Ambiente Italia 2012

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rapporto annuale di legambiente

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AMBIENTE

ITALIA

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a cura di Duccio Bianchi e Giulio Conte

ACQUA: BENE COMUNE, RESPONSABILITÀ DI TUTTI ANNUARI

Rapporto annuale di Legambiente

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ambiente italia

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Acqua: bene comune, responsabilità di tutti

A cura di Duccio Bianchi e Giulio Conte autori Lorenzo Andreotti, Giornalista Duccio Bianchi, Ambiente Italia, Comitato Scientifico Legambiente Anna Bombonato, Ambiente Italia Lorenzo Bono, Ambiente Italia Paolo Carsetti, Forum italiano dei movimenti per l’acqua Claudio Massimo Cesaretti, Economista agrario, Comitato Scientifico Legambiente Stefano Ciafani, Vicepresidente Nazionale di Legambiente Giulio Conte, Ambiente Italia e Iridra, Comitato Scientifico Legambiente Damiano Di Simine, Presidente Legambiente Lombardia Giuseppe Dodaro, Ambiente Italia, Vicepresidente Centro italiano per la riqualificazione fluviale Luca Falasconi, Università di Bologna Elena Ferrari, Ambiente Italia Marco Mancini, Ufficio Scientifico Legambiente Giancarlo Marini, Responsabile Servizio agricoltura del Parco regionale del Mincio Fabio Masi, Direttore tecnico di Iridra, Comitato Scientifico Legambiente Antonio Massarutto, Università di Udine Michele Merola, Ambiente Italia Francesco Morari, Università di Padova Andrea Segrè, Preside della Facoltà di Agraria Università di Bologna Viviana Valentini, Ufficio Scientifico di Legambiente Giorgio Zampetti, Responsabile Scientifico di Legambiente Edoardo Zanchini, Vicepresidente e responsabile Energie rinnovabili di Legambiente La sezione Testi è stata curata da Giulio Conte. La sezione Indicatori è stata curata da Duccio Bianchi, Lorenzo Bono, Elena Ferrari e Michele Merola. realizzazione editoriale: Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it coordinamento redazionale: Paola Cristina Fraschini progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo © copyright 2012, Edizioni Ambiente srl Via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-6627-028-7 Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (PG) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% La pubblicazione è stata resa

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indice

prefazione Vittorio Cogliati Dezza

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introduzione Giulio Conte

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parte prima   acque in italia: agricoltura, città e industria lo stato delle acque in italia: prelievi, consumi, qualità Giorgio Zampetti, Marco Mancini

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l’evoluzione delle politiche idriche in italia Giuseppe Dodaro, Giulio Conte

45

quale pianificazione per migliorare le acque e ridurre il rischio? Giulio Conte

59

l’acqua e l’agricoltura: un rapporto difficile? Lorenzo Andreotti

65

una nuova prospettiva in tema di sprechi d’acqua Andrea Segrè, Luca Falasconi

71

approcci e tecniche per ridurre i consumi idrici in agricoltura Francesco Morari, Giancarlo Marini, Giulio Conte

83

una tassa di scopo per ridurre i consumi irrigui Claudio Massimo Cesaretti

91

dal letame nascono i fiori: gestione dell’acqua e modifiche dei cicli biogeochimici Giulio Conte, Fabio Masi

95

un’agricoltura diversa per avere acqua per tutti e “in buono stato” Giulio Conte

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quantità e qualità: i problemi delle acque in città Anna Bombonato, Giorgio Zampetti

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idee per una gestione sostenibile dell’acqua in città Giulio Conte

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piove, governo ladro. fermare il consumo di suolo e l’impermeabilizzazione del territorio Damiano Di Simine

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rispettare i fiumi e il ciclo dell’acqua per mitigare il rischio idrogeologico sul territorio Giorgio Zampetti

149

tassare le acque in bottiglia per reinvestire sul territorio Viviana Valentini

153

l’idroelettrico di domani: produrre energia rispettando i fiumi Edoardo Zanchini, Giulio Conte

157

acqua e industria: un rapporto risolto? Stefano Ciafani

165

referendum sull’acqua: un voto per il ritorno al futuro Paolo Carsetti

171

i conti senza l’oste: come pagheremo il servizio idrico dopo il referendum? 181 Antonio Massarutto la svolta necessaria dopo la vittoria referendaria Stefano Ciafani

191

parte seconda   gli indicatori dello stato dell’ambiente i 10 indicatori più significativi

La crescita economica Povertà nel mondo Consumi energetici nel mondo Bilancio energetico in Italia Produzione di energia da fonti rinnovabili in Italia Mobilità delle persone in Italia Produzione e gestione dei rifiuti urbani in Italia Inventario nazionale delle emissioni di gas serra Inquinamento atmosferico delle città in Italia Tasse ambientali

199 200 201 202 203 204 205 206 207 208

indicatori in italia e nel mondo

La dimensione socioeconomica Indice di sviluppo umano Disuguaglianze di genere Indice di competitività

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Reddito pro capite Export mondiale Prezzi commodity Aiuti allo sviluppo Denutrizione Densità popolazione Povertà in Europa Povertà in Italia Ricchezza delle famiglie Rifugiati e profughi Spesa militare Popolazione straniera in Europa Presenza straniera in Italia Aids Tasso di occupazione Tasso educazione universitaria Ricerca e sviluppo nel mondo Risorse umane scientifiche e tecnologiche Telecomunicazioni Uso pc Accesso internet Commercio equo e solidale

211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 220 221 221 222 223 224 225 226 227 228 229 230

L’energia Consumi energetici pro capite Consumi energetici per fonte Intensità energetica dell’economia Produzione elettrica nazionale Produzione e consumo di energia elettrica da fonti rinnovabili in Europa Consumi elettrici domestici in Ue Energia eolica Parco termoelettrico Biocombustibili Solare termico Solare fotovoltaico

231 231 232 232 233 234 234 235 235 236 236

La mobilità Mobilità internazionale delle persone Mobilità delle merci Mobilità internazionale delle merci Trasporto pubblico urbano Motorizzazione privata Parco autoveicolare Consumo carburante Qualità urbana: piste ciclabili Incidentalità stradale in Italia Incidentalità stradale in Europa

237 237 238 239 239 240 240 240 241 241

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I rifiuti Gestione e smaltimento rifiuti urbani Rifiuti urbani in Europa Intensità di rifiuti in Europa

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Le attività produttive Aree coltivate Qualità ambientale dei prodotti Produzione agricola Agricoltura biologica nel mondo Agricoltura biologica in Italia Certificazioni ambientali Iso 14001 Turismo internazionale

244 244 245 245 246 247 247

Il clima e l’aria Emissioni CO2 in Europa Emissioni CO2 da consumo energia Emissioni CO2 pro capite Emissioni CO2 intensità Emissioni di sostanze acidificanti in Europa Emissioni di precursori di ozono in Europa Emissioni di microinquinanti in Europa Emissioni di microinquinanti in Italia

248 249 250 251 252 252 253 253

Le risorse naturali Estensione foreste Aree protette di interesse ambientale Balneabilità coste Stato ecologico dei laghi Qualità biologica dei fiumi Qualità delle acque sotterranee Specie endemiche Impronta ecologica

254 254 255 255 256 257 257 258

Le politiche ambientali Spesa ambientale dello Stato Tasse ambientali Ue

259 259

indicatori nelle regioni italiane

La dimensione socioeconomica Pil pro capite Densità della popolazione Incidenza della povertà relativa Presenza straniera Tasso di occupazione Accesso internet

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L’energia Consumi elettrici domestici Produzione lorda di energia elettrica per fonti

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La mobilità Parco veicolare Tasso di motorizzazione

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I rifiuti Raccolta differenziata Produzione rifiuti urbani

