Festival di scambio culturale e formazione Italia-Gaza | ed. 2015 e 2016

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DOSSIER

Festival di scambio culturale e formazione Italia - Gaza

progetti, pratiche e pensieri dalle carovane per Gaza 2014/2015 - 2015/2016 un progetto di Associazione Randa con la collaborazione di Centro Italiano di Scambio Culturale VIK

Festival scambio



Un’isola che non c’è. Al contrario. Nel dicembre 2015 parte da Milano la II carovana di solidarietà Italia-Gaza, promossa dall’Associazione Randa in collaborazione con Centro Italiano di Scambio Culturale - Vik. Un percorso di incontro iniziato nel 2014 con lo scopo di abbattere quelle pesanti barriere che rendono la Striscia Gaza uno dei territori più inaccessibili del Medio Oriente. L’obiettivo è realizzare il 2° Festival di Scambio e Formazione – Italia Gaza: una settimana di sport, arte e cultura e un evento finale tra i più partecipati dell’anno. Tra le attività della seconda edizione: workshop di fotografia e videomaking; una app di narrazione territoriale per smartphone, dove la storia della striscia prende forma dai racconti dei suoi abitanti; writing tra le macerie e una rampa da skateboard costruita collettivamente in un quartiere disagiato; un percorso di formazione con educatori e bambini per costruire la città possibile attraverso l’uso di moduli di cartone su cui disegnare i desideri di chi abita la Striscia. Attività che hanno permesso di intercettare e coinvolgere un numero ampio di persone diverse bambini, adulti, adolescenti, studenti universitari - per ricostruire socialità e relazioni quotidiane facendo breccia nell’immobilismo spaziale e culturale prodotto dell’assedio e mantenuto dalle istituzioni governative locali. Il clima postbellico che aveva accolto la carovana il primo anno

infatti, esito degli attacchi dell’estate 2014, il cui paesaggio si caratterizzava per la predominanza delle rovine, era caratterizzato da un’atmosfera tesa ma di unità tra la popolazione, trasversale alle differenze politiche. Una situazione a cui contribuì sicuramente la decisione di istituire un governo di coalizione tra Hamas e Fatah. Il fallimento dell’unione di queste due forze, che invece di collaborare si sono perse in un vortice di provocazioni che ha pagato di fatto la popolazione, è andato di pari passo alla progressiva frammentazione sociale, alimentata dalla diffusa sensazione di impossibilità di un mutamento della situazione. A questa generale frustrazione che vive la popolazione in questo momento si aggiunge una ricostruzione iniziata dopo quasi due anni e non egualmente possibile per tutti, le disastrose condizioni economiche in cui versa la regione che hanno prodotto livelli di disoccupazione inimmaginabili. Il 2016 vede quindi una Striscia più divisa al suo interno, ma ancora determinata a conquistarsi un’esistenza degna, una popolazione che resiste quotidianamente, nelle attività più semplici e banali, a tutte le forme di restrizione della libertà e alle dinamiche di controllo cui ogni passo tende verso la libertà. Se la situazione di isolamento non cesserà, se le prigioni israeliane continueranno a gonfiarsi di prigionieri politici e sospettati tali, se il numero di feriti e morti palestinesi continuerà a crescere

a dismisura, il benessere psicosociale della popolazione potrebbe iniziare a vacillare lasciando spazio a dispute e controversie la cui importanza è nulla rispetto alla tragedia dell’occupazione. E’ in questo scenario che si posiziona il progetto di scambio e solidarietà, che appena terminata la seconda edizione già progetta un nuovo viaggio e nuovi modi per sostenere il popolo Palestinese. Momenti di confronto e scambio con l’esterno assumono oggi un’importanza rinnovata: sfidano la censura e i confini, la repressione e la paura sollecitando gli immaginari di un popolo sotto assedio e supportandone gli sforzi per l’autodeterminazione. Gaza è un’isola dai confini rigidi, che vive l’esclusione delle geografie contemporanee. E’ compito di chi può ancora attraversarli portare il proprio corpo e le proprie visioni a raggiungere chi si impegna da dentro per un futuro diverso. Associazione Randa Associazione Dynamoscopio 21 gennaio 2016

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Dona materiali e attrezzature per le attività (che verranno lasciate in loco al termine del festival) o fai un versamento per il III Festival di Scambio Culturale Italia-Gaza a: Centro Italiano di Scambio Culturale IT35C0312703241000000051775 Intestazione: Giovanni Lisi, Maria Teresa Bartolucci Causale: per Gaza, Centro Italiano. Attività festival BIC: BAECIT2B


Intervista. Meri Calvelli è una cooperante italiana da molti anni e oggi residente a Gaza. Lavora presso il Centro Italiano di scambio culturale VIK.

Quando sei arrivata in Palestina e perchè? La situazione di occupazione della terra di Palestina è di antica data. Molte delle persone della generazione anni '70 si sono impegnate per la difesa dei popoli oppressi e per la loro liberazione. Tra i tanti uomini e donne che chiedevano e credevano nell'indipendenza dei popoli c’ero anche io, tanto tempo fa. In palestina poi, come succede per tanti migranti, ho continuato a svolgere il mio lavoro di cooperante internazionale, guardando sempre alla difesa dei diritti umani, alla denuncia dell'oppressione e dell’ingiustizia. Durante la 1° intifada (1987), una rivolta seguita poi da ennesime rivolte e altrettante sconfitte, mi rimase impressa la vitalità, la dignità e la capacità di resistenza, di quella piccola popolazione, tanto disastrata e sparsa per il mondo quanto capace di tornare ed organizzarsi per rimanere sulla propria terra. Oggi si chiama “resilienza” in realta rimane una forte capacita' a resistere nonostante le avversita' e nonostante tutto il mondo contro. Ecco, questo aspetto di convinzione trasmessa di generazione in generazione, ha avuto ed ha tutt'oggi per me un grande impatto e una spinta di speranza per la costruzione di un mondo diverso. La Palestina è una grande scommessa, difficile ma piena di speranze che la gente esprime ogni giorno.

internazionali mai considerate e rispettate. La cosa fondamentale però, nonostante la dispersione di persone, le ondate di profughi e soprattutto la presenza fisica e massiccia dell'esercito militare israeliano dentro le città, esisteva una grande unità una capacità di organizzazione massiccia e popolare che non poteva non essere evidente e coinvolgere tutto il mondo. A quella prima intifada - intifada popolare dei sassi - seguirono gli accordi di Oslo e le molte posizioni favorevoli e contrarie. Il risultato fu però una grossa truffa ai danni dei palestinesi “che , come si dice a roma ce so' imboccati co' tuttte le scarpe” cioè che solo dopo hanno capito di aver perso molte delle loro terre e ricchezze.

Qual'è stato il momento migliore per la resistenza palestinese? Dal punto di vista militare e politico credo che il popolo palestinese non abbia mai avuto grandi vittorie o momenti più distesi. La storia di questo popolo è fatta di dispersione, di rivolte e di tanto dolore per le tante vittime e le tante persone che ancora continuano a soffrire in carcere (arresti amministrativi senza processi, accuse o condanne). Direi che non hanno mai smesso la resitenza, oggi sempre più difficile: le restrizioni sono molto pesanti, la divisone interna non aiuta, la società e l’opinione pubblica è meno attenta alle istanze umanitarie. Però credo che il momento migliore sia stato quando dalla resistenza fisica e politica, è emrsa una resistenza di carattere più culturale: un modello di rivoluzione e resistenza che nel mondo arabo che ha fatto molto arrabbiare il resto dei “fratelli arabi” - gli stati musulmani limitrofi. Le dittature arabe non Com'era la situazione all'epoca? hanno accettato le modalità laiche di Tante rivolte, come e' d'obbliglo in questo popolo e gli hanno fatto pagare una situazione di occupazione militare duramente il prezzo di questa loro e di ingiustizia dovuta alle risoluzioni visione diversa. 4

Quale il momento più fragile? Il momento piu' fragile è oggi: in questi ultimi dieci anni c'e' stata una evidente disgregazione nella popolazione: divisioni interne, ideologiche, di potere, e spesso anche religiose (cosa che non apparteneva affatto alla storia del popolo palestinese). Le controversie sono state affrontate senza confronti, l'agire quotidiano è diventato individuale e questo sicuramente non puo' portare ad un risultato di giustizia. Quali sono le differenze in termini di controllo spaziale, prospettive e rivendicazioni tra Gaza e gli altri territori palestinesi? Quello che è successo a Gaza è il capitolo piu' brutto nella storia palestinese. E’l'inizio della fine di una storia politica che poteva ancora avere possibilità di essere rilevante e importante nella regione. La responsabilità non è solo dei palestinesi, che si sono divisi in tanti piccoli pezzi gia' da quelle importanti elezioni legislative nel 2006, ma anche della comunità internazionale che ha permesso la divisione e il controllo di tutto il territorio palestinese agevolando differenze e rivendicazioni separate. I partiti hanno avuto una grossa responsabilità presentandosi divisi e non come unico corpo contro l'occupazione. Ne hanno pagato le conseguenze (e ancora le stanno pagando) e alla fine non hanno ottenuto nessun controllo o diversa prospettiva, se non una grandissima confusione di ruoli e poteri che ha estromesso la partecipazione della gente ad ogni aspetto della vita politica e sociale. Senza una visione comune di rivendicazione dell'identità si perde il controllo di tutto. Cosa pensi dell'accordo di Oslo? Un accordo a seguito della prima Intifada sarebbe stata la logica conseguenza della battaglia per far riconoscere lo stato di Palestina e il diritto al ritorno ma la convivenza tra i due popoli non era scontata. Al contempo, non era scontata la convivenza all'interno di Israele, dove forze di destara estrema, che ancora hanno in


mano il comando e il controllo, non hanno permesso nessun cambiamento. Gli accordi di Oslo sono diventati però un cappio per i palestinesi i quali, bisognosi e vogliosi di pace e libertà, hanno accettato, pur sapendo che sarebbe stata una grande trappola. Le forze di al governo in Israele oggi sono figlie di quegli accordi non chiari e nemmeno troppo orientati ad un processo di pace.

forse la fine della causa unitaria del popolo palestisnese. Io ero dentro la Striscia in quei giorni e vorrei non ricordare quello che ho visto. Quando finì la battaglia, dopo una settimana, evitando per un soffio lo scoppio della guerra civile, rimase solo il grigio e il silenzio della popolazione allibita per ciò che era successo. Da allora niente è stato più come prima, la gente ha cominciato ad essere sospettosa e ad avere paura anche Ascesa di Hamas dal 2004 al 2006. Come è degli stessi familiari. stata da te vissuta? Cos'è successo? Per dieci lunghi anni la situazione ha avuto Hamas esiteva già prima del 2004, meno alti e bassi e soprattutto troppe guerre da evidente ma c'era e si sentiva. Era un affrontare. partito religioso come altri. Nel 2006, a seguito della seocnda intifada, la Palestina Quali sono stati i momenti dove hai avuto è andata ad elezioni, volute principalmente maggior speranza per il popolo palestinese? dalla comunità europea e internazionale. Ogni inizio dell'anno è sempre stato Un periodo attraversato da numerosi caratterizzato da tanti buoni propositi, con cambiamenti: il disfacimento dell'autorità, tanta speranza e tanta nuova carica per il ritiro dei coloni da gaza, molti aiuti affrontare le situazioni. I palestinesi non si internazionali da spartire, la morte di fanno mai mancare la speranza! Arafat. Non da ultimo, le colonie che Speranze che purtroppo si affievoliscono crescevano e si espandevano incontrastate. subito perchè pare che nessuno, autorità Un grende caos. Quelle elezioni le vinse locale o internazionale, abbia intenzione di Hamas, contro ogni aspettativa, anche risolvere la situazione. loro, e non erano affatto pronti. Avrebbero Nell'ottobre del 2011 però avvenne lo dovuto gestire politicamente la vittoria ma scambio di Shalit e la liberazione di un comunità internazionale commise l’errore migliaio di detenuti dalle carceri israeliane di permettere ad Israele di arrestare tutti i (anche detenuti di vecchia data): in quel deputati che erano stati eletti. momento ci fu davvero aria di speranza. Oggi abbiamo molto ben chiaro il motivo: Le prime parole del caporale Shalit al suo la spartizione dei poteri, la divisione del popolo palestinese, la chiusura stretta di Gaza e la continua perdita del resto dei territori in cisgiordania. Subito dopo la vittoria di Hamas ci fu un tentativo di gestire il governo di unità nazionale ma scoppiarono poco dopo scontri e rivendicazioni che chiusero questa fase. L'autorità di Oslo non volle lasciare alcuni ministeri - interni e difesa - al governo eletto il quale non accettò un controllo tale. Inizio' quindi il duro scontro che termino a luglio del 2007, con la cacciata della vecchia autorità da Gaza e l’istituzione del regime de facto limitato al territorio della Striscia. Furono giorni terribili, tristi e violenti che detemrinrono 5

rilascio furono: “Ho sempre confidato che sarei stato rimesso in libertà. Sto bene, Hamas mi ha trattato bene e spero che questo accordo possa aiutare il processo di pace tra israeliani e palestinesi.”. Purtroppo anche questa speranza crollò presto e altre due guerre si abbaterono su Gaza con grandi distruzioni e perdite di territorio. Per il momento la speranza dorme. E tu come stai..? Affronto la Palestina insieme a tanta gente, e ogni giorno ci sono nuove idee e tanta partecipazione. Secondo me manca una giusta proposta che spero possa arrivare dall’interno molto presto per mettere fine ad una lunga ed assurda storia di apartheid e ingiustizia. Solo allora si potrebbe dire “ora si che si sta bene in questa Terra Santa!!!!”

