San Giovanni e Apocalisse

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FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO - CATANIA -

Chiar.mo Prof. ATTILIO GANGEMI

ESEGESI NT: S. GIOVANNI E APOCALISSE _______ APPUNTI DELLE LEZIONI

_______

Ezio Coco

Anno Accademico 2005 / 2006


Esegesi NT: S. Giovanni e Apocalisse – Prof. ATTILIO GANGEMI – A.A. 2005 / 2006 – Coco Ezio

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Giovedì 06 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 L’opera giovannea comprende: 1. Quarto vangelo 2. Le tre lettere di Giovanni 3. L’Apocalisse. L’analisi interna di questi scritti rivela che essi non sono da attribuire alla stessa mano. Probabilmente somiglianze e differenze suggeriscono che la prima lettera [è la più importante] sia l’opera di una persona che riflette sul quarto vangelo, mentre l’Apocalisse rivela tutt’altra mano. Un’altra osservazione suggerisce che nessuno dei tre scritti sia da attribuire all’apostolo Giovanni. Qui riproponiamo una distinzione che altre volte abbiamo proposto tra autore ecclesiale ed autore letterario. L’autore ecclesiale colui che trasmette alla Chiesa con la sua autorità apostolica; l’autore letterario è quello che concretamente scrisse l’opera. [in questo corso ci occuperemo del quarto vangelo (da pagina 1 a pagina 145), giovedì alla 5a ora ci occuperemo dell’Apocalisse (da pagina 146 a pagina 161), mentre non tratteremo le tre lettere di Giovanni]. Il quarto Vangelo, per un verso, si ricollega alla tradizione primitivo-evangelica, per l’altro invece diverge. Diverge nella struttura, nei contenuti, circa il 70% infatti è esclusivo del quarto evangelista [ad esempio: Le nozze di Cana, l’incontro con Nicodemo, l’incontro con la Samaritana, il discorso di Gesù a Cafarnao, la resurrezione di Lazzaro], esclusiva giovannea e poi la sezione che va dal capitolo 13 al capitolo 17. D’altra parte nella sua struttura di fondo coincide con quella dei Vangeli sinottici. Possiamo infatti proporre il seguente schema di confronto: VANGELI SINOTTICI 1) Trilogia degli inizi a) Giovanni il battista b) Battesimo c) Tentazioni 2) Ministero in Galilea 3) cammino verso Gerusalemme 4) ministero in Giudea 5) narrazione della Passione 6) racconti post-pasquali

GIOVANNI 1) -------------------------------a) il Battista b) il Battesimo [ripresa di elementi ma non narra il battesimo] 2) Attività pubblica di Gesù [capp. 1-12] 3) --------------------------------4) attività privata 5) Narrazione della Passione 6) racconti post-pasquali


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Come possiamo percepire? Giovanni concorda nel fare iniziare la sua narrazione dal Battista, anche se, lui risale alla preesistenza eterna del logos e presenta in Battista principalmente come testimone. Concorda nel distinguere due parti dell’attività di Gesù, ma tale distinzione è diversa: non è più geografica ma si distingue in pubblica e privata: vedremo infatti come Giovanni non segue lo schema dei sinottici che presentano Gesù verso Gerusalemme, ma al contrario Giovanni rivela un cammino inverso: dalla Giudea alla Galilea. Concorda nella narrazione della Passione, anche se all’interno di essa presenta contenuti del tutto diversi. [Ad esempio solo Giovanni ci narra dell’incontro con Anania o Anna, ma non parla del processo anche se non lo ignora]. Infine Giovanni concorda nelle narrazioni post-pasquali, anche se i racconti sono diversi. Queste osservazioni rivelano che Giovanni riprende uno schema evangelico meno elaborato di quello dei Vangeli sinottici, anche se, presenta una teologia più sviluppata e rivela di essere stato scritto verso la fine del primo secolo. Pure i contenuti giovannei, in parte si ricollegano alla tradizione sinottica, ma in parte no. Ci sono dei racconti che si ricollegano ai racconti sinottici. Qui il problema è quello di vedere caso per caso [non si possono dare definizioni in genere], soltanto sia qualche esempio: Giovanni narra nel capitolo 9 la “guarigione del cieco nato”, estende questa narrazione per ben 41 versetti, però in tale narrazione egli sembra ricollegarsi all’episodio narrato dal capitolo 8 di Marco, ciò è suggerito dall’elemento dello sputo: in entrambi gli evangelisti si tratta di un cieco, in entrambi gli evangelisti Gesù sputa, ma mentre secondo Marco, Gesù sputa negli occhi, secondo Giovanni sputa a terra. Questi elementi da una parte rivelano una certa dipendenza di Giovanni dalle tradizioni sinottiche, dall’altra rivelano l’autonomia del quarto evangelista che presenta gli episodi in maniera sua originale. Nel capitolo 9, per esempio, l’evangelista più che narrarmi un miracolo di Gesù, vuole descrivere l’esperienza spirituale dell’autore stesso. Lo stesso si può dire del capitolo 10, “il buon pastore”, che presenta una elaborazione autonoma, ma che ha anche un legame con i sinottici, basti pensare, per esempio alla parabola del pastore che ha cento pecore e và in cerca di quella smarrita. La prospettiva giovannea però è del tutto diversa. Giovanni concorda in altri episodi, per esempio la “moltiplicazione dei pani” [cap. 6], “l’unzione di Betania” [cap. 12], “l’ingresso di Gesù a Gerusalemme”.


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Altri episodi non li narra, ma non li ignora. Matteo e Marco parlano per esempio della vocazione dei primi quattro discepoli [Pietro e Andrea, e i due figli di Zebedeo]. Giovanni pure narra la vocazione di quattro discepoli: nei primi due concorda, anche se inverte l’ordine [Andrea e Pietro], discorda negli altri due: non parla dei figli di Zebedeo, bensì di Filippo e di Natanaele. Giovanni non narra la preghiera di Gesù al Getsemani, ma non la ignora e infatti la sminuzza e introduce qui e lì i vari elementi [a riguardo c’è un articolo di tre anni fa su Synaxis]. Giovanni non narra del processo davanti al sinedrio, ma non lo ignora, citiamo soltanto un passaggio: cap 11, dove Caifa dichiara: «bisogna che uno solo muoia per il popolo…», il capitolo 10, poi, il buon pastore, per poterlo comprendere, deve essere ambientato nello schema dei due processi dei giudei, quello davanti ad Anania che narra, e quello davanti al sinedrio che non narra. Non potevamo dare un quadro completo sulla relazione tra Giovanni ed i sinottici, anche perchè il problema non si pone in maniera generica, ma si pone testo per testo. Ciò ci dice che l’evangelista si sentì libero di fronte ai fatti tramandati e il suo scopo, come del resto anche per i sinottici, non era quello di dare una cronistoria, ma quello di delineare attraverso i racconti una particolare figura di Gesù. Restando ancora nell’aspetto di un confronto generico tra Giovanni ed i sinottici notiamo anzitutto un’assenza: Giovanni a differenza dei sinottici non riferisce nessuna parabola di Gesù, mentre le parabole nei sinottici hanno un’importante momento catechetico. Giovanni invece presenta alcune immagini mediante le quali egli descrive la fisionomia di Gesù. Ne notiamo alcune: 1234567-

Io sono il pane vivo disceso dal cielo [6]; Io sono la luce del mondo [8,12]; Io sono la porta delle pecore [10,7]; Io sono il pastore quello autentico [10,11]; Io sono la Resurrezione e la vita [11,25]; Io sono la via, la verità e la vita [14,6]; Io sono la vita e voi i tralci [15,1].

Ognuna di questa espressioni ha una suo significato fondamentale, ma adesso ci limitiamo soltanto ad indicarle dal punto di vista della similitudine che viene usata. Possiamo anche come similitudine citare 12,24: «se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo…».


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Un’altra assenza importante è quella della istituzione. Giovanni non la narra perché la sua prospettiva è molto più ampia, cioè tutto il Vangelo si colloca nella prospettiva di un grande banchetto ed è errato identificare il racconto il racconto della istituzione con l’episodio della “lavanda dei piedi”, quel episodio di un significato profondissimo è un momento del banchetto, ma non si identifica con l’Eucarestia. In Giovanni abbiamo infatti il testo di 12,2 dove l’evangelista scrive: «

»: «fecero un ban-

chetto», che introduce l’episodio dell’unzione di Betania, in 13,2 introduce l’espressione: «

» che è del tutto sbagliato tradurre «mentre cenavano», perché

l’espressione alla lettera deve essere tradotta: «mentre diveniva il banchetto». Il soggetto non sono i discepoli ma il banchetto, e l’azione non è mangiare, ma divenire. Per avere l’azione di mangiare bisogna attendere 21,13, dove Gesù dice ai discepoli: «venite, mangiate» e l’evangelista narra: «viene Gesù, prende il pane e lo dà a loro». Di conseguenza 12,2 rappresenta l’inizio di un banchetto: “fecero”, 13,2 indica la sua continuità, il culmine è da cercare nel capitolo 21. Ci sono i miracoli, ma diversamente narrati. I miracoli giovannei sono: 123456-

Cana [l’acqua in vino]; La guarigione del figlio di un funzionario Reggio [Cap. 4]; La guarigione del paralitico alla piscina Betsada [Cap. 5]; I pani [cap. 6]; Il cieco nato [cap. 9]; La resurrezione di Lazzaro [cap. 11].

In Giovanni abbiamo pochissimi episodi che con coincidono con l’abbondanza dei sinottici, dove ci sono anche sommari di guarigioni. Giovanni narra pochi episodi emblematici, ma ricchissimi di significato teologico. Nei vangeli sinottici ci sono i discorsi di Gesù, basti pensare ai cinque importanti di Matteo, a cominciare dal discorso della montagna. Nei sinottici abbiamo discorsi positivi, cioè Gesù propone; in Giovanni abbiamo moltissimi discorsi di Gesù [capp. 5,7,8,10], ma spesso in violento contrasto con i giudei.


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STRUTTURA DEL VANGELO DI GIOVANNI Per cogliere la struttura del Vangelo partiamo dalla struttura di due capitoli rispettivamente il capitolo 12 e il capitolo 13. Ci riferiamo a questi capitoli perché il capitolo 12 può essere considerato il culmine della prima parte [1-12] e il capitolo 13 l’inizio della seconda parte [13-21]. Prima di proporre la struttura di questi due capitoli stabiliamo un confronto tra due episodi di questi capitoli, precisamente tra 12,1-8 [l’unzione di Betania] e 13,1-5 [Gesù che lava i piedi]. Nell’unzione di Betania, “Maria unge i piedi di Gesù e li asciuga con i capelli”. Nell’episodio della lavanda dei piedi “Gesù lava i piedi dei discepoli e li asciuga con un asciugatoio con cui era cinto”. Come possiamo vedere queste due azione hanno delle somiglianze e delle differenze. Nel primo episodio Gesù è oggetto di una azione da parte di una donna; nel secondo episodio Gesù è soggetto di una azione verso i discepoli. Si ottiene il seguente schema: Donna Discepoli

Gesù Gesù

Emerge una triade nel Vangelo di Giovanni che troviamo altre volte: a Cana c’è la donna-madre ed i discepoli; nel capitolo quarto c’è la donna-non madre con Gesù e i discepoli erano andati a comprare cibo; presso la croce di Gesù c’è la donna-madre e il discepolo. Confrontando l’azione della donna verso Gesù e quella di Gesù verso i discepoli avremmo il seguente confronto: donna Ungere i piedi Asciugare con i capelli

Gesù Discepoli Lavare i piedi Asciugare con l’asciugatoio

Nella prima parte dell’azione abbiamo in comune il destinatario “i piedi”, ma diverge l’azione: “ungere”; “lavare”. Nella seconda azione i due episodi coincidono nell’azione, non nel mezzo. In entrambi gli episodi è menzionata la figura di Giuda:


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nell’azione di Maria, Giuda è introdotto con la sua critica, nella seconda azione l’evangelista nota che Satana aveva gettato nel cuore di Giuda di Simone di tradire. Questo confronto ci dice dal punto di vista strutturale che i due episodi non sono autonomi ed indipendenti, ma sono due parti di una azione globale più ampia dove si descrive la relazione della donna a Gesù e dove si descrive la relazione di Gesù ai discepoli. Sabato 08 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 Tiriamo una conclusione: l’azione di Maria sui piedi di Gesù e l’azione di Gesù sui piedi dei discepoli sono due parti di un tutt’uno che però l’evangelista smembra. Smembrandole l’evangelista fa dell’una il culmine della prima parte, dell’altra ne fa l’inizio della seconda parte. Passiamo così a individuare la struttura del capitolo 12 e poi quella del capitolo 13. IL CAPITOLO 12 Si articola in cinque parti strutturate nel seguente modo: 1- versi 1-11: l’unzione di Betania; 2- versi 12-19: l’ingresso di Gesù a Gerusalemme; 3- versi 20-36a 4- versi 36b-43: l’incredulità dei giudei; 5- versi 44-50: il giudizio.

Queste cinque parti gravitano attorno alla parte centrale. Da questa parte centrale si muovono due linee: una ascendente: ingresso a Gerusalemme discendente: incredulità

unzione di Betania; l’altra

giudizio di condanna. Per comodità possiamo riproporre sche-

maticamente nel seguente modo: 1- unzione di Betania; 2- ingresso a Gerusalemme; 3- parte centrale; 4- incredulità; 5- giudizio.


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La parte centrale è molto complessa e comincia con l’episodio nei versi 20-22 della venuta dei greci che salendo per la festa, per adorare, vogliono vedere Gesù. Segue poi uno sviluppo gravitante a due verbi fondamentali: glorificazione di Gesù [versi 24-28]; i versi 29-32, gravitano invece attorno al tema della esaltazione. Il capitolo 12 come tematica globale gravita attorno ai due aspetti di Gesù: glorificazione ed esaltazione. Dalla glorificazione di Gesù partono due linee, una ascendente verso l’incontro sponsale del glorificato [unzione di Betania], incontro sponsale che passa attraverso l’accoglienza [ingresso a Gerusalemme] e la linea ascendente verso il giudizio che passa attraverso l’incredulità. Sono le due linee che si muovono attorno al Signore glorificato, due linee già sinteticamente proposte, benché in diversa prospettiva in 12,32: «adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo è gettato fuori [giudizio] ed io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me [attrazione]». Conclusione: Il capitolo 12 gravita attorno al tema centrale della glorificazione di Gesù e la sua esaltazione. IL CAPITOLO 13 Si articola in sei parti, o più precisamente una più cinque, perché la prima parte, di indole totalmente narrativa, serve piuttosto come premessa alle parti seguenti. Azione di Gesù che lava i piedi dei discepoli e li asciuga; 1- [versi 6-11]: triplice dialogo tra Pietro e Gesù «Signore tu a me lavi i piedi?...» 2- [versi 12-20]: monologo di Gesù con i discepoli gravitante attorno al tema dello « »1; 3- [versi 21-30]: il problema del traditore; 4- [versi 31-35]: monologo di Gesù con i discepoli gravitante attorno alla nozione di « » [comandamento]. In questa parte domina la figura del « » del Signore; 5- [versi 36-38]: duplice attenzione tra Pietro e Gesù. Riassumendo le cinque scene, disposte secondo uno schema concentrico, sono descritte le posizioni di tre personaggi di fronte all’opera di amore di Gesù. In 13,1, frase che 1

Il termine « » indica una realtà concreta [ ], una realtà concreta che viene mostrata [ ] avendola messa sotto [ ], ed indica la bella copia che il maestro mette sotto gli occhi degli alunni perché copino su quel modello. Questa parola ci dà la prospettiva di Gesù maestro.


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probabilmente riprenderemo leggiamo: «prima della festa di pasqua, Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, a compimento li amò [cioè portò al massimo grado l’opera di amore]». Il testo di 1,5 descrive attraverso l’azione simbolica di lavare i piedi l’opera di amore di Gesù. Detto in parole povere, l’opera di amore attraverso l’azione di lavare i piedi raggiunge i discepoli e li coinvolge in essa. Ecco allora l’atteggiamento dei tre personaggi: 1. Gesù [seconda e quarta parte]: dall’opera di amore sgorga un insegnamento e un comando per i discepoli; 2. Pietro [prima e quinta parte]: il problema di Pietro che passa attraverso il rinnegamento e culmina nel capitolo 21 dove Gesù gli chiede tre volte se lo ama; 3. Il traditore [terza parte]: colui che rifiuta, sotto l’influsso satanico l’opera di amore compiuta da Gesù. Mentre il capitolo 12 conclude la prima parte, il capitolo 13 inizia la seconda parte. Partendo dal capitolo 12 risaliremo ai capitoli precedenti, partendo dal capitolo 13 scenderemo ai capitoli seguenti. CAPITOLI 1-12 Notiamo anzitutto una inclusione letteraria tra 1,4-5 e poi anche 1,7 in relazione a 12,35 e anche 12,46. [*] 1,4-5: «in Lui vita era, e la vita era la luce del mondo. La luce splende nella tenebra e la tenebra non poté sopraffarla»; [**] 1,7: «Egli venne per rendere testimonianza alla luce [Giovanni] perché tutti credessero per mezzo di lui»; [***] 12,35: «ancora per poco tempo la luce è con voi, camminate finché avete la luce perché la tenebra non vi sorprenda»; [****] 12,46: «Io come luce nel mondo sono venuto perché chi crede in me, non rimanga nella tenebra»; Questi testi, all’inizio e alla fine della prima parte costituiscono una inclusione letteraria a tutta la prima parte. All’interno di questa prima parte possiamo individuare quattro sezioni, stiamo procedendo a ritroso: indichiamo le quattro sezioni, poi continueremo a ritroso: 1- [1,2,12]; 2[2,13-5]; 3- [6-7]; 4- [8,12-12,46]. Come appare da questo schema abbiamo saltato i versi


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8,1-11: questi versi contengono l’episodio della donna adultera, questo episodio è criticamente incerto, esso doveva circolare autonomamente nella comunità primitiva. In seguito sarebbe stato introdotto, giusto per dargli una collocazione nel vangelo di Giovanni, addirittura alcuni codici lo introducono dopo il capitolo 21. In realtà questo episodio risente più della teologia lucana [la misericordia], che non giovannea perciò prescindiamo da questo episodio. Possiamo perciò iniziare la nostra ricerca da 8,12. In 8,12 leggiamo: «Io sono la luce del mondo, chi segue me mai camminerà nella tenebra, ma avrà la luce della vita». Questo testo richiama quello già citato di 12,46: «Io come luce nel mondo sono venuto, perché chiunque crede in me nella tenebra non rimanga». Abbiamo in questi due testi due cambiamenti: in 8,12 si dice: «chi segue me mai camminerà nella tenebra», in 12,46 invece si dice: «perché chi crede in me non rimanga nella tenebra». Possiamo mettere insieme questi quattro verbi: 1- chi segue; 2- non cammina; 3- chi crede in me; 4- non rimanga nella tenebra. Emerge la complementarietà di questi quattro verbi: seguire equivale a credere, camminare culmina nel rimanere. Le due serie di verbi in parole povere sottolineano il pieno coinvolgimento nella fede che porta alla massima esclusione di un possibile coinvolgimento nella tenebra. Ma ancora una volta, interessa a questo momento non l’aspetto teologico, ma letterario e strutturale, e 8,12 e 12,46 costituiscono l’inclusione letteraria della quarta sezione che possiamo definire “la sezione della luce”.


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Tra queste due frasi noi abbiamo il seguente materiale: 1- [cap. 8]: un articolato discorso polemico tra Gesù ed i Giudei; 2- [cap. 9]: il cieco nato; 3- [cap. 10]: il pastore autentico (il buon pastore); 4- [cap. 11]: la resurrezione di Lazzaro; 5- [cap. 12]: la glorificazione di Gesù. Può sembrare che questi episodi siano slegati e non ci sia continuità l’uno con l’altro, ma non è così. Questa sezione è invece strettamente unitaria, come emergerà dalle riflessioni seguenti. 1 - capitolo 8. il capitolo ottavo presenta una problematica molto complessa in un discorso polemico contro i giudei, ma a noi interessa sottolineare soltanto tre frasi: 1- [8,24]: «se non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati»; 2- [8,28]: «quando innalzerete il Figlio dell’uomo allora conoscerete che Io sono»; 3- [8,58]: «prima che Abramo fosse, Io sono». Le tre frasi hanno in comune l’espressione «Io sono», che non è una semplice frase di riconoscimento, ma esprime l’identità divina secondo la formula «Io sono» che caratterizza Dio soprattutto nei testi del Deutero-Isaia. Ma i tre testi, esprimono, secondo lo stile giovanneo, un progresso inverso: 3- [8,58]: la preesistenza divina; 2- [8,28]: la manifestazione di tale prerogativa nella storia al momento della esaltazione di Gesù [la croce]. Sulla croce Gesù si manifesterà come «Io sono» ed a questa manifestazione seguirà una conoscenza; 1- [8,24]: da questa conoscenza bisogna passare alla fede, altrimenti si rimane e si muore nei propri peccati. Dietro questi tre testi c’è Isaia 43,9-10 dove Dio dichiara: «voi siete i miei testimoni e il mio servo che ho eletto perché comprendiate, conosciate e crediate che Io sono».


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Giovedì 13 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 Il capitolo 9 riprende la seconda espressione di 8,12. La seconda espressione è: «la luce del mondo». Ai discepoli che a Gesù chiedono di fronte ad un cieco nato [non significa cieco dalla nascita, ma cieco per nascita: la nascita genera cecità]. Gesù risponde: «ne lui, ne i genitori, ma ciò è avvento perché si manifestassero le opere di Dio» e Gesù continua: «bisogna che io operi finché è giorno. Viene la notte in cui nessuno può operare». E poi Gesù continua: «finché sono nel mondo, luce del mondo io sono». Il racconto continua che avendo detto queste cose, Gesù sputò a terra, fece del fango, […], ed operò il miracolo. Gesù opera il miracolo nella sue prerogativa di luce del mondo. L’episodio del cieco nato si estende per ben 41 versetti ed è un episodio molto complesso che va oltre il semplice fatto di un miracolo materiale, un racconto affascinante. Questo racconto probabilmente deriva dalla tradizione sinottica, Marco 8, infatti narra l’episodio della guarigione di un cieco, proprio mediante uno sputo. Ma mentre secondo Marco, Gesù sputa negli occhi, secondo Giovanni sputa a terra. L’episodio del cieco nato più che essere il racconto di un miracolo materiale, questo episodio sembra essere un cammino spirituale di un uomo che, raggiunto dalla luce e illuminato, deve compiere un cammino alla ricerca della luce che lo ha illuminato. L’episodio si articola in diverse parti. Dopo i versi 6 e 7, che descrivono l’azione di Gesù, segue una parte nei versi 8-12, dove la folla pone il problema se sia lui o no quella persona che prima era cieca e mendicava. Il cieco risponde che è lui, e narra che l’uomo detto Gesù fece del fango e lo ha fatto vedere. Segue una domanda nel verso 12: gli chiedono «dove è lui?». Questa domanda esprime nel contesto giovanneo l’esigenza della ricerca di Gesù. Il cieco illuminato dalla luce deve ora mettersi alla ricerca della luce che lo ha illuminato. Ma dove si trova la luce? La domanda tacita di Giovanni è che per trovare la luce il cieco deve mettersi sulla strada della luce. Ecco allora il verso 13, dove leggiamo: «conducono dai farisei l’uomo che era stato cieco». Dal verso 13 fino al verso 34 l’evangelista, in maniera assai diffusa, narra il dialogo tra il cieco ed i farisei. Il dialogo finisce con la cacciata fuori del cieco. Quando il cieco è cacciato, allora avviene l’incontro con Gesù. Narra però l’evangelista che non è il cieco che incontra Gesù, ma Gesù che incontra il cieco. Si tratta della luce che ha stabilito una sintonia con l’uomo che ha guarito. Qui avviene il riconoscimento e la professione di fede, Gesù chiede: «credi nel Figlio dell’uomo», il cieco risponde: «chi è perché io possa credere». Gesù si manifesta e il cieco lo adora.


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È possibile rileggere questo episodio alla luce della narrazione della passione. Nella narrazione della passione, leggiamo, nei versi 15-16, il seguente testo: «seguiva Gesù, Simon Pietro e l’altro discepolo quel discepolo era noto al pontefice ed entrò con Gesù nel palazzo del pontefice. Pietro stava alla porta fuori uscì l’altro discepolo, il noto del pontefice, parlò alla portinaia ed introdusse Pietro». Fermando l’attenzione soltanto alla figura del discepolo avremmo il seguente schema:

1 – quel discepolo era noto al pontefice; 2 – ed entrò [ma entrò] con Gesù nel palazzo del pontefice; 3 – uscì 4 – l’altro discepolo noto del pontefice. La prima e la quarta frase sono parallele, c’è però una differenza: mentre nella prima frase si sottolinea la relazione del discepolo al pontefice [noto al Pontefice, si sottolinea la relazione], nella quarta frase si passa ad un genitivo di possesso [noto del pontefice in relazione all’uscita]. Sorvolando su questo particolare l’evangelista con molta enfasi sottolinea la relazione di questo discepolo al pontefice, e questo discepolo probabilmente è il discepolo che Gesù amava, autore del quarto vangelo. La prima volta la menzione del discepolo noto al pontefice è relazionata ad una entrata [2], la seconda volta è relazionata ad una uscita [3-4]. Questa definizione è molto strana, si sottolinea due volte la relazione al pontefice per due azioni precise ma vuote: perché entrò il discepolo? La prima volta sarebbe giustificata la menzione della relazione del discepolo al pontefice: era noto al pontefice e perciò poté entrare in una casa dove si stava svolgendo un fatto a porte chiuse, e in quel momento si aveva l’esigenza di essere quanto più circospetti possibile. Se questo discepolo poté entrare nel momento assai critico della cattura di Gesù, è perché era noto al pontefice. La parola «noto» [ sensi:

], non indica un qualsiasi conoscente, ma può avere tre


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o che quel discepolo era amico intimo del sacerdote, o che era un parente, o che era anche lui un sacerdote.

In ogni caso, in forza di questa prerogativa non ebbe problemi ad entrare. La stranezza è che l’evangelista menziona ancora il fatto: che era noto al pontefice in relazione all’uscita. Questa descrizione così precisa, ma così vuota tra l’entrare e l’uscire, pone il problema: perché nella sua prerogativa di noto al pontefice, deve uscire? Per rispondere a questa domanda rileggiamo il testo dove abbiamo la seguente espressione: Gv 18,15 [

].

Abbiamo due espressioni parallele, entrambi con due elementi: verbo e dativo di relazione. Come interpretiamo la seconda frase? Il secondo verbo « doppiamente composto, dalla particella «

» è un verbo

» che indica compagnia, e il verbo «

+

» che vuol dire comprare. Il verbo composto fa ritenere errato tradurre «entrò con Gesù», ma dovremmo tradurre meglio «co-entrò a Gesù». C’è una convergenza di azione: l’entrare, ma in questa convergenza il discepolo entra non relazionato al sacerdote, bensì relazionato a Gesù. In questo senso la congiunzione «

» assume un diverso valore: non

significa più «e» di congiunzione, ma assume un valore avversativo «ma». In parole povere, l’espressione ha due sensi: storico e spirituale. Dal punto di vista storico la frase mi spiega perché il discepolo entrò: entrò con Gesù perché era noto al pontefice, la portinaia lo vide, non ci fece caso, lo fece entrare. Il modo come Giovanni si esprime suggerisce un senso più profondo spirituale. Il discepolo è strettamente legato al sacerdote, ma non entra solidale col sacerdote, entra invece solidale con Gesù. Il discorso è più complesso perché siamo agli inizi della seconda parte della narrazione giovannea della passione. In questo parte che và sotto il nome di processo-dialogo, davanti al sacerdote Anania [o Anna], e perciò questa descrizione deve essere letta alla luce del dialogo col sacerdote ed alla luce della vicenda di Pietro descritta in quel contesto. Sia sufficiente fare questa osservazione: l’evangelista [e qui ci troviamo di fronte ad un esempio di quella che si suole chiamare ironia giovannea], crea uno stridentissimo contrasto tra il discepolo e Pietro. Pietro fu pure introdotto nella casa del sacerdote, lì, interrogato, se era discepolo, rispose negativamente, smentì, e Pietro rimase nel palazzo del sacerdote. Il quarto evangelista non narra che Pietro uscì e pianse amaramente e perciò la-


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scia Pietro nel cuore di quella casa. Il canto del gallo, che nei sinottici è l’inizio del ravvedimento, in Giovanni invece è la sanzione del rinnegamento. Ed ecco il paradosso: lo scuro Pietro, Galileo, che non ha niente a che vedere con quella casa, in forza del suo rinnegamento assume in quella casa una posizione. Il noto al pontefice, se esce nonostante che fosse noto al pontefice, perde un posto in quella casa e deve uscire. Per Giovanni, il palazzo di Anna è quel recinto delle pecore di cui si parla nel capitolo 10. Il criterio di appartenenza è quello di sconfessare Gesù, ed infatti l’evangelista creerà un drammatico conflitto tra Gesù ed il sacerdote: Pietro rinnega Gesù e perciò può restare in quella casa; il discepolo che ovviamente confessa, in quella casa non può restare. Nasce una domanda: da dove sappiamo che il discepolo confesso? Lo deduciamo dal confronto con Pietro, ma lo deduciamo anche alla luce del capitolo 9 del vangelo di Giovanni: l’episodio del cieco nato. È possibile stabilire il seguente confronto: 18,15 entrò con Gesù uscì

9,13 conducono il cieco dai farisei confessa a Gesù in un lungo dialogo 9,34 lo cacciarono via

Narra l’evangelista che dopo che lo cacciarono, Gesù incontra il cieco. Nella narrazione della passione, il discepolo che in 18,16 esce, comparirà di nuovo sotto la croce in 19,26. il confronto allora si allarga: 18,15 il discepolo entra con Gesù uscì 19,26 sotto la croce

9,13 conducono il cieco dai farisei confessa a Gesù in un lungo dialogo 9,34 lo cacciarono via Gesù lo incontra

È sintomatico il fatto che dopo il rinnegamento, l’evangelista in tutta la narrazione della passione, non parlerà più di Pietro. Questo confronto che abbiamo stabilito, tra il capitolo 9 [il cieco nato] e 18,15-16 ci conferma la nostra conclusione: che nel capitolo 9 all’evangelista non interessa narrare un miracolo ma, in senso spirituale, gli interessa presentare la biografia spirituale del discepolo che Gesù ama, cioè la sua biografia spirituale: era cieco [spiritualmente], fu raggiunto dalla luce, nonostante che avesse una posizione nel giudaismo, da quella posizione esce e si incontra con Gesù. Il capitolo 9 ci parla nel verso 39 della sua professione di fede; la narrazione della passione lo presenterà presso la croce di Gesù.


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Sabato 15 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 IL CAPITOLO 10 Il capitolo 10 del vangelo di Giovanni, come è risaputo, parla del buon pastore. L’espressione «

» non sembra indicare bontà morale, ma autenticità. Gesù su pre-

senta come il pastore, quello vero, quello buono [buono nel senso di autentico], ed infatti, Gesù si contrappone a quelli che non sono pastori, soprattutto dichiara in 10,8, Gesù dichiara che «quanti vennero prima di lui sono ladri e briganti». Forse l’espressione va intesa in diverso senso, l’espressione «

» si può tradurre meglio non prima di me, ma

a posto mio. Quelli cioè che si sono presentati a posto di Gesù sono ladri e briganti. Il termine «

» nel vangelo di Giovanni è usato solo in due casi: qui e nel capitolo 12 rife-

rito a Giuda, come anche il termine «

» è usato in due sole circostanze: qui e nel ca-

pitolo 19 riferito a Barabba. L’allusione perciò è a Giuda ed a Barabba che il popolo a scelto a posto del pastore. Per capire però il capitolo 10, bisogna stabilire lo sfondo dove si colloca. Il capitolo comincia in forma negativa: «chi non entra per la porta nel recinto delle pecore, ma entra da altrove è ladro e brigante». Troviamo in questa espressione la parola «

» [recinto], che si legge due volte solamente nel vangelo: qui riferito al recinto

delle pecore e nel capitolo 18 riferito al palazzo di Anna. Il testo ancora continua nel capitolo 10 «a costui [al pastore] il portinaio apre», la parola portinaio in Giovanni si legge due sole volte: o al maschile nel nostro testo, oppure al femminile nel processo davanti ad Anna. C’è un terzo termine: il pastore è colui che entra attraverso la porta «

», nel capi-

tolo 18 si dice che il discepolo noto al pontefice entrò nel recinto delle pecore e «Pietro stava alla porta». Possiamo concludere che lo sfondo del capitolo 10 è il processo davanti ad Anna. Capitolo 10 e processo davanti ad Anna si richiamano anche se in diversa prospettiva. Nel capitolo 10 la descrizione è dal punto di vista di Gesù pastore, nel processo davanti ad Anna il problema non è soltanto il punto di vista di Gesù pastore, ma anche quello di Pietro che deve compiere un cammino dal suo rinnegamento fino a divenire pastore. Ambientando il capitolo 10 nello sfondo del palazzo di Anna, possiamo vedere come i due episodi si illuminano a vicenda. Narra l’evangelista in 18,12, che «presero Gesù, lo legarono e lo condussero da Anna». Gesù entra legato, ma alla luce del capitolo 10 Egli in realtà è entrato come pastore. Nella descrizione del capitolo 10, quella del recinto delle


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pecore, immagine totalmente negativa, soggiace anche la prospettiva dell’esodo, come anticamente Dio scese in Egitto e tirò fuori il popolo dalla schiavitù; Gesù che entra legato nel palazzo di Anna è il pastore che entra per far compiere un cammino di esodo. Purtroppo il popolo non ha seguito il pastore ed è rimasto chiuso nel suo recinto, anzi ha cercato di opprimerlo scegliendo altri pastori, Giuda il ladro, guida di quelli che catturano [18,4] e Barabba. Tuttavia non si può dire che nessuno abbia seguito il pastore, ecco il discepolo che uscì dal palazzo di Anna, e che richiama la descrizione del verso 3: «le pecore ascoltano la sua voce, le chiama per nome e le fa uscire». Più avanti, nel verso 27, Gesù continua: «le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono ed Io do ad esse la vita eterna». Dietro il capitolo 10 si nasconde il dramma dei giudei che non hanno seguito il loro pastore. Dicevamo che il capitolo comincia in maniera negativa: «chi non entra per la porta nel recinto delle pecore…», perché il capitolo comincia in forma negativa? Perché difatti il capitolo 10 inizia, non in 10,1, ma in 9,40. i giudei dicono a Gesù: «anche noi siamo ciechi?» e Gesù risponde: «se foste ciechi non aveste peccato, ma siccome dite: ci vediamo, il vostro peccato rimane»: Gesù accusa di peccato di Giudei ed il loro peccato è quello di avere preferito altri pastori, pastori che non sono entrati attraverso la porta, ma sono venuti da altrove e per la porta entra solo il vero pastore. Tuttavia la prospettiva del capitolo 10 non è soltanto, e forse nemmeno principalmente, negativa, ma è anche positiva. Gesù è quel pastore che era stato preannunziato nel capitolo 34 di Ezechiele. Egli deve fare compiere un cammino di esodo, un cammino che culmina nella vita eterna: «le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono ed Io do a loro la vita eterna». Ma che cos’è questa vita eterna che Gesù deve dare? Nel verso 30 Gesù dichiara: «le mie pecore sono in mano del Padre e nessuno può rapirle dalla mia mano», ma nel verso 28 Gesù aveva detto: «le pecore sono nelle mia mano e nessuno può rapirle dalla mia mano». Torna il tema fondamentale del vangelo di Giovanni del cammino verso il Padre [Cfr. 14,6: «Io sono la via, la verità e la vita, nessuno può pervenire al Padre se non attraverso di me»].


