un tavolo, un tappeto, una lampada...tutto disegnato sul muro, per finta, come un trompe l’oeil. Tutto in prospettiva, che pare vero. Ecco questo era il loro appartamento, il loro strano nido d’amore, e in quella panca, nudo, dormiva Giorgio mentre il suo amico Viviano entrava. Ma il punto non è questo, e non è neanche Frances, ubriaca, che riposa sul tappeto. Il punto è il povero Paolo: avrà avuto sì e no due anni e stava giocando con una

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lampadina rotta. La toccava, la mordicchiava, e tutto intorno scricchiolava spaventevole il suono dei vetri. Così, mentre Viviano provava ad allontanare il piccolo, Giorgio gli aveva detto: “Lascialo stare”. Uno strano gioco di sguardi aveva poi riempito il silenzio di quella stanza. “Non interferire, sono sveglio, lo vedo” diceva lo sguardo severo di Giorgio. “Ma sei cieco? Non vedi il pericolo?” Diceva quello implorante di Viviano. Durò neanche un secondo. “Sta provando il gusto del Tungsteno...” disse allora Giorgio. “Sta provando il gusto del Tungsteno...” ed era serissimo. Come avesse pronunciato una sentenza ovvia, un assioma evidente, inconfutabile. “Non vedi?” Insisteva. Immaginate la faccia stranita di Viviano: un ultimo sguardo affettuoso a Giorgio, la sua mano di giornalista che strappa lo strano gioco al bambino e lo getta lontano, la sua figura che si allontana verso l’uscita. è uno strano mondo quello degli artisti. A rallegrare l’atmosfera casalinga, non sempre facile, c’era Còco, il cacatua grigio-spelacchiato che rubava il cibo agli invitati e li spaventava coi suoi trenta centimetri di altezza. Per non parlare poi della capra che spuntava dal bagno e che il Nostro portava a passeggio: pare l’avesse vinta ad una gara di disegno campestre. Non si faceva problemi a portarla al guinzaglio fin dentro gli uffici della Mondadori, dicono, sulla cui moquette nuova pare abbia lasciato pure qualche sgradevole ricordo. Il punto è che era troppo bravo. La sua maestria non lasciava scampo. Nonostante la bizzarria degli atteggiamenti, dei modi, nessuno ebbe mai l’ardire di cacciarlo, di licenziarlo. Nemmeno quando fece la verticale nell’ufficio di Enzo Biagi, direttore del settimanale “Epoca”, per essere pagato in anticipo. Giorgio era il maestro, il mago, quello che mentre reggeva il pennello o la matita o qualsiasi altra cosa, tutti guardavano con ammirato stupore. Vicino a lui non si riusciva a lavorare, si poteva solo osservare, tacere, e capire. Capire che non c’era niente da fare e che neanche in mille anni tu avresti potuto tracciare con altrettanta disinvoltura quelle linee e riprodurre con altrettanta maestria quelle movenze impeccabili del pennino che davano vita sempre, sempre, ad un impareggiabile capolavoro. “Ma come fai a disegnare


i cavalli così, senza riferimenti fotografici” ebbe l’ardire di chiedergli un giorno il giovane Aldo di Gennaro. “Io conosco a memoria tutte le 205 ossa del cavallo” aveva detto allora Giorgio mettendosi a disegnarle tutte, in fila, una dopo l’altra. è un disastro cercare di seguire i suoi movimenti a Milano tra gli anni ’50 e ’70. Pubblica sempre, con chiunque, è una macchina, un tritacarte. Si dimentica le commissioni richieste ma poi, una volta ricordategli dal direttore di turno, realizza in dieci minuti quello che chiunque altro avrebbe impiegato settimane a disegnare. Per un periodo, durante gli anni ’60, lavora persino a Londra, per quelli della Fleetway Publications che gli aveva fatto conoscere Rinaldo D’Ami, il direttore dello Studio Dami, assieme a Carlo Porciani. Ah, Lo Studio Dami: un insieme squinternato di assoluti geni. Quella che sarebbe poi stata riconosciuta come la crème de la crème degli illustratori italiani del ‘900, si trovava inconsapevolmente riunita nelle stanze di un edificio in Piazzale Velasquez. Si combatteva in punta di pennello, ci si sfidava a suon di disegni tra grandi banconi rettangolari: era un caos produttivo clamorosamente bello da vedere, tremendamente impossibile da gestire. E sopra il parquet tirato a lucido risuonavano le note acute delle cornamuse sparate a mille dal grammofono. Giorgio pare avesse una Škoda bianca nella quale ogni tanto dormiva. Ci stava dentro anche un enorme pastore tedesco. E più riecheggiano nella mia mente i racconti dei suoi vecchi amici, più si illumina nella mia parete frontale destra la scritta al neon: “Lo zoo di Brera” una specie di rubrica etologica nella quale sfilano tutte le sue strampalate amicizie faunistiche, una specie di Show televisivo nel quale il conduttore porge la tazza agli amici animali del Nostro. Dicono che un giorno, per il compleanno del suo amico e direttore Rinaldo, Giorgio si presentò in ufficio con una piccola scimmietta, vera, come regalo. “Al ladro, al ladro!”: non era iniziata bene quella mattina, pensava Viviano mentre correva assieme a Giorgio, trafelato e ridente. Non era iniziata bene per niente. Innanzitutto, trovare Giorgio già in ufficio alle otto del

