Gino Patroni un umorista a Spezia (estratto)

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Filippo Paganini

Gino Patroni un umorista a Spezia

EDIZIONI CINQUE TERRE



PAESE MIO Alla ricerca delle nostre radici

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Prima edizione: dicembre 2012 © 2012 Copyright EDIZIONI CINQUE TERRE Viale S. Bartolomeo, 169 - 19126 La Spezia Tel. 347-4431628 Copertina: Gino Patroni in un disegno di Alberto Oldoini (dal volume Via del Prione al 121 sottoscala interno 1, Sate, Zingonia, Bergamo, 1976). Sia l’immagine di copertina che quelle che accompagnano il testo sono tratte dal volume Il meglio di Gino Patroni, Longanesi & C.-Cassa di Risparmio della Spezia, 1993. Grafica: Salvatore Di Cicco Il simbolo della collana, Paese mio, è un disegno di Edy Duranti ISBN: 9788897070078 internet: www.edizioni5terre.com e-mail: amministrazione@edizioni5terre.com


Filippo Paganini

Gino Patroni un umorista a Spezia

EDIZIONI CINQUE TERRE



INDICE Premessa ............................................................................. Pag.

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La fattispecie dell’umorista ................................................. Pag. Un giornalista di nome Bachicchio .................................... Pag. Suicidio per una polena ...................................................... Pag. Dal Liceo alla “Gazzetta” con Brera ................................... Pag. Redattore al traffico senza patente ...................................... Pag. I Buoni del Tesoro vanno sempre in Paradiso ....................... Pag. Una lacrima sul Griso ......................................................... Pag. Un Fusco per amico ........................................................... Pag. Seduto in quel caffè ............................................................ Pag. La vita è una malattia ereditaria .......................................... Pag.

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APPENDICE Spezia dell’altro millennio .................................................... Pag. In biblioteca ....................................................................... Pag.

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Premessa

Questo ricordo di Gino Patroni nasce da una mancanza dell’autore. Era stato gentilmente invitato dal giornalista Franco Carozza a intervenire il 25 novembre del 2006 a una manifestazione in ricordo di Patroni, di cui era stato collega e amico, intitolata “Quando Spezia era Parigi”, promossa dal circolo “La Sprugola” e dall’Accademia del Gusto con il patrocinio della Provincia, dell’Apt e del “Secolo XIX”. Avrebbe dovuto portare un suo contributo per ricordare l’umorista spezzino, ma non poté intervenire perché per motivi di lavoro si trovava all’estero. Tuttavia aveva preparato alcune pagine su Gino Patroni che costituiscono l’ossatura di questo ricordo. Pubblicarlo oggi a venti anni dalla morte dell’umorista vuole essere un modo di emendarsi per quella mancanza. Ma ha soprattutto l’obiettivo di riportare nei limiti del possibile alla memoria dei lettori che lo conobbero o di chi non lo ha conosciuto e si domanda chi sia quella figura ritratta in una lapide in via Chiodo sopra i tavoli del Bar Peola, una delle geniali personalità che più hanno illuminato lo spirito spezzino.

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Gino Patroni in una foto di Mauro Frascatore (“La Nazione”)