Foto: Associazione Randa


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Restrizione della Libertà (ovvero carcere e repressione)

Da una parte c’è la situazione di assedio ed isolamento della Striscia di Gaza, che subisce un controllo militare da parte di Israele in forme violente come i bombardamenti ma anche di costante controllo e distruzione delle risorse del territorio. A questo sia aggiunge un governo interno repressivo e intransigente rifugiatosi nell’ortodossia che quotidianamente ostacola le espressioni di socialità e vitalità degli abitanti.

L’occupante che esige sicurezza dall’occupato, un popolo che non ha alcun mezzo per fronteggiare la forza militare israeliana. Il paradosso genera il mostro e l’Apartheid ne è lo strumento. Ed è così che in alcune parti della Cisgiordania diventa impossibile per i palestinesi esercitare un pieno diritto all’esistenza, perché la persecuzione, la restrizione del diritto di mobilità e la repressione sono all’ordine del giorno. Un controllo repressivo giustificato da una campagna mediatica che parla grossolanamente di “Intifada dei coltelli”, mentre la realtà è quella agita da moltissimi ragazzi e ragazze palestinesi che insorgono per la disperazione di non vedere una via d’uscita dopo il vuoto lasciato dagli accordi di Oslo. E’ quindi quasi quotidiana la “visita” da parte delle forze di sicurezza israeliane nei campi profughi, per soffocare le proteste, per non dare respiro, o, semplicemente, per gioco.

Dall’altra c’è la drammaticità del regime di apartheid in Cisgiordania, dove l’oppressione si traduce in un sistema di sicurezza creato ad hoc per neutralizzare l’esistenza di un intero popolo nella sua terra, mentre in Israele l’economia rimane forte anche in un periodo di crisi mondiale proprio per il perenne stato di guerra in cui vuole rimanere protagonista. Un sistema non solo di controllo, ma di repressione tenuto in vita dalla tesi israeliana secondo cui il popolo di Sion sarebbe minacciato dalla presenza palestinese e quindi in costante pericolo di vita.

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Dal campo profughi di Daisha. Nel campo di Daisha a Betlemme sono mesi di tensione che si alternano a momenti di apparente “serenità”. Intervista a S., 21 anni, arrestato a Deisha, campo profughi di Betlemme, durante le proteste per un’incursione dell’esercito israeliano. Il caso di M. - il fratello di S. - è quello di molti altri ragazzi di Daisha: colpito perché palestinese. Gli hanno sparato alla gamba forandogli e bruciandogli un nervo.

Da fine Novembre, M. è in queste condizioni e urla di dolore dalla mattina alla sera. Quando gli hanno sparato a Daisha c’era movimento. Lui tornava da scuola e un cecchino l’ha colpito. Abbiamo incontrato suo fratello S. che ha acconsentito di rispondere a qualche domanda oltre la terribile vicenda, per esplorare attraverso la sua storia, quella di tanti altri ragazzi palestinesi. Come ti chiami? Quanti anni hai? Di dove sei? Mi chiamo S., ho 21 anni e vivo nel campo di Daisha a Betlemme. Quando sei stato arrestato e perché? Sono stato arrestato tre volte. La prima volta fu nel luglio 2011, avevo sedici anni e mezzo. Mi dissero che avevo commesso degli illeciti con altri ragazzini palestinesi. Restai in carcere per 5 mesi e, dopo altri 5 mesi, mi arrestarono per le 8

Foto: Associazione Randa

Loro esprimono un vero odio: ti colpiscono, anche con le armi. Quando vengono ad arrestarti hanno il volto coperto, sono camuffati. Di solito lo fanno di notte.


Quanti ragazzi ci sono nelle carceri israeliane? Accade spesso che vengano arrestate persone giovani? Ok, in questi anni ci sono più di 300 minori nelle carceri israeliane. Quando venni arrestato io non superavamo i 300. Ci sono 4 tipi di carceri minorili: l’Ofer jail, la Nafah jail, Hasharon jai e Al naqab jail. Tutte e tre sono posti invivibili. Non Com’era il carcere? In prigione c’era un dipartimento con ti puoi sentire un essere umano: Il 12 camere. Nella prima cella, i bambini trattamento riservato ai detenuti, lo stavano insieme agli adulti. Questa spazio strettissimo, la finestra di ferro. situazione, tutto sommato, non andava male, perché era possibile prendere ciò In quali situazioni avvengono questi arresti? che ti mancava dai più grandi. Successivamente hanno aperto un Sono venuti a prendermi a casa. Ero dipartimento solo per minorenni in cui nella mia stanza, la porta era chiusa. c’era una camera con 10 letti a castello. Entrarono armati. “Dov’è S.? Che nessuno si muova!” Dicevano cose del (mima con i gesti) I secondini ci controllavano in ogni genere. La prima volta stavo dormendo. momento: ci contavano la mattina, il Il soldato era su di me, diceva “Svegliati! pomeriggio e la notte. Qualche volta Svegliati!” Non capivo chi fosse, mi venivano nelle stanze, ci facevano uscire, chiedevo “Chi sarà?” ispezionavano le camere e ci facevano Così mi rimisi a dormire, ma subito dopo realizzai: “hey! sono i soldati!”. rientrare. Quando uscivamo dal dipartimento Mi svegliai: erano in camera e avevano per andare in tribunale, si mettevano fatto mettere mio padre e mia madre dei guanti e ci legavano le mani e i da una parte. Mi misero le manette piedi (mima il gesto) e ci trattavano (mima il gesto) e mi portarono fuori. come criminali. Non rispettano la Loro esprimono un vero odio nei tuoi Convenzione di Ginevra sui diritti confronti. Ti schiaffeggiano… con le umani, dei palestinesi, sui diritti dei armi. Quando vengono ad arrestarti hanno il volto coperto, sono camuffati. minori. Quando arrestano dei minori o Riuscivi a studiare mentre eri in carcere? chiunque altro di solito lo fanno di Prima c’era una specie di scuola superiore notte. che i minori potevano frequentare in carcere e con cui si otteneva un Per quale ragione? Con quale motivazione certificato, ma l’hanno eliminata nel arrestano le persone? Per qualsiasi motivo. Quando ti periodo in cui ero lì. Potevamo comunque avere del tempo arrestano dicono “Siamo le forze di libero per leggere qualcosa e discuterne, Sicurezza israeliane, sei in arresto, sei come in Università, ma non era previsto un criminale”. Qualcosa del genere. Ti il conseguimento di alcun certificato, insultano “Figlio di puttana, vieni con noi”. Non dicono perché. poiché era stato abolito. Tentai di fare la scuola superiore in prigione, ma non era più possibile: Com’erano gli interrogatori? frequentai l’ultimo anno delle superiori La mia esperienza con gli interrogatori è iniziata dopo l’arresto. La prima volta mi dopo che fui rilasciato. stesse motivazioni. Mi condannarono a venti mesi. E queste furono le prime due volte. La terza volta fu durante gli esami di maturità. Avevo interrotto i miei studi a causa della galera. Cercai poi di continuare, ma proprio nel bel mezzo degli esami, mi arrestarono per un giorno. E questa fu la terza volta.

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interrogarono per sei ore. Chiedendomi informazioni su cose che non avevo fatto. Ma la peggiore fu la seconda volta. Mi portarono alla centrale degli interrogatori di Gerusalemme, la chiamano Mosqubyia (possibili diverse trascrizioni). E’ dentro un’antica chiesa russa. Hanno fatto lì dentro una centrale per gli interrogatori. Hanno creato un posto terribile appositamente per i palestinesi. Mi misero in una cella di 1 metro quadrato e ti senti… come all’inferno, capisci? Rimasi lì per cinquantasei giorni. Da solo, senza nessun’altro, senza sigarette. “Devi stare da solo” dicevano. Mi diedero il giusto da mangiare per sopravvivere e rimanere vivo in cella. Mi fecero l’ispezione anale. Mi interrogavano su una sedia di plastica su cui non riuscivo nemmeno a rimanere seduto. Mi legarono mani e piedi (mima il gesto)… i piedi erano fissati al pavimento. Era impossibile muoversi. Passavo sedici ore al giorno su quella sedia. Mi chiedevano informazioni di cui non sapevo nulla. Mi urlavano in faccia, mi obbligavano a ingurgitare liquidi nocivi. Usavano diverse tecniche di tortura. I soldati erano dappertutto: mi torturavano qui (cosce) e poi qui (schiena) e poi qui (indica diverse parti del corpo). Erano in tutta la cella e tutti mi urlavano nelle orecchie. Non ricordo cosa dicessero, ma urlavano. Una volta un soldato spinse la sua gamba contro la mia, urlava e mi sputava addosso (mima il gesto). Questo è una tecnica, per esempio. Un'altra volta mi legarono mani e piedi (mima il gesto) e mi misero su un’asse e passai quattro giorni in questo modo. Mi permettevano di andare a letto solo una volta al giorno. Iniziai lo sciopero della fame. Gli dissi che non avrei mangiato né bevuto fino a quando non mi avrebbero spostato. Mi inflissero 3 punizioni: mi giravano (mima il gesto), provarono a farmi inalare del gas e poi mi lasciarono nudo, faceva freddo.


