Guida alle leggende sul clima che cambia

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tascabili dell’ambiente


Stefano Caserini

guida alle leggende sul clima che cambia come la scienza diventa opinione

realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it coordinamento redazionale Anna Satolli e Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano immagine di copertina: Tyler Olson/Shutterstock © 2009, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 ISBN 978-88-96238-36-3 Finito di stampare nel mese di novembre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia - Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente: www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.verdenero.it


Stefano Caserini

guida alle leggende sul clima che cambia Come la scienza diventa opinione



sommario

premessa

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1. la scienza è divisa

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2. le emissioni umane di co2 sono trascurabili

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3. il pianeta non si sta scaldando

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4. il clima è sempre cambiato

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5. i ghiacci stanno aumentando

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6. è il sole la causa

degli attuali cambiamenti climatici

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7. il riscaldamento globale fa bene

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8. non tocca a noi ridurre le emissioni

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9. le politiche climatiche costano troppo

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10.ormai è tardi per fare qualcosa

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riferimenti bibliografici

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ringraziamenti

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... e mi aveva chiesto, dandomi del “lei”: “Perché ha l’aria così inquieta?”. Io che a quel tempo pensavo in tedesco, avevo concluso fra me: “Der Mann hat keine Ahnung”, costui non si rende conto. Primo Levi, Il sistema periodico, Vanadio.



premessa

L’umanità sta conducendo un esperimento pericoloso, che potrebbe cambiare significativamente le condizioni climatiche del pianeta per i prossimi millenni. Il pianeta non andrà a fuoco, ma il riscaldamento globale potrebbe creare grandi problemi alle generazioni future degli esseri umani e alle altre specie viventi. Nelle faccende della scienza non c’è mai la certezza assoluta, ma i dati delle misurazioni e le spiegazioni teoriche indicano che le responsabilità umane sono quasi certe e i pericoli gravi. Eppure, ancora nel 2009 sui giornali si sono potuti leggere titoli come “tutti sbagliati i numeri sui gas serra”, “i ghiacci stanno aumentando”, “il bluff del riscaldamento globale”. Nei telegiornali di prima serata il riscaldamento globale è stato definito una “pseudo teoria” e “fantascienza”, e si è sprecata l’ironia per le nevicate invernali. Nel parlamento italiano una mozione firmata da 35 senatori ha chiesto al governo di bloccare la politica climatica europea, negando i dati inequivocabili sul riscaldamento del pianeta, sull’innalzamento del livello dei mari e sulla fusione dei ghiacci, citando possibili benefici dall’aumento dell’effetto serra e il riscaldamento di Marte e Plutone.


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Ancora molti sono i dibattiti in cui, in nome di un confronto “bilanciato”, vengono proposte due tesi radicalmente diverse. Insomma, l’ipotesi che una faccenda importante come quella dei cambiamenti climatici sia una “bufala” o un “inganno ambientalista” ha ancora avuto spazio, troppo spazio. Uno spazio immeritato perché, come sarà mostrato in questo libro, se guardati da vicino gli argomenti che cercano di negare o minimizzare il problema dei cambiamenti climatici si rilevano infondati; miti e leggende metropolitane nel migliore dei casi, deliberate menzogne nei peggiori. L’intento del libro è mostrare l’inconsistenza di queste tesi, delle più note e utilizzate: il disaccordo fra gli scienziati, il caldo nella Groenlandia-terra-verde di Erik il Rosso, l’aumento dei ghiacci, le macchie solari e i raggi cosmici, i costi eccessivi delle politiche climatiche. Sono argomenti accattivanti, ripetuti e riciclati in varie forme, ormai diventati una sorta di mantra, come una preghiera declamata per evitare di confrontarsi con il problema climatico. Dal punto di vista scientifico sono argomenti che non esistono o hanno cessato di esistere anni fa. I temi trattati possono essere approfonditi nel mio precedente libro A qualcuno piace caldo (Edizioni Ambiente, 2008), a cui rimando per più dettagliati riferimenti bibliografici e per tanti altri esempi di occasioni in cui sono stati usati i miti e le leggende citate in questo volume.


