Ambiente in Europa

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Economia verde: Italia-Germania è sempre 4 a 3?

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LEGAMBIENTE

AMBIENTE IN EUROPA

Economia verde: Italia-Germania è sempre 4 a 3? Ambiente Italia 2014 Rapporto annuale di Legambiente a cura di Duccio Bianchi e Roberto Della Seta

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Economia verde: Italia-Germania è sempre 4 a 3?

A cura di Duccio Bianchi e Roberto Della Seta autori Duccio Bianchi, Roberto Biorcio, Reinhard Bütikofer, Mauro Ceruti, Stefano Ciafani, Vittorio Cogliati Dezza, Daniel Cohn-Bendit, Aldo Cristadoro, Roberto Della Seta, Francesco Ferrante, Monica Frassoni, Edgar Morin, Rossella Muroni, Nando Pagnoncelli, Ermete Realacci, Edo Ronchi, Francesco Rutelli, Alex Sorokin, Giovanni Valentini realizzazione editoriale: Edizioni Ambiente srl, www.edizioniambiente.it coordinamento redazionale: Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: Shutterstock © copyright 2014, Edizioni Ambiente srl Via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-6627-111-6 Finito di stampare nel mese di marzo 2014 presso Grafiche del Liri srl – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta FSC Dal sito http://freebook.edizioniambiente.it sono scaricabili gratuitamente gli indicatori aggiornati nelle aree della sostenibilità sociale, dell’ambiente e degli stili di vita, realizzati dall’istituto Ambiente Italia. i siti di edizioni ambiente www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.puntosostenibile.it www.freebookambiente.it seguici anche su: Facebook.com/EdizioniAmbiente Twitter.com/EdAmbiente

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sommario

prefazione

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prima parte    ecologia e politica: perché in italia i verdi non hanno avuto successo 1. ecologia e politica: perché in italia no?

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2. continuate a frenare, che bisogna avanzare!

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3. perché siamo ancora minoranza?

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4. verdi d’europa alla prova della crisi

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5. la sensibilità ambientale in italia: opinione pubblica e scelte elettorali

63

6. quale altra strada oltre i verdi

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7. perché le idee e le azioni degli ambientalisti hanno

81

8. la via stretta di un riformismo verde

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9. verdi di rabbia o verdi di passione

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Roberto Della Seta

Dany Cohn-Bendit

Vittorio Cogliati Dezza

Monica Frassoni

Nando Pagnoncelli e Aldo Cristadoro

Ermete Realacci

una ridotta incidenza Edo Ronchi

Francesco Rutelli

Giovanni Valentini

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10. ripensare l’europa. un laboratorio

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11. i verdi in italia: un destino segnato?

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12. no a un partitino verde: il “green new deal”

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per una nuova ecologia politica globale Mauro Ceruti ed Edgar Morin

Roberto Biorcio

chiede innovazione anche agli ecologisti Rossella Muroni parte seconda    quando italia-germania non finisce 4-3

13. la conversione ecologica (inconsapevole) dell’italia

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14. l’industria italiana tra preistoria e innovazione

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15. l’industria siderurgica europea al bivio

187

16. cos’è l’“energiewende” tedesca?

193

17. cronistoria di (quasi) trent’anni di conservazione

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e la “verde” germania Duccio Bianchi

Stefano Ciafani

Reinhard Bütikofer

Alex Sorokin

e di mancanza di strategie energetiche Francesco Ferrante

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prefazione

Il rapporto Ambiente Italia ha sempre costituito l’occasione per fare il punto sullo stato ambientale del nostro paese e, insieme, per focalizzare e approfondire alcuni temi. Dal 2008 la parte monografica del rapporto ha affrontato, via via, l’energia, i rifiuti, le sfide ambientali delle regioni italiane (alle porte della tornata elettorale), il consumo di suolo, l’acqua nell’anno successivo alla vittoria referendaria. L’intento sempre lo stesso: fornire dati e ragionamenti utili per orientare le politiche ambientali del paese. Con il rapporto del 2013 abbiamo sollecitato una riflessione a più voci sul futuro del paese e sulle scelte per uscire dalla crisi economica e ambientale. Pensato e scritto prima delle elezioni politiche, il rapporto si è presentato puntuale, dopo lo tsunami elettorale, a porre all’attenzione alcune questioni strategiche che avevano bisogno di diventare immediatamente pratica politica e istituzionale per provare a cambiare il paese. Poco è successo. Quest’anno Ambiente in Europa prova a fare un altro passo avanti. Cerchiamo di misurarci con alcuni meccanismi del cambiamento possibile e del suo eterno e ricorsivo incepparsi. Proviamo a riflettere su alcune delle cause dell’ingessatura del paese che, piegato dalla crisi economica, non trova la strada, la convinzione e la condivisione per uscirne. Non pretendiamo di fare qui un’analisi esaustiva delle cause che impediscono all’Italia di reagire, ma accendiamo i riflettori su alcune che in questo momento sembrano particolarmente significative, per la fase che stiamo attraversando. Segnata da inequivocabili scadenze oggettive.