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Perciò nel capitolo 10, positivamente e delineato sullo schema dell’esodo, un cammino che parte dal recinto delle pecore e giunge al Padre, nelle seguenti tappe: 1 – Il pastore entra nel recinto delle pecore; 2 – fa uscire il gregge; 3 – lo conduce; 4 – verso la vita eterna; 5 – la vita eterna è essere in Gesù; 6 – perché attraverso di Lui si arriva al Padre. In altre parole, si riprende in maniera più esplicita, quello che in maniera più sintetica è detto in 17,3: «questa è la vita eterna: che conoscano Te, unico vero Dio e colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo», dove però conoscere non è un fatto intellettuale, ma un coinvolgimento esperienziale. L’accento perciò, nel capitolo 10, sta soprattutto nel seguire il pastore. Per concludere, probabilmente, alla luce del capitolo 10, bisogna leggere ed interpretare l’espressione di 1,18, dove in contrapposizione a Mosè si Gesù, l’evangelista scrive: «Dio nessuno mai lo ha visto, il Figlio unigenito che è verso il Padre, Egli ci ha condotti [

]», e non «Egli ce lo ha rivelato» come si legge in maniera

errata dalla traduzione italiana. IL CAPITOLO 11 Il capitolo 11 narra, il lungo episodio della resurrezione di Lazzaro. Questo episodio non ha alcun parallelo nei vangeli sinottici, o forse, potrebbe averlo, ma sarebbe un po’ lontano quello di Luca 7, la resurrezione del figlio della vedova di Nain. Il parallelo potrebbe essere suggerito dal fatto che in entrambi i testi, la persona che è resuscitata, è legata ad una figura femminile. Se relazione c’è, essa deve essere collocata in uno stadio di tradizione molto antico. Prescindendo da questi problemi, il racconto di Lazzaro, in sé stesso, ha una valenza ecclesiale. Prima della resurrezione, infatti, noi troviamo la professione di fede di Marta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», e la richiesta di Maria. L’episodio di Lazzaro, per un verso si ricollega ad Ezechiele 37,12: «Ecco Io apro le vostre tombe, vi risuscito dai vostri sepolcri». Richiama anche Giovanni 5,25: «viene l’ora in cui quelli che sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che hanno udito vivranno». Nel racconto di Lazzaro sono fondamentali, in questo senso, le parole: «Lazzaro, vieni fuori», è la voce del Figlio di Dio. Accenniamo soltanto ad un problema che è la


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parentela, da approfondire però, tra l’episodio di Lazzaro richiamato dal suo sepolcro, e il capitolo 20 dove si ha l’esperienza della Maddalena al sepolcro. RILETTURA SINTETICA Prima di tentare una rilettura sintetica degli episodi, brevissimamente considerati in maniera analitica, è bene dire una parola metodologica su modo come Giovanni compone i suoi racconti. Se possiamo usare un’immagine, i racconti giovannei, sono come una serie di quadri, che esigono due tipi di lettura:

1 - Il primo modo di lettura è leggere il quadro in sé stesso, nella completezza del suo sviluppo ed ogni quadro in sé stesso ha uno sviluppo completo ed offre, pur nel suo simbolismo, una storia completa. 2 - Il secondo modo di lettura è la connessione tra i vari quadri, che insieme sviluppano una idea completa, spesso molto semplice, ma difficilissima a scoprirsi. Rileggendo questi quadri, in connessione successiva, sono possibili due letture: una lettura discendente, dal capitolo 8 al capitolo 12, oppure al contrario dal capitolo 12 al capitolo 8. La seconda lettura da 12 ad 8 è più complessa, preferiamo non affrontarla. Ci fermeremo sulla prima lettura riproponendo lo schema che abbiamo già proposto: GIOVANNI 8,12 1 – Io sono 2 – La luce del mondo 3 – Chi segue me 4 – Avrà la luce della vita

TESTI SUCCESSIVI 1 – Capitolo 8 – L’esaltazione di Gesù come Io sono, nella sua identità divina 2 – Capitolo 9 – La luce illumina un cieco 3 – Capitolo 10 – La luce diventa pastore 4 – Capitolo 11 – La luce che resuscita

Rimane il capitolo 12, il cui tema fondamentale è la Glorificazione di Gesù. Possiamo allora da 8,12, fino al capitolo 12, delineare un cammino di Gesù che và dalla manifestazione fino alla sua glorificazione attraverso varie tappe. Nella sua manifestazione come Io sono, Gesù si presenta come luce, illumina [capitolo 8], e conduce [capitolo 10], alla vita eterna [capitolo 11], quelli che ha illuminato, ed in questo modo è glorificato, avendo già attuato la sua missione di condurre alla vita eterna. osserviamo però, che lo sfondo di tutta questa storia, non è la vita terrena, bensì la croce. Esprimendoci in soldoni, tutta la


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narrazione della passione giovannea, è un cammino che all’inverso parte dal titolo della croce: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei», e culmina nella manifestazione come Io sono al Getsemani. Al Getsemani, Gesù chiede: «chi cercate?», rispondono «Gesù Nazareno», Gesù risponde «Io sono». I giudei con molta malizia decurtano il titolo della croce e chiedono soltanto di Gesù Nazareno, relegandolo nella sua dimensione terrena. Gesù contrappone, invece, la sua identità divina: Io sono, che però, per quelli suona giudizio di condanna e infatti narra l’evangelista che «retrocedettero e caddero a terra». Non è una scena materiale, il linguaggio è dei Salmi, ne citiamo uno solo: il Salmo 26: «il Signore è mia luce e mia salvezza […] quando mi assalgono i malvagi per straziarne la carne, sono essi avversari e nemici ad inciampare e cadere». LA QUARTA SEZIONE Prescindendo da ulteriori precisazioni sulla passione, ci sembra di poter concludere che la quarta sezione della prima parte del vangelo di Giovanni, quella che và dal capitolo 8 al capitolo 12, e che abbiamo denominato come sezione della luce, è una particolare rilettura dell’esaltazione di Gesù sulla sua croce. Tutto il quarto vangelo è crocecentripeto. Sulla Croce, Gesù si manifesta come Io sono [Cfr. 8,28]: «quando innalzerete il Figlio dell’uomo, conoscerete che Io sono». Ma il Gesù che si manifesta come Io sono compie un’opera che è: condurre verso la vita eterna, e così si realizza quello che Gesù, poi chiederà nella preghiera: «Padre, glorifica il Tuo Figlio, perché il Tuo Figlio glorifichi Te, come hai dato a Lui il potere di ogni carne perché tutto ciò che hai dato a me, dia ad essi la vita eterna». Avendo compiuto l’opera di dare la vita eterna è glorificato. Rimane il problema di come Gesù darà la vita eterna, ma questo problema riguarderà soprattutto i capitoli 13-19.


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LA PRIMA SEZIONE A riguardo della prima sezione, che va da 1,1 a 2,11, partiamo da un errore delle traduzioni italiane che traducono l’espressione: «

» che traducono con

«tre giorni dopo». L’espressione non vuol dire «tre giorni dopo», ma vuol dire «il terzo giorno», cioè non ne precedono tre, ma due. Il problema nasce dal fatto che l’evangelista inizia ben tre volte la sua narrazione mediante l’espressione: «!

» [l’indomani].

Come intendiamo questa espressione?: cronologica o letteraria, cioè sono tre giorni distinti o tre aspetti di un solo: «l’indomani». L’espressione si 2,1 induce a concludere che non si tratta di tre giorni distinti, ma di una triplice distinzione letteraria di un solo “l’indomani”, che evidentemente presuppone un primo giorno. Giovedì 20 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 La prima parte va da 1,29 fino ad 1,35. In questa parte è descritta l’esperienza di Giovanni, una narrazione che riprende diversi elementi dai vangeli sinottici, soprattutto della tradizione sinottica del battesimo, ma lo stesso battesimo di Gesù non è narrato, donde appare la originalità della narrazione giovannea. Ci limitiamo soltanto ad alcuni elementi. Notiamo come la descrizione parte da una indicazione di Giovanni: vede Gesù che cammina e dichiara «ecco l’agnello di Dio». La descrizione di Giovanni finisce con la sua professione di fede: «ed io ho visto ed ho reso testimonianza che costui è il Figlio di Dio». Ambientiamo l’esperienza di Giovanni e cominciamo dall’ultima espressione, e stabiliamo subito un confronto con 19,34: 1,29

Ed io ho visto ed ho reso testimonianza che costui è il Figlio di Dio

19,34 Colui che ha visto ha reso testimonianza e la sua testimonianza è vera

Il testo di 19,34 ci riporta alla esperienza della croce. In 19,34 il testo è inserito dopo la narrazione del colpo di lancia, l’evangelista continua notando appunto che Colui che ha visto ha reso testimonianza. La relazione del nostro testo di Giovanni a 19,34 induce a rileggere la scena al Calvario di 19,31-37. Narra l’evangelista che i giudei, «poiché era la parasceve, perché non restassero sulla croce i corpi di sabato, era infatti grande il giorno


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di quel sabato, chiesero a Pilato che fossero spezzate le gambe e fossero tolti via». L’evangelista ci dà due indicazioni di feste: la parasceve [parola greca: parà-scheve, scheve vuol dire vaso, quindi mettere i vasi a portata di mano, per iniziare la festa. Giovanni parla 3 o 4 volte di parasceve] e il Sabato. Ci dà due richieste dei giudei: «spezzar le gambe» e «toglier via». Le due azioni sono presentate in maniera consequenziale: spezzar le gambe per potere togliere via, ma per togliere via non è indispensabile che siano spezzate le gambe, ma l’evangelista si esprime in maniera tale che se la prima non si verifica, non si verifica nemmeno la seconda. Per Gesù la prima non si verificò, implicitamente l’evangelista insinua che Gesù non fu nemmeno tolto via. Si capisce che siamo sul piano simbolico [non storico], perché difatti storicamente Gesù fu deposto, ma simbolicamente Gesù non fu tolto e l’evangelista narra in contrapposizione, l’apertura del costato da cui uscì sangue ed acqua. Per Gesù il progetto dei giudei non si verifica e l’evangelista si premura di dire che il progetto dei giudei [spezzar le gambe e togliere via] era contrario alla Scrittura, ed i fatti che sono avvenuti, si verificarono, invece, in conformità alla Scrittura. I giudei volevano spezzar le gambe, Dio difende anticipando la morte. La scrittura smentisce i giudei e conferma i fatti: «osso non gli sarà spezzato», l’evangelista cita un testo che è un miscuglio delle prescrizioni riguardanti l’agnello pasquale che proibivano che all’agnello si spezzassero le ossa [Esodo 12,49], più il Salmo 33 dove si parla del giusto che Dio protegge e non gli sarà spezzato alcun osso. Di conseguenza, la richiesta dei giudei a Pilato di spezzare le gambe, agli occhi dell’evangelista è un crimine contro la Scrittura che volevano trasgredire: Gesù è l’agnello pasquale al quale è proibito spezzare alcun osso. Dio difende il suo agnello e anticipando la morte, lo sottrae al tentativo dei giudei. Gesù nemmeno doveva essere tolto via, Egli resta perché la Scrittura preannunziava una fonte da cui sarebbe sgorgata acqua viva [Cfr. Zaccaria 12,10]: «effonderò il mio Spirito di grazia e supplica e guarderanno a me come a colui che hanno trafitto», e perciò Gesù rimane sulla sua croce come fonte perenne dello Spirito che deve indurre gli uomini a guardare a Lui. Giovanni 19,37 cita Zaccaria: «guaderanno a Colui che hanno trafitto», si richiama 6,39 dove l’evangelista dichiara: «questa è la volontà di Colui che mi ha mandato, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna». Questa riflessione sommaria di 19,31-37 ci permette di concludere che l’esperienza di Giovanni deve essere ambientata spiritualmente presso la croce. D’altra parte attorno alla croce gravita tutta questa sezione [questo è il crocecentrismo giovanneo] che stiamo considerando.


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Possiamo fare il seguente confronto: 19,31-37 1. non gli spezzarono le gambe 3. guarderanno a Colui che hanno trafitto

1,29-34 2. ecco l’agnello di Dio 4. ed io ho visto ed ho reso testimonianza che Costui è il Figlio di Dio

Tutta l’esperienza di Giovanni, perciò và dalla percezione presso la croce che Gesù è l’agnello di Dio, alla conclusione che è il Figlio di Dio. Ci limitiamo soltanto a tradurre meglio una espressione tradotta molto male dai testi italiani, in 1,15 Giovanni dice una espressione con tre frasi. La prima frase è: «"#

», la seconda frase è: « $

« %

», la terza frase è:

». Le versioni italiane se non vado errato traducono: «colui che era

prima di me, mi è passato avanti poiché era prima di me». L’espressione si comprende meglio letta alla luce di quanto abbiamo detto. La prima frase «"#

»

non fa difficoltà: «colui che viene dopo di me», non fa difficoltà neppure la terza « %

»: «poiché era prima di me». Fa difficoltà invece la seconda, come si

fa a tradurre «

» con mi è passato avanti? «

» vuol dire divenuto, quindi evo-

ca l’attuazione di qualcosa. La frase è molto vaga, ma se si riempie con il contenuto dell’esperienza di Giovanni, diventa molto chiara. Rileggendo all’inverso avremmo: 1 – la preesistenza [era prima di me]; 2 – il divenire di Gesù [cioè l’attuazione della sua opera di cui Giovanni è stato testimone. Davanti a Giovanni, Gesù si è manifestato ed ha percepito la Sua realtà da agnello di Dio a Figlio di Dio]. 3 – Nella prospettiva giovannea non c’è quella dei sinottici del ritorno escatologico di Gesù, piuttosto Giovanni concepisce un cammino del crocifisso verso il Padre. In questo cammino troviamo la figura del precursore che dopo avere fatto esperienza passa avanti per annunziare questa venuta. È la stessa prospettiva che troveremo in 13,1 dove l’evangelista parla del passaggio da questo mondo al Padre, ed è la stessa prospettiva che troviamo in 20,17 dove Gesù dichiara alla Maddalena «cessa di toccarmi, ma và ed annunzia ai miei fratelli: “salgo al Padre mio e Padre vostro”».


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Ecco allora i tre momenti: 1 – la preesistenza, in un cammino che và dalla preesistenza alla croce. 2 – Nella croce Gesù si manifesta e il testimone lo percepisce in un progresso che và dalla esperienza di Gesù come l’agnello di Dio alla percezione che è il Figlio di Dio; 3 – il precursore, fatta esperienza passa avanti per annunziare la venuta di uno che dalla croce ha iniziato il suo cammino fino al Padre attraverso la storia. 1° “l’indomani”: è l’esperienza di Giovanni il Battista; Il 2° e 3° “l’indomani” riguardano anche dei discepoli. Nel secondo “l’indomani” [1,35-42] abbiamo Giovanni il Battista che media l’esperienza di due discepoli, leggiamo infatti in 1,35 che «l’indomani Giovanni vede Gesù, dichiara: “Ecco l’agnello di Dio” e i due discepoli udirono da Giovanni e seguirono Gesù». Nel terzo “l’indomani” scompare Giovanni rimangono soltanto due discepoli. Abbiamo così quattro discepoli: due nel secondo “l’indomani” e due nel terzo “l’indomani”. Giovanni in ciò riprende e supera la tradizione sinottica, Matteo e Marco all’inizio della vita pubblica di Gesù presentano presso il mare di Galilea la vocazione di quattro discepoli. Secondo Matteo e Marco i quattro discepoli sono: Pietro e Andrea, poi i due figli di Zebedeo: Giacomo e Giovanni. Nei primi due discepoli Giovanni concorda e diverge dai vangeli sinottici: pure per Giovanni i primi due sono: Pietro e Andrea ma in ordine inverso, non Pietro e Andrea, ma Andrea che media l’incontro tra Gesù e Pietro. Gli altri due nomi divergono completamente. Giovanni non parla dei figli di Zebedeo: li menzionerà soltanto di passaggio in 1,2, piuttosto Giovanni introduce le due figure di Filippo che media il bellissimo incontro tra Gesù e Natanaele «ti ho visto quando eri sotto il fico» che passa dalla sfiducia terrena alla professione di fede «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio!». Possiamo notare un particolare cammino, nel primo “l’indomani” l’esperienza di Giovanni parte da Gesù come l’agnello di Dio e culmina nella professione di fede di Giovanni «costui è il Figlio di Dio». L’esperienza dei discepoli nel secondo e terzo “l’indomani” parte ancora dalla presentazione del Battista.


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Possiamo notare questo schema: GIOVANNI 1 – ecco l’agnello di Dio 2 – Tu sei il Figlio di Dio

I DISCEPOLI 1 – ecco l’agnello di Dio 2 – Rabbì, Tu sei il Figlio di Dio

Perciò, nei tre “l’indomani”, emerge un cammino fatto da Giovanni e mediato da Giovanni che parte dall’esperienza di Gesù come agnello di Dio e culmina nella professione di fede in Gesù come Figlio di Dio. Il secondo “l’indomani” è caratterizzato dal raduno dei discepoli, in parole povere, dietro questa lunga descrizione, che và da 1,29 ad 1,51 c’è nascosta la prospettiva di 12,32: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». Ma il triplice “l’indomani”, come tre aspetti letterari di un solo giorno [il secondo], esige un primo giorno. Questo primo giorno, di conseguenza, deve essere cercato in tutto il testo di prima, da 1,1 [il prologo] ad 1,28. Non ci impelaghiamo nel prologo, soltanto leggiamo tutta questa parte in una sola prospettiva: quella di 1,4-5. L’evangelista, dopo avere descritto la preesistenza della Parola, e dopo avere descritto l’incidenza nella creazione, passa a descrivere la presenza della Parola nella storia degli uomini: «in essa era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende tra le tenebre, le tenebre non poterono sopraffarla». [vita – luce – cieco nato – Lazzaro]. Proponiamo in soldoni tutto il senso della prima sezione, essa è costruita sulla professione di fede di Gesù risorto il terzo giorno [Cana di Galilea]. Gesù è risorto il terzo giorno, e l’evangelista reinterpreta questa professione di fede riempiendo gli altri due giorni nel seguente modo: 1° giorno – la luce si manifesta [1,1-28]; 2° giorno – la luce manifestatasi, raduna i discepoli [1,29-51]; 3° giorno – li introduce al banchetto escatologico [2,1 – Cana di Galilea].


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SECONDA SEZIONE La seconda sezione è invece costruita non più sullo schema cronologico, ma è costruita secondo uno schema geografico ascendente. Ed ecco allora: 1 – Giudea [capitolo 3 – Dialogo con Nicodemo]; 2 – Samaria [capitolo 4 fino al versetto 42 – L’incontro con la donna samaritana]; 3 – Galilea [capitolo – La guarigione di un figlio di un funzionario regio ambientata in Galilea, relazionata a Cana ed avvenuta a Cafarnao, su questa seconda sezione diremo mezza parola sul secondo episodio: l’incontro con la Samaritana]. Sabato 22 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 LA SAMARITANA Il racconto della samaritana è tutto uno sviluppo che culmina in una delle più belle professioni di fede del vangelo di Giovanni, in 4,42, la professione di fede dei samaritani: «noi stessi [] abbiamo visto ed abbiamo conosciuto che Costui è il Salvatore del mondo», ma prima di arrivare a questa professione di fede, c’è l’incontro tra Gesù e la donna, il dialogo tra Gesù ed i discepoli, la testimonianza della donna ai suoi concittadini. Facciamo una osservazione più generale, l’incontro tra Gesù è la samaritana si situa in un contesto più ampio di relazione tra Gesù e delle donne, la cui presenza, anche strutturalmente è ben studiata dal nostro autore. Possiamo infatti stabilire il seguente schema: 1 – [2,1-11: Cana] – La donna – madre; 2 – [cap. 4] – l’incontro tra Gesù e la Samaritana: donna; 3 – [cap. 11] – Marta e Maria, sorelle di Lazzaro; 4 – [12,1-8] – Marta e Maria, sorelle di Lazzaro; 5 – [19,25-27] – La donna – madre; 6 – [20,1-18] – incontro tra Gesù e la Maddalena al sepolcro: donna. Le donne sono strutturate nel testo secondo uno schema insieme concentrico ed alternato. La relazione tra 3 e 4, le sorelle di Lazzaro, è chiara, come pure è chiara la relazione tra 1 e 5, la donna madre, al punto che, non si può spiegare Cana senza la croce e nemmeno la croce senza Cana. Di conseguenza, nemmeno l’episodio della Samaritana, potrà essere completamente capito senza la Maddalena, o viceversa. Entrando nel racconto diret-


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to, narra l’evangelista, che Gesù doveva andare in Galilea ed era necessario [dal punto di vista teologico] passare attraverso la Samaria. Narra l’evangelista che lì c’era la fonte di Giacobbe. Gesù ha faticato del cammino, sedeva presso la fonte, era l’ora sesta. Sorprende questa indicazione cronologica, non necessaria allo sviluppo del testo. La menzione dell’ora sesta nelle parole « %

% » [4,6] si legge un’altra volta nel

vangelo di Giovanni, in 19,14. D’altra parte sono soltanto questi testi dove è menzionata l’ora sesta. Di conseguenza leggendo l’episodio della Samaritana non posso non richiamare 19,14. Che cos’è 19,14? In 19,13 leggiamo che Pilato avendo sentito le parole dei Giudei condusse fuori Gesù e sedette in tribunale [traducono le versioni italiane], invece è bene tradurre: «Pilato lo fece sedere». «

&

» [Pilato fece sedere Gesù]: il testo di 19,13-14 ci parla

di Pilato che condusse fuori Gesù. Segue poi l’espressione « bo «

&

». Il ver-

' » può avere due significati: transitivo: far sedere oppure intransitivo: sedersi. In

senso intransitivo è Pilato che siede, in senso transitivo è invece Pilato che fece sedere Gesù. Il parallelo con l’espressione attiva « $

$ » suggerisce di dare lo stesso senso at-

tivo al verbo seguente, perciò non è Pilato che siede, ma è Gesù. Storicamente il testo si capisce bene: Pilato presenta Gesù ai giudei, ma Gesù è affranto, ha già subito la flagellazione, per un atto di clemenza Pilato lo fece sedere. Si può notare l’espressione «

&

», il «&

» è un sedile del tribunale, l’assenza dell’articolo indica che Pilato

fece sedere Gesù in una sedia di indole giudiziario, non si tratta della sella «curulis» dove sedeva il presidente di tribunale, ma si tratta di una delle tante sedie dove la corte prendeva posto. D’altra parte perché doveva sedere Pilato? Pilato doveva sedere per pronunziare una sentenza. In realtà Pilato non pronunzia un sentenza, ma proclama «ecco il vostro re». Possiamo confrontare questa descrizione di Pilato con la descrizione della croce. Narra l’evangelista che Pilato fece sedere Gesù in un luogo detto «litostroton», in ebraico «gabbata», ed allora pronunzia le parole: «ecco il vostro re».


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Possiamo stabilire la seguente relazione: 1 – Pilato fece sedere Gesù; 2 – in un luogo detto «litostroton», in ebraico «gabbata»; 3 – «ecco il vostro Re» 4 – Togli, crocifiggi. 1 – in un luogo detto del Cranio, in ebraico «Golgota»; 2 – dove lo crocifissero; 3 – Gesù Nazareno, Re dei giudei; 4 – cancella, non riscrivere. Appare chiaro il parallelismo tra le due scene, in particolare il «fece sedere» richiama «lo crocifissero», anche la crocifissione può essere paragonata ad una sessione perché probabilmente lo gabellino c’era ma non sotto i piedi, ma più alto, dove il condannato assumeva una posizione quasi a cavalcioni. Stanno anche in relazione i nomi dei luoghi: «litostroton», in ebraico «gabbata» e del Cranio, in ebraico «Golgota», cioè l’evangelista mi dà in termine ebraico entrambe le due volte. Ma il nostro caro evangelista fa un errore perché né «gabbata», né «Golgota» non sono termini ebraici, ma aramaici, ma realmente commette un errore tra le due lingue o forse mi dice di leggere in ebraico la parola aramaica? Per potere leggere in ebraico debbo andare alla radice, in ebraico la radice « «

» significa «alto». Lo stesso nome «

» [Golgota] ha radice «

» di

» mi riman-

da alla rivelazione. Perciò concludendo il nome «gabbata» in lingua ebraica mi rimanda alla esaltazione, il nome «Golgota» in lingua ebraica mi rimanda alla manifestazione, rivelazione. Ciò coincide con Giovanni 8,28: «quando innalzerete [Gabbata] allora conoscerete [Golgota] che Io sono». Non ci addentriamo oltre su queste due scene, come anche non diciamo nulla sul termine «litostroton», termine greco [litos: pietra; stroton: distendere] e perciò indica un lastricato di pietra sul cui senso simbolico sorvoliamo. Il confronto con la narrazione della crocifissione mi conferma che non è Pilato che siede, bensì è Pilato che fa sedere Gesù e proclama «ecco il vostro Re». Con tutte queste osservazioni torniamo al racconto della Samaritana. Gesù ha faticato per il cammino, sedeva presso la fonte, era l’ora sesta.


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Notiamo il parallelismo: Pilato fece sedere Gesù in un luogo di tribunale, era l’ora sesta.

'

GIOVANNI 4,6

GIOVANNI 19,13 &

%

%

[era l’ora sesta]

%

%

[era l’ora sesta]

Non entriamo nei particolari. Questo confronto è sufficiente per concludere che l’episodio della Samaritana presuppone come suo sfondo di ambientazione la croce, idealmente quel racconto presuppone la croce. Gesù stanco dal viaggio è da intendere allora il cammino della passione. Torneremo ancora a delle relazioni, al racconto della passione, ma leggiamo il testo. Nel verso 7 si legge: «viene una donna dalla Samaria ad attingere acqua». Si tratta di una venuta estemporanea casuale, oppure la venuta della donna è la risposta ad un invito? In realtà l’invito c’è ed è contenuto in 7,37-39 dove Gesù grida: «chi ha sete venga a me e beva, fiumi dal suo seno escono di acqua viva». Nel contesto del capitolo 7 l’invito di Gesù non trova risposta, ma il testo di 4,7 continua bene. La vera risposta all’invito di Gesù è la venuta della donna samaritana. Ma perché Gesù in 7,37 dice: «chi ha sete»? Vedremo che questo verbo dipende da Isaia 55,1: «o voi tutti assetati venite all’acqua», lasciando stare Isaia e leggendo il verbo nel quarto vangelo possiamo stabilire un parallelo con 19,28-30, dove leggiamo: «Gesù, visto che tutto era stato portato a compimento, perché si adempisse la Scrittura, disse ho sete […] disse: “tutto è stato compiuto”, e avendo reclinato il capo [

] consegnò lo Spirito». Ma questa scena richiama quattro versi prima

il verso 34, dove si dice che uno dei soldati aprì il costato ed uscì sangue ed acqua. Possiamo fare allora il seguente parallelismo: 7,37-39 Chi ha sete […] fiumi dal suo seno escono di acqua viva ciò disse dello Spirito

19,28-30.34 Ho sete donò lo Spirito uscì sangue ed acqua donò lo Spirito


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Possiamo allora concludere che l’incontro tra Gesù è la Samaritana, in ultima analisi, affonda le sue radici nella croce. Possiamo ricostruire all’inverso nel seguente modo: 1 – [19,34] «e si apre la fonte ed esce l’acqua»; 2 – dicendo di avere sete, Gesù rivela agli uomini la sete alla quale risponde donando lo Spirito; 3 – [7,37-39] può rivolgere l’invito all’assetato a venire a Lui e bere perché da Lui esce acqua viva; 4 – [cap. 4] una donna accoglie l’invito e viene dalla Samaria ad attingere acqua. Però il discorso non finisce qui, viene una donna dalla Samaria ad attingere acqua ma l’azione rimane in aria: la donna chiede l’acqua, ma non attinge. 5 – Il discorso si conclude a Cana: «attingete e portate a tavola». E perciò si può scorgere un filo che parte dalla croce e giunge a Cana: l’acqua da attingere che diventa vino, è l’acqua che è sgorgata dal costato di Cristo, ed infatti si può stabilire il presente parallelismo: [19,34] 1 – sangue; 2 – acqua; [cap. 2 - Cana] 3 – acqua; 4 – vino. IL DIALOGO TRA GESÙ E LA DONNA Tutto il dialogo tra Gesù e la donna si articola in tre parti: 1 – versi 7-15: uno sviluppo attorno al tema dell’acqua; 2 – versi 16-18: uno sviluppo attorno al tema del marito; 3 – versi 19-24: uno sviluppo attorno al tema della adorazione del Padre. Il tema dell’acqua si colloca bene ancora nel contesto della croce: 1 – 19,28 – ho sete; 2 – 4,7 – donna dammi da bere; 3 – 4,15 – Signore dammi di quest’acqua; 4 – 19,30 – reclinato il capo, donò lo Spirito. Questo schema ci suggerisce che la prima parte del dialogo riguardante l’acqua si incastona nel testo di 19,28-30 [Metodo giovanneo ad incastro]. Passiamo al tema del marito, il testo è estremamente ermetico, probabilmente da leggere in chiave apocalittica.