1. la scienza è divisa

Secondo uno dei luoghi comuni più diffusi, gli studiosi che si occupano dei cambiamenti climatici sono divisi in due schieramenti, con pari dignità e numero di sostenitori: chi indica motivi di preoccupazione per i cambiamenti climatici causati dall’uomo, chi invece ritiene che il problema non esista o non sia significativo, o che comunque le responsabilità umane sulle variazioni climatiche già registrate negli ultimi decenni siano ancora tutte da dimostrare. Senza entrare nel merito degli argomenti utilizzati, che saranno oggetto dei prossimi capitoli, è necessario anticipare che questa è una rappresentazione sbagliata e fuorviante dell’attuale dibattito scientifico. Oggi è facile verificare che la stragrande maggioranza della comunità scientifica ritiene elevata la probabilità che nei prossimi decenni il pianeta dovrà fronteggiare cambiamenti climatici, originati dalle attività umane, pericolosi per le persone e gli ecosistemi che abitano il pianeta. Senza interventi seri e rapidi sul fronte delle tecnologie e sui modi di consumare energia, di abitare, di spostarsi, ci saranno danni di cui non è ancora possibile valutare interamente la portata. Le modifiche alle temperature del pianeta, alle masse ghiacciate e al livello dei mari dureranno millenni.


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Nella comunità scientifica che si occupa di cambiamenti climatici, le voci che negano l’importanza dell’influenza umana sul clima sono assolutamente minoritarie. Fisiologiche in un dibattito democratico, sono tesi screditate, la cui scarsa credibilità è stata ormai compresa anche dai decisori politici più riluttanti ad affrontare il problema. È questa una conclusione a cui chiunque può giungere ascoltando i più preparati climatologi di tutto il mondo. Oppure si può fare riferimento a due indagini statistiche condotte negli ultimi anni, che saranno spiegate dopo aver richiamato due degli strumenti usati dagli scienziati, del clima ma non solo, nel loro lavoro.

la revisione scientifica Per presentare e dibattere i frutti del loro lavoro, che siano dati di osservazioni sperimentali, risultati di un modello matematico o spiegazioni a un fenomeno fisico, gli studiosi usano pubblicare su riviste specialistiche che, prima della pubblicazione, sottopongono l’articolo a un processo di revisione affidato a persone competenti nel ramo. Questo processo, chiamato in termini anglosassoni “peer review” (revisione dei pari), garantisce il vaglio di una tesi da parte di persone dello stesso settore disciplinare, in grado di verificare la fondatezza delle affermazioni. È un processo faticoso e temuto, perché spesso si conclude con il rigetto dell’articolo proposto. Altre volte i revisori chiedono correzioni, importanti o minime, che ne permettano la pubblicazione. Gli autori della revisione rimangono anonimi, e svolgono il loro lavoro gratuitamente, con la principale ricompensa dell’aver contribuito all’avanzamento della conoscenza scientifica.


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Il sistema della peer review, come tutte le faccende umane, non sempre funziona. A volte “passano” articoli che poi si rivelano sbagliati, nei dettagli o anche in punti importanti. A volte sono rifiutati articoli corretti, solo perché i revisori non sono in grado di capirne la novità. Persino agli scienziati più accreditati può capitare di ricevere una stroncatura, anche pesante, cui seguono polemiche. È capitato anche che il rifiuto fosse legato a dissidi personali (il revisore conosce il nome degli autori), alla non appartenenza dell’autore alla “cerchia” degli amici. Un revisore pigro si affida all’autorità e non alla sostanza degli argomenti. Il numero consistente dei revisori, la loro appartenenza a diversi ambiti scientifici e geografici dovrebbe evitare questo problema. Il processo di revisione non è un processo perfetto, ma nel complesso funziona, assicura una selezione e la pubblicazione dei lavori scientifici più validi e interessanti, limitando quasi sempre quelli più deboli, meno solidi.

le riviste scientifiche La serietà di una rivista e il suo prestigio dipendono dalla qualità del processo di revisione. Quanto più è rigoroso, più evita la pubblicazione di lavori scadenti, tanto più vale. Proprio per la difficoltà del processo di revisione, le riviste scientifiche serie tendono a essere specialistiche. Solo alcune riviste “storiche” e molto prestigiose (come Science, Nature) riescono a considerare diversi settori scientifici. In campo ambientale ci sono riviste specifiche per chi si occupa di inquinamento dell’aria, delle acque, dei suoli, degli oceani, del sole, delle dinamiche ecologiche o del software ambientale.

