


Guida per l’insegnante
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Libro digitale
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CODICE DI ATTIVAZIONE
La volpe misteriosa p. 5
Attività finali p. 83
Leggere e cantare p. 87
Altre storie da leggere e raccontare p. 88
Filastrocche p. 166
Canzoni p. 179
Quiz finale p. 190
Come un fiume
Ogni racconto è un fiume che scorre. E le parole sono pietre preziose nascoste sul fondo. Bisogna immergersi e scoprirle una per una perché sono molto piccole.
Poi, quando ne avrai una ricca scorta, potrai essere tu l’autore di racconti.
Per ogni strofa imparata a memoria colora un cuore .
1. Settembre p. 6
2. Inizia la scuola p. 9
3. Prima esplorazione p. 13
4. Seconda esplorazione p. 16
5. In gita p. 21
6. Il ritorno p. 27
7. Il giornale p. 32
8. Discussioni a scuola p. 35
9. Le trappole p. 37
10. L’incidente p. 40
11. Il soccorso p. 43
12. A scuola: nuovi progetti p. 45
13. L’operatore p. 47
14. Terza esplorazione p. 50
15. La tana p. 60
16. Gennaio p. 63
17. Marzo p. 65
18. L’alluvione p. 68
19. Il temporale p. 72
20. L’incontro p. 74
21. Congedo p. 81
Attività finali p. 83 Quiz finale p. 84
Era una giornata tranquilla di inizio settembre. Un sole velato di nostalgia invitava a giocare all’aperto.
Anna inseguiva la sua gatta dentro e fuori casa. Era il suo passatempo quotidiano.
Ancora pochi giorni e avrebbe cominciato a frequentare il suo secondo anno di scuola.
Giulio in soggiorno maneggiava un libro un po’ sgualcito.
Per fortuna i compiti delle vacanze erano quasi finiti. Tra poco avrebbe iniziato la terza.
Dalle finestre aperte entrava il silenzio tiepido
della campagna, quando Giulio sentì uno strillo: «Ahhhh! Aiutoooo!».
Sembrava che qualcuno stesse per morire.
Giulio scattò e seguendo la direzione delle grida corse verso la betulla accanto alla casa, dove trovò Anna che indicava inorridita la gatta Luna.
«Guarda cosa ha in bocca.
È una biscia! Ho paura».
«No, non è pericolosa!
È un orbettino che non fa niente di male», la tranquillizzò Giulio con aria da esperto.
La gatta lasciò cadere la bestiolina ancora viva.
«Poverina, le manca un pezzo di coda», disse Anna.
«Portiamola in mezzo alla siepe dove la gatta non può arrivare».
Nelle mani di Giulio la malcapitata si contorceva, finché, una volta a terra, scomparve rapidamente tra le foglie secche. La gatta, delusa, rimase ad annusare inutilmente il terreno.
Rientrati in casa, Giulio prese il tablet, fece digitare ad Anna il nome «orbettino» e lesse: «Da molti erroneamente considerato un serpente, in realtà è una lucertola senza zampe.
Per questo perde la coda senza morire…».
Anna ascoltava incantata. Voleva imparare tante cose sugli animali, come suo fratello. Si volevano bene.
1. Cerchia le parole o le espressioni che ti sembrano interessanti . 2. Cerca altre notizie sull’orbettino da condividere con i tuoi compagni.
Il cassetto dei ricordi di scuola si era riaperto in fretta.
Giulio e Anna si stavano mettendo le scarpe, quando li raggiunse il clacson impaziente del pulmino scolastico. Bisognava accelerare.
Uscendo dalla porta posteriore della cucina, Giulio posò lo sguardo sull’orto che stava ingiallendo.
Nel pulmino i bambini assonnati guardavano il paesaggio che scorreva al di là dei finestrini. Il rumore del motore li cullava facendoli sbadigliare.
Non erano ancora abituati ad alzarsi presto. «Anna, ti ricordi la volpe?».
«Quale volpe?».
«Quella che abbiamo visto nell’orto quando c’era la neve la primavera scorsa!».
«Ah sì! Non l’abbiamo più vista. Che peccato!».
«Forse ritornerà quando verrà ancora la neve», sospirò Giulio.
«Speriamo», soggiunse la sorellina un po’ distrattamente.
«Oggi mi piacerebbe studiare la volpe. Lo chiederò alla maestra Margherita. Lei è molto buona e ci ascolterà», pensava Giulio.
E fu fortunato perché quel giorno la maestra Margherita decise di lasciare parlare i bambini liberamente.
«Lo sai, maestra, che una volta ho visto una volpe?», disse Giulio.
«Impossibile! Le volpi non vivono qui da noi», risposero i compagni ridendo.
«E invece sì, perché io e mia sorella l’abbiamo vista e abbiamo anche le prove».
Anita Andrea Giulio Lorenzo Matteo
«Allora faccele vedere», dissero gli altri con aria di scherno.
«Va bene. Così mi crederete».
Il giorno dopo, Giulio arrivò a scuola con la fotografia delle impronte della volpe che la mamma aveva scattato in primavera sull’orto innevato.
«Avete visto?», disse con senso di rivincita sui compagni, che rimasero ammutoliti.
«Ma sei sicuro che siano di volpe?», ribatterono i compagni.
«Se volete oggi accenderemo la LIM per chiarire questo dubbio», propose la maestra che li ascoltava piacevolmente stupita.
Non fu difficile trovare testimonianze e video di bambini che avevano addirittura familiarizzato con le volpi.
Alla fine erano tutti meravigliati e speranzosi. «Maestra, anche noi vogliamo vedere la volpe!». «Sì, certo, ma bisogna sapere dove cercarla», disse la maestra, partecipando all’entusiasmo dei bambini.
1. Cerchia le parole o le espressioni che ti sembrano interessanti.
2. Nel dialogo iniziale colora con il pastello rosa la voce di Anna e in celeste quella di Giulio.
3. Cerca altre notizie sulle volpi.
In quei giorni i compiti erano ancora pochi… «Anna e io andiamo a fare una passeggiata con Fido», disse Giulio alla mamma che stava lavorando in giardino. «Va bene, ma rimanete vicini in modo che vi possa tenere d’occhio».
Uscirono e cominciarono a percorrere l’argine del fiume che costeggiava il giardino. In verità, era un canale di scolo delle acque piovane che in quel periodo era povero di acqua.
Gli occhi di Anna erano posati sugli alberi e sui campi, così stanchi dopo la fatica dell’estate.
Raccoglieva le foglie più belle per osservarne i colori e poi inserirle nei libri.
Giulio, invece, guardava per terra perché aveva la testa piena di fantasie da esploratore.
Dopo i video che aveva visto in classe, era in cerca di indizi interessanti: animaletti, insetti, tane.
Da grande voleva fare l’etologo o l’entomologo o l’ittiologo o il paleontologo… insomma, voleva studiare gli animali.
Fido correva avanti e indietro, senza progetti eccetto quello di annusare ogni cosa, finché si fermò davanti a un cumulo di materiale nero.
«Vieni via, Fido, e non annusare sempre le cacche di tutte le altre bestie!», disse Anna.
«No, lascialo fare», disse Giulio. «La maestra Margherita ci ha detto che i veri etologi vanno in cerca degli escrementi per sapere quali animali popolano il territorio.
Questi escrementi si chiamano “fatte” e ci dicono molte cose sull’animale che le ha lasciate».
Giulio si avvicinò curioso allo strano cumulo. Era come una specie di sacchetto grigio scuro.
«Questo potrebbe essere un “bolo” di gufo, non è una
fatta. Dentro ci sono i resti del pasto che il rapace rigurgita dopo la digestione». Anche Anna si chinò per guardare meglio. Era stupita. «Lo prendo e domani lo mostro alla maestra», disse Giulio.
Proseguendo la camminata, Fido si fermò davanti a un altro cumulo nerastro poco più grande di una noce, posto sopra un sasso. A Giulio si illuminarono gli occhi: «Questa potrebbe essere una fatta di volpe!». Infatti videro che c’erano resti di semi di uva, di fichi e piccole piume.
«Vuol dire che di qui è passata una volpe?», chiese Anna.
Poi aggiunse con una smorfia: «Però fa un po’ schifo! Ma la possiamo portare a scuola?».
«Meglio di no», rispose Giulio.
1. Cerchia le parole nuove.
2. Colora in giallo le parole che riguardano il futuro lavoro di Giulio.
3. Racconta quello che vuoi fare da grande, prendendo spunto dal racconto.
L’indomani Giulio ne parlò con quattro dei suoi più fidati compagni.
«Ho visto gli escrementi della volpe lungo il canale che passa vicino a casa mia».
«Anche noi vogliamo vederli!
Vogliamo venire con te la prossima volta!».
Si accordarono e così nel pomeriggio Lorenzo, Andrea, Matteo e Anita si trovarono a casa di Giulio per una nuova esplorazione.
Giulio prese anche il cellulare della mamma per fare delle foto ed essere sicuro di non farsi sfuggire nulla.
«Vengo anch’io!», lo supplicò Anna.
«Va bene, vieni anche tu ma non farci aspettare».
La mamma, un po’ preoccupata, si raccomandò che i bambini stessero attenti a non finire nel canale e che non si allontanassero troppo.
«Non preoccuparti mamma, non c’è quasi più acqua nel canale», la rassicurò Giulio.
Camminarono in fila indiana sull’erba alta.
Il cielo era terso e non c’era più l’afa dell’estate che offuscava i colori. Si stava bene.
Gli occhi scrutavano in lontananza, ma non avvistavano indizi interessanti. Così si concentrarono sulle erbacce, che la maestra aveva spiegato così bene a scuola.
«Che belli questi semi di acanto che scoppiano», osservò Anita.
«Questi frutti di acero girano come degli elicotteri», aggiunse Giulio.
«Questa è “coda cavallina”. Puoi staccare e riattaccare le parti del fusto come con i mattoncini Lego».
«E questi semi di bardana si appiccicano come avessero tanti ami da pesca».
«Siamo come le pecore che portano in giro i semi attaccati sulla lana», disse Anita.
Ogni tanto c’erano delle chiazze di terra nuda e fangosa e i bambini dovevano saltarle per non sporcarsi.
Anna, che aveva le scarpe nuove, era più attenta degli altri e, fissando lo sguardo per terra su una di queste chiazze, esclamò: «Venite! Ci sono delle tracce».
Tutti si curvarono a esaminarle, finché ecco intrufolarsi Fido, mosso anche lui dalla curiosità.
«Vai via!», disse Anna, ma oramai era tardi perché le sue orme si erano già mescolate alle altre.
«Fermi che le fotografo tutte», disse Giulio.
Proseguirono ancora un po’ fiancheggiando il campo di mais ormai maturo, ma poi decisero di tornare indietro. Non vedevano l’ora di controllare sul computer la natura di quelle tracce.
Giunti a casa cercarono
le informazioni su internet e lessero:
«Esiste un metodo che, pur non essendo infallibile, può dare una mano nel riconoscimento.
Si prende un rametto e lo si appoggia alla base dell’impronta lasciata dalle due dita mediane della zampa.
Se il bastoncino taglia anche i cuscinetti delle dita laterali, significa che l’impronta è probabilmente di cane; se il rametto passa sopra il bordo delle due dita laterali, allora l’impronta è presumibilmente di volpe».
Effettivamente erano impronte di volpe.
«Allora la volpe c’è ancora!», disse Giulio soddisfatto mentre uscivano in cortile.
«Evviva!», risposero tutti.
«E come la chiamiamo questa volpe misteriosa?», chiese Matteo.
«La chiamiamo Ombretta perché appare e scompare come le ombre. Anzi no… Fiammetta, perché era rossa come una fiamma», propose
Anna che l’aveva vista solo per un attimo in primavera.
Discussero, ma la decisione rimase sospesa.
La volpe era tanto misteriosa che nessun nome sembrava giusto per lei.
1. Cerchia le parole che trovi interessanti o nuove.
2. Cerca le immagini delle piante menzionate.
3. Raccogli alcuni semi delle piante che crescono vicino a casa tua.
A scuola, ascoltando il racconto della passeggiata, alcuni bambini cominciarono a tempestare la maestra di domande.
«Maestra, quando andiamo anche noi a fare una passeggiata lungo il canale di Giulio?».
«Potete andarci quando volete con i vostri genitori», rispose la maestra.
«No maestra, i miei genitori non hanno mai tempo».
«Anche i miei hanno sempre da fare e non mi ascoltano».
«Maestra, tu sei buona. Ti preghiamo. Ti supplichiamo!», dicevano con le mani giunte.
La maestra era nei guai e cominciò a difendersi dicendo che sarebbe stato troppo pericoloso
portarli tutti all’aperto lungo il canale. Ma a richieste così tenere e insistenti non era facile dire di no…
«Vedremo cosa si può fare», concluse. «Yeeeeh!», urlarono i bambini che già avevano percepito il cedimento dell’insegnante.
Passarono parecchi giorni e finalmente la maestra fece scrivere sul diario che il giovedì successivo la classe sarebbe andata in passeggiata.
Ci fu un urlo di gioia incontenibile: «Sì! Evvivaaaaaaa!».
Arrivato il giovedì prestabilito, al cancello della scuola c’era un fermento diverso dal solito.
I bambini della classe terza erano equipaggiati come se dovessero partire per un mese.
«Ma dove andate?», chiedevano i compagni delle altre classi.
«Andiamo alla ricerca della volpe!», rispondevano con il gusto di sbalordire e suscitare invidia.
Saliti in aula, la maestra Margherita cominciò a fare raccomandazioni su raccomandazioni e i bambini a fare promesse su promesse. Poi presero il pulmino per andare fino alla casa di Giulio che distava due chilometri dalla scuola.
Al cancello la mamma li aspettava insieme ad Anna, che per l’occasione era rimasta a casa da scuola.
Teneva in braccio la gatta per darsi importanza con i compagni più grandi di lei.
«Ciao Anna, come si chiama il tuo gatto?», chiese la maestra Margherita.
«È una gatta e si chiama Luna», rispose Anna orgogliosa.
«Che bella, è proprio nera come la notte», disse la maestra e si mise ad accarezzarla.
Anche altri bambini cominciarono ad accarezzare
Luna, ma lo facevano contropelo cosicché il povero animale prima si irrigidì e poi sgattaiolò via da quelle maldestre carezze.
Il cane Fido non aveva di queste timidezze e zampettava in mezzo ai bambini. Si sentiva uno di loro.
L’erba dell’argine era ancora intatta. Siccome tutti volevano correre, proprio come cagnolini liberati dal guinzaglio, la maestra Margherita si mise davanti e disse: «Guai a chi mi supera. Dobbiamo fare piano e guardarci intorno per osservare ogni cosa in silenzio».
Cominciarono a percorrere l’argine del canale.
Lo sguardo era ampio.
A destra, dietro la casa di Giulio, si vedeva l’uliveto e a sinistra, al di là del canale, un terreno lasciato a maggese che conduceva, ancora più in là, a una casa rurale.
«Là abito io», disse Anita, «quello è il trattore di mio papà».
Man mano che la comitiva avanzava si formava una scia verde di erba calpestata, da cui saliva un intenso profumo che inebriava tutti.
Superati gli ulivi, i bambini e la maestra raggiunsero sulla destra il campo di granoturco appena trebbiato.
Per terra rimanevano pezzi di pannocchie rosicchiate.
«Se sono rosicchiate significa che ci sono topolini di campagna», disse Giulio.
«E se ci sono topi vuol dire che ci sono volpi», aggiunse Anita.
Camminarono chiacchierando e riempiendosi di erba e semi fino ai capelli, senza avvertire alcuna stanchezza.
Seguivano il canale, scrutando il fondo per vedere se c’era vita.
Sulle pareti argillose alcuni buchi attirarono la loro attenzione.
«Sono tane di gruccioni», disse con tono da saputello Andrea, che aveva visto un documentario alla televisione.
«È più probabile che siano topi, perché i gruccioni fanno il nido sui lidi sabbiosi», disse la maestra, lasciando un po’ deluso Andrea che non ci aveva azzeccato.
Un uccello bianco si alzò improvvisamente.
«È una garzetta della famiglia degli aironi», spiegò la maestra Margherita. «Si riconoscono perché in volo tengono le zampe allungate all’indietro».
Dopo una curva il percorso sfociò improvvisamente in una foresta di arbusti e di rovi, una specie di mondo selvaggio, impenetrabile. Lì di certo si nascondeva la volpe.
«Non possiamo continuare», disse la maestra. «Fermiamoci e facciamo merenda». Grande delusione, ma poi subito grande felicità.
1. Evidenzia le parole nuove.
2. Cerca informazioni e immagini sul gruccione e sulla garzetta.
Giunse il momento di mettersi sulla strada del ritorno, sempre costeggiando lo stesso argine dell’andata.
Dall’altra parte del canale, dietro la casa di Anita, c’era un vigneto e l’uva nera era già stata raccolta.
«Maestra Margherita, andiamo a vedere se è rimasta un po’ di uva?», propose Lorenzo.
«No bambini, vi infangherete tutti e poi non abbiamo il permesso».
«Sì maestra, ci possiamo andare», disse Anita che si sentiva la padrona di casa e cominciò subito a discendere l’argine per spiccare il salto che le riuscì benissimo.
«Fermi, fermi!», urlò la maestra.
Ma era troppo tardi e tutti volevano emulare Anita.