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Giovedì 27 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 La seconda parte, non tratta più né del tema dell’acqua, né del bere, ma il tema centrale è quello dello sposo. Gesù dice alla donna di andare a chiamare suo marito, la donna risponde di non averne; Gesù conferma: «cinque ne hai avuto e quello che hai non è il tuo». Questa seconda parte si interrompe, la donna propone un nuovo tema, quello della adorazione. Nella terza parte non tornerà più né il tema dell’acqua, né quello dello sposo. Questa seconda parte è ermetica ed allusiva insieme, mancano dei criteri precisi per interpretarla. Personalmente scegliamo l’interpretazione storica, e questa interpretazione ci è suggerita dallo sfondo stesso del dialogo. La donna aveva obiettato: «come mai Tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono samaritana?» e perché poi Gesù nel verso 22 dichiara: che la salvezza viene dai giudei? Riteniamo di avere una risposta se presupponiamo lo sfondo della croce. Idealmente la donna conosce che Gesù è giudeo dal titolo della croce che proclama la regalità di Gesù, tale regalità richiama la dimensione messianico-davidica di Gesù. Lo sfondo perciò sarebbe la storia da Davide a Davide, del resto nell’incontro tra Gesù e la donna samaritana c’è lo sfondo di Ezechiele. Nel capitolo 34 il profeta aveva annunziato che Dio stesso avrebbe radunato il suo gregge, poi aveva precisato che Davide sarebbe stato il loro pastore. Nello sfondo del capitolo 4 c’è perciò Davide, non solo quello passato, ma quello futuro che Dio avrebbe costituito pastore. L’incontro tra Gesù e la donna è regolato da un altro testo di Ezechiele, nel capitolo 37, dopo la visione delle ossa aride, è descritta una azione simbolica: il profeta deve prendere due legni, scrivere su ciascuno di essi, su uno «Casa di Israele», sull’altro «Casa di Giuda» e deve metterli insieme. Il profeta così annunzia l’unificazione dei due regni che costituivano l’unico regno davidico e si sarebbero ricomposti nell’unico regno davidico. Nel racconto della samaritana questi testi convergono: si stanno incontrando una donna samaritana ed il giudeo Gesù, si realizza così quella unità dei due regni che Ezechiele aveva preannunziato. Tale unità è operata da Davide, re pastore, che incontra una donna samaritana. In questo sfondo i cinque mariti sarebbero le cinque dominazioni storiche da Davide a Davide, cioè dall’antico re Davide al nuovo Davide, se confrontiamo con la storia i cinque mariti corrisponderebbero con gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci, i seleucidi, popoli che hanno dominato sull’antico regno davidico. Il sesto marito che la donna ha non è suo: sono i dominatori del momento, i romani. Se questa interpretazione è valida avremmo allora la ricostituzione in unità


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dell’unico regno davidico. Ciò può concordare con 11,52, dove l’evangelista scriva che «Gesù doveva morire per radunare in unità i figli di Dio che erano stati dispersi», questo raduno in unità sarebbe appunto descritto nell’incontro tra il giudeo Gesù e la donna samaritana emblema di due popoli. Il testo rimane sospeso quando Gesù dice che il sesto marito che ha non è suo, la donna replica rimandando alla adorazione. C’è chi con molta sapienza ha detto che la donna scoperta nella sue magagne ha preferito cambiare discorso. Preferiamo non seguire cotanta sapienza, piuttosto salvo errore, il testo presenta una sospensione di discorso molto allusiva: la donna ha un sesto marito, ma non è suo perché il vero marito le sta di fronte. Si capisce allora la terza parte molto articolata, la donna dice: «Signore i nostri padri hanno adorato su questo monte», le versioni italiane scrivono volendo chiarire: «Signore i nostri padri hanno adorato Dio su questo monte» forse ritenendo che Giovanni se la sia dimenticata, ma aggiungendo questa parola commettono un madornale errore: nel contesto la donna suscita un problema storico: dopo il ritorno dall’esilio si procedette alla ricostruzione del tempio che conobbe alterne vicende e momenti di stasi al punto che dovette intervenire anche il persiano Altaserser. Quella ricostruzione fu sollecitata anche da Aggeo e dal primo Zaccaria [capitoli 1-8]. Per farla breve in questa ricostruzione furono chiamati anche i samaritani che però non vollero venire, ma quando si presentarono furono cacciati, ed allora si ritirarono sul monte Karizim dove costruirono un tempio, ciò fu ritenuto uno scisma perché si diceva che Dio si doveva adorare soltanto a Gerusalemme. La donna vorrebbe quasi legittimare il culto sul monte Karizim, ma Gesù, nella penna dell’evangelista mette su uguale piano l’adorazione sul monte Karizim e quella in Gerusalemme: entrambe non raggiungo a Dio perché l’adorazione a Dio non dipende dall’uomo. Gesù infatti replica: «credimi donna, viene l’ora in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre, perché la vera adorazione al Padre è quella fatta in Spirito e verità». Ciò spiega perché in 12,20, dove l’evangelista narra la venuta dei greci, l’evangelista ha scritto: «tra quelli che erano saliti a Gerusalemme per adorare nella festa, alcuni erano greci», l’evangelista indica la presenza della festa, ed in quella festa si deve adorare. Nemmeno qui Giovanni introduce l’oggetto [adorare Dio], ma bisogna passare dall’adorare all’adorare Dio, cioè da una adorazione che non arriva ad una adorazione che arriva. Ecco perché i greci chiedono a Filippo: «vogliamo vedere Gesù», perché al Padre non si arriva se non attraverso Gesù [Cfr. 14,6]: «Io sono la via, la verità e la vita: nessuno può pervenire al Padre se non attraverso si me». Concludendo: il dialogo tra Gesù e la donna è un dialogo eminentemente trinitario, su tre parti l’acqua uguale lo Spirito, lo Sposo


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uguale Gesù e l’adorazione del Padre. L’adorazione che giunge al Padre è in Spirito e verità: la verità è Gesù… quindi passa dallo Spirito ed arriva a Gesù. La terza sezione gravita attorno a due feste: Pasqua [capitolo 6], ed i Tabernacoli [capitolo 7]. LA SECONDA PARTE La seconda parte del vangelo inizia da 13,1, dove noi leggiamo il seguente testo: Prima della festa di Pasqua; sapendo Gesù; che era giunta la sua ora; di passare da questo mondo al Padre; avendo amato i suoi che nel mondo a compimento li amò. In questa espressione abbiamo una preposizione circostanziale temporale: «prima della festa di Pasqua», questa preposizione circostanziale pone due problemi: a) di quale Pasqua si tratta; b) quanto è questo “prima”. Alla luce di 12,1, dove si legge: «sei giorni prima di Pasqua», questa indicazione giovannea di 13,1 assume il carattere di una vera e propria imminenza, sembrerebbe che l’azione di Gesù sia sollecitata proprio dall’imminenza di questa festa. Quale sia poi questa festa, l’evangelista, da una parte non lo dice, dall’altra lo esprime in maniera chiara. Non lo dice perché non dice per esempio “Pasqua dei giudei”, ma lo dirà poi dopo, quando dice che “era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre”. Pasqua sappiamo che è la traslitterazione in greco del termine ebraico “pesäch”, e il “pesäch” era il passaggio. Stavolta però, la Pasqua, non è più la memoria dell’antico esodo, ma la vera pasqua giovannea è il passaggio da questo mondo al Padre. Nella prospettiva di questo passaggio Gesù compie una azione. La struttura letteraria di 13,1 è molto semplice e prevede quattro punti: 1 – circostanziale temporale: «prima della festa di Pasqua»; 2 – circostanziale participiale: «sapendo…»; 3 – circostanziale participiale: «avendo amato»; 4 – azione diretta: «a compimento li amò».


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Subito dopo questa espressione è importante qualche osservazione; l’espressione è: «

». Fermiamo l’attenzione sul verbo «

» che è un aoristo. Su

questo verbo bisognerebbe considerare due cose: anzitutto il suo significato. Il secondo problema riguarda l’aoristo, questo aoristo non rimanda ad un sentimento, ma ad una azione storica precisa: emerge il problema quale sia l’azione storica. Importante è l’espressione «

»: «

» con l’accusativo indica orientamento, ma su questa frase osserviamo due

cose: 1) anzitutto la sua posizione strutturale: è messa prima del verbo, ciò significa che questa espressione contiene la vera prospettiva dell’evangelista. 2) Si può notare ancora che « » è senza articolo, la presenza dell’articolo mi avrebbe dato una realtà concreta, ed in questo caso, poteva anche avere il senso cronologico: «fino alla fine», l’assenza dell’articolo impedisce di dare all’espressione un valore cronologico, ma piuttosto, suggerisce un senso qualitativo intensivo: non si tratta perciò di un amore portato cronologicamente fino alla fine, ma di un amore che raggiunge la sua massima intensità e il massimo compimento. Potremmo perciò dire che prima della festa di Pasqua, Gesù portò a compimento la sua opera di amore, e tale compimento si rende necessario per l’imminenza della Pasqua. È importante l’espressione: «passare da questo mondo al Padre», che evoca chiaramente l’esodo, non più però dall’Egitto alla terra promessa, bensì dal mondo al Padre. La prospettiva di questo passaggio induce a considerare la prospettiva di fondo del Vangelo di Giovanni, ed infatti questa seconda parte è collocata nello sfondo di questo grande ritorno di Gesù al Padre. Riteniamo che tutta la struttura del Vangelo di Giovanni gravita attorno al testo di Isaia 55,10-11: salvo errore, è proprio questo testo che costituisce il telaio su cui il quarto vangelo è costruito.


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Possiamo allora considerare questo testo. ISAIA 55,10-11 Testo greco dalla versione dei LXX 10

Traduzione letterale

Testo ebraico

in italiano dal testo ebraico Poiché come scende

&

la pioggia e la neve

(

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, &#

( &

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ed averla fatta fecondare ed

./0!12 . ' 3

11

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averla fatta fruttificare

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(

B' C

na e pane a colui che mangia così sarà

)

la mia parola che esce

A& ! )

e dia seme a colui che semi-

:2?$ 1= @

*

e là non torna

- senza impregnare la terra

45& 67 )4 5 8+$ 9' : $

dal cielo

dalla mia bocca

3= % D' # ( ? non torna a me vuota ) E4#

G12 H& /

F ma anzi fa #

ciò che ho voluto

/5 3 12 D

e porti a compimento ciò per cui

; G> /2 2 l’ho inviata


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Sabato 29 ottobre 2005, ore 08,30 / 10,15 I versi 10 ed 11 di Isaia 55 sono importanti perché essi sembrano costruire lo schema del vangelo di Giovanni. Veramente l’evangelista non ha presenti solo questi versi, ma anche il verso iniziale di Isaia 55,1, questo verso scrive: «o voi tutti assetati, venite all’acqua», immagini che stanno ad indicare che il dono di Dio è aperto a tutti ed a tutti Dio dona gratuitamente. Questo primo verso è ripreso da Apocalisse 22,17b, ma è ripreso anche dal quarto vangelo. In 7,37-39, Gesù grida le parole: «chi ha sete [voi tutti assetati] venga a me [venite all’acqua]». Su questo testo, però non diciamo altro. Fermiamo la nostra attenzione sui versi 10 e 11, notiamo anzitutto una comparativa di uguaglianza. Dio sta istituendo un paragone tra la pioggia e la neve e la Sua parola. La ripresa di questo testo era facile perché si parla di parola. Nel testo dei LXX troviamo il termine « mine «

», però sia «

» che «

» mentre il quarto vangelo usa il ter-

» traducono la stessa parola ebraica «

».

Nel verso 10 si descrive una mini storia della pioggia e della neve, una storia in tre momenti oppure in tre dinamismi: 1 – dinamismo discendente [scende dal cielo]; 2 – dinamismo ascendente [non torna a me senza]; 3 – dinamismo intermedio [tra la discesa e l’ascesa c’è una azione descritta dall’autore con quattro azioni: a) impregnare la terra; b) farla germogliare – renderla feconda; c) farla fruttificare; d) perché dia seme al seminatore e pane da mangiare]. Perciò tutto il cammino della pioggia fa a finire nel dono del pane, ma prima che si arrivi al pane, la parola deve compiere una azione quale impregnare il terreno. Questo triplice dinamismo si riscontra anche nella parola di Dio, anzi prima di tutto nella parola perché l’esempio della pioggia e della neve sono posti in funzione della parola.


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La parola di Dio ha anch’essa tre dinamismi: 1) esce dalla bocca Dio; 2) deve compiere ciò che Dio ha voluto e realizzare ciò per cui è stata mandata; 3) torna a Dio. Su questi tre dinamismi poggia tutto il quarto vangelo. Notiamo subito una fondamentale differenza rispetto ai vangeli sinottici. I sinottici, come del resto tutto il NT, sono protesi verso il ritorno del Signore, donde la dimensione spirituale evangelica della vigilanza e della attesa, il quarto vangelo, invece, non parla di ritorno del Signore, bensì del ritorno di Gesù al Padre. La fede primitiva professò che il Signore risorto è salito al cielo, un giorno sarebbe tornato e, tra l’ascensione e la parusia c’è tutto il tempo della chiesa; il quarto vangelo concepisce come un grande ritorno di Gesù al Padre, qualcosa di analogo si avrebbe, con tutte le differenze possibili ed immaginabili, nella lettera agli Ebrei. Se è lecito applicare alla storia il vangelo di Giovanni dovremmo dire che tutta la storia è intesa come un grande ritorno di Gesù al Padre, nel frattempo bisogna radunare gli uomini. Non è una idea applicata, ma la deduciamo dal vangelo stesso, vedi per esempio la prima sezione, il cui secondo giorno è il raduno dei discepoli, e il terzo l’ingresso a Cana di Galilea. Ma possiamo citare anche Giovanni 20,17, dove Gesù dice alla Maddalena: «cessa di toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio, ma và ai miei fratelli ed annunzia loro: “salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Questo passaggio deve essere spiegato alla luce del Cantico dei Cantici, la donna si è unita al suo Signore «l’ho trovato e non lo lascerò più», ma il Signore precisa che ancora non è il tempo di trattenere, perché ancora non è salito al Padre, ciò significa che solo allora sarà completo e definitivo e completo l’incontro sponsale, nel frattempo la donna ha una missione: andare dai fratelli ed annunziare che Gesù sta salendo al Padre [è la missione della Chiesa], e perciò bisogna affrettarsi ad unirsi a Lui. Riteniamo perciò che Giovanni abbia appunto questa concezione della storia, come il tempo del raduno attorno a Gesù per giungere con Lui al Padre. Abbiamo detto che lo schema di Isaia è discendente, orizzontale ed ascendente.


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Troviamo queste tre linee, o almeno la prima e la terza in diversi testi, ne citiamo tre, in ordine progressivo di difficoltà ed in ordine inverso di lettura del testo: 1) 16,27-28; 2) 1,1-3; 3) 1,1-18; Il primo testo contiene le parole di Gesù complesse nel contesto, dove Gesù dichiara ai discepoli rimproverandoli perché non hanno chiesto nulla e dichiara loro di chiedere al Padre, e Gesù dichiara che il quel giorno non ci sarà più bisogno della Sua mediazione, ed infatti: «il Padre stesso vi accoglie [)

] perché voi mi avete accolto ed avete creduto

che da Dio sono uscito». Gesù a queste parole amplia aggiungendo «sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo [linea discendente], lascio il mondo e vado al Padre [linea ascendente]», in questo testo, Gesù indica la sua storia dal Padre al mondo e dal mondo al Padre. Il questo testo della storia intermedia, almeno esplicitamente non si dice nulla. Ma più importante è il testo di 13,1-3 che è opportuno citare per esteso: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, a compimento li amò». «mentre diveniva il banchetto, avendo il diavolo gettato nel cuore di Giuda di Simone Iscariota di tradirlo, sapendo che tutto il Padre gli ha dato nelle mani e che da Dio è uscito e a Dio và, si alza dal banchetto […]». Possiamo in questo testo stabilire, un confronto tra le due parti: A B 1) Prima della festa di Pasqua 1) mentre diveniva il banchetto 2) Gesù sapendo che era giunta l’ora di pas- 2) avendo il diavolo gettato nel cuore di sare da questo mondo al Padre Giuda di Simone Iscariota di tradirlo 3) sapendo che tutto il Padre gli ha dato nel3) avendo amato i suoi che nel mondo le mani e che da Dio è uscito ed a Dio va 4) a compimento li amò 4) si alza da tavola […] Le due parti stanno in parallelo, notiamo anzitutto le due circostanze cronologiche tra 1 ed 1, notiamo anche i verbi diretti (4 con 4). Tra la circostanza cronologica ed i verbi diretti troviamo due espressioni participiali introdotti nelle due parti in maniera inversa.


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Fermiamo l’attenzione su queste frasi participiali e mettiamole in ordine: 1) sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre; 2) avendo amato i suoi che nel mondo; 3) avendo il diavolo gettato nel cuore di Giuda di Simone Iscariota di tradirlo; 4) sapendo che tutto il Padre gli ha dato nelle mani e che da Dio è uscito ed a Dio và. Il primo e il quarto participio sogno gli stessi, ed il primo ed il quarto elemento, come vedremo, stanno in continuità. Il secondo e il terzo, invece, stanno in antitesi. All’opera di amore di Gesù verso i discepoli si contrappone l’opera del diavolo contro Gesù, il diavolo che ha sobillato Giuda. Fermiamo la nostra attenzione sulla prima e quarta frase: 1) sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre; 2) sapendo che tutto il Padre gli ha dato nelle mani e che da Dio è uscito ed a io và. La seconda frase amplia la prospettiva della prima, nella prima si parlava soltanto dell’ora di compiere il passaggio pasquale dal mondo al Padre, nella seconda c’è l’idea di andare a Dio che richiama il passaggio da questo mondo al Padre, ma l’evangelista risale al fatto di essere uscito da Dio: deve tornare a Dio perché da Dio è uscito [il richiamo ad Isaia 55 è chiaro]. Ma l’evangelista si pone due domande: 1) perchè è uscito da Dio? 2) che cosa deve fare prima di tornare a Dio? La risposta a queste due domande è contenuta nella frase: «sapendo che tutto diede a Lui il Padre nelle mani». Ma che vuol dire questa frase?


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Per poterla comprendere dobbiamo leggerla in greco dove troviamo la seguente espressione in Gv 13,3: « % » - particella oggettiva – introduce un oggetto; « » – tutte le cose; «$ » – [diede] aoristo; « » – a lui il Padre; « » – nelle mani – complemento di moto a luogo; Questa frase da sola non direbbe niente, ma, salvo errore, dice tutto se la si paragona ad un’altra espressione in 3,35: Il Padre ama il figlio ] e tutto [ ha dato [ ] – perfetto nella Sua mano [

] 2.

I due testi concordano in quattro elementi: 1) la menzione del Padre; 2) il pronome , neutro, tutte le cose; 3) il verbo «dare» [ ]; 4) il termine «mano» [ ] Ci sono però due differenze fondamentalissime in questi due testi: 1) il verbo « » in 13,3 si legge all’aoristo « $ », in 3,35 si legge al perfetto « »; 2) la menzione della mano in 13,3 è al plurale, è complemento di moto al luogo « » in 3,35 è al singolare ed è complemento di stato in luogo [ ]

2

complemento di stato in luogo:

+ dativo.


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Quale dei due testi è prima, 13,3 o 3,35? Il testo di 13,3 precede 3,35. Anzitutto l’aoristo indica in 13,3 una azione ingressiva [aoristo ingressivo], il perfetto di 3,35 indica una azione passata che dura tuttora al presente. L’aoristo indica una azione incipiente, il perfetto indica una azione stabile e duratura. L’espressione «

» è complemento di moto a luogo, ciò significa che

c’è una tensione verso le mani, ma ancora non si dice che tutte le cose sono già in maniera stabile nelle mani, cosa che dirà 3,35 con il suo complemento di stato in luogo: il complemento di stato in luogo indica che tutte le cose sono già in maniera stabile nelle mani di Gesù. Il confronto tra i due testi dice che ci sono due azioni, quella iniziale del Padre che ha dato in potenza tutte le cose in mano a Gesù; Gesù deve passare dalla potenza all’atto, cioè rendere tutte le cose in maniera stabile e definitiva nelle Sue mani: per questo motivo esce da Dio. Possiamo proporre tutto nel seguente modo schematicamente: 1) il Padre in potenza diede [aoristo – « $ »] tutte le cose in mano a Gesù [complemento di moto a luogo] (13,3); 2) per questo esce da Dio; 3) rende tutto in maniera stabile « » nella sua mano [ ]; 4) dopo aver reso tutto in maniera stabile nelle sue mani, con quelli che sono nelle sue mani può tornare a Dio. Analogo pensiero, pur con tutte le differenze troviamo in 10,29, dove Gesù dichiara: «il Padre mio che ha dato «

» a me è migliore di tutti e nessuno può rapire dalla

mano del Padre», ma nel verso precedente, a riguardo delle pecore, Gesù afferma: «nessuno rapisce dalla mia mano», le pecore sono in maniera stabile nelle mani di Gesù, ma non si fermano alle mani di Gesù, perché le mani di Gesù conducono alla mano del Padre: «Io e il Padre siamo una sola cosa». Torniamo al nostro testo, emerge una domanda: come Gesù passerà dall’avere tutto in potenza nelle sue mani ad avere tutto in atto nelle sue mani? Ed ecco la risposta, contenuta nella frase: «avendo amato i suoi che nel mondo a compimento li amò», cioè Gesù realizzerà tutto portando a compimento l’opera di amore. Quale sia il compimento dell’opera di amore speriamo di arrivarci, ma intanto diciamo che è descritta nella serie di azioni simboliche di alzarsi da tavola fino a lavare i piedi, ma soprattutto ad asciugarli. Al momento ci limitiamo soltanto a dire che l’autore delinea una


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storia: il compimento dell’opera di amore che permetterà il passaggio dall’avere tutto in potenza all’avere tutto nelle mani in atto, e che culmina nel compimento dell’opera di amore, ha due punti di partenza, uno formale ed uno storico. Il punto di partenza storico è il tradimento di Giuda e più a monte l’opera del diavolo, ma paradossalmente l’opera del diavolo permetterà, col tradimento di Giuda, la realizzazione dell’opera di amore. In realtà la vera causa non è il tradimento di Giuda [quella è la causa storica], ma il fatto che Gesù ha amato. Giovedì 03 novembre 2005, ore 10,30 / 12,15 Il terzo testo è il Prologo del Vangelo in Giovanni 1,1-18. Il Prologo si estende dal verso 1 fino al verso 18. In questo prologo l’evangelista introduce in maniera ancora non chiara molti temi che svilupperà chiaramente in seguito creando delle sintesi per cui il Prologo si legge meglio alla fine di tutto il vangelo. Considereremo il prologo esclusivamente per cogliere le dinamiche discendente e ascendente che caratterizzano il Vangelo. Questo Prologo ha una storia e tra gli interpreti è dibattutissimo il problema della sua origine, se cioè il quarto evangelista componga lui questo prologo o non piuttosto riprenda una composizione preesistente adattandola al suo scopo. Nel Prologo, così come è attualmente nel Vangelo, possiamo distinguere due parti: la prima parte va dal verso 1 fino al verso 13; la seconda parte va dal verso 14 fino al verso 18; forse è meglio proporre un altro schema concentrico nel seguente modo: 1 – versi 1-5: storia della Parola; 2 – testimonianza di Giovanni; 3 – versi 9-13: la venuta della Parola nel mondo; 4 – verso 14: la presenza della Parola; 5 – verso 15: testimonianza di Giovanni; 6 – versi 16-18: il ritorno della Parola a Dio. Possiamo notare una inclusione tra il verso 1 e il verso 18. Nel verso 1 leggiamo «

». Nel verso +, leggiamo «

(

».


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Possiamo stabilire tra queste due espressioni il seguente parallelismo: Gv 1,1

Gv 1,18 (

In questo Prologo, come in tutto il vangelo, Giovanni costruisce a quadri. In ogni quadro egli propone tutto uno sviluppo all’interno, ma i singoli quadri vanno letti insieme secondo una linea progressiva. Affrontiamo i versi 1-5. Nei versi 1-5 possiamo distinguere tre strofe:

1. In principio era la Parola 2. e la Parola era verso Dio 3. e Dio era la Parola 4. egli era in principio verso Dio

1. tutto per mezzo di lui divenne 2. e senza di lui divenne 3. nemmeno un cosa di ciò che è divenuto

1. in lui vita era 2. la vita era la luce degli uomini 3. la luce nella tenebra splende 4. la tenebra essa non sopraffece. Leggendo prima sincronicamente queste tre strofe possiamo individuare tre tematiche: 1 – Preesistenza della Parola 2 – Intervento nella creazione 3 – Intervento nella storia umana. La prima strofa è caratterizzata da quattro forme di imperfetto ( ) del verbo «

». Dal punto di vista letterario le frasi si rivelano quattro versi con tre accenti ciascu-

no. Probabilmente però la strofa originale doveva essere soltanto di tre versi e infatti il quarto verso riprende le prime parole del primo e le ultime parole del secondo.


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Possiamo notare come tutto gravita attorno al binomio «

45 » – «

» e

l’evangelista costruisce a catena: l’ultima parola del verso precedente è la prima del verso seguente. Si determina nei primi tre versi il seguente schema concentrico: 1. « 2. « 3. 4. L’espressione « -

»; »–« «

»; »; «

».

» facilmente richiama Genesi: «In principio Dio creò il

cielo e la terra». Però può essere richiamato il testo di Proverbi 8,22 dove la Sapienza narra la sua storia con le parole «il Signore mi creò (a) principio delle sue vie». La parentesi si spiega perché c’è un problema testuale in Proverbi: se bisogna leggere « «

22» [berescit]. Se leggiamo «

=» [rescit] o

22» [berescit] il senso sarebbe “che Dio creò la

Sapienza all’inizio delle sue vie”, cioè la Sapienza fu creata la prima opera che Dio ha creato; se leggiamo poi soltanto «

=» [rescit] significa che la Sapienza fu creata come

principio, come modello, come fondamento, come causa esemplare delle vie di Dio. Lasciando stare questo problema interessa soltanto che Proverbi fa un passo avanti rispetto a Genesi: secondo Genesi all’inizio ci sta la creazione del cielo e della terra; secondo Proverbi a principio ci sta la creazione della Sapienza che incide in un modo o nell’altro sulle altre opere della creazione. Proverbi 8,22 è un gradino verso Giovanni, ma ancora non è Giovanni perché Proverbi parla della sapienza antecedente alla creazione, ma essa stessa è un’opera creata. Il tardo giudaismo però non ritenne soltanto la Sapienza opera antecedente ma parlò anche della Legge. Secondo il Libro apocrifo dei Giubilei (a cavallo tra il I e il II secolo a.c.) Dio creò la legge prima del mondo ma la nascose nelle tavole del cielo, rivelandola parzialmente ai Patriarchi ma poi rivelandola definitivamente al Sinai. Nel nostro testo di Giovanni l’espressione « -

» è legata al verbo imperfetto

« ». L’imperfetto esprime continuità nel passato senza dir nulla dell’inizio. Il nostro evangelista perciò colloca all’inizio non l’origine bensì la continuità nell’essere, esprimendo in questo modo una continuità senza inizio. Siamo così nella prospettiva della preesistenza eterna della Parola. In questo però l’evangelista non è del tutto originale. Già il tardo giu-


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daismo aveva parlato della personificazione della Parola. In Sapienza 18 leggiamo le parole: «mentre un silenzio avvolgeva la terra, la tua parola onnipotente come guerriero implacabile scese su quella terra di sterminio». In questo testo abbiamo una re-interpretazione di Esodo 11,12, cioè la decima piaga, la strage dei primogeniti. Mentre il testo dell’Esodo parla dell’Angelo del Signore che venne a fare una strage tra gli Egiziani, Sapienza riferisce questa strage alla Parola di Dio che scende nell’accampamento degli Egiziani. Il testo di Sapienza già propone una personificazione della Parola di Dio. Tale personificazione emerge anche nel Targum Palestinese, dove alle parole «in principio Dio creò il cielo e la terra» si sostituiscono le parole «in principio la Parola di Dio creò il cielo e la terra». E così in tutta la parafrasi targumica quando si parla di Dio si sostituisce la sua parola. In Giovanni perciò confluiscono queste due tradizioni: sia quella sapienziale di una realtà che è anteriore alla creazione e che influisce su di essa, sia anche la tradizione della personificazione della Parola. Tuttavia la considerazione di queste tradizioni offrono il back-ground di Giovanni, ma non spiegano completamente Giovanni, perché in Giovanni ci sono quattro aspetti della Parola: 1) personificazione; 2) preesistenza; 3) eternità; 4) divinità. E’ chiaro che Gv supera le prospettive precedenti, ma in tale superamento deve intervenire la rivelazione neotestamentaria, soprattutto quella trinitaria. E’ importante la seconda espressione: «e la Parola era verso Dio (

)»,

che la versione latina traduce «apud Deum» e sulla scia della versione latina le versioni italiane traducono «presso Dio». Ma qui si fa un errore perché la particella greca «

» indica moto a luogo mentre

l’«apud» latino e il «presso» italiano indicano stato in luogo. Bisogna conservare al « greco il suo significato originale. Emerge il problema: che cosa vuol dire «verso Dio»?

»


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Notiamo anzitutto una relazione strutturale: 1) « -

6) «

»; 2) « »; 3) « 4) « 5) « »; ».

»; »;

Già basta questo schema a suggerire tutto un cammino della Parola che parte dalla preesistenza eterna e culmina a Dio. Quale sia questo cammino il testo immediato non lo dice, ma emergerà dalla considerazione di tutto il Prologo ed emergerà soprattutto dalla considerazione di tutto il Vangelo. Tale cammino si comprende alla luce di Isaia 55 e anticipando quello che sarà più chiaro in seguito, dobbiamo dire che la Parola compie un cammino che parte dalla sua preesistenza eterna, passa attraverso la creazione, nella quale incide, scende nella storia degli uomini in cui compie un’opera, torna a Dio. Perciò tutta l’espressione «In principio era la Parola e la Parola era verso Dio» deve essere riempita del contenuto di tutto il quarto Vangelo. Tuttavia come abbiamo detto, mentre in lettura diacronica si insinua un cammino dalla preesistenza a Dio, in lettura sincronica la prima strofa globalmente descrive la preesistenza eterna della Parola. Sulla seconda strofa indugiamo un po’ di meno. La prima frase suona «

». Notiamo anzitutto che in questa seconda strofa la prospettiva

non è più quella dell’“essere”, bensì del “divenire”. E’ infatti mentre nella prima strofa avevamo quattro forme di imperfetto del verbo «

» che indica continuità nell’essere, a-

desso abbiamo due forme di aoristo, con valore ingressivo, del verbo «

»(

),

che esprime l’inizio del divenire. La terza volta c’è il perfetto «

» che esprime la durata di ciò che è divenuto.

Diciamo soltanto che l’evangelista esprime l’universale ( (

) causalità efficiente

) della Parola. L’evangelista esclude che qualcosa possa essere non causata dalla Parola. Un lavo-

ro più completo doveva considerare anche il Prologo della Lettera agli Ebrei e inoltre i testi di Proverbi 8, 22 e seguenti ed anche Siracide 24, dove si sottolinea l’incidenza della Sapienza nell’opera della creazione.


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Più importante si rivela la terza strofa che descrive l’incidenza della Parola nella storia degli uomini. Si dice che «in essa c’era vita e la vita era la luce degli uomini, la luce splende tra le tenebre». Nemmeno su questa strofa diremo tutto: ci limitiamo soltanto agli ultimi due versi che sembrano importanti e che traduciamo nel seguente modo: «la luce splende tra le tenebre la tenebra essa non sopraffece». In ciò differiamo dalla versione italiana, che traduce «le tenebre non l’hanno accolta». L’espressione originale è « golare dal verbo «

& »: questo verbo è aoristo II, terza persona sin-

». Nel contesto immediato l’autore usa tre forme verbali:

& 1) - « 2) - « 3) - «

&

» (prendere); & » (prendere presso); & » che ora diremo.

Questi tre verbi non sono sinonimi, ma ognuno contiene la sua sfumatura. In particolare il verbo « verso il basso [

&

» significa “prendere” (

&

) con un movimento dall’alto

] cioè prendere in maniera di

sopraffare, soffocare e trattandosi di luce, spegnere. (In 12,35 Gesù esorta a camminare nella luce perché la tenebra non sorprenda cioè non cali e afferri e coinvolga). Abbiamo due verbi: il primo è «)

» (splende); il secondo è «

& »

che esclude un’azione delle tenebre dei confronti della luce. L’evangelista coordina i due verbi “splendere” e “non sopraffare”. Ma cosa viene prima “splendere” o “non sopraffare”, cioè splende, indicativo presente, o non sopraffare (aoristo negativo)? Splende è un indicativo presente che indica azione continua al presente, “non sopraffece” invece indica un’azione già conclusa nel passato, ma essa esprime non solo un’azione conclusa ma anche l’impossibilità a ripeterla.