La fattispecie dell’umorista

“E ben distintamente, nella fattispecie, passo a salutare”. Era uno dei suoi modi di annunciarsi in redazione. Una parodia beffarda del linguaggio burocratico. Dei magistrati. Dei questurini. Degli avvocaticchi. Dei militari. Dei funzionari statali. Consegnava quella frase stanza dopo stanza. Affacciandosi con un tenue sorriso e due occhi sottili che dietro le lenti spesse da miope lampeggiavano ironia. “Aloa, cosi diso, stan bravi?”. (“Allora cosa dicono stanno bravi?”), continuava con uno di quei tormentoni che ripeteva dieci, venti volte al giorno. Come “Cosa femo, s’ammassemo?”, che era una sorta di calembour giocato sul doppio significato nel dialetto spezzino della frase: “cosa facciamo, ci ammassiamo, ci raccogliamo?”, o “cosa facciamo, ci ammazziamo?” “Poi, il passo dondolante, claudicante sui piedi offesi, lentamente si avvicinava a una scrivania per agguantare un portacenere. Sfilava dal pacchetto verde delle Nazionali un’esportazione (sigaretta fortissima e senza filtro), la portava alle labbra tra le dita ingiallite dalla nicotina, l’accendeva con un fiammifero. Scambiava due battute, tra il polemico e il sarcastico sulla vita cittadina. Su qualche personaggio sgradito dell’establishment locale. Lanciava un paradosso per denunciare il dissesto delle strade. La maleducazione dei marinai. Le colpe del sindaco. Se aveva da mettere insieme un articolo si sedeva davanti alla macchina per scrivere che disponeva diagonalmente. Si

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sfilava gli occhiali. Senza togliersi di dosso né l’eschimo verde pesantissimo, né la vecchia berretta di lana blu da marinaio, salvo che non fosse piena estate, e cominciava a digitare di sbieco. Tutto storto. Con un ritmo da trotto macinava una cartella. Una seconda. Una terza. In dieci minuti, senza fermarsi. Senza una cancellatura. Ma tanta cenere e tanto fumo sparsi ovunque. Finito il compito, ripeteva il giro dei saluti. Stanza dopo stanza: Ben distintamente passo a salutare. Dopo il congedo scendeva al Bar Peola. Un caffè, decine di sigarette, decine di battute, di calembour, di aneddoti, di racconti in un frenetico carosello di persone che si fermavano o che fermava al suo tavolo. Era lì che riceveva le telefonate dei direttori dei giornali che gli chiedevano articoli, epigrammi, disegni perché in casa non aveva l’apparecchio. Anzi erano direttamente le cassiere e i camerieri che gli trasmettevano le richieste. Spesso distorcendo completamente i messaggi dei direttori, i loro nomi e le testate. Così finiva per spedire al “Mago” un epigramma sollecitato dal direttore del settimanale “Contro”. O viceversa. Il rito della visita in redazione – da dove prelevava un quotidiano, “Il Giorno” o “Il Corsera”, oppure negli anni Ottanta “La Repubblica” – si ripeteva puntuale due volte al giorno: poco prima di mezzogiorno e verso le sei del pomeriggio. A meno che non fosse uno di quei periodi di crisi che trascorreva al reparto neuro: quello che lui definiva la sua abitazione, mentre sosteneva di ricoverarsi a casa. Spariva per quindici, venti giorni. Accadeva almeno in un paio di occasioni l’anno. Forse per questo nell’ambiente dei giornalisti si fece poco caso nei primi giorni del 1992 alla

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scomparsa di Gino Patroni. Un collega che copriva la cronaca nera scoprì che era ricoverato in ospedale, ma non per il solito tagliando neurologico. Era già in stato di semi-incoscienza. Lottava con poche speranze per sopravvivere a un attacco di cuore che l’aveva sorpreso a casa qualche giorno prima. Aveva da poco installato il telefono, arrivato con molto ritardo come il televisore. Quando il male lo aveva aggredito, lui che dopo la morte della mamma viveva solo, aveva cercato di chiamare. Ma era caduto a terra. La cornetta era rimasta a mezz’aria. Se gli fosse riuscito di telefonare, forse si sarebbe salvato. Invece rimase sul pavimento dell’ingresso per giorni, prima che fosse soccorso. Il 7 gennaio del 1992 a 72 anni, Gino Patroni, giornalista, scrittore, epigrammista, umorista con la passione del disegno, morì. Il suo ultimo libro, pubblicato quell’anno, s’intitola Il foraggio di vivere. La sua è stata una vita complessa. Tra angoscia. Solitudine. Fobie. Sconfitte. L’esistenza di un intellettuale di provincia di grandissimo talento e buona cultura che, come tantissimi altri, negli anni del Dopoguerra sarebbe stato accolto a braccia aperte dal successo incontrandolo negli orizzonti più vasti della grande città. Ma che è rimasto schiacciato dalle sue paure e dalle sue nevrosi. Che si è rifugiato nella placenta della provincia. Un percorso inverso a quello raccontato in quasi tutti i suoi film (e vissuto in prima persona) da Federico Fellini. Ma proprio per questo paradigmatico. Un Mastorna che non è andato in città.