271 272

Le attività produttive Presenze turistiche Agriturismo Certificazioni ambientali Iso 14001

273 274 275

Le politiche ambientali Illegalità ambientale

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prefazione

Per conoscere la qualità del vino non c’è bisogno di bere tutta una botte. Oscar Wilde

Quando abbiamo cominciato a ragionare sull’edizione di Ambiente Italia 2012 si era da poco concretizzato lo straordinario successo referendario (per noi doppiamente straordinario, vista la vittoria contro il nucleare!). È stato naturale, e direi doveroso, a quel punto decidere di dedicare la parte monografica del Rapporto annuale di Legambiente e Ambiente Italia all’acqua. La duplice vittoria referendaria rappresenta, infatti, un punto di svolta a vari livelli. Innanzitutto nella vita democratica italiana: dopo anni un referendum supera il quorum senza incertezze (ha votato il 57% degli elettori) raggiungendo in pieno l’obiettivo. Un punto di svolta, forse a maggior ragione, anche per il modo in cui lo ha raggiunto. È stato uno straordinario momento di partecipazione e di affermazione da parte di intere comunità della volontà di riappropriarsi del diritto di parola e di decisione su questioni pubbliche, di interesse generale e insieme di irriducibile valore quotidiano. Non solo, si sono determinate anche forme nuove di partecipazione. Come sottolineava Ilvo Diamanti a pochi giorni da quel risultato, il 16% degli elettori (circa 7 milioni di persone di cui 1/3 giovani, e quindi per la prima volta chiamati al voto) ha fatto campagna elettorale attiva, con forme e strumenti nuovi e vecchi (ab-

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biamo visto comparire di nuovo le auto con gli altoparlanti sul tetto!), ma soprattutto con un fortissimo senso del territorio e del ruolo della comunità che lo abita. Considerazioni queste che valgono per tutti e due i referendum. Ma, mentre per il nucleare il referendum ha rappresentato la chiusura di un capitolo, per l’acqua, invece, la vittoria ha soprattutto aperto la strada alla riflessione, in particolare su tre aspetti. Sicuramente i ripetuti tentativi, prima del governo Berlusconi e poi del governo Monti, di “aggirare” il chiarissimo voto degli italiani dimostrano che la volontà di proseguire nella privatizzazione dei servizi pubblici, per quanto delegittimata, è tutt’altro che scomparsa, anzi si pone anche un problema di difesa del risultato referendario, per non far rientrare dalla finestra quello che il referendum ha cacciato dalla porta. Con altrettanta certezza possiamo sostenere che il referendum ha fatto fare un enorme passo avanti alla tematica dei beni comuni, con tutta la sua carica di novità e di apertura di ulteriori possibili sviluppi nella riscoperta del valore della dimensione pubblica. Perché i beni comuni sono quei beni, spesso anche immateriali, nei quali una comunità si identifica e si riconosce, che sono al di là del diritto privato e del diritto pubblico, della proprietà statale e del mercato, e che fanno riemergere dalla storia della nascita del capitalismo la dolorosa esperienza delle enclosures, le recinzioni che rappresentarono l’“appropriazione indebita” di terre che erano di nessuno perché erano di tutti. L’attenzione ai beni comuni, per Legambiente, non è una novità, né l’esplosione del tema ci coglie di sorpresa. Già nel Congresso del 2007 affermavamo che “il liberismo è nemico dell’ambiente. Uso del suolo, acqua, biodiversità, qualità dell’aria, devono essere regolati con rigore e nella consapevolezza che i beni ambientali sono beni scarsi ma beni comuni, e che mai, dunque, devono essere trattati come merci” e ancora “l’acqua è un bene comune, il suo utilizzo deve rispondere a criteri di utilità pubblica”. E oggi che tutti parlano a proposito e a sproposito di beni comuni, con tutta l’ambiguità che un termine di moda può implicare, si delinea un’opportunità nuova per dare ossigeno al ruolo della dimen-

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prefazione

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sione pubblica, per creare comunità più consapevoli e coese, che sanno affrontare con proposte concrete i problemi quotidiani, esattamente come è successo nei referendum. Infine, bisogna capire e condividere qual è il problema. Il movimento per l’acqua, fin dal suo sorgere con il Contratto Mondiale, alla fine del secolo precedente, anche grazie all’innesto nel più vasto movimento del social forum, era caratterizzato, soprattutto qui da noi, da forti motivazioni sociali, economiche, di governance. Poi le cose hanno iniziato lentamente a cambiare e l’attenzione all’ambiente è cresciuta, l’intreccio sociale/ ambientale si è diffuso, per effetto soprattutto dell’esplosione di nuove emergenze (penso per esempio al drammatizzarsi del fenomeno dei profughi ambientali nel sud del mondo o al diffondersi di catastrofi come quelle provocate dall’uragano Katrina a New Orleans). La campagna referendaria, dalla raccolta delle firme in poi, ha visto maturare una nuova attenzione agli aspetti ambientali. Sul territorio, soprattutto nei piccoli comuni, era evidente che la gestione della risorsa idrica, la sua salvaguardia, l’intreccio con il complesso sistema idrico, dalla sorgente alla foce, passando per gli usi urbani e produttivi e la depurazione, rappresentassero un unico grande nodo di problemi da tenere ben connesso. Connessioni che erano meno evidenti nella “civiltà” a intensa urbanizzazione. Qui si apre una sfida importante che chiama in causa direttamente la responsabilità politica e culturale degli ambientalisti, ovvero la necessità di affrontare la questione acqua nella complessità del sistema idrico per capire come sia possibile oggi “risolvere il problema”. Per avanzare su questa strada non basta, ovviamente, rifarsi a quanto stiamo da anni sostenendo. Noi per primi dobbiamo fare lo sforzo di ricollocare la questione nella sua dimensione sistemica, come si dice nel nostro gergo ambientalista, senza sottovalutare gli aspetti socio-economici, ma evitando il rischio che tutto si esaurisca in questa lettura, per il semplice fatto che anche questioni strettamente di matrice socio-economica, come per esempio la questione della governance, della ripubblicizzazione, delle risorse, al di fuori di una lettura sistemica del ciclo idrico e dei diversi consumi che la risorsa subisce, al di fuori di una chiara consapevolezza dei rischi e

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dei problemi ambientali da risolvere risulterebbe incapace di individuare una soluzione effettiva. Si tratta cioè di tenere insieme le politiche agricole con quelle industriali, la cura ecologica dei sistemi territoriali con l’urbanistica e l’innovazione tecnologica negli edifici e nei quartieri, l’assetto istituzionale con il reperimento delle risorse. La complessità dei problemi e la necessità di tenere insieme i diversi aspetti ci dicono che il problema acqua si può affrontare solo con un potente spirito di innovazione e cambiamento. Servono politiche innovative per delineare una governance che prenda le distanze dall’ideologismo che vive in quelle posizioni che dopo i fallimenti di questi anni continuano a pensare che la privatizzazione rappresenti una soluzione reale. E soprattutto servono politiche capaci di intervenire in città e nel territorio per configurare nuove soluzioni e nuove opportunità. È indubbio che negli ultimi decenni si stia riducendo la disponibilità di acqua, ma soprattutto la qualità non migliora come imposto dalle direttive europee. Non basta quindi intervenire seriamente e con una prospettiva strategica sulla riduzione dei consumi, individuando i settori più idroesigenti e gli interventi di razionalizzazione possibili, serve intervenire immediatamente sulla qualità in tutti i settori del sistema idrico, applicando con coerenza il principio del full cost recovery. Per quanto siamo in ritardo ancora nella depurazione, dobbiamo avviare immediatamente un processo di innovazione e riorganizzazione nelle città, per valorizzare per esempio negli edifici la separazione tra acque grigie e acque nere o la raccolta e l’uso delle acque piovane. A tale proposito è urgente applicare anche a questo settore la misura della detrazione fiscale del 55% per interventi di razionalizzazione e risparmio idrico. Con il Rapporto di quest’anno vogliamo entrare nel merito di questi aspetti, che più ci riguardano come ambientalisti, ma da cui pensiamo che nessun movimento sociale possa ormai prescindere se vuole essere parte della soluzione e non semplicemente attestarsi nella posizione di denuncia delle malefatte e delle incapacità degli altri.