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Sabato 05 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Queste osservazioni ci inducono a rileggere al contrario prima il verbo «

& », poi il verbo «)

» [splende]. Letti i due verbi in questo modo emerge

l’idea del tentativo delle tenebre di spegnere la luce. Il verbo «

& » ha il senso di

un epilogo che rivela appunto il tentativo di spegnere senza successo: le tenebre cercarono di spegnere la luce, ma non ci riuscirono; ma il verbo, aoristo negativo completivo, indica non solo l’insuccesso della tenebra ma anche la fine di qualsiasi ostilità, le tenebre non poterono spegnere la luce; ciò rivela la sconfitta delle tenebre, ma ciò rivela la vittoria della luce in seguito alla quale la luce splende. Giovanni rivela perciò una lotta tra luce e tenebre. L’idea di una lotta non è nuova, si trova anche nei documenti di Qumran, è stato trovato infatti a Qumran uno scritto chiamato appunto la «guerra tra i figli delle tenebre ed i figli della luce». Benché Giovanni possa condividere con Qumran l’idea di una guerra tra luce e tenebre, tuttavia Giovanni è originale rispetto a Qumran, e quale sia stata questa guerra bisogna ricercarlo nell’ambito di Giovanni stesso. Intanto osserviamo che il binomio luce-tenebre probabilmente risale ad Isaia 9: «un popolo che camminava nella tenebra vide una grande luce, e su quelli che sedevano in terra di ombra di morte, una luce è spuntata». Ma cerchiamo nel vangelo stesso il senso di tale guerra. Potremmo citare diversi passaggi tra cui per esempio 7,43, dove si dice che «volevano catturarlo, ma nessuno gli mise mano addosso», oppure 8,59 dove si legge che «presero pietre per gettarle su di lui, ma egli uscì da loro». Quest’ultimo testo forse si legge meglio in chiave simbolica cioè il tentativo di spegnere e sopprimere. Però il testo più importante a cui vogliamo riferirci è la narrazione della passione. Anzitutto alla cattura al Getsemani, secondo i vangeli sinottici, la folla andò armata di spade e bastoni, secondo Giovanni vi andarono con lanterne, fiaccole ed armi. I primi due elementi sono di luce, o meglio rivelano l’assenza della luce e perciò si richiamano le tenebre. Il terzo elemento è di guerra, armi: le tenebre perciò mossero guerra contro la luce, ma la luce splende ed infatti segue subito dopo il dialogo tra Gesù e la folla che si leggerebbe meglio all’inverso, cioè partendo dal titolo della croce. Il titolo della croce suona: «Gesù nazareno, re dei giudei», cioè il titolo della croce rivela lo scandalo del galileo che ha ereditato il trono davidico, ed i giudei al Getsemani cercano soltanto la prima parte cioè Gesù nazareno relegando Gesù soltanto alla dimensione terrena. Gesù propone la seconda parte, l’aspetto divino, si richiama 8,28: «quando innalzerete il Figlio


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dell’uomo conoscerete che Io sono», e Gesù rivela la sua identità divina, ma 8,24 suona: «se non credete che Io sono morirete nei vostri peccati». Giovanni scrive che indietreggiarono e caddero, non è una scena da baraccone materiale, il linguaggio è dei salmi, Cfr. Salmo 26: «il Signore è mia luce e mia salvezza […] quando vi assalgono i malvagi per straziarmi la carne, sono essi avversari e nemici ad inciampare e cadere». In Giovanni però la scena richiama i due aspetti: di esclusione giudiziaria [indietreggiarono] e di morte [caddero]. Potremmo proporre il seguente schema: 1 – 18,4 – manifestazione; 2 – 8,28 – conoscerete che Io sono; 3 – 8,24 – se non credete che Io sono morirete; (incredulità) 4 – 18,4 – indietreggiarono e caddero. Ma il tentativo delle tenebre di spegnere la luce e la vittoria di essa emerge soprattutto nel confronto tra i due processi, quello davanti ad Anania o Anna e quello davanti a Pilato. È verosimile che in tutto il cammino Gesù sia stato legato: i sinottici lo dicono nel cammino dal pretorio al calvario. Giovanni invece riserva il verbo «

» [legare] soltanto

in due posti, a nostro parere, accuratamente studiati: in 18,12 dal Getsemani ad Anna, ed in 18,24 da Anna a Caifa. Possiamo confrontare i due testi: 18,12 «Presero Gesù lo legarono e lo condussero da Anna»; 18,24: «mandò lui Anna legato a Caifa il sacerdote». Questi due testi includono il processo-dialogo davanti ad Anna. Nei versi 25-27 abbiamo il secondo e terzo rinnegamento di Pietro, nel verso 28 incomincia il processo davanti a Pilato. Scriviamo l’inizio e la fine di quel processo: 1 – (18,28): «conducono Gesù da Caifa al pretorio, era l’alba, ma non entrarono per non contaminarsi e mangiare la pasqua»; 2 – (19,14): «era la parasceve della Pasqua, circa l’ora sesta e Pilato dice ecco il vostro re». Come vediamo in processo davanti ad Anna è incluso tra due verbi legare, verbi che Giovanni non userà mai più: il processo davanti ad Anna, altissimamente drammatico, trova il suo culmine nello schiaffo del servo che non è una semplice reprimenda, ma assu-


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me il carattere di un vero e proprio rifiuto. Nel palazzo di Anna si cercò di coartare, rifiutare e spegnere. Il processo davanti a Pilato, invece, inizia dall’alba e culmina all’ora sesta, cioè all’ora in cui la luce raggiunge il suo massimo splendore [allo zenit]. Giovanni concepisce tutto il processo davanti a Pilato verso tre elementi: 1 – era la parasceve della Pasqua (l’agnello pasquale); 2 – era l’ora sesta (la luce); 3 – ecco il vostro re (la regalità). Agnello pasquale, luce e re sono i tre punti a cui è orientato il processo davanti a Pilato. Al nostro scopo interessa però soltanto il secondo punto, c’è perciò una “escalation” della luce, dall’alba all’ora sesta. Giovanni concepisce il processo davanti a Pilato come un cammino della luce verso la sua massima manifestazione. In questa prospettiva il processo davanti ad Anna può essere visto come il tentativo delle tenebre di sopprimere la luce. Il tentativo non riesce e il passaggio dalla coartazione dei giudei verso la manifestazione della luce davanti a Pilato paradossalmente si trova nell’ambito dei giudei stessi. Torniamo alla frase di 18,28: essa presenta la seguente struttura: – mandò;

1 – lui; 2 – Anna; 3 – legato; 4 – a Caifa 5 – sacerdote.

Al centro ci sta il verbo «legato», il secondo e quarto elemento descrive le persone che lo coartano: Anna–Caifa, cioè il giudaismo. Ma è micidiale l’ultima parola: sacerdote. Storicamente il processo davanti ad Anna non aveva nessun valore giuridico; lo avrà il processo davanti al sinedrio presieduto da Caifa. Storicamente Gesù dovette passare la notte in casa di Anna dove avvennero i tre rinnegamenti di Pietro. Anna al mattino lo avrebbe mandato da Caifa per il processo ufficiale davanti al sinedrio. Giovanni non descrive il processo davanti al sinedrio, ma non lo ignora, non lo narra negativamente perché la prospettiva del processo davanti al sinedrio non rientra nella sua figura teologica, ma non lo narra perché a Giovanni interessa la prerogativa di Caifa sacerdote. In 18,13, parlando di Anna, aveva detto che era suocero di Caifa, il quale era sacerdote “di quel anno”. Caifa


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non fu sacerdote un solo anno, ma diciotto, e perciò l’indicazione “di quel anno” non cronologica, ma teologica, cioè il sacerdote al quale compete il rito annuale dell’espiazione; del resto in 11,48-52, riferendo la profezia di Caifa che «è bene che uno solo muoia per il popolo e non perisca tutta la gente», l’evangelista commenta che Caifa non disse ciò da sé stesso, ma, essendo sacerdote “di quel anno” profetò che uno solo doveva morire per il popolo. Ma Giovanni ulteriormente commenta: «non solo per il popolo, ma anche per radunare in unità i figli di Dio che erano stati dispersi». Dalla morte di Gesù al raduno dei figli di Dio dispersi c’è un lungo cammino che omettiamo adesso di riempire. Al nostro scopo interessa soltanto questo: Caifa, come presidente del sinedrio sancirà la condanna a morte, ma a Giovanni interessa sottolineare che quella condanna a morte è pronunziata dal sacerdote “di quel anno” e perciò paradossalmente il tentativo dei giudei di sopprimere Gesù sortirà l’effetto diametralmente opposto, quello di fare di Gesù il punto di riferimento attraverso la croce del raduno dei figli di Dio dispersi. Tutto ciò chiarisce molto bene il testo di 1,5: «la luce splende tra le tenebre, ma le tenebre non poterono sopraffare». Questa prospettiva giovannea emerge bene da altri particolari. I vangeli sinottici scrivono che condussero Gesù al calvario per crocifiggerlo. Giovanni si guarda bene dallo scrivere «lo condussero»; ma scrive: «uscì portandosi la croce», questa uscita deve essere letta tra le due proclamazioni di Pilato, quella nel pretorio: «ecco il vostro re», e quella sulla croce: «Gesù nazareno re dei giudei», si direbbe che il re proclamato o la luce manifestata vanno a collocarsi sul proprio trono e sul proprio candelabro. Giovanni scrive che Gesù (19,17) «portando [&

'

] per sé [

] la croce», quel dativo «

» è un po’

rompicranio, dovremmo intenderlo meglio come un dativo di vantaggio o di possesso, cioè portando la croce come una realtà sua propria che gli appartiene, forse c’è una allusione a Genesi 22: Isacco che porta lui la legna del sacrificio, ma in ogni caso Gesù e la croce appaiono come due realtà intrinsecamente unite ed inscindibili. Si capisce bene perché Giovanni allora completamente depenni l’episodio del Cireneo che pur, ha molta importanza teologica e spirituale nella narrazione dei sinottici. Per Giovanni invece questo episodio non rientra, anzi disturba, la sua teologia. Il tentativo delle tenebre, però, non è finito, dopo la proclamazione di Pilato: «ecco il vostro re», i giudei gridano: «togli, togli, crocifiggi». Tre parole: due volte «togli» ed una volta «crocifiggi». La prospettiva dei giudei è quella di eliminare mediante la croce quello proclamato «vostro re». Ma proprio la richiesta della crocifissione paradossalmente, non solo non toglierà il re dei giudei, ma ne determinerà la definitiva affermazione. Tale


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ironia giovannea è sottolineata dalle parole che Giovanni mette in bocca a Pilato: «debbo crocifiggere il vostro re?». La riposta data segna la massima apostasia: «non abbiamo re, se non Cesare». Torno ancora all’ironia giovannea che mostra uno scambio: quello che pretendeva essere l’amico di Cesare perviene alla regalità di Gesù, i giudei dei quali sarebbe re, invece rifiutano in nome di Cesare e scelgono Cesare. Un altro tentativo di soppressione delle tenebre è davanti al titolo della croce. Questo titolo, storicamente indiscutibile è riferito da tutti e quattro i vangeli, ciò significa che tutti e quattro in quel titolo videro proclamata la regalità di Gesù sulla croce. Ma Giovanni gli conferisce una massima importanza, dedicando ad esso ben cinque versetti: il titolo era pubblico [molti lo lessero]; era universale [ebraico, latino, greco]. I giudei obiettano “non lasciare scritto, cancella” [

) ], ma che Lui si è detto re dei giudei solo. La proposta

dei giudei vorrebbe essere il tentativo di ridurre l’oggettività proposta da Pilato ad una pretesa soggettiva, paradossalmente nella proposta giovannea, Giovanni ci ha visto un senso più profondo dell’autorivelazione: Pilato non lo ha dette per sua fantasia, ma lo ha detto perché ha colto il senso dell’autorivelazione, alla quale paradossalmente rimandano i giudei. Sono famose le parole di risposta di Pilato: «ciò che ho scritto, ho scritto», Giovanni le riferisce in maniera strana con due perfetti [ *

) .

) ], li avrebbe meglio riferiti

con una aoristo ed un perfetto. Con due perfetti la frase assume una pregnanza particolare che potremmo parafrasare così: «ciò che ho scritto è stato scritto e rimane per sempre scritto». In bocca a Pilato la frase potrebbe essere una risposta stizzita, nella penna di Giovanni quella risposta diventa la definitiva [pubblica, universale e definitiva] proclamazione della regalità di Gesù. Giovedì 10 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 L’ultimo tentativo di soppressione da parte dei giudei è individuabile nel racconto della apertura del costato in 19,31-37. Su questo brano probabilmente torneremo, ci limitiamo perciò soltanto a poche osservazioni. C’è una duplice richiesta dei giudei: 1 – spezzare le gambe; 2 – levare via.


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L’evangelista crea una strettissima relazione tra spezzare le gambe e togliere via, se non si spezzano le gambe non si può togliere via. Il contrario non sarebbe vero se non si può toglier via se le gambe vengono spezzate. I giudei avevano esigenza di deporre presto i crocifissi dalla croce e siccome la morte in croce non è istantanea allora si applicava il metodo della «cruri fractio» che permetteva la morte del condannato nel giro di pochi secondi. Perciò per potere deporre era necessario attuare questo metodo, ma se il metodo non si attua non significa che non si possa deporre perché se uno già è morto non c’è bisogno che gli vengano spezzate le gambe. L’evangelista nota che Gesù era morto e perciò a lui non furono spezzate le gambe. Però l’evangelista non dice che fu deposto: Giovanni non narra, né può narrare la deposizione [come invece fanno i sinottici]. Il fatto che non gli spezzarono le gambe insinua che Gesù dalla croce non fu deposto. I giudei volevano che si spezzassero le gambe per deporre, ma l’evangelista insinua che non gli furono spezzate le gambe e perciò non fu deposto [è una affermazione spirituale e non storica, a Giovanni interessa il senso dei fatti e non il resoconto storico]. Dal momento che a Gesù non gli spezzano le gambe e non viene deposto si applicano a Lui due citazioni della Scrittura, la prima è la prescrizione riguardante l’agnello pasquale. I giudei volevano spezzare le gambe, così facendo stavano trasgredendo la legge, la quale proibisce che si spezzino le gambe all’agnello pasquale: Esodo 12. Dio difende il suo agnello facendolo morire prima e sottraendolo a quella azione. In altre parole chiedendo di spezzar le gambe, i giudei compiono un attentato all’agnello pasquale, oppure negano che Gesù lo sia. Nel fatto poi che non è tolto via si attua l’altra scrittura: Zaccaria 12,10: «guarderanno a colui che hanno trafitto», detto in parole povere i giudei volevano togliere i crocifissi, ma Gesù non si toglie, Egli rimane come oggetto di contemplazione e di fede (Cfr. 6,39: «questa è la volontà del Padre che mi ha mandato, che chiunque vede3 il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna»). La citazione di Zaccaria 12,10 sembra essere il culmine di un processo, dopo non sarà narrata più alcuna ostilità dei giudei contro Gesù, e proprio nella citazione di Zaccaria, salvo errore, è da vedere la realizzazione di 1,5: «la luce splende tra le tenebre, le tenebre non la sopraffecero» e rimane oggetto di contemplazione e di fede.

3

Cfr. 19,37: «guarderanno a colui che hanno trafitto».


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Dopo questi tre quadri prescindendo dalla introduzione della figura di Giovanni e prescindendo dalla descrizione sommaria e prolettica dell’ostilità del mondo contro la luce [«venne tra i suoi ed i suoi non lo conobbero»], passiamo nella prospettiva di riscontrare in Giovanni la presenza di Isaia 55, possiamo passare al verso 14, dove abbiamo tre espressioni estremamente complesse e che hanno bisogno di essere illuminate un po’ da tutto il vangelo. Le tre frasi sono: 1 - «/ 2-« 3-«

» e la parola carne divenne; » e dimorò in noi; » e abbiamo visto la sua gloria.

Queste tre frasi descrivono una storia della Parola nella storia degli uomini ed infatti la prima frase descrive il divenire della parola, la seconda frase descrive la relazione della Parola agli uomini [in noi] , la terza frase la relazione degli uomini alla Parola [ed abbiamo visto]. Non è facile spiegare queste tre frasi, la prima frase dichiara che la parola divenne carne, ma che vuol dire care? L’interpretazione immediata è l’allusione alla incarnazione, ma è questo il senso, o almeno, è solo questo? Se infatti prendiamo le concordanze e cerchiamo il termine «

» [carne] in Giovanni è usato diverse volte, ma i tre quarti degli usi

sono compendiati nel capitolo sesto, dove la carne di Gesù è relazionata al pane: «il pane che io vi darò è la mia carne per la vita del mondo». Per farla breve, l’espressione: «la parola divenne carne» sembra contenere la sovrapposizione di due sensi. Non si può negare il senso dell’incarnazione al quale Giovanni stesso allude nel contesto del capitolo sesto dove parla del pane. In 6,42 i giudei obiettano a Gesù: «non è costui, Gesù, il figlio di Giuseppe da Nazareth e come ora dice: “sono sceso dal cielo?”», ma questa reazione disonestamente decurta le parole che Gesù ha detto prima: «Io sono il pane disceso dal cielo», i giudei invece lo relegano soltanto alla dimensione umana del figlio di Giuseppe.


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Nel testo emergono tre aspetti: 1 – scendere dal cielo; 2 – figlio di Giuseppe da Nazareth; 3 – il pane. C’è così un duplice cammino di Gesù: dal cielo al figlio di Giuseppe, dal figlio di Giuseppe al pane. I giudei relegando Gesù alla semplice sfera umana negano che sia sceso dal cielo e che sia pane. Non interessano ulteriori considerazioni, interessa soltanto giustificare perché nelle parole: «la parola divenne carne» possiamo vederci la sovrapposizione dei due aspetti: il cammino dalla preesistenza alla dimensione umana ed il cammino dalla dimensione umana fino al pane. In questa prospettiva andrebbero lette le frasi seguenti. Le altre due frasi possono essere lette conseguentemente sia in chiave storica, sia in chiave ecclesiale. In chiave storica, il divenire carne della parola determina la sua presenza nella storia degli uomini. L’espressione «dimorò in noi» richiama tre tradizioni: quella della tenda nel deserto, quella della sapienza che riceve da Dio il comando di piantare la sua tenda tra gli uomini [Cfr. Siracide 24,8: «mi ha dato un comando, poni la tua tenda in Giacobbe»], ma richiama anche la tradizione giudaica della Shekinàh. La Shekinàh nel linguaggio giudaico indica la stessa presenza di Dio. Restando ancora in chiave storica, la terza espressione, «abbiamo visto al sua gloria», richiama la croce, ed infatti è nella croce che secondo Giovanni si manifesta la gloria di Gesù. Facendo un piccolo ampliamento a quest’ultima frase, della gloria di Gesù, si parla soprattutto in due testi fondamentali: il 12,23 dove Gesù dichiara: «è giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo», subito continua parlando del chicco di grano che caduto a terra è morto, solo non è rimasto. Ma prima ha parlato della venuta dei greci: avremmo così all’inverso il seguente ordine: a – la morte del chicco di grano che non rimane solo; b – è glorificato; c – vengono i greci. Si richiama parallelamente 12,32 dove c’è un altro verbo esaltare: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». La gloria del chicco di grano che muore consiste perciò nella capacità di attirare tutti a sé. Ma in 13,31 leggiamo le parole di Gesù all’uscita di Giuda: «adesso è stato glorificato il figlio dell’uomo e Dio lo ha glorificato». La gloria


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del figlio dell’uomo si attua perciò nella duplice capacità di attirare tutti a sé [che poi implica la vita eterna], in un processo centripeto e nel compiere un giudizio di esclusione [l’uscita di Giuda]. Ciò richiama ancora 12,31-32: «adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo è gettato fuori ed io quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». Ciò corrisponde anche al duplice potere che il Padre gli ha dato e di cui parla qui e lì nel capitolo quinto il duplice potere di dar la vita [venuta dei greci] e di compiere il giudizio [uscita di Giuda]. Queste espressioni, dicevamo, si possono leggere nella prospettiva ecclesiale, partendo cioè dalla carne, non più come incarnazione, bensì come pane nella chiesa. In ogni caso restando ad un senso più generale le tre espressioni delineano in sommissimi capi un cammino storico di Gesù che si muove nella storia degli uomini fino alla manifestazione della sua gloria. Mentre nei testi precedenti abbiamo individuato un cammino discendente del «

» dalla preesistenza alla carne, ora c’è un cammino orizzonta-

le, dalla dimensione di carne alla manifestazione della gloria. Questa descrizione orizzontale della gloria è molto vaga, molto generica, ed ha bisogno di essere illuminata con non poche altre prospettive. Si introduce poi la figura di Giovanni il Battista di cui si dice che grida ed il suo grido è compendiato in tre frasi: 1–« 2–« $ 3–« %

» colui che viene dopo di me; » davanti a me è divenuto; » poiché prima di me era.

Le tre frasi vanno lette all’inverso: 1 – colui che era preesistente; 2 – si è manifestato nella storia agli occhi del Battista; 3 – colui che ha fatto esperienza diventa testimone e diventa precursore, cioè passa avanti ad annunziare la venuta di colui che si è manifestato. Giovanni insinua un cammino di ritorno. Detto in parole povere: colui che si è manifestato comincia un cammino che lo condurrà al Padre, ma in questo cammino, anche per mezzo dell’opera del testimone precursore, avviene il raduno dei discepoli insieme ai quali [13,1] dovrà fare il grande passaggio da questo mondo al Padre.


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Dopo avere menzionato il precursore, Giovanni stabilisce un confronto tra Mosè e Gesù: «la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo». Giovanni continua con un testo un po’ complicatello (1,18): “Dio nessuno mai lo ha visto: l’unigenito Figlio che è «

»”. Gio-

vanni dichiara che nessuno vide mai Dio ed a questa affermazione contrappone l’opera del Figlio. Potremmo dire: caro Giovanni ti sbagli, perché Isaia nel capitolo 6 dichiara di avere visto Dio. Giovanni potrebbe essere contestato perché Isaia 6 dichiara nella sua vocazione di avere visto il Signore su un trono alto ed elevato ed ha paura di restare ancora in vita. Ma Isaia è un profeta inferiore a Mosè, mediatore della legge ed in Esodo 32, Mosè chiede a Dio: «mostrami il Tuo volto», Dio gli risponde che nessuno può vedere la Sua gloria e restare in vita. Ora se il mediatore della legge non vide Dio, nessuno, di conseguenza, può averlo mai visto. In contrapposizione a Mosè l’evangelista presenta l’opera del Figlio. il Figlio ha un orientamento «

»: verso il seno del Padre. Quindi c’è un cam-

mino, nello sfondo di questo cammino si colloca la sua azione descritta con il verbo «

», questo verbo è un aoristo dal verbo «

» che le versioni italiane tra-

ducono: «lo ha rivelato», ma è questo il senso? Questo verso è alquanto raro nel NT, in tutto cinque volte di cui quattro nell’opera lucana. Giovanni lo usa una sola volta, in Luca significa rivelare, ma attenzione perchè rivelare non è il primo significato, perchè il primo significato è «

» [condurre, guidare], il senso di rivelare si ottiene di conseguenza,

io rivelo in quanto tiro fuori «

» una cosa dal nascondimento. Ma in Giovanni non

possiamo non stabilire una relazione tra la particella « » e la particella «

» verso il Pa-

dre. E perciò il senso è questo: Gesù ha operato un esodo guidando ed operando verso il Padre. Dio nessuno mai lo ha visto, ma il Figlio ha fatto qualcosa di più. Non solo Lui lo ha visto, ma addirittura ci ha condotti a Lui «

» dopo averci fatto fare un esodo « ».

Ciò corrisponde a tutto lo schema dell’Esodo che orienta verso la terra promessa; ciò concorda con 14,6 [Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me], ciò concorda con tutta la prospettiva del capitolo 10: il pastore, dove il punto di partenza è l’esodo dal recinto e l’orientamento è 10,27: «Io do ad essi la vita eterna» e 10,28: «le mie pecore sono in mano al Padre».


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Sabato 12 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Tutto il vangelo potrebbe essere ricondotto a questa linea. I primi dodici capitoli si collocano nella prospettiva di questo cammino discendente: basti ricordare l’inclusione notata all’inizio tra 1,11: «venne tra i suoi e prima ancora era, la luce vera che illuminava ogni uomo veniente» e poi 12,46 dove Gesù dichiara: «Io come luce sono venuto nel mondo». La seconda parte, invece, si colloca in prospettiva ascendente, cioè nella prospettiva non più della venuta nel mondo, quanto piuttosto del ritorno al Padre. Basti pensare a 13,1 dove l’evangelista nota di Gesù che sapeva che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, e basti pensare alla conclusione di questa seconda parte: nel capitolo 17, la famosa preghiera dell’ora che si colloca tutta nella prospettiva del grande ritorno di Gesù al Padre: «ora io vengo a Te […]». Considerate le due linee bisogna adesso considerare l’opera intermedia. Secondo Isaia 55 nell’immagine della pioggia tra la sua discesa dal cielo e il suo ritorno c’è di mezzo una quadruplice opera: 1 – impregnare la terra; 2 – renderla feconda; 3 – farla fruttificare; 4 – perché dia […]. Ciò che deve dare sono due cose: seme a chi semina e pane a chi mangia, oppure secondo i LXX, pane per cibo. Della parola invece è fare ciò che Dio ha voluto e portare a compimento ciò per cui è stata mandata. Il quarto vangelo sulla scia di Isaia sottolinea l’opera che Gesù deve compiere dopodichè può tornare al Padre. In questa prospettiva citiamo diversi testi. Il primo è 4,34, messo in relazione con 17,1-3. In 4,34 ai discepoli che gli dicevano [dopo l’incontro con la Samaritana]: «Rabbì, mangia», Gesù risponde: «Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e portare a compimento la Sua opera».


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Possiamo stabilire un confronto tra questo testo ed Isaia 55. GIOVANNI 4,34 Il mio cibo fare la volontà [ ] di Colui che mi ha mandato e portare a compimento [ la sua opera

ISAIA 5,11 [%

( [ %

] ]

]

Nel testo di Giovanni 4,34, la formulazione letteraria rivela l’influsso di qualche altro testo dal quale però al momento prescindiamo perché lo vedremo in un altro testo. Soltanto gli elementi del fare la volontà e di portare a compimento la sua opera, sono elementi che rimandano ad Isaia 55. Anche l’espressione «Colui che mi ha mandato» di 4,34 è ripresa da Isaia 55. Le ultime due parole del testo ebraico «

G>/2 2 D» [ascer scelactiu -

per cui l’ho mandata]. Perciò, secondo questo testo, quello che Gesù deve fare, prima di tornare al Padre è compiere la Sua volontà e portare a compimento la Sua opera. Il testo però è preciso e vago insieme, rimangono i problemi su come Gesù compirà la volontà di Colui che lo ha mandato? Quando la compirà, e come porterà a compimento la Sua volontà. Soltanto che notiamo in 4,34, la parola cibo [&

]. Ciò significa che ciò di cui si nutre e ciò che costituisce il

suo sostegno è compiere la volontà del Padre. 17,1-5 è l’inizio della lunga preghiera cosiddetta dell’ora. Questa preghiera nel capitolo 17 ha una sua precisa collocazione nel contesto dei capitoli 13-17. Ma adesso a noi interessano soltanto pochi versi.


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Proponiamo anche in italiano la traduzione schematicamente strutturata: Padre è giunta l’ora 1 – glorifica il Tuo Figlio 2 – perché il Tuo Figlio glorifichi Te 3 – come gli hai dato potere su ogni carne perchè dia ad essi la vita eterna: questa è la vita eterna, che conoscano Te, unico vero Dio e Colui che tu hai mandato, Gesù Cristo 4 – Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che Tu mi hai dato da compiere 5 – ed ora glorifica me o Padre presso di Te con la gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse. Anche in quest’ultima frase emerge la duplice linea discendente ed ascendente in uno schema circolare che và dalla gloria che aveva prima che il mondo fosse, alla gloria che chiede al Padre di dargli. Tornando al testo di 17,1-5, emerge uno schema concentrico, dove al centro è menzionata la vita eterna. Prescindendo dalla vita eterna possiamo notare che il primo e quinto elemento sono la richiesta al Padre perché glorifichi il Figlio, queste due richieste, però, si proiettano al futuro e sono sulla stessa linea futura, anche se, nell’ultimo elemento, Gesù risale alla sua preesistenza. Il secondo ed il quarto elemento riguardano la gloria che Gesù dà al Padre, ma in duplice prospettiva: gloria futura [perché il Tuo Figlio glorifichi Te] e gloria passata [Io ti ho glorificato sulla terra]. Lasciando stare altre considerazioni strutturali, possiamo ricostruire una storia di relazione tra Padre e Figlio dal punto di vista della gloria, nel seguente modo: 1 – Gesù aveva una gloria eterna prima che il mondo fosse; 2 – ha glorificato il Padre sulla terra; 3 – chiede al Padre di glorificarLo; 4 – perché Lui a sua volta possa ancora glorificarLo. A noi, al momento, non interessa questa storia, la quale peraltro dovrebbe essere confrontata ed integrata col l’altra storia di gloria il 13,31-33 dopo l’uscita di Giuda. Fermiamo la nostra attenzione soltanto sul quarto elemento: «Io ti ho glorificato sulla terra avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere». Il fatto di avere compiuto l’opera che il Padre gli ha dato si è tramutato il glorificazione del Padre stesso. Gesù perciò dichiara di avere compiuto l’opera che il Padre gli ha dato. Rimane il problema, quale sia quest’opera e che si potrà dedurre da tutto il capitolo 17 che detta in soldoni è l’unità dei


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discepoli [che tutti siano una cosa sola] sul fondamento dell’Agape. Soltanto osserviamo «una cosa sola»: questa espressione, avendo compiuto l’opera, deve essere letta non prima della croce, bensì dopo. Il quarto vangelo infatti si presta spesso a lettura inversa ed anticipando quello che avremmo detto più avanti, al quarto vangelo si può assegnare una struttura crocecentripeta, cioè il centro è la croce con tre grandi commenti concentrici. Il primo commento è dato dalla narrazione della passione, il secondo commento è dato invece dai capitoli 13-17, il terzo commento è dato dai capitoli 1-12. Non entriamo sul problema, che tipo di commento ogni parte propone. Diciamo soltanto che dietro ogni parte si nasconde il mistero della croce, di conseguenza le parole del capitolo 17: «Io ti ho glorificato sulla terra avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere», si collocano non prima della croce, ma dopo. Tornando ancora all’opera che Gesù deve compiere prima di tornare al Padre, possiamo fermare l’attenzione su una espressione ripetuta cinque volte nel capitolo sesto. Nel verso 33, Gesù dichiara: «il pane di Dio è colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo». Nel verso 50 Gesù dichiara: «questo è il pane che scende dal cielo perché chi ne mangia non muoia». Nel verso 51, Gesù ancora continua: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo». Ancora nel verso 58, Gesù continua: «questo è il pane che è sceso dal cielo», in questa espressione, Gesù si identifica, con il pane disceso dal cielo. In questa identificazione c’è anche la ripresa della tradizione della manna nel salmo 77, nel salmo 104, in Sapienza 16,20. In questi testi si parla della manna non però come pane disceso dal cielo, ma come pane di cielo, di indole celeste. Questa frase dipende ancora da Isaia 55, possiamo infatti stabilire un confronto tra i testi del capitolo 6 ed Isaia 55,10. GIOVANNI 6 1 – Io sono il pane 2 – che scende dal cielo

ISAIA 55,10 1 – come la pioggia e la neve 2 – scendono giù dal cielo… pane da mangiare

Dicendo: «pane che scende dal cielo», Gesù riprende ed applica a sé in maniera inversa, il primo e l’ultimo elemento [ $

]. In questo modo, l’espressione «Io sono il pane

vivo che scende dal cielo», deve essere letta in chiave storica, la pioggia di cui parla Isaia ha una storia: parte dal cielo ed arriva all’ultimo effetto: dare pane, la pioggia così diventa pane. Gesù così rivela di avere una storia che parte dal cielo e culmina nell’essere pane, pe-


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rò la storia di Gesù và oltre quella delineata per la pioggia, perché l’ultimo effetto della pioggia è dare pane, per Gesù l’ultimo termine non è diventare pane, bensì, divenuto pane, dare la vita al mondo, e dando la vita al mondo, come dice Giovanni 17,1-5, è appunto glorificare il Padre. Ma è chiaro che dal cielo, a diventare pane ci sono molti passaggi intermedi, che vanno ricostruiti come anche ci sono passaggi intermedi che vanno pure ricostruiti dal diventare pane a dare la vita eterna, come pure ci sono dei passaggi intermedi che vanno ricostruiti dal dare la vita eterna a glorificare il Padre. Purtroppo non possiamo ricostruire tutto, ci limitiamo soltanto alla prima ricostruzione: dallo scendere dal cielo a diventare pane. È in tale ricostruzione ci basiamo ancora sul capitolo sesto dove possiamo individuare una sezione dal verso 33 al verso 50, sarebbe stata utile tutta la ricostruzione strutturale di questo brano, ma proponiamo una struttura più breve. Notiamo intanto una relazione tra il verso 33 ed il verso 41: 6,33: «il pane di Dio è Colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo»; 6,41: «mormoravano i giudei, poiché Gesù disse: “Io sono il pane disceso dal cielo”», ma il verso continua in 42: «non è costui il figlio di Giuseppe? […] come può dire: “sono sceso dal cielo”?». I giudei negano l’origine dal cielo relegando tutto alla dimensione terrena: «non conosciamo suo padre e sua mandre?». È chiaro che negando l’origine dal cielo, negano che possa diventare pane ed infatti nelle parole dei giudei il pane non c’è. Ma l’evangelista insinua una grossa conseguenza: «il pane che scende dal cielo dà la vita al mondo», di conseguenza, relegando Gesù nella sfera terrena, i giudei non solo negano che Gesù diventi pane, ma anche essi stessi, con la loro incredulità si precludono la strada verso la vita eterna. Tra i versi 33 e 41 troviamo i versi 36-40, dove Gesù dichiara: «tutto ciò che mi dà il Padre a me viene e[…] - […] chi viene a Me non lo caccerò fuori - poiché sono sceso dal cielo - non per fare la mia volontà - ma la volontà di Colui che mi ha mandato - e questa è la volontà di Colui che mi ha mandato, - che tutto ciò che ha dato a me non perda, ma resusciti nell’ultimo giorno - questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia vita eterna ed Io lo resusciterò nell’ultimo giorno». Anche in questo testo, pur in maniera sintetica è descritta una storia che parte analogamente al pane dal cielo e culmina nel dono della vita eterna. Fermandoci su questo testo notiamo subito una esplicita finalizzazione della discesa dal cielo al compimento della volontà del Padre. In questo testo si nascondono due testi veterotestamentari ed una tradizione neotestamentaria. I due testi veterotestamentari sono an-


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zitutto Isaia 55,11 [ %

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], dove si dichiara che la parola non torna a Dio senza aver

fatto ciò che Dio ha voluto. Perciò anche nel testo di Isaia, l’uscita della parola da Dio, dalla Sua bocca, è finalizzata al compimento della Sua volontà. Però non basta Isaia 55 perché nel testo di Giovanni leggiamo l’espressione [

] «fare la volontà», questa

espressione non è di Isaia 55, ma del salmo 39, il quale nel verso 7 suona: «sacrificio ed offerte non gradisci, le orecchie mi hai aperto, non hai chiesto olocausti e vittime per la colpa, allora ho detto: “Ecco, vengo a fare la Tua volontà”». Isaia 55 e Salmo 39 si fondono. Salmo 39 precisa Isaia 55, Isaia 55 offre lo sfondo. Il salmista ha detto «Ecco Io vengo», ma il salmo non specifica qual è il punto di partenza: lo offre Isaia 55: il punto di partenza è il cielo. Il salmo 39,7, insieme al salmo 15: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice», soggiacciono ai racconti sinottici del Getsemani, la preghiera di Gesù. Giovanni non narra la preghiera di Gesù, ma certo non la ignora; l’antitesi di Giovanni: «sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato», riprende la tradizione evangelica [Luca]: «Padre non la mia, ma la Tua volontà sia fatta». Questo testo accorcia le distanze: mentre il verso 33 o 41 finalizzavano la discesa dal cielo al pane, quest’ultimo testo finalizza la discesa dal cielo al compimento della volontà di Dio in un cammino che parte dal Getsemani. Gesù stesso però si premura di indicare la volontà di Dio in due espressioni: negativa e positiva, che è utile scrivere in parallelo: 1. questa è la volontà 2. che non perda 3. ma resusciti nell’ultimo giorno

1. questa è la volontà del Padre 2. che chiunque vede il Figlio e crede in Lui, abbia la vita eterna 3. ma resusciti

Giovedì 17 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Il verso 40 esprime positivamente quello che il verso 39 ha detto negativamente: il problema non è soltanto “non perdere”, ma dare la vita eterna. La vita eterna è data a chiunque vede il Figlio e crede in Lui. Perciò si indicano due volontà di Dio: la prima riguarda il Figlio: deve dare la vita eterna; la seconda riguarda gli uomini: debbono per ottenere la vita eterna «vedere e credere». Ma dietro la volontà di Dio riferita agli uomini si nasconde un’altra volontà di Dio riferita a Gesù: perchè l’uomo possa vedere e credere è


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indispensabile che il Figlio diventi oggetto di visione. Quando sarà oggetto di visione? Nel contesto l’evangelista non lo dice ma lo dirà bene altrove. L’espressione «abbia la vita eterna» ci rimanda infatti ad altri due testi, precisamente 3,14 e 3,16: entrambi i testi si collocano nel contesto del lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo. In 3,14 Gesù dichiara: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto così deve essere innalzato il Figlio dell’uomo perché chiunque crede in Lui abbia vita eterna». Nel verso 16 Gesù risale ancora più a monte e dice: «così infatti amò Dio il mondo, da donare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna». La seconda parte di questi testi è identica, o quasi. Nel verso 16 c’è soltanto l’aggiunta «non perisca». Il parallelismo tra i due testi permette di metterli insieme e di ricostruire e di costruire una prospettiva unica e completa, nei seguenti punti: 1 – nello fondo c’è l’amore di Dio per il mondo; 2 – tale amore si concretizza nel dono dell’Unigenito; 3 – l’Unigenito deve essere innalzato e la necessità dell’esaltazione è richiesta dalla trasmissione della vita eterna oltre che dalle Scritture [Cfr. Numeri 21, l’episodio dei serpenti velenosi]; 4 – il Figlio dona la vita eterna, ma a condizione che si creda in Lui. Nemmeno questi ultimi due testi sono completi, ma i testi di 6,39-40 e di 3,14-16 si richiamano e si completano perché tutti e quattro convergono a finalizzare sia l’amore di Dio, sia l’esaltazione, sia la volontà di Dio che Gesù deve compiere verso il dono della vita eterna. Possiamo allora capire quanto il Figlio deve diventare oggetto di contemplazione: gli uomini per avere la vita eterna debbono guardare a Lui e credere in Lui. Ma perché gli uomini possano guardare e credere è necessario che Egli sia esaltato; tanto più, che come dicono i testi di 8,24.28, dall’esaltazione sgorga una manifestazione alla quale gli uomini sono chiamati a rispondere mediante la fede. In questa prospettiva non è casuale il modo come Giovanni conclude la sua narrazione della passione. Conclude citando Zaccaria 12,10: «guarderanno a Colui che hanno trafitto». Quel crocifisso che i giudei volevano togliere paradossalmente non è stato tolto, ma rimane oggetto di contemplazione e di fede.