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Sul tema dei cambiamenti climatici gli studiosi pubblicano su una manciata di riviste internazionali. I grandi lavori sulla climatologia sono pubblicati, oltre che su Science e su Nature, prevalentemente su riviste quali Journal of Geophysical Research, Geophysical Research Letters, Journal of Climate, Proceedings of the National Academy of Sciences o su Journal of the Atmospheric Sciences. Gli studi sull’influenza del sole su Journal of Atmospheric and Solar-Terrestrial Physics. Gli studi sugli scenari emissivi su Climate Policy, Climatic Change, su Environmental Science and Technology e Atmospheric Environment. Ma queste ultime due non sono specifiche della tematica dei cambiamenti climatici, e sono considerate per questo tema riviste minori. Pur se non è possibile definire una classifica “oggettiva” delle riviste scientifiche, perché i settori sono molto diversi e i criteri opinabili, sono stati proposti alcuni indici matematici, chiamati “Impact Factor”, per valutare l’importanza di una rivista in funzione di quanto i lavori da essa pubblicati sono citati, ossia in base a quanto entrano nel dibattito e quindi hanno un “impatto” sul mondo scientifico. Anche qui ci sono problemi. Questo sistema può infatti portare a privilegiare settori disciplinari molto affollati, in cui l’elevato numero di pubblicazioni rende più probabile la citazione del proprio lavoro; mentre ricerche di nicchia, ma su argomenti comunque importanti, potrebbero essere poco citate e per questo non riconosciute adeguatamente. Da quando la validità scientifica di un ricercatore è quantificata in larga parte sulla base del numero e della qualità delle sue pubblicazioni, la lotta alla pubblicazione e alla reciproca citazione rende conveniente la pubblicazione a raffica, a volte dello stesso lavoro scritto in modi diversi ma senza un vero nuovo contenuto informativo.


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928-0 e 97,4%

Due ricerche negli ultimi anni hanno cercato di valutare statisticamente l’opinione degli scienziati sul tema climatico. La prima, pubblicata nel 2005 su Science,1 ha mostrato come fra 928 articoli scientifici che si occupavano dei cambiamenti climatici globali nessuno negava il ruolo delle attività umane come principali responsabili del riscaldamento degli ultimi 50 anni. La ricerca era stata fatta sugli articoli pubblicati fra il 1993 e il 2003 sulle riviste scientifiche con sistemi di peer review. Si trovava, invece, qualche tesi più dubitativa se si consideravano lettere o editoriali, quindi articoli non sottoposti a revisione, oppure articoli su riviste di settori umanistici o delle scienze sociali, quindi non incluse fra le riviste di settori scientifici. La seconda ricerca ha posto direttamente agli scienziati alcune domande, fra cui “il pianeta si sta scaldando?” e “l’attività umana è un fattore significativo nel variare le temperature globali del pianeta?”. Hanno risposto “sì” alle due domande rispettivamente il 90 e l’82% degli intervistati. La cosa interessante di questa ricerca è che la percentuale dei “sì” cresce nettamente passando da studiosi senza pubblicazioni, a studiosi di altri settori (per esempio geologia, meteorologia), agli esperti di climatologia, identificati per l’aver più della metà delle pubblicazioni scientifiche nel settore dei cambiamenti climatici. Fra questi ultimi le percentuali dei due “sì” salgono rispettivamente al 96,2 e 97,4%. La conclusione della ricerca è stata: “Sembra che il dibattito sull’autenticità del riscaldamento globale e del ruolo delle attività umane non esista fra chi capisce le sfumature e le basi scientifiche dei processi climatici a lungo termine”.2

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la scienza non è democratica Nessuno può escludere che abbia ragione l’estrema minoranza che non è convinta delle responsabilità umane sui recenti cambiamenti climatici. La scienza non è democratica, si sente spesso dire. Galileo Galilei era in minoranza fra gli scienziati del suo tempo, poi si è visto che aveva ragione. Quindi potrebbero avere ragione i 2 climatologi (su 77) che non hanno risposto “sì” alla seconda domanda della ricerca citata in precedenza. Non essendoci certezze assolute sul clima, nessuno può escludere che domani o dopodomani venga pubblicato un articolo scientifico che smentisca tutti i precedenti. Questo è vero, ma la mancanza di certezze assolute non è specifica della scienza del clima, è comune a tutte le discipline: il riguardo per il dubbio è una caratteristica della scienza moderna. La scienza, però, non avanza solo con il dubbio, ma anche riconoscendo e accettando le conoscenze precedentemente emerse e che hanno superato livelli di verifica. “La scienza non è democratica” non significa che la scienza sia il regno dell’anarchia, in cui tutte le voci e le ipotesi hanno sempre pari dignità. Se è necessario il rispetto per le tesi dissenzienti, minoritarie, anche queste però devono essere sottoposte al controllo da parte della comunità scientifica e devono essere scartate se non superano il processo di revisione. Il dubbio e lo scetticismo sono ingredienti irrinunciabili del processo scientifico, che può anzi essere visto come una forma di sospetto organizzato, coltivato, ragionato. Ma non si deve dimenticare che c’è anche un uso sbagliato, se non fraudolento, dell’incertezza. Il richiamo alle troppe incertezze o alla


