Dalla caverna alla casa ecologica – illustrato

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Dalla caverna alla casa ecologica Storia del comfort e dell’energia



Federico M. Butera Dalla caverna alla casa ecologica Storia del comfort e dell’energia


Federico M. Butera dalla caverna alla casa ecologica storia del comfort e dell’energia realizzazione editoriale

Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it

coordinamento redazionale:  Diego Tavazzi progetto grafico:  GrafCo3 Milano, Roberto Gurdo impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina:  elaborazione GrafCo3 Milano

© 2004, 2007 © 2014 nuova edizione Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-6627-123-9 Finito di stampare nel mese di novembre 2014 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta certificata FSC i siti di edizioni ambiente

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sommario

prologo

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1.  dalla caverna alla casa romana

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2.  dal freddo dei secoli bui al tepore della stufa

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3.  la svolta del xix secolo

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4.  sia la luce e la luce fu (elettrica)

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5.  il freddo e il fresco

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6.  nascono gli elettrodomestici

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7.  il vetro e l’architettura moderna

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8.  i persuasori occulti

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9.  il prezzo del comfort

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10.  la casa sostenibile

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11.  energia per la città

207

12.  il futuro

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timeline

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crediti fotografici

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E dabbasi considerare, come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene. Niccolò Machiavelli, Il Principe



prologo La svegliò il trillo del telefonino. Rispose con la voce ancora impastata dal sonno. “Pronto.” “Che fai, dormi?” “Sì, stavo dormendo. Perché, che ore sono?” “Le undici. Ma allora non sai niente.” “Niente cosa?” “Il black out. Tutta l’Italia è al buio da questa notte. Tutta. Per fortuna ho una radiolina a pile, e ho potuto sentire il giornale radio.” “Ecco perché non mi sono svegliata. La radiosveglia non ha funzionato. Beh, meglio così. Avevo proprio bisogno di una bella dormita, con la giornata che mi aspetta. Tanto fra poco torna.” “No, fra poco non torna. Pare che il guasto sia gravissimo e ci vorrà parecchio tempo prima che possano ripararlo. Mettiti il cuore in pace; è probabile che non riescano a riattaccare la luce prima di questa notte. Meno male che è domenica...” “Catastrofista. E poi, cosa vuoi che sia. Siamo riusciti a sopravvivere senza corrente elettrica per migliaia di anni; ci riuscirò anch’io per qualche ora. Ma che volevi dirmi?” “Niente. Questo. Volevo sapere come te la cavavi. Ci risentiamo più tardi. Ciao.” “Ciao.” Si girò per accendere la luce del comodino. Click. Niente. “Già, c’è il black out”, pensò. “Del resto, basta aprire gli scuri.” Uscì dalle coperte e trovò l’aria un po’ troppo fresca per i suoi gusti. “Che succede? Vuoi vedere che s’è guastato il riscaldamento? Di domenica, naturalmente.” Si avviò in cucina per controllare la caldaia. Spenta, come previsto. “Maledetta sfortuna. Ci mancava pure questa. Fra poche ore la casa sarà gelida, col freddo che fa fuori.” Si fermò. Un dubbio le balenò nella mente. Si avviò di nuovo verso la caldaia. “Vuoi vedere...” L’intuizione era giusta. La luce di blocco della caldaia era spenta. Tutte le lucine erano spente. Non era guasta la caldaia; si era bloccata perché mancava la luce. “Ok. Meglio così, dopo tutto. Quando torna la luce ricomincerà a funzionare.” Si mise addosso una giacca di lana e si avviò verso i fornelli per prepararsi il caffè. Movimenti automatici: gira la manopola, premi per fare scoccare la scintilla e via. E via cosa? Nessuna scintilla, solo puzza di gas. Provò di nuovo, con un’altra manopola. Niente scintilla e niente fiamma. “Dio, anche questa. L’accensione è elettrica.”


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L’Europa vista dallo spazio di notte. Senza black out...

Cominciò freneticamente a rovistare in tutti i cassetti alla disperata ricerca di un fiammifero o di un accendino. Niente. Da nessuna parte. Maledisse il giorno in cui aveva deciso di smettere di fumare. “D’accordo. Mi tocca vestirmi e scendere al bar, per prendere un caffè. Senza caffè non riesco a ragionare.” Cominciò a vestirsi, in uno stato d’animo che oscillava fra la rabbia e la depressione. Anche perché le fu subito chiaro che il suo splendido appartamento panoramico al dodicesimo piano si era trasformato in una maledetta trappola, con l’ascensore che non funzionava. Decise comunque di uscire, anche se ritornare a casa le sarebbe costato una bella fatica. “Un momento. E se dopo essere scesa scopro che neanche la macchina per il caffè del bar funziona?” Telefonò al bar. Confermato. Niente caffè. “Calma. Ragioniamo” si disse. “Non lasciamoci prendere dalla depressione. Oggi devo fare tantissime cose, in casa. La prossima settimana sarà un inferno in ufficio.” Lo sguardo le cadde sul telefonino che aveva in mano e vide che la batteria era or-