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I versi 41-42 presentano la reazione dei giudei: narra l’evangelista che i giudei mormoravano perché disse «Io sono il pane che è sceso dal cielo», ma rileggendo globalmente questi versi avremmo i seguenti punti: 1 – «Io sono il pane vivo che è sceso [ & ]»; 2 – «non è costui il Figlio di Giuseppe?»; 3 – «come può dire che: sono sceso dal cielo?». Nel terzo punto i giudei contestano la causa: il fatto che è disceso dal cielo e di conseguenza è escluso anche l’effetto, il fatto cioè che Lui sia il pan, e difatti nella loro replica [3], il pane non è menzionato. I giudei contestano perciò il fatto che “è sceso dal cielo”, qui però dobbiamo distinguere tra quello che dicono i giudei e quello che tacitamente insinua l’evangelista. I giudei contrappongono l’origine celeste e l’origine terrena, contestano l’origine celeste in nome della sua origine terrena e fanno delle due cose delle realtà incompatibili: in questo modo essi relegano Gesù di Nazareth alla semplice dimensione terrena; per l’evangelista invece non è così: origine celeste ed origine terrena non stanno in contrapposizione come vogliono i giudei, bensì in continuità. Il pensiero dell’evangelista si ricostruisce leggendo il testo all’inverso: 1 – è sceso dal cielo; 2 – è diventato il figlio di Giuseppe; 3 – è divenuto pane. Ancora è una storia in tre tappe che và dal cielo al pane passando attraverso un punto intermedio che è l’essere divenuto il figlio di Giuseppe. Torneremo su questo aspetto, per il momento notiamo soltanto l’incredulità dei giudei: i giudei negano che Gesù sia sceso dal cielo, di conseguenza negano che sia divenuto pane, ma siccome il pane è fonte di vita eterna, automaticamente si precludono il cammino verso la vita eterna. Si capisce il modo come l’evangelista indica la discesa dal cielo [ aoristo dal verbo «

&

& ]: «

& » è un participio

» che indica purtroppo un fatto già chiuso: per i giudei la di-

scesa dal cielo è un fatto passato, chiuso, avendolo essi rifiutato relegando nell’incredulità Gesù di Nazareth, nella semplice dimensione umana.


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Per completare il nostro discorso consideriamo gli ultimi tre versi, il verso cioè 50, il verso 51 ed il verso 58: verso 50: «questo è il pane disceso dal cielo che se qualcuno ne mangia mai morirà» [effetto negativo]; verso 51: «Io sono il pane vivo che è sceso dal cielo: se qualcuno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che Io do è la mia carne per la vita del mondo»; verso 58: «questo è il pane che è sceso dal cielo, non come mangiarono i vostri padri e morirono, chi mangia di questo pane vivrà in eterno». La menzione del fatto che i padri morirono richiama il verso 49 dove Gesù dichiara: «i vostri padri mangiarono nel deserto la manna e morirono», emerge un progresso: 1 – verso 49: «i padri mangiarono e morirono»; 2 – verso 50: «chi mangia di questo pane non muore»; 3 – verso 51: «chi mangia di questo pane vivrà in eterno»; 4 – verso 58: «non come, i padri mangiarono e morirono». Questi ultimi tre versi hanno la loro complessità, ma ci accontentiamo di una lettura più generica. Emerge un progresso ed una polemica, il progresso è: 1 – morirono; 2 – non muore; 3 – vive in eterno. Il pane che Gesù dà conduce alla vita eterna. La polemica è con i giudei, i quali in 6,28 avevano chiesto a Gesù: «cosa dobbiamo fare per operare “le opere” di Dio?». Gesù risponde facendo un passaggio dalle “opere” [al plurale], alla “opera” [al singolare]: «questa è l’opera di Dio», cioè Gesù dichiara che quello che Dio vuole è una cosa sola: «che crediate in Colui che Egli ha mandato», Gesù chiede quella fede che i giudei non hanno. I giudei chiedono a Gesù un segno citando l’episodio della manna: «i nostri padri mangiarono la manna nel deserto». Gesù mostra che quello non era il vero pane perché quel pane non eluse la morte mentre il pane che Lui dà conduce alla vita eterna. Restare alla manna significa restare nella morte [ecco la polemica di Gesù].


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Riepiloghiamo tutto che ci permetta di cogliere quale sia quest’opera che la parola, secondo Isaia, deve compiere, che Isaia non indica, ma che Giovanni stabilisce. Individuiamo i seguenti quadri: 1 – verso 31; 2 – versi 38-42; 3 – versi 49-58. verso 33: «il pane di Dio è Colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo»; [versi 38-42]; verso 49: «non come mangiarono i vostri padri e morirono»; verso 50: «chi mangia di questo pane non muore»; verso 51: «chi mangia di questo pane vive in eterno»; verso 58: «non come mangiarono i padri e morirono, chi mangia di questo pane vivrà in eterno». Il verso 33 e il blocco di 49-58 coincidono: in maniera più schematica il verso 33, in maniera più sviluppata, i versi 49-58 coincidono nella finalizzazione del pane alla vita eterna. L’opera perciò di Gesù è che dia la vita eterna: per questo motivo deve diventare pane. C’è un cammino dal cielo al pane, questo cammino lo indicava Isaia 55,10 nella metafora della pioggia. La pioggia scende dal cielo e il suo ultimo effetto è diventare pane. Isaia 55,11 parlava della parola che deve compiere la volontà di Dio. Giovanni riferisce a Gesù sia la prospettiva della pioggia che quella della parola: Egli diventa pane e compie la volontà di Dio di dare la vita eterna. Riassumendo le due cose, slegate in Isaia, l’evangelista sottolinea la prospettiva che per compiere la volontà di Dio, Gesù deve diventare pane. Emerge la domanda: come Gesù arriva ad essere pane? A questa domanda rispondono i versi 38-42. verso 38 – «sono sceso dal cielo» [ && ]; «non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato»; «questa è la volontà di Colui che mi ha mandato, che non perda nessuno di quanti mi ha dato, ma resusciti nell’ultimo giorno»; verso 40 – «questa è la volontà di Colui che mi ha mandato: che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna»; verso 41 – «mormoravano i giudei perché disse: “Io sono il pane che è sceso dal cielo”».


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69

IL FIGLIO DI GIUSEPPE «come può dire che “dal cielo sono sceso?”» [

].

Notiamo anzitutto una inclusione letteraria tra il verso 38 e il verso 42 determinata dalla menzione del cielo e del verbo al perfetto «

&&

». Al centro emerge il seguente

cammino: 1 – Getsemani; 2 – l’esaltazione; 3 – il Figlio di Giuseppe. Il primo ed il terzo elemento presentano due tipi di paternità divina ed umana. Al centro c’è la menzione dell’esaltazione implicita. Possiamo allora ricostruire il cammino di Gesù dal cielo al pane nel seguente modo: 1 – [3,16 – l’amore di Dio per il mondo]; 2 – «non la mia volontà ma di Colui che mi ha mandato» l’invio da parte del Padre; 3 – La discesa dal cielo; 4 – il figlio di Giuseppe [la vita terrena]; 5 – Il getsemani [che Giovanni non narra ma non ignora]; 6 – L’esaltazione [chiunque vede il Figlio e crede in Lui]; 7 – diventa pane; 8 – divenuto pane è fonte di vita eterna. In questo schema non è chiaro il passaggio dalla esaltazione al pane, “forse” possiamo riempire questo passaggio alla luce di 12,24: «se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane solo, ma se muore porta molto frutto». Abbiamo detto forse perché il linguaggio è diverso, tuttavia possiamo proporre un confronto ancora con Isaia 55,10: GIOVANNI 12,24 Se il chicco di grano caduto a terra non muore […] porta molto frutto

ISAIA 55,10 Seme al seminatore Pane da mangiare


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Alla luce di Isaia 55 possiamo scorgere una idea sottile, che Gesù è morto come il chicco di gran: il chicco di grano produce la spiga, la spiga produce la farina e questa diventa pane. Ma forse la prospettiva giovannea potrebbe essere un’altra: pane ed esaltazione coincidono [pensate al memoriale liturgico], l’esaltazione di cui parla l’evangelista non sarebbe soltanto quella avvenuta una volta sola storicamente sul Calvario, che dopo tre ore finì, ma l’esaltazione a cui pensa l’evangelista è quella che rimane perennemente nel pane [ecco l’aspetto di memoriale]. Lasciando stare questo problema possiamo concludere che l’evangelista riprende lo schema di Isaia, ma lo completa avendo presente la tradizione evangelica che pur tuttavia non narra quella della cena. Secondo l’evangelista quel opera che in Isaia la parola doveva compiere, ma in quel testo restava vaga, è il pane, ma non fine a sé stesso, ma pane fonte di vita eterna. L’opera di Gesù perciò è quella di dare la vita eterna. L’OPERA DELLA PAROLA DA 13,1 ALLA NARRAZIONE DELLA PASSIONE Partiamo da 13,1, dove leggiamo: «prima della festa di pasqua, Gesù sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che nel mondo a compimento li amò». In questo testo la prospettiva, come abbiamo già detto alla luce anche di 12,1, siamo nell’imminenza della pasqua, ma qual è questa Pasqua? Giovanni in questo testo descrive la vera Pasqua. Si può notare come tutta la narrazione della passione è collocata nella prospettiva della parasceve.


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Sabato 19 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 In questa seconda parte l’opera di Gesù è vista come un’opera di amore nella prospettiva del grande passaggio pasquale verso il Padre. Che tutta la sezione da 13,1 a 17,26 si collochi nella prospettiva dell’agape, emerge anche da uno schema strutturale che possiamo cogliere in questa sezione: 1 – (13,1): «prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che nel mondo, a compimento li amò [ ]»; a – (13,34): «vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri, come io amai [ ] voi»; b – (14,15-23): «se mi amate osserverete i miei comandamenti»; 2 – (15,9-10) «come il Padre amò [ ] così anch’io voi amai [ ], rimanente nel mio amore se osserverete i comandamenti del Padre mio rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel Suo amore»; a – (15,13): «questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io voi amai»; b – (16,27): «il Padre stesso vi accoglie, perché voi me avete accolto ed avete creduto che da Dio sono uscito»; 3 – (17,23-26): «[23] li hai amati, come hai amato me […], mi hai amato prima della fondazione del mondo [… 26], perché l’amore con cui hai amato me sia in essi ed io in essi». Lo schema rivela come tutta questa sezione da 13 a 17 è percorsa dalla prospettiva dell’agape. In questa parte sono concentrati i quattro quinti della terminologia dell’agape. Nei capitoli 1-12 l’agape non è assente, però è presentata in maniera più rara e con diverse angolature. importantissimo però è il primo testo dell’agape che è chiave di comprensione di tutto: «così Dio amò il mondo da donare il Suo Figlio unigenito». Per potere comprendere la prospettiva dell’agape è importante qualche osservazione sulla terminologia. Nella grecità classica l’amore è espresso con tre verbi: «

», «

», quest’ultimo verbo si

riferisce all’amore sensuale, donde l’erotismo. Nel linguaggio classico è quasi del tutto assente la terminologia che invece sarà centrale nel greco biblico, e cioè « co «amare» corrisponde al verbo «

». In ebrai-

», questo verbo è usato nella bibbia ebraica per tut-

ti gli amori, da quello più alto verso Dio [o da Dio], a quello più materiale: l’atto sessuale [la amò ed essa concepì]. La bibbia greca introduce una prospettiva che la grecità classica non prevedeva e che cioè nella dinamica dell’amore ci entrasse anche la divinità. Il verbo «

», rarissimo nel greco classico, appare un po’ più, benché timida-

mente, nel greco popolare, attestato dai vari papiri, e forse l’uso popolare soppianta, a poco


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a poco, il linguaggio classico. Il verbo «

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» viene assunto in maniera preponderante

dai traduttori greci, nella bibbia greca si legge circa 250 volte contro i rarissimi usi degli altri verbi di amare usati dal greco classico. Praticamente scompaiono il vergo « anche il verbo «

»; «)

» ed

» non scompare, ma anch’esso è usato poche volte [una

settantina di volte nei LXX]. Perché i traduttori greci scelsero «)

» verbo inusitato nella grecità classica? for-

se perché era un verbo vergine, cioè non condizionato da prospettive filosofiche o affettive della grecità classica. In altre parole questo verbo, ancora non condizionato, poteva contenere l’ampiezza di significati che aveva il verbo ebraico: dall’amore per Dio all’amore sessuale. Nei LXX però non scompare «)

» e non scompare nemmeno nel Nuovo Te-

stamento, magari talora assume il senso tecnico di baciare [Giuda], però questo verbo, pur in numero minore di usi compare in Giovanni. Il testo più eclatante è Giovanni 21,15-17: «Simone di Giovanni, mi ami? [ ] più di costoro? – Si Signore, tu sai che ti amo [) ] Simone di Giovanni, mi ami [ ] – Si Signore, tu sai che ti amo [) ] Simone di Giovanni, mi ami [) ] – si rattristò Pietro perché disse la terza volta “mi ami” [) ], e disse: “Tu sai che io ti amo” [) ]».

Come possiamo vedere, in un contesto strettissimo, Giovanni usa entrambi i verbi [50% e 50%], 50% dicono che i due verbi sono sinonimi e Giovanni cambia solo per variare lo stile, 50% [padre Attilio compreso] dice esattamente il contrario che cioè non sono sinonimi. Il fatto che Giovanni vari lo stile, non è vero [perché abbiamo molti passi dove ripete frequentemente], nel capitolo 14, in 12 versetti, 10 volte usa «

». Inoltre usa i

due verbi in maniera sproporzionata. Quelli che sostengono che i due verbi non sono sinonimi dicono che « dichi l’amore più alto e «)

» in-

» amore più basso, non è vero perché Giovanni in 5,20 lo

usa per i rapporti del Padre verso il Figlio. Le nostre conclusioni sarebbero le seguenti: i due verbi non esprimono intensità o superiorità di amore, ma esprimono diversa dinamica di amare. Nell’amore abbiamo due dinamiche: anzitutto il soggetto si apre verso l’oggetto e compie un cammino verso l’oggetto che ama, concretizzando questo cammino nel dono di qualcosa o anche soprattutto nel dono di sé stessi.


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L’altra dinamica è non più il soggetto che và verso l’oggetto, bensì il soggetto che porta nella sua intimità un oggetto. Queste due linee è sembrato individuarle negli usi biblici di «

» [amore di dono] e di «)

» [amore di coinvolgimento]. In questo sen-

so l’agape è il cammino del soggetto verso il suo oggetto. Gesù a Pietro pone tre domande distinte, lette all’inverso: 1 – se lo accoglie nella sua intimità, Pietro è invitato ad optare tra la sua vita e Gesù. C’è in tutto l’accoglienza di Pietro; 2 – avendo Pietro accolto Gesù è invitato a fare un cammino che passa attraverso la dimensione del discepolo e culmina nella dimensione del pastore. Il telaio di fondo è costituito dai tre testi 13,1; 15,9-10; e 17,23-26: 1 – in 13,1 soggetto è Gesù, oggetto sono i discepoli; 2 – in 15,9 Gesù è soggetto di amore verso i discepoli ma in conseguenza del fatto che il Padre lo ha amato. Gesù è insieme oggetto e soggetto di amore; 3 – in 17,23 l’unico soggetto è il Padre. Emerge una scala dell’agape per cui l’agape giovannea non è un sentimento, ma è una storia, e tutto il problema di Gesù sarà quello di coinvolgere i discepoli in questa storia che parte dal Padre, e torna al Padre. La scala si può scendere o salire, è a salire da 13,1 a 17,23: Gesù ama i discepoli, si passa attraverso Gesù, all’amore del Padre [15,9], si perviene all’amore del Padre. La scala si può scendere da 17,23 a 13,1 nelle seguenti tappe: 1 – il Padre ama; 2 – l’amore del Padre arriva a Gesù, da Gesù riparte verso i discepoli; 3 – l’agape raggiunge i discepoli. Questa storia appare completa in 15,9-10, dove possiamo cogliere le due linee: discendente ed ascendente. Nella linea discendente abbiamo il seguente ordine: Padre arriva a Gesù, Gesù arriva ai discepoli. Cioè l’agape parte dal Padre ed arriva a Gesù, riparte da Gesù ed arriva ai discepoli. Emergono due domande: come l’agape dal Padre arriva a Gesù? A questa non rispondiamo. La seconda domanda è: come l’amore di Gesù arriva ai discepoli? A questa seconda domanda rispondono la serie di azioni simboliche di 13,2-5: si


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alza da tavola, pone le vesti, versa l’acqua, lava i piedi, asciuga, che non è tanto servizio umile, ma è piuttosto l’evento dell’agape che parte da Gesù ed arriva ai discepoli, lava i piedi, e lavando i piedi ai discepoli, Gesù li abilita a camminare nella via dell’agape. Comincia poi il cammino a risalire, osservate la frase: «rimanete nel mio amore», ma rimanere esige due cose prima camminare, poi arrivare, e rimanere. I discepoli sono impegnati a compiere un cammino che li porta a Gesù. Questo cammino è l’amore vicendevole che è il comandamento di Gesù, attraverso l’amore vicendevole i discepoli arriveranno a Gesù. Ma Gesù ha compiuto un cammino che lo ha portato al Padre, di conseguenza giunti a Gesù automaticamente i discepoli arrivano al Padre, e questa è tutta la storia circolare dell’agape che in soldoni può essere fissata nei seguenti punti: 1 – parte dal Padre ed arriva a Gesù; 2 – ri-parte da Gesù ed arriva ai discepoli; 3 – i discepoli, abilitati ad un cammino dall’amore di Gesù percorreranno la strada dell’amore vicendevole che li porta a Gesù; 4 – ma siccome Gesù è nel Padre, è radicato nel Suo amore, i discepoli raggiunto Gesù automaticamente raggiungeranno il Padre. Tutto questo sviluppo è da presupporre dietro la frase di 17,3: «questa è la vita eterna: che conoscano Te, unico vero Dio e Colui che hai mandato, Gesù Cristo». Non si tratta di conoscenza intellettuale, ma di esperienza di unità fondata sull’agape. Giovedì 24 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Con il testo di 13,1 inizia più direttamente quella parte che possiamo definire “il compimento”. Nel testo di Isaia, le ultime tre parole, secondo il testo masoretico, suonano: «e partì a compimento ciò per cui l’ho mandata». I LXX, pur modificando il testo ebraico, ha tuttavia l’aspetto del compimento. Nel quintultimo rigo del foglio si legge « %

(

» [finché non porti a compimento].

Che cosa la parola deve portare a compimento, il testo di Isaia non lo specifica, ma Giovanni lo dice chiaramente: ciò che deve portare a compimento è un’opera di amore. Il verbo « « «

» è una forma di congiuntivo aoristo passivo dal verbo

», cioè dal «

» più il verbo «

». Il Giovanni il termine «

partiti], il verbo «

». Il verbo «

» deriva dal sostantivo

» si legge una sola volta in 13,1 [il testo da cui siamo

» si legge due volte in un testo di capisalda importanza: 19,28-30, a


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cui dovremo arrivarci. L’uso di questa terminologia ci dice due cose: anzitutto, insieme ad altri elementi, ancora una volta, la dipendenza da Isaia 55. Inoltre stabilisce una relazione tra 13,1 e 19,28-30. Affrontiamo una domanda: che cosa è questo compimento dell’opera di amore? La nostra risposta non sarà completa perché non affronteremo il problema di come il Padre ha amato Gesù. La nostra attenzione si fermerà sull’opera di amore che Gesù deve compiere nei confronti dei discepoli. Per stabilire l’opera di amore dobbiamo ricercare in due contesti: il contesto di 13,1-5 e il contesto di 19,28-30. Accenniamo al contesto di 13,1-5: in questo contesto possiamo stabilire una relazione tra 13,1 e 13,2-5: 13,1 1 – circostanza cronologica: «prima della festa di pasqua» 2 – circostanza participiale: «sapendo» 3 – circostanza participiale: «avendo amato»

4 – verbo diretto: «a compimento amò»

13,2-5 1 – circostanza cronologica: «mentre diveniva il banchetto»; 2 – circostanza participiale: «avendo il diavolo gettato»; 3 – circostanza participiale: «sapendo che da Dio è uscito»; 4 – verbi diretti: a - «si alza da tavola»; b - «pone le vesti»;

c - «avendo preso un asciugatoio si cinse»;

d - «versa acqua nel catino»; e - «cominciò»; - «a lavare»; - «ed a asciugare».

Su questo schema facciamo soltanto due osservazioni previe in soldoni, mettendo insieme le due circostanze participiali, le due conoscenze sono lo sfondo in cui si colloca l’opera di Gesù. Le due circostanze intermedie danno due inizi antitetici dell’opera di Gesù. Il fatto di avere amato i discepoli è il tradimento di Giuda che paradossalmente segna l’inizio del compimento dell’opera di amore. L’unico verbo diretto del verso 1, «a compimento li amò», sta in parallelo con la serie dei cinque verbi dei versi 2-5: «si alza, pone le vesti […]». Questa serie dei cinque verbi esige una doverosissima distinzione tra le forme verbali al presente I, II e IV e le forme verbali all’aoristo III e V.


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Dobbiamo concludere che il compimento dell’opera di amore consiste in quelle cinque forme verbali che sono inseparabili e perciò è sbagliato estrapolare l’azione di lavare i piedi dalle tre che precedono e dalla quinta che segue. Non entriamo, almeno per il momento, nel senso di queste azioni simboliche, diciamo soltanto che esse esprimono tutta l’opera di amore in maniera completa e sviluppiamo invece l’altro testo a cui ci rimanda il termine «

» di 13,1, cioè il testo dei due usi di 19,28-30. In questi testi leggiamo le se-

guenti espressioni: 1 – «Gesù sapendo che tutto era stato portato a compimento [ ]»; 2 – «perché si adempisse la Scrittura disse: “ho sete”»; 3 – [la scena dell’aceto]; 4 – «avendo preso l’aceto disse: “tutto è stato portato a compimento”» [ 5 – «e avendo reclinato il capo donò [ ] lo Spirito». I due usi del verbo «

» ci

dicono che qui, in questa descrizione, deve essere cercata l’opera di amore di Gesù. Tuttavia è errore grave separare un brano dal suo contesto e perciò non possiamo non leggere questa scena se non nel complesso del suo contesto. Possiamo distinguere due contesti: un contesto più immediato ed un contesto più ampio. Il contesto più immediato sono la narrazione degli eventi al Calvario secondo Giovanni. Il contesto più ampio è invece la più ampia narrazione della passione.

];


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IL CONTESTO PIÙ AMPIO Il contesto più ampio è la narrazione della passione. Anche Giovanni dipende dallo schema pre-evangelico della narrazione della passione, ed infatti anche il quarto evangelista propone come i sinottici cinque parti: a – Getsemani; b – processo davanti ai giudei; c – processo davanti a Pilato; d – eventi al Calvario; e – la sepoltura. Ogni parte avrebbe problemi grossissimi, e senza scendere nei particolari, ci limitiamo solo a tre differenze rispetto ai sinottici rimandando alla considerazione specifica le differenze sugli eventi al calvario. Quindi le tre differenze riguardano: I – Getsemani; II – processo davanti ai giudei; III – processo davanti a Pilato. I – La differenza al Getsemani sta nel fatto che Giovanni non narra la preghiera, ma, come abbiamo visto anche da 6,38-40, non la ignora. Il quarto evangelista ferma la sua attenzione e sviluppa l’aspetto della cattura, dove sono importanti i due «Io sono» in bocca a Gesù. II – La differenza nel processo davanti ai giudei sta nel fatto che i sinottici narrano il processo davanti al sinedrio presieduto da Caifa, Giovanni non lo narra ma non lo ignora nemmeno, anzi la sua preoccupazione, e lo fa ben due volte, è quella di stabilire una relazione tra Anna e Caifa. Viceversa narra un dialogo storicamente informale tra Anna [o Anania] e Gesù, ignorato del tutto dalla tradizione sinottica. Nel contesto del processo o dialogo davanti ad Anania, Giovanni colloca i tre rinnegamenti di Pietro; in questo senso ha una certa coincidenza con Luca ed è più storico di Matteo e Marco. Pietro avrebbe rinnegato nel palazzo di Anna. III – La terza differenza è nel processo davanti a Pilato, che per Giovanni assume una importanza maggiore rispetto ai sinottici. Detto in maniera vaga, il pretorio di Pilato, per Giovanni è il luogo della manifestazione di Gesù e Pilato ha il compito di fare da intermediario tra Gesù ed i giudei, rivelando loro all’esterno quello che si verifica all’interno.


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Pilato porta ai giudei due cose fondamentali che sintetizzano nelle due manifestazioni: quella di 19,5: «ecco l’uomo» e quella di 19,14: «ecco il vostro re». Di tutto ciò non si ha nulla nei sinottici per i quali invece Pilato ha diverso significato. IL CONTESTO IMMEDIATO Il contesto immediato in Giovanni, sono le cinque scene o le cinque parti della quarta sezione, cioè gli eventi al Calvario. Queste cinque sezioni sono: 1 – [19,16b-22]: Il titolo della croce; 2 – [19,23-24]: la spartizione delle vesti e la tunica non scissa; 3 – [19,25-27]: la donna-madre e l’affidamento del discepolo a lei; 4 – [19,28-30]: il compimento e il dono dello Spirito; 5 – [19,31-37]: tutta la descrizione che ha al centro il colpo di lancia. Queste cinque scene sono concatenate e non possono essere separate. Fermeremo la nostra attenzione su queste scene, le leggeremo all’inverso, cioè partendo dall’ultima per risalire alla prima, anche se poi sarà utile lettura inversa. Speriamo di tornare a 13,1-5 che ha nel suo simbolismo una ampiezza maggiore della passione dal punto di vista del compimento dell’opera di amore. GIOVANNI 19,31-37 Questo testo non ha alcun parallelo con i vangeli sinottici, in questo testo possiamo distinguere cinque unità così strutturate o articolate: 1 – verso 31: l’intenzione e la richiesta dei giudei; 2 – verso 32: i soldati che spezzano le gambe dei due crocefissi; 3 – versi 33-34: non spezzare le gambe a Gesù, ma aprire il costato e uscire sangue ed acqua; 4 – verso 35: la testimonianza di colui che ha visto; 5 – versi 36-37: ciò che la scrittura ha preannunziato. Cominciando a leggere queste cinque unità in maniera più generica notiamo la relazione antitetica tra il primo e il quinto punto: alla richiesta dei giudei [1], si oppone la Scrittura [5].


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Tra 2 e 4 la relazione è complementare: i due con-crocefissi sono soggetto di una azione passiva, il testimone che ha visto è soggetto di una azione attiva [rendere testimonianza]. Vedremo come questi due aspetti possono richiamare altri testi giovannei, così per esempio 21,18-25, dove a Pietro è assegnato il compito di morire con una morte che rende gloria a Dio, al discepolo invece è assegnato il compito di rendere testimonianza. Al centro ci sta la persona di Gesù in tre aspetti: 1 – negativo: «non gli spezzarono le gambe»; 2 – positivo: «aprì il costato»; 3 – la conseguenza: «uscì sangue ed acqua». Quest’ultimo elemento è il culmine di tre azioni che globalmente stanno al centro. Perciò concludiamo che la fuoriuscita di sangue ed acqua, cosa di cui i sinottici non dicono nulla, per Giovanni assume un’importanza fondamentale, come indica la sua posizione centrale. LA RICHIESTA DEI GIUDEI I giudei chiedono a Pilato due cose: a – che fossero spezzate le gambe; b – che fossero tolti via. L’evangelista ambienta questa richiesta nello sfondo di due feste: la festa pasquale e il sabato. Notiamo il seguente schema strutturale: a – poiché era la parasceve; b – perché non rimanessero sulla croce i corpi; c – di sabato; d – era grande il giorno di quel sabato. Dal punto di vista storico, Giovanni ci informa, che quel anno la pasqua coincise con il sabato ed infatti la parola «parasceve», che etimologicamente significa “porre i vasi presso”, ma che in maniera più larga significa “preparazione”, dice che la morte di Gesù è avvenuta prima della pasqua. Ed infatti nel processo davanti a Pilato, il quarto evangelista, in 18,28, nota che “i giudei non entrarono nel pretorio per non contaminarsi, ma per man-


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giare la pasqua”. Si sa che il giudeo che entrava in casa di un pagano contraeva impurità ed esigeva sette giorni di purificazione. Ciò pone un problema cronologico, al quale è difficile dare una risposta: Gesù è morto prima o dopo la pasqua? Secondo Giovanni dopo, ma secondo i sinottici prima. Secondo Giovanni i giudei ancora debbono mangiare il banchetto pasquale, secondo i sinottici, Gesù fece un vero e proprio banchetto pasquale prima di patire [Cfr. Lc: «ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi prima di patire»]. Dovremmo ammettere l’esistenza di due calendari? Sarebbe una soluzione plausibile, anche se non abbiamo documenti per fondarla, in ogni caso c’è una valenza teologica nei sinottici ed una valenza teologica in Giovanni. Le due richieste dei giudei si ricollegano strettamente alle due feste, come appare dal seguente schema: a – era la parasceve; b – era sabato; c – spezzare le gambe; d – togliere via. La parasceve implicava anche l’immolazione dell’agnello, al tramonto si immolava l’agnello e si preparava il banchetto. Una prescrizione della Mishnà però indicava che se la pasqua cadeva di sabato l’immolazione dell’agnello si anticipava per avere il tempo di preparare e non incorrere nel riposo sabbatico. Ciò ci permetterebbe di capire perché Giovanni narri: «era la parasceve della Pasqua, era l’ora sesta e Pilato proclama “Ecco il vostro re”». La menzione della parasceve all’ora sesta indica che quella è l’ora in cui nelle case si immolava l’agnello, Giovanni sembra voler dire che mentre nelle case si immolava l’agnello, nella casa di un pagano si immolava il vero agnello da cui paradossalmente i giudei restano fuori. Diverse volte Giovanni menziona la parasceve e l’ultima menzione è in 19,42, dove si legge che a motivo della parasceve posero lì [nel sepolcro nuovo] Gesù. Giovanni però non narra la stessa celebrazione pasquale; o meglio la celebrazione pasquale è narrata in 13,1 e consiste nel grande passaggio di Gesù, non da solo, ma da questo mondo al Padre.