mattino non significava niente di buono. Anzi, era molto probabile che avesse dormito lì, come faceva spesso, sopra la grande scrivania che lui e il collega dividevano. E diciamo pure che per un inviato speciale come Viviano, trovarsi a condividere gli spazi con un personaggio come Giorgio dev’essere stato quantomeno “antropologicamente interessante”. Quella mattina però, proprio quella, quando subito dopo aver varcato la porta ti ritrovi una boccetta di inchiostro nero spiaccicata sulla camicia, così senza motivo, non dev’essere stato facile. Succede, ecco, quando si è amici e colleghi di un illustratore geniale e imprevedibile. Imprevedibile come il suo modo di scusarsi per l’accaduto: autoinvitarsi a pranzo. Succede. Succede un po’ meno di frequente, per fortuna, che il suddetto illustratore entri di soppiatto in una prestigiosa pasticceria ed esca correndo con una torta di panna in mano inseguito dal commesso. “Al ladro, al ladro!” urla il tizio, poi Giorgio che sfreccia accanto a Viviano, quest’ultimo che si mette a correre pure lui. “Ma che combini?” sussurra trafelato il giornalista, Giorgio si volta, ride: “Mica posso venire a casa tua senza un pensiero per tua moglie”. Immaginate ora di aprire la porta del vostro appartamento e trovarvi di fronte: un marito con la camicia più nera che bianca tutto sudato, il collega di vostro marito che vi porge una torta alla panna mezza distrutta e sporca di pittura (sì, le mani di Giorgio erano un miscuglio di acrilici, tempere, colla, grafite e un qualcosa di nero non sempre riconducibile a qualcos’altro). Il pranzo non va poi così male, a parte qualche silenzio imbarazzante. Va meno bene la parte del dolce quando il Nostro si chiude in bagno e non esce per mezz’ora. Viviano chiede permesso, prova ad entrare. Niente. E quasi la coppia si era decisa a sfondare la porta quando Giorgio se ne esce veloce come una salamandra per poi sparire giù per le scale. Succede, ecco. Succede un po’ meno di entrare nel proprio bagno e trovare le pareti ricoperte di scritte nere, fatte col colore a cera: ci sono scuse dappertutto, scuse in grande e in piccolo, scuse in stampatello e in corsivo, e un piccolo autoritratto di Giorgio realizzato all’interno del water con su scritto: “sono uno stronzo”. Uno strano modo, forse, per chiedere scusa, ma si sa, succede.

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Nonostante questi episodi, e le altre mille stramberie di Giorgio, Viviano e sua moglie non disprezzavano la sua compagnia, gli erano amici, davvero. Così quando in ufficio arrivò la chiamata all’ospedale di Viviano per andare ad assistere al parto della moglie, Giorgio disse soltanto: “Vengo anch’io”. Elenco delle cose fatte prima di arrivare in ospedale: cinquecento metri di strada in retromarcia con la Skoda bianca, Giorgio alla guida; fermata “obbligatoria” dal fiorista per rubare un mazzo di fiori al volo da portare alla moglie del collega: “Mica posso venire al parto di tua moglie senza portarle niente!”, parcheggio con sgommata di fronte all’entrata dell’ospedale. È andata circa così, e forse dimentico ancora qualcosa di questa lista improbabile. Ahimè per noi, il parto è già avvenuto: la moglie di Viviano è in corsia, sdraiata sul lettino. Sotto il lenzuolo verdognolo regge un fagotto rosa: è femmina. Così mentre i parenti si congratulano e Viviano si becca la sua ramanzina dalla neomamma, Giorgio in silenzio afferra il fagotto, con cautela, lo solleva piano nello sbigottimento generale degli astanti e comincia a leccare la bambina, dai piedini alla testolina. Ripetutamente. In un microsecondo Viviano gliela strappa di mano, lo prende per il colletto e lo sbatte al muro: “Che fai? Come ti permetti?”. La neomamma sconvolta stringe la piccola

Kolosso n.67

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104 albi, 1964/1966 Copertina illustrata da Giorgio De Gaspari