«Che facile!», esclamò Lorenzo che si credeva un grande atleta.
Ma invece di raggiungere l’altra sponda sprofondò nel fango del canale con entrambe le scarpe.
Gli altri, incuranti, fecero altrettanto.
Si lanciavano con le scarpe di svariati colori e uscivano sull’altra riva con le scarpe marroni. Alcuni avevano il fango fino alle ginocchia, come se avessero indossato un paio di stivali.
E subito dopo, ridendo per il loro atto di coraggio, si lanciavano come predoni affamati alla ricerca di grappoli scampati alla vendemmia.
Nonostante il fiatone, nessuno pensava di fermarsi.
Il padre di Anita smise di armeggiare dietro al trattore e venne incontro sorridendo alla ciurma di pirati che si radunò attorno a lui. «Ciao papà!», lo salutò Anita.
«Ciao Anita. Ciao bambini. Oggi niente scuola? Che brava insegnante!», disse ridendo alla maestra.
«Cosa c’è in quella zona selvaggia?», chiese Matteo.
«Quella è un’area scampata al disboscamento perché bassa e umida, poco adatta alla coltura. La chiamano bosco planiziale e vi cresce di tutto: querce, ontani, salici grigi, pioppi e tanti altri alberi. Non ci entra mai nessuno perché è pieno di rovi. Ogni tanto vedo alzarsi degli stormi e allora vuol dire che sotto si sta muovendo un predatore».
«Ma che animali ci vivono?», continuò Matteo.
«Penso che ci sia un po’ di tutto: bisce, donnole, lepri, poiane. D’estate gli animali sono protetti dal sole e bevono l’acqua del canale».
«C’è anche la volpe?», si informò Giulio.
«Penso di sì, perché ogni tanto, di notte, sento le galline che starnazzano come impazzite.
Bisognerebbe avere tempo per andare a vedere. Intanto buona passeggiata. Tornate presto!».
Ora bisognava saltare nuovamente il canale per tornare al pulmino che li aspettava.
Così fecero a turno per spiccare il salto. Per ultima
toccò alla maestra Margherita, che era la più paurosa, e molti bambini già si apprestavano a ridere, prevedendo una caduta.
Invece non fu così.
«Avete visto? Sono stata una bambina anch’io», disse soddisfatta. I bambini, felici, si complimentarono in coro per l’agilità della loro insegnante e si diressero verso il pullman.
L’autista, vedendoli arrivare, impallidì e,
severissimo, fece levare le scarpe a tutti prima di salire.
I genitori se li videro arrivare come reduci di guerra, ma furono comprensivi: non potevano fare a meno di pensare che anche loro da piccoli erano stati tremendi.
1. Prendendo spunto dal brano, racconta alcune prove di coraggio che hai vissuto in prima persona.
2. Evidenzia i nomi di piante e animali e cerca le relative immagini.
Passavano le settimane e, sebbene la scuola assorbisse sempre più l’attenzione dei bambini, l’argomento della volpe non perdeva di interesse.
Andrea, un giorno, portò in classe un articolo di un giornale locale che lesse a tutti: «Razzia nel pollaio: sterminate dieci galline, disperazione del proprietario».
Mostrò la foto che fece inorridire tutti poiché temevano che fosse stata la volpe.
«Non può essere la volpe», disse la maestra per consolarli.
«La volpe porta via solo un capo alla volta quando ha bisogno di dare da mangiare ai suoi piccoli», continuò.
«Meno male», pensarono in cuor loro i bambini.
«Allora chi sarà stato?», chiese Matteo. «Può essere stato un cane randagio», rispose la maestra.
«Sì, è vero!», intervenne Giulio. «Ce n’è uno marrone che va sempre in giro e un giorno è entrato perfino nel mio giardino. Voleva aggredire la mia gatta che aveva i gattini e anche me che la difendevo.
Per fortuna è arrivato il mio cane e lo ha cacciato!».*
La maestra confermò che i cani randagi possono essere pericolosi, ma più spesso sono solo affamati e impauriti.
Possono diventare pericolosi quando si riuniscono in branchi e, un po’ alla volta, riprendono gli istinti selvaggi come i lupi. I bambini seguivano le spiegazioni con attenzione.
Intervenne allora Anita.
«Lo sapete che l’altra notte la volpe è passata a casa mia?».
«Ma l’hai vista?».
* C. Bortolato, «La gatta Luna» in A scuola con Pitti 2 –Il mio libro di lettura, Trento, Erickson, 2024.
«No, me lo ha detto mio papà perché ha sentito le galline che schiamazzavano impazzite.
Così è sceso e ha visto un’ombra fuggire via».
«È sicuro che fosse la volpe?».
«No, ma è un sospetto».
Anita si rese conto di aver procurato un’altra delusione con il suo intervento.
1. Sottolinea le parole nuove e trova il significato.
2. Racconta degli animali selvatici che ti è capitato di vedere.
Nonostante le ricerche a casa e a scuola, nessuno, tranne Giulio e Anna, aveva ancora visto la volpe e la sua presenza stava diventando un’ossessione.
«Maestra, non riusciremo mai a vedere la volpe, vero?», disse Matteo con l’assenso degli altri.
«Maestra, non riusciamo a vedere le volpi perché cacciano di notte», sostenne Andrea, «e di giorno preferiscono sonnecchiare nelle loro tane».
«Però abbiamo letto che quando hanno i volpacchiotti girano anche di giorno», obiettò Lorenzo.
«Maestra, ho letto che fanno da due a otto cuccioli e che anche il maschio si occupa di loro», disse Andrea.
«E io ho letto che partoriscono verso
primavera», incalzò Matteo, «quindi fra qualche mese».
Era tutto un susseguirsi di interventi.
«Maestra, io ho scoperto che la gestazione della volpe dura circa nove settimane, invece quella degli umani nove mesi».
«Maestra, io so che fanno la tana nelle buche scavate dai tassi. L’ho visto alla televisione».
«Maestra, ho visto un video registrato da un drone che mostrava la volpe mentre caccia i topi sotto la neve, facendo dei balzi di tre metri!».
«Maestra, io so che ci sono venti tipi di volpi che si adattano a tutti gli ambienti, adesso vivono anche nelle periferie delle città».
La maestra li ascoltava stupita di vederli così appassionati all’argomento.
«Come fate a sapere tutte queste cose sulla volpe?».
«È perché noi siamo i volpacchiotti e tu sei la nostra mamma volpe», rispose Anita e tutti si misero a ridere.
Racconta dei tuoi interessi e delle tue passioni in generale.
A furia di vedere filmati in cui le volpi fraternizzavano con le persone, i bambini si misero a escogitare varie strategie per avvicinarle.
Era una gara a chi ne vedeva una per primo e in molti avevano anche cominciato a mettere fuori di casa un piatto di cibo.
In classe, durante l’intervallo, Giulio e Anita confabulavano tra loro sulle strategie per catturarla, parlando della possibilità di fare delle buche come i primitivi, ma concludevano che la volpe era troppo astuta per caderci.
«Possiamo mettere del pesce legato a una cima di una fune e all’altro capo un campanello, così quando suona corriamo, facciamo una foto alla volpe e vinciamo!», propose Lorenzo entusiasta.
«Sì, però se la volpe sente il rumore si spaventa e scappa prima che noi arriviamo!». «Hai ragione, non va bene. Ci vorrebbero delle telecamere come quelle di sorveglianza».
Giulio e Anita, che erano più pratici e abitavano vicini, erano arrivati a ideare un altro piano: «Prendiamo una cassetta da frutta abbastanza grande, la capovolgiamo e la teniamo sospesa da un lato con un puntello di legno. Poi ci mettiamo sotto del cibo collegato con una cordicella al puntello di legno», propose Giulio.
«Esatto. Quando la volpe porterà via il cibo muoverà anche il puntello e zac! La prenderemo», concluse Anita.
Nel pomeriggio, dopo aver svolto i compiti, prepararono la trappola, mettendo come esca un pezzo di pane e altro cibo. Andarono a letto agitati, immaginandosi già la scena della cattura.
Ma il giorno dopo, che delusione!
Prendendo spunto dal racconto, parla delle tue delusioni.
La stagione del freddo era arrivata puntuale, come tutte le cose tristi.
La nebbia malandrina cancellava i confini degli alberi, delle case e delle strade, rendendole insicure.
Della volpe nessuna novità. I bambini si erano rassegnati.
Una sera, tornando dalla palestra, Giulio, Anna e Anita chiacchieravano sul sedile posteriore dell’auto. Era buio. All’altezza della trattoria, Anna esclamò:
«Papà, papà, fermati!».
«Cosa c’è?», chiese il papà allarmato. «C’è qualcosa che si muove dietro ai bidoni della spazzatura!».
L’auto rallentò rapidamente fino a fermarsi e i passeggeri, voltandosi, videro una folta coda uscire dal bidone dell’umido.
«È la volpe!», disse Giulio, soffocando un grido. «Avrà sentito l’odore di cibo!».
I bambini aprirono la portiera dell’auto con tutta la delicatezza possibile, si sporsero e subito incrociarono gli occhi della volpe che brillavano come due fanali bianchi.
Passarono due o tre secondi lunghissimi.
Poi la volpe si girò di scatto per attraversare la strada.
Anna emise un grido di terrore: proprio in quel momento sopraggiungeva un furgone.
Troppo tardi. La volpe andò a sbattere sulla fiancata con un rumore sordo.
Poi rimbalzò, rotolando all’indietro varie volte come una palla.
Tutti accorsero. Era per terra immobile.
«Oh no! È morta. Poverina».
«Com’è bella…».
«È colpa nostra! Che cosa facciamo ora?».
Si chinarono per sfiorarla con la mano in un gesto di tenerezza, quando improvvisamente l’animale ebbe un tremito come per rizzarsi sulle gambe. Poi ricadde.
«Non è morta! Ma sta molto male!».
«Forse ha preso solo una botta troppo forte».
I bambini si chiesero cosa fare e se fosse il caso di portarla a casa per curarla.
Il papà li tranquillizzò, prese il cellulare e chiamò il numero di emergenza.
«Cos’hanno detto?», chiesero preoccupati i bambini.
«Mi stanno passando gli operatori del Centro di Recupero Fauna Selvatica. Ci pensano loro a venire a prenderla».
«Bravo papà!», disse Anna.
Prendendo spunto dal testo, racconta episodi che riguardano i pericoli della strada, gli infortuni o gli incidenti a cui hai assistito.
Attorno alla povera bestiolina si erano radunate molte persone. All’inizio pensavano che qualcuno stesse male, poi quando vedevano la volpe si illuminavano.
«Oh che meraviglia!». «Guarda che bella».
«È la prima volta che vedo una volpe così da vicino».
«Non sapevo che ci fossero le volpi da queste parti», dicevano in tanti.
La volpe se ne stava sdraiata di lato, un po’ raggomitolata e con gli occhi chiusi. Il musetto affilato le dava proprio un’aria di signorilità e di intelligenza, come nelle fiabe. La coda, poi, era proprio solenne. Dalla bocca semichiusa si vedeva il rosso della lingua rilassata, segno che aveva perso conoscenza.
Finalmente arrivarono gli
operatori con un furgone bianco proprio come quello dell’ambulanza.
«Facciamo noi. State lontani!».
Estrassero una gabbia di ferro e usando dei guantoni vi spinsero dentro l’animale a peso morto.
«Ciao volpe. Vedrai che presto starai bene», la salutò Anna.
Sull’asfalto si vedeva ancora qualche goccia di sangue.
«È un esemplare di giovane maschio», disse l’uomo del soccorso al papà.
«Ma dove la portate?», chiese coraggiosamente Anna.
«All’ambulatorio veterinario provinciale, non preoccuparti piccola, ora ci pensiamo noi», la tranquillizzò l’altro operatore.
Anna era contenta. La gentilezza di queste persone le faceva ben sperare per la volpe.
Evidenzia i punti dove la narrazione rallenta i suoi tempi per diventare più drammatica.
L’indomani, ancora prima di entrare in classe, i bambini erano intorno a Giulio, Anna e Anita. E tutti facevano delle domande rammaricandosi di non essere stati presenti all’accaduto.
In classe la maestra Margherita, prima di cominciare la lezione di scienze, lasciò parlare i bambini.
«Maestra, possiamo andare a trovare la volpe ferita?».
«Maestra, ci porti a visitare il centro per il recupero?».
Facevano il solito lavoro di «logoramento» a base di suppliche e promettevano di fare i bravi, sapendo che alla fine la maestra avrebbe ceduto.
«Dopo l’ultima passeggiata in cui vi siete sporcati di fango fino ai capelli, non credo più alle promesse…».
«Sì, però ci siamo tanto divertiti!», disse Lorenzo. Ci fu un mormorio di approvazione.
Il giorno dopo la maestra disse che si era informata presso l’ambulatorio dove era ricoverata la volpe e che le avevano detto che non potevano andare a trovarla perché gli animali selvatici si sarebbero spaventati a vedere tanta gente. Però l’operatore aveva promesso di venire a trovarli e avrebbe portato delle fotografie della volpe! Scoppiò un sonoro applauso.
Cerca il recapito del Centro di Recupero Fauna Selvatica della tua zona.
La settimana successiva venne in classe l’operatore che aveva soccorso la volpe sulla strada. Si complimentò subito con la maestra Margherita per i suoi bambini tutti buoni e in silenzio.
Non appena però estrasse dalla borsa le foto, tutti corsero fuori dai banchi per guardarle da vicino e così finì la pace.
Spiegò che quello era un esemplare maschio di volpe rossa, una delle ben quarantacinque sottospecie di volpe che esistono nel mondo.
«Poverina», lo interruppe Anita. «Perché è tutta distesa su un lato con delle bende attorno alla zampa?». «Perché l’hanno operata alla coscia».
L’operatore spiegò che il forte colpo ricevuto le aveva rotto la testa del femore e avevano dovuto quindi segarla via. Spiegò anche, per tranquillizzare i bambini, che non aveva sofferto perché prima dell’operazione viene fatta l’anestesia.
«Ma adesso potrà ancora camminare?».
«Sì, le volpi possono camminare anche senza quella porzione di osso. Noi invece no».
Poi fece vedere anche le radiografie.
«E ora cosa farete?».
«Aspettiamo di vedere come guarisce. Se riesce a correre la liberiamo nel suo habitat e la riportiamo vicino alla trattoria dove l’abbiamo raccolta.
Se invece fa fatica la porteremo in una zona protetta dove vivrà recintata e sfamata per il resto della sua vita».
Poi spiegò un po’ come vive una volpe e disse che dopo il parto anche il maschio di volpe si occupa
della prole. Disse che le prede a volte vengono mangiate dai genitori e poi rigurgitate in modo che siano più digeribili per i cuccioli, come una pappa pronta.
«Ma dovrà vivere nel recinto sempre da solo?».
«Purtroppo sì», disse l’operatore.
«Ma allora possiamo tenerlo noi qui a scuola, così troverà tanti amici che gli faranno compagnia!», propose Lorenzo in un attimo inatteso di tenerezza.
Tutti si misero a ridere.
1. Evidenzia le parole nuove o interessanti.
2. Racconta se ti è capitato di incontrare animali feriti e poi soccorsi.
Tra i compiti, le prove del saggio e la recita scolastica arrivò in fretta il Natale e le tanto sognate vacanze.
Passate le prime feste, Giulio telefonò ad Anita. «Avverti gli altri che domani si parte per un’avventura!».
Così il giorno dopo, alle dieci in punto, erano pronti sull’argine del canale: Andrea, Lorenzo, Matteo e Giulio.
La missione era conquistare quel mondo selvaggio che aveva fermato il loro cammino durante la passeggiata con la maestra.
Mentre si preparavano a partire, si dicevano l’un l’altro che questa volta niente li avrebbe fermati perché erano ben attrezzati.
«Io ho portato i miei stivali».
«E io ho portato quelli di mio fratello!».
«I miei invece sono nuovi».
«Io», disse Giulio, «avevo messo nello zaino le forbici da giardinaggio, ma la mamma me le ha fatte togliere perché mi ha spiegato che con questi attrezzi non si deve scherzare».
Mentre parlavano, nella siepe accanto alcuni uccellini discutevano a loro volta di affari importanti.
«Cip, cip, cip».
«Sono i nostri pettirossi che ogni anno ritornano. Ne abbiamo almeno cinque», disse Giulio con aria da esperto.
Fiocco Ciuffo Gaia
Appena arrivò anche Anna, la solita impicciona, a detta di Giulio, perché si intrufolava sempre nei suoi affari, la comitiva partì.
Il terreno sotto ai piedi era gelato perché di notte le temperature scendevano sotto lo zero e poi di giorno il sole non riusciva a scaldare abbastanza.
Passato l’uliveto si sentì una voce lontana…
«Arrivoooo!». Era Anita che arrivava di corsa dalla sponda opposta del canale con in mano una zappa.
«Ci servirà per farci largo tra i rovi!».
«Keeeee……keeeeee…keeeeee».
«Avete sentito? Cos’è?», disse Lorenzo, zittendo tutti.
«Questo è il verso del fagiano» disse Anita, che conosceva la vita dei campi.
«Guardate, c’è un animale nero che scappa!», urlò Matteo eccitato.
«È solo Luna, la mia gatta, che ci segue da lontano», spiegò Anna sorridendo. fagiano
Seguirono il canale finché raggiunsero la foresta del mistero.
