papa giovanni luglio-agosto2011

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(Anno XXVIII) Nuova serie - Anno 10 n. 4- Luglio /Agosto 2011 - Amici di Papa Giovanni - CONTIENE I.R.

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Su internet vince Roncalli Il più amato dalla rete

Mater et Magistra: suscitò consensi non soltanto nei cattolici

L’ anniversario: 48 anni fa moriva il Papa bergamasco

LUGLIO - AGOSTO 2011

“Papa Giovanni sorridente mi disse che ero guarita”


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Sotto la protezione di Papa Giovanni

I nonni Piero e Mirella, gli zii Patty e Claudio, affidano Gabriele con papà Paolo e mamma Dany, alla protezione dell'indimenticabile Papa Giovanni

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I nonni Albina e Agostino affidano Giorgia alla protezione di papa Giovanni XXIII

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Nonna Maria mette sotto la protezione del Papa Buono la nipotina Nicole Marie perchè possa sentire il mondo

Inviate la fotografia dei vostri bambini ad:

via Madonna della Neve, 24 - 24121 Bergamo


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La Mater et Magistra suscitò consensi non solo nei cattolici

Capovilla: il mio Concilio... che è soltanto agli inizi

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Su internet vince Roncalli «Il più amato dalla rete»

«Papa Giovanni sorridente mi disse che ero guarita»

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Ghiaie, la leggenda nei libri e nelle riviste cattoliche

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Mater et Magistra: suscitò consensi non soltanto nei cattolici

L’anniversario: 48 anni fa moriva Papa Giovanni XXIII

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Morta la signora Ninì Il legame con Papa Giovanni

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L’ anniversario: 48 anni fa moriva il Papa bergamasco

“Papa Giovanni sorridente mi disse che ero guarita”

LUGLIO - AGOSTO 2011

n. 4 bimestrale luglio/agosto

Direttore responsabile Monsignor Giovanni Carzaniga Direttore editoriale Claudio Gualdi

«Io, autista di Papa Wojtyla anche se solo per un giorno»

Sara: «Quel pomeriggio ero in braccio al Pontefice»

Giovanni Paolo II celebrato ogni anno il 22 di ottobre

Editrice Bergamasca ISTITUTO EDITORIALE JOANNES

Redazione: mons. Gianni Carzaniga direttore della “Fondazione Beato Papa Giovanni XXIII” con sede nel Seminario Vescovile Giovanni XXIII di Bergamo, mons. Marino Bertocchi parroco di Sotto il Monte, don Oliviero Giuliani Claudio Gualdi segretario dell’associazione “Amici di Papa Giovanni”, Pietro Vermigli, Giulia Cortinovis, Marta Gritti, Vincenzo Andraous padre Antonino Tagliabue Luna Gualdi Coordinamento redazionale: Francesco Lamberini Fotografie: Archivio del Seminario Vescovile di Bergamo, Archivio “Amici di Papa Giovanni”, Archivio “Fondazione Beato Papa Giovanni XXIII”

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ENCICLICHE

La Mater et Magistra suscitò consensi non solo nei cattolici La dignità della persona e i diritti dei lavoratori al centro del documento di Roncalli

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ll’alba degli anni Sessanta – tempo di decolonizzazione e di vigilia del Concilio – avvicinandosi il settantesimo della Rerum Novarum, l’enciclica sociale di Leone XIII, non erano in pochi, dentro la Chiesa, a desiderare un testo del Magistero che ne rilanciasse i principi – pur già ripresi da Pio XI nella Quadragesimo Anno del 1931 – ma su orizzonti più vasti. Questa speranza prese anche la forma di una lettera, inviata a Giovanni XXIII da un sacerdote belga – Joseph Cardijn (fondatore nel 1925 della Jeunesse Ouvrière Chrétienne) – che il 13 aprile 1960 chiese al Papa di non lasciar cadere l’opportunità dell’anniversario per una nuova enciclica sociale.

Così inizia l’articolo di Marco Roncalli, pronipote del Pontefice bergamasco, pubblicato a metà dello scorso mese di maggio sul quotidiano «L’Eco di Bergamo», servizio che così prosegue. La richiesta di Cardijn venne fatta propria dal sostituto della Segreteria di Stato monsignor Angelo dell’Acqua che il 2 luglio 1960 stilò questa nota per il segretario di Stato cardinale Domenico Tardini: «Mons. Cardijn che in una visita a Roma aveva fatto cenno al santo Padre di un “aggiornamento” della Rerum Novarum (in occasione del LXX della medesima Enciclica), suggerisce che per la preparazione di un tale documento si consultino anche: mons. Pavan; P. Chambre dell’Action Populaire di Parigi; P. Lebret, o. p., direttore di Economie et Humanisme; S. E. mons. Helder Camara, Ausiliare di Rio de Janeiro; S. E. mons. Larrain, Vescovo di Talca (Cile); mons. Higgins, della National Catholic Welfare Conference di Washington; un professore dell’Istituto Sociale di Poona (India); un professore della Germania; qualche laico specialista del mondo del lavoro. Mettendo poi insieme le varie note e discutendole in una “riunione” privata e “confidenziale” si potrebbe ricavare un progetto da sottoporre al Santo Padre». Su questo documento – custodito nell’Archivio di monsignor Loris Capovilla ed oggi presso la Fondazione Giovanni XXIII di Bergamo – il cardinal Tardini successivamente appose alcune note, fra le quali si legge «L’enciclica è in preparazione (notizia da non divulgare). Non ci sarà bisogno di convocare i signori su elencati. Ad ogni modo ci sarà tempo per decidere». In sintesi: Papa Roncalli e i suoi più vicini collaboratori ben condividevano l’auspicato «aggiornamento». Avevano le idee chiare. E da questa consapevolezza, irrobustita da lunghe e attente letture dei testi dei predecessori (spesso

Papa Giovanni XXIII e sullo sfondo piazza San Pietro gremita di fedeli

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encicliche

fatte nei giardini vaticani insieme a monsignor Capovilla come attesta il diario del pontificato), nacque la Mater et Magistra: enciclica che, benché allora considerata dal Papa «il più bel fiore» e «un gran gesto del mio umile pontificato» (così sempre sul diario), resta forse la meno conosciuta, presto oscurata dalla celeberrima Pacem in terris. A mezzo secolo dalla promulgazione – pur datata 15 maggio 1961, con un ritardo per i soliti problemi di traduzione, fu pubblicata solo nel mese di luglio – tornare a quest’enciclica non è tempo sprecato. «Dignità della creatura seme della civiltà» titolava proprio pochi giorni dopo il quotidiano della Santa Sede un articolo su questo anniversario cogliendo il cuore del documento. Non a caso stanno per arrivare nuovi studi come quello del teologo Ettore Malnati (A cinquant’anni dall’enciclica «Mater et Magistra» con i tipi della Libreria Editrice Vaticana) che attinge a carte d’archivio come quelle appena citate ripercorrendo la genesi del testo del quale l’autore sottolinea influssi che arrivano alla Caritas in veritate di Benedetto XVI. Non a caso si sono appena conclusi importanti convegni sul tema, come quello in primavera a Milano promosso dal Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa (ad evidenziare anche noti passi della Centesimus annus sull’impresa come «comunità di uomini», anticipati già nella Mater et Magistra), ed altri come il Colloquio internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace a Roma che si è tenuto dal 16 al 18 maggio (volto a cogliere le modalità di discernimento messe in atto dall’enciclica giovannea con riferimento agli squilibri sociali e alle disparità odierne, lette sul piano dottrinario). Matrem et Magistram voluit Cristus Dominus constituere ecclesiam Suam, così Giovanni XXIII si espresse negli appunti vergati preparando la sua enciclica. E proprio al mondo chiese, poi confortato, di valutare questo intervento della Chiesa come «Madre e Maestra». Pur tradizionale, il documento chiuse la bocca a quanti accusavano d’immobilità e conservatorismo la Chiesa cattolica che in queste pagine cammina al passo con il suo tempo. Citato il magistero dei predecessori – Leone XIII, Pio XI e Pio XII – il

Guazzo su cartoncino del 2003 del pittore bergamasco Angelo Capelli che ritrae Papa Roncalli mentre legge

documento si allarga a considerare le recenti innovazioni in campo scientifico, economico, politico, sociale. Da questa premessa subito individua nuovi temi della questione sociale. Impegnativi e concreti. Approfonditi da monsignor Pietro Pavan e dal gruppo dell’Università Gregoriana (i cui lavori via via confluivano sulla scrivania di Tardini «insonne revisore del testo e in quotidiana conversazione col Papa», così ricorda il fedele ex segretario monsignor Capovilla). Temi che tennero ben presenti molti consigli del citato Joseph Cardijn, come pure dei cardinali Franz Koenig, Paul Richaud e altri. Nell’enciclica si legge che «il problema forse maggiore dell’epoca moderna è quello dei rapporti tra le comunità politiche economicamente sviluppate e in via di sviluppo». E non si trascurano corollari quali le relazioni tra sviluppo e sottosviluppo, le formule dell’economia e i diritti umani, lo scandalo della corsa alle armi, lo scompenso tra le conquiste del progresso e il loro 5


encicliche

rapporto i Nostri figli siano vigilanti... ma nello stesso tempo siano... disposti a collaborare lealmente nell’attuazione di oggetti che siano di loro natura buoni o almeno riducibili al bene». Temi che si troveranno nel ‘63 con la Pacem in terris. In quel momento in ogni caso il Papa restò colpito dal consenso entusiasta riservato al documento non solo dai cattolici: «Soprattutto benedico il Signore per il rilievo dato allo spirito ed alle forme di rispetto e di moderazione con cui il documento tratta uomini, idee e situazioni», annotava sul suo diario il 20 luglio 1961. Postillando «L’umile Pontefice che deve essere maestro di verità, lo è insieme di discrezione, di garbo e di carità ad omnes. Non è egli il Vicarius Xsti?». Certo oggi i problemi sono cambiati e hanno diversa natura le nuove diseguaglianze: fra common goods e common good, governance o government, dottrina e azione sociale, con i tanti soggetti associativi, con gli inediti approcci alle risorse materiali, naturali, tecnologiche. Eppure restano i punti fermi della dignità della persona e dei diritti dei lavoratori, anche in termini di valorizzazione e remunerazione dei lavori. Certo sembrano di difficile applicazione certi richiami ad una più giusta imposizione tributaria o ad una formazione come compito soprattutto del laicato cattolico. Reggono bene sulla distanza, invece, le indicazioni sulla valorizzazione delle piccole e medie aziende, oggi centrali non solo nel nostro Paese. Ma la vera lezione sempre valida di Mater et Magistra va ricercata altrove. «Tornare a rileggerla – ha detto di recente il vescovo Mario Toso, segretario del dicastero vaticano della Giustizia e della Pace – e trovarsi di fronte agli squilibri sociali da essa descritti è servito a comprendere immediatamente, nonostante i cinquant’anni trascorsi dalla sua promulgazione, quanto l’enciclica di Papa Giovanni L’enciclica Mater et Magistra fu pubblicata nel mese di luglio del 1961 XXIII sia ancora attuale».