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Siamo alle porte di elezioni europee che potrebbero segnare l’esplosione vittoriosa di un movimento antieuropeo, che rischia di cancellare anche e soprattutto i punti di forza dell’Unione europea, che nonostante tutto ci sono. Nonostante tutto, perché davvero in questi anni la classe politica europea “non ne ha azzeccata una”, verrebbe da dire. Rinunciando a fare politica nell’interesse dei cittadini su terreni scottanti, che vanno dalle politiche dell’immigrazione a quelle sugli Ogm, cercando solo di non scontentare le lobby più forti (come nel caso della Pac). Perfino là dove l’Europa si era trovata a svolgere un ruolo lungimirante e di apri pista, come sul terreno della lotta ai cambiamenti climatici, ha finito per scivolare su posizioni a dir poco timide e contraddittorie. Una prova per tutti il recente Libro Bianco, adottato dalla Commissione lo scorso gennaio, che prevede al 2030 come unico obiettivo legalmente vincolante quello della riduzione della CO2 del 40%, mentre rimane non vincolante a livello nazionale l’aumento al 27% delle rinnovabili. Per l’efficienza energetica, invece, la Commissione si impegna a fare una proposta in seguito alla conclusione del processo di valutazione dell’attuazione a livello nazionale della direttiva in vigore. L’ipotesi di lavoro attuale della Commissione è un incremento dell’efficienza energetica di appena il 25% al 2030, come per le rinnovabili non vincolante per gli stati membri. Talmente timido questo scenario che perfino il Parlamento europeo non ha avuto difficoltà ad approvare una risoluzione più coraggiosa con tutti e tre gli obiettivi vincolanti: riduzione della CO2 del 40%, incremento delle rinnovabili al 30% e dell’efficienza energetica al 40%. La misura vera del coraggio delle istituzioni europee è ben rappresentata da un dato: proseguendo gli attuali trend, nel 2030 la CO2 calerà del 32% e le rinnovabili saliranno al 26,5%. Una vera debacle della Commissione! Tutte ragioni che ci portano a sottolineare l’importanza di queste elezioni, anche per riavvicinare le persone al comune destino europeo. È in questa logica che ci è sembrato particolarmente opportuno riflettere su un’anomalia tutta italiana: la debolezza, per non dire l’inconsistenza, della rappresentanza politica dell’ambientalismo, che ha raggiunto il suo punto più basso nelle recenti elezioni politiche, e che dopo una partenza più che dignitosa, alla fine degli anni Ottanta, è andata incon-

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prefazione

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tro a una crisi a oggi irreversibile. Un problema che riguarda anche noi, perché da sempre siamo convinti che il ruolo dell’associazionismo ambientalista non sia di semplice testimonianza di una civiltà diversa, ma di sostanziale e concreto contributo al cambiamento dello stato di cose esistente. Compito specifico di una buona politica, con cui, anche se manteniamo orgogliosamente la nostra autonomia e diversità, vogliamo e dobbiamo rapportarci. A questo tema dedichiamo una prima parte monografica del rapporto, con numerosi interventi di persone interessate ai fatti, con un’utilissima introduzione di Roberto Della Seta. La disattenzione e la superficialità con cui la politica e, più complessivamente, la classe dirigente italiana guardano alle questioni strategiche dello sviluppo economico e civile dell’Italia, che oggi intrecciano in modo inequivocabile le grandi questioni ambientali, dalla messa in sicurezza al risanamento alla green economy (nei suoi diversi campi di applicazione, dalla chimica verde all’agricoltura, dall’efficienza energetica alle bonifiche), rendono non più rinviabile una riflessione nuova sulla costruzione di una rappresentanza politica dei bisogni e del pensiero verde. Tanto più che le ultime elezioni hanno segnato la sconfitta delle ipotesi messe in campo nel decennio precedente, sotto la comune egida di “entrismo” e/o alleanza stretta con qualche schieramento. Un tema niente affatto semplice e che certamente non si può banalizzare e su cui, anche come Legambiente, sentiamo la necessità di rivitalizzare la riflessione, non dando nulla per scontato. Il contributo di Ambiente in Europa non si esaurisce qui. Proprio perché ci troviamo in una fase molto delicata della politica nazionale, all’avvio di quella che è stata presentata come una nuova stagione della politica di governo, mentre emergono segnali contraddittori sull’evolversi della crisi economica, abbiamo pensato fosse utile portare la discussione con i piedi per terra. È questo il compito del lavoro di Duccio Bianchi che nel confronto tra il sistema economico italiano e quello tedesco, per quanto riguarda gli indicatori di sostenibilità ci svela uno scenario spiazzante e inaspettato. “Confrontandosi con la Germania, l’Italia emerge nettamente, sotto tutti i profili, come un paese con un’eco-