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mai all’ultima tacca. Si alzò e meccanicamente prese il caricabatteria, lo collegò al telefonino e lo inserì nella presa di corrente. Mentre aspettava il segnale “in carica” un sorriso amaro le si dipinse in volto. “Ma che carica. Non c’è luce. Bella idea quella di eliminare il telefono fisso, per risparmiare. E ora come faccio quando si scarica?” Decise di spegnerlo, per usarlo solo in caso di necessità. “Ora basta. Think positive. Una bella doccia calda e mettiamoci al lavoro. Bisogna avviare la lavabiancheria con il bucato di più di una settimana, fare andare la lavastoviglie piena di piatti e bicchieri della cena di ieri sera con gli amici, dare una vigorosa passata di battitappeto e di aspirapolvere in salotto, il tutto con un buon sottofondo musicale, stile film americani.” Si lasciò andare sul divano e scoppiò in singhiozzi. C’era il black out. Non poteva fare niente, neanche la doccia. Lentamente si riprese. “Non è possibile, non posso lasciarmi prendere da una crisi depressiva per queste stupidaggini. Proprio io, donna impegnata, decisa, indipendente, single per scelta. Ora basta. Un bel bicchiere d’acqua e via, riorganizziamo la giornata. Qualcosa di buono si deve poter tirare fuori da tutta questa storia. Vuoi vedere che è l’occasione per un magnifico riposo forzato?” Si avviò in cucina e aprì il rubinetto. Un esile filo, qualche goccia, e poi basta; solo un sinistro gorgoglio. “Oh c..., neanche l’acqua! Per forza, anche l’autoclave non funziona.” Per un attimo fu colta dal panico, ma subito si riprese. Anche perché cominciava a prendere il sopravvento un’altra sensazione, fisica, più forte: il freddo. “Maledette case moderne. Me l’aveva detto il mio amico che studia queste cose: le strutture in acciaio e vetro – magari belle, bellissime a vedersi, per chi ha questi gusti – sono troppo leggere, e si raffreddano rapidamente se l’impianto si ferma. Se abitassi in una casa antica, con bei muri spessi, ci vorrebbero giorni prima di raffreddarsi così.” Indossò un altro pullover e calzettoni da neve. Aveva sete e un po’ di fame. Aprì il frigorifero, dove per fortuna c’erano una confezione di succo d’arancia e del latte. C’erano anche formaggi e qualche resto della sera prima. Non sarebbe morta di fame. E poi c’era il vino, che l’avrebbe aiutata a combattere il freddo. Ormai era entrata nello spirito del naufrago sull’isola deserta. Visto che il frigorifero non funzionava, ebbe cura di richiudere rapidamente la porta, per mantenere il freddo. Poi ci ripensò, e la spalancò: tanto ormai la casa era fredda. Aprì il surgelatore, ne tirò fuori tutto quello che era ricoperto di brina e lo mise in una pentola: sciogliendosi, la brina sarebbe diventata acqua da bere. Poi si ricordò improvvisamente che, ai tempi in cui fumava, le avevano regalato un accendino orrendo, che si era premurata di nascondere in quel cassetto che lei chiamava il museo degli orrori e che conteneva tutti i regali terribili che non osava nemme-