La prima notte gli urlai contro: “Avanti, fatemi andare!”. Non potevo sentirmi le mani, non potevo dormire, non potevo muovermi, o fare qualsiasi cosa. Dormivo mentre ero legato (mima il gesto) e urlavo. Quando mi svegliavo, realizzavo che non potevo muovermi e così gli ricordavo che non avrei mangiato e loro mi dicevano: “Fa’ ciò che vuoi, non ci interessa”. Un altro giorno mi portarono solo una volta in bagno. Dopo 3 giorni, l’ufficiale venne da me e mi disse che avrei dovuto mangiare “Devi mangiare! Devi mangiare!”. “Non mangerò fino a quando non mi farete uscire di qui”. Così passarono tre giorni senza cibo. Al quarto giorno un’ufficiale donna venne e parlò con me: “ti faccio andare ora, ma non urlare, non creare problemi ai detective o cose simili”. Mi portarono così in un ufficio e mi chiesero: “Allora, parlerai o no?” Gli dissi “Non dirò niente che io non abbia fatto”. Così mi rispose di tornare da dove ero venuto. Mi rilegarono (mima il gesto). Così mi riportarono in cella senza cibo, senza niente. Era così dura. Mi tenevano lì, senza chiedermi niente. Mi dicevano solo che sarei rimasto lì finché non mi sarei deciso a parlare. Era durissima. Indossavamo un’uniforme che per me era troppo larga. Aveva le maniche larghissime. Quando mi parlavano mi dicevano delle cose terribili, da non crederci. “Sei un criminale, ti uccideremo quando uscirai da qui. Ti spareremo. Sei un piccolo criminale. Tutti i ragazzini palestinesi sono criminali. Voi ci odiate... Distruggeremo la tua casa se non parli”. Dopo 45 giorni in cella, arrestarono mio padre. Lo chiamarono mio padre : “Vieni, vogliamo parlare di S.”. E lui venne per un interrogatorio con il capo del dipartimento di Betlemme. “vogliamo che ci parli di tuo figlio”. Mio padre gli rispose “mio figlio è solo uno studente, non ha fatto niente. Voi

volete solo metterlo in prigione. So benissimo cosa fa, mi fido di lui e non potete tenerlo in prigione per fargli quello che volete”. Dopodiché mio padre passò nove giorni in carcere, fino a quando non lo lasciarono andare e mi dissero: “abbiamo arrestato tuo padre. E’ colpa tua, se non ti decidi a parlare e mettere fine a questa storia”. Decisi di non dire niente che non sapevo. Dissi “Dite che basta avere un foglio in mano e parlare con me, ma volete solo tenermi dentro. Non parlerò. Fate quello che volete. Io voglio la mia libertà. Mettete i ragazzini palestinesi in galera, pensate che siamo tutti criminali. Siete delle bestie non siete degli esseri umani, siete animali, tutti voi.” E altre cose del genere, ma ricordo bene perché per tanto tempo ho cercato di dimenticare tutto. Raccontaci di tuo fratello. Le forze di sicurezza israeliane sono venute nel campo tantissime volte. Quando vengono sparano i lacrimogeni. Di solito vengono a Daisha per arrestare ragazzini. Era la fine di Novembre. Mio fratello stava andando a scuola. C’era movimento a Daisha. C’era un cecchino sul tetto di un palazzo di fronte alla strada. Così gli hanno sparato sulla gamba. Il dottore ha detto che han colpito il nervo, un nervo fondamentale che si è bruciato. Sente delle scariche elettriche in tre fasi, in ogni momento. A Betlemme hanno provato a trattare il caso dandogli… (nome di un farmaco) o qualcosa di simile, ma non funzionava. Era gravemente ferito. Hanno detto che il caso avrebbe dovuto essere trattato fuori dalla Palestina, perché non avevano le strutture adeguate. E’ in queste condizioni da un mese e mezzo. Sente un dolore fortissimo. Ha fatto tre operazioni o quattro. Questa è l’occupazione israeliana, questo è il modo in cui l’esercito israeliano e i soldati ci trattano, come ci considerano. Loro vogliono proprio ucciderci, 10

ferirci, metterci in galera o porre fine alla nostra vita. Esattamente come mi hanno detto: “Voglio mettere fine alla tua vita, ai tuoi studi… a tutto. Questo è il mio obiettivo. Questo è quello che farò”. Vedi, loro veramente odiano i palestinesi, vogliono seminare morte e come durante la Naqba, nel ’48, quando ammazzaronoindiscriminatamente, forzarono le persone ad uscire dalle loro case, dai loro villaggi. Io sono un rifugiato. Il mio villaggio si chiama Holda. Non ho mai visto né il mare né Holda nella mia vita, e ora ho 21 anni. Non ho visto il mare a causa dei check points e delle altre restrizioni. Ci hai detto che tuo fratello stava parlando con il paramedico quando gli hanno sparato. Quando è stato ferito, era per la strada. Quando l’ambulanza è arrivata, mentre a Daisha c’erano i soldati, il paramedico gli ha chiesto: “Chi è il ferito? Dov’è?” E lui ha risposto: “Non ci sono feriti.” Esattamente in quel momento, lui è caduto per terra. Il paramedico era sconvolto. Da un momento all’altro lui era per terra, pieno di sangue. Un attimo prima stava parlando e un attimo dopo era ferito. Che cosa è successo?? Potrebbe essere utile scrivere un appello alla Comunità Internazionale? Tutto può cambiare. Sono 70 anni di occupazione, di sangue, di dolore, e niente è cambiato. Se volessero cambiare qualcosa lo farebbero. La comunità internazionale non fa niente per cambiare la situazione. Quello che va bene per Israele va bene anche per loro. Questo ovviamente è quello che accade, non quello che emerge ufficialmente. Ci sono cose molto più drammatiche di quella successa a mio fratello. Per esempio, hanno bruciato un bambino, o come ad A., lo hanno bruciato e poi hanno fatto delle cose con il suo corpo, o A.T., quando l’hanno ucciso assieme


a suo padre, hanno bruciato la loro casa a Gaza … Ci sono moltissime vicende mostruose. Se volessero, potrebbero cambiare tutto ciò. Il caso di mio fratello non è niente in confronto a molte altre tragedie. Cosa si può dire alle Istituzioni italiane per pagare le cure a tuo fratello? Mio fratello ha il diritto di vivere e di fare quello che desidera come tutti in qualsiasi parte del mondo. Non solo mio fratello ha questo diritto, ma tutti i bambini palestinesi, specialmente nei campi, perché qui la vita è più dura. Se qualcuno può aiutare a fermare questa sofferenze, se qualcuno può aiutare i palestinesi, farebbe un gesto buono, umano. Mio fratello non è solo mio fratello, bensì è il caso di chiunque viva sotto occupazione o che affronti una difficile situazione e non può vivere come in qualsiasi altro paese del mondo. I bambini dovrebbero andare a scuola, dovrebbero essere sicuri, dovrebbero vivere la loro vita. Qui i bambini vivono sotto le urla della polizia e il rimbombo degli spari. Vivono con la costante presenza dei soldati, con le continue notizie di martiri o di qualcuno ucciso di qua o di là. Israele rimanda un’immagine falsa di quello che siamo: siamo criminali e lottiamo per una mera questione di onore. La verità è che noi lottiamo per la dignità della nostra terra. Questa è la nostra terra da… Non ricordo quando, anche loro erano in Palestina da tanto tempo. All’inizio erano in gruppi, hanno iniziato ad ucciderci … non so molto della storia, ma se si fanno delle ricerche si viene a sapere cosa è davvero avvenuto. Noi non chiediamo niente di impossibile, vogliamo solo una vita sicura, vogliamo vivere. Prova a immaginare una persona normalmente può andare al mare. Se immagina come vive una famiglia di Daisha o in Palestina… Vivono tutti in una stanza: padre, madre e figli …

Qualche volta quando il tempo è brutto, piove nelle case. Le case non sono buone. Ci sono tante situazioni difficili qui. Vorrei aggiungere qualcosa. Nonostante viviamo tutti in questa situazione infernale noi studiamo, diventiamo dottori, ingegneri, artisti… Diamo speranza a tutti… Se incontri un Palestinese puoi vedere quanta voglia di vivere, di affrontare tutte le situazioni difficili ha… Abbiamo un diritto. E vogliamo esercitarlo. Speriamo che se questa generazione non conquisterà la libertà sarà la prossima, e se non la

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prossima quella dopo ancora. Perché è nostro diritto e lo pretendiamo. La libertà è un nostro diritto, non possiamo stare sotto occupazione per sempre. Guarda l’esperienza per esempio l’esperienza dell’Algeria, un milione di martiri e hanno ripreso la loro terra o altri esempi altrove. Tutte le persone che controllano il mondo parlano di pace, ma nessuno fa niente per realizzare la pace. Le persone lo sanno, i bambini lo sanno. Tra 10 o 20 anni tutto potrebbe cambiare e torneremo ancora a sorridere e vedremo il sole.


Baci di Dama, dietro le sbarre. L’emancipazione femminile a Gaza è un tema ancora critico a causa delle posizioni conservatrici di Hamas, partito al governo nella striscia. Porsi nella condizione di costruire con la popolazione di Gaza un percorso di scambio e integrazione reciproca significa riflettere sulle dinamiche che caratterizzano i contesti e le relazioni sociali. Un dato che purtroppo va sottolineato è il grosso limite che viene imposto alla socialità e che condiziona di fatto la mobilità culturale e la condivisione di esperienze ponendo un freno alla libertà personale. Come succede in

ogni società, che sia medioreintale o occidentale, sebbene in modi differenti, tale barriera si concretizza nella divisione dei ruoli e nella privazione di diritti per la donna. Nonostante ci siano nella Striscia esempi di associazioni e comitati che portano avanti un modello differente di intendere il ruolo della donna nella società creando posti di lavoro, dando la possibilità di studiare, assistendo le donne rimaste sole ecc.., rimane una forte repressione per coloro che decidono di adottare uno stile di vita diverso da quello imposto dalle istituzioni. Esempio vivente di questa oppressione, nell’oppressione, è il carcere femminile della Striscia, luogo di detenzione per quelle donne che hanno commesso “reati” di costume, come l’adulterio e il sesso prima del matrimonio. L’occasione di poter entrare in contatto con l’infernale struttura è stato un laboratorio di pasticceria. Lezione sui baci di dama, dei buonissimi biscottini 12

attaccati da uno strato di cioccalato il cui nome non può che aprire un varco di riflessione sull’arbitrarietà di definire reato la passione (quando femminile). The kiss of the lady, questa la traduzione ammiccante che si è trovata. Veniamo accolti in una delle quattro celle del carcere femminile di Gaza dalle lacrime di una giovane ragazza ventiduenne. Piange raccontandoci che non potrà sostenere il prossimo esame

Il carcere per queste donne rappresenta una forma di protezione per scampare al linciaggio dalle famiglie.


della facoltà di giornalismo in quanto priva di scorta. Il carcere femminile di Gaza ospita ventidue donne e tre bambini. Le cause principali di detenzione sono: adulterio, attività sessuali precedenti al matrimonio ed infine, anche se con una percentuale estremamente residua, l’utilizzo di sostanze stupefacenti. Purtroppo per le giovani donne che vivono nella magnifica e forte Palestina, aver commesso adulterio o atti sessuali al di fuori del matrimonio, può comportare reazioni molto forti da parte delle famiglie, specialmente da padri e fratelli. Vengono rinnegate violentemente rischiando anche la morte ed è qui che entra in gioco l’istituto penitenziario. Il carcere per queste donne rappresenta una forma di protezione per scampare al linciaggio dalle famiglie. Queste giovani donne palestinesi subiscono il regime carcerario senza avere alcuna colpevolezza. Questa situazione è figlia di un’inaccettabile mentalità che purtroppo, qui a Gaza, non si è ancora abbattuta definitivamente. All’interno del carcere vengono svolte diverse attività: una di queste ha l’obiettivo di garantire loro la libertà in sicurezza. Si cerca, attraverso la comunicazione con le famiglie di portare ad un cambiamento nel proprio pensiero e nella mentalità che li spinga a riaccogliere la figlia in casa. Vengono poi effettuati diversi laboratori manuali, quali: punto croce, cucina, uncinetto e creazioni di borse e quadri. Gli oggetti creati dai laboratori vengono poi venduti per permettere alle donne di procurarsi indipendenza economica e per potersi garantire un’autonomia. Come già affermato, siamo riusciti ad entrare all’interno del carcere con un’obiettivo per il laboratorio di pasticceria: la creazione dei baci di dama. Scelta effettuata con un cenno di tono provocatorio. Le quattro giovani ragazze, oltre ad aiutare la creazione dei

biscotti, scrivono scrupolosamente su alcuni fogli l’intera ricetta. Nonostante la reticenza iniziale, data anche dall’atteggiamento delle secondine, piano piano l’atmosfera si è riscaldata e si è creata una complicità dal profumo di mandorle tritate e cioccolato fuso. Abbiamo preso visione dell’inaccettabile situazione vissuta da queste donne, riuscendo ad entrare direttamente nelle celle per parlare con loro. La struttura fatiscente del carcere ospita al terzo piano quattro celle in un piccolo e stretto corridoio. Le donne ci hanno accolto inizialmente con la stessa diffidenza, che dopo poco tempo ha lasciato spazio a brevi racconti di vita: una giovane donna ci mostra i suoi articoli di giornale, altre i propri meravigliosi lavori fatti ad uncinetto e punto croce. In una cella vi sono anche tre piccoli bambini che timidamente si avvicinano e ci battono il cinque. Sono i figli di una di loro anch’essi costretti a vivere all’interno delle mura del carcere perché non riconosciuti dalle famiglie. Dal carcere femminile di Gaza siamo usciti, oltre che con un dolore dilagante, con due parole nella testa e nel cuore: autodeterminazione e libertà. Parole tra l’altro suggerite dalle stesse donne palestinesi, dai loro racconti, dalle

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loro vite e dal loro atteggiamento con cui affrontano giorno dopo giorno la devastante situazione di prigionia. A fronte di tutto questo sappiamo di certo che non ci fermeremo solamene a questo articolo e non ci fermeremo solamente a questa unica e singola visita. Continueremo a tenere i contatti con chi si impegna quotidianamente per aiutare queste giovani donne e i loro figli ad uscire da questa situazione di ingiustizia, continueremo ad interrogarci su come attraverso lo scambio e l’integrazione tra popoli e culture sia possibile modificare contesti e relazioni, e per farlo, continueremo a tornare a Gaza e a sostenere una lotta importante, quella per libertà e l’autodeterminazione. Laboratorio di pasticceria con ragazze detenute (Gennaio 2016). Foto: Associazione Randa


Hebron, dove l’apartheid è quotidianità I palestinesi che vivono nei Territori occupati subiscono il controllo militare delle autorità israeliane che ne limitano gli spostamenti e gli spazi di vita, lasciando impuniti i soprusi dei Coloni.