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nomia che consuma meno risorse, meno energia, ha meno emissioni di CO2.” Questo è avvenuto nonostante la crisi, nel senso che questi risultati non sono collegati all’impoverimento e al declino del paese, e nonostante l’assenza di scelte esplicite sia della leadership politica sia di quella economica. Ci troviamo di fronte a una conversione ecologica dell’economia e della società spontanea, “quasi inconsapevole” la definisce Duccio Bianchi. Un esempio? La storia tutta italiana del fotovoltaico, esploso per effetto di scelte politiche (che hanno determinato incentivi non superiori a quelli presenti in Germania, questo è bene ribadirlo) che, a un certo punto, invece di essere rivendicato come il fiore all’occhiello ed essere trasformato nel volano di politiche industriali lungimiranti, è stato prima osteggiato e poi individuato definitivamente come nemico pubblico numero uno! Ma in questo quadro, ciò che forse è ancora più significativo, è che i segnali del declino del paese precedono la crisi ed esplicitano problemi strutturali, che la crisi economica ha solo aggravato. A quel declino una parte del sistema ha provato a reagire per proprio conto, con scelte ambientalmente virtuose ma nel vuoto pneumatico di politiche pubbliche. Oggi l’Italia si presenta quindi con una profonda dicotomia tra un paese reale, che già sta nel futuro e si attrezza, e la cultura dominante della classe dirigente, che continua a guardare al mondo con gli occhi del Novecento, e non si è accorta che intorno tutto sta cambiando. Una classe dirigente per la quale, come dicevamo già l’altr’anno, le questioni ambientali strategiche sono sempre questioni da rinviare al secondo tempo. Invece rappresentano una pagina bianca che va scritta subito e che qualcuno, imprese, cittadini, qualche ente locale, sta già cominciando a riempire con le proprie forze e il proprio cocciuto intuito.

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prima parte ecologia e politica:  perchĂŠ in italia i verdi non hanno avuto successo

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Questa sezione di Ambiente in Europa, aperta da un’ introduzione di Roberto Della Seta, prova a rispondere a due domande sicuramente attuali e “ in tema” con gli argomenti affrontati nel rapporto. Perché mentre in molti paesi europei la scena politica vede la presenza consolidata di partiti verdi ed ecologisti, in Italia questo non accade più da almeno dieci anni? Ed è realistico – oltre che auspicabile – ridare presenza e rappresentanza autonome all’ambiente nella politica italiana? Le risposte che offriamo sono più di una, diverse per punto di osservazione e anche per conclusioni. Sono affidate a persone che hanno partecipato in questi anni ai diversi tentativi di radicare l’ecologia nella politica o che tali tentativi hanno osservato da vicino e, si deve aggiungere, con simpatia. A tutti va un sincero e convinto ringraziamento.

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1. ecologia e politica: perché in italia no?

Roberto Della Seta*

Era il 1987, un anno dopo la tragedia di Chernobyl: in Italia governava Craxi e negli Stati Uniti Reagan, c’erano due Germanie e un muro divideva la Berlino occidentale da quella comunista, la Russia si chiamava Unione Sovietica e comprendeva anche molti paesi oggi indipendenti (dall’Ucraina alle repubbliche baltiche agli stati caucasici), Matteo Renzi aveva 12 anni e Francesco Totti 11. Bene, quell’anno nelle elezioni politiche italiane tenute in giugno i Verdi ottennero il 2,5% dei voti ed entrarono per la prima volta in parlamento con 13 deputati e 2 senatori. Costituitisi in “partito” pochi mesi prima, nel novembre 1986, federando decine di liste Verdi locali e regionali, i Verdi italiani rappresentarono insieme ai Radicali e alla Lega Lombarda di Bossi (anche lui neo-eletto in Senato nel 1987) uno dei primi segni concreti di scricchiolio di un sistema politico – la “prima Repubblica” controllata e “immobilizzata” dai grandi partiti di massa – che appariva ancora solido ma che pochi anni dopo sarebbe crollato sotto i colpi combinati delle macerie del Muro di Berlino e delle picconate anti-corruzio* roberto della seta  è stato presidente di Legambiente dal 2003 al 2007 e parlamentare dal 2008 al 2013. Nel 2013 è stato tra i promotori di Green Italia, movimento nato per ricostruire in Italia una presenza autonoma dell’ecologia in politica, e sempre dal 2013 è presidente di Europa Ecologia, fondazione promossa da Legambiente che ha l’obiettivo di promuovere le buone pratiche europee in campo ambientale. All’impegno ambientalista affianca da sempre l’interesse per la ricerca storica. Tra i suoi lavori: La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista (Franco Angeli, 2000) e Dizionario del pensiero ecologico (con Daniele Guastini; Carocci, 2007).