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Copertina disegnata da John Alcorn di Crescete e mortificatevi, Rizzoli, Milano, 1975, la raccolta di epigrammi grazie alla quale Patroni venne conosciuto dal grande pubblico


Un giornalista di nome Bachicchio

Gino Patroni era nato a Montemarcello nel 1920. Una data che gli aveva ispirato il titolo di un libro, Via col venti, che è ovviamente un calembour, parodia del titolo del celeberrimo film con Clark Gable. Ma non solo. Rappresenta e racchiude in sé anche le esperienze e i travagli di una generazione, travolta dalla guerra e dal Dopoguerra. Che non ha avuto vent’anni, perché non li ha potuti vivere come vanno vissuti. Né una vera giovinezza, sotto il fascismo. Anche il luogo di nascita gli aveva ispirato un gioco di parole: dovendo firmare con un nom de plume articoli per “Paese Sera” li siglava “Marcello Monte”. La sua era una famiglia contadina che aveva conosciuto un minimo benessere solo quando il padre si era imbarcato. All’epoca i marittimi guadagnavano benino. E così i Patroni, grazie alle rimesse del padre che navigava sui mercantili e faceva base in Inghilterra, si erano potuti comprare una casa al primo piano di uno stabile in via Manzoni 2, in pieno centro alla Spezia. Un alloggio modesto, ma dignitoso. Al piano di sopra viveva la famiglia del viceprefetto Bochicchio. Il quale aveva un figlio coetaneo di Gino che si chiamava Luigi. Serissimo con gli occhialetti da miope. Sempre elegante, con i pantaloni corti a tubo e due bottoncini ai bordi. Educatissimo. Timido. Rispettoso. Ordinato. Studioso. Solitario. L’opposto di Patroni.

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E quando Gino andava a giocare a palla con gli amici ai giardini pubblici, dove era vietato, e veniva multato dai vigili urbani, dava le generalità di Luigi Bochicchio, abitante in via Manzoni 2. “Quanti pianti si faceva e quante cinghiate prendeva al posto mio – ricordava Patroni – quel povero Bochicchio, lo sentivo piangere mentre il padre lo pestava ogni volta che i vigili gli portavano a casa le multe. Un’onta per il viceprefetto”. Quel nome, Bochicchio, gli era molto caro. Storpiato in Bachicchio fu – forse anche come tardivo risarcimento a quell’ignara vittima – il suo pseudonimo per anni nell’immediato Dopoguerra, quando Patroni scriveva per diversi giornali in concorrenza fra loro. Sulla “Gazzetta di Livorno”, quotidiano filocomunista, a firma Bachicchio uscivano ogni lunedì brevi corsivi dedicati alla partita dello Spezia che in quei tempi militava in serie B. Erano articoli dove il calcio era un pretesto per giochi di parole, battute, divertissment. Uno di questi dedicato alla partita Vercelli-Spezia cominciava con la domanda della maestra al solito scolaro Pierino: “Dove rimane Vercelli?” “Al solito posto, signora maestra”, rispondeva il bambino. E da qui passava a ironizzare sulla definizione di ridente cittadina: appropriata per Vercelli, dove ci sono le risaie e c’è riso in abbondanza, ma non per Spezia dove nessuno ha voglia di ridere. Gino Patroni aveva cominciato a scrivere sui giornali locali poco prima dell’inizio della guerra. Aveva studiato all’istituto tecnico per geometri, dove, ricordava, c’era una cellula di giovani comunisti guidata da un tal Bertoni che negli anni Sessanta anni sarebbe diventato un costruttore benestante. Ne faceva parte anche un altro professionista, poi divenuto repubblicano, Nevoli, che rimase amico di Gino per tutto il resto della vita.