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prefazione

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Non abbiamo la presunzione di pensare che il nostro ragionamento sia l’unico utile. Tutt’altro, pensiamo però che sia un tassello indispensabile da connettere con gli altri perché si facciano concreti passi avanti nella soluzione delle numerose falle del sistema idrico italiano e della sua gestione. Le riflessioni e le proposte che avanziamo in questo Rapporto vogliono solo essere un contributo per aprire una riflessione ampia su quali debbano essere le politiche di sistema, con quali risorse, con quali strumenti. L’attenzione che c’è oggi intorno a questi temi deve trasformarsi in nuova consapevolezza delle strade che è necessario percorrere per giungere a una soluzione. Vittorio Cogliati Dezza Presidente Nazionale Legambiente

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introduzione Giulio Conte

Nel primo rapporto Ambiente Italia, uscito nel 1989, uno dei capitoli sulle acque fu affidato a Mario Di Carlo, chimico, dirigente storico di Legambiente, amico, scomparso prematuramente lo scorso anno. Scriveva, Mario, a proposito della depurazione in Italia: “Molte sono state le risorse finanziarie che sono state spese nel settore, si parla di una cifra tra i 20.000 e i 30.000 miliardi [di lire, pari a circa 10-15 miliardi di euro]. Abbiamo una potenzialità di buon livello che coprirebbe buona parte delle necessità del nostro paese, ma il livello di funzionamento e di efficienza di questa rete è veramente scarso”. Dieci anni più tardi, nel 1998, il rapporto Ambiente Italia dedicava un’ampia parte monografica alle acque. Molte cose erano cambiate: la legge di difesa del suolo e la costituzione delle Autorità di bacino, la razionalizzazione della gestione delle acque e degli scarichi urbani, con la legge 36 del 1994. Eppure, nell’introduzione, Lucia Venturi e io lamentavamo come la politica delle acque fosse ancora sostanzialmente un lungo elenco di opere (acquedotti, fognature, depuratori, argini, rettificazioni) mancando di misure tese “a ridurre le emissioni alla fonte ricorrendo alle tecnologie pulite, a disincentivare lo sviluppo urbanistico irrazionale che tanti danni provoca al sistema idrico, a prevenire l’inquinamento diffuso, a rinaturalizzare i corsi d’acqua per restituire loro l’originaria capacità autodepurativa”. giulio conte – Ambiente Italia e Iridra, Comitato Scientifico Legambiente.

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Un altro decennio è trascorso e ancora molto è cambiato. La direttiva quadro sulle acque approvata nel 2000 (numero 60), in parte anticipata in Italia dal Dlgs 152/99, ha radicalmente cambiato le politiche idriche europee: gli stati membri non possono limitarsi a garantire gli “usi” dell’acqua (la potabilità, la balneabilità) e a depurare gli scarichi, ma devono adottare Piani a scala di bacino che puntino a raggiungere il “buono stato” degli ecosistemi acquatici. Ma il primo decennio del 2000 ha anche visto svilupparsi intorno al tema dell’acqua un enorme movimento di opinione internazionale. Dalla presentazione nel 1998 del “Contratto mondiale per l’acqua”, in molti paesi del mondo grandi masse di cittadini hanno manifestato con forza la loro volontà che il servizio idrico non venga affidato al mercato e rimanga saldamente nelle mani pubbliche. Il 2011 è stato in Italia l’anno della vittoria del sì al referendum sull’acqua, un evento importante non solo per le politiche idriche ed energetiche oggetto dei referendum, ma anche per la democrazia italiana in generale: da molti anni, infatti, lo strumento referendario sembrava incapace di smuovere l’opinione pubblica. Il consenso della maggioranza degli italiani al referendum sull’acqua è un risultato importante e un prezioso tesoro per tutti coloro che hanno a cuore un’Italia più pulita e più giusta. È fondamentale però che il credito ottenuto grazie al consenso popolare sia utilizzato per migliorare le politiche e renderle più efficaci ed efficienti, oltre che eque. Come apparirà chiaro ai lettori di Ambiente Italia 2012, vinto il referendum, restano ancora aperte importanti domande. La gestione pubblica sancita dal referendum riguarda meno del 20% dell’acqua consumata in Italia e il restante 80% non ci interessa? L’acqua in mano pubblica garantisce “di per sé” una gestione corretta o è necessario prevedere meccanismi di controllo e partecipazione alle scelte? Non servono anche strumenti che orientino cittadini e imprese verso un uso responsabile dell’acqua? Per questo il Rapporto annuale a cura di Legambiente e Ambiente Italia torna ancora una volta sul tema dell’acqua. Un tema complesso e articolato che intreccia aspetti diversi: dal rischio idraulico e geomorfologico,

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introduzione

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alla gestione del servizio idrico, alla tutela della biodiversità (le specie di pesci delle acque interne sono tra i gruppi più a rischio di estinzione) e del paesaggio (gli architetti che originariamente hanno disegnato valli, pianure e coste – non dimentichiamolo – sono i fiumi), alla produzione industriale ed energetica, all’agricoltura e all’autosufficienza alimentare. Gli esperti che hanno contribuito a questo Ambiente Italia ci permettono di abbracciare il tema nella sua complessità e di delineare un quadro di sufficiente chiarezza: dove siamo ora e che direzione è necessario prendere. Sulla drammatica situazione del rischio idrogeologico non serve fornire dati (che pure Legambiente e Protezione Civile forniscono periodicamente con i rapporti Ecosistema Rischio): gli eventi drammatici verificatisi nel 2011 in Lunigiana, Liguria e Sicilia – solo per citare gli ultimi in ordine di tempo – ne sono la più evidente testimonianza. Sembra ormai generalmente riconosciuto che se gli eventi meteorologici eccezionali – che si ripetono ormai quasi ogni anno – sono presumibilmente legati al cambiamento climatico, le cause dei disastri sono da attribuire in larga misura al mezzo secolo di progressiva urbanizzazione (si veda in proposito il contributo di Damiano Di Simine, Fermare il consumo di suolo e l’impermeabilizzazione del territorio), che ha radicalmente modificato la risposta idrologica del territorio. Sulle strategie per affrontare il problema resta però notevole confusione. Molti sindaci dei Comuni interessati dagli eventi alluvionali dello scorso autunno ritenevano, per esempio, che per ridurre il rischio fosse necessario e urgente dragare gli alvei dei corsi d’acqua, mentre la gran parte degli “esperti” consultati dai media a ridosso della tragedia, chiedeva politiche per favorire la “manutenzione” del territorio montano abbandonato. Si tratta di azioni nel migliore dei casi inutili, nel peggiore dannose, in grado di aggravare il problema piuttosto che risolverlo. L’escavazione degli alvei – praticata allegramente per decenni nella seconda metà del secolo scorso – è all’origine di buona parte dei problemi di dissesto del territorio italiano (si vedano in proposito i lavori di Hervé Piegay, Massimo Rinaldi, Pino Sansoni e Nicola Surian citati nel volume curato da A. Nardini, G. Sansoni per il