uso distruttivo. Rari i problemi affacciatisi sotto il pontificato giovanneo qui trascurati. E, soprattutto, punto focale dell’enciclica è un termine: «socializzazione» che è «a un tempo riflesso e causa di un crescente intervento dei poteri pubblici anche in settori tra i più delicati, come quelli concernenti le cure sanitarie, l’istruzione e l’educazione delle nuove generazioni, l’orientamento professionale, i metodi di recupero e di riadattamento di soggetti comunque menomati». Verso il traguardo di una ricomposizione dei rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia e nell’amore, tra analisi e direttive pastorali c’è poi spazio per la fiducia in Dio e in quella reciproca, nella sussidiarietà «cardine dell’ordine sociale». E se l’affermazione della proprietà privata ha persino tratti di «neocapitalismo», Mater et Magistra di fatto giunge poi ad ammettere la proprietà pubblica dei mezzi di produzione «quando specialmente portano seco un tale peso economico per cui non si possono lasciare in mano ai privati cittadini senza pericolo del bene comune». Un cenno viene dedicato anche ai problemi dei «cattolici impegnati nello svolgimento di attività economico-sociali che vengono a trovarsi con altri che non hanno la stessa visione di vita». «In tale

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PUBBLICAZIONI

Capovilla: il mio Concilio… che è soltanto agli inizi I ricordi dell’ex segretario di Papa Giovanni in un libro-intervista di Ernesto Preziosi la profonda conoscenza delle vicende della Chiesa; la consapevolezza della corresponsabilità collegiale nel governo della Chiesa da parte di tutto l’episcopato». Il libro ha il pregio di offrire al lettore il clima di una stagione fra le più feconde del Novecento e di far rivivere le attese di una generazione. «Siamo appena all’aurora», recita il sottotitolo di queste memorie, a sottolineare che il Concilio, nella sua

Che cosa è stato il Vaticano II? Quando è nata l’idea del Concilio? E a che punto siamo con la sua attuazione? A queste domande risponde il libro di Ernesto Preziosi «Ricordi dal Concilio. Siamo appena all’aurora» (Editrice La Scuola pp.169, € 9,50), che si snoda in un’intervista all’arcivescovo Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII. Dopo una breve introduzione centrata sul volume, proponiamo ai nostri lettori una serie di domande e risposte riportate nella stessa pubblicazione. Trattandosi di un libro che vede Capovilla parlare in prima persona su eventi di grande portata, proseguiremo questa presentazione anche in alcuni dei prossimi numeri di «Amici di Papa Giovanni», selezionando nella lunga intervista quelle dichiarazioni che possono risultare più interessanti.

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ndetta nel 1959 dal Papa bergamasco, celebrata dal 1962 al 1965, l’assemblea conciliare vide la partecipazione di 2.540 vescovi di tutti i continenti, 500 teologi e i rappresentanti delle Chiese ortodosse e protestanti. A distanza di mezzo secolo, i ricordi del segretario sono ancora nitidi. «Il Concilio è stato provvidenziale – spiega monsignor Capovilla – perché ha risposto a precise esigenze, ha obbligato a pregare, a studiare, a progettare. Ha favorito incontri, ha ricondotto alle fonti biblico-patristiche, ha dilatato gli spazi delle opere della misericordia». Ma dall’arcivescovo arriva anche un monito: «Gli studiosi non dovrebbero attribuire ad esso ciò che non gli appartiene né caricare i suoi protagonisti di responsabilità che non hanno, nemmeno dovrebbero alterare i suoi contenuti e piegarli a favorire progetti che niente hanno a che fare con l’evangelizzazione. Si sono aperte strade su cui occorre proseguire spediti:

La copertina del libro in cui è ritratto mons. Loris Francesco Capovilla

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pubblicazioni

all’interno della comunità cristiana e del dialogo con le religioni monoteistiche, voglio ricordare la sorte dei profeti, la cui parola ad ogni buon conto non si è spenta con la loro morte. Se ci collochiamo accanto a uomini e donne, che hanno ampiamente beneficato l’umanità con il dono di sé, scompariranno pessimismi e presunzioni. Nulla, infatti, va perduto». Tra le pieghe dell’intervista emergono aspetti privati e familiari, del rapporto fra monsignor Capovilla e Giovanni XXIII, ma anche tratti poco noti della vita del «Papa visto da vicino». Quando il Patriarca Roncalli chiese don Loris come suo segretario si sentì rispondere: «E’ un buon prete, bravo, non gode però di buona salute e avrà vita breve» (monsigor Capovilla oggi ha 95 anni, ndr). A quella risposta il Patriarca replicò: «Se non ha salute verrà con me e morirà con me». «E’ sempre stato un uomo saggio – dice monsignor Capovilla del Papa del Concilio – e la saggezza traspariva dal suo volto illuminandolo, proprio come dice la Scrittura». I ricordi del segretario – in altre pagine – tornano al 28 ottobre 1958, quando don Loris chiese al Papa la sera dell’elezione: «Desiderate vedere qualcuno? C’è qualcosa da fare che vi preme?». «No – rispose Papa Giovanni – ora lasciami dire in pace vespro, compieta e rosario». In quelle ore mentre dalla piazza continuava a salire un clamore di festa, Papa Roncalli non immaginò di gettar fuori uno sguardo attraverso le finestre socchiuse. «Staccato il telefono, nessun apparecchio radio a portata di mano, nessuna

Febbraio 1959: Papa Giovanni nei giardini vaticani con il segretario Capovilla

attuazione, è ancora agli inizi. Tuttavia l’intervistato esorta a «camminare col Vaticano II». E precisa: «A chi si lamenta di risultati esigui o di involuzioni reali o apparenti, a chi è disilluso per l’emergere, o il riemergere, di nuove o vecchie barbarie, la cui esplosione ha ferito tutti i Paesi nel disprezzo della carta dei diritti umani e degli organismi internazionali; a chi denuncia la paralisi dell’ecumenismo

Consegnato a Benedetto XVI lo zaino della Gmg Un esemplare dello zainetto che riceveranno i partecipanti alla prossima Giornata mondiale della gioventù è stato donato a Benedetto XVI dal cardinale Antonio Maria Rouco Varela, arcivescovo di Madrid, durante l’udienza che si è svolta a metà dello scorso febbraio nella Biblioteca privata del Palazzo apostolico. Il porporato spagnolo ha aggiornato il Pontefice sullo stato dei preparativi per l’appuntamento

di agosto con i giovani di tutto il mondo, presentandogli il tradizionale zainetto della Gmg, che nella versione «Madrid 2011» ha i colori rosso e giallo della nazione ospitante e contiene: un rosario, il libro del pellegrino, una guida, una copia di Youcat – il catechismo per i giovani di cui Benedetto XVI ha scritto la prefazione – e un abbonamento per il trasporto pubblico. Completano il kit un cappellino e un ventaglio.

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Gli iscritti, inoltre, avranno accesso agli eventi culturali connessi con le giornate madrilene e una copertura assicurativa per tutta la loro permanenza nella capitale spagnola.


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persona alla quale rivolgersi – aggiunge l’arcivescovo – era come tagliato fuori dal mondo, proprio mentre dappertutto non si parlava che di lui. Cenò alle 21, tutto solo, in una saletta poco illuminata e disadorna. Invitato a unirmi a lui, preferii restarmene spettatore, adducendo il pretesto d’aver già preso un boccone. Sulla fine comparve l’anziano maestro di camera Pio Manzia, dal passo incerto, con lo spumante in mano: “Padre Santo, è tradizione che il maestro di casa ottenga il permesso di sturare una bottiglia, offrirne a Sua Santità e ricevere in dono il restante”. Il Papa sorrise e bevve un sorso. Manzia si ritirò con il prezioso cimelio». D. Che conoscenza aveva di monsignor Roncalli? R. Posso dire di averlo conosciuto prima ancora che lui lo sapesse, attraverso una sua foto pubblicata su «L’Annuario dell’Italia cattolica» nel 1935, che lo ritraeva nunzio apostolico a contatto con gli ortodossi e i musulmani. Mi incuriosiva, infatti, conoscere quanto accadeva nella Chiesa, sapere il nome dei vescovi e dei cardinali, seguire gli atti del Papa, leggere i discorsi principali. Fu così che incontrai la sua fotografia su quella pubblicazione che riportava anche i suoi trasferimenti da Sofia a Istanbul, dov’era divenuto da un anno delegato apostolico in Turchia e Grecia. Da allora ho avuta sempre impressa nella mente la sua immagine e si può dire che l’ho seguito sempre: durante la guerra, negli anni seguenti... Le rare volte in cui «L’Osservatore Romano», specialmente negli anni di guerra, scriveva del delegato apostolico a Istanbul riportando anche l’aiuto che monsignor Roncalli dava alle persone colpite, pur non conoscendolo di persona, mi esultava l’animo. D. A quando risale il suo primo incontro? R. Vi fu un incontro precedente all’arrivo di Roncalli a Venezia, incontro fortuito all’isola di San Lazzaro degli Armeni, una perla non solo per le sue raccolte d’arte, ma anche perché vi si trova una scuola per gli armeni all’estero e il monastero dei monaci mechitaristi. La sede centrale di questa congregazione è appunto a Venezia. Roncalli, che lì svolgeva l’incarico di nunzio, venne a San Lazzaro per celebrare i duecento anni della morte di Pietro Manug Mechitar, fondatore dei monaci armeni di sant’Antonio. Allora dirigevo, da giornalista principiante, «La Voce di

Il Beato Papa Giovanni XXIII scolpito sul portale della chiesa parrocchiale di Sotto il Monte

San Marco» ed ero corrispondente dell’«Avvenire d’Italia», per cui seguivo le vicende religiose della città di Venezia; andai dunque con un po’ di trepidazione e osai domandare a uno dei padri mechitaristi se potevo essere ricevuto dal nunzio: «Sì, sì, Sua Eccellenza riceve tutti», mi rispose. L’incontro, infatti, fu familiare. Mi chiese: «Allora, di cosa parliamo?». Con molta semplicità, esordii: «Eccellenza, Lei è proprio lo stesso che ho visto quindici anni fa». «Non l’ho mai conosciuta prima», rispose. Allora gli raccontai della foto. Risuonò nel mio animo una sorta di voce soave e celeste che diceva: «Questo è l’uomo». Parole simili a quelle che poi sarebbero state dette di lui: «Venne un uomo il cui nome era Giovanni...». D. Come andarono le cose quando lei si ritrovò segretario del patriarca di Venezia? R. In quella prima occasione mi congedai e scrissi un articolo che non ricordo più e che non posseggo, ma che amerei ritrovare. Pensai di inviarlo alla segreteria della Nunziatura a Parigi. Un po’ di tempo dopo 9


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mi vidi arrivare un biglietto, scritto personalmente dal nunzio, con parole molto amabili e, addirittura, un «caro don Loris ho letto, mi compiaccio...». Non mi era mai capitata una cosa del genere nella mia vita di umile provinciale! Il 12 gennaio 1953 Roncalli fu promosso patriarca di Venezia nel concistoro. Andai, dunque, a Parigi col vicario capitolare della sede vacante, monsignor Erminio Macacek, e fummo accolti dal suo giovane segretario, che era stato affidato a monsignor Roncalli dallo stesso Montini. Una sera – rimasi a Parigi cinque giorni – il segretario mi mandò a chiamare, dicendomi: «Senta don Loris, il suo nuovo patriarca ha detto che sarebbe contento se lei accettasse di entrare a far parte della famiglia patriarcale». Senza lasciarmi prendere dal panico, ricordo che gli risposi: «Sa, noi preti siamo abituati ad accettare ciò che il vescovo

chiede. Devo, però, avvertirlo che non ho nessuna pratica di questo servizio e sono inesperto specialmente sul piano amministrativo. Inoltre non ho relazioni di nessun genere, insegno religione a scuola, spiego alla domenica il Vangelo a Radio Venezia, ma non so se sarà sufficiente». Il cardinale, ricevuta questa risposta, chiese allora al vicario capitolare: «Senta un po’, caro monsignore, questo don Loris che ho conosciuto qualche anno fa, potrebbe darmi una mano ed entrare nella famiglia patriarcale?». «Eminenza, – rispose il vicario – è un buon prete, bravo, non gode però di buona salute e avrà vita breve». E subito il cardinale commentò con quel suo fare che conquistava immediatamente: «Beh, se non ha salute verrà con me e morirà con me». E invece sono qui a parlarne oggi, e ho superato gli anni di vita dello stesso Papa Giovanni!