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necessità di prove più solide può essere una strategia, una copertura per evitare decisioni indesiderate che potrebbero conseguire al riconoscimento della realtà.

scetticismo e negazionismo Chi non è convinto, ha dubbi o perplessità su una parte più o meno grande delle tesi dei climatologi, sulla base di altri dati ugualmente sottoposti al vaglio critico, non va confuso con chi rifiuta di prendere atto delle evidenze, e ripropone tesi ormai screditate senza approfondirle o curarsi del dibattito scientifico che le ha confutate. In questi casi non è esatto parlare di scetticismo, termine che ha un’accezione positiva, laddove indica il giusto riguardo al dubbio e alla cautela. È preferibile il termine “negazionismo”, a indicare il rifiuto testardo e irragionevole di prendere atto delle evidenze scientifiche su cui la comunità scientifica ha raggiunto un consenso. Il termine negazionismo spesso suscita perplessità, in quanto si tratta di un’espressione inizialmente usata per chi ha negato la tragedia della Shoah. Anche se le parole sono strumenti, è giusto che per ricordare questo abisso dell’umanità (senza confonderlo con altri, e ce ne sono, toccati dalla specie umana), Olocausto, Shoah rimangano termini specifici di quanto successo in Europa prima della metà dello scorso secolo. Per altre parole non è così, forse perché quanto raccontano non è così intimamente specifico della tragedia del popolo ebreo. Campo di concentramento, camera a gas, soluzione finale e negazionismo sono termini che evocano la tragedia della Shoah, ma sono ormai adottati in altri contesti. Negazionismo è un

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termine usato per chi nega il declino delle disponibilità petrolifere e recentemente anche per chi nega che il Presidente Barack Obama sia nato negli Stati Uniti. Il confine fra scetticismo e negazionismo è a volte incerto. La differenza principale è che il negazionista si pone al di fuori del confronto scientifico, evitando di applicare alle sue tesi o alle sue critiche lo stesso rigore critico utilizzato per le tesi altrui. Di conseguenza, una caratteristica saliente del negazionismo è l’estremizzazione: un negazionista è molto in disaccordo con le tesi più accreditate, su punti fondanti, non sui dettagli. Un altro tratto tipico è la superficialità delle tesi alternative proposte, la mancanza di approfondimento e il disinteresse a fornire un quadro alternativo coerente, che superi una seria revisione critica. Il negazionista, inoltre, rifiuta di riconoscere gli aggiornamenti, non si cura di usare argomenti vecchi e screditati. Spesso attacca direttamente e personalmente chi la pensa in maniera diversa, mettendone in discussione l’onestà, la buona fede. Per esempio, un negazionista climatico definirà il problema del cambiamento climatico una “frottola”, un “bluff ”, proporrà l’ipotesi del complotto mondiale degli scienziati come giustificazione del largo consenso sulla spiegazione antropogenica dei recenti cambiamenti climatici. Oppure scriverà di esser certo che “la colpa di tutto è il sole”. Come si vedrà nei successivi capitoli, gli esempi sono, purtroppo, tanti.

il consenso scientifico L’esistenza di voci fuori dal coro non deve quindi stupire o spaventare: le più grandi comunità scientifiche di tutto il mondo stanno studiando da almeno quindici anni la crisi climatica,