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Cirf, La riqualificazione fluviale in Italia. Linee guida, strumenti ed esperienze per gestire i corsi d’acqua e il territorio, 2006). Quanto alla manutenzione e/o pulizia del reticolo idrografico minore nelle parti montane dei bacini, si tratta di pratiche che tendono ad accelerare i tempi di corrivazione, aumentando i picchi di piena. L’abbandono delle attività agricole tradizionali in montagna ha certamente degli effetti negativi, ma la sostituzione di prati pascoli con arbusteti e boschi, non può che avere effetti positivi sulla risposta idrologica complessiva dei bacini idrografici. Le strategie da attuare sono purtroppo più complesse e articolate: Giorgio Zampetti nel suo contributo, Rispettare i fiumi e il ciclo dell’acqua per mitigare il rischio idrogeologico sul territorio, ne fornisce un’utile sintesi. Si tratta in buona sostanza di restituire condizioni di naturalità in tutte le porzioni di bacino dove questo è possibile – le “teste” dei bacini, ma anche le aree agricole collinari e le porzioni di piane alluvionali salvate dall’urbanizzazione – lasciando quindi la possibilità ai corsi d’acqua di esondare o erodere dove questo può avvenire senza minacciare vite umane, e concentrare opere e interventi di manutenzione su brevi tratti di corsi d’acqua fortemente urbanizzati dove è impensabile delocalizzare i beni esposti. Ma veniamo allo sfruttamento delle risorse idriche. I dati presentati da Giorgio Zampetti in Lo stato delle acque in Italia, per quanto ancora incerti in particolare sui consumi agricoli – che oscillano tra i 20 e i 30 miliardi di metri cubi a seconda delle stime –, ci confermano qualcosa che in realtà sapevamo da tempo: in Italia il prelievo idrico è eccessivo. Prelevare tra i 40 e i 50 miliardi di metri cubi ogni anno, in particolare concentrati nel periodo estivo, impoverisce troppo fiumi e falde e li rende incapaci di ospitare comunità ecologiche equilibrate e di ricevere il carico inquinante – ancorché depurato – prodotto sul territorio nazionale. Una riduzione dei consumi – e quindi dei prelievi – per lasciare più acqua alla circolazione naturale è necessaria per raggiungere ecosistemi acquatici in “buono stato” come richiesto dalla direttiva quadro. Una particolare attenzione questo volume la dedica al compar-

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to agricolo, ultimamente trascurato anche se di gran lunga il maggior consumatore d’acqua in Italia e in buona parte d’Europa. Il contributo di Francesco Morari, Giancarlo Marini e Giulio Conte, Approcci e tecniche per ridurre i consumi idrici in agricoltura, spiega come sia tecnicamente possibile una riduzione di almeno il 30% dei consumi a parità di superficie irrigata mentre quello di Claudio Massimo Cesaretti, Una tassa di scopo per ridurre i consumi irrigui, suggerisce una strada per trovare le risorse per le aziende agricole disposte a innovare. Ma i contributi di Lorenzo Andreotti, L’acqua e l’agricoltura: un rapporto difficile?, e Giulio Conte, Un’agricoltura diversa per avere acqua per tutti e “in buono stato”, mostrano la necessità di una maggior attenzione al tema “acqua”, da parte dei sistemi comunitari di sostegno all’agricoltura mentre quello di Andrea Segrè e Luca Falasconi, Una nuova prospettiva in tema di sprechi d’acqua, sottolinea l’importanza delle scelte dei consumatori (che possono orientare il mercato verso produzioni a minor “impronta idrica”). Certo la riduzione dei prelievi non è tutto; il problema della qualità delle acque dei nostri fiumi – con più del 50% dei campioni analizzati che non raggiunge il buono stato – dipende anche da un sistema di depurazione inadeguato. Le considerazioni di Mario Di Carlo pubblicate in Ambiente Italia 1989 si riferivano ai depuratori censiti dall’Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani) nel 1987, che erano 1.581 per una capacità effettiva di depurazione pari a circa 37 milioni di abitanti equivalenti. Oggi i depuratori (dati Istat riferiti al 2008) sono 7.000 per una capacità di depurazione effettiva che supera i 75 milioni di abitanti equivalenti. Eppure la qualità delle acque dei nostri fiumi, laghi e mari è ancora ben lontana dal pieno recupero che sarebbe lecito attendersi. Il problema intuito da Mario Di Carlo già più di 20 anni fa – non basta costruire depuratori per avere acque in buono stato – è rimasto sostanzialmente immutato fino a oggi. Certo, il completamento della rete depurativa (circa il 30% degli scarichi ancora non è depurato) è necessario, ma negli ultimi 10 anni è cresciuta, nel mondo tecnico scientifico, la consapevolezza che il problema dell’inquinamento delle acque non

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possa essere risolto solo attraverso la depurazione. Ne davo conto nell’introduzione a Nuvole e sciacquoni, il libro con cui, nel 2008, ho cercato di portare anche in Italia il dibattito internazionale sull’innovazione tecnica nei sistemi di igiene urbana e ingegneria sanitaria: “da oltre un decennio, a occhi esperti di tutto il mondo, è risultato sempre più chiaro che il modello di gestione delle acque nelle nostre città non è sostenibile. Non è sostenibile il modello ‘urbano’, basato su ‘prelievo, distribuzione, utilizzo, fognatura, depuratore, scarico’, perché comporta un uso eccessivo di risorse idriche di altissima qualità, perché produce inquinamento che può essere solo parzialmente ridotto ricorrendo alla depurazione, perché non si cura di riutilizzare risorse preziose come l’azoto e il fosforo contenute nelle ‘acque di scarico’. Non è sostenibile il modello ‘domestico’, perché è basato su una serie di pratiche come minimo rozze, se non completamente illogiche: l’approvvigionamento idrico delle nostre case attraverso un’unica fonte – l’acqua fornita dall’acquedotto pubblico –, anche quando sarebbe possibile, utile e conveniente raccogliere e usare l’acqua di pioggia; il consumo indiscriminato dell’acqua potabile, usata in grandi quantità per scaricare il wc; l’eliminazione di tutti i nostri scarti attraverso un unico sistema di scarico – siano essi escrementi con carica batterica altissima, urine ricche di prezioso azoto, o acqua praticamente potabile usata per sciacquare la frutta”. Anche su questi temi Ambiente Italia 2012 propone, nei contributi di Giulio Conte e Fabio Masi, Dal letame nascono i fiori: gestione dell’acqua e modifiche dei cicli biogeochimici, e Giulio Conte, Idee per una gestione sostenibile dell’acqua in città, riflessioni e soprattutto soluzioni: dalla separazione delle reti, ai sistemi di trattamento decentrato, al riuso delle acque usate, fino alla separazione alla fonte delle urine. Insomma il bilancio degli ultimi 20 anni di politiche idriche non è granché soddisfacente in termini di risultati raggiunti: il successo ai referendum e la diffusione nel mondo tecnico scientifico di nuovi approcci più attenti agli aspetti ecologici possono essere i segnali di un cambiamento di tendenza?