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no riciclare. Lo trovò. Era scarico, ma faceva ancora la scintilla. Accese il gas e riscaldò alcuni avanzi. Il pasto, sia pure frugale, la mise di umore migliore. Trovò la forza di entrare in bagno, maleodorante per la mancanza d’acqua, poi andò in camera da letto a prendere una coperta, tornò in salotto, scelse un libro dallo scaffale, si stese sul divano avvolta nel bozzolo caldo, e si mise finalmente a leggere quel romanzo che da tanto stava in lista d’attesa, per mancanza di tempo. Non tutto era negativo, nel black out. Il primo impulso, infatti, era stato quello di accendere il televisore, per avere notizie; e poi, come sempre, avrebbe finito col rimanere incollata allo schermo presa da qualche stupido film. Oppure avrebbe preso il sopravvento il senso del dovere e avrebbe acceso il computer, per lavorare un po’. S’era fatto quasi buio, ormai, e non se n’era accorta, immersa com’era nella lettura. Fece per alzarsi e accendere la luce. Poi balzò in piedi, presa dal panico. “La luce! È quasi sera e non ho neanche una candela, né una torcia elettrica. Dove diavolo trovo queste cose di domenica? Devo uscire, ma le scale sono al buio. E dove vado? Non conosco nessuno in questo palazzo. E poi, anche se bussassi, sconosciuta, chi mi aprirebbe, nell’oscurità? Io non aprirei.” Si tormentava le mani, angosciata, alla ricerca di una soluzione. “Giorgio. Sì, Giorgio forse può suggerirmi qualcosa. È lui che sa tutto del caldo, del freddo, dell’energia. È un ingegnere. Solo lui può aiutarmi, forse, anche se non è in città.” Riaccese il telefonino. E Giorgio infatti le diede la soluzione: una lampada primitiva, fatta con un piattino o un altro contenitore leggermente convesso pieno d’olio di oliva, in cui immergere un pezzo di cotone idrofilo arrotolato in modo da formare un grosso stoppino, con una delle estremità sporgente dal bordo. Bastava accendere questa estremità alla fiamma del gas (che si era preoccupata di lasciare accesa) ed ecco una funzionale lampada ad olio. E ne poteva fare tante, e tante ne fece. Era sera, ma aveva la luce. Faceva sempre più freddo. Le venne un’idea. “E se accendessi tutti i fuochi e il forno, non potrei riscaldare la cucina?” Detto fatto. Trasferì in cucina una poltrona, tutte le lampade a olio, socchiuse la porta e si raggomitolò avvolta in una coperta. Era fatta. In breve tempo l’ambiente fu tiepido e, a suo modo, anche piacevole con quelle luci calde e tremolanti, seppure un po’ puzzolenti. “Ma guarda”, si disse, “mi sono ridotta nelle stesse condizioni in cui ci si trovava mille, duemila anni fa. Un fuoco sempre acceso, che serve per cucinare e per riscaldarsi, e delle lampade a olio per illuminare. Se voglio l’acqua devo portarla su a piedi; certo, in questo caso è acqua minerale e non quella della fontana, ma il concetto è lo stesso. E se il black out continuasse per giorni? Anche il cibo dovrei andare a comprarlo ogni giorno – il frigorifero non funziona – e portarlo su. E meno male che ho il gas, se no dovrei anche portare su la legna. E la biancheria? Dovrei lavarla a forza


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di braccia; con quali attrezzi poi? Le stoviglie le ho lavate a mano tante volte: questo non mi preoccuperebbe. Poi dovrei scopare e spolverare dappertutto, battere fuori dalla finestra tappeti e tende con il battipanni (e chi ce l’ha più?). Non avrei più tempo per nient’altro. E sono sola. Pensa se avessi un marito e dei bambini.” Le venne di nuovo fame. Mangiò qualcosa, non facendosi mancare del buon vino. Era stanca, spossata dalla tensione, non certo dalla fatica. Decise di andare a dormire. Spense il forno e tutti i fuochi tranne uno, e si avviò in camera da letto. Il gelo, uscendo dalla cucina, la paralizzò. Il pensiero di spogliarsi tremando e di infilarsi fra due lenzuola ghiacciate la indusse a un repentino dietrofront. Tornò nella calda e accogliente cucina e si dispose a passare la notte lì, avvolta nelle coperte, sulla poltrona. Scivolò lentamente nel sonno, pensando: “Ma come diavolo facevano a vivere prima del gas, della luce elettrica, dei termosifoni, degli elettrodomestici, dell’acqua corrente, calda e fredda? Che vita era mai quella? Io ho tutte le apparecchiature che mi servono per vivere in modo infinitamente più confortevole, ma sono inanimate, morte. E cosa le anima? L’energia: elettricità, gas. Ma allora è vero che questa energia è importante anche per me, per la mia vita di ogni giorno; non è solo un concetto astratto. Petrolio, carbone, gas non sono minerali come l’oro o lo stagno, mi condizionano molto più pesantemente. Per questo si fanno ancora guerre per il petrolio. E se a causa di quello che chiamano il cambiamento climatico dovessimo essere costretti a rinunciare per sempre al petrolio, al gas, al carbone, dovremmo finire di nuovo al freddo e al buio? Dovrei saperne di più, su tutto questo.” Alle tre di notte la radiosveglia cominciò a lanciare frenetici bip. Il black out era finito.