al seno. Giorgio, altrettanto stupito, mentre Viviano sbraita frasi sconnesse, risponde, pacato: “Ma tu credi che tua figlia capisca qualcosa dei quello che voi state dicendo o facendo? Non lo sai che nel mondo animale è il contatto fisico a trasmettere piacere ai neonati?”. Silenzio. Il cervello di Viviano in cortocircuito, come quello di tutti. Ma il suo di più, perché quando lavori per anni alla sezione scientifica del Corriere della Sera, non puoi non archiviare una serie di nozioni a volte apparentemente inutili e che ora invece ti balzano in testa, come la più ovvia delle verità. è un gesto assurdo? No. è un gesto inappropriato. Non nasconde cattiveria, né doppi fini, è il frutto genuino di una mente insondabile, complessa, mai scontata. Le cose al Corriere, alla Fabbri, alla Mondadori e soprattutto nel vivace Studio Dami, vanno bene: si lavora in compagnia, si passa dai dinosauri (ore intere ad immaginare le diverse prospettive da cui disegnare gli stegosauri) ai panda, dalle fiabe sudamericane alla balena bianca. Sono anni lieti, dopotutto, ricchi non solo di lavoro, ma anche di feconde amicizie: con Carlo Porciani, per il quale realizzerà alcune copertine del famoso fumetto Kolosso, con il giovane Gianni Milone che lo sosterrà economicamente per tutta la vita, ma anche con i grandi del settore illustrativo e fumettistico. Solo in famiglia il clima non è sereno. Frances non sta bene, i figli crescono vivaci e birbanti. Lei si muove in bici, dappertutto, la malattia, l’alcol ne hanno fatto una trasandata. Un giorno cade dalla bici, prova a prendere un taxi ma l’autista si rifiuta di farla salire. Quando Giorgio la raggiunge all’ospedale, lei è sul letto, fasciata, in lacrime: “Non mi ha fatto salire, capisci? È perché sono brutta…”. Giorgio le prende la mano, la guarda, sussurra: “Cara, ti sbagli. Non vedi che sei senza borsetta? Evidentemente pensava che tu non avessi i soldi e allora ti ha lasciata lì. È stato sgarbato. Tu sei bellissima!”. Il tono è dolce, un tratto leggero e chiaro nel complicato dipinto del carattere di Giorgio.


Mi piace immaginare che fosse primavera, quel giorno. Quel giorno fatale che cambia la nostra storia. Mi piace immaginare i piccoli alberelli davanti la chiesetta di Sant’Eufemia che gemmano per poi fiorire in un’unica immensa macchia rosa. Un giorno del 1970 la moglie del De Gaspari muore. Non certo una morte inaspettata, dato il protrarsi della malattia di lei, ma che viene, sempre, come un ladro nella notte. Durante tutto il funerale Giorgio non dice nulla, raccontano gli amici, i suoi occhi trattengono il pianto, la gente non sa cosa dire: lo abbracciano, sussurrano: “Condoglianze”. La maggior parte se ne va stranita, disorientata. Eppure quel giorno in molti decidono di accompagnare Giorgio e il feretro fino al piccolo cimitero in cui era già pronta la fossa circondata dai becchini muti. Solo allora, proprio mentre si cala lentamente la bara tesa tra le corde di canapa ruvide, la voce dell’illustratore, la voce vagamente intonata e calda di Giorgio, si schiude in un canto. Un canto inglese, melanconico e lento, come l’eco di qualche antica leggenda, di qualche vecchia fiaba dove volano fate e saltellano nell’erba piccoli esseri gioiosi e tristi insieme, il canto dell’oceano. Giorgio cantava forte, dicono, e la sua voce si spandeva libera nell’aria fresca del cimitero. Tutti gli amici lo guardavano stupiti, in silenzio. Cantava lieto, mi dicono, come trasfigurato in quella musica dolce che accompagnava la bara in seno alla terra. Quella stessa sera, o qualche sera dopo, sotto le luci del bar Giamaica la sua vita cambia direzione. è una scena da film, perfetta nella sua illogica semplicità: Giorgio che beve al bancone, Giorgio che sfida il mago del biliardo, Giorgio che davanti a tutti dice deciso: “se stasera ti batto, non mi rivedrete mai più”. Gli amici che si radunano attorno al tavolo, la partita rocambolesca, una sponda impeccabile, la otto in buca d’angolo. Ovazione, zoom sulle luci al neon. Buio. Nessuno avrà più modo di sapere niente di lui. Su ciò che successe dopo aleggia ancora la nebbia pesante del “non so”. Non so come fu o come non fu, so solo che Giorgio voleva andare in Vietnam e si ritrovò a Livigno. Erano gli anni ’70 e voleva vedere la guerra, forse voleva vedere la morte, forse com’è fatto l’uomo. Voleva vedere coi suoi occhi quello che la “Domenica del Corriere” gli aveva fatto illustrare qualche anno prima in una delle sue splendide copertine, chissà. Non so neanche perché finì proprio a Livigno. Solo, come un orso rintanato in una grotta sulla vallata. Ci vollero

Autoritratto 22 × 31 cm grafite su carta

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settimane, mi dissero, prima che gli abitanti si accorgessero di lui e lo invitassero a stare in una baracca, almeno la notte. Comprendere il nesso, tra Livigno e Danang, tra le montagne della Svizzera e quelle di Dak To, non è possibile. È pur sempre una fuga, mi ripeto. Una fuga da quel mondo troppo borghese che a Milano non gli apparteneva e forse non gli era mai appartenuto. Una fuga da una vita ormai allo stremo, una vita troppo stretta. Una fuga dal ricordo ancora dolce di lei. Molla tutto, Giorgio. Tutto: lavoro, amici, figli, casa. Senza preavviso, senza progetti. Certo che la vista però, era bella di notte: da una fessura della roccia, nel piccolo antro che Giorgio aveva scelto a Livigno, si intravvedeva un fazzoletto di cielo trapuntato di stelle. Attorno, un silenzio geologico, la luce che da distanze siderali illumina appena le vette brune dei monti. E tutto tace. Di questo periodo resta una risma di disegni a biro (almeno fin quando non salterà fuori qualcos’altro): dei montanari che scuoiano una volpe, un fauno a caccia di belle donne, una aquila reale nella sua grande voliera di ferro… un Giorgio bucolico, quieto. Poi, Pellestrina. Chissà perché. Me lo chiedo da troppo tempo ormai e non riesco ad arrendermi al caso, alla provvidenza, che ha portato un vagabondo in quest’isola sperduta lunga dieci passi e larga tre. A volte dire che è magnifica non mi pare abbastanza, a volte, mentre siedo a guardare i suoi tramonti, mi pare più che sufficiente. Negli anni ’70 in questo piccolo paradiso della laguna veneta le vecchie sono raggrinzite come “sepe” essiccate al sole, tessono il tombolo per le vie del paese. I pescatori hanno braccia possenti, mani enormi con le unghie bianche e la voce che sa di salso. Ci sono anche bambini. Un intero circo di bambini che in autunno entrano nella nebbia, d’inverno spariscono tra le calli, e in primavera ricompaiono, veloci come rondini, per poi tuffarsi in acqua, tra schizzi e urla che riempiono la piazza. È ancora così dopotutto, ora che quei bambini sono diventati uomini e sono i loro