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Al momento il dibattito sull’attuazione dell’esito referendario si concentra sugli aspetti economico finanziari: come restituire nelle mani pubbliche le proprietà delle aziende che, negli anni scorsi, sono state aperte ai capitali privati? Da dove prendere le risorse per gli ingenti investimenti necessari per completare (e dovremmo aggiungere rinnovare!) le infrastrutture per il servizio idrico integrato? Su quest’ultima domanda proponiamo in questo volume punti di vista diversi: accanto a quello di Paolo Carsetti, del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, quello dell’economista Antonio Massarutto, molto criticato proprio dal movimento stesso. Questa scelta, lungi dall’essere “cerchiobottista” segna la specificità della posizione di Legambiente (ma mi sentirei di dire, anche di gran parte del movimento ambientalista italiano, che degli studi e dell’esperienza del professor Massarutto si è spesso servito in passato) all’interno del movimento referendario, che pure l’associazione ha sostenuto con convinzione. Una specificità che richiede spazi di approfondimento e di confronto su alcuni aspetti (per esempio il principio del full cost recovery, da abbandonare secondo Paolo Carsetti, da preservare il più possibile secondo il contributo di Stefano Ciafani, La svolta necessaria dopo la vittoria del referendum) ma che certamente costituisce un elemento di ricchezza per tutto il movimento per l’acqua bene comune, sia in termini di proposta politica sia di capacità di aggregazione. Ma forse il contributo più importante che gli ambientalisti possono portare al dibattito post referendario non riguarda gli aspetti economico finanziari, ma proprio il “che fare”. E Ambiente Italia 2012 è senz’altro, da questo punto di vista, un sasso nello stagno. Al lettore, infatti, apparirà chiaro che le cose da fare non si limitano affatto a ridefinire gli assetti proprietari degli enti di gestione o anche a riformare i meccanismi di finanziamento del Servizio idrico integrato, ma abbracciano le politiche agricole e quelle industriali, le politiche territoriali in senso ampio e quelle urbanistiche e di difesa del suolo in particolare. Si tratta di un cambiamento profondo che richiederà una riforma normativa articolata (i cui contenuti sono solo in parte anticipati nei contributi di Giuseppe Dodaro e Giulio Conte, L’evoluzione delle politiche

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idriche in Italia, e Giulio Conte, Quale pianificazione per migliorare le acque e ridurre il rischio?). Ma soprattutto richiede un cambiamento delle coscienze. Il movimento referendario ha avuto il grande merito di riaccendere l’attenzione sui “beni comuni”. Quelle cose che non possono essere privatizzate, né vendute o comprate, semplicemente perché non appartengono a qualcuno in particolare, ma a tutti. Riconoscere il valore di bene comune all’acqua ha un profondo significato antropologico e politico, indipendentemente dalle scelte tecnico-operative riguardanti la sua gestione. Prendersi cura dei beni comuni implica diritti e responsabilità: sarebbe una ben misera vittoria se la gestione pubblica dell’acqua fosse finalizzata a mantenere basse le tariffe. Quale valore attribuiamo al più prezioso dei beni comuni se non siamo disposti a pagare il prezzo di due o tre caffè per ricevere a casa 1.000 litri di acqua perfettamente potabile, che – compreso nel prezzo – vengono anche ritirati dopo l’uso, depurati e restituiti all’ambiente in buone condizioni? Il dibattito intorno ai beni comuni è parte di una più ampia riflessione sul cambiamento del modello di sviluppo. Ormai è evidente a tutti, che la ripresa della “crescita”, attesa per uscire dalla crisi che morde tutt’Europa, non può riguardare la produzione e il consumo di beni fisici, ma la loro qualità, intesa anche come sostenibilità ambientale ed equità sociale del processo produttivo. Questo implica per i cittadini la responsabilità di riconoscere il valore di tale qualità e il farsi carico dei suoi costi, anche quando questo significa modificare il proprio “paniere” di consumi e consumare (o sprecare) un po’ meno. In altre parole se, come proposto su queste pagine da Claudio Massimo Cesaretti, riteniamo utile una tassa di scopo sugli usi agricoli dell’acqua per disincentivare gli sprechi e finanziare gli investimenti, dobbiamo poi essere disposti a farcene carico anche noi, quando andiamo al mercato a comprare arance o pomodori. La crisi economica, arrivata dopo un lungo periodo di “deregulation”, è la prova che deve essere la politica – nel suo senso più nobile – e non il mercato a guidare lo sviluppo umano. Ma il mercato deve rispondere

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alla politica integrando nel valore di beni e servizi, gli effetti della buona politica, orientando così le scelte dei cittadini. Nelle democrazie di mercato le cose funzionano così: l’alternativa è l’economia pianificata e i piani quinquennali, soluzioni che riguardano altri sistemi di governo e, almeno per il momento, non se ne prevede il ricorso nei paesi dell’Unione europea. Grazie al successo del referendum, l’idea di bene comune si sta estendendo. In Lombardia, il 2011 si è chiuso con l’approvazione di una legge che riconosce anche il suolo quale “bene comune”. Seppure insoddisfacente negli strumenti di tutela, la nuova legge lombarda è un segnale positivo. La sfida ora è tutta nel definire sistemi di regole dei beni comuni che, bilanciando in modo equilibrato vincoli e strumenti economici – quali tasse di scopo e canoni d’uso: per esempio, prevedendo un canone per tutti coloro che occupano suolo, commisurato all’impermeabilizzazione – , spingano i diversi attori che operano sul territorio a ridurre la propria “impronta” su di esso e sulle sue risorse naturali. Estendere al suolo il concetto di “bene comune”, traducendolo in scelte politiche forti, è dunque una delle strade da seguire con convinzione per migliorare anche le acque. E sarà forse il modo per provare almeno a rispondere, con cinquant’anni di ritardo, alla domanda di Gianni Rodari: “Spiegatemi voi dunque, in prosa od in versetti, perché il cielo è uno solo, e la terra è tutta a pezzetti” (tratto dalla poesia “Il cielo è di tutti”).

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i conti senza l’oste: come pagheremo il servizio idrico dopo il referendum? Antonio Massarutto

Il referendum ha affermato – nel caso ce ne fosse bisogno – che l’acqua è un bene comune che appartiene a tutti i cittadini, e che per la sua essenzialità deve essere accessibile. Il servizio idrico – il sistema di gestione e le infrastrutture che permettono ai cittadini di fruire di questo bene comune – può essere considerato come un enorme condominio, del quale tutti facciamo parte. Come ogni condominio che si rispetti, anche questo deve ripartire i suoi costi tra i condomini. “Comune”, del resto, viene dal latino cum muniis, e allude al fatto che per condividere i diritti sulla cosa comune occorre condividere anche i doveri. i numeri del problema Accessibile, dunque: ma non per questo gratuito. La variabile indipendente di questo ragionamento è che il costo necessario per far funzionare il sistema deve essere, in qualche modo, coperto. Complessivamente, il costo operativo (ossia la pura gestione) si può quantificare in 5 miliardi di euro/anno, corrispondenti allo 0,3% del Pil. Sono le spese per il personale (circa 1/3), per l’energia, le materie prime, le forniture di beni e servizi che le gestioni acquistano dall’esterno per il loro funzionamento. antonio massarutto – Docente Economia pubblica Università di Udine.

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A questi vanno aggiunti – in termini di pura spesa – investimenti che i piani d’ambito stimano in un valore medio annuo di poco meno di 37 euro pro capite, ossia circa 2,2 miliardi di euro/anno (0,14% del Pil). Questi sono gli investimenti previsti, peraltro largamente sottostimati rispetto al valore che sarebbe davvero necessario per rinnovare le reti esistenti e completarle adeguandole agli standard europei; quegli standard il cui mancato raggiungimento, a 20 anni di distanza dalla direttiva 91/271, stanno per costarci l’ennesima brutta figura a livello comunitario, condita dalle ennesime salatissime sanzioni. Una stima da noi effettuata sulla base di un metodo parametrico valuta l’investimento di equilibrio tra il doppio e il triplo di quello pianificato: arrotondando, siamo sui 6 miliardi/anno. A regime, dunque, il settore idrico dovrebbe essere in grado di mobilitare una spesa annua tra gli 8 e gli 11 miliardi, che pro capite fanno 125180 euro/anno. Questo è un valore medio: quello che si dovrebbe spendere mediamente se il sistema fosse in equilibrio. Ma il sistema non è in equilibrio, poiché sconta un lungo periodo di stasi in cui si è investito molto meno di quanto si doveva; gli investimenti per metterci a pari dovrebbero essere dunque più elevati per un po’ di anni. Spendere di meno si può, in due modi, uno virtuoso, uno no. Il primo (quello virtuoso) è quello di cercare di rendere le gestioni più efficienti, risparmiando su costi non necessari. Questo è senz’altro possibile, ma richiede l’esistenza di un sistema di regolazione tale da incentivare i gestori in questa direzione. L’esperienza mostra abbastanza chiaramente che non è la natura proprietaria del gestore a incidere sui livelli di efficienza, ma la capacità del regolatore di incidere efficacemente sulla formazione dei costi, incentivando in modo continuo incrementi di produttività. L’altro modo (per niente virtuoso) è quello di rinunciare a investire: ma, detto nudo e crudo, significa scaricare questi costi sui nostri figli e nipoti (senza contare le multe europee di cui si è detto). La riforma avviata nel 1994, scommettendo sulla possibilità che il sistema potesse autofinanziarsi attraverso le tariffe e operando in una logica industriale, è riusci-