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1.  dalla caverna alla casa romana la casa come tana Lavoravano poco, i nostri progenitori cacciatori-raccoglitori che popolavano la Terra oltre 10.000 anni fa: tre-quattro ore al giorno. E consumavano poco, solo energia muscolare e legna per il fuoco. Erano anche abbastanza efficienti, nell’uso dell’energia; la caccia al cervo con le lance ebbe inizio con un’efficienza di 7 calorie acquisite (mangiandolo) per ogni caloria spesa (cacciandolo), che scese a circa 4:1 a mano a mano che questi animali scarseggiavano. Successivamente, l’introduzione di archi e frecce elevò di nuovo il rapporto fino a 9:1.1 Con l’introduzione dell’agricoltura l’efficienza energetica aumentò enormemente, grazie soprattutto all’irrigazione, e si arrivò a rapporti calorie acquisite/calorie spese dell’ordine di 50:1 (un bel record, se si pensa che oggi il rapporto calorie acquisite/calorie spese si è invertito ed è diventato 1:10; nella nostra dieta c’è soprattutto petrolio).2 Ed è proprio l’agricoltura che dà vita al primo sistema sociale e al prototipo di quella che sarà poi la città. Prototipo che già porta a un incremento dei consumi energetici, se confrontati con quelli delle bande nomadi di cacciatori-raccoglitori. Occorre energia per costruire le case e i magazzini, energia per arare e seminare, energia per trasportare, per cuocere e riscaldarsi, per costruire gli attrezzi. L’energia meccanica è tutta muscolare, e quella termica viene dalla combustione della legna; all’origine di tutto c’è l’energia solare, che alimenta le piante, che a loro volta forniscono nutrimento agli animali e agli uomini. Il sistema, però, è autoregolato: non si può consumare più energia di quella disponibile e, per averne di più, si può solo migliorare la tecnologia di conversione e inventare sistemi che consentano di usarla al meglio attraverso cicli chiusi. I cicli chiusi sono quelli che generano trasformazioni senza dare luogo a rifiuti. Tutti i grandi cicli planetari sono chiusi, come quello dell’acqua, in cui le nuvole scaricano la pioggia, che alimenta i corsi d’acqua, i laghi, il mare; poi l’acqua evapora e ritorna nell’atmosfera a formare di nuovo le nuvole. Anche a scala più piccola, negli ecosistemi locali, l’equilibrio si regge grazie a cicli chiusi, come quello che usa la materia organica decomposta come alimento per i vegetali, che crescono e alimentano gli animali i quali a loro volta, quando muoiono, si decompongono e nutrono i vegetali... In tutti e due i casi c’è la necessità di un motore che faccia andare avanti il ciclo, ed è l’energia solare. Proprio il vincolo del ciclo ha permesso, per un lunghissimo periodo storico, di mantenere elevata l’efficienza energetica. Dunque i nostri antenati erano energeticamente efficienti; ma che dire della qualità della loro vita?

I primi ripari.


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I primi villaggi.

Una casa ricca a Ur, Mesopotamia.

Proviamo a fare uno zoom nello spazio e nel tempo per visitare un villaggio primitivo, nel periodo fra 11.000 e 6.000 anni fa, nella culla della civiltà agricola, la Mesopotamia. Ci appare un insieme di capanne circolari con muri di fango mescolato con canne, circondato da piccole estensioni di terreno coltivato. Questi campi hanno forma irregolare: non c’è motivo di farli rettangolari se non c’è ancora l’aratro. Il villaggio è vicino a un corso d’acqua o a uno stagno, dove qualcuno è intento a catturare uccelli o pesci. Ci sono granai comuni, fatti di canestri di foglie di canna intrecciate, interrati per proteggerli dalle intemperie e dagli animali. Il villaggio è piccolo: è costituito da non più di una cinquantina di famiglie, ciascuna con la sua capanna e il suo focolare; il fumo esce da un buco nel tetto. La vita non è dissimile da quella di un villaggio sulle rive del fiume Niger, oggi. Ogni giorno le donne devono trasportare l’acqua dal fiume alla capanna, raccogliere la legna, macinare il grano (o il sorgo o il miglio), fare il bucato, accudire agli animali, cucire, tessere, allattare, occuparsi dei bambini, badare al fuoco, cucinare. Gli uomini lavorano i campi, pescano, riparano gli attrezzi. Si cucina all’interno della capanna, nera di fuliggine che provvidenzialmente impermeabilizza il tetto di frasche, e piena di fumo che allontana gli insetti (e la salute). Il materiale da costruzione che si afferma luogo per luogo è ovviamente quello più facilmente disponibile e lavorabile. Non a caso in Mesopotamia, dove era di difficile reperibilità, la pietra arriva per ultima e non a caso è presente solo nelle costruzioni rituali. Non accade lo stesso nella valle del Nilo, dove la pietra era presente in abbondanza. La pietra, comunque, era un materiale per le case dei ricchi o per i templi; i poveri usavano solo il fango essiccato. Nelle città della Mesopotamia i muri, fatti di mattoni crudi o cotti (negli edifici importanti), venivano impermeabilizzati con bitume impastato con calce o marna. Il bitume veniva usato anche per impermeabilizzare le barche, le navi, i canali di irrigazione, i recipienti. L’Iraq era (come oggi) ricco di petrolio, e il bitume affiorava spontaneamente in molti punti. Dalle caratteristiche degli sbuffi di gas naturale (accadimento, durata) venivano tratti buoni o cattivi auspici: si riteneva che i sibili prodotti dal gas passando attraverso le fessure delle rocce fossero le voci degli dei inferi. Ma anche allora il petrolio era una fonte di guadagno ed esistevano già le “petroliere”: un testo antico accenna a cinque navi cariche di bitume inviate a Ur. Un commercio fiorente che finì solo quando, con i Greci e i Romani, il fabbisogno di materiale impermeabilizzante fu soddisfatto con catrame di legna e pece. I mesopotamici conoscevano molte varietà di prodotti petroliferi, ma il petrolio grezzo non veniva utilizzato. Il perché ce lo spiega Plinio, che lo indica con il nome di “nafta” (la parola greca naphtha deriva dal babilonese naptu, che a sua volta viene dal verbo che significa “fiammeggiare”):