Capovilla: un percorso, il suo, lungo quasi un secolo Nelle prime pagine della pubblicazione mons. Capovilla si racconta attraverso le date più significative che hanno caratterizzato il suo percorso. Questo il testo in cui parla in prima persona. Sono nato a Pontelongo, in provincia di Padova, il 14 ottobre 1915, sono stato ordinato sacerdote il 23 maggio 1940 dal cardinale Adeodato Giovanni Piazza e subito introdotto nel servizio pastorale e curiale. Prima di parlare di questo periodo, mi piace ricordare che, per il mio battesimo amministrato il 7 novembre dal parroco di Pontelongo don Angelo Finco, mia mamma Irma Letizia Callegaro volle attendere l’arrivo di mio padre Rodolfo, richiamato in servizio militare, che in quei giorni si trovava a Bazzano di Bologna per addestramento, prima di partire per il fronte. Mio papà era funzionario della Società Belga Zuccherifici e morì, trentasettenne, il 26 maggio 1922. Lascio immaginare come

quell’evento segnò la vita della mia povera mamma, costretta a un lungo periodo di precarietà e peregrinazioni con me e mia sorella Lia, fino a quando, nel 1929 giungemmo definitivamente a Mestre. Entrai nel Seminario patriarcale di Venezia e, subito dopo l’ordinazione sacerdotale, insieme ai diversi incarichi in parrocchia e in curia, venni nominato cerimoniere capitolare a San Marco, cappellano del carcere minorile e dell’Ospedale degli infettivi. Durante la Seconda guerra mondiale prestai servizio nell’aviazione come cappellano militare (1942-1943); anche questo è un periodo della mia vita che non posso dimenticare, avendo avuto modo di compiere il mio ministero sacerdotale cercando di sottrarre quanti più avieri possibile all’internamento in Germania. Alla fine della guerra venni designato predicatore domenicale a Radio Venezia e nel 1949 il patriarca mi affidò l’incarico di direttore del setti-

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manale diocesano «La Voce di San Marco», divenendo anche redattore della pagina veneziana dell’«Avvenire d’Italia». Per oltre un decennio (1953-1963) sono stato segretario particolare del patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli e potei seguirlo a Roma quando venne eletto Papa il 28 ottobre 1958. Alla sua morte (3 giugno 1963), venni nominato dal suo successore Paolo VI perito conciliare e confermato nell’ufficio di prelato d’anticamera, che espletai sino al 26 giugno 1967, ossia alla data della mia promozione ad arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto. Successivamente venni trasferito alla Delegazione Pontificia del Santuario di Loreto, dove sono rimasto per diciassette anni (1972-1989), con il titolo di Mesembria (Bulgaria), la stessa località di cui era stato insignito l’arcivescovo Roncalli nel 1943. Mi sono, quindi, ritirato a Sotto il Monte (Bergamo), nel paese natale e nella casa che fu di Papa Giovanni XXIII.


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liare, che faticava a permeare la mentalità del tempo. D. Negli anni chietini quale fu la principale difficoltà incontrata? R. La linea da me attuata si collegava direttamente al Concilio e ad una visione pastorale. D’altra parte, come ebbi modo di scrivere per la Lettera collettiva dei vescovi della regione in occasione della Pasqua 1968, «i documenti conciliari ci sono stati trasmessi e affidati davvero nelle nostre mani non perché li abbiamo a riporre nelle nostre biblioteche, e neppure solo perché diventino oggetto di astratta speculazione teorica; l’insegnamento del Concilio deve ormai diventare patrimonio comune di tutte le coscienze, indicazione precisa del cammino da percorrere, stimolo insoffocabile per ridestare i dormienti e scuotere la nostra pigrizia, fonte inesausta di ispirazione e di luce per una testimonianza universale e profetica». D. Un invito, quindi, a navigare in mare aperto, ad abbandonare ogni rendita di posizione? R. Era necessario aprire nuovi percorsi, entrare in fecondo dialogo con il mondo contemporaneo. Scrivevo in quella stessa lettera: «E’ ormai ripreso il colloquio della Chiesa con le moderne generazioni sui temi universali della originaria dignità della persona umana, degli inalienabili diritti e conseguenti doveri di ciascun uomo nei confronti delle società particolari e della comunità umana mondiale. Non si potrà più asserire che la Chiesa sia estranea ai problemi umani fondamentali del lavoro e dello sfruttamento, della pace e della giustizia sociale, delle responsabilità dei popoli ricchi nei confronti di quelli poveri, problemi che anzi la conducono alla elaborazione sempre più aggiornata di una teologia pastorale». Certo, questo atteggiamento suscitò le riserve di chi temeva i cambiamenti e un’attenzione più sollecita alle problematiche sociali. D. Quando si concluse quell’esperienza? R. Nell’agosto 1971 ebbi la comunicazione della nomina a delegato pontificio di Loreto. Lasciavo, quindi, l’arcidiocesi di Chieti-Vasto per divenire «il vescovo dei pellegrini», come scrissi nella mia ultima Lettera pastorale.

D. Con lei come si rapportava? R. Con familiarità e con semplicità. Il suo modo di parlare mi sembrava tutt’altro che diplomatico. A me, giovane pretino sconosciuto, raccontava della sua vita a Parigi, dei suoi incontri con le personalità della politica e della cultura. D. Per il suo segretario chi è stato Papa Giovanni? R. E’ stato un uomo saggio. La saggezza traspariva dal suo volto e glielo illuminava, proprio come dice la Scrittura: «La sapienza dell’uomo rende sereno il suo volto» (Sir 8,1). E’ stato un discepolo di Cristo, non dubbioso e sonnolento, ma deciso, senza tentennamenti. Nei suoi occhi si scorgeva innocenza, bontà e misericordia. D. Dopo la morte di Giovanni XXIII per lei non si realizzò il detto: «Chiusi gli occhi del Papa, il segretario fa le valigie»; rimase cinque anni accanto a Paolo VI per essere poi inviato, nel giugno del 1967, alla diocesi di Chieti-Vasto. Una proposta che le creò qualche difficoltà? R. In un primo momento rimasi perplesso. Scrissi in quell’occasione una lettera al Papa, che Paolo VI definì «una di quelle che commuovono il cuore e che fanno pensare» e accettai in obbedienza. Il Papa, a sua volta, mi rispose con una lettera, scritta da lui personalmente. D. Come si svolse il suo episcopato nella diocesi abruzzese? R. Con la nomina episcopale scelsi per lo stemma il motto Oboedientia et pax, che Roncalli aveva assunto nel 1925. Mi trovai ad essere nel 1967, a cinquantadue anni, il più giovane tra i presuli alla guida di una diocesi abruzzese. La scelta di Paolo VI e il fatto che ero stato collaboratore del Pontefice che aveva aperto il Concilio, mi spingeva ad un’azione sollecita per la sua attuazione. Venni tra l’altro a coprire l’ufficio della Conferenza episcopale Abruzzese, pur essendo il più giovane e l’ultimo arrivato fra tutti. D. In continuità con gli insegnamenti di Giovanni XXIII, che linea pastorale seguì nella Chiesa che le era stata affidata? R. Fin dalla mia prima Lettera pastorale, scritta ancora da Roma, elaborai un progetto ispirato alla lezione di Papa Roncalli. Di Giovanni XXIII proposi non solo la memoria, ma soprattutto lo spirito conci-

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RICORRENZE

L’anniversario: 48 anni fa moriva Papa Giovanni XXIII Indimenticabile quel suo intervento passato alla storia come «Il discorso della Luna»

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el momento che avrebbe dato un nuovo Nel tardo pomeriggio di 48 anni fa – il 3 giugno 1963 alle ore 19,49 – moriva Papa Giovanni XXIII, il Papa della bontà, del Concilio, della carezza ai bambini. Il ricordo di quel giorno è ancora impresso nella memoria di moltissimi, degli anziani e anche dei giovani che hanno conosciuto il Pontefice attraverso le immagini televisive. Il suo paese natale Sotto il Monte è meta continua di pellegrini che ripercorrono le orme giovannee, sostando alla casa natale, alla chiesa del battesimo di Brusicco, alla residenza di Camaitino – oggi museo – alla chiesa parrocchiale e al santuario della Madonna delle Caneve. Giovanni XXIII, nato Angelo Giuseppe Roncalli (Sotto il Monte, 25 novembre 1881-Città del Vaticano, 3 giugno 1963), è stato il 261º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica (il 260º successore di Pietro). Fu eletto Papa il 28 ottobre 1958 e in meno di cinque anni di pontificato riuscì ad avviare il rinnovato impulso evangelizzatore del-

la Chiesa Universale. E’ stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000. Uno dei più celebri discorsi di Papa Giovanni, forse una delle allocuzioni in assoluto più celebri della storia della Chiesa, è quello che ormai si conosce come «il discorso della Luna». L’11 ottobre 1962, in occasione della serata di apertura del Concilio, piazza San Pietro era gremita di fedeli. A gran voce chiamato ad affacciarsi, cosa che non si sarebbe mai immaginata possibile richiedere al Papa precedente, Roncalli davvero si sporse, a condividere con la piazza la soddisfazione per il raggiungimento del primo traguardo: si era arrivati ad aprirlo, il Concilio. Il discorso a braccio fu poetico, dolce, semplice, e pur tuttavia conteneva elementi del tutto innovativi. Nel momento che avrebbe dato un nuovo corso alla religione cattolica, con un richiamo straordinario salutò la Luna: «Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero. Qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la Luna si è affrettata stasera, osservatela in alto, a guardare a questo spettacolo». Giovanni XXIII salutò i fedeli della sua diocesi (il Papa è anche il vescovo di Roma), e si produsse in un atto di umiltà forse senza precedenti, asserendo tra le altre cose: «La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato padre per volontà di Nostro Signore, ma tutti insieme paternità e fraternità e grazia di Dio». E, sulla linea dell’umiltà, impartì un ordine da Pontefice con il parlare di un curato: «Tornando a casa, troverete i bambini. Date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete qualche lacrima da asciugare, dite una parola buona: il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza».