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ne dei magistrati di “mani pulite”. Nei loro primi passi, i Verdi italiani erano in un rapporto stretto, sebbene non organico, con le principali associazioni ambientaliste: venivano da Legambiente – allora Lega per l’Ambiente – Gianni Mattioli e Massimo Scalia, leader del movimento antinucleare e tra i fondatori della Federazione delle Liste Verdi, e del gruppo ristretto di “garanti” che coordinò la formazione delle liste per le elezioni politiche facevano parte Ermete Realacci, segretario generale della Lega per l’Ambiente, e il presidente del Wwf Fulco Pratesi (questa vicinanza andrà poi rapidamente attenuandosi, soprattutto per la sempre più convinta scelta di autonomia e di trasversalità dell’associazionismo ambientalista italiano). Il felice esordio elettorale degli ecologisti italiani sembrò il battesimo di un fenomeno politico destinato a durare e a crescere. Del resto, l’“onda” favorevole continuò per diversi anni: nel novembre 1987 arrivò il plebiscito anti-nucleare nei referendum promossi dai Verdi insieme ai Radicali, alle associazioni ambientaliste e alla “nuova sinistra”; nelle elezioni europee del 1989 le due liste Verdi (Sole che Ride e Verdi Arcobaleno, che di lì a poco si sarebbero unificati) ottennero oltre il 6% dei voti conquistando cinque seggi su 81; nelle politiche del 1992 i Verdi migliorarono il risultato di cinque anni prima, eleggendo 20 tra deputati e senatori; infine nel 1993, già nel pieno della bufera di Tangentopoli, Roma fu la prima capitale al mondo a eleggere un sindaco Verde: Francesco Rutelli, allora uno dei leader della Federazione dei Verdi, che fu anche il primo sindaco di Roma scelto direttamente dagli elettori. Poi, come detto, giunse la fine repentina e ingloriosa della “prima Repubblica”. I Verdi avevano tutto per proporsi come costruttori di una politica nuova, come interpreti della domanda di cambiamento che agitava la società italiana. Erano estranei al fallimento etico che aveva portato a fondo la “Repubblica dei partiti”; proponevano visioni e valori squisitamente post-ideologici e quanto mai attuali (basti pensare alla battaglia contro l’energia nucleare), che li rendevano assai più “contemporanei” di quasi tutti i loro competitori; si presentavano in una forma organizzativa leggera, “liquida”, per questo particolarmente adatta a rispondere a domande e bisogni inediti – la qualità ambientale, i diritti civili, il rin-

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1 | ecologia e politica: perché in italia no?

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novamento generazionale delle classi dirigenti – dei settori più dinamici e innovativi dell’elettorato. I Verdi italiani avevano tutto per affermarsi come protagonisti della nuova stagione, ma è andata diversamente. Anzi si può dire che una delle costanti di questi vent’anni di “seconda Repubblica” sia stata proprio il progressivo, continuo declino di un’autonoma presenza Verde in politica: così, dal 2008 nel parlamento italiano non ha più trovato posto un solo eletto Verde. Com’è spiegabile questa parabola? È stata solo il frutto di errori, inadeguatezze “soggettive” delle leadership Verdi o invece almeno in parte chiama in causa ragioni più profonde, legate alla specifica realtà sociale, civile, politica dell’Italia? Prima di tentare qualche risposta è utile allargare lo sguardo dall’Italia al resto dell’Europa e dell’Occidente, per definire i confini cronologici e anche geografici del fenomeno Verde, in modo da verificare se e fino a che punto l’eclissi dei Verdi italiani costituisca oggi una anomalia, una delle tante che caratterizzano il nostro paese. Prima del 1987, i Verdi si erano già affacciati sulla scena politica in altri paesi europei: in Austria (otto eletti nelle elezioni del 1984), in Belgio (cinque seggi su 150 nel 1981), in Finlandia (due deputati eletti nel 1983), in Germania (28 eletti nel Bundestag nel 1983), in Lussemburgo (due seggi nelle elezioni del 1983), in Svizzera (quello svizzero, dal 1979, fu il primo parlamento al mondo con un eletto ecologista). Ma l’incubazione di questo nuovo fenomeno era più antica di almeno un decennio. L’ecologia politica, cioè l’idea di un cambiamento radicale della società e dell’economia costruito attorno al valore della difesa dell’ambiente, cominciò in effetti a mettere radici all’inizio degli anni Settanta. Due i suoi “semi” principali: l’evidenza sempre maggiore dei danni ambientali locali e anche globali collegati allo sviluppo economico intensivo del Dopoguerra, e l’emergere nelle giovani generazioni – a partire dal ‘68 e con i nuovi movimenti sociali degli anni Settanta (femminismo, antimilitarismo, movimenti per i diritti civili) – di una sensibilità “post-materialista”. Questo nuovo pensiero trovò da subito differenti declinazioni: per alcuni i valori ecologici potevano affermarsi solo collegandoli alla lotta

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2. continuate a frenare, che bisogna avanzare!

Dany Cohn-Bendit*

l’ambientalismo: un prodotto di lusso?

Rimango sempre colpito quando sento politici dichiarare con sufficienza che l’ambientalismo è un prodotto di lusso per una minoranza di intellettuali sognatori che se lo possono permettere. Immagino per di più che ne siano davvero convinti, ed è forse per questo che le loro affermazioni sono così preoccupanti. Ci sarebbero quindi da un lato i politici seri, gli unici detentori dell’expertise, e dall’altro degli estremisti folli o degli idealisti sconnessi dalla realtà, incapaci di assegnare una gerarchia alle priorità, al limite dell’irresponsabilità... Se solo le cose fossero così semplici! Certo! I partiti tradizionali hanno finito per “ecologizzare” i propri discorsi e hanno anche integrato le politiche ambientali nella loro offerta politica. Più che per una volontà precisa, sono stati costretti dalla cogenza

* dany cohn-bendit  è stato una figura di punta del movimento studentesco del maggio 1968 in Francia. Parlamentare europeo per i Verdi dal 1994 (eletto due volte in Germania e due in Francia), e nelle ultime due legislature co-presidente del gruppo dei Verdi nel Parlamento europeo, è da tempo uno dei più autorevoli e originali protagonisti del dibattito pubblico europeo. Fautore di una “terza sinistra” ecologista che superi l’alternativa tra visione socialista e visione liberale, recentemente si è impegnato con altri leader europei come il liberale Verhofstadt per affermare la necessità che l’Europa, contro le derive nazionaliste e xenofobe, acceleri sulla via di una costituzione unitaria democratica e federalista (con Guy Verhofstadt, Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria, Mondadori, 2012).