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“... Alcuni competenti includono tra i bitumi la nafta, una sostanza che abbiamo menzionato... ma la natura infiammabile che essa possiede e la sua tendenza ad accendersi la rendono inadatta all’uso”.3 Non la si pensa così oggi. La casa, allora, non era pensata per passarci dentro molto tempo. La vita si svolgeva tutta all’aperto. La casa serviva esclusivamente come riparo dalla pioggia e per dormirci la notte, insomma come una tana il cui scopo era garantire impermeabilità e proteggere dal freddo notturno. La casa come la intendiamo noi oggi, luogo in cui si crescono i bambini, ci si rilassa dalle fatiche del lavoro, si incontrano gli amici, microambiente accogliente realizzato per garantire il nostro benessere, è un’acquisizione relativamente recente, come si vedrà meglio in seguito. Del resto, perché mai i nostri progenitori avrebbero dovuto passare più del tempo strettamente necessario in un antro buio e freddo (o caldo in estate)? Il vetro alle finestre non esisteva; quindi in inverno bisognava scegliere se stare al freddo e al buio, al più squarciato dal chiarore di

ortogonale è meglio Esempi di griglia urbana ortogonale si possono trovare sia nell’area mediterranea sia in Asia. Olinto, in Grecia, aveva una pianta reticolare con assi nord-sud/est-ovest in cui le abitazioni erano divise in insulae, specie di condomini. Ciascuna casa era progettata in modo da avere una facciata a sud e un cortile interno. In Macedonia, la “città del sole” di Priene, uno dei porti più importanti della federazione ionica, aveva già nel IV secolo a.C. un piano urbano geometrico, introdotto da Ippodamo di Mileto. A el-Lahun, in Egitto, venne costruita per alloggiare operai e schiavi che lavoravano alla realizzazione di una vicina piramide; aveva un lay-out a scacchiera formato da circa 300 abitazioni di quattro-cinque stanze, una ventina di case per i sovrintendenti e una decina di palazzi per i funzionari capi. C’era anche, su un terreno leggermente rialzato, un’area destinata ai raduni. Al centro delle strade era stato realizzato un condotto di scarico per il drenaggio delle acque piovane e dei rifiuti. Mohenjo-Daro, nella valle dell’Indo, è l’esempio più antico (2.500 a.C.). Era caratterizzata da una pianta a scacchiera con le strade orientate esattamente secondo gli assi nord-sud ed est-ovest, e con sistemi di raccolta dei rifiuti già molto avanzati. Le strade dritte e larghe che segnavano gli assi principali della città non erano però destinate alle attività correnti, che invece si svolgevano in vicoli stretti e tortuosi per meglio difendersi dal sole o dal vento.

Pianta di Olinto, Grecia.

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una debole lampada a olio, o affumicati, se il fuoco era acceso, con porta e finestre chiuse. Le finestre erano piccole, poste in alto, per consentire la ventilazione in estate e fare uscire il fumo del focolare quando si era costretti a cucinare all’interno. La luce entrava dalla porta, che stava quasi sempre aperta, tempo permettendo. Che la casa venisse usata solo per queste funzioni essenziali è dimostrato dalla scarsità e povertà delle suppellettili: un tavolo, una panca e degli sgabelli per sedersi durante il pasto, e cassapanche per conservare gli oggetti di uso meno frequente; una situazione, questa, che si trascinò fino a Medioevo inoltrato. Mentre i più poveri ricercavano la luce e l’ombra nelle strette viuzze, i ricchi si potevano permettere una corte interna che costituiva lo spazio all’aperto in cui si passava la maggior parte del tempo e dove si svolgevano le attività domestiche. Un esempio viene dalla città di Ur, dove le case dei ricchi erano fatte di mattoni e si aprivano su una corte interna su cui si affacciavano delle balconate di legno.