Commozione tra la folla che apprende dai giornali la morte di Papa Giovanni

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INDAGINI

Su internet vince Roncalli «Il più amato dalla rete» Analizzati da una società i dati che riguardano i cinque Pontefici del secolo scorso

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li ultimi 5 Papi del Novecento – Paolo VI, Pio XII, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II – sono stati analizzati da Reputation Manager, la società di ingegneria reputazionale specializzata nel Web 2.0. Dalla ricerca emerge che a quasi mezzo secolo dalla morte, Papa Roncalli, il Papa Buono è il più amato dalla rete. «Grazie alle nostre tecniche di analisi semantica e algoritmi di monitoraggio online, ci siamo anzitutto proposti di individuare per ciascun Papa la correlazione ai concetti di “santità” e “beatitudine”, analizzando al contempo l’identità digitale e la reputazione degli ultimi cinque Papi del ‘900 e rilevandola sul web in termini di numero di conversazioni, argomenti salienti, canali più attivi e presenza sui Social Network», ha detto Andrea Barchiesi, Managing Director di Reputation Manager. L’analisi semantica ha preso in esame anche la distribuzione dei commenti in rete, con una netta preponderanza quantitativa per Giovanni Paolo II, che fa ovviamente la parte del leone con il 35% del totale; secondo viene però Giovanni XXIII, che a oltre 40 anni dalla sua morte detiene ben il 21%; segue Paolo VI, con il 18%; poi viene Giovanni Paolo I (molto vicino, se si pensa al suo brevissimo pontificato, di circa un mese) con il 14%; da ultimo Pio XII, con il 12%. E’ stata effettuata anche un’analisi dei domini più attivi sul tema «Papi»: come spesso accade, data l’influenza e la viralità del video, YouTube stravince, con oltre 1000 video, 11.000 commenti e quasi 9 milioni di visualizzazioni. I video più visualizzati e commentati riguardano Giovanni Paolo II, riflesso di un pontificato lungo e sicuramente il più «mediatizzato» rispetto agli altri analizzati. Si tratta di video connotati da una forte emotività: da «bellissimi fuori onda» a tributi spontanei di affetto fino alla comme-

morazione dei funerali. L’analisi di Facebook ha rivelato una grande attività di gruppi e di fan page per questi cinque Papi: quasi un centinaio (94) di gruppi e una settantina (68) di Fan Page – rispettivamente con 220.000 e 975.000 membri – anche se probabilmente con tanti doppi, per ovvie ragioni. Dall’analisi risulta che il Papa più social su Facebook sia sicuramente Wojtyla, ma è interessante notare che, sebbene staccato di molto, Pio XII arriva prima, per numero di follower, di Paolo VI e soprattutto di Giovanni XXIII, che invece era il più «gettonato» in tema di beatitudine e santità. Cosa concludere, dunque, a margine di quest’analisi? Forse si potrebbe azzardare che, se il Papa più noto e dibattuto anche in Rete è sicuramente Giovanni Paolo II, gli estimatori 2.0 premiano Papa Roncalli, il cosiddetto «Papa buono».

Papa Giovanni XXIII ripreso mentre conversa con un bambino

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TESTIMONIANZE

«Papa Giovanni sorridente mi disse che ero guarita» A un anno dalla morte di suor Capitani, un documento svela cosa accadde nel 1966

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Non temere, tutto è finito, tu stai bene, non hai più nulla»: così, «con un sorrisetto sulle labbra», in un viso «molto bello e sorridente», Papa Giovanni annunciò il 25 maggio 1966 a suor Caterina Capitani che era guarita dalle conseguenze di una grave emorragia, avvenuta dopo che, oltre un anno prima, era stata sottoposta ad una resezione gastrica quasi totale. Il servizio che proponiamo è apparso su «L’Eco di Bergamo» lo scorso 2 aprile. A poco più di un anno dalla morte della suora – avvenuta a Napoli nella notte tra il 31 marzo ed il primo aprile 2010 – il racconto autografo della religiosa del miracolo ricevuto per intercessione del

«Papa buono» conserva per gli storici della Chiesa il valore di «documento eccezionale» e resta uno dei pilastri della causa ecclesiastica conclusasi con la beatificazione di Papa Giovanni XXIII, proclamata il 3 settembre del 2000 da Giovanni Paolo II, grazie al riconoscimento di quel miracolo. Quel documento è negli archivi della Curia Arcivescovile di Potenza, città di origine di suor Caterina: dichiarazione scritta della religiosa al vescovo dell’epoca, monsignor Augusto Bertazzoni, con la data del 15 settembre 1966, a circa quattro mesi dal miracolo. Suor Caterina, della congregazione delle Figlie della Carità, che ha svolto a lungo la sua missione in Sicilia, fu operata a Napoli il 30 ottobre 1965, ma il 14 maggio 1966 ebbe una perforazione della parte residua di stomaco e la formazione di una fistola, con copiosa emorragia: fu ricoverata di nuovo a Napoli. Un caso di «estrema gravità», come constatarono i medici, al punto che alla donna, non ancora suora, il 19 maggio fu concesso di «emettere i voti santi». Quando tutti credevano che la morte di suor Caterina fosse ormai imminente, ella cominciò una novena a Papa Giovanni e poggiò «una sua reliquia» sulla fistola. Era il 25 maggio 1966. «Pensavo che Papa Giovanni – scrive suor Caterina nel racconto del miracolo ricevuto – volesse porre termine alle mie sofferenze, portandomi in cielo. Invece mentre ero assopita ad un certo punto mi sentii poggiare una mano sullo stomaco in direzione della fistola ed una voce che mi chiamava: “Suor Caterina”. Spaventata nel sentire una voce di uomo mi voltai e vidi in piedi accanto al letto Papa Giovanni in abiti papali non bianchi ma che non so descrivere perché mi soffermai a fissare il viso che era molto bello e sorridente.

Suor Caterina Capitani, miracolata da Papa Giovanni

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testimonianze

non arrivava a 37, mentre un quarto d’ora prima aveva segnato 39,5. Con grande meraviglia di tutti chiesi da mangiare e fui accontentata. Mangiai molto perché sentivo molto appetito». Il racconto di suor Caterina così prosegue: «Il momento più trepidante fu quello di constatare che il buco della fistola era veramente chiuso e difatti con grande commozione di tutte le sorelle presenti fu constatato che il buco era chiuso. Volli alzarmi e camminavo benissimo senza barcollare. Così ripresi subito la vita normale. Dopo due giorni ritornai a Potenza in treno destando sorpresa e meraviglia in tutti ma specialmente da parte del dottor Russo, che subito disse: “Qui c’è del prodigio”. Dopo 15 giorni feci le radiografie dalle quali non risultò nulla. Il monconcino di stomaco rimasto era sano senza perforazione. Sono convinta che tutto debbo alla Grazia di Dio ottenuta dalla intercessione di Papa Giovanni». Il documento reca sulla sinistra la scritta «Potenza Ospedale San Carlo 15 settembre 1966» e sulla destra la firma autografa di Suor Caterina Capitani, con l’aggiunta «Figlia della Carità».

Mi disse: “Suor Caterina mi hai molto pregato ed anche molte suore e persone lo hanno fatto, pure le suore della tua casa, ma specialmente una; me l’avete proprio strappato dal cuore questo miracolo. Ma ora non temere, tutto è finito, tu stai bene, non hai più nulla. Suona il campanello, chiama le suore che stanno in Cappella per l’orazione e qualcuna dorme pure”, disse con un sorrisetto sulle labbra. “Fatti mettere il termometro, tanto per testimonianza ma tu non hai neppure 37. Poi mangia tutto come prima perché il tuo buco è chiuso. Vai dal professore e fai mettere per iscritto la testimonianza, poi fai le radiografie perché un giorno serviranno, ma non hai nulla. Avevi una grossa perforazione con un’invasione del peritoneo, ma io ti ho assistita dal primo giorno affinché non morissi e tutto ciò doveva avvenire». «Realmente io mi sentii subito un’altra – aggiunge la suora – ero guarita; fu allora che tutta emozionata mi feci coraggio, suonai il campanello per chiamare le suore. Mi sentivo agitata, ma dissi tutto alla superiora che dopo i primi momenti di confusione mi mise il termometro e vide che la temperatura

Una vita negli asili: addio alla decana delle religiose Per quarant’anni è stata maestra attenta, sensibile e instancabile nelle scuole materne di ben tredici paesi lombardi, coltivando una passione innata per la musica e il canto. Da anni aveva perso la vista, ma ciò non le impediva di trasmettere serenità alle consorelle e, soprattutto, di cantare. E’ morta il 2 febbraio a Gazzaniga (Bergamo) suor Anna Tisi. A giugno avrebbe compiuto 108 anni: era la decana delle religiose bergamasche. Nasce a Cologno al Serio il 9 giugno 1903 ed è battezzata col nome di Teresa. E’ la secondogenita di cinque figli nati dal primo matrimonio del papà, che gestiva una salumeria. Dopo la morte della mamma, il papà si risposa e nasce una figlia, tuttora vivente. Teresa

aiuta papà in negozio e la mamma nelle faccende domestiche. Poi la vocazione religiosa. Nel 1924 entra nella Congregazione delle suore di Carità, fondata dalle sante loveresi Capitanio e Gerosa e consegue il diploma di maestra d’asilo. Nel 1929 emette i primi voti e il 30 settembre 1937 la professione perpetua, assumendo il nome di Anna, in ricordo della mamma. Comincia subito il suo impegno nelle scuole materne come maestra: a Rovato, Brignano Gera d’Adda, Nerviano (Milano), Caravaggio (dove è maestra anche nell’orfanotrofio), Villanterio (Lodi), Bormio (Brescia), Gazzaniga, Terno d’Isola, Corti Sant’Antonio di Costa Volpino, Martinengo, Osio Sotto, Nembro e infine Trescore. «Tutti – sottolinea

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suor Eugenia Belotti, superiora della residenza per suore anziane a Gazzaniga – la ricordano come maestra d’asilo attenta, solerte, appassionata e soprattutto con un insegnamento inventivo. Infatti, aveva il dono innato di mettersi in sintonia con i bambini, ma anche di dialogare con i loro genitori. E’ stata un esempio vivente di Vangelo dei piccoli». Suor Anna viene ricordata anche per la sua passione alla musica e al canto. «Suonava benissimo il pianoforte – ricorda suor Belotti – ed era impareggiabile nel far imparare le canzoncine». Il manifestarsi dei primi disturbi agli occhi, che la portano a ritirarsi dall’insegnamento alla cecità, costringono suor Anna a ritirarsi dall’insegnamento.