Nella strada principale verso Hebron, fiumi di macchine si riversano in direzione delle diverse cittadine. Uno scenario familiare, la quotidianità frenetica tipica di un qualsiasi giorno lavorativo. Qualcosa di singolare c’è però. Le auto che ci sfrecciano davanti

non sono tutte uguali: targhe verdi e targhe gialle. Le prime, dei palestinesi, possono viaggiare solo in alcune tratte prestabilite; le seconde, israeliane, hanno il diritto di percorrere tutte le strade. Arrivando a Hebron, questa discriminazione si percepisce chiaramente. La città è stupenda. Case di pietra bianca arroccate lungo le colline si aprono a valle per ospitare un enorme mercato colorato: i vestiti, le calze, le tute di pile per l’arrivo della neve; ma anche i dolci, i felafel, gli schawarma, la frutta bellissima e la verdura fresca, il formaggio di capra. Ci sono anche i gioielli, i souvenir, gli oggetti d’uso quotidiano. Passeggiamo incantati. In questo mare variopinto, alzando lo sguardo, vediamo delle grate, e, al di là di esse, un soldato israeliano con il mitra in mano. Giovanissimo e un sorriso di sfida. Cerchiamo di non considerarlo, ma le grate, quelle sono impossibili 14

Puntano le armi, ma non sono li per noi ma per M. un amico di Betlemme che ci accompagna. I palestinesi non possono andare dove vogliono.


da non notare. Ci viene detto che i palestinesi le hanno messe per evitare che gli piovesse addosso la spazzatura gettata in basso dai coloni, con il risultato che il mercato assomiglia ad un’enorme gabbia che si allunga fino alle abitazioni. Veniamo invitati ad entrare in una di esse. Tre bambini ci portano nella loro casa, dimezzata a causa degli espropri perpetrati dai coloni. Vivono in poche stanze, ammassati. Ci portano sul tetto, non sempre ci possono salire. Poco tempo fa, per esempio, dal balcone a fianco una famiglia di coloni ha sparato sul loro balcone per forare la cisterna dell’acqua calda. Essere palestinese in Cisgiordania significa anche questo. Lasciamo la casa e continuiamo il viaggio verso quella che viene chiamata ‘città fantasma’. E’ la parte di Hebron che anni fa è stata sgomberata ed espropriata a centinaia di famiglie palestinesi. Oggi alcuni stanno tornando ad abitarci, nella speranza di non essere costretti ad abbandonarla nuovamente. Decidiamo di addentrarci in una casa: lo sfacelo è ovunque. Dal tetto vediamo che metà degli edifici sono bruciati. Mentre riprendiamo il paesaggio attorno a noi quattro giovani con il mitra in mano ci vengono incontro. Sono soldati israeliani. Puntano le armi, ma non sono li per noi ma per M. un amico di Betlemme che ci accompagna. I palestinesi non possono andare dove vogliono. Si accertano che lui non sia l’ex proprietario della dimora, ci intimano di andarcene. Lui non può stare lì. Un ritornello che ci sentiamo ripetere altre volte durante l’esplorazione della città. Noi europei possiamo passare. Lui, palestinese, no. Questa costrizione ci segue nei diversi check point che dobbiamo attraversare. Ovunque i soldati controllano, scrutano, limitano. Eppure è una città così bella… Facciamo un po’ di shopping in barba

a chi ci vorrebbe togliere l’allegria. Andiamo poi a mangiare in un posto che il nostro compagno di gita ci consiglia e con le pance piene di buon riso e pollo, ritorniamo comunque di buon umore all’Ibdaa center, tra targhe gialle e verdi.

Foto: Associazione Randa

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Dentro la Striscia (ovvero nuove narrazioni di/da un luogo inaccessibile)

Progetti per raccontare un territorio guardando dentro e oltre. Due anni di attività con la collaborazione di molte di quelle associazioni, istituzioni, gruppi che a Gaza ogni giorno si oppongono alla repressione, alla censura e all’isolamento presidiando la dimesione della socialità e della libera espressione.

A seguito di un lavoro in buona parte introspettivo, che ha caratterizzato la prima parte del progetto ed è culminato con lo spettacolo di mimo e la mostra fotografica alla ricerca dell’identità, i laboratori proposti per questa seconda fase del progetto di scambio e formazione hanno continuato il percorso focalizzando si però sull’aspetto pratico e interattivo, non solo di confronto all’interno del gruppo ma di proiezione di sé stessi nella realtà circostante. La formazione si è concentrata sulla stimolazione della capacità di proiezione della realtà al di fuori degli schemi imposti, in questo caso la guerra e il periodo post bellico. Partendo dall’idea della rinascita di Gaza e della possibilità di reinventare l’immaginario ad essa legato, bambini ed educatori hanno messo a fuoco la città desiderata.

L’incontro con i ragazzi delle Università di Al Aqsa e Univesity of Palestine ha dato vita ad un percorso di storytelling attraverso la fotografia, il video e lo sviluppo di una APP per la mappatura partecipata del territorio. L’autonarrazione diventa così strumento di divulgazione di informazioni all’esterno: un ponte tra dentro e fuori. Con i centri educativi è invece iniziato un percorso di narrazione intima e individuale che fa emergere i desideri e i sogni delle giovani generazioni gazawe.

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Gaza Stories: l’abitare quotidiano al tempo dell’assedio Una applicazione per smartphone di interpretazione territoriale redatta dagli abitanti. Uno strumento per uscire dai confini e dalle retoriche. Con Gaza Stories abbiamo deciso di correre una sfida, creare in 10 giorni un’applicazione per smartphone che raccontasse la quotidianità di un territorio conteso. Questa guida nasce nel gennaio 2016 nell’ambito della seconda edizione del festival ‘Training and Exchange Italy-Gaza' promosso dal Centro Italiano di Scambio Culturale

‘VIK’ in collaborazione con numerose associazioni, enti e istituzioni della striscia di Gaza. Gaza Stories è un progetto realizzato grazie all'impegno di molti studenti, amici e abitanti di Gaza che hanno condiviso con noi un po' della loro quotidianità, dei loro pensieri e desideri. Questi piccoli frammenti insieme (ri) costruiscono una nuova narrazione della vita di tutti i giorni nella Striscia. Un cambio di prospettiva su un territorio schiacciato tra ideologie e poteri che nasce dal riconoscimento del valore culturale e sociale delle pratiche quotidiane. Gaza Stories è una mappa interattiva che racconta i luoghi attraverso immagini e parole basandosi sulla tecnologia messa a disposizione dalla start-up Jeco Guides, che offre l’opportunità di essere autori di guide multimediali per smartphone. Ogni luogo sulla mappa è un viaggio nella storia di vita di chi abita quel luogo, dei suoi sentimenti, sogni e aspirazioni. Questa 'guida' si propone così di costruire una nuova rappresentazione del territorio 18

di Gaza e della sua vita politica, culturale e sociale a partire dal punto di vista degli abitanti con i loro saperi, esperienze e competenze. Dare voce alle attività di tutti i giorni, parlando della vita e della vitalità delle persone, è uno strumento per superare la rappresentazione stigmatizzante e univoca di sofferenza e distruzione costruita dai

Ogni luogo sulla mappa è un viaggio nella storia di vita di chi abita quel luogo e come, dei suoi sentimenti, sogni e aspirazioni.


media di tutto il mondo. Una retorica distruttiva che non immagina futuro per la Striscia. La popolazione di Gaza, come autore collettivo, si riappropria così del proprio racconto per mostrare al mondo, e a sé, la ricchezza delle proprie pratiche di vita quotidiana, delle azioni di resilienza quotidiana, resistenza silenziosa e tenace di un popolo intero. Una narrazione così costruita si oppone alla semplificazione, aprendo una finestra di intimità e individualità, in cui le voci nascoste non si perdono tra le milioni di immagini di macerie e di vittime, che pur pesano sul territorio e sulla quotidianità di Gaza. Questo esperimento di storytelling dà alle nuove generazioni l'opportunità di ripensare a come descrivere la propria vita e il paese in cui vivono. Un'azione concreta di affermazione di esistenza che può parlare più forte della violenza e dell’oppressione. Un modo possibile 'restare umani'. Da questa guida emerge la storia collettiva di una comunità fatta di attività quotidiane, pratiche spontanee, socialità e tradizioni che sono le azioni più pure e semplici di resilienza e di resistenza alla condizione politica della Palestina e della Striscia. Questa guida è stata coprodotta dagli studenti della Facoltà di Media e Comunicazione delle università di Al Aqsa e University of Palestine. E’ un lavoro work in progress e l'aggiornamento avverrà secondo le loro preferenze. Da febbraio 2016 cerca su Apple Store e Play Store “Gaza Stories”, oggi in preview scaricando l’applicazione Jeco Guides. Questa guida è un progetto di Associazione Randa e Dynamoscopio in collaborazione con Centro di Scambio Culturale - VIK con il supprto di Jeco Guides . Le foto in queste pagine sono state scattate durante il workshop pratico di fotografia nel quartiere di Zhanna (confine est) luogo delle incursioni israeliane del 2014 dell’operazione denominata “Margine Protettivo”. Da sinistra in senso orario, foto di: Abed Masri (University of Palestine); Bahaa Zidan (University of Palestine); Hammad (University of Palestine); Kahled Alshekh (University of Palestine).

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Gazoom. I corsi di media e comunicazione sono occasioni importanti per comprendere la quotidianità dei ragazzi gazawi e confrontarsi con loro su temi difficili come la guerra ma anche la politica e la religione. E’ il secondo anno che realizziamo laboratori di linguaggio video nelle università della Striscia, un progetto che è nato proprio dalla loro volontà quando qualche anno prima eravamo venuti a realizzare un documentario sulla vita quotidiana di Gaza. Gli stereotipi delle immagini che riceviamo in occidente sulla vita a Gaza sono sempre gli stessi: le donne e i bambini che piangono tra le macerie dei bombardamenti e i militanti di

Hamas in parate militari sempre pronti a combattere. Non che queste realtà non esistano, ma non corrispondono al vissuto quotidiano di tutti. Solo le macerie e l’assedio rimangono una costante per tutti, con atteggiamenti e forme diverse. In un contesto così complicato, quello che facciamo durante questo corso è insegnare la grammatica video: come raccontare le storie di tutti i giorni attraverso un formato appropriato, che sia un reportage, una fiction o un video-clip. Quali inquadrature usare, che durata e stile dargli. Il tempo a disposizione è sempre troppo poco e gli imprevisti non mancano mai: gli spostamenti, le traduzioni, le differenze culturali generano spesso imprevisti e situazioni delicate da affrontare. Anche sul lato pratico: l’elettricità non è sempre presente, internet non ne parliamo. Anche la pioggia, nonostante sia acqua potabile (altro bene primario che scarseggia), dopo lunghi acquazzoni genera disagi, perché non ci sono 20

Se non riusciremo a portare a termine il tutto non sarà un problema: non signif ica fare un f ilm ma confrontarsi su più temi come l’assedio, la politica, la religione.