Il mondo della luna Foto di Riccardo Ciriello

figli a tuffarsi, quando l’estate li veste di niente e il sole scrosta i muri delle case colorate. Nessuno sa perché o come Giorgio sia arrivato qui: c’è chi dice vi sia giunto da Venezia, chi invece dice venisse da Padova. Certo è che si innamorò presto, e perdutamente di questo piccolo mondo antico: dei riflessi cangianti dell’acqua lagunare, del canto del mare, del grande Murazzo biancastro “che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Il pescatore Delio è stato uno dei primi ad accorgersi di Giorgio, in Isola. Lo aveva visto una mattina di agosto nei primi anni ‘70. Si era preoccupato dopo averlo visto dormire all’addiaccio, così si era proposto di far dormire il “barbone” nella sua barca nuova: la Volpe. Un rifugio niente male per una calda estate: cullato dalle onde come un piccolo Mosè illustratore. Col passare dei giorni erano diventati amici, credo. D’inverno poi, spinto o da quella esuberante carità che fa da tiranna ai superbi, o da quel sincero affetto che a volte sboccia inaspettato tra i cuori di roccia, lo invitò a casa sua. Dicono dormisse sotto il tavolo della cucina. Sta di fatto che, a quanto pare, il curioso ospite in letargo finì per fare invaghire la giovane sposa di Delio. Ragion per cui, mi pare di capire, il pescatore non ebbe tanto a cuore la salute presente e futura del più avvenente ospite e lo invitò, con modi non troppo gentili, a levarsi di torno. Giorgio era un bell’uomo in fondo: un fascino dandy e trascurato da pittore bohémien quarantenne: alto, prestante, intelligente, una zazzera di capelli scuri in testa che cominciavano a brizzolarsi, occhi penetranti che parevano studiare tutto. Intrigante, ecco. Dopo la cacciata dall’eden casalingo, Giorgio finì nella cantina di Leido. Un muratore tarchiato, dall’occhio furbo color fiordaliso. Sapeva costruire una casa in 24 ore e se lui fosse stato Geppetto, il suo Pinocchio sarebbe stato fatto di mattoni. Li maneggiava, li assemblava, li disponeva, come tessere di un mosaico, con fare distaccato e passionale insieme. Riusciva a fare dei capolavori. La sua casa a Pellestrina pare un monastero,

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tanto bello è il chiostro di pietre e le colonne bianche che ha messo in piedi per sé e sua moglie negli anni '60. E Giorgio capitò da lui, divennero amici, e lo restarono per tutta la vita. Rimase a dormire nello scantinato del muratore per circa un anno e mezzo. Nel mentre pare abbia fatto amicizia con un topo malconcio, gli parlava, gli dava da bere del latte. Naturalmente nessuno sapeva chi fosse davvero. Molti lo chiamavano Giorgio Foresto: Giorgio lo Straniero. “Niente male come nome” deve aver pensato lui, perché cominciò a firmarsi così e pian piano quello divenne il suo cognome: Foresto. A Milano non sanno che fine abbia fatto, molti continuano a credere che abbia abbandonato il disegno, che sia andato oltremare. Un articolo parla di lui e il titolo dice a caratteri cubitali “L’artista scomparso”. I suoi giorni, invece, a Pellestrina, densi di studio, letture appassionate e poesia, lo sono ancor più di colori, di fogli bianchi, matite e pennelli. Per sopravvivere comincia a barattare alcuni disegni, ritratti, con gli abitanti del luogo. Molti cominciano a non far più caso a quella sua presenza scomoda, a quei suoi vestiti logori: è il Giorgio Foresto, lasciatelo perdere, è il Giorgio Pittore, lasciatelo disegnare. Ma non chiedetegli di farlo per voi, non lo farà: disegna chi gli piace, quando gli garba. A volte non chiede niente in cambio, a volte chiede cifre da capogiro. Lo segue una tipa strana quanto lui, una certa Marlene Sturz: parla tedesco, a volte inglese, ha i capelli color carota, non parla con quelli di qua. Ora se potesse esistere una puzza gentile, una sorta di puzza amichevole e familiare, se esistesse, diciamo, una puzza fastidiosa ma teneramente accettabile, quella sarebbe la puzza di Giorgio. Un misto di salame ammuffito, alghe sotto zero, reti da pesca e solventi per la pittura. Sembrava non rendersene conto. Anzi forse proprio non se ne accorgeva. Le mani imbrattate, la maglia sudicia, i pantaloni strappati. Il barbiere Ivo lo guardava di sottecchi quando entrava tranquillo nella sua bottega e si sedeva sulla poltrona a destra. Il cane Nerone invece, si alzava e, come seguendo un sentiero odoroso, si spaparanzava ai piedi di quello strano tizio con la matita in mano. “Da quanto tempo non ti lavi eh?” bofonchiava Ivo in un mezzo sorriso. Si volevano bene, senza farsi sconti. “Dici?” rispondeva Giorgio con affettata sorpresa: alzava le sopracciglia, si grattava la barbetta. “A