PERSONAGGI

E’ morta la «signora Ninì» Il legame con Papa Giovanni Le sue nozze furono celebrate dall’allora Nunzio apostolico a Parigi mons. Roncalli

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vrebbe compiuto 83 anni lo scorso 25 febbraio la baronessa Maddalena Scotti Guffanti. E’ invece deceduta il 12 febbraio mattina agli Ospedali Riuniti di Bergamo, dove era ricoverata da due mesi in seguito a complicazioni di carattere cardiocircolatorio. La «signora Ninì», come preferiva essere amichevolmente chiamata, si è spenta serenamente, attorniata dai tre figli, Marita, Gianni e Fulvia e dai cinque amatissimi nipoti. La sua salma è stata composta nello storico palazzo di via Donizetti 1, in Città Alta a Bergamo, in quella stessa camera matrimoniale dove (come ricorda la lapide sulla facciata del palazzo) l’8 aprile 1848 spirò il compositore Gaetano Donizetti, allora ospite della famiglia Rota Basoni, antenata della baronessa Ninì Scotti. La chiamavano amabilmente «Ninì» anche a Sotto il Monte dove lei aveva amici, conoscenti, ma soprattutto radici di famiglia. Non a caso una via del paese è intitolata ai baroni Scotti e una targa all’esterno del museo di Camaitino che custodisce le memorie di Papa Giovanni ricorda il legame fra

gli Scotti e il Pontefice bergamasco. Il 21 aprile 1925 fu proprio il barone Gian Maria Scotti, proprietario della casa, a dare in affitto alcune camere di Camaitino al vescovo monsignor Roncalli, che ne fece la sua dimora estiva fino al 1958 quando fu eletto Papa. Il 3 novembre 1958 la nobile famiglia Scotti-Guffanti donò al Papa le camere di Camaitino, mentre il governo italiano concorse all’acquisto di tutto il complesso divenuto oggi museo custodito dalle suore delle Poverelle. Qui risiede l’arcivescovo Loris Capovilla, segretario particolare del Pontefice, che ha celebrato una Messa di suffragio per Maddalena Scotti Guffanti. Quando nel 1958 furono firmati gli atti per il passaggio di Camaitino, il Papa disse: «Va da sé, che, vita natural durante, il mio segretario occupi, quando crede, quelle mie camere». Monsignor Capovilla obiettò timidamente: «Santo Padre, sono già da adesso occupate, meta continua di numerosi visitatori». E il Papa rispose: «Ma dopo la mia morte, chi volete che vada a Sotto il Monte? Però, però non si sa mai». Oggi quel luogo, in origine dei baroni Scotti, è sempre meta di visitatori. Il matrimonio fra la baronessa e Anselmo Guffanti Pesenti, ingegnere, originario di Albino (Bergamo), scomparso nel gennaio 1999, fu celebrato il 20 maggio del 1950 nel Duomo di Città Alta, proprio dall’allora Nunzio apostolico a Parigi monsignor Angelo Roncalli, col quale i rapporti furono sempre costanti e stretti. Tra il Papa e gli Scotti-Guffanti c’è stato un cospicuo carteggio, un fitto rapporto epistolare, confluito in una recente pubblicazione della famiglia. Spesso Papa Roncalli parlava della baronessa e dell’ingegner Guffanti definendo quest’ultimo come «un gentiluomo di altri tempi, un signore nel

Le nozze celebrate da mons. Roncalli il 20 maggio 1950 nel Duomo di Bergamo

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eventi

tratto e nella parola». Giovanni XXIII fra l’altro gli conferì l’onorificenza di commendatore dell’ordine di San Silvestro. Successivamente fu insignito anche dell’onorificenza dell’ordine di San Gregorio Magno. Non appena diffusa, la notizia della morte della baronessa Scotti ha fatto il giro dell’Isola (una porzione di territorio bergamasco così chiamata e che comprende anche il Comune di Sotto il Monte). La famiglia ha qui una storica azienda agricola a Mapello (Bergamo). Gli avi della baronessa erano proprietari di numerose terre della zona. Agli inizi del Novecento – raccontava la «signora Ninì» – un viale alberato era stato donato alla comunità di Mapello nel 1919 dal padre Gian Maria per ottemperare a un voto fatto durante la guerra alla Madonna di Prada, cui era devoto. Negli anni successivi era stato donato il terreno di fianco al viale per costruirvi la cappella dedicata a San Giovanni Bosco e nel 1930 era stata la volta della chiesa di San Girolamo. Nella targa posta su un lato della facciata sono raccontati i legami della famiglia Scotti con questi luoghi. Nel 1881, l’avvocato Giovanni

E’ il 2 aprile del 1959, Giovanni XXIII è nel suo studio privato con le baronesse Maria Perego Scotti e Maddalena Scotti Guffanti, il marito Anselmo Guffanti e i piccoli Gianni e Marita. A sinistra mons. Capovilla

Battista, figlio di Gianmaria, benemerito patriota risorgimentale, sposò Maddalena Mangili. Nel 1950 Maddalena Scotti sposò Anselmo Guffanti. Ancora oggi i tre figli sono radicati dalla storia e dagli affetti a questi luoghi, e dedicano impegno per conservare nell’azienda le tradizioni di famiglia.

Presentata la raccolta di omelie di monsignor Amadei E’ stato presentato a metà marzo, all’oratorio di San Paolo a Bergamo, il libro di monsignor Roberto Amadei «Nel “Sì” l’icona del Buon Pastore», edito da Marcianum press. Una data non casuale, perché proprio il 16 marzo del 1957 monsignor Amadei fu ordinato sacerdote e a questa sua figura di prete e vescovo è dedicata la raccolta delle sue omelie, pronunciate durante le Messe crismali del Giovedì Santo e in occasione delle ordinazioni sacerdotali. Nel teatro dell’oratorio sono intervenuti l’attuale vescovo Francesco Beschi, monsignor Cesare Bonicelli e tanti amici del compianto vescovo Roberto. «Ha donato molto alla Chiesa di Bergamo –

ha detto monsignor Alessandro Locatelli, parroco di San Paolo e, per molti anni, segretario di monsignor Amadei – e parte di questo “molto” lo ritroviamo in queste sue omelie, che non sono solo un insegnamento, ma ancor più una testimonianza di fede». «Voglio sottolineare – ha detto il vescovo Beschi – l’attività di studioso di monsignor Amadei, la sua conoscenza storica della Chiesa di Bergamo, la sua competenza accostata ad un’intensità di fede». Il vescovo ha definito particolarmente interessante il testo per aree tematiche. «Pur essendo omelie legate alla vita sacerdotale – ha sottolineato – si evidenziano alcuni aspetti della vita cristiana di tutti, proprio partendo da parole che

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riguardano il sacerdozio». Monsignor Beschi ha auspicato che presto si possa giungere anche alla stesura di una biografia. Ha regalato alcuni ricordi dei suoi incontri con monsignor Amadei, in occasione degli incontri della Conferenza episcopale lombarda e del suo ingresso a Bergamo. «Il legame con il mio predecessore non è solo di carattere storico, ma è la rappresentazione della continuità apostolica della Chiesa».


INVENZIONI

Le biciclette a impatto zero per le guardie vaticane Si chiamano «Pm0», sono elettriche e le ha realizzate il bergamasco Marco Mazza

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el Dna ingegno, passione e perseveranza. Così inizia l’articolo a firma di Diana Noris che è stato pubblicato di recente sul quotidiano «L’Eco di Bergamo» e che riproponiamo ai nostri lettori. Marco Mazza ha la stoffa dell’inventore. Bergamasco, figlio di un perito meccanico che per anni ha lavorato in un’azienda orobica dando un grosso contributo all’innovazione, è riuscito a trasformare la sua passione in un’attività lavorativa di successo. Ultimo della lista un accordo siglato con lo Stato del Vaticano, per il quale sta portando avanti una progettazione sulla mobilità, oltre a dotare la gendarmeria del suo ultimo prodotto, fresco fresco di brevetto: la bicicletta elettrica «Pm0». La prima uscita ufficiale su suolo vaticano è stata fatta il 1° maggio, in occasione della cerimonia di beatificazione di Papa Wojtyla, a cui hanno partecipato milioni di persone provenienti da tutto il mondo. L’incontro con i funzionari del Santo Padre è stato casuale. «Mi trovavo a Milano Marittima – racconta Mazza – mentre stavo promuovendo alcune biciclette elettriche. Un funzionario del Vaticano, in vacanza con la famiglia, le ha notate e così è nata la collaborazione con il Governatorato dello Stato Vaticano. Ho iniziato fornendo loro delle biciclette per la gendarmeria, in seguito sono stato incaricato per uno studio sul sistema di mobilità. Sicuramen-

te mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto, ma hanno voluto premiare la mia idea». Le microcar ecologiche In programma altre iniziative: «Alcuni membri del Governatorato – prosegue – mi hanno anticipato che abbandoneranno le loro limousine per utilizzare microcar ecologiche. C’è una grande apertura nel mondo vaticano, a cui sta a cuore la salute del pianeta. Questo è sicuramente un modo per dare segnali di forte cambiamento». In occasione della cerimonia del 1° maggio sono stati quattro i mezzi cavalcati dalle guardie svizzere, utilizzati per pattugliare il territorio durante l’intera giornata. Ma torniamo all’ultima creazione dell’inventore orobico, la «Pm0». Come suggerisce la parola stessa questo mezzo è a impatto ambientale zero e per alcune peculiarità si distingue dalle normali biciclette elettriche. In quanto a comfort sia nella seduta sia nella pedalata, Marco Mazza ha studiato un mezzo (disponibile anche in versione non elettrica) dalle caratteristiche uniche, per il quale ha vinto il premio «Selezione K-Idea», un concorso organizzato dal parco scientifico tecnologico Kilometro Rosso. «Pm0 non è una bicicletta normale – spiega l’inventore bergamasco – ma si basa su uno studio medico scientifico approvato. L’idea è partita da alcuni disegni di mio papà che ho ritrovato nel suo

In un libro le sei religiose morte per l’Ebola Sei donne di Dio: in un libro il racconto dell’umanità, la personalità di sei donne, con le loro storie e lettere. Sei suore delle Poverelle, morte per l’Ebola nel 1995, mentre erano nella missione di Kikwit, in Congo. E’ un racconto intenso

«L’ultimo dono», edito da Queriniana. L’autore, il giornalista Paolo Aresi, dice di scomparire dal libro come scrittore, «per evidenziare la profonda umanità di queste donne, allontanandole dall’immagine di martiri, di icone dalla religiosità

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disincarnata». Per Aresi, al quale le Poverelle hanno chiesto di scrivere il libro nel 15° anniversario della morte delle sorelle, è stata l’occasione per accedere al loro archivio, leggere gli epistolari inediti che le suore scrivevano dall’Africa e riportarli nel libro.


invenzioni

studio. Non si tratta solo di design, ma di una bicicletta disegnata sui movimenti del corpo umano, funzionale ed ergonomica. La postura della seduta è naturale e mantiene la schiena dritta. La gamba resta tesa e garantisce il 100% di resa della pedalata senza tenere i muscoli in tensione con dei benefici per la circolazione. Inoltre, nell’ultima parte della spinta, circa il 30%, che nella bici normale viene utilizzata come ritorno, con Pm0, diventa un’ulteriore spinta di potenza». E «Sghemba» Se «Pm0» rappresenta ancora una novità tra le creazioni di Marco Mazza, la «Sghemba», una delle sue invenzioni più famose, si è ormai diffusa a livello mondiale. «La maggior parte delle persone – spiega – scrivono inclinando il foglio. Da qui ho pensato di adattare il formato dell’agenda, che da quadrata è diventata sghemba, obliqua. Con la sua forma trapezoidale ed ergonomica – ha ricevuto anche certificazioni da Università italiane e straniere – Sghemba rende più facile la scrittura, che, nonostante l’era digitale, resta fondamentale per la comunicazione. Sghemba è presente in varie forme e versioni in tutto il mondo, anche in Russia, dove grazie

Marco Mazza è l’inventore di «Pm0», bici ergonomia ed ecologica

anche all’agenda «obliqua», conoscono la nostra città».