impianti fognari. Temi, argomenti, storie da raccontare. Certo difficili da sviluppare in pochi giorni e con così tanti intralci dietro l’angolo. In queste situazioni è difficile sentirsi insegnante: davanti a tanta calma e fermezza, mi è spesso venuto da chiedermi che senso potesse avere quello che stavamo facendo. La risposta me l’hanno data gli studenti con la loro voglia di imparare a realizzare un video, a raccontare per immagini le loro storie, alcune impraticabili, altre incomplete. L’importante è sempre stato non fermarsi. Guardare insieme i loro video capendo gli errori di regia, è un modo per entrare nella dimensione quotidiana della loro vita, cosa vorrebbero raccontare e come possono fare. Ci vogliono sempre due giorni per insegnare le tecniche di sceneggiatura e di regia. Poi bisogna trovare una storia, assicurarsi che vada bene a tutti, che sia praticabile e realizzabile in poco tempo (un giorno). Passare alla fase di postproduzione - anche questa collettiva - e finalizzare il tutto in modo che il prodotto sia pronto per l’evento finale. Se non riusciremo a portare a termine il tutto, non sarà un problema: il più deluso dal fallimento della missione sarò sempre io, che ci tengo a portare a termine il video. In realtà la cosa più importante per tutti loro è non fermarsi, fare le cose. Insegnare, imparare, conoscersi, rendere lo scambio tra le nostre culture attivo: ogni parte del processo non è solo la realizzazione di un film ma un’occasione per confrontarsi su più temi come l’assedio, la politica, la religione. Il 3 gennaio siamo qui, e la tv ha diffuso un video in cui si vede il soldato Israeliano Shalit durante i tempi della prigionia farsi un barbecue sulla spiaggia, mentre per anni Israele aveva accusato le autorità della striscia di averlo torturato se non ucciso. E’ il video più visto da tutti i palestinesi e argomento di discussione per la

maggiorparte del mondo arabo, ma da noi non ne parlerà nessuno: sembra che di questa vicenda ci dovrà rimanere solo il ricordo delle accuse di Israele. Degli oltre 5000 palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, si conoscono le pessime condizioni igienico sanitarie, le violazioni psico-fisiche e le negazioni umanitarie a cui sono sottoposti, ma tutto ciò non appare mai nei media mainstream. La Palestina (che i nostri media chiamano solo Israele) fa notizia solo quando un palestinese aggredisce un militare o un civile israeliano. Della quotidianità fatta di un continuo assedio militare da parte di uno stato di colonie illegali non ne sentiamo mai parlare. Gaza viene nominata solo durante i bombardamenti come una guerra tra un popolo di terroristi contro Israele: da oltre due anni stanno aspettando i materiali per la ricostruzione di case, strade, impianti fognari, le strutture primarie per poter rinascere. Ogni piano di riconoscimento da parte della comunità internazionale, viene ciclicamente interrotto da nuovi conflitti che inaspriscono i rapporti e devastano la società. Il video del 2014 ha partecipato a un festival di cortometraggi di Al Jazeera ed ha girato per diverse televisioni del mondo arabo. Sarebbe bello se gli stessi autori potessero seguire i video in giro per i festival e uscire dalla striscia. Ma le persone hanno meno libertà di movimento delle immagini. Il controllo delle loro vite dipende da chi li assedia e li bombarda. Come chi controlla il flusso delle informazioni delle nostre vite, ha il controllo di cio' che possiamo o non possiamo fare. Oggi solo a pensare di boicottare Israele economicamente si viene bollati come antisemiti. Il video di quest’anno a vederlo sembra una cosa semplice e banale: è la storia di una ragazza che vede dei ragazzi andare sul lungomare con i pattini in linea e chiede a uno di loro se glieli può prestare 21

per poter imparare ad andarci lei. In sala durante la scena dello scambio dei pattini tra i due personaggi c’è stato un po’ di fragore: per una ragazza a Gaza andare sui pattini non è una cosa ben accetta e a fine proiezione quando la ragazza inizia a pattinare per la strada c’e’ stato un applauso. Il tema è stato scelto dagli studenti, una ragazza nello specifico, ed è stato un lavoro di squadra. Nonostante l’assedio militare, economico e culturale che subiscono ogni giorno, hanno preferito sviluppare un tema di critica interna. Un ulteriore segno di autodeterminazione come popolo, cultura che resiste e lotta su diversi fronti interni. La guerra c’è sempre nel contesto in cui ci si è immersi ogni giorno. Il Confronto con essa è inevitabile. Chiamarla guerra è improprio quando lo scontro è cosi’ impari e solo la presa di coscienza della realtà potrà portare un senso di giustizia ai continui genocidi che la comunità internazionale finge di non vedere. Lezione di videomaking all’Università di Al Aqsa (Gennaio 2016) Foto: Associazione Randa


La città reale è la città possibile Dividi un foglio in otto parti e disegna la città che vorresti: è la città possibile. Bastano un foglio bianco e una matita e qualche traccia diventa immediatamente narrazione. I racconti dei ragazzi che vivono nella Striscia di Gaza, nella quotidianità delle strade che attraversano tutti i giorni, hanno delle linee comuni che li uniscono. Da una lato c’è il racconto di una città in stato di guerra permanente, lasciata sola, dall’altro quella di una città libera e colma di energie. La città soffocata nelle tracce di una ragazza assume la forma di una piscina: “La piscina è come il mondo

e i Palestinesi gli uomini che non sanno nuotare. Gli altri stanno a bordo piscina a prendere il sole oppure nuotano accanto a loro senza accorgersi della difficoltà”. Nei loro appunti il filo spinato circonda i disegni delle loro case, enormi muri sono accostati a volti tristi e gli aquiloni ai caccia degli Israeliani. “Noi qui diciamo “aerei del gioco” per dire aquiloni. Vorrei che in cielo ci fossero gli aerei del gioco senza che ci fossero gli aerei non del gioco”. Come i fuochi d’artificio: “Vorrei festeggiare un Capodanno in cui siamo noi a mandare in aria dei fuochi (che non fanno male a nessuno) e non il contrario, come al solito”. Nella loro città disegnata ci sono tantissime chiavi, perché nonostante i loro nonni o genitori ne conservino ancora la chiave, da vent’anni magari l’abitazione è stata loro sottratta dai coloni. Altre volte sono ritratte le macerie di quel che era il palazzo in cui abitavano o il ritratto della loro 22

Gli attraversamenti pedonali, i semafori, un porto, il treno. E più di ogni altra cosa un aeroporto da cui poter partire ed arrivare.


famiglia che dentro ci viveva: “La città che vorrei, ma che tanto non posso avere”. Dai disastri lasciati dall’ultima guerra del 2014, la ricostruzione è partita da poco perché c’è anche il problema legato al recupero della materia prima: mattoni, cemento, ferro, attrezzi che ovviamente non possono essere importati facilmente: non esistendo praticamente più nessuna frontiera aperta, è Israele a stabilire il passaggio dei materiali. Emerge però più forte una città che questi ragazzi e ragazze vorrebbero ed è una città dove l’elettricità è sempre presente e non quattro o sei ore al giorno, senza più gli incendi causati dalle candele che si è costretti a tenere a portata di mano. C’è chi disegna una centrale elettrica che sfrutta l’energia solare, perché l’altro segno ricorrente è quello di un luogo verde, dove l’aria è pulita e il cibo è sano. Non più di una settimana fa gli Israeliani hanno cosparso erbicidi su 15.000 metri quadrati della zona centrale, a quanto pare per agevolare le “operazioni di sicurezza”. Spesso la città che vorrebbero è qualcosa che chi vive la realtà italiana ha sempre dato per scontato: gli attraversamenti pedonali, i semafori, un porto da cui poter partire ed arrivare, il treno e più di ogni altra cosa, un aeroporto. Quello palestinese è stato bombardato durante la Seconda Intifada, dopo poco che era stato avviato. Nella loro città ideale, in ogni angolo ci sono librerie e scuole dove studiare musica, teatri e cinema. Il cinema di Gaza è chiuso da anni, e si spera in una riapertura. E poi ci sono tantissimi centri sportivi: campi da calcio, tennis e le donne che finalmente possono giocare a calcio. “Ho disegnato un pallone, disegnami una donna”. “Ok, con il velo?” “Ma no! Senza velo! Per giocare a calcio ce lo togliamo!”.

E’ in questa città che stiamo vivendo attraverso i loro dipinti, e sì, la chiamiamo “la città possibile”, perché è questo che la loro profonda dignità ci fa credere.

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Attività di formazione con educatori e bambini nei centri educativi di Deir el Balah (con associazione POD) e di Shejaya (con DFA). Foto Associazione Randa - Gennaio 2016.


Fragole, sangue...e diserbante A Gaza mancano tante cose: libertà di movimento, acqua, luce, strade, ma in strada, nei negozi di frutta è facile trovare le fragole. Israele lo sa bene e infatti per anni ne ha importate dalla Striscia per poi rivenderle a cinque volte tanto.

A Gaza mancano tante cose: libertà di movimento, acqua, luce, strade. Non mancano i falafel, l’humus, i taxi e anche le fragole: ce ne sono in abbondanza, costano molto poco e soprattutto sono molto buone. Certo, non si può fare un paragone: l’acqua

è un bene primario e la libertà è un diritto fondamentale. Ma anche le fragole sono un buon indicatore della condizione di controllo del territorio. Siamo in un campo di fragole vicino Beit Lahiya a Nord della Striscia, nella buffer zone, la zona cuscinetto. Ormai le terre più fertili e coltivabili rimaste sono quelle vicinissime al confine e questo rende sempre più complicato poterle coltivare o attraversare, come quotidianamente fanno i pastori con le loro greggi. Mohammed appartiene a una famiglia storica di coltivatori: “Per noi la coltivazione delle fragole è come un’arte, che in passato abbiamo anche insegnato agli Israeliani” - ci tiene a farci sapere. Racconta che fare questo lavoro nella Striscia richiede una certa dose di coraggio: è facile infatti essere sotto il tiro dei cecchini, che hanno già fatto tante vittime in passato: “ Su tanti pezzi di terra gli agricoltori non 24

possono lavorare. Gli Israeliani ci sparano dicendo che nei nostri campi sono nascosti i missili e quindi si vendicano su chi va a raccogliere”. A questo si aggiunge la scarsa reperibilità dell’acqua pulita, poiché la maggior parte di quella dolce disponibile viene deviata dagli Israeliani.

Le terre fertili sono quelle più vicine al confine ma è sempre più complicato poterle coltivare o attraversare, come fanno i pastori ogni giorno.


Durante l’ultima guerra sono stati danneggiati i sistemi di raccolta e di irrigazione: “Questa è una zona particolarmente arida in sé e quel poco che si ha gli Israeliani ce la prendono. Hanno colpito il serbatoio mischiando l’acqua sporca con l’acqua dolce. Adesso è inquinata. A Jabalia o Jigaia non possiamo far crescere le fragole perché non abbiamo acqua sufficiente. Tutta Gaza viene a prendere l’acqua che abbiamo perché sembra la più pulita ma non è più così”. Ai problemi quotidiani recentemente si è poi aggiunta una pratica già sperimentata nei momenti di maggior tensione del conflitto. L’esercito israeliano ha sorvolato con degli aerei agricoli le zone al confine spruzzando diserbanti e defloranti, rendendo così il terreno incoltivabile e velenoso. Questa operazione non è ha interessato solo le terre strettamente limitrofe al confine, ma, a causa anche del vento, i veleni si sono propagati per qualche kilometro raggiungendo i primi nuclei abitativi ed i loro campi. Chiedendo però a Mohammad se anche il suo campo fosse stato investito dall’operazione, lui ci risponde di no: “Queste fragole interessano a Israele”. Da sempre infatti importano a basso costo il prodotto per rivenderlo a prezzi ben più elevati. “Gli Israeliani comprano da noi a 6/7 shekel al kilogrammo e li vendono 25 shekel” (circa 6 euro). Se da una parte gli Israeliani con questa e altre operazioni “di sicurezza” limitano le risorse del popolo palestinese andando a deturpare l’ambiente e privandoli della possibilità di auto sostentamento, dall’altra parte continuano a costituire per la Striscia il principale partner commerciale da cui dipendere. Raccolta delle fragole nella zona Nord della Stricia di Gaza. In questa pagina in alto forto di Omar El Qattaa; altre foto Associazione Randa - Gennaio 2016. 25