28 aprile 2005, 21 × 29.5 cm tecnica mista su carta


Nerone piaccio, dai”. E giù risate. “Bach?” Seguiva Giorgio. “Chopin, ignorante!” Sospirava Ivo. Il clima nella bottega aveva sempre un che di stravagante e antiquato. Le poltrone girevoli in pelle e acciaio, la musica classica, i libri, alcuni ritratti di Giorgio appesi alle pareti, gli specchi, le ceramiche, i rubinetti d’ottone. Pareva un salotto d’altri tempi. Da un momento all’altro sarebbe potuto entrare Luigi XIV a caccia di dame... e invece entrava Delio Pito. Sì, lui, quello dell’inizio. Era incazzato, chissà per quale ragione poi, e sedendosi malamente sulla poltrona aveva disturbato Nerone cominciando a sbraitare. “E insomma” rispondeva Ivo dopo poco, “a quanto pare qui entra solo gente che non ha la minima intenzione di farsi tagliare i capelli, mi pare!” Ed era vero in effetti. La sua bottega pareva il set perfetto per una barzelletta. Il punto è che all’esclamazione di Ivo, Giorgio si era messo a ridere, e Delio si era indispettito ancor di più sentendosi obbligato a spostare il suo sedere dalla poltrona fissa degli amici a quella girevole dei clienti. “Tagliali bene eh?!” diceva Delio, come se a un barbiere si potessero davvero fare raccomandazioni. Giorgio sorrideva ancora. E sono certo sia stato proprio il suo sorriso, la sua spensierata indifferenza a provocare in Delio una serie acre e lineare di pensieri che si conclusero con una domanda. Pareva l’inizio di un’orazione ciceroniana: “Vedi Giorgio” le forbici di Ivo esitarono un istante per continuare poi il loro placido zac-zac, “io pesco in laguna, vendo il pesce, e se mi faccio male a una mano, posso trovare qualche altro lavoro, rendermi utile. Anche l’Ivo qua, taglia i capelli. Insomma, lavoriamo. Mettiamo che tu ti rompa una mano, ad esempio. Che faresti? Non potresti più fare niente nella vita: niente disegni, niente cibo...”. In effetti non era neanche una domanda. Pareva soddisfatto del suo sermone a sfondo etico e socchiuse gli occhi per godersi la schiuma da barba. Ma Giorgio amava le sfide. Non che gli interessasse davvero rispondere in qualche modo eh, non gli fregava niente di Delio, di “sentirsi

utile”, di dimostrare qualcosa a qualcuno: i suoi erano sempre gesti a-morali, liberi, leggeri. Gli piacevano le sfide, ecco, quelle sì. Sicché, piano piano, guardando serio il suo interlocutore, sfilò lentamente il piede destro dalla ciabatta e si infilò una biro nera tra l’alluce e l’indice. Appoggiò un foglio per terra, cominciò a muoversi in modo assurdo, concentrato e assorto guardando Delio e inclinando spesso le sopracciglia e la testa non si sa se per lo sforzo o per guardarlo meglio. Gli stava facendo un ritratto col piede! Come se non bastasse poi, tra il silenzio generale e lo stupore che si era magicamente creato in quella bizzarra stanza, Giorgio si mise a parlare: “Vedi Delio, io non disegno con la mano” il piede intanto si muoveva a fatica tracciando segni precisi e inequivocabili. “E neppure col piede sai, come sto facendo ora... Io disegno con lo sguardo!”. Lo fissò. Uno di quegli istanti lenti, lentissimi, nei quali il tempo si dilata e cominci a capire quante volte la tartaruga ha doppiato te, che ti credevi una lepre. Cadde la penna dal piede, caddero le mandibole di Delio e Ivo mentre gli occhi si dilatavano in una sorta di paurosa ammirazione. Giorgio, stanco e soddisfatto, sorrideva. Pare che il ritratto non fosse niente male! Peccato sia andato perduto. Nel 1971 o giù di lì, Giorgio si fa costruire un atelier in mezzo all’acqua. Lo chiama “Il Mondo della Luna”: una palafitta mite ed accogliente dove lui e Marlene possono ritirarsi in pace e tranquillità circondati dal lento fluire dell’acqua, incorniciati solo dalla luce del sole. La figura della casetta azzurrina coi letti dentro che inizialmente si vedeva dalla riva, pian piano sparisce sotto mille accozzaglie di rifiuti e assi di legno che Giorgio raccoglie e deposita qua e là. Si riesce a concepire a stento come riesca a muoversi la sua gigantesca figura tra quelle cianfrusaglie, come riesca a raggiungere il largo tavolo da disegno che guarda a meridione. La palafitta è un’enorme cattedrale di rifiuti, tutti legati da un’unica