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to a mettere in moto un po’ meno investimenti di quanto i piani inizialmente prevedessero, ma siamo comunque su valori superiori ai 30 euro pro capite/anno. Prima, quando a finanziare la spesa era la fiscalità generale, si investiva meno della metà. questione di scelte Il problema del servizio idrico è tutto in questi pochi numeri. È un problema, ma anche un’opportunità: nel senso che si tratta di una spesa in grado di mobilitare un indotto che genera posti di lavoro e ricchezza, cosa che per un paese sull’orlo della recessione è pur sempre meglio che niente. Oltre tutto, si tratta di posti di lavoro e ricchezza che in buona parte si creerebbe qui, e non in Cina, e anche questo non dovrebbe spiacere a nessuno. Come si possono mobilitare cifre del genere? È abbastanza ovvio: o disponendo di entrate correnti di pari entità (che permetterebbero di non ricorrere al debito) o chiedendoli al mercato: indebitandosi con le banche, emettendo obbligazioni o altri titoli, e così via. La seconda ipotesi richiede – è altrettanto ovvio – che al costo dell’investimento si sommi la remunerazione che chi presta le risorse chiederà. Questo, si noti, è del tutto indipendente dal sistema di gestione. Qualsiasi gestore – pubblico o privato, cooperativo o misto – sostiene in linea di principio gli stessi costi, e li deve in qualche modo coprire. Le entrate correnti possono essere sia la fiscalità generale alimentata dalle imposte e poi trasferita al settore, sia le tariffe che i cittadini pagano direttamente al gestore. A chiedere i soldi al mercato ci può andare lo stato (debito pubblico) oppure il gestore: ma in entrambi i casi dovrà non solo restituire a rate il capitale che il mercato gli mette a disposizione, ma anche remunerarlo alle condizioni che il mercato richiede. O le entrate correnti sono tali da permettere al gestore di autofinanziarsi interamente, oppure esse dovranno comunque coprire le uscite finanziarie necessarie per rimborsare i prestiti e pagare gli interessi.

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Chiunque stia programmando l’acquisto di una casa si trova nella stessa situazione: o i soldi ce li ha, oppure se li deve far prestare, e in questo secondo caso dovrà ricavare dalle proprie entrate correnti (il suo stipendio) quanto occorre mensilmente per pagare la rata del mutuo. Ora, sembra potersi senz’altro escludere la possibilità recuperare queste risorse attraverso la fiscalità generale. Per quanto lo 0,5% del Pil non rappresenti in sé e per sé una cifra proibitiva, ognuno si rende conto che, con i tempi che corrono, caricare anche un solo euro di spesa sulla fiscalità generale è temerario, anche volendosi limitare a quella sola componente che, secondo le proposte referendarie, dovrebbe essere esclusa delle tariffe, ossia l’erogazione di 50 l/giorno e gli investimenti. Del resto, come si notava poco fa, anche quando il vincolo di bilancio mordeva meno di adesso, la fiscalità generale si è mostrata assai poco generosa nei confronti del servizio idrico. D’altra parte, gli italiani hanno votato solennemente contro la possibilità che l’acqua sia erogata “for profit”. Personalmente, ritengo che quello del profitto sia un falso problema che la campagna referendaria ha in larga misura travisato, confondendo la remunerazione del capitale investito (ossia, il costo che il capitale comunque ha, qualunque sia il gestore che si rivolge al mercato per essere finanziato) con il profitto, che corrisponde a quanto rimane al gestore una volta sottratti dai ricavi i costi che questo ha sostenuto, ivi compresi quelli del capitale. Se la regolazione delle tariffe è tale da non consentire al gestore la formazione di profitti di monopolio, l’utile che la gestione genera dovrebbe corrispondere alla normale remunerazione del capitale proprio. Un gestore che non ha capitale proprio dovrebbe in alternativa ricorrere al debito, e ovviamente remunerarlo a un tasso non dissimile. E, aggiungiamo, l’esistenza di un capitale proprio è in genere una precondizione per accedere ai finanziamenti a debito. A ogni modo, gli elettori sono stati di un altro avviso, e il pronunciamento popolare va ovviamente rispettato anche quando – come è il caso di chi scrive – non lo si condivide. Dunque, se si vuole prendere alla lettera il risultato del voto, non è praticabile neppure la strada di fondare la

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gestione dei servizi su gestioni che operano in una logica di impresa, investendo capitale proprio e remunerandolo con i proventi della gestione. Chi si illude che in questo modo i cittadini risparmieranno, potendo eliminare dalla tariffa l’odioso balzello del 7%, potrebbe avere presto una brutta sorpresa. Si noti infatti che nella formulazione della legge che esce dal referendum, la tariffa, seppur non più fissata “... tenendo conto dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, resta comunque, come recita lo stesso comma dello stesso articolo, una riga dopo, il corrispettivo del costo del servizio, del quale fanno parte anche gli investimenti (e dunque i relativi costi finanziari, nel caso in cui il gestore dovesse sostenerne). Insomma, con o senza referendum i costi vanno coperti (altrimenti le aziende falliscono e/o gli investimenti non si fanno). Ci rimangono, sostanzialmente, due possibilità. La prima è quella di obbligare ogni gestore ad autofinanziarsi con le entrate correnti di origine tariffaria, e tutte le altre forme di coinvolgimento diretto dei cittadini, dall’azionariato popolare ai prestiti infruttiferi sottoscritti dagli utenti in modo più o meno volontario. Impossibile? Non necessariamente, a patto che sia chiaro che il cittadino dovrebbe in questo caso pagare annualmente il corrispondente dell’uscita di cassa. Se – all’incirca – 80 euro/anno che i cittadini pagano servono a coprire le spese correnti, i 37 euro di investimenti dovrebbero sommarsi annualmente a questa spesa. Rimarremmo sui 117 euro/anno a testa, comunque più di quelli che stiamo spendendo oggi, e più di quanti è previsto di spenderne a regime. Teniamo inoltre presente che i 37 euro sono un valore medio (su base nazionale e su base pluriennale). Se per alcuni anni volessimo accelerare gli investimenti per recuperare il tempo perduto – diciamo, investendone 60 o 70 per qualche anno – dovremmo prevederne altrettanti pagati direttamente dai cittadini con le tariffe. Questo accadrebbe se il servizio idrico fosse davvero un condominio, e se a questo condominio fosse per qualche ragione precluso il ricorso a finanziamenti esterni. Il cittadino potrebbe facilmente accorgersi che, in questo modo, si paga di più, e non certo di meno.