il salto di qualità: impianti e servizi urbani Nel periodo che seguì la formazione dei primi insediamenti, furono numerose le città che si svilupparono secondo criteri che gli urbanisti di oggi farebbero bene a seguire. La regola principale era costituita dalla griglia urbana, rigorosamente ortogonale con assi orientati nord-sud ed est-ovest. In Mesopotamia, durante l’egemonia degli Accadi (2.000 a.C. circa) le città avevano condutture di scarico per i rifiuti domestici e l’acqua piovana. A Eshnunna tutte le stanze da bagno e i gabinetti erano disposti lungo l’esterno del fabbricato, in modo da fare affluire direttamente acqua e liquami in un collettore fognario con volta a botte che si estendeva per l’intera lunghezza della strada; le stanze da bagno avevano il pavimento di mattoni ricoperti di bitume, mentre i gabinetti erano rialzati in modo da costituire un sedile, pure rivestito di bitume. A Mohenjo-Daro, a Ur e anche in cittadine come Lagash, gli scavi hanno messo in luce una serie di caratteristiche comuni: strade curate, struttura urbana regolare, stanze da bagno, latrine in ogni casa, tubazioni in terracotta e, lungo le strade, canali in muratura per la raccolta dei liquami e condotti per l’acqua piovana. Le immondizie prodotte in casa venivano scaricate, attraverso tramogge, in contenitori di raccolta a livello stradale e da lì venivano portate in pattumiere sistemate in punti strategici lungo le strade. L’acqua di scarico entrava nelle fognature dopo essere stata raccolta in pozzi ermetici e rivestiti di mattoni (qualcosa di simile alle attuali fosse di prima decantazione). La presenza di orti urbani o periurbani permetteva l’impiego come concime degli escrementi e dei rifiuti (allora solo organici), che venivano raccolti e trasportati nei luoghi di utilizzo. La planimetria dell’antica città di Shibam (Yemen, IV-V secolo a.C.), con la sua


1. dalla caverna alla casa romana

La planimetria dell’antica città di Shibam (Yemen, IV-V secolo a.C.).

Facciata di servizio delle case di Shibam.

distribuzione di piazze, strade e vicoli ciechi è pensata per permettere la raccolta dei rifiuti organici umani da usare come concime. Ogni abitazione era dotata di gabinetti che scaricavano all’esterno differenziando le urine dalle feci, che mediante condotti in facciata venivano raccolte in ceste, dove si essiccavano rapidamente grazie al clima caldo e secco per poi essere usate nei campi come fertilizzanti. La divisione fra rifiuti solidi e liquidi veniva fatta già in casa grazie alla struttura del gabinetto, a due comparti, in cui quello anteriore raccoglieva i liquidi e quello posteriore i solidi: del tutto simile al “nuovo” tipo di wc a due vie che viene oggi proposto ai cittadini più sensibili all’ambiente dell’Europa centro-settentrionale. Le facciate di servizio, quelle su cui si affacciavano i gabinetti, davano tutte su vie secondarie o perimetrali. La compattezza del lay-out urbano permetteva di proteggersi dal sole. Le terrazze erano usate anche per raccogliere l’acqua piovana, che veniva convogliata in cisterne scavate sotto le case. Anche l’approvvigionamento d’acqua era un elemento importante: nelle città più evolute, essendo insufficiente la quantità che si poteva raccogliere a causa della scarsa piovosità, si cominciò a trasportarla da luoghi lontani e la si distribuiva in fontane che costituivano un luogo importantissimo di interazione sociale. Questi esempi, però, non erano destinati a durare o a essere replicati. A mano a mano che le città crescevano di dimensioni e si addensavano, le strade

Solidi

Liquidi

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note 1. È il titolo di un articolo a firma di uno dei pionieri dell’architettura bioclimatica, Edward Mazria, che sottotitola: “Chi realmente tiene le chiavi del termostato globale? La risposta potrebbe sorprendervi”. Mazria E., “It’s the Architecture, Stupid”, Solar Today, maggio-giugno 2003. 2. Banham R., The Architecture of the Well-tempered Environment, The University of Chicago Press, Chicago, 1984. 3. Maldonado T., Il futuro della modernità, Feltrinelli, 1987. 4. Citato in Cooper G., Air-conditioning America. Engineers and the Controlled Environment, 1900-1960, The John Hopkins University Press, Baltimore 1998.


8.  i persuasori occulti l’architettura del xx secolo e le innovazioni tecnologiche Quando si parla delle innovazioni tecniche e tecnologiche che hanno permesso la svolta dell’architettura del XX secolo, si suole mettere al primo posto il ferro e il cemento armato. Grazie al loro impiego l’architettura si è svincolata dai limiti imposti dalla muratura portante, permettendo edifici alti come mai prima e aperture larghe a piacimento. Questa fu però una condizione necessaria ma non sufficiente; altrettanto importanti e determinanti furono l’ascensore, senza il quale l’altezza degli edifici sarebbe rimasta limitata a un numero di piani compatibile con la fatica fisica, la distribuzione del calore mediante un circuito idraulico, la macchina frigorifera, i nuovi modi di produzione del vetro e l’illuminazione elettrica che, combinata con il condizionamento, affrancò l’industria delle costruzioni dal vincolo dell’illuminazione e della ventilazione naturale, permettendo la realizzazione di edifici che sfruttavano al massimo l’area del lotto in cui sorgevano, aumentando considerevolmente i metri quadrati utilizzabili, e quindi i profitti, eliminando i vuoti che conseguivano alle piante a L, a U e a E. Poco riconosciuta, ma essenziale per l’affermazione degli edifici alti, fu anche l’innovazione della porta girevole, senza la quale in inverno si sarebbe creata una corrente ascendente di aria gelida che avrebbe avuto un forte impatto negativo sul comfort termico.