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degli squilibri ambientali, sempre più minacciosi e direttamente legati alle attività antropiche (inquinamento dannoso per l’uomo, contrazione delle risorse e della biodiversità, crisi energetiche e alimentari, mutamenti climatici, senza citare i problemi creati dall’energia nucleare...). L’aggiunta di questa valigia al loro bagaglio politico non ha comunque innescato l’innovazione politica. I cambiamenti sono stati superficiali, non hanno modificato la percezione del mondo e non hanno provocato il riassestamento delle pratiche. Semplice congegno nella macchina, l’ecologia non è assolutamente essenziale per il dispositivo. È ciò che d’altronde emerge quando si considera il trattamento riservato agli ambientalisti nelle coalizioni di alcuni governi europei. L’esempio della Francia è senza dubbio uno dei più eloquenti. I Verdi al governo sono una garanzia ulteriore, una sorta di marchio di qualità. Fanno parte delle offerte politiche accettabili e alleviano in qualche modo le pene degli esperti del potere. Integrati nel sistema, gli ambientalisti sono percepiti come un’escrescenza ricreativa, al punto che finiscono essi stessi per identificarsi con il conformismo circostante. Gli ambientalisti sono tollerati fino a quando non si arrischiano a far deragliare le convenzioni culturali dei loro colleghi – proprietari del “sapere” politico. l’ambientalismo scientifico: welcome in the real world

Se per lungo tempo gli ambientalisti sono stati considerati dei fanatici contro corrente, bisogna ammettere che il pensiero ecologista si è meritato i galloni alla fine degli anni Sessanta, quando la comunità scientifica internazionale ha manifestato preoccupazioni per il degrado accelerato degli ecosistemi e per il pericolo al quale era esposta l’umanità. La nascita del Club di Roma è stata una tappa decisiva della formazione della coscienza ambientalista. Con la pubblicazione del rapporto su I limiti dello sviluppo, redatto dai ricercatori del prestigioso MIT (Massachusetts Institute of Technology), un mondo affonda: il mondo di coloro che credevano ingenuamente in una crescita economica infinita, in un consumo inarrestabile dei beni materiali e in un progresso tecnico illimitato.

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2 | continuate a frenare, che bisogna avanzare!

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Benvenuti nel mondo reale! A suonare l’allarme non è quindi più una banda di esaltati che protesta contro la sparizione di una qualche specie sconosciuta che vive in simbiosi con gli alberi. È la stessa comunità scientifica a “rivelare” la finitezza del nostro pianeta e, contemporaneamente, la nostra stessa finitezza. È così che la scienza ha direttamente contribuito alla nascita dell’ecologia politica... Se pure si tratta di una tappa decisiva per l’ecologia politica, non significa che abbia indotto una metamorfosi delle tradizioni politiche. Non si è quindi affermata alcuna istanza di trasformazione della matrice culturale della classe politica, e neppure si è avviata una revisione delle priorità della politica. La finitezza è molto bella, ma in fondo non modifica il comportamento di nessuno! Messi da parte i rapporti, i calcoli scientifici, le domande sul progresso tecnologico, la crescita demografica, la produzione a briglia sciolta, quello che conta è continuare come prima! È questa in sostanza la risposta della comunità politica. Una comunità agguerrita che rifiuta di lasciarsi impressionare dall’“avversario” e ancora meno accetta di piegarsi di fronte agli studi e alle prove scientifiche. Questa realtà non è conforme ai modelli e alle statistiche, è troppo costrittiva, troppo nuova, troppo stimolante per chi è abituato all’ignavia intellettuale. È per questo che viene considerata “senza senso”. La riluttanza prevale sugli argomenti anche quando sono tradotti nella lingua che domina nella classe politica: l’economia. E così le centinaia di pagine scritte dall’economista Nicholas Stern per conto del governo inglese, che mettono in evidenza le ripercussioni catastrofiche degli sconvolgimenti climatici sull’economia e la pace, non sono state sufficienti a convincere la classe politica a rinnovare il modello di sviluppo fin qui seguito. Beninteso, se il problema fosse “semplicemente” gestire un conflitto tra due comunità non sarebbe stato necessario farne un “affare di stato”. Il problema è che questo “dettaglio” riguarda in realtà l’insieme della comunità umana.