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Ovviamente, quella del condominio è solo una metafora: nel nostro caso, non è necessario coprire tutte le spese con entrate correnti, a patto di poter ricorrere al credito. Questa del resto è una strada che tutte le aziende idriche hanno già ampiamente sfruttato, e certamente non gratis. Con le banche, come nella maggior parte dei casi si è fatto, ma anche con altri strumenti, dall’emissione diretta di obbligazioni (come fece l’Acquedotto Pugliese), che sui suoi bond già oggi paga un tasso di poco inferiore al 7%: ragione per la quale lo stesso Nichi Vendola, referendario della prima ora, ha affermato che di tagliare dalla tariffa pugliese la remunerazione del capitale non se ne parla proprio. È difficile avventurarsi in stime su quanto i cittadini potrebbero spendere se il servizio idrico – organizzato, come è adesso, su ambiti di gestione tendenzialmente autosufficienti – dovesse davvero poggiare solo sulle risorse che ciascuna è in grado di generare. L’esperienza delle gestioni in house è stata fin qui spesso negativa: si tratta di aziende che hanno incontrato enormi difficoltà a rivolgersi al mercato del credito, in genere perché le banche si fidavano poco della loro capacità di generare davvero, con la puntualità necessaria, i flussi di cassa necessari a ripagare i debiti. Solo chi ha avuto l’accortezza di costruire fin dall’inizio piani “bancabili” – ossia, con caratteristiche tali che i margini necessari per il rimborso dei prestiti potessero essere ritenuti sufficientemente certi – ci è riuscito, in genere con la necessità di ridurre drasticamente il volume di investimenti pianificati. Nello scenario attuale, oltre tutto, è assai dubbio che le gestioni pubbliche riuscirebbero a finanziarsi a tassi inferiori a quel 7% che, in campagna referendaria, è stato additato all’opinione pubblica come un esoso tasso di usura, nemmeno se a garantirle fosse lo stato. Quella di finanziare il servizio idrico ricorrendo all’indebitamento diretto dei gestori è comunque, a mio avviso, una soluzione dal fiato corto, almeno finché le gestioni opereranno in ordine sparso. Operando in questo modo, riuscirebbero a finanziarsi solo le gestioni degli ambiti più forti – quelli per esempio che, potendo contare sulla presenza di aree urbane sufficientemente grandi e dense, sono in grado di garantire flussi

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di cassa più consistenti e più facili da prevedere. Mentre invece risulterebbero penalizzate le aree dove, per qualsiasi ragione, il servizio pro capite ha costi superiori, per via dell’utenza meno densa, della più sfavorevole dotazione di risorse, o perché hanno investimenti maggiori da fare. una proposta: un fondo comune E quindi? Una strada possibile è quella di unire le forze. Immaginiamo un fondo comune. Grande come l’Italia. Una Cassa Depositi e Prestiti dedicata al sistema idrico. Immaginiamo che questo fondo si finanzi con una tassa pagata da tutti i cittadini: una tassa di scopo, che potremmo strutturare in molte maniere. Butto lì una proposta: la tassa potrebbe avere una componente fissa, calcolata su base patrimoniale (per esempio sui valori catastali degli immobili), e una variabile, proporzionale ai consumi di acqua (o, al limite, sui consumi di acqua che eccedono una certa quantità). La quota fissa potrebbe a sua volta contenere un meccanismo di premio-sanzione diretto a incentivare il risparmio idrico, come per esempio uno sconto per chi dimostra di avere ristrutturato la toilette o di avere installato un sistema di riuso delle acque meteoriche o delle acque grigie depurate. Una tassa dell’ordine di 15 euro pro capite, potrebbe finanziare direttamente investimenti intorno a 1 miliardo di euro: utilizzandone il gettito con criteri rotativi, e operando su una dimensione territoriale sufficientemente grande, il fondo funzionerebbe come una banca che presta le risorse che ottiene alle gestioni per fare gli investimenti, a un tasso basso o al limite nullo, purché con adeguate garanzie di recuperare la quota di ammortamento (per esempio, attraverso una prelazione sul gettito delle tariffe). Si è detto però che, almeno per una certa fase, il criterio rotativo non è possibile, perché tutti devono investire contemporaneamente. Dunque, il ricorso al mercato è inevitabile. Ma un conto è mandarci le singole aziende ognuna per conto proprio, un conto è farlo, almeno in parte, attraverso una facility condivisa. Immaginiamo per esempio che il

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fondo possa anche fare leva su queste entrate, collocando a sua volta dei bond. Immagino che per il mercato non sarebbe indifferente prestare a questa entità, piuttosto che a ciascuna singola gestione: il rischio di default sarebbe infatti diluito, la priorità nella riscossione delle tariffe dovrebbe costituire una garanzia solida, che potrebbe essere ulteriormente rafforzata con una garanzia sovrana (che, benché screditata, qualcosa comunque ancora vale). Immaginiamo infine di affidare al fondo una sorta di due diligence delle gestioni, subordinando la concessione dei prestiti a una verifica dell’equilibrio finanziario, prevedendo, se del caso, anche forme di commissariamento per le gestioni che non rispettano determinati parametri di solidità finanziaria. Non sto inventando nulla: sto semplicemente copiando qualcosa che, con modalità diverse, esiste in molti paesi, dalla Francia agli Usa, dal Portogallo ai Paesi Bassi o alla Slovenia. La tassa di scopo, volendo, c’è già: è il canone demaniale che lo stato (o meglio, le regioni) riscuotono per i prelievi di acqua, ora è a un livello irrisorio, ma potrebbe essere ridisegnata senza particolari difficoltà. Un simile meccanismo potrebbe a mio avviso completare efficacemente quello “endogeno”, generato, in ciascun ambito, dalla tariffa e dai volumi di indebitamento che questa può sostenere. In ogni caso, è chiaro che saranno sempre i cittadini a pagare: ma questo non dovrebbe poi spiacere a quanti ritengono che, nel criterio di equità che deve necessariamente sorreggere la ripartizione delle “spese di condominio”, il criterio dell’accessibilità del bene essenziale non possa essere disgiunto da un’adeguata responsabilizzazione di chi usa il bene comune e da meccanismi che premino chi si dà da fare per un uso più sostenibile. L’acqua – e più di tutto, le fogne e i depuratori – attendono da troppo tempo che gli italiani si rimbocchino le maniche e mettano mano ai portafogli per provvedere a quanto non siamo stati capaci di fare finora. È una spesa certamente ingente, ma comunque non tale da preoccuparci in chiave macroeconomica. Dal referendum è venuta una voce molto forte contro l’ipotesi che l’inevitabile business legato al settore idrico si-

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gnificasse lucro di pochi profittatori ai danni dei cittadini. Questa preoccupazione va presa sul serio, e affrontata con un sistema di regolazione adeguato, ancora in larga parte da costruire. Ma dire di no al business dei “furbetti del quartierino” e della casta non può significare l’ennesimo rinvio degli investimenti di cui questo settore ha bisogno. Business, del resto, non è una parolaccia. Vuol dire posti di lavoro, economia che si mette in moto per fare cose che – in questo caso – a parole tutti reputano indispensabili, e gli ambientalisti più degli altri.