A Brescia l’addio a padre Alessandro, aveva cent’anni Si è spento serenamente a Brescia, all’età di 100 anni, monsignor Alessandro Tomasoni, padre oblato dal 1936, la cui famiglia era originaria dell’alta Valle Seriana, in Bergamasca. Monsignor Tomasoni era il decano del clero bresciano ed era figura amata e stimata, legata al santuario di Santa Maria delle Grazie, dove operava dal 1945 e dove è stato per anni, alternativamente o in contemporanea, rettore del santuario e superiore dei padri oblati. Settimogenito di Lorenzo Tomasoni e Antonia Baronchelli, originari dell’alta Valle Seriana, monsignor

Alessandro era nato a Farfengo, in provincia di Brescia, e nel luglio 2010 aveva tagliato il traguardo del secolo di vita. Fu ordinato sacerdote il 26 maggio del 1934. Pur essendo nato e vissuto in terra bresciana, padre Alessandro ha sempre mantenuto un forte legame affettivo con l’alta Valle Seriana, dove ancor oggi, nel piccolo borgo di Nasolino, a Oltressenda Alta, vivono cugini e pronipoti. I genitori, dediti all’allevamento del bestiame, scendevano in pianura durante l’inverno. Dopo l’ordinazione fu colpito dal tifo, da cui si riprese miracolosamente e, guarito, entrò

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a far parte dei padri oblati, a disposizione in qualità di predicatore e confessore straordinario. Fu vicino anche a monsignor Giovan Battista Montini, poi salito al soglio pontificio come Papa Paolo VI.


EVENTI

Ghiaie, la leggenda nei libri e nelle riviste cattoliche In molte pubblicazioni è clamorosamente venuto a mancare il filtro della verifica

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ul numero precedente di questa rivista ho documentato come anche Radiomaria abbia concorso alla diffusione di certi particolari sicuramente falsi e al mantenimento di alcuni silenzi mirati raggruppando il tutto sotto la denominazione «Leggenda di Ghiaie». Mancando una storia critica delle asserite apparizioni, anche Radiomaria ha offerto un mix di storia e di leggenda, forse più della seconda che della prima. Ma la leggenda, ovviamente, ha trovato spazio non solo nella emittente di Erba. Tutti i libri anche recenti che parlano delle asserite apparizioni del 1944 pagano in mi-

sura diversa il dazio alla leggenda corrente. Di questa leggenda corrente, chi abbia letto i libri di Arnaboldi, Tentori, Bortolan, Amour, Tognetti, le cui copertine sono riprodotte in questo numero o consulti il sito internet potrà agevolmente verificare come e quanto di questi punti sia passato nelle citate pubblicazioni. I dieci punti sono: 1 Il silenzio sul giudizio negativa immediato dei parroci della zona 2 La reticenza sul numero delle negazioni spontanee di Adelaide 3 Il silenzio assoluto sul perchè del cambiamento di don Cortesi 4 La lamentela che al processo è mancato alla bambina il difensore 5 La lamentela che al processo non sono stati esaminati i miracoli 6 Il processo andrebbe rifatto perché è stato una farsa 7 Il vescovo Bernareggi dubbioso avrebbe voluto consultare il Papa 8 Papa Giovanni credeva alle apparizioni 9 Il silenzio assoluto sul diario autografo di Adelaide del 1950 10 Il blak-out sulla ritrattazione finale di mons. Battaglia. Anche alcune riviste cattoliche, facendo eco alla vulgata corrente, hanno disinvoltamente riproposto come sicuri alcuni particolari falsi appartenenti al ricco repertorio della leggenda. Anche in loro è mancato il filtro della verifica; sono in grado di documentare l’affermazione con riferimento a quattro: MADRE DI DIO, MARIA AUSILIATRICE, JESUS, SENAPA. Tutti gli interventi di queste riviste sono occasionati dalla recensione al volume di Giuseppe Arnaboldi Riva: Adelaide speranza e perdono edito nel 2002, che costituisce forse la più vistosa espressione della leggenda nera di Ghiaie. Dal modo come le riviste si espri-

Il testo della lettera di Vittorio Messori inviata a don Marino Bertocchi

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mono è facile constatare fino a che punto hanno pagato il dazio alla leggenda e l’hanno diffusa, prendendo come oro colato il contenuto di questo volume. MADRE DI DIO Scrive: «E’ la storia non ancora conosciuta, ma di un interesse eccezionale, delle grandi apparizioni della Madonna e della Sacra Famiglia avvenute a Ghiaie di Bonate dal 13 al 31 maggio 1944 e del “martirio” sofferto da parte di uomini della Chiesa, dalla piccola veggente Adelaide Roncalli. La terza parte del volume si intitola: L’inquisizione e inquisizione del corpo e dell’anima dovette subire la bambina trattata da squilibrata o addirittura da indemoniata. Narra questa storia Giuseppe Arnaboldi Riva per le Edizioni Villadiseriane e ne scrive la prefazione il noto giornalista Angelo Montonati». In un numero successivo della rivista rispondendo ad un lettore che voleva saperne di più sulle apparizioni di cui aveva sentito parlare a Radiomaria il direttore risponde: «Il quesito è facilmente risolvibile con la lettura dell’ottimo libro Adelaide speranza e perdono da noi recensito nello scorso numero. Anche se non escludiamo di tornarci sopra quando se ne presenterà l’opportunità». Che a me risulti, dopo otto anni non si è più parlato, anzi la rivista ha taciuto anche quando è stata dallo scrivente sollecitata ad intervenire, come spiegherò più avanti. Precedentemente la rivista, nel numero di novembre 1984, aveva riassunto uno scritto del gesuita P. Mario Mason direttore di Lampade viventi e pubblicato nel febbraio del ‘78 con la versione classica della leggenda. L’aveva introdotto in questi termini: « … Il fatto fece scalpore quando venne pubblicato che anche Giovanni XXIII credeva nelle apparizioni della Madonna alle Ghiaie di Bonate e credeva che la bambina fu costretta a rinnegarle sotto minaccia dell’inferno». Così si esprimeva mons. Giuseppe Battaglia vescovo di Faenza: «Non ci risulta che in questi sei anni ci siano stati dei fatti nuovi di rilievo». In realtà due anni prima c’era stata la pubblica ritrattazione proprio di mons. Battaglia (Vita diocesana 1982, p. 385), ma non desta meraviglia che non sia stata risaputa a Roma, se anche a Bonate e dintorni si è praticato il blak –out più rigoroso su questo dietrofront.

JESUS Ottobre 2002, p. 96, a firma a. com. presenta il libro così: «Il libro documenta l’inconsueto accanimento del giudice istruttore ecclesiastico nei confronti della piccola veggente. Adelaide fu sottoposta a vere e proprie torture psicologiche e persino fisiche, come ricorda nella misurata e lucida introduzione Angelo Montonati. Un fatto, questo, che trova analoghi riscontri solo negli anni lontani dell’Inquisizione. Secondo diversi studiosi del caso mons. Cortesi, in assoluta buona fede, ha estorto la ritrattazione. In pratica la bambina è stata costretta ad ammettere la propria malafede perché minacciata di non vedere più i genitori e ancor peggio di andare all’inferno se avesse sostenuto di avere visto e parlato con la Madonna. Lo stesso Papa Giovanni ha manifestato il desiderio di una maggiore trasparenza sull’intera vicenda, non è però intervenuto per far riaprire il caso per timore di equivoci o strumentalizzazioni attorno al suo cognome, identico a quello di Adelaide … Nel caso di Ghiaie però, come documenta il libro di Arnaboldi Riva, il processo di verifica dei fatti mostra una serie di oggettive incongruenze quasi si fosse voluto avvallare una tesi precostituita: Adelaide 21


eventi

Luigi Cortesi, oltre alle connotazioni deteriori che fin da piccola hanno disonorato lei e la sua famiglia: la si disse squilibrata, addirittura indemoniata, concepita in stato di ubriachezza, cresciuta in un ambiente degradato… A distanza di anni ancora non si vuole ascoltare la sua verità. Ritengo che il farlo sia unicamente una questione di giustizia riparatrice. Perché se quanto raccontato in queste pagine è vero, siamo di fronte ad un episodio che non fa certo onore alla Chiesa. Si prende una bambina di sette anni, la si isola dal resto del mondo, la si castiga, la si fa oggetto di autentiche torture psicologiche e anche fisiche (persino ceffoni e pugni da parte di due religiose!) per farle negare quella che lei è invece convinta di aver visto, la si umilia in tutti i modi, arrivando a svestirla d’autorità dell’abito religioso, nonostante si trovasse perfettamente a suo agio fra le suore Sacramentine. Si è intentato a lei un processo che canonicamente non ha alcun valore, quanto meno data l’età dell’imputata e nel quale non è stato concesso alla difesa di dire la sua, al punto che un componente del Tribunale il lodigiano mons, Angelo Bramini esperto di Diritto Canonico si è dimesso in segno di protesta dopo aver denunciato molte illegalità del processo farsa. Ce ne sarebbe abbastanza almeno per chiedere perdono alla protagonista minore di questa vicenda, ma su questo attendiamo un sereno pronunciamento dell’autorità nell’augurabile ipotesi che venga riaperto il caso, come del resto ha fatto il Santo Padre per altre ingiustizie commesse o avvallate in passato dalla chiesa, magari in buona fede… Noi continuiamo a pensare che non soltanto sia possibile, ma anche doveroso un chiarimento definitivo e che il caso meriti una risposta diversa da quella data in passato, utilizzando metodi più obbiettivi di ricerca della verità, ben diversi da quelli che vennero usati nei confronti della piccola Roncalli, sempre se quanto raccontato dall’autore risponde a verità». Riconosco a Montonati la correttezza di avere per due volte scritto «se quanto raccontato dall’autore corrisponde a verità». Come a dire se il volume è criticamente sicuro: il che equivale a far intendere che da qualche dubbio anche il presentatore è sfiorato, dubbi però che non ha mai avanzato nelle tavole rotonde alle quali ha partecipato con Arnaboldi a Radiomaria. Da parte mia osservo che proprio Arnaboldi ha messo in circolazione la lettera falsa di Adelaide a Papa

era una bugiarda che andava smascherata e punita. Il risultato è che oggi nonostante i ripetuti inviti della Chiesa Bergamasca a non frequentare il luogo delle presunte apparizioni mariane, i pellegrini continuavano ad andare a Ghiaie per pregare». Tale presentazione è stata copiata alla lettera e senza virgolette l’anno dopo dalla rivista. MARIA AUSILIATRICE Maggio 2003, p. 38-40 in una recensione a firma di don Angelo Morra. Il citato Angelo Montonati, collaboratore di JESUS e moderatore alle tavole rotonde di Radiomaria dedicate a Ghiaie, ha firmato a suo tempo la prefazione del libro di Arnaboldi. Tale prefazione è stata ripresa integralmente dalla rivista. SENAPA L’ha presentata con il titolo: E’ cattolico chiederle scusa. Alcuni passaggi del pesante dazio anche qui pagato alla leggenda: «Ad Adelaide Roncalli è rimasta attaccata l’infamante etichetta di bugiarda affibbiatale da don 22