Anita, saggiando il suolo con la zappa, suggerì di proseguire scendendo sul letto del canale in secca perché il fango questa volta era solido.
Così avanzarono per alcune centinaia di metri camminando come in una trincea, sempre più euforici.
Da quella posizione nessuno poteva vederli.
«Siamo come gli esploratori della giungla», disse con spavalderia Lorenzo girandosi indietro. Poi si sentì un urlo:
«Ahiiiii! Che male! Mi sono impigliato nelle spine!». Tutti risero del maldestro Indiana Jones.
«Zitti, che spaventate gli animali!», sbottò Matteo irritato.
«Speriamo di non sprofondare», disse impacciato Andrea, che viveva l’avventura come se fossero in un film.
«Con tutti questi buchi ho paura che esca un topastro. Forse è meglio se torniamo indietro», piagnucolò Anna.
«Ma guarda che sono tutti in letargo» ribatté Giulio.
«No, non è vero, non ci credo», rispose la sorella.
Sopra l’argine, avvolto nell’edera, cresceva qualche raro albero di ontano.
«Cra… cra…».
«Guardate, c’è un nido di gazze là in alto», disse Giulio.
gazza
«Risaliamo e andiamo dentro alla boscaglia», disse Lorenzo che non aveva più pazienza.
«Sì, però stai attento perché ci sono un sacco di spine e di rovi», lo avvertì Anita.
«Ma io non ho paura perché ho i guanti da giardiniere di mio papà!», rispose sicuro di sé, come sempre.
Si arrampicarono con fatica sull’argine del canale, riguadagnando il livello del suolo, e poco dopo varcarono l’ingresso del bosco.
Farnie secolari svettavano altissime, creando giochi di ombre e di luce fra i rami spogli. Tutto era avvolto nel silenzio perché i bambini avevano smesso di parlare. Si udiva solo il fruscio delle foglie secche calpestate dagli scarponi. Avanzarono creandosi un varco nel fitto sottobosco.
Anita stava davanti alla fila e faceva spazio agli altri spostando con la zappa i rami di pungitopo.
Un merlo saltellava qua e là e Anita spiegò che veniva a dormire in quel bosco, ma poi andava a beccare quel che rimaneva nei campi di granoturco.
«Sssssssst!», fece Matteo. «Ho visto qualcosa».
Tutti si abbassarono e si guardarono intorno, inutilmente…
Pochi passi più in là una cincia, abbandonato il nido, cercava insetti rovistando fra i gusci vuoti di nocciole. «Ho fame!», disse Anna.
«Sssssssst!», la zittì Giulio. «Non è possibile che chiacchieri sempre!».
«Uffa, ho detto solo due parole! Che antipatico!».
Fecero ancora un po’ di metri avanzando ginocchioni per esaminare meglio il terreno e, sotto l’erba secca, trovarono le penne di un fagiano o di un fringuello: l’avanzo, probabilmente, di un pasto.
«Qui qualcuno si è fatto un pranzetto…». cincia
Strisciarono ancora un po’ in silenzio con le ginocchia bagnate. Per terra erano distribuiti qua e là pezzi di osso, forse di lepre o di topo, e gusci di uova.
«Bleee che schifoooo!», disse Anna.
All’improvviso, là dove giaceva al suolo un grosso albero coperto di muschio, si intravide per un brevissimo attimo la sagoma di un animale.
Il cuore di tutti raddoppiò i battiti.
Di nuovo un’ombra veloce apparve e poi sparì fra gli alberi.
I bambini, che erano rimasti immobili, decisero di muoversi con molta accortezza nella direzione in cui quell’ombra era fuggita.
Avanzarono, strisciando sui gomiti per non farsi scoprire.
Ormai da quanto erano sporchi si confondevano con la vegetazione.
A un certo punto, proprio in cima a un rialzo del terreno alla loro destra, la sagoma ricomparve e questa volta si lasciò ammirare.
Zampe sottili e una magnifica coda fiammante distinguevano, senz’ombra di dubbio, le bellissime forme di una volpe. Sotto la testa dal profilo sottile brillava il pelo bianco della gola e del petto.
I bambini avrebbero desiderato rimanere lì un’eternità a guardarla, ma quando Andrea, che era dietro, si alzò per riuscire a vedere, la visione si dissolse.
«Ma perché ti sei alzato?!», brontolarono tutti. «Perché non vedevo niente!».
«Uffa! L’hai fatta scappare», disse Giulio. «Zitti, smettetela!», intervenne Anita.
Si alzarono tutti e cominciarono a interrogarsi perplessi sulla possibilità che la volpe fosse guarita così in fretta e fosse già stata liberata… «Però mi sembra strano, ha subito una gran brutta operazione», rifletté Giulio ad alta voce. «A me non pareva proprio che questa volpe qui stesse male, anzi, aveva un bel pancione», osservò Anita.
Si avvicinarono all’albero caduto dove era apparso l’animale e discussero tra loro. Alla fine giunsero alla conclusione che probabilmente non si trattava della stessa volpe dell’incidente.
1. Evidenzia le parole o le espressioni interessanti.
2. Cerca immagini degli uccelli nominati in questo racconto.
3. Cerchia i nomi delle piante e trova delle informazioni.
Sotto al tronco ricoperto dal muschio c’era un cumulo di terra mossa e un buco buio. «Questa è la sua tana… Guardate! Si vedono anche delle penne striate di celeste». «Sono di una ghiandaia, sarà stato il suo pasto», disse Anita e poi subito aggiunse: «Guardate da quella parte. Forse la volpe si è nascosta lì».
Indicò un cespuglio lontano una cinquantina di passi, si avvicinò e gettò un pezzo del suo panino al prosciutto.
Anche gli altri bambini aprirono lo zaino e seguirono l’esempio, ma dal cespuglio non spuntò nessuno.
Erano trascorse ormai molte ore da quando erano partiti e la stanchezza si faceva sentire.
Era meglio rimettersi sulla strada di casa…
Così presero la via del ritorno continuando però a gettare per terra piccoli bocconi delle loro merende, senza perdere la speranza di rivedere la volpe.
«Stiamo spargendo le briciole come nella fiaba di Pollicino», commentò Anna sognante, «così poi viene a trovarci a casa nostra».
Avevano le braccia piene di fango e di graffi ma nessuno di loro si lamentava.
Il sole, rosso come un’arancia, stava tramontando e cominciava a fare freddo.
L’idea di andare al caldo e di raccontare tutto in famiglia faceva loro aumentare il passo.
Nel campo, oltre il vigneto e la casa di Anita, il frumento appena spuntato attendeva la neve come una coperta per soffrire meno il freddo.
1. Evidenzia le parole o le espressioni interessanti.
2. Cerca immagini della ghiandaia.
Tornati dalle vacanze, la maestra Margherita ascoltò il racconto dei bambini esploratori.
Parlò per tutti Giulio, che narrò l’avvistamento della volpe.
«Non è vero!», dissero i compagni un po’ gelosi.
«La volpe è ancora in clinica!».
Ma anche gli altri confermarono di averla vista.
«Ma è impossibile che l’abbiano già liberata, è passato troppo poco tempo!», fecero in coro gli altri compagni.
«Maestra, come facciamo a sapere chi ha ragione?», chiese Matteo.
La maestra disse che avrebbe potuto informarsi chiamando gli uomini del Centro di Recupero Fauna Selvatica, poi invitò tutti a darsi da fare con gli esercizi di matematica.
Il giorno dopo la maestra Margherita riferì della telefonata: la volpe era stata inviata nella zona protetta a 20 chilometri di distanza. «Allora avevamo ragione noi!», dissero i bambini guardando la squadra degli esploratori. «Ma si trattava di un’altra volpe!», ribatterono questi ultimi.
E la discussione rimase aperta…
1. Evidenzia le parole o le espressioni interessanti. 2. Cerca se nella tua zona ci sono aree protette per gli animali selvatici.
Quell’inverno la neve non si era fatta viva e non era venuta a consolare dalle sferzate di vento gelido le piantine di frumento. I bambini ne erano molto delusi.
Era già marzo inoltrato e la primavera tardava ad arrivare, mentre la pioggia, come una strega impietosa, ne approfittava per sfogarsi con tutti. «Adesso bagno tutti i nidi degli uccellini!». «Adesso allago il campo da calcio dei bambini!».
«E adesso ne combino una più grossa, che farà impazzire tutti!».
E infatti mandò tanta e tanta acqua da far tracimare i fossi e perfino il canale che fino a quel momento era quasi in secca.
Le prime zone ad allagarsi furono quelle più basse.
«Mamma! Papà! Venite a vedere», disse Giulio, guardando dalla finestra della camera. «Là in fondo l’acqua sta invadendo il bosco dove vive la volpe».
«Poverina, avrà la sua tana allagata! Dobbiamo andare ad aiutarla», disse Anna.
«Non preoccupatevi bambini, se la caverà da sola. Le volpi sono intelligenti», disse il papà.
«Dobbiamo invece preoccuparci per noi. Speriamo che smetta di piovere presto».
«Neanche per sogno», pensava, tra le nubi, la pioggia dispettosa, «sto cominciando solo adesso a divertirmi!».
L’acqua infatti sommerse i campi di frumento e granoturco e poi l’uliveto, arrivando fin sul cortile di casa.
«Non mi basta», diceva ancora la pioggia e scatenò un’altra giornata di acquazzoni che fece scoppiare le tubature cittadine, portando l’acqua per le strade del centro.
1. Evidenzia le parole o le espressioni interessanti.
2. Cerchia le frasi dove la pioggia sembra una persona.
3. Racconta di situazioni simili che hai vissuto.
Anna e Giulio osservavano il paesaggio che si trasformava mentre aspettavano il pulmino da sopra il ponte.
Il canale era diventato un torrente scatenato che trasportava oggetti incredibili rubati dai cortili: giochi, secchi, bidoni, sacchetti della spazzatura.
«Guarda, l’acqua ha allagato la casa di Anita!», disse Anna.
«Guarda, non si vede più il confine della strada», aggiunse Giulio.
La mamma, visto il tempo, aveva insistito perché i figli rimanessero a casa, ma Anna e Giulio volevano andare a scuola per condividere quella situazione con i compagni.
Perciò li aveva equipaggiati di tutto punto: stivali, mantellina e ombrello per Anna, stivali e mantellina per Giulio, che dell’ombrello non ne voleva sapere, visto che aveva il cappuccio.
Quando arrivò il pulmino i due fratelli salirono in tutta fretta.
Le auto procedevano indifferenti mentre i tergicristalli lavoravano senza posa. Arrivati a scuola i bambini salirono le scale e corsero alla finestra per osservare meglio.
Anita e Matteo erano vicini.
«A casa mia l’acqua sta arrivando in casa», disse Anita.
«Anche a casa mia», rispose lui.
«Guarda, i lampioni della strada sono ancora accesi questa mattina. Che strano», osservò Anita.
«Di solito si spengono da soli quando fa chiaro con la luce del giorno», disse Matteo.
«Ah, è vero… Forse oggi con questo tempaccio è ancora troppo buio perché si spengano».
Tacquero per ascoltare lo scroscio della pioggia. «Poverini gli uccelli», esclamò dopo un po’ Matteo, «come faranno a ripararsi?».
«Le oche e le anatre sono più fortunate, quando piove vanno fuori a ballare, perché è come se avessero l’impermeabile!
Ho letto che hanno una ghiandola che produce un olio per non far bagnare le loro penne», disse Anita che assisteva spesso a questa scena e si era informata.
«Poveri i gatti», riprese Matteo, «non sanno nuotare».
«Non è vero!», li interruppe Giulio, che li stava ascoltando. «La mia gatta quest’estate è caduta nel canale e nuotava benissimo. Però non le piaceva tanto».
«Sai che bello se l’acqua crescesse fino al secondo piano? Così saliremmo sul tetto e verrebbero a prenderci con le barche», commentò Lorenzo che si era destato dal torpore. «Oppure con l’elicottero», aggiunse Anita ridendo.
1. Cerchia le frasi che descrivono la drammaticità del momento. 2. Come si proteggono gli animali dalla pioggia? Prova a fare una ricerca in merito.
La maestra richiamò tutti al proprio posto per cominciare l’esercizio di geometria.
La pioggia arrivava a secchiate improvvise rubando per sé l’attenzione dei bambini; sembrava proprio che qualcuno dall’alto si divertisse a interrompere la lezione.
A un tratto una saetta illuminò il cielo rivelando per mezzo secondo l’ombra di un volto ghignante e poi, quasi nello stesso istante, si udì forte il rombo tremendo.
«BOOOOOOMMMMMM!»
Saltò la corrente elettrica.
Buio improvviso.
I bambini emisero un urlo di paura e abbandonarono definitivamente il loro lavoro, precipitandosi alle finestre.
«Sta per arrivare un diluvio», disse preoccupata la maestra, rimasta seduta alla cattedra. «Magari!», pensarono i bambini in cuor loro, spaventati ma anche affascinati dallo spettacolo del temporale.
L’acqua correva e correva sulla strada trasformata nel letto di un fiume grigio. Andrea fece notare che mancavano soltanto i pesci per renderla un vero e proprio corso d’acqua. Fuori anche i lampioni si erano spenti.
Non c’era anima viva per le strade e le auto parcheggiate erano quasi sommerse.
Era l’ora della ricreazione.
«Guardate il cortile. È tutto allagato!», esclamò Anita. Stava per succedere qualcosa.
1. Evidenzia le espressioni interessanti.
2. Cerchia le frasi dove la descrizione prevale sulla narrazione che si ferma.
3. Nella lettura studia bene il tono della voce per mettere in risalto le emozioni.
Era calato il silenzio in aula, quando ci fu un «Ooooh!» generale.
La maestra si alzò in fretta e corse alla finestra: oltre la recinzione un animale dalla coda quasi più grande del corpo avanzava guardingo. Zoppicava anche un po’.
«È la volpe!», urlarono in coro i bambini.
Matteo, Andrea e Lorenzo si precipitarono rumorosamente giù per le scale. «Fermi! Vi fate male!», urlò la maestra, rincorrendoli. A metà scala perse anche una scarpa.
Giunti nell’atrio, il gruppo fu raggiunto da Giulio e Anita con in mano la merenda.
«Fate piano», disse Giulio, «altrimenti scapperà».
Arrivò anche Anna, sgattaiolata prodigiosamente dalla sua aula: «Vengo anch’io!».
Il vialetto che portava al cancello aveva mezza
spanna di acqua, ma ai bambini non interessava.
Uscirono sotto la pioggia e giunti a qualche metro di distanza lanciarono un panino oltre il cancello, in direzione dell’animale.
La volpe era molto spaventata e teneva la coda abbassata ma, quando vide in aria il panino, l’afferrò al volo e subito scappò nella direzione da cui era venuta.
«Ah che peccato! È sparita! Maestra andiamole dietro!», gridarono i bambini alla maestra Margherita, appena arrivata.
«Impossibile, vi bagnate tutti».
«Ma siamo già tutti bagnati!».
«Questo è vero», ammise la maestra, che si accorse solo allora di avere i vestiti inzuppati come quelli dei bambini.
La povera insegnante allora si mise a implorare i bambini di rientrare. Avevano appena raggiunto il portone d’ingresso quando si sentì una voce in coro dalle finestre del piano di sopra:
«Guardate! Sul marciapiede! La volpe! È ritornata!».
Si girarono e videro spuntare la volpe oltre la recinzione, che tornava questa volta con la coda un po’ più alta.
«Guardate, guardate!» dissero ancora dal piano di sopra.
Ed ecco provenire dalla stessa direzione un’altra coda, seguita da una più piccola, poi un’altra, poi un’altra ancora.
«Ooooh, aaaah, che belleeeeeee!». «È la mamma con i suoi piccoli!».
«Sembrano orsetti!».
Le bestioline stavano intorno a mamma volpe, che sembrava del tutto a suo agio in mezzo ai bambini, a differenza dell’altra volpe adulta.
Infilava il muso sottile tra le inferriate del cancello.
«Prendi volpina», disse Anita, porgendole con prudenza metà del suo panino.
«Prendi anche questo», disse Giulio, passandole il prosciutto, separato dal pane.
La volpe non sembrava aver paura dei bambini. Era come se li conoscesse.
Anche i piccoli cominciarono a introdurre il loro musetto tra i pali della cancellata. Si lasciavano prima sfiorare, poi quasi accarezzare.
Gli occhietti, vicini, erano due perle, come quelli dei peluches.
La maestra insisteva perché i bambini non si avvicinassero troppo, ma poi lasciava fare perché era una faccenda tra cuccioli.
Anna si fece spazio tra i compagni e si inginocchiò. La volpe la guardò intensamente negli occhi come per dirle:
«Sono io la volpe che l’anno scorso è entrata nel tuo orto, sono io quella che avete incontrato nel bosco quando ero in attesa dei miei cuccioli, è sempre me che avete sfamato quando il mio compagno non tornava! Questi sono i miei piccoli».
Anna allungò una mano e raggiunse la sua fronte in un gesto di intesa.
A un certo punto si sentì la sirena spiegata dei pompieri.
I tre «orsetti» abbandonarono le carezze e si affrettarono a seguire la madre che scappava via.
Per ultima si allontanò la volpe che era apparsa per prima e che finora si era tenuta in disparte.