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Sabato 26 novembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Le due richieste dei giudei stanno in relazione alle due circostanze di festa: 1 – poiché era la parasceve; 2 – il sabato; 3 – spezzare le gambe; 4 – togliere via. Questo parallelismo ci dice che l’evangelista relaziona la richiesta di spezzare le gambe alla parasceve e la richiesta di togliere via al fatto del sabato. Il sabato viene ampliato con la frase: «era grande il giorno di quel sabato», perché grande? l’evangelista non lo dice, lo possiamo dedurre da tutto il contesto. Dal punto di vista storico si può pensare che era grande perché coincideva con la pasqua, ma l’evangelista insinua un’altra realtà, quella cioè che si tratta di un sabato diverso da tutti gli altri sabati. Sappiamo qual’era il senso del sabato: giorno di riposo che il codice sacerdotale fondò si genesi: «il settimo giorno Dio si riposò», donde la legislazione ebraica che prescrive riposo universale ed assoluto, appunto perché Dio riposò. Giovanni ha un’altra valutazione del sabato perché il sabato non è più il giorno del riposo di Dio, ma è il giorno in cui Dio opera e Gesù di conseguenza opera. Nel capitolo 5 [al versetto 17] dirà: «il Padre mio opera ed Io opero» in conseguenza del fatto che Gesù ha guarito il paralitico «in giorno di sabato». Ma di sabato è ambientato anche il miracolo del cieco nato. Lasciamo per il momento il problema del sabato ed andiamo alle due richieste: 1- spezzar le gambe; 2- e toglier via. Lo scopo per cui bisogna spezzare le gambe è proprio quello di togliere via. Siamo ormai nella grande vigilia pasquale e non si può celebrare la festa con tre condannati che pendono da un legno. Deuteronomio 21,23 citato da Paolo in Galati 3,13, prescriveva, anzi dichiarava maledetto chiunque pende dal legno. Si capisce che in deuteronomio il riferimento era all’impiccagione, nel NT è invece alla croce. Non è casuale il fatto che l’espressione «sospendere al legno» è usata da Luca negli Atti degli apostoli in bocca a Pietro nei suoi discorsi. Tornando a Giovanni, non si poteva celebrare la festa con quei segni di maledizione, perché secondo il deuteronomio la maledizione riguardava la terra. Ta-


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le richiesta è importante storicamente perché esclude qualsiasi morte apparente e rivela la prassi romana che non si poteva deporre dalla croce se non a morte avvenuta ed accertata; dopodichè il corpo veniva dato ai parenti [se lo richiedevano] o gettato in fosse comuni. La croce era pena dolorosissima, ma non istantanea. Il crocifisso si spegneva lentamente tra atroci tormenti, più o meno presto, in base anche al modo come veniva crocifisso. Per affrettare la morte i romani praticavano un metodo atroce che paradossalmente diventava atto di clemenza: spezzare le gambe. E fu questa la richiesta dei giudei. Giovanni nota la coincidenza tra la circostanza di festa e la richiesta e ne vede tutta la sua assurdità. I giudei chiedendo che vengano spezzate le gambe, stanno trasgredendo la legge. Siamo nella parasceve, nella parasceve si preparava l’agnello. Esodo 12, che non è una narrazione, bensì un rituale pasquale, dava delle indicazioni: all’agnello non si possono spezzare le ossa. Questo è ripetuto due volte [o tre secondo i LXX], e poi ripreso nel libro dei Numeri. Perciò chiedendo che vengano spezzate le gambe, nella parasceve i giudei trasgrediscono la legge, ma sotto sotto c’è la convinzione giovannea che Gesù sia il vero agnello pasquale al quale, secondo esodo 12, non debbono essere spezzate le ossa. Vedremo come Giovanni riprenderà nelle due citazioni questa regola. Anticipando quello che diremo le due citazioni della scrittura, che Giovanni introduce in 19,35-37, riguardano esattamente le due richieste dei giudei e contraddicono le richieste stesse [i giudei smentiti dalla scrittura]. Possiamo quindi stabilire il seguente schema: 1 – spezzare le gambe; 2 – togliere via; 3 – osso non sarà spezzato; 4 – guarderanno a Colui che hanno trafitto. Su queste citazioni torneremo perché, almeno nella prima, l’evangelista non allude soltanto ad esodo 12, ma formula l’espressione in maniera tale da insinuare la fusione di due testi: esodo 12 ed il salmo 33: «Dio preserva il giusto, neppure un osso sarà spezzato». Tornando ancora alla richiesta dei giudei notiamo la successione: spezzar le gambe e togliere via. Potremmo anche dire: spezzar le gambe per potere togliere via. Vedremo come l’evangelista stabilisce una stretta relazione tra spezzar le gambe e togliere via. Si potrebbe togliere via senza spezzar le gambe perché se il crocifisso è morto non serve più quel gesto e si può togliere, ma Giovanni stabilisce tra i due fatti tale relazione che se non si spezzano le gambe nemmeno si toglie via.


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Passiamo alla seconda unità: la venuta dei soldati. Qui c’è una certa disparità storica con i vangeli sinottici, secondo Marco 15,43, Giuseppe di Arimatea andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Nota Marco che Pilato si meravigliò che Gesù era morto e mandò il centurione ad accertarsi che realmente fosse morto. Della richiesta di Giuseppe a Pilato, parla anche Giovanni, e perciò dovremmo dire storicamente che a Pilato giunsero due richieste dei giudei e di Giuseppe, forse la richiesta di Giuseppe subentra dopo la richiesta dei giudei per impedire che Gesù fosse buttato in fossa comune. Marco e Giovanni concordano nell’invio dei soldati, ma per motivi diversi: secondo Marco a controllare, secondo Giovanni a spiegare. Probabilmente il più storico è Giovanni, la tradizione sinottica infatti non sa nulla, né dello spezzare le gambe e nemmeno del colpo di lancia. Matteo nel capitolo 27 riferisce che qualcuno dei soldati «aprì il costato ed uscì sangue ed acqua», questa indicazione di Matteo in 27,49, però non è attestata da tutti i codici, è attestata da codici buoni, tipo il sinaitico e tipo il vaticano, ma questa frase puzza tanto di completamento dei copisti in base al vangelo di Giovanni. Passiamo a descrivere l’azione dei soldati, e in questa azione bisogna stare attenti a come l’evangelista si esprime. L’evangelista scrive così: «vennero dunque i soldati e del primo spezzarono le gambe e dell’altro concrocifisso a lui». È chiaro che storicamente ad entrambi i crocifissi furono spezzate le gambe, ma l’evangelista formula l’espressione in maniera tale da riferire, ad uno una cosa, all’altro un’altra. Al primo riferisce una azione che riceve, azione attiva: il primo è destinatario di una azione attiva. Al secondo invece attribuisce non una azione che riceve, ma uno stato. Possiamo ancora osservare la seconda espressione: Giovanni non scrive: «crocifisso con Lui», ma scrive: «concrocifisso a Lui» [

]. Su questa formulazione emergo-

no due idee: la condivisione di una situazione e la finalizzazione: il secondo condivide uno stato, ma finalizzato a Gesù. In questa lettura emerge una dimensione ecclesiale, i due aspetti richiamano le due dimensioni che altre volte Giovanni propone. Nel capitolo 21 noi abbiamo questa relazione: Pietro, del quale si dice con quale morte doveva morire e il di-


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scepolo del quale Gesù dice: «se io voglio che rimanga finché non venga», Pietro cioè condivide una morte, compito del discepolo è quello di «rimanere», un rimanere che deve essere spiegato alla luce del capitolo 15 [la vite ed i tralci]: «rimanete in me ed Io in voi». Si può anche citare il capitolo 12: Marta serve [dimensione attiva], Lazzaro era uno dei commensali [dimensione stativa]; o forse anche si può citare Maria che compie una azione verso Gesù. Queste osservazioni ci inducono a leggere la frase dei due crocifissi in senso ecclesiale, indicando le due dimensioni della chiesa o meglio dei discepoli: condivisione della morte di Gesù e rimanere il Lui. Segue l’azione nei confronti di Gesù, il testo scrive: «vennero dunque, ma come giunsero a Gesù, come videro che era morto, non spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con la lancia aprì il costato e subito uscì sangue ed acqua». Notiamo anzitutto le due azioni dei soldati, esse non sono in continuità, ma in opposizione, anche le due azioni dei soldati richiamano le due richieste dei giudei. Possiamo infatti stabilire il seguente schema: 1 – spezzare le gambe; 2 – togliere via; 3 – non spezzarono le gambe; 4 – uno dei soldati aprì il costato. Il parallelismo non è preciso, dovremmo dire che non spezzarono le gambe e non tolsero via. Giovanni non può dire che non tolsero via, darebbe una falsa concezione storica, perché non c’è dubbio che Gesù fu deposto dalla croce. Ma Giovanni si guarda bene dal dire che Gesù fu deposto dalla croce perché lo spezzarne le gambe era finalizzato a togliere via. Mentre nei fatti storici spezzar le gambe era finalizzato a togliere via, il simbolismo giovanneo, al contrario, togliere via è l’effetto di una causa: spezzare le gambe. Ciò significa che se non si spezzano le gambe nemmeno si toglie via. Bisogna distinguere i due piani storici e del simbolismo giovanneo. Perciò per Giovanni implicitamente, dal momento che a Gesù non spezzarono le gambe, nemmeno fu tolto via. Questo Giovanni non può scriverlo, ma tutto il contesto lo insinua: ciò pone il problema di che cosa sia la croce giovannea. Intanto è importante il fatto che Gesù era morto, potremmo leggere questa indicazione in due modi. Il primo modo, alla luce del salmo 33, che come vedremo l’evangelista ha presente, leggiamo nel verso 20: «molte sono le sventure del giusto, ma lo libera da tutte il Signore, preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato». Alla luce del salmo


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possiamo dire che nella morte di Gesù, Dio è intervenuto contro l’attentato dei giudei. A Gesù volevano spezzare le gambe, ma Dio lo difende mediante la morte. Ma possiamo rileggere ancora in maniera più diretta sul testo, dove possiamo stabilire il seguente progresso: 1 – era morto – situazione; 2 – non spezzarono le gambe – conseguenza negativa; 3 – aprì in costato – conseguenza positiva. Di conseguenza la morte non è presentata come termine, bensì come inizio di un processo. A questo punto dovremmo commentare questo fatto della morte alla luce di tutto il capitolo 10, dove si dice che il pastore pone la vita per il gregge. Potremmo commentare alla luce del capitolo 12 [se il chicco di grano non muore…], del capitolo 15 [nessuno ha un amore più grande…]; restiamo per il momento nel capitolo 19. Nell’interpretazione di queste azioni partiamo dall’ultimo elemento: «uno dei soldati aprì il costato e subito uscì sangue ed acqua». È chiaro come dietro questo fenomeno ci sia un problema anatomico che compete alla scienza studiare. Fermandoci all’aspetto anatomico dovremmo dire che l’acqua è quel liquido sieroso che fuoriesce quando il sangue si è esaurito. Dal punto di vista medico questa fuoriuscita sarebbe l’uscita di sangue raccolto nel pericardio. Gli studi sindonici confermano, dalla sindone infatti emerge prima l’uscita anche violenta di sangue cadaverico, poi anche uno strato di questo liquido vischioso. C’è un problema per quanto riguarda le parole «sangue ed acqua»: alcuni codici minuscoli [in greco minuscolo, più tardivi], qualche codice della antica versione latina, riportano in maniera inversa: «acqua e sangue». Questi codici più alcuni padri invertono, ci manca tutta la tradizione greca per cui non c’è citato nessuno dei più antichi codici greci, ciò però non significa perché anche un codice apparentemente più marginale può conservare la lettura più antica [e quindi più originale]. Donde la domanda: cosa scrisse Giovanni? Sangue ed acqua oppure acqua e sangue. Facciamo un ragionamento, che cosa è più facile: che essendoci nel testo sangue ed acqua dei copisti cambiarono in acqua e sangue, oppure che, essendoci nel testo acqua e sangue i copisti cambiarono in sangue ed acqua? La cosa più facile è che essendoci sangue ed acqua alcuni copisti cambiarono in acqua e sangue: la motivazione di questo secondo cambiamento c’è: la lettura sacramentale del testo. Quindi vollero applicarlo alla lettura sacramentale: prima battesimo e poi eucarestia, il contrario è più difficile spiegarlo, non si vede un motivo per cui essendoci acqua e sangue dei copisti


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cambiassero in maniera massiccia in sangue ed acqua. Perciò noi teniamo la lettura «sangue ed acqua» cercheremo di spiegare il senso. La citazione della scrittura ci mette sulla strada della interpretazione simbolica. Giovedì 01 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 La prima citazione è la seguente: «osso non sarà spezzato di lui», questa formulazione non è proprio una citazione alla lettera, si può richiamare certo Esodo 12,46, dove si legge la prescrizione: «non ne spezzerete alcun osso», siamo perciò rimandati alle prescrizioni dell’agnello pasquale. Il riferimento all’agnello pasquale è confermato dal fatto che l’evangelista ambienta tutta la descrizione nel contesto della parasceve. Il capitolo 12 dell’Esodo prescrive infatti che bisogna prendere un agnello ed al tramonto immolarlo: questa è la preparazione. Tuttavia l’evangelista stesso formula in un modo da richiamare un’altra allusione; il verbo spezzare nel testo di Esodo sopracitato è formulato alla seconda persona plurale attiva, l’evangelista invece formula alla terza persona singolare passiva. C’è un altro testo dove leggiamo il verbo al passivo, si tratta del salmo 33, dove il salmista dichiara al versetto 21: «preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato», il salmo si riferisce al povero giusto che il Signore protegge e che libera da tutte le sue angosce. Possiamo fare un confronto tra i tre testi: GIOVANNI 19,36 osso non sarà spezzato di lui

ESODO 12,42 non spezzerete alcun osso

SALMO 33,21 preserva tutte le sue ossa neppure uno sarà spezzato

Il testo di Esodo presenta, come il nostro testo, il termine «osso» al singolare, mentre il salmo c’è lo ha al plurale, come pure il verbo del nostro testo è più vicino a quello del salmo. C’è una discussione tra gli interpreti: quale dei due testi l’autore sta riprendendo. C’è chi propende per l’uno, c’è chi propende per l’altro, la nostra posizione è che l’autore formula il suo testo in maniera tale da alludere ad ambedue. Notiamo intanto l’ultima parola del nostro testo, il genitivo «di lui» [

], possiamo confrontare la citazione di Esodo:

nell’Esodo leggiamo «da lui», questo passaggio «da lui» [moto da luogo] a «di lui» [genitivo di appartenenza], non è senza significato. L’evangelista sta sottolineando che proprio


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di Gesù non bisogna spezzare alcun osso, c’è un enfasi che lascia intuire che proprio Gesù sia quella persona alla quale la prescrizione dell’Esodo si applica. Perché l’Esodo prescrive che non si spezzi alcun osso all’agnello? Perché la pasqua, antichissima festa di nomadi pastori, oltre che essere la festa del nuovo anno, era una festa di unità. Gli antichi nomadi pastori, prima di mettersi in cammino verso nuovi pascoli celebravano questa festa che era di scongiuro e di augurio: scongiuro per allontanare i mali ed augurio di ritrovarsi tutti uniti. La pasqua perciò era la festa dell’unità, ed in questo senso sarebbe stata ripresa nel 622 a.C. da Giosia nel tentativo di ricostituire l’unità del regno davidico. Questa prescrizione, che nel capitolo 12 dell’Esodo è ripresa due volte è importante all’epoca dell’esilio, quando il pericolo della dispersione era forte: spezzare le ossa dell’agnello significava attentare alla unità del popolo, perché l’agnello esprimeva questa unità. Nel salmo, l’indicazione citata ha un altro senso: essa esprime la totale ed assoluta protezione di Dio, per cui il giusto che si affida a lui è protetto fin nel suo più profondo essere. Nel nostro testo di Giovanni entrambe le prospettive sono riscontrabili, è riscontrabile la prospettiva del salmo: Dio protegge Gesù e lo preserva da tutte le sue sventure, preserva tutte le sue ossa, ed infatti il contesto parla del tentativo dei giudei di volere spezzar le gambe e togliere via,

lo spezzar le gambe per i giudei, è il primo passo verso

l’eliminazione del crocifisso. Ma Dio salva impedendo mediante la morte che ciò avvenisse. D’altra parte, come dicevamo, è pure presente la prospettiva dell’agnello pasquale, siamo infatti nella prospettiva della parasceve, ma la prospettiva dell’agnello pasquale è confermata da 1,29-34, dove, come dicevamo, l’esperienza di Giovanni parte dalla dichiarazione: «ecco l’agnello di Dio» e si conclude con la professione di fede che «costui è il Figlio di Dio». Possiamo infatti stabilire la seguente relazione: 1,29-34 1. Ecco l’agnello di Dio 2. ho visto ed ho reso testimonianza

19,31-37 1. Era la parasceve 2. Colui che ha visto ha reso testimonianza

È chiaro che Gesù è l’agnello pasquale, non nel senso dei giudei: spezzargli le gambe significava non riconoscere in Gesù l’agnello pasquale, esso però non è più il segno di unità, ma ha un significato più particolare che sarebbe anche più complesso, ma che ci limitiamo soltanto ad indicare: Gesù come agnello pasquale prende su di sé il peccato del


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mondo, questo l’esodo non lo diceva. È chiaro che nella concezione dell’agnello pasquale, in Giovanni, si fondono due prospettive: quella di Esodo e quella di Isaia 53,7 dove il servo è paragonato all’agnello: «come agnello condotto al macello»; Giovanni fonda le due prospettive ed il nuovo agnello pasquale è «Colui che toglie il peccato del mondo». Non riconoscere perciò Gesù come agnello pasquale equivale a restare nei propri peccati. Ma passiamo all’altra citazione: «guarderanno a Colui che hanno trafitto». Questa seconda citazione facilmente è individuabile, si tratta di Zaccaria 12,10: questa citazione dal punto di vista letterario pone non pochi problemi, il testo scrive: « $ 0 [Giovanni 19,37], il vero «

» è aoristo dal verbo «

*

»

». Analoga citazione

si legge in apocalisse 1,7, dove l’autore cita lo stesso testo di Zaccaria con lo stesso verbo «

», nascono due problemi: che rapporto c’è in relazione a questo testo tra quar-

to vangelo ed apocalisse? La formulazione letteraria che i due propongono è diversa da quella dei LXX, nasce il problema se il quarto vangelo e l’apocalisse traducono il testo ebraico se esisteva una traduzione diversa da quella dei LXX. I problemi che abbiamo indicato interessano sia la storia del testo, sia anche per potere comprendere meglio in che senso un autore cita un testo, non continuiamo perciò nel confronto letterario sopra notato, ci preoccupiamo invece di vedere come il nostro evangelista riprende questa citazione e perché la riprende. Abbiamo detto che riprende il testo di Zaccaria 12,10, ma il testo di Zaccaria suona così: Zaccaria 12,10: «effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno Spirito di grazia e supplica e guarderanno a me come a Colui che hanno trafitto […]» 13,1: «In quel giorno ci sarà per la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato» Dio annunzia per la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme l’effusione di uno Spirito di grazia e supplica in forza del quale gli uomini supplicheranno Dio e si rivolgeranno a quel Dio che pur hanno trafitto con i loro peccati. Nello stesso tempo si preannunzia per la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme l’apertura di una fonte. Nel testo di Zaccaria stanno in relazione, legati dall’espressione «per la casa di Davide e gli abitanti di Gerusalemme», l’effusione di uno Spirito di grazia e supplica e l’apertura di una fonte. E-


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videntemente da questa fonte, Dio effonderà il Suo Spirito che indurrà gli uomini a «guardare a Colui che hanno trafitto». Nel nostro testo di Giovanni l’apertura della fonte è facilmente individuabile nella apertura del costato. Possiamo infatti stabilire la seguente relazione: 1. non spezzarono le gambe 2. uno dei soldati aprì il costato

1. non sarà spezzato alcun osso 2. guarderanno a Colui che hanno trafitto

La prima citazione della Scrittura si riferisce al fatto che a Gesù non spezzarono le gambe, la seconda scrittura deve riferirsi al fatto della apertura del costato. Da quella apertura del costato sgorga sangue ed acqua, ma in 19,30, aveva detto l’autore che Gesù «reclinato il capo donò lo Spirito», perciò la seconda scrittura dee ricollegarsi alla apertura del costato. L’autore però riferendo la seconda scrittura alla apertura del costato fa una scelta nella citazione. Abbiamo indicato tutto il testo di Zaccaria, ma l’evangelista non sceglie né la prima indicazione: «effonderò il mio spirito di grazia e supplica», né l’ultima: «ci sarà una fonte aperta», ma sceglie quella centrale: «guarderanno a Colui che hanno trafitto». Per comprendere il senso di questa citazione, dobbiamo per il momento lasciarla e tornare alla azione della apertura del costato. Alla luce di Zaccaria 12,10-13,1, l’apertura del costato richiama la fonte che si apre. Ma, a nostro parere, sono richiamati altri due testi, il primo testo è Esodo 17 con il suo parallelo di Numeri 20,1-11. Si tratta dell’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia nel deserto. Possiamo infatti stabilire il seguente parallelismo: NUMERI 1. Mosè 2. col bastone 3. colpì 4. la roccia 5. uscì acqua

GIOVANNI 1. un soldato 2. con la lancia 3. aprì 4. il costato 5. uscì sangue ed acqua

Troviamo un parallelismo di azioni che accosta i due episodi: Giovanni esplicitamente non richiama l’episodio della roccia, ma non lo ignora perché lui ha presente ed esplicitamente vi allude, il capitolo seguente di Numeri 21: il popolo cioè morsicato dai serpenti e Dio comanda a Mosè di innalzare un palo, mettere un serpente di bronzo perché chiunque lo guarda ne sia guarito; in 3,14 Gesù applica a sé quella immagine: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto così deve essere innalzato il Figlio dell’uomo perché chiun-


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que crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna». Se l’allusione a Numeri 20 nel colpo di lancia è esatto avremmo: 1. Numeri 20 2. Numeri 21

1. Apertura della roccia 2. guarderanno a Colui che hanno trafitto

Un secondo testo che può essere alluso è Ezechiele 47: il contesto è quello dei capitoli 40-48, dove il profeta vede e descrive le misure del nuovo tempio, nel capitolo 47 dirà che dalla soglia del tempio usciva acqua verso oriente, quest’acqua và a crescere fino a diventare un grande fiume, nel verso 9 dirà che il pesce era abbondantissimo. In altra sede abbiamo avanzato la supposizione che la pesca miracolosa, di cui si parla nel capitolo 21, è una descrizione che Giovanni riprende dalla tradizione. Della pesca miracolosa infatti parla anche Luca nel capitolo 5, ma il modo e la posizione dove Giovanni inserisce l’episodio lascia pensare che le acque dove avviene la pesca miracolosa siano quelle sgorgate dal costato di Cristo. Lasciamo stare però l’episodio della pesca e guardiamo altri riferimenti. L’evangelista nel capitolo 2, dopo l’episodio di Cana, inserisce un altro episodio, quello della purificazione del tempio, quando cioè Gesù caccia i venditori. Giovanni colloca all’inizio del suo vangelo ed in connessione a Cana un episodio che la tradizione sinottica colloca dopo l’ingresso a Gerusalemme. Lasciando stare una relazione più sottile tra l’episodio della purificazione del tempio e Cana, notiamo come nell’episodio della purificazione del tempio, Gesù dichiara: «distruggete questo tempio e in tre giorni ve lo riedifico [

]», i giudei obiettano: «in quarantasei anni fu costruito [

questo tempio e tu in tre giorni lo ricostruisci? [

] fu costruito

]». È importante osservare che a ri-

guardo del tempio, in quarantasei anni l’evangelista usa il verbo «

», mentre a ri-

guardo del corpo di Cristo, nuovo tempio, «costruito in tre giorni», l’autore usa il verbo «

» quello tipico della resurrezione. L’allusione alla risurrezione è evidente, Giovan-

ni infatti commenta che egli parlava del tempio del Suo corpo e precisa che dopo la resurrezione i discepoli si ricordarono che così aveva detto: perciò il corpo di Gesù sulla croce è il tempio. Da questo tempio, secondo l’immagine di Ezechiele, esce come un fiume. Ciò è confermato da 7,37-39, dove leggiamo: «nel giorno della grande festa stava Gesù e gridò: “Chi ha sete venga a me e beva: fiumi dal suo seno escono di acqua viva”, ciò disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in Lui».


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Possiamo stabilire il seguente parallelismo: 19,34 1. costato 2. uscì acqua 3. 19,30 – donò lo Spirito

7,37-39 1. dal suo seno 2. fiumi di acqua viva 3. ciò disse dello Spirito

In questa prospettiva possiamo rileggere l’episodio di Cana. Sabato 03 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 1) Cana; 2) uscì sangue ed acqua; 3) uno dei soldati aprì il costato; 4) distruggete questo tempio ed in tre giorni lo riedificherò. Possiamo rileggere questo schema alla luce anche del profeta Ezechiele, nel seguente modo: 1 – il nuovo tempio; 2 – si apre il tempio; 3 – esce acqua; 4 – quest’acqua è portata a tavola. La relazione con Cana è confermata dalla seguente relazione: 1 – acqua; 2 – vino; 3 – sangue; 4 – acqua. 1 – non è giunta la mia ora; 2 – donna ecco tuo figlio; 3 – il discepolo la prese con sé; 4 – fate quello che vi dirà.


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Riassumendo allora, in questa quinta scena, avremmo il seguente sviluppo: 1 – l’intenzione dei giudei era quella che fossero spezzate le gambe e fossero tolti via. 2 – La storia si rivela diversa, non spezzare le gambe e di conseguenza nemmeno togliere via. 3 – La scrittura da ragione agli eventi storici che non all’intenzione dei giudei. Al crocifisso non si spezzano le gambe perché è l’agnello pasquale e se si spezzano le gambe non si celebra pasqua, il crocifisso non si toglie via. La narrazione della passione finisce con questa citazione di Zaccaria: «guarderanno a Colui che hanno trafitto». Ma possiamo relazionare questo testo con altri due testi del vangelo, prima relazioneremo la seconda citazione e poi la prima. La seconda citazione può essere letta alla luce di 6,38-40 [già visto] e di 3,14-16. Notiamo il seguente progresso: 1 – 19,37 – guarderanno a Colui che hanno trafitto; 2 – 6,38-40 – chiunque vede il Figlio e crede in Lui ha la vita eterna; 3 – 14,16 – deve essere innalzato il Figlio dell’uomo perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna. Troviamo un progresso inverso: – guardare [19,37]; – vedere e credere [6,38-40]; – solo credere [3,14-16]. Di conseguenza la narrazione della passione implicitamente si apre alla prospettiva di una contemplazione che porta alla vita eterna. Ma andiamo alla prima citazione: «non sarà spezzato di Lui alcun osso», si tratta dell’agnello pasquale che gli ebrei immolavano prima di compiere il grande passaggio pasquale dalla terra di Egitto verso la terra promessa. In 13,1 leggiamo che prima della festa di pasqua, Gesù portò a compimento l’opera di amore. In questa prospettiva le due citazioni si completano e ci danno quasi il punto di partenza e il punto culmine di tutta l’opera di Gesù. Gesù è l’agnello pasquale, ma insieme l’evangelista unisce un’altra immagine, quella del serpente innalzato nel deserto. Come agnello pasquale, Gesù permette che si celebri una pasqua. Come il serpente innalzato, Egli determina un opera di raduno, Giovanni scrive in 19,34: «era morto e non gli spezzarono le gambe», in 11,49-52 si assegna alla morte di Gesù un altro scopo, Caifa aveva detto: «bisogna che uno solo muoia per la gente». L’evangelista commenta: «non solo per la gente, ma anche per radunare in unità i figli di Dio che erano stati dispersi». Perciò Gesù


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è l’agnello pasquale, ma insieme anche il centro di unità attorno a cui gli uomini si radunano. Il processo di riunificazione degli uomini avviene mediante il coinvolgimento degli uomini nell’agape (rimanete nel mio amore, attirerò tutti a me, a condizione però dell’osservanza dei comandamenti). Il raduno avviene mediante la manifestazione dell’agape che raggiunge gli uomini attraverso lo Spirito [l’acqua] ed esercita una forza di attrazione. Gli uomini, così raggiunti dall’amore di Gesù, ed abilitati a camminare nella via dell’amore vicendevole, andranno verso Gesù, lo raggiungeranno e si radicheranno in Lui. In questo modo attraverso l’amore gli uomini realizzeranno la loro unità attorno a Gesù. In questo modo Gesù ha realizzato la sua prerogativa di serpente di bronzo, ma anche la prerogativa di radice di Iesse, di cui parla Isaia 11,12, che avrebbe radunato gli uomini. Ma il Gesù che ha radunato gli uomini è l’agnello pasquale che permette il grande passaggio dell’esodo da questo mondo al Padre. In questa prospettiva le due citazioni si rapportano in una relazione dialogica: proposta-risposta. La proposta è nella prima citazione: «non sarà spezzato alcun osso» che richiama tutto il processo di raduno di cui abbiamo parlato e che possiamo proporre nel seguente modo: 1 – l’agnello pasquale; 2 – è innalzato; 3 – raduna gli uomini attraverso l’agape; 4 – li conduce al Padre in un cammino di Esodo. La seconda citazione sta all’inizio di un processo che non riguarda più la proposta di Gesù, bensì la risposta degli uomini, ed infatti, mentre nella prima citazione, Gesù è soggetto passivo, nella seconda citazione il soggetto attivo sono gli uomini: «guarderanno». Il processo di risposta degli uomini è il seguente: 1 – guarderanno; 2 – la vista li porta alla fede; 3 – la fede li porta alla vita eterna. Ma che cosa è la vita eterna in Giovanni? In 17,3 leggiamo: «questa è la vita eterna: che conoscano Te, unico vero Dio e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo». Tutto lo sviluppo del capitolo 17 rivela che non si tratta di conoscenza intellettuale, ma di profondo coinvolgimento nel Padre e nel Figlio, e questo è possibile solo quando attraverso Gesù si raggiunge il Padre, ma per raggiungere il Padre, Gesù deve coinvolgere gli uomini e con-


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durli nell’esodo pasquale. Gli uomini debbono, mediante la fede, lasciarsi coinvolgere e lasciarsi condurre. Nell’opera di Gesù delineata e nella risposta degli uomini, si raggiunge il Padre, si entra in comunione con Lui e questa è la vita eterna. Perciò “vita eterna” è il frutto di tutto un processo dinamico che parte proprio dal fatto che a Gesù non spezzano le gambe e non lo tolgono via. In questa prospettiva emerge tutta la paradossalità della richiesta dei giudei, loro vogliono togliere Gesù e di conseguenza per Giovanni, in nome della loro festa pasquale e del loro sabato, vogliono impedire la vera Pasqua e il vero sabato. La vera pasqua è il passaggio al Padre e questa è la vita eterna. GIOVANNI 19,28-30 I versi 28-30, come abbiamo già notato, sono abbastanza complessi. Come abbiamo già notato, in questi versi, noi scorgiamo una struttura insieme alternata e concentrica. Proponiamo il testo strutturato nel seguente modo: 1 – dopo ciò, sapendo Gesù che tutto era stato portato a compimento; 2 – perché si adempisse la scrittura dice “ho sete”; 3 – [un] vaso giaceva pieno di aceto, una spugna piena di aceto avendo posto ad un issopo, offrirono di lui alla bocca; 4 – quando prese l’aceto, Gesù disse: “tutto è stato portato a compimento”; 5 – e reclinato il capo donò lo Spirito. Cominciamo da quest’ultima indicazione: «donò lo Spirito»: [ Questa espressione con il verbo « in 27,50 scrive: « )

» dal verbo « )

].

» non si può tradurre «spirò». Matteo », in Matteo sì possiamo tradurre «lasciò lo

Spirito», come anche in Marco leggiamo il verbo «

» che vuol dire «spirò». An-

che in Luca leggiamo lo stesso verbo di Marco, cioè spirò, uscì fuori dallo Spirito. La frase di Giovanni è più vicina a Matteo, e c’è un problema se per tanti versi il quarto evangelista non abbia presente Matteo. Tuttavia la frase di Giovanni è singolare, l’espressione di Matteo, “lasciò lo Spirito”, indica che Gesù uscì dallo Spirito, cioè morì, la frase di Giovanni non si può intendere in questo modo. Il verbo usato «

» implica il trasmettere a

qualcuno, affidare a qualcuno, ed a chi Gesù affidò? Luca dirà: «Padre nelle Tue mani affido il mio Spirito». Ma questo è Luca, e del Padre nel contesto di Giovanni, non si parla assolutamente. Piuttosto osserviamo che il verbo usato da Giovanni è lo stesso verbo usato per il tradimento di Giuda. In 13,2 leggiamo «avendo il diavolo gettato nel cuore di Giuda


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[…] di tradirlo [ %

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]» , ma poi questo stesso verbo si legge ancora in 18,35 dove

Pilato esclama: «la tua gente ed i sacerdoti ti consegnarono a me, che cosa hai fatto?». Ma Gesù davanti a Pilato replica nel verso seguente: «se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero combattuto perché non fossi dato in mano ai giudei». Ed infine in 19,16, l’evangelista scrive: «Pilato lo diede ai giudei perché fosse crocifisso». C’è perciò tutta una serie di usi di questo verbo alla cui luce deve essere interpretato il verbo nel nostro testo. Rileggendo questi usi avremmo il seguente progresso: 1 – Satana induce Giuda; 2 – a consegnare Gesù [13,2 – 18,4]; 3 – Giuda consegna ai giudei [18,36]; 4 – i giudei consegnano a Pilato [18,35]; 5 – Pilato consegna i giudei perché fosse crocifisso; 6 – Gesù consegna lo Spirito. In questo progresso emerge una grossa paradossalità ed una fortissima ironia, tutto il cammino di Gesù a partire dal tradimento di Giuda è orientato verso quel punto culmine: la consegna dello Spirito. Paradossalmente l’opera di Giuda, istigata da Satana, serve solo a rendere Gesù capace a consegnare lo Spirito. In questa prospettiva, l’espressione di Giovanni, sul piano storico, certo richiama la morte. Ma Giovanni sta descrivendo la morte come il momento in cui Gesù consegna lo Spirito agli uomini. Questa descrizione è la prima di tre consegne dello Spirito. La prima è questa, la seconda è 19,34: «uscì sangue ed acqua», la terza è 20,22: «Gesù soffia da risorto». Ripetendo il gesto della creazione quando lo Spirito aleggiava sulle acque, sui discepoli, ai quali, dopo avere soffiato dice: «ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati […]». Prescindiamo, almeno per il momento, dal senso specifico di questi tre testi, poniamo soltanto un problema che ha posto già l’epoca dei Padri e che alcuni moderni hanno ripreso: che rapporto c’è tra l’effusione dello Spirito, fondamentalmente ambienta alla croce in Giovanni, e la pentecoste lucana trasferita alla Pentecoste? Non c’è dubbio che in Giovanni il testo centrale sia 19,34: 1 – 19,30: donò lo Spirito; 2 – 19,34: uscì sangue ed acqua; 3 – ricevete lo Spirito Santo.