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Il profitto era scarso. Così Patroni era passato alle Magistrali, corso di soli quattro anni anziché cinque, dove si era diplomato maestro. Aveva pure insegnato per qualche giorno come supplente. Però, non era portato. Raccontava che davanti a un bambino che petulante gli chiedeva come funzionasse il campanello, pigiò il pulsante sul muro provocando il trillo ed esclamò: “Funziona così”. Gli alunni gli chiesero cos’erano le frazioni e lui rispose: “Sono Cadimare, Marola, Scorza, Limone, Melara, Termo... Spezia è l’unica città al mondo dove si può passare dalla Scorza al Limone”. Spiegava ai bambini che oltre ai sette re di Roma c’erano anche i sette re di Spezia: “Rebocco, regurgito, remescio, rebongio...” In questi ricordi romanzati della sua esperienza d’insegnante c’era molto di Patroni, fantasioso e paradossale affabulatore. Così come nei suoi ricordi dell’8 settembre del 1943, vissuto da allievo ufficiale dell’Esercito a Livorno. Raccontava che, avuta la notizia dell’armistizio, il comandante della caserma dov’era in servizio, convocò tutti i militari sul piazzale. Ritto sull’attenti annunciò: “Per noi la guerra continua, siamo soldati, abbiamo un onore, un giuramento e una parola da rispettare. Ora tornate ai vostri posti. Viva il Re e viva l’Italia”. Dopo poco si vide il comandante vestito da donna che spariva insieme con la cassa sull’auto di servizio. In Via col venti ci sono episodi tra il tragico e il grottesco di quella giornata di enorme confusione, quando per i militari, senza ordini e consegne dal re e dal maresciallo Pietro Badoglio, scattò il tutti a casa. Come quello del marinaio disertore in divisa estiva candida che in sella a un

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dromedario rubato nella tenuta reale di San Rossore traversa, disegnando una scena surreale, ma sintomatica del caos dell’8 settembre, il vialone del Barbaricino tra il Calambrone e Porta Mare di Pisa. Oppure l’episodio dei militari – tra i quali lo stesso Patroni – che a centinaia, in cerca di un treno per tornare nelle proprie città, si accalcano nella stazione di San Rossore dove da dietro gli sportelli delle biglietterie dei genieri ferrovieri capeggiati da un sottufficiale intimano: “ordine e disciplina”. “Venite agli sportelli, mettetevi in coda, basta con questo baccano, vi faremo i biglietti; tra poco arriveranno i primi treni”. “Tu dove vai... 5 lire, eccoti il biglietto”. Uno alla volta i militari pagano la tratta. Poi la biglietteria chiude e i genieri spariscono. I militari sbandati rimangono ore e ore ad aspettare sui binari, finché da una finestra al primo piano della stazione si affaccia il vero capostazione in canottiera. “Che fate lì. O grulli, ma quali genieri, quali ferrovieri, quali treni: quelli vi hanno gabbato, o bischeri, qua non si muove più nulla un ci son più treni chissà fino a quando...” Dopo l’8 settembre, ritornato fortunosamente a piedi dalla madre a Montemarcello, Patroni rimane vittima di una spiata, è arrestato eppoi tradotto in un campo di prigionia in Germania. In paese è amico del barbiere, suo coetaneo, fervente antifascista, che è al fronte. Gli ha spedito delle lettere con valutazioni pessimistiche sull’esito della guerra. Tanto basta perché Patroni sia accusato di disfattismo e spedito in Germania. Raccontava di essere stato interrogato e schiaffeggiato con la mano di legno dal maggiore Reder nel carcere di villa Andreino.