Mimo e farfalle: immaginare la nuova Gaza. Un laboratorio teatrale di mimo e una mostra fotografica hanno aiutato educatori e ragazzi ad avere maggiore consapevolezza di se e dei propri sentimenti e desideri e superare il trauma della guerra. Il laboratorio - realizzato nell’inverno del 2015 - si proponeva di dare sostegno agli educatori e ai bambini durante il percorso che si trovano ad affrontare nel periodo di post-trauma, generato soprattutto dall’ultimo conflitto denominato“Margine Protettivo”. In questo processo, la base dello scambio culturale è stato il confronto

tra educatori e formatori rispetto alle metodologie da utilizzare, alle pratiche e alle competenze. Il laboratorio ha portato avanti due attività: il Mimo, accompagnato dall’attività di canto, e una mostra fotografica, risultato di un percorso di indagine identitaria. Il tema scelto con gli operatori è stato la metamorfosi di una farfalla come metafora della possibilità di rinascita di una zona colpita. Nella preparazione, diverse sono state proposte sdiverse attività: giochi che aiutassero i bambini ad orientarsi nello spazio, a calibrare le distanze rispetto ad ostacoli ed altri corpi in movimento, esercizi teatrali di base (gioco dello specchio, gioco dei mimi, mimo degli animali, campana con mimo da improvvisare per abituarsi al pubblico). Il tema è stato introdotto attraverso differenti fasi: Riflessioni sul ciclo di vita della farfalla; Disegno interpretativo del ciclo della metamorfosi; Riflessioni sul 26

parallelismo con Gaza; Costruzione della rappresentazione e divisione dei ruoli. Lo spettacolo è stato un esperimento riuscito sia dal punto di vista di successo del pubblico che della soddisfazione personale di ogni bambino cercando di immedesimarsi nei diversi contesti che Gaza potrebbe vivere. Dalla volontà dall’energia e dalla forza del popolo, nonché dalla fine dell’isolamento e dalla solidarietà, le persone credono fino in fondo nella realizzazione di un futuro migliore.

La metamorfosi di una farfalla come metafora della possibilità di rinascita di una zona colpita.


Grazie alla collaborazione tra noi e gli operatori di Gaza lo spettacolo si è tramutato in un’occasione per i bambini per affrontare la loro storia con la dignità che insegnano loro le famiglie, e con una consapevolezza che deriva solo dagli strumenti che hanno avuto a disposizione e che hanno elaborato durante le giornate del progetto. Il lavoro della mostra fotografica, invece, si è svolto attraverso un’indagine sulla propria identità e sul riconoscimento del “sé”attraverso “l’altro”. Per guidare i bambini in questo processo, sono state seguite diverse fasi in successione. La prima il ritratto dell’altro per esprimere il proprio “io”; La seconda l’esercizio dei tre soggetti: un soggetto che dava loro felicità, uno che li rendeva tristi o arrabbiati, uno che gli faceva paura. Una volta disegnati, le stesse copie di bambini si sono scambiate i disegni per far conoscere alcuni aspetti di sé all’altro. La terza fase è stata invece quella della produzione fotografica: ogni bambino ha fotografato il compagno di lavoro esponendo il proprio ritratto. Guardando i disegni emergono elementi ricorrenti. Il colore giallo viene usato in modo moderato, indica un bambino intuitivo, che ama terminare quanto ha iniziato; tuttavia, se il colore giallo prevale è indice di un periodo di disagio e difficoltà. L’assenza di colore, invece, indica apatia di sentimenti e freddezza causati da un brutto periodo presente o passato recentemente. Molti volti di fatto non sono stati colorati: questo è un dato significativo da tenere presente per continuare a comprendere da vicino i bambini. Il nero è un colore negativo e rappresenta il buio nato da un momento di disagio. Il blu e il marrone sono invece colori positivi: il blu è la ricerca della serenità e di un ambiente rassicurante e affettuoso, il marrone significa che il bambino si

sente bene ed a proprio agio. La condivisione di una parte del percorso che deve guidare i bambini da un periodo di trauma, passando per quello di post trauma, fino alla capacità di rielaborazione del vissuto. Noi, come operatori italiani in questo scambio culturale, siamo arrivati esattamente nel pieno del periodo di post trauma. Questo ha comportato un tipo di discussione che è andata ad analizzare maggiormente le strategie da mettere in comune per generare quello slancio importante per tutto il periodo successivo alla nostra venuta. Dopo una prima grande assemblea di presentazioni e presentazioni dei propri progetti, insieme sono state scelte le attività cardine per la conduzione del progetto: arti circensi, mimo, mostra fotografica. Tali attività cardine sarebbero state intervallate da altre di carattere ludico-didattico. Senza dubbio lo scambio di competenze e di reciproco insegnamento di attività è stato un pian di lavoro su cui ci si è mossi con una certa agilità e confidenza. Nell’organizzazione del lavoro si sono invece riscontrate alcune difficoltà, sia in relazione a livello delle tempistiche, sia nell’organizzazione della singola giornata, che spesso perdeva la visione

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d’insieme anche rispetto ai laboratori da portare a termine. Molto importante ed interessante è la spiegazione di ogni attività che si propone ai bambini: l’attribuzione di significato e l’elemento delle analisi delle proprie azioni è fattore educativo fondante, un aspetto che nella nostra didattica per molto tempo è andato perso. Rispetto alla relazione tra operatori e bambini, gli operatori sono attenti alle esigenze e sensibilità di ciascun bambino, curando aspetti relativi al carattere ed alla personalità e cercando di rispondere a ciascuna esigenza. Abbiamo comunque riscontrato posizioni divergenti circa lo spazio di libera iniziativa che un bambino deve attraversare anche dentro un’attività impostata. Se l’operatore si pone al centro questo spazio viene schiacciato, limitato e può compromettere la libertà di espressione nell’agire. Tuttavia, bisogna ammettere che questo non avveniva in modo esagerato o continuo e la libertà non era più di tanto compromessa. La collaborazione e la reciproca ospitalità han reso il lavoro di quei giorni un’ottima premessa per confermare la continuazione di questa relazione.


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Gaza Underground (ovvero contaminazioni dal mondo)

La cultura street a Gaza è uno dei tanti modi che i giovani hanno per liberare tempo ed energie dalla situazione in cui vivono. Allenare il corpo e la mente a resistere trovano ogni giorno stimoli e sfide nuove, nonostante il tutto intorno. Nascono così le scuole di Parkour, i gruppi di skaters, i ballerini di breakdance, gli street artist. Il supporto che si può dare a queste culture sono occasioni di confronto, nuova linfa per imparare e sperimentarsi. Con la speranza che un giorno li ritroveremo nelle nostre strade.

Le attività del progetto hanno riguardato tre diverse discipline: il writing, lo skateborarding e il parkour. La prima attività è stata sviluppata in continuità nei due cicli del festival, accompagnando le altre attività in sinergia con l’obiettivo di trasformare attraverso il colore e le pratiche sportive alcuni luoghi al fine di identificarli come elementi di ricostruzione del tessuto sociale, ridisegnando il territorio secondo gli occhi della popolazione locale e trasformare lo spazio in un messaggio di libertà e giustizia.

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Le ragazze e il Parkour. Un diario di cinque giorni di allenamento e chiacchiere con le ragazze di Gaza.

29 dicembre 2014 La presenza di una donna (Betta) praticante di parkour all'interno della delegazione italiana fin dal primo momento ha suscitato interesse nei media. Già durante il primo allenamento, infatti, una televisione locale e la televisione di Al Jazeera si sono presentate all'allenamento per documentare non solo il lavoro della cooperazione italiana ma anche la presenza dell'unica donna che abbia mai praticato parkour nella striscia di Gaza. È la stessa giornalista a

dichiarare ed enfatizzare l'importanza e l'eccezionalità della pratica da parte di una ragazza in una disciplina considerata esclusivamente maschile e la novità di un allenamento misto. Il primo allenamento si svolge nella palestra di Jabalia, voluta da Muhammad (3run gaza). I giovani e numerosi praticanti sono increduli: mantengono le distanze e c’è del vistoso imbarazzo ma nessun problema. 30 dicembre 2014 Il secondo giorno ci si allena nella grande piazza pubblica del quartiere periferico di Sheik Zaied. Qui la presenza di una donna nel gruppo si rivela di difficilissima gestione. Quando i praticanti cominciano ad allenarsi, molte persone si radunano intorno alla ragazza commentandola al punto che uno dei praticanti gazawi le chiede fermamente di smettere subito. Spiega che il suo obiettivo è quello di proteggerla dagli evidenti e irrispettosi commenti. 30

Quando siamo tra di noi guardiamo il video della zumba, una danza che ci piace moltissimo. Ci piacerebbe poter andare in giro in canottiera come queste ballerine.


31 dicembre 2014 Il terzo giorno ci alleniamo presso l'università di Al Aqsa, a Khan Younis. Siamo attenti alle reazioni a causa di quanto accaduto il giorno prima ma ci accorgiamo subito di quanto il contesto universitario sia differente. E proprio in università ha luogo un breve momento di allenamento misto. Al solito gruppo di praticanti si sono aggiunte infatti una ventina di ragazze che e insieme (o meglio, un cerchio di donne e uno di uomini) si sono riscaldati. Gli spalti erano gremiti di ragazze entusiaste e stupite, che incitavano il gruppo e facevano foto. Il gruppo femminile ha poi continuato ad allenarsi autonomamente seguendo l’istruttrice italiana. Un episodio che, per quanto isolato, può essere letto come l'inizio di un percorso. 1 gennaio 2014 Al quarto giorno di allenamento si percepisce un’evoluzione del rapporto tra la ragazza e i praticanti gazawi. Tanti ragazzi infatti hanno rispetto e simpatia e non mancano gli scontroi diretti e le ammonizioni verso i più arroganti. I valori quali l'importanza del gruppo, la condivisione e il rispetto del compagno trasmessi dai coach ai praticanti si sono estesi anche nel rapporto con l’istruttrice ora considerata a tutti gli effetti parte del gruppo: incitata, ascoltata, supportata. Durante l’allenamento nella piazzetta pubblica del quartiere di Khan Younis abbiamo l'impressione che il gruppo si senta più rilassato ed è forse proprio questo a far sì che, nonostante le nostre paure, la brutta situazione vissuta nella piazza di Sheik Zaied non si ripeta. Il pubblico maschile sembra più rispettoso e meno invadente, anche grazie ai praticanti locali che sembrano aver elaborato strumenti di difesa: consigliando agli uomini di guardare

da lontano che si vede meglio, di non moltissimo. Ci piacerebbe poter andare commentare perché distraggono ma di in giro in canottiera come queste ballerine." applaudire. 2 gennaio 2014 Il penultimo giorno organizziamo un allenamento nella piazza centrale di Gaza City. A causa dell'infortunio di uno dei coaches italiani anche la praticante decide di fare da assistente. I ragazzi accettano i consigli dalla ragazza, oltre al fatto che sia lei a scandire i tempi di alcuni esercizi e di valutarne la correttezza. È una mossa che il primo giorno di allenamento sarebbe stata impossibile! I passanti osservano con ironia la situazione ma i praticanti continuano.

"Nessuna di noi è sposata, altrimenti non saremmo qui a studiare. A Gaza appena ti sposi perdi la tua libertà. E vivi tra le mura di casa." "Ti posso mettere il mio velo?" "Perché? " "Vogliamo capire se sei bella o no, con i capelli non capiamo."

