il contrario del sole

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libri di speleologia (e qualcuno li compra, tanto per non dimenticare la vile pecunia che affluisce sonante nelle tasche degli editori) vuol dire che aumentano le possibilità che ci siano nuovi speleologi. Negli anni Cinquanta Chuck Berry ha inventato il rock’n’roll e gli speleologi italiani erano circa un migliaio. Nei ruggenti (si fa per dire) anni Settanta i Jefferson Airplane erano al culmine della loro parabola e gli speleologi del Belpaese erano più o meno sempre mille. Nell’epoca buia e negativa della disco music il numero non è cresciuto e oggi ho l’impressione che le giovani generazioni di curiosi non subiscano massicciamente il fascino della speleologia. E che andando per grotte si possano incontrare spesso sedicenti speleologi cinquantenni imbottiti di viagra e gerovital, che non demordono solo perché molto cocciuti e sostenuti da una scienza medica che, lei sì, ha fatto passi da gigante. Lo ammetterò, solo perché so che lo spazio a mia disposizione sta giustamente finendo, e tutti voi state scalpitando per terminare la prefazione e poter finalmente aprire con un simpatico scrocchio il prestigioso volume che avete tra le mani. Non è che la speleologia sembri molto attrattiva al grande circo dei media. Ricordate pubblicità ambientate in una grotta? Ridenti signorine che reclamizzano un lucidalabbra in una caverna? Simpatici vecchietti che mangiano con gusto sofficini in una galleria allagata? Io no. La speleologia non è un affare mediatico, i giornalisti in grotta non ci vanno, i fotografi tanto meno (escludendo ovviamente da queste due categorie gli speleologi che sono anche giornalisti o fotografi, credo cinque in tutta Italia). I telegiornali le grotte le guardano con sospetto

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