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sono state condotte migliaia di ricerche riguardanti un po’ tutti i suoi aspetti; in queste condizioni è difficile, ossia poco probabile, che un singolo ricercatore, luminare o professore in pensione, possa smentire tutte le conoscenze precedenti. Gli scienziati che da anni lavorano in un settore si fanno un’idea di come vanno le cose in quell’ambito. Hanno il sentore dei punti più deboli del loro lavoro e di quelli più solidi, hanno la capacità di intuire quanto una nuova teoria, nuovi dati o i risultati di nuovi modelli possano cambiare il quadro preesistente. Questo intuito arriva dall’istinto sviluppato negli anni, da una profonda conoscenza teorica, dal maneggiare tanti risultati modellistici, da una lunga esperienza con le osservazioni. Nuovi risultati che cadono fuori dal quadro conosciuto spesso sono accettati a fatica; ma se sono solidi e sono adeguatamente supportati, alla fine saranno considerati e incorporati nel quadro esistente. Difficilmente nei prossimi decenni arriveranno dati definitivi o una nuova teoria sui cambiamenti climatici che metterà d’accordo tutti gli scienziati. Nel frattempo è necessario prendere delle decisioni, le migliori sulla base delle conoscenze disponibili; non prenderne, ossia continuare con gli attuali livelli di emissioni di gas serra, è anche questa una decisione. La definizione di un “consenso” è il modo migliore per far emergere dal dibattito scientifico quanto è più valido e può essere utilizzato dai decisori politici. Precisare i gradi di certezza raggiunti sui diversi aspetti di un problema è un elemento in più e di grande importanza per chiarire il confine fra le informazioni fornite dalla comunità scientifica e le necessarie e non delegabili decisioni della politica. La comunicazione fra scienza e politica non è infatti facile: spesso i decisori politici tentano di sostituirsi alla scienza nel definire i problemi e le loro possi-

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bili evoluzioni; d’altro canto, alcuni scienziati sembrano a volte dimenticare i limiti del loro ruolo. Questo perché la crisi climatica è complessa e ha molte implicazioni: non solo sulla salute delle persone, ma sulla qualità della vita, sulla crescita economica, sulla giustizia, sulla libertà delle persone. In più ha la specificità di riguardare soprattutto le generazioni future. Gli studiosi del clima, delle tecnologie e delle politiche economiche sono in grado di indicare quali possono essere le conseguenze di alcuni livelli di gas serra nell’atmosfera, i modi per impedirle, i relativi costi, i benefici complementari, i punti di conflitto o i possibili compromessi; ma non sono più esperti degli altri nello scegliere fra questi compromessi. Gli standard scientifici non permettono di scegliere fra la protezione ambientale e la giustizia sociale, fra la crescita economica nei prossimi anni e l’equità inter-generazionale. Il lavoro della scienza serve per chiarire con maggiore precisione fra cosa si può scegliere, quali sono le alternative. Se gli scienziati invocano alcune politiche, appellandosi all’obiettività della scienza, non devono nascondere che le loro posizioni dipendono in modo importante dai loro valori personali. Altri scienziati, sulla base degli stessi dati, possono consigliare politiche opposte, sulla base di diverse posizioni etiche, di un diverso sistema di valori. Gli scienziati devono esplicitare il grado di conoscenza delle diverse alternative, aiutando i decisori politici a gestire le incertezze e l’incompletezza delle conoscenze. Perché la cosa più facile per i decisori politici è rinunciare al loro ruolo, appellarsi all’incertezza scientifica per giustificare la loro inazione; la loro posizione potrebbe, invece, dipendere semplicemente dal peso che essi danno a considerazioni di tipo economico, sociale o personale.


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La storia delle politiche ambientali mostra diversi casi in cui il mancato controllo di un rischio ambientale non è dipeso solo dalle carenze nella conoscenza scientifica, ma dal contesto politico e sociale: un rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente3 ha mostrato ad esempio come l’attenzione dei decisori politici per l’evidenza scientifica del rischio da amianto, dalle radiazioni ionizzanti o dai pesticidi è dipesa dall’influenza di portatori di interesse sulle decisioni.

C’è una macchinazione mondiale che impedisce alle voci dissonanti di esprimersi, la pena per gli eretici è la negazione di fondi di ricerca. È un esempio di vittimismo e mistificazione: in realtà gli investimenti per la ricerca sul clima sono globalmente meno di un centesimo dei profitti delle compagnie petrolifere, del gas e del carbone (e molto di meno in Italia). Spesso chi propone una tesi negazionista sul clima si richiama a Galileo Galilei. Ma non è sufficiente sostenere una tesi minoritaria per somigliare a Galileo. Galileo è stato sì uno scienziato perseguitato dall’establishment scientifico del suo tempo, che trovava nella Chiesa il suo braccio armato. Ma Galileo è oggi celebrato perché aveva ragione, non solo perché è stato perseguitato.