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i 10 indicatori più significativi

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l’energia

produzione di energia da fonti rinnovabili in italia

Il contributo energetico da fonti rinnovabili negli ultimi anni è in continua crescita e, secondo le stime, nel 2009 si attesta a 20,6 Mtep (come combustibile fossile sostituito). Le fonti classificate come rinnovabili in Italia – incluso il grande idroelettrico e i rifiuti che rappresentano rinnovabili improprie o parziali – pesano nel 2010 per circa l’11% del consumo interno lordo, un valore superiore a quello medio degli ultimi anni di circa due punti percentuale. Nel 2010 le principali fonti rinnovabili sono rappresentate dalla produzione idroelettrica (54,5%) e dall’utilizzo di legna e biomassa (23,9%), seguiti dall’eolico (9,7%) e dalla geotermia (6,8%). Le quote prodotte dal solare e dai rifiuti sono entrambe intorno al 2,5%. Nel 2010 continua la crescita, già evidenziata negli ultimi anni, della producibilità idroelettrica che, con un incremento di circa il 4% rispetto al 2009, raggiunge i 11.246 ktep, il valore più alto nella serie storica considerata. In termini percentuali però, rispetto alla quantità totale di energia prodotta da fonti rinnovabili, l’idroelettrico continua a perdere quote rispetto, per esempio, al 2004 quando rappresentava ben il 62% circa del totale da rinnovabili. Solare ed eolico hanno conosciuto una notevole crescita negli ultimi anni. L’eolico è passato tra il 2000 e il 2010 da 124 a 2.008 ktep (con un incremento del 40% solo nell’ultimo anno); nello stesso intervallo di tempo, il solare (termico e fotovoltaico) è cresciuto anche di più, da 14 a 519 ktep, con un incremento di ben il 127% dal 2009.

produzione energetica da fonti rinnovabili in italia 1996-2009 (ktep) 12,0%

25.000

11,0% 10,0% 9,0% 8,0%

15.000

7,0% 6,0% 5,0%

10.000

4,0% 3,0%

5.000

% consumo energetico

20.000

2,0% 1,0% 0,0%

Idroelettrico

Eolico

Rifiuti

Geotermia

Solare

2010

2009

2008

2007

2006

2005

2004

2003

2002

2001

2000

1999

1998

1997

1996

0

Biomasse, biocombustibili, biogas

% sul consumo energetico interno

Fonte: elaborazione Ambiente Italia su dati Terna 2011, Ispra Rapporto Rifiuti, Enea, Gse.

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ambiente italia 2012

la mobilità

mobilità delle persone in italia

La mobilità delle persone in Italia è tra le più alte d’Europa: superiore del 25% (in termini di passeggeri-km pro capite) rispetto alla media europea. Tuttavia nel 2010, complice forse la crisi economica, si registra una flessione complessiva della mobilità delle persone con valori che si attestano a 918.560 milioni di passeggeri per km (-2,1% rispetto al 2009). Nell’ultimo anno calano in particolare i viaggi in auto e moto (-2,8%) e in treno (-1,7%), mentre crescono soprattutto quelli in aereo (+7,3%). Ampliando lo sguardo all’ultimo decennio, l’aereo registra un incremento di ben il 52% (complice la costante evoluzione di questo settore), con il trasporto pubblico su gomma che cresce del 12%, analogamente a quanto avviene per la mobilità su nave. Viceversa auto-moto e ferrovie presentano flessioni, rispettivamente del 2 e del 6%. Complessivamente in Italia (come in Europa) la mobilità delle persone è principalmente basata sul mezzo automobilistico privato che copre circa l’80,6% degli spostamenti totali. Le altre modalità presentano valori decisamente più bassi: 12,1% per l’autobus, 5,2% per il treno, l’1,7% per l’aereo. In particolare l’Italia è il grande paese europeo con la più elevata quantità pro capite di mobilità motorizzata, quasi 12.000 passeggeri km/ab annui. L’Italia inoltre presenta ormai da anni un tasso di motorizzazione (numero di auto ogni 1.000 abitanti) decisamente superiore alla media europea: nell’ultimo anno disponibile (il 2009) il valore dell’Italia è stato pari a 605 auto ogni 1.000 abitanti contro le 473 dell’Unione europea, le 510 della Germania, le 500 della Francia, le 470 del Regno Unito. Va infine segnalato che nel 2010 Istat ha revisionato i dati sulla mobilità delle persone (a partire da quelli del 2000).

evoluzione delle modalità di trasporto passeggeri in italia (milioni di pax-km) 1.000.000 900.000 800.000 700.000 600.000 500.000 400.000 300.000 200.000 100.000 2010

2006

2002

1998

Aereo e nave

1994

1990

1986

Pullman, tram e metro

1982

1978

1974

1970

1966

Ferrovie

1962

1958

0

Privato (auto e moto)

Nota: nel Conto nazionale dei trasporti 2009-2010 è cambiata la modalità di calcolo dei dati per i mezzi privati a partire da quelli del 2000. Fonte: Ministrero dei Trasporti, Conto nazionale trasporti (varie annualità).

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indicatori in italia e nel mondo

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le attivitĂ produttive

produzione agricola comparazioni internazionali (migliaia di tonnellate di prodotto) Asia

Carne

2000

2009

1990

2000

2009

872.585

996.272

1.192.726

51.472

92.024

116.444

Africa Nord America

Cereali

1990 93.411

111.646

160.805

8.756

11.303

14.080

369.205

393.898

468.869

31.435

41.644

46.093

Centro e Sud America

99.083

137.993

165.055

20.165

32.475

44.148

Europa

493.853

384.854

465.743

63.883

51.714

54.907

Italia

17.410

20.660

17.391

3.950

4.089

4.132

23.948

35.337

36.101

4.505

5.388

5.884

1.952.088

2.060.002

2.489.301

180.219

234.551

281.559

Oceania Mondo

Fonte: Faostat database, 2010.

le attivitĂ produttive

agricoltura biologica nel mondo superficie biologica o in conversione (ettari) % bio 2005 2007 2008 2009 su sau* Africa

Variazione 2009/2005

486.674

875.284

880.898

1.026.632

0,1%

Asia

2.678.716

2.890.243

3.293.945

3.581.918

0,3%

34%

America del Nord

2.219.643

2.292.418

2.577.575

2.652.624

0,7%

20%

Oceania

11.811.868

12.110.758

12.140.107

12.152.108

2,8%

3%

America latina

5.072.158

6.414.709

8.065.890

8.558.910

1,4%

69%

6.669.468

7.627.825

8.176.075

9.259.934

1,9%

39%

1.067.102

1.150.253

1.002.414

1.100.000

8,9%

3%

28.938.527

32.211.237

35.134.490

37.232.127

0,9%

29%

Europa di cui Italia Mondo

111%

* Superficie agricola utilizzata. Fonte: FiBL & Ifoam 2011.

Ambiente Italia 2012.indb 245

30/01/12 16.08


246

ambiente italia 2012

le attivitĂ produttive

agricoltura biologica in italia

agricoltura biologica per ordinamento produttivo ettari in conversione e convertiti Cereali Ortaggi

1994

1999

2006

2009

2010

22.341

165.019

239.092

251.906

194.974

2.811

13.936

39.696

34.222

27.920

Frutta

6.786

47.667

65.221

81.933

73.108

Vite

3.759

23.897

37.693

43.614

52.273

Ulivo

5.447

69.142

107.233

139.675

140.748

Foragg., prati, pasc.

23.517

333.828

558.693

451.622

486.336

Altro

6.013

70.428

100.534

103.711

138.382

70.674

723.917

1.148.162

1.106.683

1.113.742

Totale

allevamenti biologici: numero di capi Pollame

2001

2007

2006

2009

2010

648.693

1.339.415

1.339.415

2.399.885

2.518.830

Bovini

330.701

244.156

244.156

185.513

207.015

Ovini

301.601

859.980

859.980

658.709

676.510

Api (in numero di arnie)

48.228

112.812

112.812

103.216

113.932

Caprini

26.290

93.876

93.876

74.500

71.363

Suini

25.435

26.898

26.898

25.961

29.411

Altre

3.959

11.122

11.122

11.545

11.652

1.384.907

2.688.259

2.688.259

3.459.329

3.628.713

Totale

Fonte: elaborazione su dati Sinab, Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica.

Ambiente Italia 2012.indb 246

30/01/12 16.08


Ambiente Italia 2012.indb 2

30/01/12 16.08



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