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Del periodo della prigionia due articoli sono memorabili. Uno, intitolato Una lacrima per Valdellora, racconta del pianto di alcuni reclusi spezzini nel campo tedesco alla vista, attraverso il filo spinato, di un carro merci abbandonato su un binario con la scritta in gesso sulla fiancata “Valdellora Scalo Merci”, finito chissà come in Germania. L’altro riferisce di un tal Pennucci, un povero diavolo arrestato durante una retata per le strade di Marina di Carrara e tradotto nel lager. Quando viene fermato calza un paio di malandate scarpe da tennis rotte in punta da dove spunta il classico pollicione destro avvolto nel pedalino nero. Nel campo i prigionieri italiani non hanno nulla, mentre gli americani e gli inglesi vengono riforniti di ogni ben di dio: viveri, medicinali e attrezzature sportive, sono ben nutriti e puliti, e si possono permettere per passare il tempo di disputare partite a tennis. Dovendo organizzare una specie di Coppa Davis, inglesi contro americani, cercano un arbitro imparziale e vedendo l’italiano Pennucci con ai piedi le scarpette bianche di tela da tennis si rivolgono a lui chiedendogli: “Are you a sportman?”.

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La copertina del libro ÂŤmanzonianoÂť di Patroni, Una lacrima sul Griso, De Carlo, Milano, 1973


Suicidio per una polena

Finita la guerra Patroni è liberato e riarrestato dai francesi. Che poi lo liberano di nuovo. Rimane qualche mese in Francia dove fa il contabile in una casa di tolleranza. Poi faticosamente e con mezzi di fortuna torna alla Spezia dalla madre. Riprende a scrivere per i primi giornali che si pubblicano in Italia. Diviene corrispondente della “Stampa” di Torino e si distingue per una serie di notizie inventate di sana pianta, piazzate sempre in prima pagina. In quei giorni, con il Paese, in pezzi le comunicazioni sono interrotte. Non funziona nulla. Né poste. Né telefoni. Né treni. Nessuno può controllare la veridicità delle notizie e Patroni, che è pagato a rigaggio, può sbizzarrire la sua fantasia. Inventa la storia di un tenente tedesco che si uccide sparandosi un colpo di pistola alla tempia perché innamorato senza speranze di Atalanta, la polena esposta al Museo Navale. Riferisce di un soldato alsaziano – l’Alsazia è al confine tra la Germania e la Francia – che cadendo in bicicletta lungo i tornanti della Foce batte con violenza la testa sul selciato e rialzatosi non parla più tedesco come prima, ma francese. Racconta la complessa storia di un ufficiale inglese che regala una collezione di francobolli d’inestimabile valore a un giovane di Varese Ligure perché l’ha nascosto durante i rastrellamenti tedeschi.

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Arrivano inviati e fotografi della Reuters per raccontare quella storia gloriosa e commovente di solidarietà italo-britannica. Ma la gente di Varese Ligure, ignara dell’articolo di Patroni, alla domanda dei giornalisti inglesi dove si possa trovare “l’uomo dei francobolli”, indicano senza esitazione il negozio del tabacchino. Tutto va bene. Gli articoli suscitano clamore e interesse e vengono ripresi dalla stampa italiana e straniera. Ma Patroni esagera. Scrive che al cimitero di Portovenere è stato sepolto il notissimo centravanti della nazionale austriaca, caduto combattendo nello Spezzino tra le file dei soldati del Reich. La notizia ha molta eco. Ma per “sfortuna” il centravanti la domenica seguente alla pubblicazione dell’articolo sull’eroico decesso è già “risorto”, anzi segna anche un gol di cui parlano tutti i giornali. Un caso di omonimia sulla lapide del cimitero, si scusa l’umorista. Patroni fa il cronista e in quegli anni il mestiere è molto “garibaldino”. Pochi mezzi e molta improvvisazione. E il lupo perderà il pelo, ma non il “vizio”. Così Patroni ci riprova nel 1959 a tentare il colpaccio della notizia di “fantasia”. Rischiando di cacciare nei guai una povera macchietta spezzina. Lo racconta piacevolmente Arrigo Petacco ne Il meglio di Gino Patroni (Longanesi,1993). Sono i tempi della storia d’amore extra coniugale tra il campionissimo Fausto Coppi e la Dama Bianca che scandalizza l’Italia perbenista dell’epoca. Appare sui giornali la notizia che un aristocratico spezzino, il conte Vittorio Guelfi di Corniglia, elettosi paladino della signora Coppi, tradita dal ciclista, vuole sfidare a duello il grande ciclista. In realtà Guelfi è sì di Corniglia, ma non è conte. Si tratta di un arsenalotto che gli amici chiamano Conte per l’aspetto aristocratico e l’abi-