Betta: "Sono rimasta affascinata dai grandi passi fatti in solo 5 giorni. La popolazione mi è sembrata profondamente consapevole e ricettiva, oltre che ironica. Come del resto è il popolo di Gaza che ho conosciuto: 3 gennaio 2015 Osserviamo i ragazzi esibirsi nel loro ha voglia di libertà, di progresso, di show il giorno dell'evento finale, guardare oltre al muro." chiedendoci quanto abbiamo trasmesso loro, osservando quanto l'idea di "le donne, che hanno subito anche le parkour possa essere male interpretata restrizioni di Hamas, mi sono sembrate da chi impara da autodidatta, ma coraggiose, aperte e dignitose. Credo anche quanto il parkour possa essere che che si possa pensare ad un percorso facilmente identificabile come di parkour al femminile, dove lo sport metafora di libertà e voglia di volare.. diventa strumento di libertà e di rivendicazione." oltre l'assedio. Alcune delle voci femminili che ci hanno accompagnato: Rewa: "una donna che cammina per strada insieme a degli uomini è considerata a tutti gli effetti una prostituta." Durante la cena di capodanno: "Tutte le donne intorno a noi dentro di loro desiderano ballare, ma da quando c'è Hamas non possiamo più farlo." "Non mi pace il velo, ma devo metterlo." Le donne dell'università: "quando siamo tra di noi guardiamo il video della zumba, una danza che ci piace 31

Foto: Associazione Randa (Gennaio 2015)


Street art: i colori della libertà Spray e pennelli per un progetto di arte sui muri di Gaza che hanno visto la partecipazione attiva di decine di ragazzi e ragazze. L’obbiettivo: formare all

Siamo partiti con 300 spray e 100 pennarelli. Siamo arrivati con 60 spray. Purtroppo le nuove norme sulla sicurezza ci hanno bloccato tutto il materiale, a differenza dell’anno scorso. Quest’anno abbiamo deciso di iniziare i workshop direttamente in strada, davanti ad un muro da dipingere.

Le ragazze e i ragazzi dello scorso anno c’erano quasi tutti. Siamo in due. Ci aiutano i writers di “Gaza Graffiti”, che da un anno a questa parte si sono davvero impegnati: i muri di Gaza parlano un sacco. Partire dalla strada quindi. Nessuna lezione frontale. E’ stata una scelta. Con noi hanno dipinto in tanti, ragazzi e ragazze diversi ogni giorno. Non avevamo una “classe” come l’anno passato: i più curiosi si fermavano e dipingevano con noi e magari tornavano il giorno dopo. Abbiamo realizzato un murales per gli scout, uno per il centro sportivo Gazacity, uno per il centro di Tofa e un altro a Beit Hannun presso l’Associazione Tekreet. “Stop occupation, Free Palestine”. E’ scritto davanti al Parlamento di Gaza. Il writing e i murales che abbiamo realizzato sono stati uno strumento di dialogo e di confronto. A Gaza i dipinti sui muri rappresentano 32

Partire dalla strada quindi. Nessuna lezione frontale. E’ stata una scelta.


spesso scenari di guerra o esaltazione militare. Discutendo con i ragazzi e le ragazze, abbiamo cercato di ribaltare il senso: uno scenario di guerra e distruzione diventa un messaggio di speranza, grazie al colore.

Foto: Associazione Randa (Gennaio 2015 e 2016)

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Skate for Freedom

Abbiamo deciso quindi di fare qualche nuova crew. Tofah è una zona molto domanda alla crew di Avoid per povera. L’anno scorso è stata sommersa condividere con loro quest’esperienza. dall’alluvione. Il centro sportivo non ha una scena di ragazzi … ma alla fine Partiamo dall’inizio: Avete scelto di l’obiettivo è stato centrato. E’ nata una provare a costruire una rampa a Gaza. nuova crew. Avoid Design progetta e Mancano le case e voi costruite una realizza con i ragazzi del Quali sport da rampa ci sono nella quartiere di Tofah una rampa rampa. Perché? La costruzione di una rampa ha un Striscia? Lo skate è diffuso? da skate con l’obiettivo di senso sociale forte a Gaza. Non ci sono A gaza ci sono crew di Inline Skaters gettare il seme di una nuova solo case distrutte … anche il senso (rollerblade), l’unica rampa che c’è è crew in grado di sviluppare della socialità è stato compromesso: ulteriormente il progetto. la ricostruzione sociale deve passare attraverso dei luoghi di incontro attraversabili da tutti e tutte e le parole d’ordine per noi sono fratellanza e Nella seconda edizione del Festival agonismo. abbiamo deciso di chiedere a Avoid Design di fare un workshop di Chi e cosa avete trovato? Come è costruzione di rampe. avvenuta la scelta della location? Quale Nella Striscia di Gaza è molto difficile metodo di lavoro avete utilizzato? costruire delle rampe solide per Abbiamo incontrato i Pk e i 3Run, mancanza di materiali. due crew consolidate. Avevamo una Lo skate è uno sport praticamente terza scelta, il “Tofah”. Abbiamo deciso sconosciuto, la scommessa è quella di di scommettere su questo luogo per farlo fiorire. una scelta collettiva: far nascere una

Tofah. Abbiamo deciso di scommettere su questo luogo per una scelta collettiva: far nascere una nuova crew

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quella costruita da noi con i gazawi. A Kanyunhis c’è una rampa, ma è distrutta. Sappiamo che due anni fa sono arrivati un paio di skateboard. Ma poi la rampa si è rotta. Non ci sono negozi di skate o rollerblade. Quello che c’è è arrivato da fuori. Il Parkour qui va forte perché il territorio è adatto… in più la distruzione portata dall’ultima guerra è stata paradossalmente una buona palestra in questo senso. Avevate obiettivi per il lavoro di gruppo? Si. Avevamo tre obiettivi: responsabilizzare i ragazzi rispetto alla cura della rampa; rendere questo progetto riproducibile; creare uno spazio nuovo per tutti.

un giorno sono arrivati dei poliziotti che ci hanno chiaramente detto che la ragazza non poteva lavorare con noi e che non era permesso ascoltare della musica. E’ vero che ci sono delle diversità culturali dettate anche da un differente approccio con la religione, ma questo viene estremizzato a causa delle regole date dal governo locale. Prospettive per il futuro? Sicuramente che le rampe crescano come funghi. Continueremo a finanziare i progetti … Abbiamo trovato dei partner che possono mandare gli skate e sostegno economico per una

Qualcosa che vi ha stupito? Sicuramente la gran voglia che avevano tutti di imparare… il grande interesse. Abbiamo persino dovuto fare una selezione tra i ragazzi per ultimare i lavori… erano tantissimi e non si riusciva in un numero così elevato a lavorare. Non ci aspettavamo sarebbe stato un progetto così importante. Ci ha regalato forti emozioni, sia a noi che a loro. Crediamo che questo sia l’essenza dello scambio. Aspetti negativi? Certo, abbiamo avuto mille problemi per il fatto che a Gaza manca l’elettricità per la maggior parte della giornata. Nell’ultima guerra è stata distrutta la centrale elettrica. Non possiamo nascondere che un’altra difficoltà è stata di fatto la mentalità che vogliono imporre le istituzioni locali. Per fare degli esempi, con noi lavorava anche una ragazza di noi e chiaramente ascoltavamo la musica per lavorare. Ci ha colpito il grande rispetto che portavano per la ragazza, un rispetto non dettato da logiche di protezione della donna, quanto dalla vera e propria attenzione per quanto diceva e per quello che. Tornando alla mentalità, 35

nuova rampa che devono costruire loro. Vogliamo ritornare con le nuove tavole o ad Aprile o massimo quest’estate. Lo skate è un pensiero per la Palestina. Lo skate è uno sport che non deve avere barriere: non c’è etnia, non c’è lingua, non c’è cultura o colore di pelle che possa dividere la passione per lo skate. Il fatto è che ci sono dei ragazzi che non possono nemmeno comprarlo, non possono sceglierlo, perché di fatto vivono in una prigione a cielo aperto, è inimmaginabile. Agli skaters israeliani vorremmo dire di pensare a come vive uno skater a Gaza.


Appunti di viaggio C U Impressioni, pensieri e note dai partecipanti alla prima e seconda carovana.

n salto in una realtà altra di cui porto dentro di me, vivissime, immagini, sensazioni ed emozioni. Ma è soprattutto l’umanità e la voglia di vivere delle persone che più ha scosso la mia sensibilità, per sempre. Straordinari, sorprendenti gli studenti con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Non dimenticherò mai le ragazze, le loro teste coperte dal velo, ostacolate nei movimenti dai lunghi eleganti tradizionali vestiti islamici, impegnarsi con determinazione a sradicare e sollevare dal terreno ferraglia, pezzi di lamiera arrugginiti, oggetti in disuso dimenticati e corrermi incontro per comunicarmi con passione la forza delle loro idee, l’entusiasmo per le opere che da lì a poco avrebbero realizzato, come fossero la realizzazione dei progetti e dei sogni della loro vita. Mi sono commossa. Ho capito che la creatività, la fantasia dell’uomo può resistere ed opporsi anche alle peggiori violenze e tragedie. Anche contribuire alla trasformazione del presente. Franca Marini

redo di non ricordare quando il “mal di Palestina”sia nato in me … Un po’ strano usare quest’espressione, visto che in Palestina ancora non ci ero stata e visto che di solito si sente parlare di “mal di”quando si pensa all’Africa … ma tant’è..io ho sempre avuto il Mal di Palestina, e solo dopo 31 anni sono riuscita a capire davvero cosa significava. E’ nato tutto da una pulsione, quell’irrefrenabile tensione che ti guida con la mente laddove si subisce un’inqualificabile ingiustizia. Era maggio. Io e T. ne parlavamo da un po’. Io non ero mai andata, lui sì, almeno 5 volte. Così abbiamo iniziato ad organizzare un viaggio esplorativo: andiamo in Egitto, scopriamo le meraviglie del Sinai, vediamo che si può fare per entrare a Gaza da Rafah. Ancora non sapevamo che la truce politica colonialista israeliana avrebbe voluto mettere un’altra croce sulla vita dei Gazawi. Ancora non sapevamo di “margine protettivo” o meglio “margine mortale”, come lo chiamerei io. E successe. Inutile perdersi qui nel come e dove, e il perché va ricercato nella politica israeliana di Netanyahu e co., una gestione che non prevede non solo la presenza di uno stato palestinese, ma la stesso diritto all’esistenza del suo popolo. Margine protettivo puzzava (e puzza) di tentativo di annientamento di una realtà indipendente da Israele che per continuare ad affermare la propria autodeterminazione paga con 36

il dolore dell’isolamento). Successe ed esattamente una delle prima sera dall’inizio dei bombardamenti io e T. sentiamo M. via skype che ci racconta, per quanto possibile con pochissima elettricità, del massacro in corso. Ci rendiamo disponibili a fare qualsiasi cosa pur di dare un supporto. Mery dice che quello che servirebbe il prima possibile sarebbe l’organizzazione di un evento grosso da fare, perché è quello che i gazawi avrebbero voluto fare prima ed è quello che ci voleva per quella gente… M. ci parlava, mentre andava in giro con un camion a distribuire materassi e a raccogliere cadaveri. Dovete scusarmi, non ricordo perfettamente la successione degli eventi. Comunque, alla fine il viaggio in Sinai l’abbiamo fatto… ma di entrare a Gaza neanche la più misera possibilità. Ed è così che da settembre abbiamo iniziato a creare un gruppo che lavorasse non più solo ad un evento, ma ad una carovana, articolata in

è giunta l’ora di chiedersi che cosa davvero accada in quelle terre e di prendere posizione smettendola con le menzogne che li dipingono come due popoli in guerra a pari condizioni, dove invece una parte è tiranna con l’altra.