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di sviluppo economico e sociale, oppure è condannato a rimanere marginale, accessorio e quindi subalterno. Non basta più che una coalizione o uno schieramento progressista aggreghi o assorba al suo interno una formazione “verde”, magari immettendo nel governo qualche ministro, viceministro o sottosegretario. Né è sufficiente che una minoranza della sinistra tradizionale, come quella di Nichi Vendola, si appropri della “e” di ecologia per smarrirsi poi in mediazioni controverse e oggettivamente ambigue tra ambiente, lavoro e salute. Rimane auspicabile, dunque, che prima o poi rinasca anche in Italia un partito Verde, collocato nella famiglia dei Verdi europei, tendenzialmente alleato della sinistra riformista; ma autonomo e indipendente, capace di confrontarsi e interloquire anche con lo schieramento opposto. La difesa dell’ambiente e della salute è una priorità che non può essere subordinata ad altri interessi, convenienze, opportunità. Né tantomeno a una malintesa “ragion di stato”, o più modestamente di governo, che alla fine impedisce di adottare una legislazione rigorosa e incisiva contro l’inquinamento dell’atmosfera, il riscaldamento del pianeta, il consumo indiscriminato di suolo, l’abusivismo edilizio, il dissesto idrogeologico, il degrado del territorio e lo scempio del paesaggio. L’orizzonte è certamente quello segnato dalla green economy: cioè dalla prospettiva di uno sviluppo sostenibile, fondato sulle energie rinnovabili, sulle nuove tecnologie, sulla difesa dei beni comuni e su una maggiore equità sociale. Il nostro paese, povero com’è di materie prime, deve investire necessariamente sulla bellezza, sulla creatività e sulla qualità. E proprio per questo occorre una forza politica in grado di trainare l’economia italiana, come un piccolo e potente rimorchiatore, verso il mare aperto della competizione globale.

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10. ripensare l’europa. un laboratorio per una nuova ecologia politica globale

Mauro Ceruti ed Edgar Morin*

Che cos’ è, in realtà, l’Europa che viene presupposta dall’aggettivo “europeo” nella dizione istituzionale dell’Unione europea? Oggi la questione dell’identità europea è quanto mai controversa. Taluni si accontentano di una versione economicistica, che asserisce che l’Europa non può essere che un grande mercato (a essa, per esempio, assentirebbe certamente buona parte dell’opinione pubblica e della politica inglesi). E vi è anche, al contrario, una versione sostanzialistica dell’identità europea, che vede nell’Europa un territorio o uno spazio culturale, o le due cose insieme: tale versione non può che far sorgere, peraltro, interminabili contese sui confini dell’Europa e su chi possa e debba stare dentro o fuori a questi confini. C’è poi una terza prospettiva, che noi sosteniamo, dalla quale porre la questione dell’identità europea. In questa prospettiva, l’Europa è una realtà storica in metamorfosi ininterrotta e la formazione dell’Unione europea è l’ultima delle sue metamorfosi; e l’Unione europea è un progetto, * mauro ceruti ed edgar morin  sono autori di riferimento nel campo degli studi epistemologici sulla complessità e sul rapporto tra scienza, filosofia ed etica. Ceruti, oggi professore ordinario di Filosofia della scienza all’Università Iulm di Milano, ha lavorato a lungo presso la Facoltà di psicologia e scienze dell’educazione dell’Università di Ginevra (fondata da Jean Piaget) e presso il Centre d’études transdisciplinaires – sociologie, anthropologie, politique di Parigi diretto da Morin. Morin è una delle figure più prestigiose della cultura mondiale e “padre del pensiero complesso”. Sia Morin sia Ceruti hanno dedicato larga attenzione al paradigma ecologico come indispensabile chiave transdisciplinare per leggere e affrontare i problemi non solo ambientali della modernità. Insieme hanno pubblicato nel 2013 La nostra Europa (Raffaello Cortina).

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in gran parte incompiuto. Questo progetto trova le sue radici nella resistenza ai totalitarismi e ai nazionalismi distruttivi, che avevano fatto precipitare il nostro continente nella “valle oscura” degli anni Trenta, e nelle stragi di massa e nei genocidi della Seconda guerra mondiale. Sempre in questa prospettiva, l’Europa non può prescindere dalla democrazia, dalla libertà, dai diritti umani e, conseguentemente, da una loro declinazione in un orizzonte da rigenerare e da spostare continuamente, dinanzi alle nuove sfide delle società complesse. Nel 1945, l’idea di un’Europa metanazionale trovò una prima incarnazione, parziale, limitata. L’Europa moderna era morta. Era schiacciata dalle rovine delle nazioni vinte o liberate dagli eserciti di quelle che erano diventate le due superpotenze mondiali. Allora, quella prima incarnazione metanazionale ebbe come motore la volontà di esorcizzare gli spettri delle minacce antiche e delle minacce inedite. Prese il via un progetto d’Europa concepito da uomini politici che avevano vissuto le tragedie dei totalitarismi e della Seconda guerra mondiale. Gli obiettivi prioritari furono chiari: garantire la pace dei popoli europei; porre fine a una catena di rivendicazioni e di vendette reciproche; consolidare democrazie fragili e ancora minacciate da uno scenario mondiale non pacificato. Per realizzare tali obiettivi, si imponeva di riconoscere il carattere distruttivo dell’ipertrofia degli stati nazionali sovrani assoluti. Una nuova prospettiva si trovava alla base della costruzione europea: non l’omologazione, ma la valorizzazione delle diversità; non le semplificazioni imposte dalle maggioranze dominanti, ma il rispetto della complessità dei mosaici e degli intrecci etnici, linguistici, culturali, religiosi; non la compressione delle molteplici identità individuali e collettive, ma il loro riconoscimento e il supporto al loro sviluppo. La prima istituzione comunitaria, la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), nacque negli anni Cinquanta dalla scelta di reinterpretare in modo inclusivo un problema che era sempre stato posto solo in modo esclusivo: la scelta di condividere le risorse minerarie di quei luoghi – Alsazia, Lorena, Saar, Belgio, Lussemburgo, Renania, Ruhr – per il posses-