eventi

Giovanni presentandola come: «lettera provvidenzialmente e finalmente divulgata a tutti, affinché tutti possano ascoltare direttamente dalla stessa Adelaide la storia del suo doloroso martirio e l’autentica confessione della verità». Radiomaria, Lucia Amour e anche altri hanno tenuta per buona la notizia. L’enfasi della presentazione di quella che si è rivelata una bufala non può che far sorridere. Non è il caso di offrire la prova della mia critica: per quello che ho potuto ho cercato di fornirla negli articoli pubblicati su questa rivista e nel libro che ho edito lo scorso anno. Mi limito a rinviare ai documenti dell’epoca da me portati virgolettati e in corsivo sia nella rivista che nel libro: i documenti autentici dovrebbero essere validi erga omnes, credenti o meno alle apparizioni. Non sono, è ovvio, tutti i documenti dell’epoca sull’evento: ma sono un discreto numero e più che sufficienti a ribaltare la ricostruzione offerta dalla leggenda in questi 60 anni. Se quanti tengono per buona la leggenda dispongono di altri documenti autentici non hanno che da produrli. A mia volta giro la domanda di replica a certi zelanti giustizialisti: non è per caso un po’ precipitoso da parte dei fautori della leggenda, Montonati compreso, il suggerimento di sollecitare una richiesta di perdono ad Adelaide? Se dopo 65 anni la leggenda purtroppo tiene ancora banco, preso atto che di leggenda si tratta e non di storia, i suoi divulgatori non avrebbero proprio nulla di cui loro debbano chiedere perdono a qualcuno, ad esempio: al Santo Ufficio, al vescovo Bernareggi, a don Cortesi, al tribunale diocesano, alle suore orsoline? Alla direzione di Madre di Dio, Jesus, Maria ausilatrice e agli esperti di Ghiaie su Radiomaria fin dall’anno scorso ho inviato il mio libro, chiedendo una recensione che tenesse conto degli infortuni loro occorsi con gli articoli sopra ricordati, che ho inviato in copia. Chiedevo, possibilmente, un iniziale tentativo di rettifica su qualche punto, in conseguenza della presa d’atto dei documenti pubblicati. Risultato? A quasi un anno di distanza il silenzio regna sovrano. Nessuna recensione, nessuna minima rettifica, ma neanche nessuna contestazione basata su documenti.

Quanto alle reazioni alla pubblicazione sull’Eco di Bergamo della recensione di mons. Panfilo al mio libro lo scorso novembre si riducono quasi tutte ai ritornelli da sempre proposti dai devoti condizionati dalla leggenda. Aggiungo però che un autore del calibro di Vittorio Messori, al quale, sapendolo interessato a Ghiaie, ho inviato il libro, mi ha risposto, dimostrando di averlo letto a differenza di certe persone intervenute su L’Eco di Bergamo. Questo il testo (di cui proponiamo la foto). Che Messori condivida la terza conclusione del mio libro: «Anche se le apparizioni non possono essere confermate, 65 anni di ininterrotta devozione sono la premessa necessaria e sufficiente perché anche Ghiaie sia riconosciuta come autentico santuario» mi ha fatto molto piacere. Anch’io desidero un intervento del vescovo, che consenta di dare tutta la dignità alla liturgia, alla pietà popolare, al pellegrinaggio di Ghiaie. E aggiungo che spero di gustarlo in terra e non in paradiso. Don Marino Bertocchi

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Ringraziamo le persone che hanno sottoscritto abbonamenti al giornale e inviato offerte all’associazione Amici di Papa Giovanni AMELIA RAFFAELE ANDRONICO LUCIANA ANTONIAZZI ANNA MARIA ANTONIAZZO MARIA CAVAGNINO BAIONI GIANFRANCO BELLINZONA ANNA BELTRAMI EMMA LINA BERNUCCI MARISTELLA BERTOLI ELDA BERTONI ALBERTA BONI PAOLO BRACCHI GIULIANA BRUNI MARIA CAMERAN VEGLIA CAPURSO ANTONIETTA CAROLINI MARIA CASTIGLIA ANNA MARIA CASTIGLIA VALERIA CATULLO GIOVANNA CECCHINI NUNZIA CHIARELLO MARINO ROSA CHIESA SEVERO FR. GHIAIE CICCHELLI STEFANIA COCCO ANTONIO COLOMBO ANGELO COLOMBO CAROLINA CORTI CECILIA COSTANTINO MARGHERITA CRESTANI ELDA D’AMBROSIO ANNAMARIA D’ANDREA CONCETTA D’ANDREA CRISTINA

DALL’IGNA FEDERICO DAMIANO ANTONIO DaSSI PIERA DEGANELLO MARIA PASQUALINA DELLE VILLE ANNA MARIA DI MUCCIO GIUSEPPE DI SILVIO PIO DOSSI ALBERTO E MARIA ESPOSITO GIOVANNA FORTUNATO FRANCESCO LETTA FRANCESCHINELLI PIERA GALBUSERA MARIANGELA GASPARINI ROSA GAVAZZI CATERINA GENTINA BRUNA GHIRIMOLDI MARIUCCIA GIOVINAZZI ALBERTO GIUSTINA M. SABINA GUAZZONI MARISA IBBA ROSINA IMPICCINI M. GIOVANNA LANFRANCHI ANNA LENTINI ALBERTA LOVATI VILMA LUZZI DILIA MACCAFERRI PAOLINA MACINA LUISA E FELICE MAFFEIS GIULIANA MANCINI GIOVANNI PAOLO MANNELLI SAVERIO MARCHESE GADDA MARIA MARENCO GERMANO AGNESE

MARZILIANO MICHELE MASCHERONI TINA MASCI MARIA GRAZIA MINACAPILLI LUCIA MOLINAROLI GIUSEPPE MULAS ADA NARDI RAFFAELE NEGRETTI PAOLA NODARI ROBERTO NOVENTA VITTORIA PACE MARIA MADDALENA PAGANINI FRANCESCO PAPA AMALIA PARIANI ELDA PASSARELLA NICLA PASSARELLA ROSALBA PELLEGRINO PUGLIESI CRISTINA PELLIZZAROLI POMPEO PERANO NATALINA PERCASSI CECILIA PIDO LEONILDE PORTARO MAZZEO CATERINA PREVITALI ELISABETTA RADAELLI MARINA REGGIORI M. LAURA E ROSA RUSSO UBALDO SAVOLDI GENOVEFFA SCHENA BORTOLOTTI SCOTTON DOMENICA SGRO FRANCESCO SIGNORELLI RITA SOGGIA ROSALBA

“A tutti coloro che la conobbero e l’amarono, perchè rimanga vivo il suo ricordo

ANTONIA GRIFFINI ved. Conti N. 18 Gennaio 1925 M. 02 Ottobre 2010

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T ESTIMONIANZE

«Io, autista di Papa Wojtyla anche se solo per un giorno» Aprile ’81 a Bergamo: Rizzi trasformò una Campagnola in Papamobile e la guidò

S

ulla visita di Papa Wojtyla avvenuta a Bergamo trent’anni fa, proponiamo un interessante servizio a firma di Giambattista Gherardi apparso ai primi dello scorso maggio su «L’Eco di Bergamo». «Mi appoggiò l’impermeabile sulle spalle e mi disse che avrebbe provveduto lui a tenerlo fermo mentre guidavo, vista la pioggia battente». Angelo Rizzi, 87 anni, se lo ricorda bene quel 26 aprile 1981 e quei trasferimenti con un’auto scoperta fra Bergamo e Sotto il Monte, con un passeggero d’eccezione: Papa Giovanni Paolo II. «Pioveva a dirotto – aggiunge Angelo – e mostrò tanta premura. Con lui scambiai, durante i trasferimenti, anche qualche parola. Era dispiaciuto del fatto che avessi bagnato il mio vestito. Gli spiegai che era il mio abito di nozze e allora mi chiese quanti figli avessi e come si chiamava mia moglie». Angelo, da poco ospite della Casa di Riposo di Gandino (Bergamo), ha ancora negli occhi quella giornata memorabile. Nato nel 1923 a Marano, nel Veronese, era entrato giovanissimo nel Corpo Forestale di Stato. Dopo i corsi a Oderzo in provincia di Treviso, fu trasferito alla direzione generale a Roma, successivamente a Rieti e quindi a Bergamo, dove finì per restare tutta una vita. A Bergamo conobbe Floriana Martinelli, divenuta sua moglie, con la quale ha vissuto nella casa alla periferia del capoluogo insieme ai figli Gianfranco, Gabriella e Rossana. Angelo a Bergamo divenne responsabile dei vivai per conto della Forestale e si occupò negli anni delle opere di rimboschimento in tutta la provincia, fino alla pensione nel 1983. Nel 1981 la Prefettura di Bergamo, nell’ambito dei preparativi per l’arrivo in città del Pontefice, dispose di allestire una Campagnola della Forestale per i trasferimenti brevi del Papa, in città e a Sotto il Monte, mentre quelli più lunghi (da e per la città) furono organizzati in elicottero.

L’affettuoso bacio di un bimbo a Karol Wojtyla

«Il ministero dell’Interno indicò il mio nome quale autista – sottolinea Angelo con giustificato orgoglio – e mi adoperai da subito per apportare all’auto le necessarie modifiche, che consentissero al Santo Padre di salutare la folla». Un’officina specializzata e un preciso lavoro di carrozzeria realizzarono in pochi giorni quello che sarebbe stato un artigianale prototipo di Papamobile. «Tutto andò per il meglio – continua Rizzi – e con tanta

La Campagnola attrezzata a «Papamobile» con il Pontefice a bordo

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interviste

stuolo di mezzi di scorta e ovviamente la folla che si assiepava ai lati delle strade ad ogni spostamento». Per la verità Angelo Rizzi non era nuovo ad avere passeggeri «importanti» sulla propria auto, anche se si tratta di una storia completamente diversa, che affonda le radici in un lontano passato. Il ricordo va infatti agli anni della guerra, quando come giovane Forestale fu chiamato nel 1944, quando era in servizio a Grumello del Monte (Bergamo), a fare l’autista al Duce Benito Mussolini, riparato a Dobbiaco e nella Repubblica di Salò. «Per quaranta giorni ebbi l’ordine di servizio di fare da autista privato a Mussolini – ricorda – e conobbi anche donna Rachele, con la quale ebbi modo di scambiare qualche parola di cortesia». L’emozione però resta tutta per quel giorno di aprile del 1981, che di recente è parso tanto vicino grazie alle celebrazioni per la Beatificazione del Papa polacco. «Ho assistito alla cerimonia di Piazza San Pietro alla televisione – conferma Angelo – e non nego una punta di commozione, complice il fatto che proprio il 1 maggio c’è stato in famiglia anche il battesimo della mia pronipote Martina, che si aggiunge ai tre adorati nipoti». Una bella coincidenza cui si aggiunge anche quella di essere ora, in Val Gandino, in una terra che pure vanta legami con il Beato Giovanni Paolo Secondo. A Castigo (Bergamo), al Santuario della Madonna d’Erbia, è infatti conservata l’ultima veste talare indossata da Papa Wojtyla prima della sua morte nel 2005, mentre a Gandino, nel Museo della Basilica, sono conservati lo zucchetto del Papa e calice, pisside e ampolline usati per la messa a Bergamo del 26 aprile 1981. Quando a guidare la Papamobile c’era ... un Angelo.