base alle competenze che si potevano portare, e declinata su 5 filoni: sostegno al percorso di operatori e bambini nel periodo post-trauma; ampliamento della comunicazione per rompere l’isolamento e testimoniare il presente ed il recente passato; il Parkour, perché a Gaza c’è una scuola di parkour scatenata e gasatissima; il writing, poiché la cultura del graffito e dello stile “street” trova terreno fertile tra i giovani e le giovani gazawi. Ogni settimana ci siamo incontrati per portare avanti un pezzo … Non ci siamo fermati davanti a niente: le prima difficoltà economiche, i primi che rinunciavano, non ci siamo arresi nemmeno quando ci han chiesto l’ennesima scansione dei documenti e non facevano arrivare i visti di alcuni … e comunque, chissà per quale ragione, una di noi non è stata ammessa. Che sfiga. Ad un certo punto, come per magia: incredibile! Biglietti? Fatti. Visti? Pronti. Permessi vari? Pronti. Zaini? (mamma mia siamo partiti con uno zaino a testa per portare un borsone ciascuno con un sacco di bombolette spray!). Pronti. Meno pronti sull’aeroporto di Tel Aviv in realtà! Non si sa mai che risali subito su un aereo per l’Italia perché qualcosa in te non piace ai tutori della sicurezza. E’ difficile scrivere da adesso in poi. Sono mesi che penso cosa voglio raccontare, come raccontarlo… ma è difficile. Non ho una cosa ferma nella mente, è come nell’ultima parte del sogno di Alice in Alice in wonderland, quando tutto si mischia e non sai dove sia iniziato… solo che il mio non è stato un incubo, e nemmeno un sogno, ma non riesco ad afferrare qualcosa e tenerlo per me, è come se non potessi perché deve andare avanti. Potrei scrivere di quanto non

dimenticherò i bambini e le persone con cui ho lavorato, o di quante volte ho cantato Bella Ciao! Con L. io e lei, spesso con un microfono in mano davanti ad un pubblico orgoglioso (e noi con un imbarazzo incredibile … come fare un karaoke, solo che non sei ubriaca); potrei raccontare del fantastico caos alla prima riunione con gli operatori, di quanto non capissimo alla fine dove avremmo dovuto fare il progetto, con quanti bambini, con chi..e tutto questo il giorno prima; potrei raccontare dei miliardi di selfie che abbiamo fatto, di tutte le persone che ti danno il cuore senza voler un ritorno e di quanto per noi occidentali questo fosse motivo di imbarazzo; potrei raccontare dei pranzi e delle cene a cui siamo stati invitate io e L.; potrei raccontare dei bambini, che dopo giorno di prove per il Mimo, finalmente li ho visti lì, sul palco, con i loro costumi di carta pesta, con le migliaia ali di farfalla che abbiamo costruito, ad inscenare la speranza di una terra che si vuole risollevare e che non accetterà mai di essere in ginocchio. Potrei raccontare di loro, del lavoro che hanno fatto sull’identità e della mostra che abbiamo preparato insieme; potrei raccontare delle sere stanchi morti prima in cui andavamo

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a letto tardissimo per scrivere racconti e articoli; del capodanno a bibite ed entusiasmo. Potrei raccontare delle municipalità rase al suolo, della signora che quel giorno ci ha fatto entrare in una casa senza porte, finestre, solo pavimento e soffitto, senza niente all’interno se non un fornelletto per fare il caj e uno sgabello per fare il pane. Ci ha fatti entrare e ha iniziato a raccontarci la sua storia, una storia di dolore senza fine. Potrei raccontare che quando calpesti i cumuli di macerie ti chiedi se ci sia qualcuno ancora sotto e potrei raccontare delle sparatorie che si sentono sul mare di notte costantemente ai danni dei pescatori palestinesi. Potrei dire che un paio di notti le bombe le abbiamo sentite e che non importa quanta tragedia ci sia, quanta sofferenza occupi la vita di queste persone: loro un motivo per sorridere lo trovano sempre. La perenne occupazione e guerra in cui vivono i Palestinesi è forse l’atto più ingiusto e disumano che si possa subire. Portare progetti in quella zona del mondo significa supportare la lotta per l’autodeterminazione e la libertà. E’ ora di prenderne di nuovo coscienza. V.


I

n questa assolata giornata di dicembre 2014, saranno più di ottanta i ragazzi e le ragazze che gremiscono l’aula della facoltà di Media e Comunicazione dell’università Al Aqsa della Città di Gaza. Hanno gli occhi vividi di una lucentezza che sa di sfida. Sono qui per vedere in volto noi formatori italiani e per sentire quali programmi e metodologie formative proporremo per la settimana di laboratori in fotografia e video che li attendono. Nessuno di loro è un neofita in questi linguaggi, nessuna considera amatoriale la propria attività nel campo della comunicazione visuale: sono professioniste che vendono immagini a emittenti e redazioni di mezzo mondo; sono reporter che nel luglio e agosto del 2014 non hanno esitato a documentare la devastazione in atto di interi quartieri di civili gettandosi tra i fumi delle macerie; sono fotografe e videomaker attivissime nel mondo dei socialmedia che, da questa striscia di terra martoriata e isolata dal mondo, appare come il mare aperto della comunicazione globalizzata in cui lanciare la bottiglia contenente il proprio messaggio, l’immagine della propria condizione catturata dal proprio personale punto di vista. Quel che viene chiesto a noi formatori italiani non è tanto insegnare le basi tecniche della fotografia e del video. Chi all’università, chi presso l’indipendente Press House e chi direttamente sul campo, questi ragazzi già studiano questi mezzi e i rispettivi linguaggi. Quel che preme i giovani gazaui, è individuare gli approcci di linguaggio e i temi più efficaci per colpire il pubblico occidentale e attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su ciò che accade a Gaza, e raccontare Gaza non solo come uno

scenario di guerra e devastazione. Già, perché della condizione di totale isolamento dal mondo in cui vivono i gazawi all’esterno di Gaza si sa solo e soltanto ciò che passano i servizi tele giornalistici e gli articoli di stampa, che rivolgono l’attenzione su questo luogo solo nel caso di emergenze particolari come l’ultima guerra durata quasi due mesi. E Gaza viene raccontata solo in quanto foriera di attentati terroristici o vittima di apocalittiche azioni militari. Ma nulla si sa della guerra invisibile che la cittadinanza di Gaza patisce giorno per giorno, ossia lo stillicidio psicologico e fisico generato dall’embargo economico, dalla chiusura delle frontiere, dall’altissima scarsità di acqua dolce e potabile, dall’incostanza e scarsità della fornitura di energia elettrica, dalla rarità degli aiuti umanitari, dall’elevatissimo tasso di disoccupazione e di povertà, dalla castigatezza oppressiva dei costumi e delle relazioni sociali, dalla totale assenza di prospettive per il futuro, dalla certezza che presto crollerà su Gaza un’altra ennesima guerra che azzererà case e luoghi amati, un’altra ennesima pioggia di armamenti sempre più sofisticati che falceranno via parenti, amici, interi gruppi famigliari. È nel discutere dei temi da affrontare e delle soluzioni possibili per realizzarli che sono emersi gli elementi che più mi hanno colpito di questi giovani, che comunque mostrano di avere bisogno di perfezionare certi aspetti tecnici e teorici legati alle loro arti e professioni. Ciò che mi folgora non è tanto la loro serietà professionale, quanto il loro bisogno viscerale di semplicemente incontrarci, di parlarci, di scambiare saperi e pareri sulle arti e i mestieri di cui sono appassionati (quel che un qualunque studente di qualunque arte o mestiere in Europa si troverebbe naturalmente a fare 38

frequentando seminari, laboratori, corsi, circoli, ambienti). Da qui non è possibile uscire e qui non è possibile entrare, e l’importanza della nostra presenza qui consiste proprio in questo: incontrarsi e scambiare esperienze, punti di vista e conoscenze - ciò per cui dal 2011 lavorano assiduamente i volontari del Centro “Vik” di Scambio e Formazione Italia-Gaza che hanno organizzato questa spedizione di formatori italiani. Assieme a questo profondo bisogno di incontro e scambio, l’altro aspetto da cui rimango impressionato nell’incontro con questi ragazzi e queste ragazze è la loro voglia, quasi una necessità, di mostrare il loro talento e le loro capacità. All’interno delle due classi (una di fotografia, l’altra di video) che abbiamo costituito, a tratti si sono instaurate delle vere e proprie gare per affermare le proprie idee, il proprio punto di vista, il proprio progetto di lavoro e si sono svolti degli accesi dibattiti sul modo di affrontare e sviluppare un tema piuttosto che un altro, mostrando un’intensità di partecipazione e un’efficacia nella ricerca delle soluzioni da lasciarmi sbalordito. Nella classe di video a cui ho partecipato, a esempio, noi formatori non ci siamo trovati a dovere stimolare l’individuazione delle idee circa il soggetto da sviluppare ma, al contrario, è stato complicato scegliere tra i numerosi soggetti proposti, molti dei quali erano semplicemente straordinari per la loro capacità di raccontare, con poco, la condizione interiore e materiale degli abitanti di Gaza. Insomma, è la vitale impazienza di questi giovani che mi è rimasta impressa, questa sorta di tensione realizzativa, di lucida urgenza di scavalcare teorie e accademismi


per andare diretti al punto di come produrre foto e contenuti video in grado di raggiungere i cuori e le menti del mondo di fuori. E ciò che vogliono raccontare è, innanzitutto, di esserci, di non continuamente sparire dietro lo spettacolo della morte, di esistere non in quanto terroristi e vittime, ma in quanto esseri umani ricchi delle loro passioni e dei loro talenti, del loro coraggio e della loro tenacia a volere vivere i loro desideri nonostante tutto. Questi ragazzi e queste ragazze mi hanno insegnato che l’isolamento e il blocco di Gaza non riguarda tanto le macro questioni politiche, militari, religiose e ideologiche: ciò che prima di tutto viene rinchiuso dal muro e ciò che viene impedito dal blocco economico e militare sono prima di tutto la vitalità e la grinta creative, la voglia di incontro e socialità, la forza espressiva e la caparbietà d’ingegno di una generazione di giovani gazaui in tutto e del tutto simili ai loro coetanei nel resto del mondo. Sergio Lo Cascio FotografiSenzaFrontiere onlus 2015

N

on si può comprendere Gaza al primo impatto, ma non si può non amarla fin da subito. Appena entrati si resta sommersi da una marea che sale in un crescendo di sorrisi e di persone che desiderano entrare in relazione e passare del tempo insieme. Impossibile intravedere la tragedia dietro quei sorrisi, i gazawi se la portano nel cuore. Intere zone della striscia e di Gaza City sono state completamente distrutte, rase al suolo, interi quartieri sono ora abbandonati, mentre altri si stanno iniziando ora a ripopolare, tra macerie e tende improvvisate e con l’inverno che avanza insieme alle alluvioni. Sui pochi muri rimasti intatti, scritte offensive tracciate dai soldati israeliani sono l’ennesimo esempio dell’umiliazione che si vuole perpetrare ai danni della popolazione gazawa. I bambini qui giocano con le pietre mentre gli adulti cercano di raccogliere ciò che credono sia stata la loro casa. In questa situazione, la disponibilità di energia elettrica è passata da sei ore al giorno a quattro, nonostante del carburante sia arrivato dal Qatar proprio ieri. Oggi, nel giorno della preghiera, il muezzin ha fatto intendere che entro otto anni una nuova guerra porterà alla sconfitta di Israele. Come dicono molti qui, queste affermazioni sono “iniezioni di calmanti” per far credere alla gente che tutto prima o poi si sistemerà. Ma la realtà parla da sola e anche la gente, di qualsiasi orientamento: sono tutti stanchi delle autorità e arrabbiati per tutte le menzogne raccontate alla gente dai falsi sostenitori dello stato palestinese che poi rivelano le loro vere intenzioni quando si tratta di ufficializzarle con il voto. 39

“Ci dicono che non possiamo iniziare a ricostruire se prima non paghiamo le tasse: ma come le paghiamo? Costa tutto tanto: il gas per esempio. Così si accendono fuochi con la legna nei bidoni. Rivogliamo la nostra casa! Chi ci dovrebbe aiutare viene qui a fare un giro nel macchinose e se ne va! Ho tre figli ciechi, devo accudire mia nipote appena nata perché mia figlia ha perso gli occhi durante la guerra del 2012, non abbiamo nemmeno dei vestiti perché son tutti sotto le macerie.” Questo è quello che ci ha detto una donna che ci ha offerto un the nella sua casa sventrata dalle bombe. La situazione qui a Gaza oltre che non essere serena, non è nemmeno tranquilla: Israele continua a sparare ai pescatori dal mare durante la notte e ai contadini di giorno. Qui tutto dipende dalle forze occupanti: i materiali si comprano da loro e loro decidono se aprire o meno i valichi, molti esercizi commerciali stanno chiudendo e molti dipendenti pubblici o non ricevono lo stipendio o lo prendono a singhiozzo. Le condizioni imposte dal conflitto si aggravano quindi a causa dei difficili rapporti all’interno del governo di coalizione. Oggi sembra sia in programma una manifestazione verso sera di Hamas sotto i palazzi dell’Onu. La verità è che, sebbene alcuni credano nell’imminenza di un altro conflitto e altri pensano che passerà qualche anno, tutti danno per certo che accadrà ed è con grande dignità che vanno avanti resistendo. Qui il dramma appartiene alla quotidianità e come ci insegnano i gazawi, aspettiamo con il sorriso un nuovo giorno.



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