«Guardate», disse Giulio, «ha il segno di una cicatrice sulla coscia destra».
Lo sguardo dei bambini si incontrò con quello della maestra che sorrise.
«Certo, è la volpe dell’incidente, il maschio.
Vuol dire che è riuscito a fuggire dal suo recinto nella riserva per ritornare dalla sua compagna e dai suoi piccoli».
Era sopraggiunto intanto, a gran velocità, il camion dei pompieri.
«Splashhhh!».
Un’onda d’acqua improvvisa investì il gruppo dei bambini.
«Ahahahah!».
Un altro scroscio li
travolse dall’altra parte, questa volta di risate dei compagni che avevano assistito alla scena dalle finestre di tutta la scuola.
«Che figura!», dissero tra loro nascondendosi il viso.
«Clap clap clap!».
Un terzo scroscio, questa volta di applausi che non finivano più, raggiunse i cinque malcapitati sognatori della classe terza insieme alla loro maestra e alla piccola Anna.
Alto nel cielo sopra la scuola si stava disegnando un arcobaleno.
«Eccì! Eccì!», fecero i bambini tirando su con il naso.
Ma nessuno poteva più trattenerli dal finire di inzaccherarsi nel cortile della scuola ridotto a una piscina.
La maestra li guardava con le mani nei capelli tutti scompigliati e non sapeva se piangere o ridere.
Alla fine decise di fare entrambe le cose e si buttò anche lei a giocare con i bambini.
Al sole sfuggì un singulto di commozione e tutti lo guardarono stupiti.
Colora di rosa le frasi che ti sembrano più emozionanti e con un altro colore le frasi divertenti.
La piccola comitiva di sfollati camminava in fretta per sfuggire alle auto, ai camion, ai cani.
«Dove passare la notte?
Dove portare i piccoli al sicuro?».
Era la preoccupazione di mamma e papà volpe.
Ecco un mucchio di tubi di cemento abbandonati a lato della strada. Un ricovero ideale per non essere visti. Mamma volpe vi si infilò per prima e si distese, stremata.
I tre cuccioli si posarono sulla sua pancia a cercare calore e un po’ di latte. Poi la volpe socchiuse gli occhi e cadde in un turbinio di immagini.
Si rivide lei cucciola sulla montagna con la madre. Poi l’incendio e la fuga. Poi il bosco con la tana, poi la neve, la fame, i bambini. Poi il compagno scomparso, il parto, i piccoli. Poi la pioggia che non smetteva, la fuga, la fame e infine di nuovo i bambini…
«E ora dormite, piccoli miei. Anche per questa notte siamo al sicuro. Qualcuno ci ha voluto bene».
E si addormentò.
Un frullo di pettirossi affaccendati passò accanto a lei. La vita continuava.
Nel libro La volpe si racconta (Erickson, 2022) è possibile rileggere la storia dal punto di vista della volpe e scoprire come continuano le vicende con i cuccioli. Oltre che per una lettura personale sarà l’occasione per condividere in classe un’altra lettura.
Io scrittore
Ogni racconto è un fiume pieno di pietre preziose e adesso che ne hai raccolte tante sei pronto per scrivere un racconto tutto tuo, diviso in capitoli.
Ad esempio puoi scegliere di raccontare la storia di un animale che ti piace come se fosse lui stesso a parlare:
Ero ancora cucciola e aspettavo la mamma in una gabbia fredda di un canile. Avevo paura e sentivo dalle altre gabbie tanti cani che abbaiavano...
Oppure puoi raccontarla con gli occhi di un narratore esterno che descrive quello che accade:
C’era una volta un cucciolo di cane che, chiuso in una gabbia del canile, si guardava impaurito attorno. Aspettava la mamma...
Ci vuole tempo per studiare l’ambiente e la trama. Soprattutto bisogna entrare nel cuore del personaggio.
* È possibile svolgere questa attività individualmente o collettivamente.
16 Propose Lorenzo in un attimo inatteso di ........................................................................ .
17 Se ne stava sdraiata di lato, un po’ .......................................... . 18 Camminando, come in una trincea, sempre più ........................................................................ . 19 Non era venuta a consolare dalle .............................................. .
20 L’autista, vedendoli arrivare, ......................................................... .
21 Commentò Lorenzo che si era destato dal ........................... . 22 «Allora faccele vedere», dissero gli altri con aria di ........................................................................ .
23 Vi si infilò per prima e si distese, ............................................... . 24 Spostando con la zappa i rami di ............................................... .
Lasciava fare perché era una faccenda tra
Tacquero per ascoltare lo .............................................................. della pioggia. 29 Avevano le braccia piene di ............................................................. .
Altre storie da leggere e raccontare
1. Riccioli d’oro p. 88
2. La vera storia di Masha e l’orso p. 92
3. Il re e la camicia p. 98
4. Le due uova p. 100
5. Pinocchio e la medicina p. 103
6. La piuma di gallina p. 108
7. La principessa e il sale p. 112
8. Il paese dove non si muore mai p. 118
9. Quel che fa il babbo è sempre ben fatto p. 125
10. L’uccello di fuoco p. 130
11. Le tre zucche p. 136
12. Disgrazia o benedizione p. 140
13. I musicanti di Brema p. 144
14. I tre fratelli p. 152
15. Fratellino e sorellina p. 156
1. Passa il tempo p. 166
2. Autunno p. 167
3. I giorni del calendario p. 168
4. I mesi p. 169
5. Indovina chi è p. 170
6. Dicembre p. 170
7. Buon Natale! p. 171
8. È arrivata la neve p. 172
9. Febbraio p. 173
10. Marzo p. 174
11. Mamme e cuccioli p. 175
12. La lingua dei nonni p. 176
13. Dorme il gallo –Una storia in rima p. 177
1. Una parola magica p. 179
2. Le piccole cose belle p. 181
3. Il contadino p. 183
4. Il grillo e la formica p. 186
5. Oh, che bel castello! p. 188
Quiz finale p. 190
Fonti p. 191
C’erano una volta tre orsi che vivevano in una piccola casa nel bosco.
C’era Papà Orso grosso grosso, con una voce grossa grossa ; c’era Mamma Orsa grossa la metà, con una voce grossa la metà; e c’era un Orsetto piccolo piccolo con una voce piccola piccola .
Una mattina i tre orsi facevano colazione, ma visto che la zuppa d’orzo era troppo calda, Papà Orso propose di fare una passeggiata nel bosco mentre aspettavano che si raffreddasse.
Appena se ne furono andati, arrivò una piccola bimba chiamata Riccioli d’oro.
Quando vide la casetta, si domandò chi mai potesse vivere là dentro e bussò più volte, ma nessuno rispose: la bimba allora aprì la porta ed entrò.
* Le storie di questa sezione sono state scelte perché si prestano ad essere ri-raccontate con facilità. Tranne una, iniziano tutte con «C’era una volta».
Vide una tavola apparecchiata per tre.
C’era una ciotola grossa grossa , una ciotola grossa la metà e una ciotola piccola piccola .
Assaggiò la zuppa nella ciotola grossa, ma era troppo calda; quella nella ciotola media invece era troppo fredda; infine assaggiò la zuppa nella ciotola piccola, vide che andava bene e se la mangiò tutta.
Poi entrò in un’altra stanza e vide tre sedie: una era grossa grossa , un’altra era grossa la metà e l’ultima era piccola piccola , l’unica che poteva andare bene per lei. Ma vi si sedette con tanta forza che la ruppe.
Entrò in un’altra stanza dove c’erano tre letti: uno grosso grosso e duro, un secondo letto grosso la metà ma troppo molle, e poi un letto piccolo piccolo che faceva proprio al caso suo. Si accomodò per bene, si
Mentre Riccioli d’oro dormiva, i tre orsi tornarono dalla passeggiata nel bosco.
Quando entrarono e videro la tavola, Papà Orso disse con la sua grossa voce: «Qualcuno ha assaggiato la mia zuppa!».
Anche Mamma Orsa disse la stessa cosa.
L’Orsetto piccolo invece disse con la sua piccola voce: «Qualcuno ha assaggiato la mia zuppa e se l’è mangiata tutta!».
Entrarono poi nella seconda stanza; Papà Orso guardò la sua sedia e disse: «Qualcuno si è seduto sulla mia sedia!».
Anche Mamma Orsa disse lo stesso. L’Orsetto piccolo anche stavolta, con la sua piccola voce, disse: «Qualcuno si è seduto sulla mia sedia e l’ha rotta!».
I tre orsi entrarono infine nella camera da letto.
Papà Orso disse con la sua grossa voce: «Qualcuno si è steso sul mio letto!».
Anche Mamma Orsa disse lo stesso. L’Orsetto piccolo gridò con la sua piccola voce: «Qualcuno si è steso sul mio letto ed è ancora qui che dorme!».
Riccioli d’oro, sentendo quelle voci attorno a lei, si svegliò e si spaventò nel vedere i tre orsi che la guardavano.
E subito l’Orsetto le disse: «Sei stata tu a bere la mia zuppa e a rompere la mia sedia!».
Riccioli d’oro capì di aver sbagliato a fare tutte quelle cose senza chiedere il permesso a nessuno e se ne vergognò molto. Gli orsi, vedendo che la bambina era sincera, la perdonarono subito e le permisero di giocare per il resto del pomeriggio con il piccolo Orsetto.
Si divertirono molto e alla sera Papà Orso e Mamma Orsa le regalarono un barattolo pieno di orzo, in modo che, ogni volta che avesse mangiato la zuppa, avrebbe potuto pensare un po’ ai suoi nuovi amici.
1. Leggi e racconta la storia cambiando tono di voce a seconda dei personaggi.
2. Quanto ti è piaciuta questa storia? Colora i cuori.
C’erano una volta un nonno e una nonna che avevano una nipotina di nome Masha.
Un giorno le amichette di Masha passarono a chiamarla per andare tutte insieme a raccogliere funghi e bacche nel bosco.
«Nonnino, nonnina, posso andare nel bosco con le mie amichette?», chiese Masha.
E i nonni risposero: «Va bene, ma bada a non allontanarti mai dalle altre, altrimenti potresti perderti!».
Le bambine entrarono nel bosco e cominciarono a raccogliere funghi e bacche.
Cercando di albero in albero, di cespuglio in cespuglio, Masha si spinse sempre più lontano dalle sue amichette. Quando se ne accorse, la bambina iniziò a chiamarle, a gridare, ma nessuno la sentì e nessuno le rispose.
Allora prese a girare e a vagare, finché non capì che si era persa davvero!
Cammina cammina, Masha
arrivò nella parte più fitta e isolata del bosco.
A un tratto vide una casa; la bambina si avvicinò e bussò, ma nessuno venne ad aprire. Quando però provò a spingere la porta, questa si spalancò.
Masha allora entrò nella casetta e si sedette su una panca vicino alla finestra, domandandosi curiosa:
«Chi abiterà mai qui? E perché non si vede nessuno?».
In verità, la casetta apparteneva a un orso grande e grosso, che in quel momento era fuori, nel bosco. Quando rincasò, quella sera, fu molto contento di trovare una bambina.
«Ah!», disse tutto soddisfatto. «Ora non ti lascerò mai più andare via! Vivrai qui con me: accenderai la stufa, cucinerai e mi apparecchierai la tavola». Masha si rattristò, protestò e si disperò, ma non ci fu niente
da fare. Così prese a vivere a casa dell’orso: lui se ne andava tutta la giornata nel bosco e non le permetteva mai di uscire.
«Se dovessi provare a scappare», diceva, «io ti troverò e ti mangerò!».
Nonostante la paura, Masha cominciò a pensare a un modo per andarsene da lì. Ma come avrebbe potuto fare? Tutto intorno non c’era altro che bosco, e lei non conosceva la strada di casa, né c’era qualcuno a cui chiederla…
Pensò e ripensò, finché non le venne un’idea.
Un giorno, quando l’orso fu di ritorno dal bosco, Masha gli disse: «Orso, orso, vorrei portare qualcosa ai miei nonni, ti prego, permettimi di andare una giornata al villaggio!».
«No!», disse l’orso. «Nel bosco ti smarriresti. Se vuoi mandare qualcosa ai tuoi nonni, dallo a me: lo porterò io al villaggio».
Masha non aspettava altro!
Preparò dei pasticcini, prese un grosso cesto e disse all’orso:
«Orso, metterò i pasticcini in questo cesto e tu li porterai al nonno e alla nonna, ma bada bene: non aprire il cesto e non mangiare i pasticcini. Io mi arrampicherò su quella quercia e ti terrò d’occhio da lassù!».
«Va bene», disse l’orso, «dammi quel cesto!».
Prima di darglielo però, Masha gli disse: «Vedi un po’ se fuori piove…». L’orso uscì per controllare e Masha si infilò in fretta nel cesto, si raggomitolò e si mise il piatto di pasticcini sulla testa.
Quando l’orso rientrò e vide il cesto bell’e pronto, se lo caricò sulle spalle e, pensando che Masha fosse già salita sulla quercia, si mise in marcia verso il villaggio.
Camminò tra abeti e betulle, giù nei burroni e su per le colline, finché non cominciò a sentirsi stanco.
Allora si fermò, si guardò intorno e disse fra sé e sé: «Questo è proprio un bel posticino per mangiarsi un buon pasticcino».
Ma, proprio mentre stava per aprire il cesto, udì la vocina di Masha: «Orso, ti vedo! Ti vedo dall’alto della quercia! Non toccare i pasticcini, porta tutto ai miei nonnini!». «Che vista acuta ha quella bambina!», pensò l’orso. «Non le sfugge niente!».
Così si rimise il cesto in spalla e proseguì.
Dopo un po’ però la stanchezza si fece di nuovo sentire. L’orso allora si fermò, si sedette e disse fra sé e sé: «Questo è proprio un bel posticino per mangiarsi un buon pasticcino».
Ma Masha, dal cesto, esclamò: «Orso, ti vedo! Ti vedo! Non toccare i pasticcini, porta tutto ai miei nonnini!».
«Com’è furba quella bambina!», pensò l’orso.
«Deve essersi messa molto in alto per vedere fin quaggiù!».
Quindi si rialzò, si rimise il cesto in spalla e riprese a camminare. Giunto al villaggio, trovò la casa dove abitavano il nonno e la nonna della bambina e bussò con forza alla porta: «Toc, toc, toc! Aprite, voi di casa! Masha vi manda dei pasticcini!».
Ma i cani, che avevano fiutato la presenza dell’orso, gli si lanciarono addosso, abbaiando e accorrendo da tutti i cortili.
Spaventato a morte, l’orso posò il cesto accanto alla porta e fuggì via nel bosco senza mai voltarsi indietro.
Il nonno e la nonna si affacciarono sull’uscio, si guardarono intorno e videro il cesto per terra. «Cosa mai ci sarà dentro quel cesto?», chiese la nonna.
Il nonno sollevò il coperchio e quando guardò all’interno non credette ai suoi occhi: dentro
il cesto c’era la loro piccola Masha, sana e salva!
Il nonno e la nonna, felici come non mai, presero ad
abbracciare e baciare la nipotina e, quando ebbero udito tutta la storia, si complimentarono con lei per essere stata così furba.
1. Conoscevi già la storia di Masha e l’Orso? Se sì, ti sembra sia uguale o diversa dalla storia che hai appena letto?
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta un re che era molto malato. «Cedo metà del mio regno a chi mi guarirà», disse un giorno.
Saggi e sapienti si riunirono a consulto per cercare una cura. Invano. Uno soltanto disse di sapere come fare.
E spiegò: «Maestà, per guarire basterà trovare un uomo felice, togliergli la camicia e farvela indossare».
Il re mandò subito a cercare un uomo felice per tutto il regno. I messi cercarono e cercarono, ma non ne trovarono neanche mezzo. In tutto il regno non c’era un solo uomo che fosse contento di tutto.
Ognuno si lamentava di questo o di quello.
Una sera, mentre passava accanto a una casetta di contadini, il figlio del re sentì una voce che diceva: «Dio ti ringrazio: anche oggi ho lavorato e mangiato a sazietà e ora vado a dormire. Che altro potrei desiderare?».
Il figlio del re era al settimo cielo. Ordinò ai messi di entrare e togliere la camicia all’uomo felice, di lasciargli in cambio tutti i soldi che voleva e di portare subito la camicia al re.
1. Racconta la storia.
I messi entrarono, ma si accorsero che l’uomo felice era così povero che non aveva neppure una camicia da indossare nei giorni di festa. Il re capì che non si può avere tutto e accettò la sua situazione.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta un giovane che aveva deciso di andare in America a tentare la fortuna. Vendette le poche cose che aveva e a stento riuscì a comprare il biglietto per il viaggio.
Attendendo la nave per la partenza fu preso dalla fame, ma non aveva neppure un soldo.
Decise di entrare comunque in un’osteria e ordinò due uova al tegamino.
Andò poi dall’oste e gli disse: «Quando ritornerò dall’America ve le pagherò». «Va bene», rispose l’oste.
Qualche anno dopo l’uomo fu di ritorno dall’America e, come concordato, andò all’osteria e disse:
«Sono venuto per pagare il debito delle due uova».
«Va bene», rispose l’oste, «vado a preparare il conto».
Quando ritornò, gli presentò un conto esagerato.
«Vi pare giusto che paghi questa cifra enorme per due uova?».
«Certamente», ribatté l’oste.