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lunga corda. Sembra lo strampalato negozio di un rigattiere, la soffitta di un antiquario, il nido di una gazza ladra: incastonata tra le travi ci sono pupazzetti, colori, pennelli, un sacco di libri. C’è spazio anche per una sorta di piccola cucinina, con le stoviglie appese al soffitto. Si può salire in alto, nel soppalco, scorgere l’orizzonte, sbirciare verso l’isola. Di notte lo sciabordare lento delle barche culla i pensieri, il tramestio dell’acqua è rilassante: l’unica cosa che resta della civiltà è la fila di lampioni a riva, le luci lontane dei paesi che si perdono tra le stelle. Pare di stare dentro un enorme “peocio”. Se uno provasse a trovare l’atelier di notte, non vedrebbe nulla. Solo ogni tanto nel nero liquido, potrebbe scorgere una luce opalescente: uno specchio rotondo sul tetto riflette la luce color perla della luna. Un cane faceva la pipì contro il muro mentre Giorgio disegnava. Sotto il gazebo verde-blu del Bar Perla tutto era silenzio e afa. Lui continuava ad osservare una ragazza seduta non lontano, la guardava fissa e sembrava che la mano si muovesse in automatico dal foglio alla tazzina di caffè: dipingeva così. La ragazza si chiamava Ohm, aveva sposato Marco e lasciato il suo piccolo villaggio di Bankamsajam nella provincia del Surin per trasferirsi a Pellestrina. Era bella e bruna, con una pelle olivastra, sicché il caffè andava benissimo per dipingerle il volto. Lei sedeva con in mano il bicchiere, rideva e il suo riso era fresco e leggero come perle che cadono sul pavimento. Ogni tanto Giorgio leccava il pennello intinto di caffè, così ogni volta che Marco mi mostra il dipinto ripete orgoglioso: “Lo ha fatto Giorgio sai, c’è il suo DNA”. Sotto il gazebo Giorgio stava bene. Le tamerici che coprivano il tetto in plastica ondulata lasciavano filtrare la luce e in cambio di qualche disegno il proprietario, Vinicio, lo lasciava lì quanto voleva. Dopotutto la sua casetta a riva, Sestier Vianelli 431, acquistata nei primi anni ’70 era lì a fianco. La casa in questione, così come il casotto in laguna, era

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mistero e caos. O meglio quel caos calmo che solo il sesso maschile ardisce e pretende: tutto è nel posto in cui deve essere e non va assolutamente toccato. Tutto è dappertutto e lo sguardo inesperto si perde tra le cose e i libri e i disegni appesi. Si aggiunga a questa iniziale premessa un accenno di ingenua cleptomania, una inclinazione bambinesca alla sindrome ossessivocompulsiva e si avrà una vaga idea dell’abitazione cui proviamo ad accedere. Da fuori non si direbbe: in cambio di un bel dipinto viola il muratore e amico Leido ha dipinto i tre piani di un tranquillo e anonimo bianco avorio. La facciata pare una tela vuota, in attesa. Dentro, nella penombra dei soffitti bassi, si celano i mille tesori di Giorgio. Tesori per i suoi occhi naturalmente, i nostri vedrebbero soltanto un cavalluccio marino essiccato, un pezzo di relitto mangiucchiato dal salso che emana un fetore insopportabile, una cassetta del latte usata come sgabello, libri, libri, ancora libri, e poi assi, tavole di legno, reti da pesca, canne di bambù, colori, disegni ovunque, monnezza... Ci si passa a stento, spostandosi di traverso, si intravedono le pentole della cucina mentre uno strano senso di claustrofobia comincia ad invaderti. È solo la vista della piccola scala che porta ai piani superiori, col suo fascio di luce, a sorprenderti come in un’annunciazione rinascimentale. Il letto di Giorgio è una stuoia logora e improbabile posata a terra. Nella sua oculata e astrusa ingegneria era riuscito a creare un sostegno per poter dipingere da sdraiato. Sopra il letto gravita una sorta di vela portaoggetti: matite, pennelli, una piccola boa, libri, attrezzature da pesca, uno specchio, una bussola... Pare lo studio di un alchimista, la cella dell’abate Faria, la caverna delle meraviglie disegnata da un bambino piccino, la Wunderkammer di un principe folle. Ci si perdeva, letteralmente e metaforicamente. Lo sguardo vagava, attirato qua e là da strane forme: un passero impagliato a destra sopra una mensola, una zucca dipinta appesa al soffitto.