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tudine di indossare doppiopetto, lobbia e pochette. Di lui si dice che, prigioniero in Africa, per ravvivarsi i capelli, non avendo a disposizione la brillantina e tenendo molto al suo allure signorile, immergesse le mani nell’olio di macchina e se le passasse sulla capigliatura. Estroso e stravagante, il “conte” si è prestato allo scherzo del giornalista, convinto che Coppi non avrebbe mai accettato la sfida. Sul giornale francese “Paris Match” appare addirittura un servizio fotografico che ritrae Corniglia nel giardino della sua villa, mentre si allena con la spada. In realtà la villa è il Parco della Rimembranza della Chiappa. I guai rischiano di arrivare quando un colonnello di San Benedetto del Tronto annuncia attraverso la stampa che accetta lui la sfida, al posto dell’Airone, lasciando al Corniglia la scelta delle armi. Fortunatamente il colonnello è tale quanto Corniglia è conte. La sua vicenda è come quella dell’aristocratico spezzino il frutto della fantasia di un altro giornalista desideroso di piazzare qualche articolo sulla stampa nazionale e tutto finisce lì. Senza spargimenti di sangue. Le Poste, nell’immediato dopoguerra, organizzano con il Pwb (l’ufficio degli alleati che si occupa dell’informazione e della propaganda) una sala stampa per i corrispondenti dalla Spezia nell’ufficio telex, in un’ala laterale al primo piano della loro sede in piazza Verdi, il palazzo disegnato dall’architetto Oliva durante il ventennio in uno stile razionalista. I giornalisti, non avendo di meglio, trasformano le cabine telefoniche della saletta in toilette. Non hanno il coraggio di sconsigliare – come amava raccontare Patroni – i primi colleghi inviati che vengono da fuori dall’utilizzare quelle nicchie maleodoranti per telefonare con conseguenze che è facile immaginare.

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Gino segue nei giorni successivi alla Liberazione il processo alla “Banda Gallo”, che torturava gli antifascisti nella caserma del Ventunesimo Fanteria (dove oggi sorge il plesso scolastico del Due Giugno). Lo colpisce la figura del prete, condannato a morte con i torturatori. Perché non solo assiste alle torture, ma vi partecipa. Si ubriaca con gli altri della banda in un deliquio sadico. Così come lo turba la figura di Aurelio Gallo, autista del vescovo diventato capo dei fascisti nel momento del dissolvimento del partito e della fuga dei gerarchi, dopo il 25 luglio. È cocainomane, organizza orge al Ventunesimo durante le sedute di tortura. Risparmia solo i giovani che accettano le sue avance. Come si evince dalle stesse cronache del processo. Gallo indossa una curiosa divisa. Inventata da lui stesso. Pantaloni e stivali delle SS, camicia nera, giaccone della Wermacht e berretto della guardia repubblichina. Il processo si tiene nella Palestra della scuola elementare Edmondo De Amicis di Via Napoli. Egidio Bogi, il padre del futuro deputato repubblicano Giorgio, presiede la corte. Difensore degli imputati per conto del Cnl è l’avvocato Gaetano Squadroni, socialista e padre del futuro segretario della Camera del Lavoro, oltre che assessore comunale, Andrea. Contro il legale, di specchiata fede socialista e antifascista, che con grande onestà difende gli aguzzini, sebbene in cuor suo ne auspichi la condanna esemplare, inveisce il pubblico composto prevalentemente da parenti delle vittime del mattatoio del Ventunesimo. Padri e madri che hanno perso i figli, fucilati o spediti nei campi nazisti. Mogli che hanno perso i mariti. Fidanzate che hanno perso il loro ragazzo. Fratelli e sorelle di giovani di 18, 19, 20 anni spa-