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Pur proponendosi come razionale e morale, l’esaltazione del dubbio e dell’impossibilità per la comunità scientifica di assicurare l’affidabilità totale alle sue conclusioni, il continuo richiamo alle troppe incertezze o alla necessità di prove più solide può essere una precisa strategia, una scusa, una copertura per uno scopo ben preciso, una politica che non si ha il coraggio di rendere chiaramente esplicita. In passato, la strategia dell’incertezza è stata usata per cercare di ritardare altre politiche ambientali (per esempio la limitazione delle sostanze distruttrici dell’ozono stratosferico) o sanitarie (la lotta al fumo e poi al fumo passivo), richiedendo prove sempre più pesanti per azioni normative: se le prove richieste crescono oltre un certo limite la verifica si blocca.

una strana par condicio Il sapere diffuso, la percezione pubblica delle cause della crisi climatica non stanno progredendo di pari passo con la crescita del problema. Sulla stampa, in televisione e nei dibattiti pubblici la presenza delle tesi negazioniste, o che contestano il consenso sui cambiamenti climatici, è in Italia presente in quantità massiccia, a differenza di quanto succede sulle riviste scientifiche. Diversi sondaggi effettuati in Italia e nel resto del mondo hanno mostrato che l’opinione pubblica è molto meno convinta delle cause antropiche del riscaldamento globale di quanto lo sia la comunità scientifica. Le distanze sono abissali. Ciò è dovuto in larga parte al modo con cui i mezzi di comunicazione hanno informato sui cambiamenti climatici, un modo confuso e ambiguo. Da un lato stampa e televisione hanno assecondato una voglia diffusa di non credere alle evi-


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denze portate dalla comunità scientifica, i segni dei cambiamenti climatici già in corso e le proiezioni secondo cui in pochi secoli il pianeta potrebbe essere molto meno vivibile e ospitale per la specie umana. Dall’altro lato, frequenti sono state anche le esagerazioni, i sensazionalismi in relazione a ipotetici sconvolgimenti del clima previsti a brevissimo termine, anche a seguito di alcuni film (L’alba del giorno dopo, The Age of Stupid ) di indubbia efficacia sul piano degli effetti speciali. “La scienza è divisa” è un messaggio che ancora oggi arriva dai quotidiani, dalle televisioni, dai dibattiti pubblici. La formula del confronto fra sostenitori di due tesi radicalmente diverse sul problema climatico è quella preferita. Per esempio, una trasmissione di prima serata dedicata al clima nel luglio 20094 ha dato spazio a un noto negazionista, che ha potuto ripetere che “assolutamente si tratta di un falso allarme”, che “è un falso scientifico che l’uomo sia causa del riscaldamento globale... c’è la certezza che l’uomo non c’entra” e che quindi il Protocollo di Kyoto è una “colossale frode”. La formula del confronto è democratica, anche preferibile laddove si voglia rendere meno pesante la spiegazione di temi effettivamente complessi e impegnativi. Da diverse voci, dall’analisi delle differenze si capiscono meglio i dubbi, i punti critici e se i relatori sono vivaci magari ci si diverte. Nel confronto fra tesi opposte ci sono però dei punti deboli, dei pericoli. È pur vero che se il dibattito è ben impostato, con spazio per entrare nel merito, si capirà chi ha le migliori argomentazioni. Ma se il confronto non è organizzato e gestito adeguatamente si risolve in una gran confusione, senza la comprensione delle tematiche scientifiche; si passa alla comunicazione emozionale, con il lancio di slogan contrapposti: un

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pasticcio in cui le tesi sembrano tutte più o meno valide. E chi ha meno argomenti e magari sa meglio usare slogan e frasi fatte di facile presa, non ha che da guadagnarci. Negare spazio alle voci negazioniste può apparire poco democratico o addirittura arrogante. Ma vista la presenza largamente minoritaria di tesi negazioniste nel dibattito scientifico, un confronto con pari tempo a disposizione e numero di relatori è una sintesi distorta dello stato delle conoscenze. Se il fine è il progresso della conoscenza, non ci sono motivi per diffondere falsità e tesi senza fondamento. Per questo non ci sono più dibattiti bilanciati su altri temi in cui dal dibattito scientifico è emerso un consenso: per esempio i danni per la salute del fumo di sigaretta, o le presunte minori capacità intellettuali di alcune razze.