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so esclusivo dei quali si era tanto combattuto (in particolare tra Francia e Germania), senza mai trovare alcun assetto stabile ed equilibrato. Le contese di frontiera, durante i primi decenni del dopoguerra, nell’Europa occidentale si sono annullate. La riconciliazione franco-tedesca è diventata un fatto compiuto. I problemi che erano stati occasione di contesa fra gli stati nazionali sono stati riformulati. Di conseguenza, i vicini di ciascuno stato oggi non suscitano la minima minaccia territoriale. L’Unione europea si è definita come un progetto e non come un territorio; si è posta come entità politica e non geografica; ha delimitato i suoi confini in seguito al buon esito dei negoziati con i candidati all’adesione e non sulla base di dichiarazioni di principio sulle demarcazioni dell’Europa. Ha affrontato alla radice le malattie storiche dell’Europa moderna: la purificazione etnica e la sacralizzazione delle frontiere fra gli stati. Non ha abolito le frontiere, ma le ha sdrammatizzate: da chiuse sono divenute aperte. Le frontiere sono divenute sedi di intensi e continui flussi multidirezionali; hanno salvaguardato le identità politiche e culturali dei cittadini e hanno favorito gli sviluppi economici delle regioni coinvolte. L’Unione europea si è impegnata a creare le condizioni affinché ogni nazione potesse difendere la propria identità nazionale e, nello stesso tempo, potesse uscire dall’isolamento, entrando a far parte di reti di cooperazione e di integrazione. Nel contempo, ha operato per l’integrazione multietnica delle nazioni, sostenendo i diritti delle minoranze. Nel 1989 è iniziata una nuova metamorfosi dell’Europa. Il crollo del socialismo reale ha delineato orizzonti ambivalenti. Lo sgretolamento del totalitarismo sovietico ha scatenato una triplice crisi in tutti i paesi dell’antico impero: politica, economica, nazionalista. La crisi politica è stata prodotta dall’insufficienza democratica dei nuovi regimi, alimentata dalle burocrazie e dalle mafie. La crisi economica è dovuta alla transizione da un vecchio regime detestato (e che tuttavia dava un minimo di sostentamento) a uno nuovo ma inadeguato alle esigenze del momento. La crisi nazionalista è diventata acuta con l’eruzione degli etnocentrismi e dei particolarismi, con il ritorno di odi antichi, risuscitati dai problemi irrisolti delle minoranze e delle frontiere.

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seconda parte quando italia-germania non finisce 4-3

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Questa seconda sezione mette a confronto Italia e Germania, e dà conto di esiti anche inattesi. L’Italia e il paese che è percepito come il leader mondiale nelle politiche verdi. I diversi percorsi di “conversione ecologica dell’economia” e un quadro delle prestazioni ambientali, ma anche sociali ed economiche, della Germania e dell’Italia sono sviluppati nel saggio di Bianchi, con il supporto di un’ampia batteria di indicatori. Il settore guida della green economy e l’ industria madre della old economy sono invece analizzati negli altri saggi. Ferrante e Sorokin raccontano le politiche energetiche e i programmi di sostegno alle energie pulite messe in atto nei due paesi, che sono oggi tra i leader mondiali delle rinnovabili. Ciafani e Butikofer descrivono invece le politiche nazionali ed europee nel settore siderurgico, con uno sguardo particolare alla drammatica situazione dell’Ilva.

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13. la conversione ecologica (inconsapevole) dell’italia e la “verde” germania

Duccio Bianchi*

Nel 2014 l’Italia ha una economia più sostenibile e ambientalmente orientata di quella tedesca. E durante la recessione gli elementi di efficienza e sostenibilità ambientali si sono irrobustiti. Non perché l’Italia sia diventata più povera (è avvenuto anche questo, ovviamente). Ma perché l’economia italiana – e per molti aspetti gli italiani come cittadini e consumatori – hanno gestito in maniera più efficiente le risorse, hanno consumato meno energia, prodotto più energia da fonti rinnovabili e riciclato più rifiuti, hanno trasformato stili di consumo in un senso più sostenibile. E i risultati finali sono migliori della Germania. È avvenuto per una scelta consapevole? È il frutto di politiche pubbliche o private esplicitamente orientate verso una conversione ecologica dell’economia e della società? No, è stata una conversione ambientale quasi inconsapevole. In una battuta, potremmo dire che l’Italia è diventata verde a sua insaputa. Confrontarsi con la Germania significa confrontarsi con un paese che – nella sua leadership politica come in quella economica – ha deliberatamente e coerentemente perseguito un posizionamento di guida delle politiche e dell’industria ambientale. Da venti anni almeno. Lo ha fatto nelle politiche motoristiche, in quelle di riciclo degli imballaggi, in quel* duccio bianchi  è stato direttore e amministratore delegato (fino al 2009) di Ambiente Italia Srl, una delle principali società nazionali di consulenza e pianificazione ambientale. Ha svolto attività di consulenza e ricerca in materia di politiche ambientali, reporting e analisi del ciclo di vita, pianificazione e gestione dei rifiuti.