Un’altra immagine del veicolo guidato dall’agente della Forestale Angelo Rizzi

emozione ricordo l’episodio dell’impermeabile, ma soprattutto la sincera cordialità del Santo Padre. Non sapevo se fosse conveniente confessare che l’abito che indossavo, ormai inzuppato fradicio per la pioggia, era quello di nozze, ma non potevo certo mentire al Papa!». Giovanni Paolo II donò ad Angelo Rizzi una corona del rosario e una medaglia, che conserva fra i ricordi più cari insieme a una serie di immagini che lo vedono composto e attento alla guida della jeep nelle varie fasi della visita a Bergamo e Sotto il Monte. «Bisognava prestare tanta attenzione – aggiunge – e l’emozione complicava le cose non poco, complice lo

Non rinunciò a salutare gli ammalati uno per uno 26 aprile 1981: trent’anni fa Papa Giovanni Paolo II era a Bergamo, dopo una visita a Sotto il Monte sulle orme di Papa Giovanni. In centro venne allestito l’altare dove il Papa avrebbe celebrato nel pomeriggio la Messa. Tra i

numerosi alpini che in quell’occasione svolsero il servizio d’ordine c’era anche Davide Valenti oggi, come allora, iscritto al gruppo di Campagnola (quartiere di Bergamo). «Terminata la Messa – ricorda Valenti – alcune auto

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della polizia si precipitarono sotto l’altare per prelevare il Papa». Ma qui Giovanni Paolo II sorprese tutti dirigendosi verso le persone in carrozzella, e «con la dovuta calma salutò uno per uno le persone disabili presenti».


AVVENIMENTI

Sara: «Io quel pomeriggio ero in braccio al Pontefice» Parla la donna che il 13 maggio ‘81, allora bimba, Wojtyla sollevò prima degli spari

I

’13 maggio 1981 è un mercoledì e Papa Wojtyla esce in piazza San Pietro per l’udienza generale, che allora si teneva alle 17, a bordo di una camionetta bianca scoperta. La macchina avanza tra due strette transenne a passo d’uomo e Giovanni Paolo II, in piedi, stringe le mani che gli vengono tese, solleva e bacia una bimba bionda e la restituisce alla madre. Ancora due o tre minuti, e rimbombano 2 spari (4 in realtà i proiettili). Sono le 17 e 19 minuti. Il Papa resta immobile per qualche istante, la fascia che gli circonda la vita diventa rossa di sangue e lui si accascia. Qualcuno ha sparato al Papa, qualcuno voleva ucciderlo. Portato all’ospedale Gemelli, il Papa è in sala rianimazione, ha perso moltissimo sangue, e dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù arrivano flaconi di gruppo sanguigno 0 Rh negativo. E’ ferito a una mano e molto gravemente all’addome. Viene operato, sarà operato ancora nei giorni successivi, ma si salva. Domenica 1° maggio 2011, in piazza San Pietro, lei non c’era, ma a rendere omaggio al Beato Karol Wojtyla ci andrà quanto prima con i suoi due bambini piccoli che di Giovanni Paolo II hanno sempre sentito parlare in casa, «un po’ come avviene per un parente, per un nonno». Sara Bartoli oggi è una donna. Il 13 maggio 1981, quando Alì Agca sparò a Giovanni Paolo II, aveva 18 mesi e si trovò a un soffio dalla traiettoria del proiettile che ferì il Papa. Forse fu anche per merito suo se Wojtyla si salvò: lo stesso Agca, infatti, confessò agli investigatori di aver «sbagliato mira perché il Papa aveva una bimba in braccio». Quel giorno, in piazza San Pietro, la papamobile si fermò davanti a lei e la mamma, Luciana Funari, la sollevò in direzione del Pontefice, che la afferrò e le diede un bacio sulla testina. Oggi Sara ha quasi

Papa Wojtyla ripreso pochi istanti dopo l’attentato del 13 maggio 1981

32 anni, abita e lavora a Lariano (Roma), e ha vissuto con «grande emozione» la beatificazione del «suo Papa». Del momento dell’attentato, Sara non ricorda niente. «Ero troppo piccola», dice. Ma quegli istanti cruciali hanno comunque lasciato un segno indelebile nella sua vita. «E’ stato un evento più grande di me – afferma – e, crescendo, all’inizio, quasi non lo accettavo: era come una responsabilità troppo grande per una ragazzina». E oggi, c’è un nuovo snodo. Quando le si chiede se può essere stata proprio la sua presenza a evitare la morte di Wojtyla, Sara si schermisce: «Agca disse così, ma non so se sia attendibile». Sara ha incontrato un paio di volte Giovanni Paolo II dopo l’attentato, in udienza generale: «E’ stata sempre una grande emozione». Un’emozione che si ripete anche oggi: «Spero che al più presto lo facciano santo. Prima di essere un Papa, era una grande uomo. I miei bambini quando lo vedono lo chiamano “il Papa di mamma”. Come un nonno». 27


DECRETI

Giovanni Paolo II celebrato ogni anno il 22 di ottobre La data in cui sarà ricordato il nuovo beato coincide con l’inizio del suo pontificato

C

ontrariamente a quanto si pensava non sarà il 2 aprile, giorno della morte, e nemmeno il 16 ottobre, giorno dell’elezione a Pontefice: sarà invece il 22 ottobre, ovvero l’anniversario di inizio del pontificato, la data in cui ogni anno sarà celebrato il nuovo beato Giovanni Paolo II. E’ quanto ha disposto il decreto emanato nei mesi scorsi dalla Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti in vista della beatificazione che si è tenuta il primo maggio di quest’anno. Il testo in questione stabilisce che il culto liturgico del nuovo beato sarà iscritto per il momento nei calendari della diocesi di Roma e in quelle della Polonia, mentre per il «culto universale» di Karol Wojtyla occorrerà attendere la proclamazione della santità. Indimenticabili sono rimaste le sue parole: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti

campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!». A pronunciarle fu il neoeletto Giovanni Paolo II in quella ormai celebre omelia del 22 ottobre 1978, durante la Messa di inaugurazione del pontificato. Parole le sue che sono rimaste impresse come una specie di manifesto dei suoi oltre 27 anni trascorsi come successore di Pietro e che hanno fatto da supporto anche alla memoria liturgica del nuovo beato. In particolare si legge nel decreto del dicastero per il Culto divino, a firma del cardinale prefetto Antonio Canizares Llovera e del segretario, monsignor Joseph Augustin Di Noia, quanto segue: «Si dispone che nel calendario proprio della diocesi di Roma e delle diocesi della Polonia la celebrazione del beato Giovanni Paolo II, Papa, sia iscritta il 22 ottobre e celebrata ogni anno come memoria». Tale testo, che è stato anticipato dalla pubblicazione «L’Osservatore Romano», stabilisce inoltre che nell’arco dell’anno successivo alla beatificazione, ovvero fino al primo maggio 2012, sarà possibile celebrare Messe di ringraziamento, i cui luoghi e date verranno stabiliti dai singoli vescovi per le rispettive diocesi o dai superiori generali per le famiglie religiose. Inoltre allegati al decreto ci sono anche i testi liturgici, che comprendono dei passi tratti proprio dall’omelia pronunciata il 22 ottobre 1978. Karol Józef Wojtyła è stato il 264º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica (il 263º successore di Pietro) e sovrano dello Stato della Città del Vaticano. Primo Papa non italiano dopo 455 anni, cioè dai tempi dell’olandese Adriano VI (1522-1523), è stato inoltre il primo Pontefice polacco, e slavo in genere, della storia.

Papa Giovanni Paolo II ha iniziato il suo pontificato il 22 ottobre del 1978

Luna Gualdi 28


PERSONAGGI

«I miei 60 anni in Brasile trascorsi tra gli indios» Il vescovo Servilio Conti, che ha 95 anni, è il decano dei missionari bergamaschi

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Le gambe fanno fatica e devo usare il bastone, la memoria è quella che è... mi sa che dovrò fermarmi e resterò a Torino, nella casa della Consolata. Non vorrei tornare in Brasile ed essere di peso». Monsignor Servilio Conti, originario di Vertova (Bergamo), 94 anni, vescovo e missionario in Brasile da più di 60 anni, è sereno nel «buen retiro» di Orezzo, a casa di nipoti, nella «sua» Bergamasca. Questo l’inizio del servizio a firma di Alberto Campoleoni pubblicato su «L’Eco di Bergamo», che così prosegue. E’ il decano dei missionari orobici ed è rientrato dal Paese sudamericano nell’estate dello scorso anno. Fosse per lui avrebbe già un biglietto di ritorno, ma stavolta sa che il volo non si farà. Sul tavolo c’è una grande carta del Brasile, che percorre quasi a occhi chiusi. Il dito indica località precise: San Paolo, San Manuel, Boa Vista, Roraima, il Rio Branco, Santa Maria Rio Grande do Sul... Sono i posti di una vita spesa ad annunciare il Vangelo, con semplicità e talvolta con mezzi di fortuna, tra popolazioni al limite della civilizzazione. Padre Servilio è arrivato a Roraima nel 1964 e già stava in Brasile da una decina d’anni: nel 1950 era infatti sbarcato a San Manuel, poco distante da San Paolo, per insegnare nel seminario. E pensare che da ragazzo non avrebbe voluto studiare. «Quando sono andato a Torino per entrare tra i missionari della Consolata – racconta – avevo 17 anni e dissi che volevo fare il fratello coadiutore, proprio perché non mi piaceva studiare. Invece feci tutto il corso di studi e poi mi mandarono anche a Roma, all’Urbaniana: si parlava e si studiava in latino. Presi la licenza in teologia e mi piaceva la Patrologia, che ho poi insegnato in seminario, a Torino e in Brasile». Dai missionari della Consolata il giovane Servilio era arrivato perché affascinato dalla loro rivista. «Leggevo dell’Etiopia e del Kenia e così volevo andare

in Africa...». E invece nel 1950 finisce in Brasile. Nel seminario di San Manuel si ferma per 13 anni e poi viene mandato nel Nord, a Roraima. «Il primo Natale da vescovo – racconta padre Servilio – l’ho passato tra gli indios. Sono andato a Nord, nella Serra do Sol, facendo 8 ore di viaggio per percorrere circa 200 chilometri». L’ordinazione episcopale di padre Servilio Conti è avvenuta a Bergamo, in cattedrale, il 5 maggio 1968. Alcuni anni prima, nel 1965, era stato nominato prelato «Nullius dioceseos» di Roraima. La prelatura di Roraima è poi diventata diocesi di Boa Vista. «Qui ho costruito la cattedrale – racconta – intitolata a Cristo Re. Avevo anche due orfanotrofi e un ospedale». Tantissimi i ricordi, come l’aiuto ricevuto da Giovanni Paolo II, all’inizio degli anni ’80, perché gli indios potessero avere un’autosufficienza economica e comprare mucche: «Ci diede due milioni di lire, il Papa». E poi l’entusiasmo: «Servono ancora i missionari, eccome!», dice convinto.

Monsignor Conti nella missione in Brasile insieme a un capo tribù

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- I nomi delle persone che invieranno le offerte verranno pubblicati sul giornale “Amici di papa Giovanni�

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