«Se avessi messo queste uova sotto la chioccia sarebbero nati i pulcini, che poi sarebbero diventati galline. Le galline poi avrebbero fatto altre uova, altri pulcini, quindi altre galline e così via. Se non mi pagate chiamerò il giudice».
L’uomo non pagò il conto e il giudice fu chiamato.
Il pover’uomo, mentre se ne andava sconsolato verso la vecchia casa, incontrò un contadino e gli raccontò la situazione. Il contadino disse: «Vi farò io da avvocato durante il processo».
Quando arrivò il giorno del giudizio il debitore e l’oste erano davanti al giudice, ma l’avvocato contadino non si faceva vedere.
Finalmente dopo un’ora arrivò e il giudice contrariato gli chiese: «Perché siete così in ritardo?».
«Perché siccome è il periodo delle semine ho dovuto lessare le patate per poterle piantare nel campo».
Tutti si misero a ridere e il giudice gli chiese:
«Ma come? Voi bollite le patate prima di piantarle? E sperate che poi nascano?».
«Sì, l’ho imparato dall’oste, che cuoce le uova prima di metterle sotto la chioccia».
Tutti capirono che le pretese dell’oste erano insensate e il giudice assolse il debitore.
1. Racconta la storia.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
La Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire.
Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:
«Bevila, e in pochi giorni sarai guarito».
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:
«È dolce o amara?».
«È amara, ma ti farà bene».
«Se è amara non la voglio».
«Da’ retta a me: bevila».
«A me l’amaro non mi piace».
«Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca».
«Dov’è la pallina di zucchero?».
«Eccola qui», disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.
* Testo originale.
«Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara…».
«Me lo prometti?». «Sì…».
La Fata gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri: «Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!… Mi purgherei tutti i giorni».
«Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute».
Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse: «È troppo amara! Troppo amara! Io non la posso bere». «Come fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata?».
«Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la beverò!».
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere. «Così non la posso bere!» disse il burattino, facendo mille smorfie.
«Perché?».
«Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiù su i piedi».
La Fata gli levò il guanciale.
«È inutile! Nemmeno così la posso bere».
«Che cos’altro ti dà noia?».
«Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto».
La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.
«Insomma» gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto «quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…».
«Ragazzo mio, te ne pentirai…».
«Non me n’importa…».
«La tua malattia è grave…».
«Non me n’importa…».
«La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…».
«Non me n’importa…».
«Non hai paura della morte?». «Nessuna paura! … Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva».
A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
«Che cosa volete da me?»
gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.
«Siamo venuti a prenderti» rispose il coniglio più grosso. «A prendermi?… Ma io non sono ancora morto!…».
«Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito della febbre!…».
«O Fata mia, o Fata mia!» cominciò allora a strillare il burattino «datemi subito quel bicchiere… Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no… non voglio morire».
E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo votò in un fiato. «Pazienza!» dissero i conigli.
«Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo».
E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:
«Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?».
«Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!…».
«E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?».
«Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male».
«Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte…».
«Oh! Ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle… e allora piglierò subito il bicchiere in mano, e giù!…».
1. Nel dialogo colora con il pastello azzurro la voce della fata e in verde quella di Pinocchio.
2. Leggi a più voci con i compagni, come in una recita.
3. Sottolinea le parole e le frasi che ti sembrano difficili o «strane».
C’era una volta un pollaio ai bordi di una piccola città.
Al tramonto le galline stavano rientrando nel pollaio, quando una di loro, molto rispettabile, si beccò il petto e perse una piccola piuma. Nel vederla volar via, esclamò: «L’ho persa! Pazienza, più mi spenno e più divento bella!».
Disse così perché era la gallina più spiritosa di tutte. E sorridendo tra sé si addormentò.
Ma un’altra gallina dall’altro lato del pollaio, che aveva udito di sfuggita la frase, non riuscì a trattenersi dal riferirla alla sua vicina. «Hai sentito cos’hanno detto? C’è una gallina,
non voglio fare nomi, che si vuole spennare per diventare più bella! Se fossi un gallo, io la disprezzerei!».
In quel momento una civetta che sorvolava il pollaio sentì quello che si dicevano le due galline, parola per parola, e andò subito a dirlo al marito, che era appollaiato insieme ai loro piccoli: «Non crederai a quello che ti dirò! C’è una gallina del pollaio che passa il giorno a beccarsi le piume una a una per farsi vedere dal gallo!».
Il marito stralunò gli occhi
esclamando: «Non sono cose per i piccoli queste, anzi, notizie del genere non dovrebbe udirle nessuno! Vado a dirlo ai nostri vicini, che sono tanto stimati e sapranno cosa fare». E volò sull’albero di fronte.
«Avete sentito?», disse ai colombi che abitavano lì.
«C’è una gallina che si è tolta tutte le penne per farsi bella davanti al gallo! Adesso sta morendo di freddo, anzi, ormai sarà già morta!».
«Dove è successo?», chiesero i colombi.
«Nel pollaio sull’altro lato della strada, mia moglie l’ha vista con i suoi occhi, una cosa da non credere! Ma è proprio vero!».
«Ci crediamo, ci crediamo», dissero i colombi e si
chinarono sul cortile gridando:
«C’è una gallina, anzi, alcuni dicono che sono due, che si sono tolte tutte le penne per distinguersi dalle altre e attirare l’attenzione del gallo. È un gioco pericoloso, si può prendere il raffreddore e morire dal freddo, e loro sono già morte entrambe!».
«Sveglia, sveglia!», cantò il gallo volando sullo steccato. Era ancora assonnato, ma continuò lo stesso a cantare: «Tre galline si sono strappate tutte le penne e sono morte d’amore infelice per un gallo! È
una storia terribile, non voglio tenerla per me, raccontate, raccontate!».
E così la storia cominciò a passare da un pollaio all’altro della città, finché non ritornò a quello da cui era partita. «Ci sono cinque galline», raccontò qualcuno, «che si sono strappate tutte le penne per vedere chi era diventata più magra, tanto che alla fine sono morte! Uno scandalo enorme per l’intero pollaio!».
La gallina che aveva perso una piuma soltanto naturalmente non riconobbe la sua storia e, poiché era una gallina rispettabile, disse: «Che vergogna! Io disprezzo il comportamento di queste galline, purtroppo ce ne sono tante come loro. Un fatto così grave non può passare sotto
silenzio, farò in modo che esca sui giornali, così si diffonderà in tutto il paese. Ben gli sta a quelle galline!».
E così la storia finì stampata sui giornali, ed è proprio vero: si comincia con una piuma e si finisce con cinque galline!
1. Evidenzia le parole o le espressioni più interessanti.
2. Quanto ti è piaciuta questa storia? Colora i cuori.
C’era una volta un re di un paese lontano che aveva tre figlie.
Un giorno le chiamò tutte e tre e chiese alla maggiore: «Quanto mi vuoi bene, figlia mia?».
«Ti voglio bene come al pane», gli rispose quella.
«Allora io sono contento, perché il pane è buono»,
disse il padre e si rivolse alla seconda figlia. «E tu quanto mi vuoi bene?».
«Ti voglio bene come al vino».
Disse allora il padre: «Anche di te sono contento, perché il vino mi piace.
E te, piccina, dimmelo anche tu, quanto mi vuoi bene?».
La figlia più piccola, dopo averci pensato su, rispose:
«Ti voglio bene come al sale».
«Oh, sconsiderata», si offese il re.
«Una figlia malvagia come te non può più stare qui. Vattene via di casa e non farti più vedere».
La povera ragazza scappò via con le lacrime agli occhi e raccontò tutto quello che era
successo alla sua balia, che la consolò dicendo: «Non vi disperate, verrò io con voi, prendete un sacchetto di monete d’oro e partiamo».
Fuggirono quindi da palazzo e vagarono per molti paesi, ma la fanciulla era talmente bella che la balia aveva sempre paura che qualcuno la rapisse. Cucì perciò un costume con il quale travestì la fanciulla da vecchia.
Così conciata nessuno la importunava più.
Un giorno arrivarono in una grande città e per strada incontrarono il figlio del re, che era un giovanotto piuttosto allegro.
Quando vide la ragazza travestita da vecchina gli parve molto buffa, così la fermò e le chiese: «Oh,
nonnina! Quanti anni avete voi?».
«Centoquindici».
«Caspita!», si meravigliò il principe. «E di dove siete?».
E la vecchia rispose: «Del mio paese». «E i vostri genitori chi sono?». «Il mio babbo e la mia mamma».
«E che mestiere fate?».
«Non vedi? Vado a spasso».
Il figlio del re, a sentire tutte quelle matte risposte, rideva a più non posso, tanto che convinse il re e la regina a portarla a palazzo. Prepararono una stanza per lei e il principe andava spesso a trovarla, perché si divertiva.
Un giorno la regina le fece portare del lino grezzo da filare perché non si annoiasse.
E la fanciulla, chiusa in camera da sola, si tolse il travestimento da vecchina e filò tutto quel lino così bene che alla fine era proprio una meraviglia a vedersi.
A corte tutti rimasero sbalorditi.
La regina disse allora alla vecchia: «Siccome lavorate
tanto bene di filato, provate a cucire una camicia per il mio figliolo».
Le portarono dunque della tela sopraffina e la finta vecchia, chiusa di nuovo la porta a chiave, tagliò e cucì una bellissima camicia tutta ricamata di fiori d’oro.
Tutti si stupirono di nuovo e non sapevano che cosa pensare di una simile bravura. Ma il figlio del re cominciò a sospettare che ci fosse qualche imbroglio, e si diceva:
«Questa vecchina si chiude sempre a chiave quando lavora e quando mangia, così che nessuno la possa vedere. Voglio sapere cosa fa lì tutta sola».
Quando il giorno dopo le portarono da mangiare, il principe la spiò dal buco della serratura e vide che la vecchina si toglieva il travestimento e che sotto c’era una bellissima ragazza.
Entrò allora nella stanza: «Oh! Chi sei quindi tu? Perché ti travesti in quel modo?».
La ragazza spaventata gli raccontò tutta la storia di come suo padre, anche lui re, l’aveva scacciata di casa. Il principe, tutto allegro per la scoperta, corse a chiamare i suoi genitori e disse:
«Ho trovato moglie, la figlia di un re. Venite a vederla».
Il re e la regina furono d’accordo sulle nozze e bandirono una festa invitando tutti i nobili vicini e lontani.
Il giorno del banchetto giunse al castello anche il padre della sposa, che però non riconobbe la figlia.
Durante il pranzo di nozze, la fanciulla fece in modo che a suo padre fossero servite tutte le pietanze senza sale, così egli non toccò cibo.
Alla fine, la sposa chiese al padre:
«E voi, che siete venuto da tanto lontano, come
mai non avete mangiato nulla?».
Egli rispose: «Che posso dire? Non so se è usanza di questi paesi, ma io il cibo senza sale non lo posso mangiare».
«Dunque voi volete bene al sale?», chiese ancora la sposa.
«Sicuro, perché senza sale io non so stare».
«Allora, caro padre» esclamò la sposa, «perché mi hai mandata via di casa, quando ho paragonato il bene che ti
A queste parole il padre
riconobbe sua figlia e disse forte: «Hai ragione! Ho sbagliato e ti chiedo perdono, e ti benedico con tutto il cuore».
Così, fatta la pace e tornati tutti d’accordo, fecero una tal festa, che di simili non se ne erano mai viste e vissero sempre felici e contenti.
1. Racconta la storia.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta, in un paese, un giovane un po’ strano che si diceva: «Questa storia di dover morire non mi va proprio a genio».
E pensa e ripensa, un giorno decise di partire.
«Voglio andare in giro per il mondo, in cerca del paese dove non si muore mai».
Cammina e cammina, finalmente incontrò un vecchio che spingeva una carriola di pietre.
«Buon vecchio», gli domandò. «Sapreste indicarmi la strada che conduce al paese dove non si muore mai?».
«La strada proprio non la conosco», rispose il vecchio,
asciugandosi la fronte dal sudore. «Ma se resti con me, vivrai cento anni! Devo costruire una montagna con queste pietre e mi occorrono giusto cento anni».
«E raggiunti i cento anni dovrò morire?».
«Certo, dovrai morire».
«Allora grazie tante, ma con voi non ci resto. Cent’anni di vita sono troppo pochi».
«Buon vecchio», gli domandò.
«Sapreste indicarmi la strada che porta al paese dove non si muore mai?».
E riprese il cammino. E via e via, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, finalmente arrivò in un bosco, così fitto e buio, che nessuno prima di lui aveva avuto il coraggio di attraversarlo.
Si fece forza e proseguì tra alberi alti e frondosi finché raggiunse una radura piena di sole. Un vecchio boscaiolo stava abbattendo delle piante, con colpi misurati d’accetta.
«Magari la conoscessi» rispose il vecchio, posando l’accetta. «Ma se vuoi vivere duecento anni, resta con me, perché questo è il tempo che mi occorre per tagliare tutto il bosco».
«E compiuti i duecento anni dovrò morire?».
«Proprio così».
«Duecento anni di vita per me sono pochi. Grazie tante, ma me ne vado».
E proseguì camminando per giorni, mesi, stagioni e anni, finché arrivò a un lago sterminato, dove vide un vecchio con un anatroccolo.
«Buon vecchio», gli domandò.
«Sapreste dirmi quale direzione devo prendere per raggiungere il paese dove non si muore mai?».
«Proprio non lo so», rispose quello. «Ma se resti con me vivrai trecento anni, giusto
il tempo necessario perché l’anatroccolo beva l’acqua di questo lago».
«E dopo trecento anni?».
«Dovrai morire, ecco tutto!». «No, no, trecento anni sono troppo pochi. Io cerco il paese dove la vita non finisce mai!».
Riprese il viaggio e camminò per giorni, mesi e anni: il tempo passava, passava…
Una sera arrivò davanti a un meraviglioso castello e bussò. Gli venne ad aprire un vecchietto grinzoso, tutto coperto da una gran barba bianca.
«Cosa cerchi, buon giovane, in questo posto ai confini del mondo?».
«Voglio trovare il paese dove non si muore mai!».
«È proprio questo! Lo hai trovato», gli rispose il vecchietto.
«Allora posso restare?».
«Certo. Sono felice che tu mi tenga compagnia».
Da quel momento, il giovane restò nel castello con il vecchietto. Faceva una vita da gran signore e non si accorgeva neppure che il tempo passava e cambiavano le stagioni trasformando le cose.
Un giorno, d’improvviso, fu preso da una acuta nostalgia del paese in cui era nato, dei luoghi della sua infanzia, delle persone che aveva lasciato.
«Voglio tornare a casa», disse al vecchietto che lo sconsigliò di fare quel viaggio, faticoso e inutile.
«Non troverai più nessuno di quanti hai conosciuto. Le cose sono cambiate: il tempo muta ogni cosa, cancella tutto».
Ma il giovane si intestardì ogni giorno di più e non voleva sentire ragione.
«Se proprio vuoi tornare a casa», gli disse il vecchietto, «non sarò io a trattenerti. Fa’ quello che vuoi. Anzi, ti regalo il mio cavallo che non si stanca mai di camminare. Stai attento però a non scendere mai di sella, per nessuna ragione. Se toccherai terra anche solo con un piede, sappi che morirai».
Il giovane ringraziò dell’avvertimento, salutò il vecchietto calorosamente, montò a cavallo e filò via di gran galoppo. Man mano che passava per un luogo, cercava di riconoscerlo.
«Ma qui c’era il vecchietto con l’anatroccolo!». Il lago era scomparso e del vecchio erano rimaste soltanto poche ossa sulla riva.
«Ho fatto bene a non fermarmi qui. Adesso sarei già morto».
Galoppa e galoppa, arrivò
dove, un tempo, c’era stato il bosco. Adesso si estendeva il deserto e nel deserto c’era un’accetta arrugginita. «Oh, qui ho incontrato il boscaiolo», pensò. «Vedi? Ho fatto bene a non ascoltarlo: ora sarei già morto».
Galoppò ancora, finché trovò un’enorme montagna di pietre e lì vicino una carriola mezza coperta di erbacce.
«Mi ricordo il vecchio che spingeva la carriola! È morto anche lui: ho fatto bene a non fermarmi, adesso sarei morto».
Arrivò infine al suo paese e restò sorpreso: non gli pareva più quello, non conosceva nessuno e nessuno conosceva lui. Si sentì veramente solo, oppresso da una grande malinconia e pianse.
«Voglio tornare al castello, dove niente cambia»,
pensò e si mise sulla via del ritorno.
A metà del suo cammino, incontrò un vecchio che cercava di trainare un carretto di scarpe vecchie. La strada era bloccata.
«Per carità, aiutami, da solo non ce la faccio a tirare questo peso!».
«Non posso scendere da cavallo», rispose il giovane. Ma poi, impaziente, smontò per aiutarlo a spostare di lato il carretto.
Appena messo un piede a terra, il vecchio l’afferrò e sghignazzando disse:
«T’ho preso finalmente! Vedi queste scarpe rotte? Le ho consumate a furia di correrti dietro. Io sono la Morte, e adesso non potrai più sfuggirmi».
E così, alla fine, anche il giovane dovette morire.
1. Evidenzia le parole o le espressioni più interessanti.
2. Racconta la storia.
3. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta una piccola casa di campagna, con il tetto in paglia, dove viveva una coppia di contadini. Possedevano pochissime cose, tra le quali un cavallo che usavano per andare in città.