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riti nel nulla che hanno il torto di non aver aderito al “Bando Graziani” che ordina l’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale. Il processo si tiene in un clima rovente. Con quotidiane minacce di linciaggio. La palestra, assediata dalla folla di antifascisti inferociti che vogliono farsi giustizia da soli, è blindata dalle forze di polizia e dall’esercito. Come tutto il quartiere attorno a Piazza Brin. Camionette, cavalli di frisia e autoblindo sono distribuiti tra via Napoli e via Roma. Ci sono anche degli scontri. Ma il processo arriva a sentenza con le condanne capitali dei componenti la banda Gallo. Il giorno in cui i quattro vengono giustiziati, all’alba una camionetta della polizia partigiana passa a prendere, senza averli preavvertiti, tutti i giornalisti spezzini, tra cui Patroni, e li conduce a Montalbano perché assistano alla fucilazione e ne scrivano il resoconto come testimoni davanti all’opinione pubblica. Ma i parenti delle vittime non si fidano degli articoli che avrebbero dovuto provare l’avvenuta esecuzione dei condannati. Un gruppo di madri, mogli e fidanzate delle vittime salgono fin dove erano stati sepolti Gallo e i suoi. Li disseppelliscono e ne cavano gli occhi, li issano su delle canne, esibendoli come prova che la banda del Ventunesimo è stata giustiziata.

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La copertina con un disegno di Leo Longanesi, della raccolta postuma degli epigrammi di Patroni, La vita è una malattia ereditaria, Longanesi, Milano, 1992


Dal Liceo alla “Gazzetta” con Brera

Di articoli pagati a rigaggio non si campa. Così Gino si trova il posto fisso al Liceo Classico “Lorenzo Costa”, come applicato di segreteria. Ma continua a scrivere per “Il nuovo Secolo XIX”, liberale, per “La Stampa” e viene ingaggiato dalla “Gazzetta dello Sport”. È uno dei suoi momenti d’oro. “Ero popolarissimo. Gli studenti mi chiedevano l’autografo e con i rimborsi per le trasferte guadagnavo più come collaboratore della Gazzetta che come segretario del liceo”, rammentava Patroni. I suoi articoli sono sempre scanzonati. Paradossali. Umoristici. Ironici. Scrive “Il centravanti prende il palo, ma lo rimette a posto”, “Per la partita Lecco-Crema gli spalti erano gremiti di gatti”. La segreteria di redazione della “Gazzetta dello Sport” è inondata da lettere di protesta di lettori che avrebbero gradito cronache più sobrie e più conformiste delle partite di serie B. È il 1949 e alla Gazzetta si è appena insediato un condirettore giovanissimo: ha trent’anni si chiama Gianni Brera. A lui il segretario di redazione dell’epoca mostra il dossier con le lettere di protesta. Brera chiede di vedere gli articoli “incriminati” di Patroni. Poi sentenzia: “Basta, questo non deve più scrivere di serie B, quel tipo di pubblico non lo può apprezzare, è troppo bravo, deve fare la A”. Comincia così il lungo sodalizio umano e professionale tra Brera e Patroni, cementato nel buen retiro di Monterosso al Mare del grande giornalista e scrittore lombardo.

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