1990, 37 × 28 cm acrilico su carta



Il terzo piano, da ultimo, è un piccolo atelier. Un piano luminoso e arieggiato. Dalle quattro finestrelle messe in fila verso la laguna ad ovest, si scorge tra i riflessi acquei il “Mondo della Luna”. Pochi sono stati in questa casa per raccontarla. Racconti sempre diversi, sempre nuovi e bizzarri fatti di strettoie e giravolte, inchini forzati e alte vedute. La tana del bian coniglio non doveva poi essere tanto diversa. Negli stessi anni comprò una barca, o meglio la barattò con uno dei suoi bei dipinti, e si trovò a dover imparare a nuotare. Alcuni isolani suoi amici, interpellati, decisero di utilizzare quel metodo che in isola, fino a poco tempo fa, si usava pei bambini: si lega una corda attorno al busto dell’aspirante nuotatore così da poterlo sorreggere mentre questi cerca in qualche modo di rimanere disperatamente a galla. Un tantino drastico, ma efficace. La spiaggia non esisteva ancora e le onde s’infrangevano sui massi scoscesi che difendevano la parte orientale dell’isola dal mare. Legano una corda attorno al busto di Giorgio, un po’ teso coi suoi quarant’anni sulle spalle, gli chiedono se vuole buttarsi o essere calato giù pian piano, ma non c’è nemmeno il tempo di finire la frase, raccontano: con un balzo Giorgio si è già lanciato in mare. Un pescatore lo teneva saldo, al guinzaglio, mentre altri due lo aiutavano nuotandogli a fianco. Si lamentava molto, mentre affondava, blaterando che nel Mar Morto non era poi così difficile stare a galla. Un lungo viaggio in Israele pare sia avvenuto proprio agli inizi degli anni ’70. A volte spariva dall’Isola improvvisamente, per farsi vedere poi mesi dopo con lo stesso sorriso obliquo e lo stesso sguardo chiaro. Pare si sia recato anche a Gerusalemme: si racconta di lui richiamato dalla voce vibrante del minareto in una moschea della città Santa. Lui che si toglie le scarpe logore, entra, si siede su quei bei tappeti rosso-blu che fanno l’Oriente misterioso. Si era portato appresso anche l’album da disegno e aveva cominciato, mentre il resto

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della gente s’inchinava al suo fianco verso La Mecca, a disegnare. Fermo. Uno dei responsabili della moschea, allora, gli si avvicina per rimproverarlo e gli dice in inglese: “Scusi signore, in questo luogo è vietato disegnare, qui si viene solamente a pregare”. La mano precisa di Giorgio che si ferma, i suoi occhi che si voltano a guardare quelli più scuri dell’uomo: “Per me disegnare è come pregare”. Di questo lungo viaggio rimangono poi solo alcuni frammenti di memoria: l’incontro con una tribù nomade nel deserto, il breve soggiorno presso una Kibbutz locale, capre, cammelli, un mare salato che fa stare a galla. Ai più che lo rimproveravano per il vestiario e la puzza, in isola, lui non rispondeva. Pochi sapevano delle sue segrete trasformazioni, del suo completo nero. Stirato e profumato, stava chiuso in uno dei mille armadi di casa, e solo in precise occasioni veniva tirato fuori. Quell’uomo alto, dinoccolato ma imponente, pareva avere un certo fascino decadente mentre camminava per le calli scure e strette di Venezia, illuminate appena da qualche vecchio lampione. Nessuno avrebbe saputo riconoscerlo così “travestito” da borghese, così spigliato e cortese. Andava alla Fenice. Partiva da Pellestrina con il suo battello ancora vestito di stracci per poi attraccare nel canale della Giudecca e indossare il suo vestito nero, la sua camicia bianca, il papillon. Una volta se l’era fatto prestare dall’amico Ivo, stupito dell’inaspettata richiesta. Lo immagino seduto su qualche palco secondario del teatro, lo sguardo teso e la barba curata. Qualche commento magari scambiato con le avvizzite signore veneziane durante la pausa, così per fare. Poi il ritorno verso la barca a notte fonda, tra la nebbia e il silenzio. Dicono dormisse lì, in barca, sotto qualche vecchia coperta per poi ripartire di prima mattina, di nuovo vestito di stracci, di nuovo in incognito, come Harun al-Rashid. A Pellestrina, in agosto, il sole color pesca sfuma lentamente dietro i colli Euganei. E mentre la laguna


sembra un piattissimo lago salato, la luce del tramonto si spande dolce e leggera: da vecchi sposi più che novelli amanti. La base di solito è color lavanda, sopra l’orizzonte pennellate di un arancione Aperol, un ponte d’argento fa da riflesso al sole. I rondinotti si posano sui cavi d’ormeggio e a Giorgio piacciono un sacco quelle zampette straniere su canapa e sale. Eppure più dei cirri rosa pettinati in alto, sono i cumulonembi a stupire. Quei temporaloni estivi con le loro trombe marine, il loro nero bubbolio che circonda l’isola, la spiaggia grossa e calda: la gente corre alla riva per godersi lo spettacolo, le donne si reggono le gonne e a qualcuno vola sempre via il cappello. Dal Mondo della Luna è tutto un tumulto di acqua e legname: il vento filtra tra le assi vecchie, rovescia i vasi, sbanda la barca. Ma Giorgio sa che spesso il tutto si conclude con un nulla di fatto: i lampi si spezzano lontani, i tuoni abbaiano e non mordono come cani dietro a un cancello invisibile, il grigio sfuma, i goccioloni si fanno radi. Nell’agosto del ’75, durante le feste dedicate all’apparizione mariana avvenuta in paese, ritrae molti passanti su di una barca issata a riva. Lo fa per pochi spiccioli e il risultato, anche se non strabiliante, è piacevole, composto. La gente comincia ad affollarsi lì attorno, tutti vogliono il loro ritratto, e Giorgio comincia a stizzirsi: non gli piace la calca, la ressa, quel caos gli ricorda il lavoro, gli anni milanesi. È in quel momento che il suo sguardo si posa su un volto curioso tra la folla: un padre osserva, cerca di capire, mentre alla sua destra, la figlia distratta, una bimba dai capelli rossi, lo tiene per mano e guarda lontano. Giorgio allora ferma tutti, si dirige verso la bimba e le chiede di avvicinarsi: lei non aveva chiesto niente, non voleva nulla, a differenza degli altri. Il padre la lascia andare, la guarda sedersi sulla barca e Giorgio si mette a disegnare in silenzio. Credo fosse il suo modo per dire a tutti: “Sono libero, lasciatemi disegnare”. Sul ritratto consegnato alla bimba c’è scritto: «La mia apparizione». Lei si chiama Patrizia.