Un giorno, però, decisero che del cavallo potevano anche fare a meno, e che forse sarebbe stato meglio venderlo o scambiarlo.
Il contadino si mise allora in viaggio in groppa al cavallo per andare al mercato.
Sulla strada affollata di gente vide un uomo che conduceva una mucca.
Gli sembrò la mucca più bella del mondo: «Scommetto che fa anche dell’ottimo latte, ecco l’occasione per fare un buon cambio», pensò tra sé e poi si rivolse all’uomo.
«Salve! Che ne dici di scambiare la tua mucca con il mio cavallo? So che il cavallo
vale di più, ma non importa, perché a me farebbe proprio comodo la mucca».
«Certo!», rispose l’altro, ben contento dell’affare vantaggioso.
Concluso lo scambio, il contadino sarebbe potuto tornare a casa, ma decise di fare lo stesso un giro al mercato, così proseguì sulla strada.
Dopo poco raggiunse un altro uomo che conduceva una pecora, ben pasciuta e coperta di lana.
«Con quella lana potremmo tenerci caldi di inverno…», si disse il contadino e chiamò l’uomo: «Ehilà tu! Ti do la mia mucca per la tua pecora, ti va di fare a cambio?».
«Molto volentieri!», rispose subito l’uomo. Lo scambio fu fatto e il contadino proseguì soddisfatto con la sua pecora.
Incrociò poi un terzo uomo che teneva un’oca bella grossa sotto braccio.
«Che bell’animale!», disse. «Come sarebbe contenta mia moglie di avere un’oca così!
Se me la dai, in cambio ti do questa pecora».
«Certo che sì!», rispose l’altro
sorpreso, e si scambiarono gli animali.
Felice, con l’oca sotto braccio, il contadino giunse alle porte della città e vide il guardiano che legava la sua gallina a un palo perché non si perdesse nella folla.
«Questa è proprio una bella gallina, chissà che uova meravigliose fa! Vuoi fare cambio con la mia oca?».
«Ben volentieri!», rispose il guardiano slegando la gallina e prendendosi l’oca.
Stanco e accaldato, il contadino decise di fare una sosta nell’osteria. Entrando si scontrò con il garzone che portava un grosso sacco sulle spalle.
«Oibò, che cosa porti lì dentro?».
«Mele marce da dare ai maiali», rispose il ragazzo.
«Ah, come mi piacerebbe che mia moglie le vedesse! Facciamo cambio, ti do la mia gallina per il sacco di mele!».
Il garzone non credeva alle sue orecchie: «Subito!», rispose. E un altro scambio fu fatto.
Il contadino entrò quindi nell’osteria con il sacco sulla schiena. Uno dei clienti, che veniva da lontano ed era un
uomo molto ricco, lo guardò
incuriosito e gli chiese cosa trasportava lì dentro.
Il contadino allora raccontò di come aveva scambiato il cavallo con la mucca, la mucca con la pecora e così via fino alle mele.
«Ahi, ahi!», disse l’uomo scuotendo la testa divertito.
«Sei partito da casa con un cavallo e torni con delle mele marce, mi sa che stasera te le sentirai da tua moglie!».
«Non penso proprio», rispose il contadino. «Mi darà un bacio
e dirà: “Quel che fa il babbo è sempre ben fatto!”».
«Se sei così sicuro, scommettiamo un sacco di monete d’oro che te ne dirà di tutti i colori!».
Il contadino accettò la scommessa e insieme fecero ritorno alla casetta in campagna.
«Bentornato!», lo accolse contenta la moglie. «Come è andata al mercato?».
«Benissimo cara!», rispose lui. «Ho scambiato il cavallo con una mucca».
«Oh bene! Il latte non ci mancherà».
«Ma poi ho scambiato la mucca con una pecora».
«Ancora meglio, avremo la lana per l’inverno».
«L’ho pensato anch’io, poi però ho scambiato la pecora con un’oca».
«Che meraviglia! Potremo far festa con una bella oca arrosto!».
«Ma l’oca poi l’ho scambiata con una gallina».
«Una gallina! Uova fresche tutti i giorni!».
«Sì, ma poi ho dato via la gallina in cambio di questo sacco di mele marce per il maiale».
«Adesso ti meriti davvero un bacio!».
L’uomo ricco rimase sbalordito e consegnò la borsa di monete d’oro ai due contadini, che vissero a lungo felici e contenti.
1. Discuti con i tuoi compagni sui contenuti di questa storia.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta un re vanitoso e crudele che voleva sempre avere tutto.
Nel suo regno viveva un giovane arciere che possedeva un cavallo straordinario.
Un giorno l’arciere se ne andò a caccia nel bosco con il suo cavallo e trovò una piuma d’oro dell’uccello di fuoco.
Il cavallo gli disse: «Non prendere la piuma d’oro. Se la prendi, un guaio ti attende!».
Il giovane però non diede ascolto al suo cavallo, raccolse la piuma dell’uccello di fuoco e la presentò in dono al re, sperando di ottenere una ricca ricompensa. «Grazie», disse il re. «Visto che sei stato capace di trovare una piuma dell’uccello di fuoco, adesso devi trovarmi anche l’uccello. Se non lo trovi, ecco la mia spada: la tua testa cadrà!».
L’arciere versò calde lacrime e andò dal suo valente cavallo. «Di che piangi, padrone?».
«Il re mi ha ordinato di trovargli l’uccello di fuoco». «Te l’avevo detto di non prendere la piuma! Ma non aver paura: ti aiuterò. Spargi nel campo dieci sacchi di grano e aspetta nascosto che arrivi il mattino».
E così fece il giovane arciere.
D’un tratto il bosco stormì: ecco volare l’uccello di fuoco.
Arrivò, si posò a terra e prese a beccare il grano. Il cavallo si avvicinò all’uccello di fuoco e gli posò uno zoccolo sull’ala. L’arciere accorse, lo legò con uno spago e galoppò con la preda verso la reggia.
Al vedere l’uccello di fuoco, il re si rallegrò, poi però disse: «Sei stato capace di raggiungere l’uccello di fuoco.
Adesso trova anche la mia fidanzata che vive ai confini della terra, dove nasce il sole. Si chiama Vassilissa ed è proprio lei la fanciulla che voglio sposare. Se non la trovi, ecco la mia spada: la tua testa cadrà!».
L’arciere pianse amare lacrime e andò dal suo valente cavallo. «Di che piangi, padrone?», domandò il cavallo.
«Il re mi ha ordinato di trovargli
la principessa Vassilissa».
«Non piangere, ti aiuterò io.
Procurati cibo, bevande e una tenda dalla cupola d’oro». Il giorno seguente, il prode arciere salì sul suo cavallo e partì.
Galoppa, galoppa, arrivò ai confini del mondo, dove il sole sorge dal mare azzurro.
Scrutò l’orizzonte e vide la principessa Vassilissa che navigava su una barchetta d’argento e vogava con i remi d’oro. L’arciere portò il suo cavallo a pascolare e montò la tenda dalla cupola d’oro.
Vassilissa vide la cupola d’oro e vogò fino a riva, scendendo dalla barchetta per ammirare la tenda.
«Salute, principessa Vassilissa», disse l’arciere.
«Fatemi l’onore di accettare la mia ospitalità e assaggiare pietanze e bevande d’oltre mare».
La principessa entrò nella tenda e i due cominciarono a bere e a mangiare. Quando la principessa si addormentò, l’arciere la mise sul cavallo e si mise in viaggio galoppando velocemente.
Arrivò dal re, che fu contentissimo di vedere la principessa. Ma quando Vassilissa si svegliò e apprese che si trovava ben
lontana dal mare, cominciò a piangere.
Appena seppe che il re voleva sposarla, disperata disse:
«Lascia che quello che mi ha portata qui vada a prendere il mio abito nuziale che si trova nascosto in mezzo al mare sotto una grossa pietra. Io non mi sposerò se non avrò quel vestito».
Subito il re andò dall’arciere:
«Va’! Presto! Vai ai confini del mondo, dove sorge il sole; trova quell’abito e portalo qua! Se non lo trovi, ecco la mia spada: la tua testa cadrà!».
L’arciere pianse lacrime amare e andò dal suo valente cavallo.
«Di che piangi, padrone?», domandò il cavallo.
«Il re mi ha ordinato di cercargli sul fondo del
mare l’abito nuziale della principessa Vassilissa».
«Ecco! Te l’avevo detto di non prendere la piuma d’oro, perché ti sarebbero capitati dei guai! Suvvia, ora non temere, ti aiuterò io. Monta su di me e torniamo al mare».
Galoppa e galoppa, l’arciere arrivò ai confini del mondo e si fermò proprio sulla riva del mare; il cavallo vide un enorme gambero marino che camminava sulla sabbia e gli
mise sul collo il suo pesante zoccolo. Il gambero marino supplicò: «Non uccidermi, lasciami vivere! Farò tutto quel che ti occorre!».
Gli rispose il cavallo: «In mezzo al mare giace una grossa pietra, sotto questa pietra è nascosto l’abito nuziale della principessa Vassilissa: portami quell’abito!».
Il gambero chiamò tutti gli altri gamberi in aiuto e diede l’ordine di cercare il vestito nuziale della principessa.
E così fu.
L’arciere tornò dal re, portando il prezioso abito. Ma Vassilissa avanzò una nuova richiesta.
«Non ti sposerò», disse al re, «finché non avrai dato ordine al giovane arciere che mi ha rapita di fare un bagno nell’acqua bollente».
Il re acconsentì.
Quando tutto fu pronto portarono il povero arciere che supplicò il re: «Re!
Sovrano! Permettimi prima di morire di dire addio al mio cavallo».
«Bene, vai a dirgli addio».
L’arciere andò dal suo valente cavallo e pianse disperato.
«Di che piangi, padrone?»
«Il re m’ha ordinato di fare un bagno nell’acqua bollente».
«Non temere, non piangere, ti aiuterò io!», lo rassicurò il
cavallo e fece un incantesimo sull’arciere affinché il bollore non gli nuocesse.
Così, quando i servi lo gettarono nel pentolone, egli, invece di scottarsi, diventò bellissimo.
Quando il re vide che era diventato così bello, volle tuffarsi anche lui, ma cadendo in acqua si scottò così tanto da morirne. Al suo posto elessero re il coraggioso arciere che sposò la principessa Vassilissa e i due vissero lunghi anni d’amore.
1. Evidenzia le parole o le espressioni più interessanti.
2. Racconta la storia.
3. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta un giovane che credeva a tutto quello che gli dicevano.
Viveva a Chamois, un paesino di montagna, e non era mai uscito da lì. Fu per lui un grande avvenimento scendere per la fiera a Châtillon, la città vicina.
Non aveva mai visto così tanta gente, né tante belle cose da comprare.
Spinto dalla folla, che lo urtava e stringeva da ogni parte, l’uomo trovava a ogni passo motivo di nuova meraviglia. Ma ad attrarlo più d’ogni altra cosa furono quattro zucche, lucide, lisce e panciute, disposte a piramide, tre sotto e una sopra. Il venditore, picchiando con le nocche sulla scorza, invitava la gente a guardarle.
«Che cosa sono?», domandò il buon uomo, facendosi coraggio.
«Uova di cavallo!», rispose l’altro pronto, dopo avergli gettato un’occhiata. Il sempliciotto inghiottì la saliva.
«Volete dire… uova di cavallo?».
«Ecco, bravo. Uova di cavallo». «Di lì, allora, escono fuori…?».
«I puledrini, esatto! Come dalle uova di gallina vengono fuori i pulcini».
C’era lì uno che doveva comprare una zucca. A quel punto si mise in mezzo anche lui.
«Se vi serve un cavallo, approfittate dell’occasione, perché non è merce che si trovi facilmente. Io, per l’appunto, me ne prendo uno».
Si informò del prezzo, pagò e se ne andò con la sua zucca.
Il giovane stava sulle spine, per timore che qualcuno si prendesse le altre. C’era una cosa, però, che lo preoccupava. «Sentite: per covarle…?», si informò, dubbioso.
E il venditore: «Amico, devo dire che siete fortunato. Molto, molto fortunato: perché queste che ho qui, vedete, sono covate già al punto giusto. Voi di dove siete?».
«Di Chamois».
«Ebbene, il tempo di arrivarci e il vostro puledrino è bell’e fuori».
Non ci voleva altro per convincere il buon uomo.
«Datemele tutt’e tre», disse in fretta.
E riprese il cammino di casa, con le zucche stipate nello zaino.
Ma, per far prima, lo chiuse malamente, così che, poco fuori dalla città, ne sgusciò fuori una zucca, e giù per la scarpata a balzelloni, finché non si schiantò contro una roccia, spargendo scorza e semi tutt’intorno.
Dietro quel masso riposava una lepre, che al botto schizzò via come il vento. Il contadino, che era rimasto incantato a vedere dischiudersi l’uovo, esclamò, congiungendo le mani: «Signore, che bel cavallino!».
Poi, rendendosi conto che l’aveva perduto, si consolò pensando agli altri due ancora nascosti nel guscio e, con il cuore diviso tra dispiacere, stupore e speranza, si rimise in cammino, dimenticando di nuovo di chiudere il sacco.
Così, poco dopo, ne scivolò fuori la seconda zucca, che prese a rotolare per il pendio, andando a frantumarsi contro un tronco. Da un cespuglio vicino sbucò una grossa volpe. «Fermati, fermati!», si mise a gridare il buon uomo
angustiato, perché il secondo puledro era ancora più bello del primo. Ma anche quello, ormai, era andato.
«Quest’altro, però, non mi scappa», disse il contadino, mettendo giù il sacco che portava a spalle. E riprese la strada per Chamois, tenendosi ben stretta al petto la zucca che ancora gli restava. Ma quella, ahimè, non era fecondata: sicché aspettò, e aspettò ancora, con pazienza infinita, ma
non ne venne fuori alcun cavallo…
1. Racconta la storia.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta, in un villaggio, un contadino molto povero che viveva con suo figlio e possedeva solo un cavallo, ma aveva il dono della saggezza.
Un brutto giorno il cavallo scappò.
I suoi vicini gli dissero: «Povero contadino, come
farai a lavorare la terra ora che il tuo cavallo è scappato?».
Lui li ringraziò per la solidarietà e rispose: «Come fate ad essere sicuri che ciò che è successo sia una disgrazia per me?».
I vicini andarono via, fingendo di essere d’accordo con ciò che avevano sentito.
Giorni dopo, il cavallo ritornò alla stalla accompagnato da una bella cavalla.
Al sapere questo, gli abitanti del villaggio, molto contenti, tornarono a casa del contadino, congratulandosi per la buona sorte. «Prima avevi solo un cavallo e ora ne hai due. Evviva!», dissero.
Lui li ringraziò e rispose: «Come fate ad essere sicuri che ciò che è successo sia una benedizione per me?».
Sconcertati, e pensando che quel contadino avesse perso la ragione, i vicini se ne andarono.
Passarono delle settimane e il figlio del contadino, mentre stava addomesticando la nuova cavalla, si ruppe una gamba.
I vicini premurosi tornarono a trovarlo, portando doni per il giovane ferito.
Il sindaco del villaggio disse: «Siamo tutti molto dispiaciuti per l’accaduto».
Il contadino li ringraziò ancora
per la visita e l’affetto e rispose: «Come fate ad essere sicuri che ciò che è successo sia una disgrazia per me?». Tutti rimasero stupiti per questa inattesa domanda e se ne andarono dicendo: «Ha veramente perso la testa; suo figlio potrebbe rimanere zoppo per sempre e lui pensa che non sia una grande sfortuna».
Poco tempo dopo giunsero in paese alcuni soldati mandati
dal re in cerca di giovani da mandare in guerra. Arruolarono tutti quelli che trovarono tranne il figlio del contadino che aveva la gamba rotta.
Dalla guerra nessun giovane ritornò vivo. Il figlio guarì e i due cavalli fecero tanti puledri. Il contadino passò a visitare i suoi vicini per consolarli e aiutarli. Ogni volta che qualcuno di loro si lamentava, lui diceva: «Come
fate ad essere sicuri che ciò che vi è successo sia una disgrazia?».
Se qualcuno si rallegrava troppo, gli domandava: «Come fate ad essere sicuri che ciò che vi è successo sia una benedizione?».
E gli uomini di quel villaggio capirono che bisogna guardare oltre le apparenze e dare tempo al tempo per vedere cosa è bene e cosa è male.
1. Evidenzia le parole o le espressioni più interessanti.
2. Racconta la storia.
3. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta un uomo che aveva un vecchio asino. Per lunghi anni aveva portato senza stancarsi i sacchi al mulino, ma poi le forze gli vennero meno e non riusciva più a lavorare come prima.
la strada verso Brema: là, pensava, avrebbe potuto suonare nella banda della città.
strada, quando vide un cane strada, che ansimava come se
Il padrone pensò allora di utilizzarne la pelle, ma l’asino capì che non tirava buon vento e scappò via prendendo
«Perché soffi così?», domandò l’asino.
«Ahimè», disse il cane, «sono vecchio, divento ogni giorno
più debole e la caccia non fa più per me… il mio padrone mi voleva ammazzare e me
la sono battuta a gambe levate, ma ora come potrò guadagnarmi il pane?». «Sai che cosa devi fare?», disse l’asino. «Io vado a Brema e diventerò musicante nella banda cittadina; vieni con me e fatti accettare anche tu. Io suonerò il liuto e tu la batteria e il tamburo».