Uno dei primi primi edifici in cemento armato: l’Equitable Assurance Life Building a New York, 1870, alto 40 metri.

Uno dei primi edifici con struttura in acciaio: l’Home Insurance Building a Chicago, 1884, alto 42 metri.

Brevetto dell’ascensore Otis.


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Uno dei primi montacarichi Otis.

American Surety Building, New York (sotto) e Woolworth Building, New York.

Essenziale fu pure, per l’affermazione dell’aria condizionata, lo sviluppo delle conoscenze in merito alla fisica dell’aria atmosferica (aria umida) e alla fisiologia del comfort termico. Grazie a tutte queste innovazioni fu possibile, finalmente, svincolarsi dalle condizioni climatiche esterne e creare condizioni confortevoli sempre: un’eterna primavera nell’ambiente confinato. Tutto ciò, ovviamente, non poteva non influenzare l’architettura, il suo linguaggio e la sua cultura. A fronte di una così ricca fioritura di innovazioni, l’architettura avrebbe potuto rispondere in molti modi: quello che si è affermato è uno dei tanti possibili. La storia dell’architettura del XX secolo, così come ci viene raccontata, mette come protagonisti del processo evolutivo gli architetti i quali, mossi dalle loro elaborazioni culturali, utilizzano e piegano alle loro idee tutta una serie di innovazioni tecnologiche che trovano sugli scaffali del mercato; anzi a volte le indurrebbero. Ma è andata proprio così? L’evoluzione e l’affermazione dell’architettura del XX secolo potrebbe avere avuto un’altra storia. dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale I primi edifici di una certa altezza cominciano a essere costruiti già alla fine del secolo XIX e presentano caratteristiche che si manterranno sostanzialmente inalterate fino agli anni Trenta. Un tipico esempio è costituito dall’American Surety Building a New York, un edificio per uffici di 21 piani completato nel 1896, che aveva un sistema di ventilazione meccanica che forniva agli ambienti quattro ricambi/ora di aria calda fino al settimo piano. Il resto era solo riscaldato con un impianto a termosifoni.1 L’idea era di consentire agli occupanti fino al settimo piano di tenere le finestre chiuse per difendersi dal rumore e dagli odori della strada. Oltre quel livello il problema era meno critico e si poteva provvedere ai necessari ricambi d’aria semplicemente aprendo le finestre. Gli uffici erano distribuiti lungo i quattro prospetti e tutti godevano di luce naturale; la profondità degli ambienti era tale da permettere un discreto livello di illuminamento fino alla parte più lontana dalla finestra. Simili principi avevano governato il Wainwright Building, a St. Louis, Missouri, costruito nel 1891. La pianta a U assicurava a tutti gli ambienti luce e ventilazione attraverso le finestre, che erano riparate dal caldo sole del Sud mediante tende esterne. Lo stesso edifico, oggi, è interamente condizionato e senza protezioni solari.


8.  i persuasori occulti

Poco prima della Prima guerra mondiale (nel 1913) viene inaugurato a New York il Woolworth Building, che segue sempre le stesse regole: pianta a U, ambienti che ricevono tutti luce e aria, protezioni solari con tende esterne.2 Nel frattempo, si è visto, qualcosa di nuovo cominciava ad affacciarsi: il raffreddamento dell’aria con un sistema meccanico. Una tecnologia che cominciò a essere introdotta in edifici esistenti, come la Borsa di New York o la tipografia Sackett-Wilhelms (si veda il capitolo 5), e in alcuni edifici industriali. L’architettura non aveva ancora preso in carico l’aria condizionata. A precorrere i tempi fu Frank Lloyd Wright nel Larkin Administration Building a New York nel 1906. Il committente aveva richiesto un edificio con ventilazione meccanica, ma Wright introdusse anche un sistema di raffreddamento dell’aria. Non è certo il metodo con cui veniva raffreddata l’aria, se con una macchina frigorifera3 o facendola passare da un ambiente in cui erano sistemati degli scaffali su cui si appoggiavano dei blocchi di ghiaccio;4 lambendoli, l’aria si raffreddava. A parte questa eccezione, si arriva alla Prima guerra mondiale, senza altre applicazioni di rilievo. gli anni venti Dopo quello delle sale cinematografiche e dei grandi magazzini c’era ancora un altro grande mercato da sfruttare: quello degli edifici per uffici. Qui i problemi tecnici da superare non erano piccoli. Tanto negli edifici esistenti quanto in quelli nuovi per portare l’aria condizionata ai piani più lontani dalla centrale di trattamento occorrevano canali verticali di grandi dimensioni. Si occupava spazio e ciò si traduceva in una diminuzione della superficie da dare in affitto, e quindi dei profitti dei proprietari. Non a caso il Milam Building fu l’unico edificio interamente condizionato, estate e inverno, del decennio. gli anni trenta Sono anni in cui si esce faticosamente dalla Grande depressione, e anche i grattacieli-simbolo della ripresa, quali l’Empire State Building, il Chrysler Building e l’RCA Building a Manhattan ricalcano i principi progettuali sviluppati a inizio secolo, con piante che rispecchiano la necessità di favorire la ventilazione naturale in estate, permettendo il riscontro d’aria, e luce naturale – evitando ambienti molto profondi. Nessuno dei grattacieli citati aveva aria condizionata in estate. I ventilatori a soffitto e da tavolo erano i soli mezzi usati per migliorare il comfort. Ma, negli stessi anni, si affaccia un nuovo modello di edificio per uffici, che si distacca da tutti gli altri che lo avevano preceduto: il PSFS Building, realizzato a Philadelphia nel 1932, progettato dagli architetti William Lescaze e George Howe. L’edificio, che riflette l’International Style, è alto 32 piani, di forma parallelepipeda, privo di decorazioni, con finestre a nastro, infissi metallici e veneziane interne, e con aria condizionata tutto l’anno. L’aria condizionata porta