Scrive la “mia” apparizione, si capisce no? Non la vostra. Perché se c’è qualcosa che turba quest’uomo irraggiungibile, se c’è qualcosa che lo disturba durante il suo quarantennale soggiorno a Pellestrina è la fede del popolo: le processioni e le messe, le novene e le campane che sempre accompagnano la vita tranquilla dei suoi ospiti. Non condivide, ecco. Eppure, quasi ogni anno a partire dalla fine degli anni ’70, lungo la strada dell’isola, affiggerà un grande dipinto ispirato alla Madonna locale. è il suo modo per dire “grazie”, per dire al paese: “So a cosa tenete, e ve lo disegno. Non ci credo, ma ve lo disegno”. è una produzione particolare, “mariana”, del Foresto. Una produzione che vede però forse i frutti più felici della sua pittura, le sue composizioni più riuscite. Il popolo attendeva con gioia di vedere come avrebbe interpretato la loro fede, e ogni anno lui godeva nel sorprenderlo. Sono opere maestose, davvero, coraggiose, visionarie. Perché come una spina si era fatta strada in lui questa popolare devozione a Maria, come una scomoda ma intrigante realtà da considerare, da vagliare. Mai si sbilanciò in frasi compiacenti o religiose, sempre manifestò il suo ferreo anticlericalismo, il suo caparbio agnosticismo. Eppure non si poteva non scorgere attraverso i suoi occhi la “religiosità” vera del primitivo, la gioia profonda per il creato: le sue albe e i suoi tramonti dipinti, i ritratti di vita semplice. Sulla fontana della piazza aveva scritto col bianchetto “Benedetto sii mi signore”. Lo si vedeva spesso alla fontana, la sera. Mentre i ragazzi giocavano a palla scaraventando il loro Tango sulla statua in bronzo del povero Don Ferruccio, lui passava con due taniche di plastica da cinque litri. Brontolava perché la fontana non aveva il rubinetto e l’acqua “buona” continuava a sgorgare e bagnare il selciato: sprecata. Tra il 1980 e il 1988 circa, Giorgio scompare. Alcuni a Pellestrina credono sia morto. Suo figlio ha seguito le sue tracce fino alla piccola isola e ora lo cerca, cerca denaro. Beve, urla, spacca il bancone di un bar del paese.

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Altri volumi della stessa collana pubblicati da Edizioni NPE: Pinocchio– Storia di un burattino tra cinema, illustrazione e fumetto - isbn: 978-88-36272-04-4 Diabolik: – Il nuovo corso artistico e gli stili espressi dalle origini ad oggi – isbn: 978-88-36272-03-7 Rat-Man: La scimmia, il topo, il supereroe – isbn: 978-88-36271-32-0 Il Corriere dei Piccoli – Una supernova tra le riviste d’autore – isbn: 978-88-36271-33-7 Ventenni Paperoni – Ma leggi ancora Topolino? – isbn: 978-88-36271-20-7 Giorgio Foresto – Avventure a colori di un pittore fuggiasco – isbn: 978-88-36271-18-4 Pinocchio illustrato da Paolo Mottura – isbn: 978-88-36270-66-8 Le origini del fumetto – ed. brossurata – isbn: 978-88-36270-69-9 Fumetti e potere – isbn: 978-88-94818-89-5 Frammenti dall’assurdo n.e. – isbn: 978-88-36270-58-3 Eccetto Topolino – seconda edizione brossurata – isbn: 978-88-36270-28-6 Tarzan – isbn: 978-88-94818-75-8 I Disney Italiani – isbn: 978-88-97141-26-6 Jacovitti – Sessant’anni di surrealismo a fumetti – isbn: 978-88-97141-09-9

La casa editrice del fumetto d’autore

edizioninpe.it


«E poi c’è quello che tutti guardano con una somma di invidia terribile: Giorgio De Gaspari».

Sergio Toppi Una mattina del 1970 il più importante illustratore italiano, Giorgio De Gaspari, sparisce da Milano senza lasciare traccia. Qualche mese dopo, in una sperduta isoletta della laguna veneta, un barbone chiede di poter dormire nella barca di un pescatore: si fa chiamare “Giorgio Foresto”. Cominciano così le avventure strampalate di una delle figure artistiche più sfuggenti del ventesimo secolo. Una vita custodita da un mistero non ancora del tutto svelato.

isbn: 978-88-36272-18-1

euro 17,90


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