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L’azione centrale è l’uscita; 19,30, Gesù dona; 20,22 esorta a ricevere. Alcuni Padri seguiti da alcuni moderni hanno parlato di due effusioni [cronologiche] dello Spirito Santo: quella giovannea e cinquanta giorni dopo, quella lucana, ma né l’effusione giovannea appare incompleta, né quella lucana presuppone un’altra effusione. Meglio dire che i due, Luca e Giovanni, concordano su un punto fondamentale: la causalità di Gesù nell’effusione dello Spirito Santo. Questo è il punto vero, la diversa prospettiva croce o pentecoste è dovuta non ad un fatto cronologico, ma teologico. Per la sua teologia, Giovanni incentra tutto alla croce. Il vangelo di Giovanni ruota intorno alla croce e tutto Giovanni riassume in quel evento. Fra l’altro lo Spirito Santo per Giovanni è dato in vista del raduno degli uomini che avviene attorno alla croce di Gesù. Luca invece è il teologo della storia della salvezza, e disloca i momenti del mistero di Cristo in concomitanza alle varie tappe della storia della salvezza. L’ascensione è quaranta giorni dopo, con richiamo dei 40 giorni di Mosè al Sinai o dei 40 anni che precedettero l’ingresso nella terra promessa. La Pentecoste, o la festa delle settimane, antica festa agricola nel tardo giudaismo, passò ad indicare il dono della legge. Sulla scia di Isaia 2,2-4, Luca concepisce così: nel giorno i giudei celebrano il dono della legge è promulgata la legge nuova. Ma torniamo a Giovanni e passiamo alle parole parallele: «ho sete». Queste parole stranamente sono indicate allo scopo di portare a compimento le Scritture. È strano perché Gesù doveva avere realmente sete. Sabato 10 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Notiamo anzitutto come queste parole di Gesù sono riferite soltanto da Giovanni. In queste parole si possono anche vedere le scritture, possiamo citare almeno due testi, il primo diretto, presente a tutta la tradizione evangelica, il Salmo 21 che scrive: «hanno messo nel mio cibo veleno, nella mia sete mi hanno dato aceto». Tutti e quattro gli evangelisti riprendono l’elemento dell’aceto, ma solo Giovanni menziona la sete. Si può citare un altro testo indiretto, Isaia 55,1: «o voi tutti, assetati, venite all’acqua», ma è indiretto perché Gesù non sta invitando gli assetati, ma egli che esprime la sua sete. Questo testo deve essere relazionato poi a 7,37-39, dove Gesù dichiara: «chi ha sete venga a me e beva». Ma l’allusione alla Scrittura non riguarda la conseguenza che è il dono dello Spirito Santo. E qui si possono richiamare non pochi testi dell’AT, dove è preannunziato il dono dello Spirito, ma possiamo richiamare quello già citato in 19,34-37 di


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Zaccaria 12,10: «effonderò il mio Spirito di grazia e supplica e guarderanno a Colui che hanno trafitto». Ma scendiamo ancora più a fondo e riferiamoci alle parole pronunziate da Gesù: «tutto è stato portato a compimento». Queste parole indicano che Gesù ha portato a compimento l’opera che il Padre gli ha dato. Possiamo citare 4,34: «il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera». Si può ancora citare 17,3, dove Gesù dichiara: «io ti ho glorificato sulla terra avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere», Gesù perciò sulla croce dichiara che è stata portata a compimento l’opera che il Padre gli ha dato e, difatti, subito dopo segue: «avendo reclinato il capo, donò lo Spirito»; nel dono dello Spirito, perciò, è portata a compimento l’opera che il Padre gli ha dato. Questo testo però, è ancora incompleto, ed ha bisogno di essere completato con altri. Le parole: «è stato portato a compimento» dipendono da Isaia 55,11, dove a riguardo della parola, si dice che non torna senza avere compiuto ciò che Dio ha voluto, dicendo perciò: «tutto è stato compiuto», Gesù si rivela come quella parola che ha ricevuto da Dio in compito, lo ha compiuto ed ora può ornare a Dio. Ma scaviamo un pochino più a fondo. Il testo di 19,28-30, come abbiamo già indicato, si relaziona a 13,1, dove l’evangelista scrive « rola «

» deriva il verbo «

». Dalla pa-

» da cui si forma il perfetto medio «

»

[messo sulla croce in bocca a Gesù]. Il termine «

» si legge in Giovanni solo in 13,1, il verbo «

» soltanto in

19,28-30. di conseguenza, l’evangelista riservando questa terminologia a questi soli testi, automaticamente li relaziona, e perciò, nella scena che stiamo considerando è da vedere il compimento dell’opera di amore. Ma il punto di contatto tra i due testi, può essere solo un’azione. In 13,4 si dice «versa acqua», in 19,30 si legge «donò lo Spirito», ed è questo l’unico punto di contatto. Ma il testo di 13,4 continua con l’acqua che Gesù versa, Gesù lava i piedi e soprattutto li asciuga. Ma continua anche il testo di 19,30, perché dopo c’è la sezione del colpo di lancia, ma stiamo leggendo al contrario, e quindi al contrario, dopo c’è la descrizione della formazione della donna-madre, alla quale è affidato il discepolo [versi 25-27], dopo c’è la descrizione della spartizione delle vesti e della tunica non scissa [versi 23-24], dopo ancora c’è il titolo della croce [versi 17-22]. A questo punto dobbiamo concludere che 13,1, il compimento dell’opera di amore, è la chiave di lettura di tutte le cinque scene del Calvario, come anche le cinque scene del Calvario sono la concreta descrizione dell’opera di amore simbolicamente descritta in 13,2-5.


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Il confronto tra questi due testi diventa più complesso perché, mentre si illuminano a vicenda, si relazionano in maniera di incastro. E allora lasciamo da parte questo confronto e continuiamo il nostro commento. Rileggiamo ancora il nostro testo di 28,30 e ci accorgiamo di una stranezza: Gesù compie due azioni, una centripeta ed una centrifuga; l’azione centripeta è dichiarare «ho sete», l’azione centrifuga è «donò lo Spirito». Nel mezzo c’è la descrizione complessissima dell’aceto. Evidentemente l’evangelista sta dando a questa descrizione tre punti: 1 - « », punto di partenza: «ho sete»; 2 - «!», punto centrale: l’episodio dell’aceto; 3 - «I», punto finale: «donò lo Spirito». Il primo testo che citiamo è Giovanni 4,7-15, l’episodio della Samaritana. In questi versi, noi abbiamo la prima parte del dialogo tra Gesù e la donna Samaritana; anche qui emerge una relazione ad incastro: 1 – (19,28): «ho sete»; 2 – (4,7): «donna, dammi da bere»; 3 – (19,29-30): l’episodio dell’aceto; 4 – (4,15): «Signore, dammi di quest’acqua»; 5 – (19,30): «reclinato il capo, donò lo Spirito». Al centro c’è l’episodio dell’aceto. Il testo non finisce qui perché Gesù dice «ho sete», e si richiama un altro testo, 7,37-39, dove è possibile un altro schema ad incastro: 1 – (19,28): «ho sete»; 2 – (7,37): «chi ha sete venga a me e beva»; 3 – (7,39): «fiumi dal suo seno escono di acqua viva»; 4 – (19,30): «donò lo Spirito». Anche qui ci accontentiamo di indicare queste relazioni senza svilupparle, per non smarrirci dal cammino che stiamo seguendo. Osserviamo soltanto che 19,28-30 è come un nodo ferroviario dove si intersecano diverse linee; abbiamo già notato una linea che parte dal colpo di lancia e va a finire a Cana.


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L’acqua portata a Cana è precisamente quell’acqua sgorgata dal costato di Cristo ed è quest’acqua che diventa vino. Infatti abbiamo notato la seguente relazione: 1 – sangue; 2 – acqua; 3 – acqua; 4 – vino. Al centro della descrizione abbiamo quella dell’aceto. Dal punto di vista storico, che ha Gesù abbiamo dato simile bevanda è verosimile: si tratta probabilmente di una bevanda alcolica-acidula che i soldati bevevano. Matteo e Marco riferiscono di due azioni di bere: una prima della crocifissione, data probabilmente ai condannati per stordirli, ubriacarli, non credo per attutire il dolore, ma probabilmente per spezzare la resistenza, anzi, il modo come Marco si esprime, lascia pensare che a Gesù sarebbe stata data ripetutamente lungo la strada e il tentativo ripetuto si spiega col fatto che Gesù, sempre rifiutò. La seconda offerta in cui tutti e quattro gli evangelisti concordano, è dopo la crocifissione. Ogni evangelista legge questo fatto alla sua maniera, Luca sembra dargli poca importanza, ma questo fatto dell’aceto fu menzionato perché insieme all’episodio della spartizione delle vesti ed insieme soprattutto alle parole riferite da Matteo e Marco: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» richiama il Salmo 21. Il salmo 21, come possiamo sapere, è chiave di lettura in tutta la scena del Calvario, già nella tradizione, prima ancora dei singoli evangelisti. Il Salmo 21, che descrive il tormento del salmista, che sembra provenire da due mani, di cui la prima potrebbe essere riferibile a Geremia, si apre poi a grande fiducia in Dio e l’uso di questo salmo apre il Calvario verso la prospettiva della resurrezione. Giovanni riprende quest’episodio e, anzitutto, lo colloca strutturalmente in posizione centrale e pone delle difficoltà. Il testo suona: «(un) vaso giaceva pieno di aceto». Questa frase rivela la prima difficoltà: come facciamo l’analisi logica? Che cos’è vaso, soggetto o predicato? Cioè un vaso giaceva o giaceva come vaso? Cioè riferito ad un soggetto alluso ma non espresso, soprattutto quel verbo «giaceva» sorprende. È il vaso il soggetto o Gesù sottinteso come vaso? Nel quarto vangelo si prediligono i contenitori: pozzo della Samaritana; ma prima ancora lo suggerisce il verbo «attinge-


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re» a Cana; ancora la piscina di Siloam; ancora al capitolo 7 si legge: «fiumi dal suo seno escono di acqua viva»; il costato aperto. Il testo continua così: «una spugna piena di aceto, avendo posto ad un issopo (Sinottici = canna) offrirono di lui alla bocca». Anche qui c’è una descrizione difficilissima: anzitutto la menzione all’issopo (mentre i sinottici parlano di canna), e questa parola issopo (ramoscello), tanto importante nelle aspersioni rituali levitiche, qui fa difficoltà. Ecco perché diversi autori hanno invocato una corruzione testuale, attribuendo le lettere ad altre parole. Forse è meglio lasciare il testo così come sta. La canna è un oggetto rigido, l’issopo è una pianticella flessibile e l’obbiezione è quella che una pianticella flessibile non poteva reggere una spugna inzuppata che ha il suo peso. Ma forse qui starebbe il vero significato: la pianticella descrive una curva che mi da l’idea più che di porgere, di attingere. Un terzo problema: dice il testo che «lo presentarono alla sua bocca». Domanda: chi è il soggetto di quel verbo plurale? I soldati, storicamente si, ma in Giovanni? Che nella scena precedente, nel giro di pochi versi, menziona due volte i soldati perché lascia questo verbo indeterminato, quando non è nel suo stile? O forse il soggetto plurale sarebbe l’ultimo soggetto plurale menzionato. L’ultimo soggetto menzionato sono le donne dei versi 225-27. Giovanni sta descrivendo l’azione di dar da bere a Gesù o quella di attingere ad un pozzo? Lasciamo aperta la domanda. Notiamo però due cose: anzitutto una relazione alla Samaritana, la quale chiede: «Signore, non hai come attingere, e il pozzo è profondo. Donde hai quest’acqua?». La samaritana pone il problema del pozzo, Gesù non risponde a questa domanda, ma passa subito a dire che l’acqua che egli dà diventa fonte che sgorga per la vita eterna e chi ne beve non avrà mai più sete. Resta perciò aperto il problema del pozzo: e se la risposta fosse in 19,29, di attingere quest’acqua da quel pozzo? In ogni caso, emerge una relazione a domanda e risposta. L’anonimo soggetto compirebbe l’azione di attingere (domanda) e, in questo caso, la bocca a cui portano non è la bocca fisica di Gesù o meglio, la bocca di Gesù, ma non è una bocca a cui si dà, ma una bocca da cui si prende. E la risposta è: «reclinato il capo donò il suo Spirito». Emerge però una relazione tra lo Spirito e l’aceto. Se questo senso è vero, perché Giovanni scrive: «giaceva»? è un verbo che richiama la sepoltura?


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Diciamo soltanto che se intendiamo così questa scena dell’aceto, essa costituisce ottimo legame tra due cose: tra anzitutto «ho sete» e «donò lo Spirito», ma soprattutto tra il colpo di lancia e la presenza delle donne sotto la croce. Le donne (versi 25-27). La terza scena comincia così: 1 – stavano «»; 2 – presso la croce di Gesù; 3 – la madre di Lui; 4 – e la sorella della madre di Lui; 5 – Maria di Clopa; 6 – e Maria Maddalena. La frase è molto lunga, ma si riduce ad una costruzione molto semplice di tre elementi: 1 – verbo; 2 – complemento di luogo; 3 – soggetto. Notiamo un progresso quantitativo: verbo = una sola parola; complemento = quattro parole; il soggetto è lunghissimo. Cominciamo dal soggetto: le donne. Giovanni concorda con i sinottici nel menzionare le donne, ma discorda in molti punti: 1) nella lista delle donne dei sinottici, al primo posto c’è Maria Maddalena, Giovanni la relega all’ultimo posto; 2) al primo posto menziona la madre di cui non si fa il benché minimo accenno nei vangeli sinottici; 3) chi è questa sorella di sua madre? 4) Chi è Maria di Clopa? 5) Clopa è un genitivo di appartenenza, ma Clopa è padre o sposo di Maria; 6) La differenza più importante: i sinottici menzionano le donne al momento della sepoltura, e la loro menzione diventa un legame tra l’episodio della sepoltura e gli episodi dell’esperienza pasquale. Giovanni invece le colloca presso la croce. Che valore ha quel «presso» la croce?, storico o spirituale?


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Giovedì 15 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Avevamo notato la struttura quasi piramidale della descrizione di Giovanni. Tutto il testo si può strutturare nel seguente modo: 1 – stavano; 2 – presso la croce di Gesù; 3 – la madre di Lui e la sorella della madre di Lui, Maria di Clopa e Maria di Magdala. Questa lunga descrizione è molto semplice nella sua articolazione sintattica: essa si compone di tre elementi: 1 – un verbo, lungo nella sua formulazione [ 2 – un complemento di luogo; 3 – un lungo soggetto.

];

Emerge così una struttura piramidale che parte dall’unico verbo e culmina in un lungo soggetto articolato, o al contrario parte da un unico soggetto articolato e culmina risalendo verso l’unico verbo. Questa presentazione grafica ci suggerisce una tensione nel testo tra una pluralità che converge verso un’unità oppure una unità che si articola in una pluralità. Questa descrizione delle donne, apparentemente semplice è carica di non pochi problemi. Li elenchiamo per il momento senza però dare subito risposta. Cominciamo dal soggetto, osserviamo quattro elementi: 1 – la madre di Lui e, 2 – la sorella della madre di Lui; 3 – Maria di Clopa, 4 – e Maria Maddalena. Emerge subito un problema sintattico: l’evangelista mette una congiunzione tra il primo e il secondo elemento, come anche colloca una congiunzione tra il terzo e il quarto elemento, non la mette invece tra il secondo e il terzo elemento. Come si intende allora il terzo elemento? È un nome distinto oppure una apposizione del nome precedente? Quante erano le donne presso la croce? vedremo che la risposta viene da una distinzione che bisogna fare tra il piano storico e il piano letterario.


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Un secondo problema è dato dalla particella «

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» [presso], che valore diamo a

questa particella? locale o spirituale? Un terzo problema: perché l’evangelista scrive «presso la croce di Gesù» e non “presso Gesù in Croce”? Ancora: quale è il valore di quel verbo «stavano»? che l’evangelista enfatizza separandolo, mediante la particella « » da tutti gli elementi seguenti. Cominciamo dal soggetto. L’evangelista nell’elenco delle donne, in parte concorda, in parte diverge [e anche sostanzialmente] dalla tradizione sinottica. Intanto una prima osservazione è importante: mentre Matteo, Marco e Luca le menzionano due volte: dopo la morte di Gesù e nell’esperienza pasquale, Giovanni invece le colloca una sola volta presso la croce. Secondo i vangeli sinottici le donne concludono quasi la narrazione della crocifissione, ma insieme anche, concludono la narrazione della sepoltura; le ritroveremo poi nei racconti dell’esperienza pasquale. Sembra che nei sinottici le donne costituiscano quasi un legame tra la narrazione della passione e gli eventi pasquali. La seconda differenza è nella identificazione delle donne. Possiamo proporre uno specchietto di confronto: 1 – DOPO LA CROCIFISSIONE MATTEO 27,56 1 – Maria Maddalena 2 – Maria, quella di Giacomo e di Giuseppe madre 3 – la madre dei figli di Zebedeo

MARCO 15,40 LUCA 23,49 1 – Maria Maddalena Donne in genere 2 – Maria di Giacomo, il minore e di Giuseppe madre 3 – Salome

2 – DOPO LA SEPOLTURA MATTEO 27,61 1 – Maria Maddalena 2 – l’altra Maria

MARCO 15,47 1 – Maria Maddalena 2 – Maria di Giuseppe

LUCA 23,55 Donne in genere

3 – ESPERIENZA PASQUALE MATTEO 28,1 1 – Maria Maddalena 2 – l’altra Maria

MARCO 16,1 1 – Maria Maddalena 2 – Maria di Giacomo

LUCA 24,1 Le donne in genere LUCA 24,10 1 – Maria Maddalena 2 – Giovanna 3 – Maria di Giacomo

3 – Salome


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Non entriamo nel labirinto dei sinottici, dove ogni tentativo di identificazione è valido ed ipotetico della tradizione sinottica è sufficiente notare tre cose: 1 – il numero delle menzioni [3 volte], e la posizione [dove sono menzionate]; 2 – il numero appare fluttuante [tra 2-3], ma c’è la tendenza verso il numero tre; 3 – in tutte le liste il primo nome è sempre Maria Maddalena [evidentemente questo nome rimase fisso nella tradizione]. Giovanni non smentisce la tradizione, nella esperienza pasquale si ricollegherà ad essa operando anche un mutamento, mentre i sinottici elencano diverse donne, nell’esperienza pasquale Giovanni ne menziona una sola: Maria Maddalena, di cui descrive diffusamente l’esperienza. Tornando alla lista della croce, Giovanni concorda con la tradizione menzionando Maria Maddalena, discorda in quanto la disloca all’ultimo posto, mentre riserva il primo ad un personaggio di cui i sinottici non dicono nulla: la madre. Giovanni menziona ancora, Maria la sorella di sua madre, chi è questa sorella? Gli interpreti si sforzano di identificarla, ma Giovanni non la identifica e restiamo al testo perché all’evangelista interessa, non chi sia questa donna, ma la sua relazione alla madre di Gesù. Rimane misteriosa la figura di Maria di Cleopa, questo Cleopa non compare mai nella tradizione sinottica, è vero che uno dei due discepoli di Emmaus si chiamava Cleopa, però nella autorizza ad identificare ed inoltre il termine «Clopa» giovanneo ed il termine «Cleopa» lucano possono avere diversa origine. Qui poniamo il problema del numero delle donne, il fatto che l’evangelista non metta congiunzione tra la seconda e terza espressione induce a leggere la terza come apposizione della seconda. Storicamente perciò Maria di Clopa era il nome della sorella della madre di Gesù. Le donne per Giovanni storicamente dovrebbero essere tre ed in ciò concorderebbe con la tradizione sinottica che sottolinea il numero tre. Tuttavia è errato fermarsi su questo problema storico ma bisogna guardare a studiare il testo dal punto di vista letterario perché questo veicola il pensiero dell’evangelista. Benché insinui che le donne siano tre storicamente, in realtà l’evangelista crea quattro frasi letterarie, quantitamente proporzionate. L’evangelista con la congiunzione stabilisce un legame tra prima e seconda frase, come anche tra terza e quarta, ma l’assenza di congiunzione tra seconda e terza determina un salto, quasi un vuoto. Consideriamo adesso le quattro frasi. Le quattro frasi, pur letterariamente quattro permettono un primo raggruppamento: si possono raggruppare a due a due, le prime due si


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raggruppano per il termine «madre», le altre due si raggruppano per il nome «Maria». Emerge così nelle quattro frasi il binomio madre-Maria, questo binomio caratterizza la madre di Gesù, sia in Matteo 1,18 «essendo sposa la madre di Lui, Maria a Giuseppe», sia nel racconto lucano dell’Annunciazione. Giovanni che parla due volte della madre di Gesù non ci dà il nome Maria, tuttavia contiene una allusione che in certo senso orienta nella interpretazione. Osserviamo nelle quattro frasi, quattro diverse relazioni. Nella prima frase leggiamo l’espressione «la madre di Lui»: la relazione della madre è “a Lui”, cioè a Gesù. Notiamo però che l’evangelista non scrive la “Madre di Gesù”, ma «la madre di Lui»: il nome “Gesù” è collocato in un posto particolare che diremo. La seconda espressione è: «la sorella della madre di Lui». Credo che non importi all’evangelista la concreta entità storica, ma importa la duplice relazione che questa donna ha, diretta alla madre ed indiretta a Gesù. In questa seconda frase c’è la relazione a Gesù, ma indiretta: passa attraverso la madre. Nella terza espressione, «Maria di Clopa», troviamo un’altra relazione. Il genitivo, «di Clopa», può avere due sensi: o moglie di Clopa, o figlia di Clopa; ma all’evangelista non interessa nemmeno se sia moglie o figlia [forse moglie dal confronto con i sinottici], ma gli interessa la relazione ad una persona umana. La quarta espressione è «Maria Maddalena». Maddalena, proviene da Magdala, che è una città e perciò la quarta espressione stabilisce una relazione con un luogo materiale. Possiamo allora capire dalla analisi di queste relazioni perché l’evangelista metta Maddalena al quarto posto, non si tratta di sminuire una persona centrale nella riflessione sinottica ma gli interessa la relazione che lei permette di stabilire. Riassumendo nella descrizione delle donne emergono quattro relazioni diverse: 1 – diretta a Gesù; 2 – diretta alla madre ed indiretta a Gesù; 3 – ad una persona umana; 4 – ad un luogo.


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Leggendo queste quattro relazioni all’inverso c’è un cammino progressivo verso Gesù, però nella madre, che pur ha relazione a Gesù, ancora Gesù non si raggiunge: non è casuale il fatto che la menzioni come «la madre di Lui». Possiamo stabilire una relazione tra due espressioni: a) la madre b) di Lui

a) la croce b) di Gesù

Il nome «Gesù» è riservato alla croce, ciò indica che per raggiungere Gesù bisogna passare attraverso una strada che è la croce. Tra Gesù e le donne ci sta di mezzo la croce, le donne infatti non stanno presso Gesù, ma presso la croce di Gesù. Vogliamo considerare, ancora più attentamente, le relazioni sopra proposte, l’evangelista nel suo vangelo, altre volte presenta analoghe relazioni, ne citiamo tre in particolare: -

Gesù; Pietro; Giuda.

Di Gesù non descrive un passaggio in sé stesso, bensì un passaggio nella comprensione degli uomini. Ed a riguardo possiamo citare due testi: Giovanni 1,45 ed 1,49, cioè il modo come Filippo presenta Gesù a Natanaele e la professione di fede a cui perviene Natanaele, il secondo testo è in Giovanni 6,42, dove si legge la obiezione dei giudei di fronte alla dichiarazione di Gesù di essere il pane vivo disceso dal cielo. È utile considerare questi testi cominciando da 6,42, nel verso 41 Gesù dichiara: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo», a questa dichiarazione i giudei contrappongono: «non è costui Gesù il figlio di Giuseppe di cui noi conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “sono sceso dal cielo”?». Alla pretesa di Gesù di una origine celeste, i giudei contrappongono la sua dimensione terrena, relegano Gesù nella dimensione terrena, negano che sia disceso dal cielo, di conseguenza negano che possa diventare pane, ma automaticamente negando che Gesù sia il pane disceso dal cielo, i giudei si escludono dalla vita eterna perché il pane è appunto finalizzato alla vita eterna. Diverso è il caso di Natanaele, Filippo indica Gesù a Natanaele con le parole: «Colui di cui scrisse Mosè nella legge ed i profeti, abbiamo trovato, Gesù il figlio di Giuseppe da Nazareth». Filippo dà due indicazioni di Gesù: una relazione ad un uomo [figlio di Giu-


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seppe] ed una relazione ad un luogo [da Nazareth]. La professione di fede di Natanaele si relaziona alla presentazione di Filippo, possiamo stabilire la seguente relazione strutturale: FILIPPO 1 – quello di cui scrissero Mosè ed i profeti; 2 – Gesù figlio di Giuseppe; 3 – da Nazareth;

NATANAELE 1 – Rabbì; 2 – Tu sei il Figlio di Dio; 3 – Re sei di Israele

Per dirla in breve, la formulazione di Filippo e Natanaele, messi insieme, da una parte descrivono, nella comprensione degli uomini il superamento della dimensione terrena verso una dimensione ultraterrena. Nello stesso tempo danno una storia completa in tre momenti: 1 – annunzio dell’antico testamento; 2 – la dimensione terrena di Gesù; 3 – il superamento di tale dimensione, nella sottolineatura che Gesù è il Figlio di Dio. Possiamo notare che dietro la presentazione di Filippo e la professione di fede di Natanaele si nasconde il titolo della croce che presenta pure il superamento della dimensione terrena, ed infatti Gesù Nazareno richiama Filippo, re dei Giudei richiama Natanaele [Re sei Tu di Israele]. Diverso è il caso di Pietro per il quale il discorso è più complesso, ma possiamo stabilire anzitutto una relazione tra 1,42 e 21,15-17: 1,42: «tu sei Simone il figlio di Giovanni, tu sarai chiamato Kefás»; 21,15-17: «Simone di Giovanni […] pasci le mie pecore». Il discorso di Pietro è molto complesso, detto in soldoni, notiamo un duplice passaggio di Pietro, da una paternità terrena [figlio di Giovanni] a Kefás [pietra], come anche il passaggio e perciò il superamento della dimensione terrena, da Simone di Giovanni al pascere il gregge di Cristo. Possiamo notare un’altra relazione: tutto il capitolo sesto, cioè l’episodio dei pani è incentrato su una duplice menzione di Pietro. In 6,8 si dice che Andrea era fratello di Simon Pietro. Il capitolo sesto si conclude con la professione di fede di Pietro: «Tu sei il Santo di Dio», ma Andrea e Pietro in 1,44, sono presentati come provenienti da Betsaida: da Betsaida, luogo terreno, comincia per Pietro un cammino che lo por-


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ta a professare che Gesù è il Santo di Dio: Pietro ha superato sia la paternità terrena, sia un luogo terreno. Il terzo esempio che citiamo è quello di Giuda, qui il discorso è più complesso, ma l’evangelista tre volte menzione Giuda, Giuda di Simone Iscariota [relazione ad un uomo ed a una città]. Venerdì 16 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 A riguardo di questa espressione notiamo tre testi altissimamente drammatici: 13,2; 13,26 e infine 6,70-71. In 13,2 leggiamo l’espressione: «avendo il diavolo gettato nel cuore di Giuda di Simone Iscariota di tradirlo». In 13,26 leggiamo: «prende il boccone lo dà a Giuda di Simone Iscariota e dopo il boccone Satana entrò in lui». Infine in 6,70 leggiamo: «uno di voi è diavolo, diceva di Giuda di Simone Iscariota che stava per tradirlo». I testi riguardanti Giuda sono complessissimi, ci limiteremo perciò soltanto a qualche breve osservazione. Notiamo intanto i testi del capitolo 13 dove possiamo stabilire la seguente relazione strutturale: 1) avendo il diavolo gettato nel cuore; 2) di Giuda di Simone Iscariota; 3) lo dà a Giuda di Simone Iscariota; 4) dopo il boccone, Satana entrò in lui. Questo schema rivela diversi aspetti. Anzitutto la relazione tra Giuda e il diavolo, inoltre un progresso nella presenza del diavolo. Il diavolo, prima esercita un’azione nel cuore di Giuda, tale azione, in maniera antitetica richiama Geremia 31: «pongo la mia legge nel loro cuore». Il diavolo ha impresso nel cuore di Giuda una legge che lui ha accolto ed ha amato.


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In 13,27, Satana entra in Giuda, quasi a prendere possesso. Il discorso qui è molto più complesso. Ci permettiamo soltanto di proporre uno schema strutturale e qualche breve osservazione. Lo schema strutturale è il seguente: A) (13,1): l’opera di amore; 1) avendo il diavolo gettato nel cuore; 2) di Giuda di Simone Iscariota; 3) di tradire ( – alienare); A1) (13,26): avendo intinto il boccone lo prende; 4) lo dà; 5) a Giuda di Simone Iscariota; 6) dopo il boccone Satana entrò in lui. A noi non interessa il problema del tradimento, né il problema dell’opera di amore in relazione a Giuda. Interessa soltanto la relazione Satana-Giuda. Notiamo infatti, il progresso: 1) 13,2: avendo il diavolo gettato nel cuore; 2) 13,27: Satana entrò in lui; 3) 6,7: uno di voi è diavolo. Abbiamo allora un progresso: Satana suggerisce, prende possesso, Giuda diventa diavolo. Possiamo allora riassumere nel seguente modo: in Gesù si nota, nella comprensione degli uomini, il passaggio dalla dimensione terrena a quella celeste. In Pietro, il passaggio avviene nella sua stessa persona: passa cioè da Simone di Giovanni e da Betsaida a diventare pastore e Kefás [fondamento]. Giuda non opera alcun passaggio, anzi l’evangelista sottolinea con insistenza la sua dimensione terrena, ma Giuda non resta nemmeno nella dimensione terrena, egli scende fino alla dimensione del diavolo. È interessante notare ancora il capitolo 6, dove Gesù menziona Giuda dopo la professione di fede di Pietro. Pietro e Giuda si sono trovati nella stessa situazione di fronte all’opera di Gesù. Anche Pietro rischiò di rifiutare l’opera di amore, rifiuto che simbolicamente l’evangelista descrive nella frase: «non mi laverai mai i piedi». Qui emerge la differenza tra i due: Pietro è uscito fuori e attraverso la via dell’amore, è pervenuto alla sua funzione di fondamento che si attua nella professione di fede davanti al pane. Giuda ha obbedito al diavolo che ne ha preso il possesso, non è uscito ed è rimasto nella condizione terrena fino ad essere lui stesso diavolo.