autorità e autorevolezza Un altro motivo per cui i confronti “bilanciati” sono spesso dei cattivi esempi di divulgazione scientifica, è che nei tempi veloci della comunicazione televisiva la carenza di preparazione può essere mascherata dall’autorevolezza, da generici titoli accademici o da una fama acquisita in altri settori, più che da una vera competenza ed esperienza sul tema climatico. Molti famosi negazionisti climatici non lasciano tracce in riviste scientifiche, anche non troppo prestigiose, o specifiche sul tema dei cambiamenti climatici. Spesso hanno invidiabili curricula, con molte pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali o dotate di sistemi di revisione, ma in altri settori disciplinari, nei quali hanno raggiunto meriti. Altri pubblicano solo su riviste non scientifiche, atti di convegni generalisti, quotidiani e settimanali nazionali o locali. Altri ancora si affidano al


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proprio sito internet, al proprio blog. In tutti questi casi non c’è un controllo “esterno” su quanto scritto. È importante che ci siano anche queste forme di divulgazione scientifica; ma non devono essere scambiate con i lavori scientifici veri e propri, in cui nuovi dati, teorie o risultati sono proposti e vagliati. In linea di principio non si può escludere che una grande intelligenza unita a una grande capacità di studio permetta a un neofita di dire cose importanti in un settore a lui del tutto sconosciuto. Ma la diffidenza è più che legittima se un estraneo a una disciplina annuncia di aver trovato degli errori clamorosi nel lavoro degli esperti di quel settore, se bolla come “bufala” il problema che altre migliaia di persone studiano con onestà e passione per tanti anni della loro vita. A favore del “principio di autorità” gioca sicuramente l’estrema complessità di molte ricerche scientifiche, in cui competenze specifiche rendono più facile la valutazione dei pro e dei contro, dei costi e dei benefici, delle alternative. Ma va ricordato che l’autorevolezza scientifica può cambiare nel tempo, che l’onestà con cui uno studioso giudica il lavoro proprio e altrui dipende da tanti fattori, non solo anagrafici, e che la storia della scienza è piena di esempi di studiosi svogliati, furbi, ma anche bugiardi e disonesti. Insomma, c’è differenza fra il cauto e utile riconoscimento di un’autorevolezza e l’inchino acritico al potere dell’autorità di un titolo accademico, in nome di una visione ottocentesca dello scienziato che “sa un po’ di tutto”.

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l’ipcc, il comitato onu sui cambiamenti climatici L’Ipcc, acronimo di Intergovernmental Panel on Climate Change (comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici), è un organismo istituito nel 1989 con il compito di fornire ai decisori politici e a tutta la comunità scientifica mondiale una valutazione della conoscenza scientifica disponibile sui vari aspetti dei cambiamenti climatici. L’Ipcc non fa direttamente ricerca, non studia in suoi centri di ricerca o laboratori la scienza del clima, ma ha il compito di valutare le informazioni disponibili per fornire ai decisori politici le basi per le loro decisioni. L’Ipcc svolge la funzione di supporto scientifico alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc, United Nations Framework Convention on Climate Change), e un suo primo compito è quello di sovraintendere alla realizzazione degli inventari delle emissioni di gas serra, che i vari stati devono realizzare nell’ambito della Convenzione. Il compito principale dell’Ipcc è la periodica pubblicazione dei rapporti di valutazione. A oggi ne sono stati pubblicati quattro, nel 1990, 1995, 2001 e 2007. Sono già iniziati i lavori per la realizzazione del quinto rapporto, che si prevede sarà ultimato nel periodo 2013-2014. Nei rapporti di valutazione sono presentate e discusse le conoscenze sul tema dei cambiamenti climatici. Si parte da quanto già pubblicato nella letteratura scientifica, quindi già sottoposto a una revisione, e si cerca di arrivare a una sintesi che sia al tempo stesso solida dal punto di vista scientifico e chiara per i non addetti ai lavori e per i decisori politici. I rapporti di valutazione sono composti da tre volumi, che contengono le sintesi dei tre gruppi di lavoro in cui è suddiviso il lavoro dell’Ipcc: il primo gruppo si occupa della scienza del clima, il secondo delle conseguenze ambientali e socioeconomiche dei cambiamenti climatici, il terzo delle strategie di mitigazione. Ogni volume è molto corposo (800-1.000 pagine) perché contiene tutti i dettagli e i riferimenti bibliografici. Viene rea-