Il cane fu contento e i due si rimisero in cammino.
Non molto lontano trovarono un gatto seduto sul ciglio della strada, tutto arruffato e afflitto.
«Che cosa ti è successo con quel muso da funerale?», chiese l’asino.
«Chi può essere allegro quando lo si vuole soffocare?», rispose il gatto.
«Poiché sono vecchio, i miei denti si sono spuntati e sto dietro la stufa a fare le fusa invece che dare la caccia ai topi, la mia padrona mi voleva annegare. Sono riuscito a scappare per un soffio, ma ora dove posso andare?». «Vieni con noi a Brema; tu te ne intendi di serenate e puoi diventare un musicante nella banda cittadina».
Il gatto accettò la proposta e partì con loro.
Poco dopo i tre viandanti
passarono vicino a un cortile sulla cui porta era appollaiato un gallo che cantava con tutta la forza che aveva.
«Strilli da spaccare i timpani», disse l’asino. «Che cosa ti prende?».
«Devo annunciare il bel tempo», rispose il gallo, «perché domani è festa,
vengono degli ospiti e la padrona di casa, senza pietà, ha detto alla cuoca che mi vuole mangiare lesso, così stasera mi tireranno il collo. Perciò canto a squarciagola, fino a quando posso ancora farlo».
«Ascolta, povera testa rossa», disse l’asino. «Vieni piuttosto con noi a Brema e vedrai che troverai qualcosa di meglio della morte: hai una bella voce e faremo della musica insieme, avremo una professione rispettabile».
La proposta piacque al gallo e tutti e quattro insieme
Ma non riuscirono a raggiungere in giornata la città di Brema e la sera decisero di fermarsi a dormire in un bosco.
L’asino e il cane si sdraiarono sotto un grande albero, mentre il gatto e il gallo si posarono sui rami. Il gallo poi volò fin sulla cima dove gli sembrava di stare
più al sicuro. Prima di addormentarsi, si guardò intorno e vide in lontananza splendere un lumicino; gridò allora ai suoi compagni che non lontano doveva esserci una casa.
L’asino disse: «Andiamo a vedere, perché in questo posto non si sta bene». Il cane pensò che qualche osso e un po’ di carne non gli sarebbero dispiaciuti per niente. E così si rimisero in cammino nella direzione della luce; la videro brillare e diventare sempre più grande, finché giunsero a una casa di briganti tutta illuminata.
L’asino, che era il più alto, si avvicinò alla finestra e dette una sbirciatina dentro. «Che cosa vedi?», domandò il gallo.
«Cosa vedo?», rispose l’asino. «Vedo una tavola imbandita con tantissime cose da mangiare e da bere e i briganti che siedono intorno e banchettano».
«Sarebbe proprio quel che fa per noi», osservò il gallo. «Eh già! Potessimo esserci noi al loro posto!», disse l’asino. I quattro viandanti ne parlarono e alla fine trovarono un modo per cacciar via i briganti.
L’asino posò le zampe anteriori sulla finestra, il cane salì sulle spalle dell’asino, il gatto si arrampicò sul cane e il gallo volò in alto e si posò sulla testa del gatto. Appena messi in posizione, cominciarono tutti insieme, a un
segnale, a eseguire il loro concerto: l’asino ragliò fragorosamente, il cane abbaiò, il gatto miagolò e il gallo lanciò i suoi potenti «chicchirichì»; quindi si precipitarono nella stanza attraverso la finestra, facendo vibrare i vetri.
I briganti trasalirono al tremendo fracasso, pensarono che un fantasma fosse entrato dalla finestra e fuggirono spaventatissimi nella foresta.
Allora i quattro amici si sedettero a tavola, si accontentarono di ciò che era rimasto e mangiarono come se poi dovessero digiunare per un mese.
Quando ebbero finito, spensero il lume e cercarono un luogo per dormire, ognuno secondo la propria natura. L’asino si sdraiò sulla paglia in cortile, il cane dietro la porta,
il gatto sul focolare vicino alla cenere calda e il gallo sulla trave. Si addormentarono subito perché erano stanchi per il lungo viaggio.
Quando scoccò la mezzanotte, i briganti videro da lontano che in casa non c’era più la luce accesa e che tutto sembrava tranquillo. Il loro capo allora disse: «Non saremmo dovuti
scappare così, non permetteremo più che ci si cacci di casa!», e mandò avanti uno a dare un’occhiata alla situazione.
L’inviato entrò nella casa dove regnava il silenzio, andò in cucina per accendere un lume e, poiché gli occhi del gatto, scintillanti come carboni accesi, gli sembrarono veramente carboni accesi, vi avvicinò un fiammifero perché prendesse fuoco.
Ma il gatto, quando lo vide avvicinarsi, gli saltò sulla
faccia soffiando e graffiando.
Il brigante si spaventò terribilmente e cercò di uscire dalla porta sul retro, ma il cane, che si era sistemato lì, balzò in avanti e lo morse alla gamba.
E mentre il malcapitato attraversava il cortile passando vicino al letamaio, l’asino gli vibrò un vigoroso calcio con la zampa posteriore.
Intanto il gallo, che per il gran baccano si era svegliato dal sonno, dalla trave lanciò un potente «chicchirichì».
Il brigante corse come meglio poté dal suo capo e disse: «Ahimè, nella casa si è stabilita un’orrenda strega, che mi ha soffiato in faccia e con le sue lunghe dita mi ha graffiato; davanti alla porta
c’era un uomo con un coltello che mi ha pugnalato la gamba e nel cortile era sdraiato un mostro nero che mi ha bastonato con una mazza, intanto dal tetto il giudice gridava: “Prendete quel briccone!”. Sono riuscito a stento a scappare!».
Da allora in poi i briganti non osarono più avvicinarsi alla casa, mentre i quattro musicanti di Brema vi si trovarono così bene che non vollero più lasciarla.
1. Evidenzia le parole o le espressioni più interessanti.
2. Racconta la storia.
3. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’era una volta un uomo che aveva tre figli e non possedeva altri beni che la casa in cui abitava.
Ognuno dei figli avrebbe voluto avere la casa alla morte del padre, ma egli li amava tutti allo stesso modo e non sapeva come fare per non fare torto a nessuno.
Finalmente gli venne un’idea e disse loro: «Andate in giro per il mondo e mettetevi alla prova. Ognuno di voi dovrà imparare un mestiere e, quando tornerete, chi farà il miglior capolavoro avrà la casa».
I figli furono d’accordo e il maggiore decise di fare il maniscalco, il secondo il barbiere e il terzo il maestro di scherma. Fissarono il giorno in cui sarebbero tornati tutti a casa e partirono.
Accadde che tutti e tre trovarono un bravo maestro e impararono al meglio il loro
mestiere, tanto che ciascuno era convinto di ottenere la casa.
Quando fu trascorso il tempo stabilito, ritornarono a casa e si riunirono per decidere come mostrare al padre quanto erano bravi.
Mentre se ne stavano là seduti, una lepre attraversò il campo di corsa.
«Ehi!», disse il barbiere, «viene giusto a proposito!». Prese la
catinella e il sapone e agitò la schiuma.
Quando la lepre fu vicina, la insaponò in corsa e le fece una barbetta a punta, senza ferirla in alcun modo.
«Mi piace!», disse il padre. «Se gli altri non fanno qualcosa di speciale, la casa è tua».
Poco dopo arrivò un signore in carrozza e il cavallo andava di gran carriera.
«Adesso state a vedere che cosa sono capace di fare», disse il maniscalco.
Corse dietro alla carrozza, tolse i quattro ferri al cavallo che continuava a galoppare e gliene mise quattro nuovi. «Sei proprio in gamba», disse il padre. «Sai fare bene il tuo mestiere come tuo fratello; non so proprio a chi devo dare la casa».
in modo da non prendersi nemmeno una goccia. Quando la pioggia si fece più fitta e finì con lo scrosciare come se la rovesciassero a secchiate dal cielo, il terzo figlio brandì la spada sempre più in fretta e rimase asciutto come se fosse al coperto. Al vederlo, il padre rimase di stucco e disse: «Tu hai fatto il miglior capolavoro, la casa è tua».
Allora il terzo figlio disse: «Padre, lasciate che provi anch’io» e, siccome cominciava a piovere, sguainò la spada e la brandì menando colpi di traverso sopra la sua testa, Gli altri due fratelli, come promesso, si accontentarono e, poiché si volevano molto
bene, rimasero tutti e tre insieme nella casa, esercitando il loro mestiere.
E, siccome erano diventati
così abili, guadagnarono molto denaro.
Così vissero felici tutti insieme fino a tarda età e, quando
uno di loro si ammalò e morì, gli altri due ne furono tanto addolorati che si ammalarono e morirono anch’essi.
Allora, poiché erano stati così abili e si erano voluti tanto bene, furono sepolti insieme nella stessa tomba.
1. Evidenzia le parole o le espressioni più interessanti.
2. Racconta la storia.
3. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
C’ erano una volta un fratellino e una sorellina che si lamentavano tra loro: «Da quando è morta la mamma, non abbiamo più avuto un’ora di bene: la matrigna è cattiva come una strega. Ci tratta male e quando andiamo da lei ci caccia via», diceva la sorellina.
«I tozzi di pane raffermo sono il nostro cibo», continuava. «Se lo sapesse la nostra mamma! Vieni fratellino, ce ne andremo insieme per il mondo». Camminarono tutto il giorno attraverso prati, campi,
sentieri sassosi, con la pioggia che cadeva incessante.
La sera giunsero in un gran bosco ed erano così stanchi per il lungo cammino e la pioggia, che si rifugiarono all’interno di un albero cavo e si addormentarono.
La mattina dopo, quando si svegliarono, il sole era già alto e splendeva caldo dentro l’albero. Il fratellino disse: «Sorellina, ho sete, se sapessi dove trovare una fonte andrei a bere. Credo di averne sentito il mormorio». Il fratellino si alzò, prese la sorellina per mano e cercarono la sorgente. Ma la matrigna era una strega cattiva e aveva visto benissimo che i due bambini se ne erano andati; li aveva seguiti di nascosto, come fanno le streghe, e aveva stregato tutte le sorgenti del bosco. Quand’essi trovarono un rivolo che saltellava scintillando sulle pietre, il fratellino volle bere, ma la sorellina udì la fonte mormorare: «Chi beve la mia acqua diventa una tigre! Chi beve la mia acqua diventa una tigre!».
Allora la sorellina gridò: «Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi una belva feroce e mi sbrani».
Il fratellino non bevve, anche se aveva una gran sete, e disse: «Aspetterò fino alla prossima sorgente».
Quando arrivarono alla seconda fonte, la sorellina udì che anche questa diceva: «Chi beve la mia acqua diventa un lupo! Chi beve la mia acqua diventa un lupo!».
Allora gridò: «Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un lupo e mi divori».
Il fratellino non bevve e disse: «Aspetterò fino alla prossima sorgente, ma allora dovrò bere; ho troppa sete».
E quando giunsero alla terza fonte, la sorellina udì
mormorare:
«Chi beve la mia acqua diventa un capriolo! Chi beve la mia acqua diventa un capriolo!».
La sorellina disse: «Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un capriolo e scappi via».
Ma il fratellino si era subito inginocchiato presso la sorgente, si era chinato e aveva bevuto l’acqua; non appena le prime gocce gli toccarono le labbra, cadde a terra, trasformato in un piccolo capriolo.
La sorellina pianse per il povero fratellino stregato e anche il piccolo capriolo piangeva, standosene tutto triste accanto a lei. Alla fine la fanciulla disse: «Calmati, caro caprioletto, io non ti abbandonerò mai e mi prenderò cura di te».
Prese il nastro d’oro dei suoi capelli e lo mise intorno al collo del capriolo, poi intrecciò una corda flessibile di giunchi.
Legò l’animaletto e lo condusse con sé.
Entrarono sempre di più nel bosco e, cammina e cammina, giunsero finalmente a una casetta abbandonata. «Qui possiamo fermarci ad abitare», disse la sorellina. Cercò allora foglie e muschio per fare un morbido giaciglio al capriolo. Ogni mattina usciva e raccoglieva radici, bacche e noci per sé e a lui portava erba tenera. Il caprioletto la mangiava dalla sua mano, era felice e giocherellava intorno a lei.
La sera, stanca, la sorellina appoggiava la testa sul dorso del capriolo e si addormentava dolcemente. Per un certo periodo di tempo vissero così, soli, in quel luogo selvaggio e la sorellina crescendo divenne una graziosa fanciulla.
Un giorno il re di quella zona organizzò una grande partita di caccia nel bosco.
Il capriolo ascoltava il suono dei corni, il latrato dei cani e le grida allegre; come gli sarebbe piaciuto essere lì anche lui!
«Lasciami andare a vedere la caccia», disse alla sorella, «non posso più resistere!».
La pregò così a lungo che ella infine acconsentì.
«Però», gli disse, «bada a non farti vedere dagli uomini e ritorna a casa questa sera. Per farti riconoscere, bussa e di’: “Sorellina mia, lasciami entrare!”. Se non dici così, non aprirò».
Allora il capriolo saltò fuori, ma stava tanto bene ed era così allegro all’aria aperta che non badò a nascondersi.
Il re e i suoi cacciatori videro il bell’animale, lo inseguirono, ma non riuscirono a raggiungerlo.
Quando fu buio, il capriolo corse alla casetta, bussò e disse: «Sorellina mia, lasciami entrare!».
Allora la porticina gli fu aperta, saltò dentro e dormì tutta la notte sul suo morbido giaciglio.
Il mattino dopo, quando il capriolo udì nuovamente il corno e il grido dei cacciatori, non ebbe più pace e disse: «Sorellina aprimi, devo uscire».
La sorellina gli aprì la porta e disse: «Questa sera devi essere di nuovo qui con la tua parola d’ordine».
Quando il re e i suoi cacciatori rividero il capriolo con il collare d’oro, lo inseguirono tutti.
Cercarono di raggiungerlo tutto il giorno, finché a sera lo
accerchiarono e lo ferirono a una zampa. Il capriolo zoppicando corse via più adagio.
Un cacciatore lo seguì senza farsi vedere fino alla casetta e lo udì esclamare: «Sorellina mia, lasciami entrare!».
Vide che la porta gli veniva aperta e subito richiusa.
Il cacciatore andò dal re e gli raccontò ciò che aveva visto e udito.
Allora il re disse: «Domani andremo a caccia ancora una volta».
La sorellina si spaventò terribilmente quando il piccolo capriolo rientrò ferito. zMa la ferita era così piccola che al mattino il capriolo non sentiva più nulla e, quando udì nuovamente il tripudio della caccia, disse:
«Non posso resistere, devo andarci; non sarà così facile acchiapparmi».
La sorellina pianse e disse: «Questa volta ti uccideranno, non ti lascio uscire».
«E io morirò qui di tristezza, se mi trattieni», rispose il capriolo. «Quando sento il corno da caccia mi sembra di non stare più nella pelle!», aggiunse.
Allora la sorellina dovette cedere, gli aprì la porta a malincuore e il capriolo corse nel bosco vispo e felice.
Quando il re lo scorse, disse ai suoi cacciatori: «Inseguitelo per tutto il giorno fino a sera, ma che nessuno gli faccia del male!». Come il sole fu tramontato, il re chiese al cacciatore di mostrargli la casetta nel bosco. E quando fu davanti alla porticina bussò e disse: «Sorellina mia, lasciami entrare!».
Allora la porta si aprì, il re entrò ed ecco, vi trovò una fanciulla tanto bella che così non ne aveva mai viste. La fanciulla si spaventò quando vide entrare, al posto del suo piccolo capriolo, un uomo con una corona d’oro. Il re la guardò amorevolmente, le tese la mano e disse: «Vuoi venire con me al mio castello e diventare la mia cara sposa?».
«Oh, sì», rispose la fanciulla, «ma deve venire anche il mio capriolo, non lo posso abbandonare».
«Rimarrà con te finché vivi e non gli mancherà mai nulla». In quel momento entrò a salti
il capriolo; la sorellina lo legò di nuovo alla fune di giunco e insieme a lui lasciò la casetta nel bosco.
Il re condusse la bella fanciulla nel suo castello,
dove le nozze furono celebrate con gran pompa. Ora la sorellina era sua
maestà la Regina, e i due sposi vissero insieme felici per lungo tempo. Il capriolo era ben nutrito e ben curato e ruzzava felice nel giardino del castello.
Intanto la malvagia matrigna era convinta che la sorellina fosse stata sbranata dalle bestie feroci e che il fratellino fosse stato ucciso dai cacciatori.
Ma un giorno le giunse voce che stavano bene ed erano felici e che la fanciulla era diventata addirittura regina. Invidia e gelosia si impadronirono del suo cuore e la strega decise che li avrebbe fatti cadere di nuovo in rovina.
Poco tempo dopo le guardie notarono uno strano uccello che volava minaccioso sopra il castello. Gracchiava con un verso spaventoso che ricordava la voce di una strega.
Le guardie chiamarono il re e la regina che seguiti dal caprioletto salirono sulle mura del castello. La regina riconobbe subito la matrigna e si spaventò terribilmente. Il re allora senza pensarci due volte scagliò una freccia dritta al cuore di quella bestiaccia.