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le delle energie rinnovabili. La Germania ha investito nello sviluppo delle energie rinnovabili, le ha sostenute con incentivi e con politiche pubbliche locali, le ha valorizzate con orgoglio e ha lavorato anche a livello internazionale per creare un contesto di politiche e di obiettivi che le consentisse di valorizzare, anche economicamente e industrialmente, gli sforzi fatti nel mercato interno. L’Italia non è un paese più “verde” della Germania. Basterebbero le devastazioni dell’abusivismo edilizio, l’inazione di fronte al dissesto idrogeologico o le gravi carenze del trasporto pubblico soprattutto urbano e metropolitano per rendere improbabile questa etichetta. Ma sui “fondamentali” il sistema Italia è più sostenibile. Confrontandosi con la Germania, l’Italia emerge nettamente, sotto tutti i profili, come un paese con un’economia che consuma meno risorse, meno energia, ha meno emissioni di CO2. Non per un problema di povertà, non per effetto del declino economico. L’Italia ha meno consumi e meno emissioni non solo in termini pro capite, ma anche per unità di Pil, in rapporto alla ricchezza generata e alle quantità prodotte. Gli indicatori-chiave, quelli di produttività delle risorse o di emissioni di CO2, sono eclatanti, coerenti e non casuali: la produttività di risorse (Prodotto interno lordo in rapporto alla quantità di materia consumata) è in Italia migliore del 10% rispetto alla Germania (nel 2001 era migliore quella tedesca) e del 26% rispetto all’Ue, le emissioni pro capite di CO2 sono inferiori del 23% rispetto alla Germania e del 15% rispetto alla media Ue, i consumi pro capite di energia sono inferiori del 32% rispetto alla Germania e del 19% alla media Ue, l’intensità energetica (consumi di energia rispetto al Pil) è inferiore del 10% rispetto alla Germania e del 14% rispetto alla media Ue. Certo, l’Italia eredita una situazione più favorevole rispetto alla Germania e i suoi progressi sono stati meno rapidi e lineari di quelli tedeschi. Ma negli ultimi anni – più o meno dalla metà degli anni 2000 – riprende (perfino un po’ misteriosamente) un percorso di efficienza energetica, nell’uso delle risorse, nella produzione di rifiuti, anche nel consumo di suolo. A livelli comparabili o migliori di quelli tedeschi: tra il 2005 e il 2012 la produttività d’uso delle risorse (consumo di materia su Pil) mi-

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gliora del 15% in Italia e del 5% in Germania, l’intensità di emissioni di CO2 si riduce del 16% tanto in Italia che in Germania, l’intensità energetica si riduce del 15% in Germania e del 10% in Italia. Ma è un processo quasi inconsapevole. Non è figlio di una scelta esplicita né delle leadership politiche né di quelle economiche. Ma è il segno della capacità del sistema di massimizzare l’impiego delle risorse nel momento in cui è sottoposto a un forte stress, a un’aspra competizione, a un incremento dei prezzi (è il caso dell’energia). Non è, lo ribadiamo, l’esito di una scelta consapevole. Al contrario. Tutti gli elementi di debolezza del sistema – tutto quello che non consente di dire che l’Italia, nel suo insieme, diventa un paese “più verde” – rimandano all’assenza di governo, alla scelta di garantire benessere privato a scapito del benessere pubblico, a uno stato pesante e inefficiente, alla diffusa illegalità. E l’evidenza più chiara della deriva verde “inconsapevole” ci è data proprio da una delle pochissime politiche efficaci sul piano ambientale: gli incentivi alle rinnovabili. Gli incentivi sono stati massicci (magari anche eccessivi), ma hanno prodotto risultati clamorosi e li hanno prodotti in maniera efficiente. Il fotovoltaico italiano, sussidiato più o meno come quello tedesco, è comunque più efficiente e produttivo (avendo più sole produciamo più kWh per potenza installata) di quello tedesco. Ma questa scelta – avvenuta con alcuni elementi di casualità – non viene affatto rivendicata come un vanto dalle leadership politiche ed economiche, non diventa un perno per politiche industriali: è vissuta con disagio, mantenuta con una sorta di vergogna, denunciata dagli stessi governi e dalle forze politiche e associazioni confindustriali come un problema, un danno, un peso per i costi energetici. Dobbiamo domandarci cosa sarebbe potuto succedere – e cosa potrebbe accadere in futuro – se avessimo avuto (o se avremo in futuro) politiche coerenti di sostegno alla qualità ambientale dell’economia, dei consumi e del territorio. Perché l’Italia, ancora oggi, potrebbe partire avvantaggiata, con tutti i pre-requisiti strutturali (compreso il clima e un patrimonio paesaggistico e storico ereditato da altre più lungimiranti leadership), per costruire anche sulla sfida ambientale (anche, non solo) innovazione, industria, servizi intelligenti, occupazione, benessere e qualità della vita.

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Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.

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