Pianta di un piano-tipo del Woolworth Building, New York.

Il PFSF Building in un poster d’epoca.

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dalla caverna alla casa ecologica

New York: gli edifici simbolo negli anni successivi alla Grande depressione.

come conseguenza la necessità di impedire l’apertura delle finestre; se un occupante ne avesse aperta una avrebbe compromesso la funzionalità di tutto l’impianto, sbilanciandolo, dato che era del tipo a “tutt’aria”: l’edificio doveva essere ermetico. Una delle innovazioni più significative del progetto, replicata successivamente in molti altri edifici alti, è l’introduzione di un piano intermedio tutto dedicato alle unità di trattamento dell’aria, in aggiunta agli spazi dedicati agli impianti nel seminterrato e sul tetto. Questa soluzione permise di ridurre sensibilmente lo spazio occupato dai canali verticali. Dietro questo edificio, però, c’è dell’altro. C’è la prima piena affermazione dell’impianto di aria condizionata come componente essenziale, tanto quanto la struttura, per l’esistenza e funzionalità della costruzione; e dietro l’aria condizionata c’è tutto un settore industriale desideroso di espandersi. Ma non solo, c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare: quello del vetro in lastre di dimensioni relativamente grandi e usate per larghe estensioni. Era un


8. i persuasori occulti

nuovo mercato per la ormai potente industria che si era evoluta verso la produzione di massa con il vetro per le automobili. L’aria condizionata negli edifici per ufficio cominciava a diffondersi; architetti e committenti si stavano convincendo della validità dell’accoppiata aria condizionata-illuminazione elettrica, e furono costruiti persino edifici senza finestre. Poi la Seconda guerra mondiale bloccò tutte le nuove costruzioni. dopo la seconda guerra mondiale Nel numero speciale di maggio del 1943, Howard Myers, direttore della rivista Architectural Forum, invitò alcuni fra i più importanti architetti dell’epoca, fra cui Louis Kahn, William Lescaze, Mies van der Rohe e un meno conosciuto architetto italiano di Portland, Pietro Belluschi, a proporre progetti di edifici da costruire in città di media grandezza dopo la sospensione delle restrizioni postbelliche. Meyers scelse Belluschi per il progetto di un edificio per uffici. Scriveva Belluschi:5 “Nel progettare l’edificio abbiamo tenuto conto delle speciali circostanze che caratterizzano l’area del Nord-Ovest: l’energia elettrica a basso costo e l’eccesso produttivo di quei metalli leggeri usati durante la guerra, a cui bisogna ritrovare un mercato dopo l’emergenza bellica”. Belluschi, nel suo progetto, prevedeva aria condizionata tutto l’anno e ampio uso dell’alluminio. Belluschi mise in pratica le sue idee nell’Equitable Building (oggi Commonwealth Building) a Portland, inaugurato il 1° gennaio 1948. La rivista Architectural Forum lo proclama come “la prima e da lungo attesa torre di metallo e cristallo”, e sottolinea come uno dei suoi aspetti più spettacolari “la sua enorme area di vetro verde marino”. Era un edificio condizionato in estate e in inverno, il cui involucro era interamente fatto di curtain wall di vetro con telai di alluminio. Il vetro era doppio, con intercapedine sigillata, con la lastra esterna verde assorbente che riduceva del 40% la trasmissione solare. Non era previsto alcun sistema di protezione solare, né esterno né interno. L’impianto di condizionamento inverno-estate era innovativo quanto l’involucro: fra l’altro usava una pompa di calore ad acqua di falda e la distribuzione era zonizzata, per permettere di riscaldare o raffreddare simultaneamente le diverse esposizioni dell’edificio nell’arco del gior-

L’Empire State Building a New York nel 1934 Da destra piante piani-tipo: dal 6° al 20° piano, il 30°, 32°, 40° e 43° piano e il 66° e 67 piano

L’Equitable Building in una cartolina dell’epoca.

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