Improvvisamente una luce abbagliante avvolse tutto il castello e quando si dissolse tutti videro che al posto del capriolo c’era un giovane. La
strega era stata sconfitta e l’incantesimo si era spezzato. I due fratelli si abbracciarono piangendo di gioia e vissero insieme felici per sempre.
1. Leggi a più voci la storia.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
(Tradizione popolare)
Filastrocca scaccia pensieri, parla di oggi, parla di ieri. Parla del tempo che passa veloce, parla del fiume che scorre alla foce.
Vien la sera e viene il giorno, il tempo vissuto non fa ritorno. La settimana è presto passata e la domenica è già arrivata.
Passano i mesi, il freddo è finito, l’albero spoglio è già rifiorito.
L’anno che passa non ha importanza, se tu lo vivi con la speranza di preparare un mondo migliore, dove la gente ragiona col cuore.
Per ogni strofa imparata a memoria colora un fiorellino.
(Anna Rossini)
Non c’è il caldo dell’estate sono più corte le giornate.
Soffia il vento dispettoso e il mattino è un po’ nebbioso.
Sotto l’albero, sul prato c’è un tappeto colorato.
È l’autunno che si affaccia
con i suoi frutti tra le braccia.
Per ogni strofa imparata a memoria colora una foglia.
(R . Baronio)
Passano i giorni sempre in orario, volano via dal calendario.
Certi son belli, certi son brutti, mi tocca vivere lo stesso tutti!
Passano svelti fuggono via, meglio allor viverli in allegria!
Per ogni strofa imparata a memoria colora un cuore.
(Tradizione popolare)
Gennaio freddoloso
Febbraio strepitoso
Marzo pazzerello
Aprile mite e bello
Maggio sognatore
Giugno cantatore
Luglio nuotatore
Agosto gran signore
Settembre grappolaio
Ottobre castagnaio
Novembre triste e stanco
Dicembre tutto bianco
Cerchia con il tuo colore preferito le strofe che hai imparato a memoria.
(Lina Schwarz)
Non mi vedi, non mi senti, non mi tocchi, non mi prendi.
Corro corro, lesto lesto, ora lieto e ora mesto.
Corro corro e mai mi stanco e ai nonni il capo imbianco.
(Otto Cima) 6
Io son dicembre vecchietto vecchietto, l’ultimo mese dell’anno che muore.
Ma quando nasce Gesù benedetto reco nel mondo la pace e l’amore.
Porto con il ceppo girando i camini dei bei regali ai bimbi piccini.
(Anna Rossini)
Vola vola il pettirosso, cinguettando a più non posso.
E del rosso caldo amore, le sue piume hanno il colore.
Oggi è il giorno di Natale e il suo canto è assai speciale.
Dice a tutti che il più bel dono è che ognuno sia più buono.
Cerchia le strofe che hai imparato a memoria.
(Mario Milani)
Ritta ritta, lieve lieve, sulla terra vien la neve.
Mille bianche farfalline fanno il manto alle colline.
Mille candide farfalle fanno ai campi un bianco scialle.
Mille fiocchi immacolati danno ai monti, ai boschi, ai prati, alle strade, ai tetti, al suolo un bellissimo lenzuolo.
I bambini guardan fuori e non apron più bocca.
E la neve, lenta lenta, scende scende, fiocca fiocca.
Per ogni strofa imparata a memoria colora un fiocco.
(Tradizione popolare)
Buongiorno febbraio, che mangi frittelle, che butti nell’aria coriandoli e stelle.
Sei proprio monello! Sgambetti contento, ma poi sul più bello tu fuggi ridendo.
(Tradizione popolare)
Una primula soletta spuntò fuori dall’erbetta.
Si nascose poverina quella primula piccina.
Disse al tempo: «Torna ancora, di svegliarmi non è l’ora!».
Venne marzo pazzerello con in mano un ombrello.
«Primavera è già arrivata!», disse alla primula assonnata.
Per ogni strofa imparata a memoria colora una primula.
(Anna Rossini)
Quando nasce un micetto, mamma gatta amorevole gli annusa il musetto.
Sul pelo bagnato gli passa una carezza, gli controlla l’altezza.
Quando nasce un bambino, mamma umana incantata lo guarda innamorata.
In ogni luogo quadrato e rotondo, ogni piccolo che arriva nel mondo ha bisogno di ogni premura di baci, carezze e di cura.
Quanto ti è piaciuta la poesia? Colora i cuori.
(Annalisa Grillo)
Nel cuore del paese, una lingua canta, è il dialetto, dolce, che mai si stanca. Parole di nonna, storie di papà, ogni suono, un ricordo che sempre resterà.
Quando parlo in dialetto, sento un abbraccio, le risate dei bambini, l’eco di una festa, le frasi che sono perle di saggezza.
Quanto ti è piaciuta la poesia? Colora i cuori.
(Sabrina Fusi)
C’era un giorno in mezzo al prato un galletto esasperato.
Tutti i giorni al primo sole per svegliar tutti ce ne vuole.
Il galletto disse al ghiro: «Sono stanco!» e giù un sospiro.
Il buon ghiro disse al gallo: «Vai in letargo. Adesso, fallo!».
Così il gallo in un momento chiuse gli occhi e ben contento si sdraiò in mezzo al fieno per dormir un sonno sereno.
Non vi dico che successe... Ve lo dico? C’è interesse?
Senza il canto che lo incalza il paese non si alza.
Dorme beato il contadino, dorme la mamma col suo bambino.
Nessun sveglio a seminare, niente pronto da mangiare.
Dorme il fattore senza la sveglia, dorme la cuoca: vuota è la teglia. Dorme il maestro tra le lenzuola, dormono i bimbi: vuota è la scuola.
Si spegne il fuoco nel camino se tutti dormono lì vicino. E se nessuno domani si desta chiudon le giostre, finisce la festa.
Il galletto riposato si svegliò lì in mezzo al prato. Era passato solo un giorno e vide il disastro che aveva intorno.
Nel sentirsi così importante gli passò il sonno in un istante. Ringraziò il ghiro per il suo aiuto e svegliò tutti con il suo canto acuto: Chicchirichì!!!
Preparati a leggere la poesia in 100 secondi per mantenere il ritmo.
(Testo e musica di Stefano Rigamonti)
Conosco una parola magica, un asso nascosto nella manica.
È come una lente davanti agli occhi, davanti alla mente.
È una parola meravigliosa, lascia un profumo sopra ogni cosa.
È un raggio di sole sopra gli sguardi, sopra le persone.
Per la pioggia sopra il fiore, per la neve a Natale, per il sangue dentro al cuore, per il sale, il sale dentro il mare.
RIT. Con gli occhi al cielo per ogni attimo, con tutta la voce di’ « grazie » !
Con gli occhi al cielo per ogni battito, con tutto il cuore grida « grazie » !
Conosco una parola magica, ha una forza titanica. Ti fa apprezzare tutte le cose, sia quelle belle che quelle dolorose.
Per i giorni di vacanza, per i sogni ad occhi aperti, per il canto e la danza, per i volti, i volti sorridenti.
[RIT.]
Di giorno, di notte, quando non hai più forze. Col sole o la pioggia, anche quando non ne hai più voglia.
[RIT. 2 volte]
Conosco una parola magica, un asso nascosto nella manica. C’è un cuore che batte e ribatte dietro ogni singolo grazie!
Quanto ti è piaciuta la canzone? Colora i cuori.
Ho inventato un gioco nuovo così non mi annoierò.
Prenderò un foglio bianco e con la penna scriverò tutto quello che mi piace, quello che vorrei di più, quello che mi fa felice.
Prova a scriverlo anche tu...
Un risveglio con la neve, forse a scuola non si va. Tutto è bianco, che silenzio, non c’è traffico in città.
Una lotta coi cuscini, una chioccia coi pulcini. Una macchina si ferma e finalmente passerò.
RIT. Sono le piccole cose belle che fanno bella la nostra vita.
Quando accadono all’improvviso, un sorriso spunterà.
Sono le piccole cose belle che regalano felicità
e ti cambiano la giornata, se le vivi con semplicità.
Un bel voto sul quaderno, il sorriso di papà, la puntata di un cartone persa qualche mese fa.
C’è l’invito di un amico, il mio piatto preferito. Oggi è giorno di vacanza, dormiremo ancora un po’.
Un gattino quando gioca, una torta di bignè, un bicchiere di aranciata e la sete più non c’è.
Un regalo inaspettato, un bel fiore profumato e le favole di un libro, che mi hai sempre letto tu.
[RIT.]
Se la notte non ha le stelle, che paura l’oscurità!
Leggi il foglio delle cose belle e il sole tornerà!
[RIT.]
Se le vivi con semplicità...
Quanto ti è piaciuta la canzone? Colora i cuori.
C’è un lavoro straordinario, oggi non è più di moda. Non ha sosta, non ha orario, io conosco chi lo fa...
Legge il cielo della sera, sente l’aria del mattino.
Con cappello e canottiera, il mio nonno è contadino!
Con le piante sa parlare, dalle rondini capire se l’inverno è cominciato, se l’estate tarderà.
Si confronta con la luna per la semina ed il vino.
E non si tratta di fortuna, è un sapiente... il contadino.
* A pagina 191, «Fonti», si trova il link per ascoltare la canzone.
RIT. Non ti cura come fa il dottore.
Non insegna, non è professore. Non fa conti sulla scrivania, non è un gioco la sua fattoria.
Non controlla come l’ispettore.
Non dirige, non è direttore.
Ma sorride con calore, io da grande vorrei fare come lui!
Ha la frutta di stagione, la verdura quella vera. Quant’è buono il minestrone, pure io lo mangerò!
Chiama tutto il vicinato quando nasce un vitellino. Per un dono del creato, quanta festa dal contadino.
Ogni pioggia un’occasione, ogni gemma un’emozione.
Ogni piccolo germoglio con affetto curerà.
Che fatica per avere cibo sano e genuino.
Se lo chiami agricoltore, lui ti dice: «Eeeeh? Contadino!».
[RIT.]
Mi dice sempre: «Devi studiare, se vuoi capire, se vuoi migliorare».
E questo mestiere più bello sarà per chi la terra rispettare sempre saprà.
[RIT.]
Come lui! Come lui!
Quanto ti è piaciuta la canzone? Colora i cuori.
(Tradizione popolare)
E c’era un grillo in un campo di lino, la formicuccia ne chiese un mazzolino.
RIT. Larinciunfararillalero larinciunfararillalà
Disse lo grillo: «Che cosa ne vuoi fare?». «Calze e camicia mi voglio maritare».
Disse lo grillo: «Se vuoi ti sposo io!».
Risponde la formica: «Sono contenta anch’io».
* In internet puoi trovare diverse versioni di questa canzone.
Entrano in chiesa per darsi l’anello, cade lo grillo e si rompe il cervello.
La formicuccia, dal grande dolore, prese una zampina e se la mise in cuore.
Suonan le otto, di là dal mare si sente dire che il grillo stava male.
Suonan le nove, di là dal porto, si sente dire che il grillo era morto.
Suonan le dieci, di là del prato, si sente dire che il grillo è sotterrato.
Suonan le undici, di là del monte nero, si sente dire che niente era vero.
La formicuccia dal grande piacere scese in cantina a bere un buon bicchiere.
Cerca la filastrocca in internet per sentire la musica e provare a cantarla.
Coro 1
(Tradizione popolare)
Oh, che bel castello, marcondirondirondello.
Oh, che bel castello, marcondirondirondà.
Noi lo bruceremo, marcondirondirondello.
Noi lo bruceremo, marcondirondirondà.
Coro 2
Il mio è ancor più bello, marcondirondirondello.
Il mio è ancor più bello, marcondirondirondà.
Noi lo spegneremo, marcondirondirondello. Noi lo rifaremo, marcondirondirondà.
Toglieremo una pietra, marcondirondirondello.
Toglieremo una pietra, marcondirondirondà.
Toglieremo due pietre, marcondirondirondello.
Toglieremo due pietre, marcondirondirondà.
Toglieremo tre pietre, marcondirondirondello.
Toglieremo tre pietre, marcondirondirondà.
[RIT. a cori uniti]
Oh, che bel castello, marcondirondirondello.
Oh, che bel castello, marcondirondirondà.
Non ce ne importa, marcondirondirondello.
Non ce ne importa, marcondirondirondà.
Non ce ne importa, marcondirondirondello.
Non ce ne importa, marcondirondirondà.
Noi lo rifaremo, marcondirondirondello.
Noi lo rifaremo, marcondirondirondà.
1. Cerca la filastrocca in internet per sentire la musica e provare a cantarla.
2. Quanto ti è piaciuta? Colora i cuori.
In diversi casi, l’autore ha riadattato i testi delle filastrocche di tradizione popolare. L’Editore ha cercato di reperire tutte le fonti dei brani riportati nel volume. Rimane a disposizione di quanti rilevino omissioni o errori nei riferimenti.
storie da leggere e raccontare
1. Riccioli d’oro, fiaba della tradizione popolare.
2. La vera storia di Masha e l’Orso, tratta da Masha e l’Orso, titolo originale: , traduzione di Natascia Perrone. In Masha e l’Orso e altre fiabe popolari russe, ©2015, Newton Compton Editori Srl.
3. Il re e la camicia, tratta e adattata dall’omonimo racconto di Lev Tolstoj. In Racconti di Lev Tolstoj, traduzione di Claudia Zonghetti, ©2016, La Nuova Frontiera junior.
4. Le due uova, tratta e adattata da Favole italiane, a cura di Andrea Di Gregorio, RCS collezionabili SpA, 2001.
5. Pinocchio e la medicina, tratta da Le Avventure di Pinocchio, di Carlo Collodi, © Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Edizione Critica, Pescia, 1983, capitolo XVII.
6. La piuma di gallina, tratta e adattata da È proprio vero!, fiaba di Hans Christian Andersen.
7. La principessa e il sale, tratta e adattata da Occhi-Marci di Gherardo Nerucci. In Sessanta novelle popolari montalesi, Firenze, Le Monnier 1880, novella XIII.
8. Il paese dove non si muore mai, fiaba della tradizione veneta, tratta e adattata da Fiabe venete, raccolte e tradotte da Dino Coltro, Arnoldo Mondadori Editore, 1987.
9. Quel che fa il babbo è sempre ben fatto, tratta e adattata dall’omonima fiaba di Hans Christian Andersen.
10. L’uccello di fuoco, fiaba della tradizione popolare russa.
11. Le tre zucche, tratta e adattata da Favole italiane, a cura di Andrea Di Gregorio, RCS collezionabili SpA, 2001.
12. Disgrazia o benedizione, racconto della tradizione popolare cinese.
13. I musicanti di Brema, tratta e adattata dall’omonima fiaba dei Fratelli Grimm.
14. I tre fratelli, tratta e adattata dall’omonima fiaba dei Fratelli Grimm.
15. Fratellino e sorellina, tratta e adattata dall’omonima fiaba dei Fratelli Grimm.
Filastrocche e canzoni da cantare
1. Passa il tempo, tratta da Cristiana Giordano (1999), Il grande libro delle filastrocche, Casale Monferrato, Piemme editore | Gruppo Mondadori.
2. Autunno, di Anna Rossini.
3. I giorni del calendario, di R. Baronio.
4. I mesi, tratta da Cristiana Giordano (1999), Il grande libro delle filastrocche, Casale Monferrato, Piemme editore | Gruppo Mondadori.
5. Indovina chi è, tratta da Lina Schwarz (1965), Ancora… e poi basta, Milano, Mursia editore.
6. Dicembre, di Otto Cima.
7. Buon Natale!, di Anna Rossini.
8. È arrivata la neve, di Mario Milani.
9. Febbraio, filastrocca della tradizione popolare.
10. Marzo, filastrocca della tradizione popolare.
11. Mamme e cuccioli, di Anna Rossini.
12. La lingua dei nonni, di Annalisa Grillo.
13. Dorme il gallo – Una storia in rima, tratta da Sabrina Fusi (2022), Il sentiero delle storie. Storie e filastrocche per leggere, dettare, raccontare, raccontarsi, Lecce, Youcanprint.
14. Una parola magica, testo e musica di Stefano Rigamonti, Zecchino d’Oro, Provincia S. Antonio dei Frati Minori Editore, https://youtu.be/N6-kmEkThrE.
15. Le piccole cose belle, testo e musica di Lodovico Saccol, Zecchino d’Oro, Provincia S. Antonio dei Frati Minori Editore, https://youtu.be/cnnwbxXZyNs.
16. Il contadino, testo e musica di Lodovico Saccol, Zecchino d’Oro, Provincia S. Antonio dei Frati Minori Editore, https://youtu.be/i5xuY3I9cug.
17. Il grillo e la formica, canzone della tradizione popolare.
18. Oh, che bel castello!, canzone della tradizione popolare.
Camillo Bortolato
Insegnante e pedagogista, autore di strumenti e materiali sul Metodo Analogico pubblicati con Erickson.
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Leggere un libro è come proiettare un film nella propria mente. Ma come possono i bambini amare un libro che cambia film a ogni pagina?
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Collaborazione
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A scuola con Pitti 3 (Il mio libro di lettura, Il mio quaderno di scrittura, Il mio libro di matematica, Il mio libro di storia, geografia e scienze indivisibili)
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Finito di stampare nel mese di aprile 2025 da Esperia S.r.l. – Lavis (TN)
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