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lizzato per ognuno dei tre volumi un sommario tecnico (circa 70 pagine) e una sintesi per i decisori politici (20 pagine). Infine viene redatto un rapporto di sintesi (circa 100 pagine) dell’intero lavoro. La scrittura di questi rapporti è effettuata da centinaia di esperti appartenenti alle università e ai centri di ricerca più qualificati del mondo. Per ogni capitolo sono selezionati due autori responsabili dei singoli capitoli, scelti in base al loro curriculum scientifico dal Bureau (il comitato direttivo) dell’Ipcc e successivamente approvati dall’assemblea plenaria dell’Ipcc. Il Bureau è a sua volta composto da scienziati qualificati a livello internazionale, proposti dai rispettivi governi, ma scelti dopo aver valutato le credenziali scientifiche. Attualmente il membro italiano è il prof. Carlo Carraro, economista e rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. I due autori responsabili affidano la scrittura delle singole sezioni di ogni capitolo a 10-15 autori principali, che possono scegliere a loro volta di farsi aiutare da altri scienziati, selezionandoli sulla base delle competenze negli specifici settori disciplinari, cercando per quanto possibile di garantire anche una diversificazione per area geografica di provenienza. Il lavoro degli scienziati selezionati è su base volontaria e non retribuita dall’Ipcc, a eccezione dei rimborsi spese per gli autori principali, i membri del Bureau e gli scienziati dei paesi in via di sviluppo. La stesura dei rapporti è molto elaborata: le parole sono pesate con attenzione, le affermazioni sono valutate con cura, l’approccio è obiettivo e trasparente; la sicurezza o l’incertezza su una tesi è comunicata facendo riferimento a linee guida pubbliche e condivise. Ogni passaggio del Sommario per i decisori politici è collegato al capitolo del rapporto in cui quell’affermazione è spiegata e ancorata in modo preciso, a volte pedante, alla letteratura scientifica. L’intero rapporto è sottoposto a tre passaggi di revisione, aperti a tutti gli scienziati esperti nel settore. Le proposte e le critiche dei revisori sono considerate e viene data una spiegazione per

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guida alle leggende sul clima che cambia

l’accettazione o il rigetto di una richiesta di modifica. La revisione avviene anche a opera di esperti formalmente nominati dai governi, ma è possibile per tutti gli studiosi del settore proporsi come revisori, inviando un curriculum scientifico che attesti le proprie competenze. Tutti i rapporti dell’Ipcc si possono scaricare gratuitamente dal suo sito web (www.ipcc.ch) nelle cinque lingue base dell’Onu (inglese, francese, spagnolo, russo, arabo e cinese). In italiano è disponibile la traduzione dei tre “Sommari per i decisori politici” del Quarto rapporto di valutazione, effettuata dal Focal Point nazionale dell’Ipcc, coordinato da Sergio Castellari del Centro euro-mediterraneo per i cambiamenti climatici. I file sono scaricabili dal sito www.cmcc.it. Anche se i rapporti Ipcc sono stati molto criticati dai negazionisti climatici, va ricordato che sono stati accettati dalle più importanti accademie e organizzazioni scientifiche mondiali. L’Ipcc ha ricevuto il premio Nobel per la Pace 2007, insieme all’ex vice presidente Usa Al Gore, per “lo sforzo nel creare e diffondere una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici di origine umana, e mettere le basi per le misure necessarie per contrastare questi cambiamenti”.


la scienza è divisa

Il Quarto rapporto di valutazione dell’Ipcc, pubblicato nel 2007, ha coinvolto 1.250 autori e 2.500 revisori, secondo un processo bene definito e trasparente, gestito da un’organizzazione dell’Onu. Le organizzazioni negazioniste hanno risposto con due volumi. Il primo, l’Independent Summary for Policy Makers, è stato pubblicato nel 2007 dal Fraser Institute, e presto ribattezzato dai climatologi più preparati l’Incorrect Summary for Policy Makers. Il secondo, Climate Change Reconsidered, è stato pubblicato nel 2009 dall’Heartland Institute. La frase con cui si apre questo rapporto è: “Prima di un’importante intervento chirurgico, non vorresti una seconda opinione?”. L’argomento è in effetti accattivante, ma va ricordato che l’Heartland Institute è un’organizzazione lobbistica che in passato ha molto operato contro i limiti al fumo di sigaretta e ha in seguito ricevuto ingenti finanziamenti dall’ExxonMobil, una delle più grandi società petrolifere. Insomma, non si può negare un conflitto d’interessi: una seconda opinione è per tutti benvenuta prima di un’operazione importante, ma l’opinione dell’agenzia di pompe funebri non è molto utile.

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