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Non interessavano né i testi riguardanti Gesù, né quelli riguardanti Pietro, né quelli riguardanti Giuda, in sé stessi, ma interessavano soltanto nella misura che attestano il passaggio da una dimensione terrena ad una dimensione ultraterrena. Ciò ci permette di cogliere analogo cammino nella descrizione delle donne in 19,25. È chiaro che la prospettiva dell’evangelista va oltre le figure concrete a cui si riferisce; attraverso quelle figure delinea un cammino che: 1) parte da un luogo terreno (Maria Maddalena); 2) passa attraverso una persona terrena (Maria di Clopa); 3) si avvicina a Gesù attraverso la madre (la sorella di sua madre); 4) giunge alla madre. In questa descrizione la tensione è verso la madre. C’è un cammino verso la madre, la quale poi ha relazione con Gesù. Ci sembra di cogliere due cammini: un primo cammino verso la madre ed un secondo cammino verso Gesù. Emergono non pochi problemi. Anzitutto se è vera la prospettiva di questo cammino, che cosa lo ha determinato? Una seconda domanda è questa: abbiamo notato come l’evangelista non mette congiunzioni fra il secondo e il terzo elemento. Perché non la mette? Ma osserviamo che la congiunzione manca tra i due elementi di dimensione terrena e i due elementi che relazionano a Gesù. Evidentemente l’evangelista evita di stabilire una continuità, ma ci da l’idea di un salto, di un superamento. Che cosa determina il superamento? Quando ai due problemi che abbiamo indicato, cioè che cosa determina il progresso nel cammino delineato attraverso le quattro frasi e che cosa determina quel salto tra le ultime due frasi e le prime due, il testo direttamente non indica nulla. Siamo perciò costretti a riprendere altri elementi dal resto del vangelo. Per rispondere alla prima domanda ci riferimmo al testo di 12,32, dove l’evangelista scrive: «e io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». L’allusione a tale testo è possibile per il fatto che tutto il cammino è orientato verso la figura della madre e, attraverso di esso, alla croce di Gesù. In questa prospettiva possiamo dire che il cammino è determinato da Gesù stesso mediante la forza di attrazione che si verifica alla sua esaltazione. Ci sembra di scorgere in questo cammino verso la croce di Gesù, una forza che parte dalla croce di Gesù ed attira a


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sé. In questo modo noi avremmo l’attrazione concreta di quell’annunzio proposto in 12,32 (attirerò tutti a me). Che cosa, inoltre, determina il salto? Qui ancora la risposta è più ipotetica, ma ci permettiamo di proporla ugualmente, stabilendo una analogia con la vicenda di Pietro. Ciò che ha permesso a Pietro (Cfr. Giovanni 21) di superare la sua condizione terrena, è stato l’evento dell’amore di Gesù. Nel cuore del suo rinnegamento, Pietro è stato raggiunto dall’amore di Gesù, e attraverso la via dell’amore, ha superato la sua situazione ed ha raggiunto Gesù. A riguardo delle donne, l’evangelista non lo dice, però simile prospettiva si può, credo, presupporre, anche perché ad essa si può arrivare per altra via. Ma prima di proporre quest’altra via, arriviamo al verbo principale: «stavano», che l’evangelista enfatizza, come abbiamo già indicato, sia perché lo pone al primo posto, sia perché lo separa dal resto della descrizione mediante la particella « ». Il verbo «stavano» è un verbo di stasi e si potrebbe fare una domanda: perchè l’evangelista scrive «stavano» e non invece «erano»? Questa domanda ci ha costretti a ricercare questo stesso verbo «stare» ( %

al perfetto) in tutto il vangelo e ci siamo ac-

corti che esso non indica soltanto una posizione locale, ma indica un profondo essere radicati. Basta citare qualche testo particolare, Giovanni 3: «l’amico dello sposo che sta ed ascolta». Giovanni parla di sé stesso e si definisce come l’amico dello sposo, profondamente radicato, ma nel suo essere radicato compie una attività: quella di ascoltare. Tornando al discorso delle donne, esse stavano, ma l’autore poi aggiunge: «presso la croce di Gesù». Ci sono perciò due aspetti: uno stare assoluto ed uno stare relativo. Come assoluto indica la posizione che le donne hanno raggiunto; come relativo il luogo presso cui sono radicate. In senso assoluto, il verbo stare presuppone l’azione di giungere. Ma prima di giungere bisogna arrivare, bisogna camminare. Quando queste donne hanno compiuto questo cammino? Nel vangelo non si dice nulla, non si parla di donne che seguivano Gesù. Il cammino deve essere cercato nella descrizione delineata nelle frasi che abbiamo indicato. Ma, a questo punto, possiamo confrontare questo verbo con un altro verbo ugualmente di stasi, il verbo rimanere (

), e qui dovremmo richiamare dei testi particolari. Ma ne ri-

chiamiamo uno solo, Giovanni 15,10, dove l’evangelista scrive: «come il Padre ha amato me, così anch’io voi amai, rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore». Rimanere nell’amore di Gesù è il termine di un cammino. Nel


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testo di 15,9-10 c’è un cammino discendente, l’evento dell’amore di Gesù, a cui segue un cammino ascendente, raggiungere Gesù e rimanere nel suo amore. Il cammino per raggiungere Gesù è rimanere nel suo amore, è l’osservanza dei suoi comandamenti, e questi, alla luce di 13,34 (vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io voi amai), sono l’amore vicendevole. Raggiunti dall’amore di Gesù, inizia un cammino che passa attraverso l’amore vicendevole e porta a giungere e rimanere nell’amore di Gesù. Possiamo stabilire un confronto con la descrizione delle donne e ciò costituisce l’altra strada che ci permette di sottintendere nella descrizione della donne, ancora la prospettiva dell’agape. Il confronto è il seguente: STAVANO presso la croce di Gesù

RIMANETE nel mio amore

VERBO DI STASI stato in luogo

Possiamo allora concludere in due aspetti: un primo aspetto lo deduciamo da tutto l’insieme del vangelo, la forza di attrazione che parte dalla croce di Cristo è appunto l’evento del suo amore il cammino che permette di superare la dimensione terrena ed orienta a Gesù: è la via dell’agape. Riteniamo che tutta la teologia giovannea dell’agape illumini bene la descrizione delle donne in Giovanni 19,25. Ma c’è un altro testo che può ancora illuminare: si tratta di Giovanni 111,50-51. Caifa aveva detto che «è opportuno che uno solo muoia per il popolo e non perisca tutta la gente». L’evangelista commenta che doveva morire non solo per la gente, ma anche per redimere i figli di Dio che erano stati dispersi. Nella descrizione delle donne, si può vedere questo raduno in unità. In questo contesto è ben difficile dare all’espressione: «presso la croce di Gesù» una connotazione prettamente materiale. Una connotazione materiale contraddirebbe la realtà dei fatti, è difficile immaginare che quelle donne fossero materialmente presso la croce, in un luogo di esecuzione capitale. In questo senso, sarebbero più storici i sinottici, secondo i quali le donne stavano da lontano. Anche nei sinottici l’indicazione «stavano da lontano» ha un senso teologico-spirituale, però indica meglio la realtà storica. Il problema giovanneo non è locale, ma è spirituale. Esso presenta questa comunità di donne, tra cui primeggia la madre, radunata e radicata presso la croce di Gesù.


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Sabato 17 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 In questo testo giovanneo è Maria la madre di Gesù? Dovremmo rispondere si e no. Si perchè l’evangelista riprende quella figura concreta e non c’è dubbio che parlando della madre di Gesù egli allude alla figura concreta storica, sia in questo brano come a Cana. Tuttavia non pare che l’evangelista, pur alludendo a quella figura storica, voglia sottolineare quella figura. In altre parole, pur menzionando la madre, il suo obiettivo non è quello di parlare della madre. Ciò per due motivi: il primo è più generale, quando l’evangelista riprende una figura concreta non la riprende nella sua semplice entità personale, ma la riprende in maniera emblematica, come simbolo di una realtà più grande. Il secondo motivo, invece, è il testo specifico: Maria non si può staccare da quella comunità di donne presso la croce. Tuttavia non si può nemmeno negare che in quella comunità essa abbia un posto rilevante, sia perché è menzionata la prima, sia perché verso di lei tende tutto il processo di dinamismo che abbiamo delineato. In questo contesto ci permettiamo di dire la nostra interpretazione. Anzitutto negativamente il testo non permette certe prospettive devozionistiche ma positivamente ci sembra di scorgere una tensione tra una singolarità ed una pluralità; Maria è presente, ma in quanto figura simbolica di una unità formatasi attorno alla croce di Cristo, o al contrario quella unità formatasi attorno a Gesù trova la sua concreta manifestazione nella madre di Gesù. Una conferma dell’interpretazione che abbiamo dato ci sembra di scorgerla in 19,25. In 19,25, dopo il verbo «-

» ci sta la particella « »

che non si traduce, ma che assume una importanza particolare dal punto di vista strutturale. Anticipando quello che diremo in seguito, a riguardo dei versi 23-24, cioè la tunica non scissa, osserviamo che quella particella « » sta in relazione ad una parola della frase precedente. La particella « » sta in relazione con la particella «

» del verso precedente.

Prima l’evangelista scrive: «i soldati fecero queste cose», poi scrive: «stavano presso la croce di Gesù», le due particelle «

» e « », legano le due scene, l’azione dei soldati e la

scena delle donne. Rimandando ad un secondo momento ulteriori precisazioni, l’evangelista narra che i soldati presero le vesti e ne fecero quattro parti. Per la tunica, dopo avere notato il suo carattere inconsutile [senza cuciture], fa dire ai soldati: «non stracciamola, ma tiriamo a sorte per vedere di chi è». Rimangono sospese due domande: tirare a sorte, l’evangelista non dice che tirarono a sorte, in secondo luogo l’evangelista non dice di chi è la tunica. Certo la scena della tunica ha bisogno di essere completata con l’immagine della rete del capitolo 21, ma la vera risposta di chi è la tunica si ha in 19,25, in quello sta-


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vano presso la croce. La tunica di Gesù di cui è rivestito è precisamente quella comunità di donne. Come abbiamo detto mostreremo a suo tempo ulteriori particolari ma adesso vogliamo sottolineare una sola cosa: il crocifisso giovanneo non pare nudo, è rivestito della sua tunica fatta di quella comunità di donne. Possiamo anche osservare che a questa comunità di donne rimanda quel asciugatoio di cui Gesù si è cinto prima di lavare i piedi dei discepoli. Abbiamo così esaurito la descrizione delle donne, ma notiamo nel verso 26. il verso 26 incomincia con il nome proprio «

» seguito dalla particella «

», queste particel-

le non si traducono, ma hanno un grosso valore strutturale, l’azione di Gesù parte come conseguenza logica dalla scena precedente. Possiamo notare anche una relazione dialogica tra il verso 25 e il verso 26. nel verso 25, Gesù è il punto di riferimento a cui tendono le donne, cioè le donne verso Gesù. Nel verso 26 è il contrario: Gesù verso la madre. Questa osservazione ci aiuta a capire l’ampiezza della parola madre. Andiamo alla parola madre, facciamo una prima osservazione: nel verso 25 due volte la parola madre è usata in maniera relativa, cioè seguita dal pronome «

», perciò madre di Lui. Nel verso 26 Gesù dirà:

«Ecco la madre di te» [al discepolo], ancora un uso relativo, ma nel verso 26 al principio, leggiamo: «avendo visto la madre», in maniera assoluta eppure l’evangelista poteva benissimo dire “la sua madre” come ha fatto due volte prima. Ciò, a mio parere, pone il problema: chi è la madre? È la semplice persona concreta di Maria o tutta la comunità che assurge a madre e che giunge alla prerogativa di madre in assoluto? Possiamo infatti stabilire due tipi di struttura: 1 – la madre di lui – la madre di lui; 2 – la madre; 3 – donna ecco tuo figlio; 4 – madre di te.


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Tra due maternità relative è menzionato il binomio donna-madre in assoluto. Possiamo anche proporre un altro schema in questo modo: 1 – stavano; 2 – presso la croce di Gesù; 3 – la comunità di donne; 4 – Gesù; 5 – avendo visto; 6 – la madre. Tutte queste osservazioni ci portano a concludere che la madre che Gesù vede presso la croce non è soltanto la persona singola di Maria, ma è quella tensione tra unità e pluralità che diventa madre in assoluto. Andiamo al verbo: «avendo visto», questo verbo richiama il verbo «stavano» precedente, quasi in un rapporto dialogico. Ma osserviamo, prima di tornare a questo verbo, un’altra realtà: troviamo in binomio madre-donna. Questo binomio ci rimanda ad un testo particolare, Genesi 3,20. Tra gli interpreti c’è il problema se la donna-madre dipenda da Genesi o dalla figlia di Sion di Isaia. Alcuni si schierano da una parte, altri negano l’una ed affermano l’altra. Personalmente Genesi è presente, ma non basta, la figlia di Sion è presente, ma non basta. L’immagine nasce dalla fusione delle due prospettive. In Genesi 3,20, secondo i LXX leggiamo: «e chiamò l’uomo il nome della sua donna [LXX – vita], poiché essa Madre di tutti i viventi». Qualche altra volta nella bibbia si trova accostato il binomio donna-madre, ma Genesi è quello che si adatta meglio a tutto il testo di Giovanni. Possiamo osservare come Genesi 3,20 è verso la fine del racconto Jahvista che inizia in 2,4b.


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La ripresa di Genesi andrebbe confrontata con l’uso globale, se l’autore c’è l’ha, di Genesi 2,3. Personalmente siamo convinti che ci pensi e citiamo tre testi a confronto: 1 – Giovanni 21,18-19, Pietro: «quando eri giovane andavi dove volevi, quando sarai vecchio stenderai la mano, un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vuoi». In Genesi 3,22 Dio dice: «l’uomo è diventato come uno di noi, non stenda la mano, prenda dell’albero della vita, mangi e viva», l’azione di Pietro si può rileggere alla luce di quel testo e Pietro torna a quel albero della vita da cui all’origine l’uomo fu cacciato. 2 – il secondo testo è Giovanni 21,7, il discepolo dice a Pietro: «il Signore è». «Pietro avendo udito che il Signore è, la sopravveste cinse poiché era nudo, e si gettò in mare». Simile descrizione è stranissima, per gettarsi in mare non ci si veste, ma ci si spoglia. Giovanni non narra in ravvedimento di Pietro, ma quel era nudo che viene superato si legge bene a partire dalla nudità genesiaca: «mi sono nascosto perché ero nudo». L’evento dell’amore su Pietro gli permette di superare quella nudità in cui il peccato [il rinnegamento] lo aveva gettato. 3 – il terzo testo è Giovanni 16,20-22, la metafora della partoriente: «la donna, quando partorisce è nella tristezza poiché è giunta la sua ora, ma quando ha partorito dimentica per la gioia che è nato nel mondo un uomo». Detto in soldoni c’è il richiamo ad Eva: «nel dolore partorirai i tuoi figli». Ci sarebbe un quarto testo più complesso, ci permettiamo però di citarlo: «Io sono il pane della vita, chi mangia di questo pane vivrà in eterno»

Cfr. Genesi 3,22: «prenda

dell’albero della via, mangi e viva in eterno». Il pane della vita di Giovanni 6 deve essere letto alla luce di Genesi. Questi esempi ci autorizzano a leggere il nostro testo a partire da Genesi, ma cominceremmo dalla formazione della donna, leggiamo in Genesi 2,21 [versione LXX]: «Dio fece cadere un torpore su Adamo e lo fece addormentare, prese una delle sue costole [

] e formò la donna. La prese dall’uomo [la fece diventare donna] e la

condusse davanti ad Adamo». La stessa parola « soldati apri il costato [

» la leggiamo in 19,34: «uno dei

] ed uscì sangue ed acqua». Non basta il solo accostamento

terminologico che potrebbe essere casuale, ma pare che si possa stabilire un parallelismo: GENESI 1. fece addormentare l’uomo 2. prese una pleura 3. […] 4. la portò all’uomo 5. l’uomo chiamò la donna Eva perché fu la madre di tutti i viventi

GIOVANNI 1. era morto 2. aprì la pleura 3. […] 4. stavano presso la croce 5. avendo visto la madre… donna ecco tuo Figlio


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Emerge un parallelismo strutturale tra Genesi e Giovanni, per cui la formazione della donna in Giovanni incomincia da 19,34, ma con tutte la differenze: non Dio prende la costola, ma un soldato aprì il costato. Evidentemente, come spesso capita negli autori neotestamentari non gioca un solo testo dell’AT, ma ne giocano tanti chiamati in sintesi. Partendo da Giovanni 19,34 dobbiamo tener presente quello che c’è nel mezzo e che possiamo proporre nel seguente modo: 1 – aprì il costato; 2 – uscì sangue ed acqua; 3 – donò lo Spirito; 4 – stavano presso la croce di Gesù. E perciò la comunità di donne che globalmente costituisce la donna-madre è realizzata dallo Spirito che sgorga dall’Adamo dormiente, cioè Gesù morto. Si comprende allora il valore di quello «stavano presso la croce», che non può essere assolutamente ridotto a semplice presenza materiale e si può capire la relazione tra «stavano» ed «avendo visto». Possiamo rileggere ancora una volta, alla luce di Genesi. In Genesi Dio condusse la donna all’uomo. Giovanni non parla di conduzione, ma di radicamento in Gesù. Genesi non parla di percezione di Adamo, di fronte alla donna Adamo dice: «questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne», Giovanni invece indica la percezione, si scorge una relazione dialogica tra Gesù e la madre, le donne stavano, Gesù vede; in questa percezione possiamo scorgere un aspetto di accoglienza. Le donne sono arrivate al termine del cammino, Gesù accoglie. Ma passiamo alla espressione «donna ecco tuo Figlio», lasciando per il momento la figura del discepolo, di cui l’evangelista scrive: «e il discepolo stante presso». Andiamo alla maternità. Torniamo ancora a Genesi, la donna fu costituita madre dei viventi, Genesi sbaglia perché la donna, Eva, non era madre dei viventi, ma dei morti. [Si potrebbe aprire una finestra sul fatto che le donne, sorelle di Lazzaro parlano a Gesù, e Gesù restituisce il fratello libero]. Genesi afferma la maternità di Eva, ma non dice nulla sul modo come Eva diventa madre. Giovanni ci indica il modo, come la donna diventa madre: non perché lei generi, ma perché lei riceva in dono i figli. Su questo aspetto di una maternità per via di dono dovremmo andare alla figlia di Sion. Il particolare della donna che diventa madre per via di dono non può essere suggerito da Genesi, ma è suggerito dai testi della figlia di Sion. Il discorso della Figlia di Sion è più complesso, anche perché i testi sono diversi. Ne citia-


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mo soltanto qualcuno, in Isaia 49,20-21 si legge: «di nuovo ti diranno agli orecchi i figli di cui fosti privata […] tu penserai: “chi mi ha generato costoro?”. Io ero priva di figli e sterile, e questi chi li ha allevati?». E Sion che si meraviglia di fronte all’abbondanza di figli che vede attorno a sé. Ma nel verso 22 Dio risponde: «farò un cenno ai popoli e riporteranno i tuoi figli in braccio». Il discorso della figlia di Sion è più ampio e c’è la prospettiva negativa della donna provata dei suoi figli che Dio restituisce, ma alla figlia di Sion, può anche alludere quel verbo «avendo visto». In Isaia 54,7 leggiamo: «per un istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore avendo visto». Giovedì 22 dicembre 2005, ore 08,30 / 10,15 Il participio « oggetto è «

» ha due oggetti: il primo è «

» [la madre], il secondo

» [il discepolo]. Di questo discepolo si dice che era «

»,

che le versioni italiane traducono «lì accanto». In realtà questo participio ha una sua particolare pregnanza. Prima di passare all’analisi del testo, notiamo l’ultima caratteristica del discepolo, la proposizione relativa « *

». Possiamo stabilire una serie molteplice di

relazioni, una prima relazione è la seguente: [participio] [oggetto] [oggetto] [participio] Anche se i due oggetti dipendono dall’unico participio «

», in realtà, struttural-

mente lo schema rivela due dinamismi diversi e complementari: Gesù è soggetto di relazione e oggetto di relazione: soggetto verso le donne che vede, oggetto presso il discepolo che sta presso. Stabiliamo anche un altro tipo di relazione riguardante il rapporto Gesù-discepolo, nel seguente modo: 1) 2) 3) * 4)

(il discepolo); (stante presso); (che); (amava)


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Emerge qui un rapporto bilaterale, quasi dialogico, tra il discepolo e Gesù. Il discepolo ha relazione a Gesù: ed infatti è [

], Gesù ha relazione al discepolo che egli

amava, su questa relazione dovremmo non poco fermarci. Infine notiamo un ultima relazione: tra il discepolo e la comunità delle donne: 1) 2) 3)

-

4) -

Questo schema rivela una somiglianza, ma anche una differenza tra il discepolo e le donne. La somiglianza è che entrambi hanno una posizione stabile, entrambi hanno una posizione stabile «presso» [

]. La differenza sta qui, che per le donne è indicato il luo-

go dove stanno: direttamente la croce, indirettamente Gesù, per il discepolo invece si indica il fatto di stare, il fatto di stare «presso», ma non si indica il luogo presso cui sta. Il testo suggerisce una esigenza fondamentale del discepolo, di passare da uno stare presso indeterminato ad uno stare presso specifico. Questo sembra essere il vero motivo dell’affidamento. Anticipando quello che forse si direbbe meglio alla fine, il discepolo ha l’esigenza di raggiungere Gesù e quindi passare da un restare presso indeterminato: egli raggiungerà Gesù attraverso la mediazione della madre, la quale, come comunità di donne, sta presso la croce dove però c’è Gesù. Emergerebbe il seguente progresso: 1 – discepolo; 2 – madre; 3 – croce; 4 – Gesù. Si avverte già l’indole ecclesiale di questa descrizione. Torniamo alla figura del discepolo e ci fermiamo sul verbo « cammino previo e il discepolo «

», questo verbo come verbo di stasi indica un » è giunto ad una meta. Da dove incomincia il

cammino del discepolo? Il discorso sul discepolo è molto più complesso e già in antecedenza abbiamo suggerito che il capitolo 9 del cieco nato è la sua biografia spirituale, questo discepolo nel vangelo di Giovanni non è identificato, è l’apostolo Giovanni? È un’altra persona? Ma probabilmente all’evangelista questa identificazione non interessa, se fosse


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interessata l’avrebbe già fatta lui, perciò porre molti problemi sull’identità storica di questo discepolo significa forse perdere di vista il vero obiettivo giovanneo. Questo discepolo in 21,24 è definito come colui che rende al presente testimonianza e che nel passato ha scritto queste cose. Dobbiamo dire che il discepolo nella chiesa continua la sua testimonianza attraverso lo scritto. Ma il punto di partenza immediato del cammino del discepolo va cercato nella stessa narrazione della passione. Prescindiamo perciò della sua menzione nel capitolo 14 dove compare per la prima volta. Ci permettiamo in parole povere di esprimere la nostra supposizione: questo discepolo non è l’apostolo Giovanni, ma probabilmente un gerosolimitano che vorremmo identificare con quel personaggio anonimo di cui parlano i vangeli sinottici: Gesù comanda ai discepoli di andare in città a preparare la pasqua, dice loro che incontreranno un tizio al quale diranno: «dice il maestro: “presso di te farò pasqua”» e quel tizio avrebbe indicato un luogo. La tradizione sinottica parlava di questo tizio ma non sapeva chi fosse, Giovanni lo sa perchè lui, padrone del cenacolo, ciò spiegherebbe perchè questa figura compaia nel vangelo soltanto dal capitolo 13 in poi. Ma torniamo alla narrazione della passione. Tutti I vangeli ci dicono che dopo la cattura di Gesù, Pietro seguiva da lontano, Giovanni aggiunge che c’era anche «l’altro discepolo», di questo discepolo dice che era noto al pontefice ed entrò con Gesù, poi il discepolo uscì ed introdusse Pietro. Pietro entrò, rinnegò, ma non uscì. Giovanni conosce benissimo il ravvedimento di Pietro e lo esprime in diversi modi, nei quali non entriamo. Soltanto ci limitiamo a proporre uno schema: DISCEPOLO 1 – entrò 2–… 3 – uscì

PIETRO 1 – entrò 2 – rinnegò 3 – non uscì

Il parallelismo antitetico suggerisce che il discepolo entrò, confessò, uscì. La vicenda del discepolo nel palazzo di Anna deve essere letta alla luce dei capitolo 9 e 10 [cieco nato e buon pastore]. Al nostro scopo giova soltanto osservare due cose: anzitutto il criterio di appartenenza alla casa del sacerdote e confessare o rinnegare Gesù. Il discepolo anche se è noto è al pontefice, per il fatto che confessa non ha più diritto a restare in quella casa, l’oscuro Pietro, Galileo, che non ha niente a che vedere con quella casa, ci rimane per il fatto che ha rinnegato Gesù. Rileggendo globalmente i tre rinnegamenti l’evangelista, in


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lettura inversa insinua il cammino di ravvedimento, ma in lettura progressiva esplicita lascia Pietro nel cuore del suo rinnegamento, dove sarebbe per sempre morto se non fosse stato raggiunto dall’evento dell’amore di Gesù che gli ha indicato la strada, non solo per uscire, ma anche per recuperare la sua dimensione di pastore [Cfr. 21,15 «Simone di Giovanni mi ami? Pasci…»]. Dopo il processo davanti ad Anna, dei due, Pietro e il discepolo, non se ne parlerà più: Pietro tornerà nel capitolo 20, il discepolo che è uscito, è giunto al termine del cammino che è proprio il « «

», Pietro è assente. Concludendo il

» non indica una semplice posizione del discepolo quanto piuttosto la posizione

di stabilità a cui egli è pervenuto dopo un cammino. Qui però dobbiamo considerare l’altra espressione « *

» [che amava]. Il testo

suona alla lettera così: «il discepolo stante presso che amava», cioè l’espressione «che amava» è messa dopo il participio «stante presso». Sarebbe stato più naturale il contrario: «il discepolo che amava stante presso». Dal momento che l’evangelista introduce l’espressione «che amava» dopo il participio «stante presso», dobbiamo concludere che l’espressione «che amava» consegue e in certo senso scaturisce dall’espressione «stante presso». Il discepolo stava presso e di conseguenza Gesù lo ama. Consideriamo l’espressione «che amava», essa precede l’affidamento alla madre, per cui avremmo il seguente progresso: 1 – stante presso; 2 – che amava; 3 – ecco tuo figlio. L’espressione «che amava» ben lungi dall’indicare qualsiasi sentimentalismo, o peggio ancora qualsiasi atteggiamento affettivo di Gesù, assume un significato fondamentale e rientra nella storia dell’agape che l’evangelista delinea nel suo vangelo. Questa espressione si legge quattro volte in tutto il vangelo: 1 – 13,23; 2 – 19,26; 20,2: « * ) 3 – 21,7 4 – 21,20

»


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Al centro, in 20,2, l’autore scrive « * ) «

»[

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», le altre quattro volte usa il verbo

]. Lasciamo stare il testo di 20,2, che con il verbo «)

colari problemi, fermiamoci soltanto ai quattro verbi con il verbo «

» contiene parti». In un lavoro

più completo, il testo di 13,23, si relaziona a 21,24, e il testo di conseguenza di 19,26 a 21,7. Lasciamo stare la relazione tra 19,26 e 21,7 che è più complessa e che si legge meglio a partire dal capitolo 21. Le altre due relazioni possono essere espresse nel seguente modo: 13,23: «era giacente uno dei suoi discepoli nel fianco di Gesù che amava Gesù»; 21,20: «voltatosi Pietro vede il discepolo che amava Gesù seguente il quale giacque nel banchetto sul petto e disse: “Signore chi è?”». In 21,20 l’evangelista esplicitamente richiama 13,23 anche se cambia linguaggio, ma possiamo notare come in entrambi i testi, il fatto che Gesù amava consegue ad una posizione statica del discepolo. Per comprendere questa espressione e sganciarla da qualsiasi sentimentalismo, il testo da cui partiamo è 14,21, dove Gesù dichiara: «chi ha i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama: chi mi ama sarà amato dal Padre mio ed anch’io lo amerò». È proprio quest’ultimo verbo che giustifica e spiega l’espressione «che Gesù amava». L’espressione «che Gesù amava» appare così l’espressione concreta della promessa di 14,21: «anch’io lo amerò». Gesù si pone in conseguenza all’amore del Padre che è risposta all’osservanza dei comandamenti. Ma questo testo non basta: la relazione tra osservanza dei comandamenti ed amore induce a richiamare altri testi analoghi ma in diversa prospettiva. Proponiamo allora tre testi che dovranno entrare in sintesi: 1 – 13,34: «vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io voi amai»; 2 – 15,10: «se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore»; 3 – 14,15: «se mi amate i miei comandamenti osserverete»; 4 – 14,21: «chi ha i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama, chi mi ama sarà amato dal Padre mio ed anch’io lo amerò».


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Tralasciando l’analisi dei singoli testi, andiamo subito alla rilettura sintetica: 1 – l’evento dell’amore di Gesù «come Io amai voi» [13,34]; 2 – l’evento dell’amore di Gesù implica la risposta di amare Gesù [14,15.21]; 3 – Gesù si ama osservando i comandamenti [14,15.21]; 4 – i comandamenti sono uno solo: l’amore vicendevole [13,34; 15,12]; 5 – l’osservanza dei comandamenti è un cammino che conduce all’amore di Gesù e permette di radicarsi in esso [15,10] 6 – l’osservanza dei comandamenti determina due effetti: rimanere nell’amore di Gesù [15,10] ed essere da Lui amati [14,21]. Non è chiaro da questo schema se prima c’è il rimanere in Gesù e poi essere da Lui amati, o al contrario: essere da Lui amati e poi rimanere nel Suo amore. I testi del discepolo permettono di risolvere nel senso che prima si raggiunge l’amore di Gesù e poi da Lui si è amati. Ciò è suggerito da due elementi: anzitutto il fatto che l’espressione «che amava» è introdotta in 13,23, in 21,20 ed anche in 19,26 dopo la descrizione di una posizione statica del discepolo, nel fianco [13,23], sul petto « [

». Inoltre l’imperfetto «amava»

] indica una azione costante ed abituale che meglio si addice come risposta alla a-

zione di raggiungere l’amore di Gesù e di restare radicato in esso. Alla luce di tutte queste osservazioni possiamo delineare la storia del discepolo come storia di coinvolgimento nell’amore di Gesù, proponiamo in punti schematici che mentre li riferiamo al discepolo concreto possono costituire gli elementi caratteristici di qualsiasi discepolo di Gesù. questi elementi sono: 1 – il discepolo è stato raggiunto dall’amore di Gesù; 2 – ha esigenza di riamarlo; 3 – lo amerà mediante l’osservanza dei comandamenti, cioè mediante un cammino di amore vicendevole; 4 – attraverso la strada dell’amore vicendevole giunge a Gesù e si radica nel suo amore; 5 – radicato nell’amore di Gesù, Gesù in maniera abituale lo ama; 6 – il discepolo così diventa «il discepolo che Gesù amava». Siamo arrivati così al culmine di una storia che parte dall’evento dell’amore di Gesù ed è a questo punto che avviene l’affidamento, come figlio alla madre, e la presentazione della madre come madre. Le parole che Gesù pronunzia sono parallele: «ecco il tuo figlio», «ecco la tua madre».


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Questo dialogo semplicissimo e laconico andrebbe particolarmente illuminato, ci limitiamo soltanto a qualche osservazione. 1) Anzitutto tale unione avviene presso la croce di Gesù e qui si dovrebbe richiamare tutto il mistero dell’alleanza, come appartenenza secondo la prospettiva veterotestamentaria al popolo del Signore. 2) Troviamo la costituzione della madre e qui trovano attuazione le parole di Genesi 3,20 che la donna fu chiamata Eva perché la madre di tutti i viventi. Emerge nel nostro testo la definizione dei «viventi» di cui la donna è madre, i viventi sono i discepoli coinvolti nell’amore di Gesù. Giovedì 12 gennaio 2006, ore 08,30 / 10,15 Arriviamo così all’ultima espressione che la versione italiana traduce: «da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» [Gv 19,25-27]. Su questa traduzione avremmo da ridire sia sull’espressione «da quel momento», sia sul verso “prendere”, sia sull’espressione «nella sua casa». Che il discepolo abbia accolto la madre nella sua casa può essere storicamente verosimile ed anche i testi potrebbero andare in questo senso, è facile pensare che il cenacolo cioè la casa del discepolo, sia stato il punto di riferimento dopo gli eventi della passione e della resurrezione. Basti pensare che in quel luogo Luca presenta radunati i discepoli nel libro degli Atti in attesa dello Spirito Santo. Ma il senso della frase giovannea sembra essere più profondo. Anzitutto l’espressione «da quell’ora» non può essere ridotta ad una semplice indicazione cronologica, tenendo conto di tutto il senso giovanneo dell’ora. A Cana Gesù reagisce alla richiesta della madre perché la sua ora non è ancora arrivata. Diverse volte nel vangelo si dice che cercarono di mettere le mani su Gesù ma non poterono perché non era giunta la sua ora. Nel capitolo 5 Gesù annunzia un’ora in cui quelli che sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che avranno udito vivranno. Alla samaritana Gesù annunzia un’ora in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adoreranno il Padre, ma si attuerà una adorazione in Spirito e verità. Dal capitolo 12 in poi la prospettiva è quella di un’ora che è giunta; in 12,23 Gesù dichiara: «è giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo» ed in 17,1 Gesù chiede «Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio perchè il tuo Figlio glorifichi Te». L’ora di Gesù è anche l’ora di passare da questo mondo al Padre. Giovanni così nel suo Vangelo introduce la nozione di ora non soltanto come un elemento cronologico, ma come un elemento qualitativo che indica il momento in cui Gesù compie la sua missione. In 16,21 introduce la metafora della


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donna, la donna mentre partorisce ha tristezza perché è giunta la sua ora, l’ora della donna è perciò quando realizza la sua missione di madre; nel testo citato, attraverso l’immagine della donna, ripresa in certo modo da Genesi, Gesù caratterizza il tempo della sua passione, ma in relazione ai discepoli, ed infatti Gesù continua la metafora dicendo: «ma quanto ha partorito non ricorda più la tribolazione per la gioia che è venuto nel mondo un uomo». E Gesù applica ai discepoli [non a sé]: «e voi ora avete tristezza, ma di nuovo io li vedrò e il vostro cuore gioirà». In 20,20, quando Gesù si manifesta, l’evangelista nota che i discepoli gioirono avendo visto il Signore. In tutto questo contesto che rivela la pregnanza del termine «ora» è difficile fermarsi soltanto al livello cronologico. L’espressione «

% » può intendersi in

due modi: o in senso cronologico e perciò da quel momento o in senso di provenienza, quasi a dire “a partire da quell’ora”, cioè il discepolo riceve la madre come un dono che proviene dall’ora di Gesù. L’ora di Gesù include anche la formazione della donna e la costituzione della donna come madre dei discepoli di Gesù nel testo emerge un vuoto, la donna è presentata al discepolo come madre e il discepolo alla donna come figlio ma poi implicitamente è espressa l’idea del dono: chi ha donato la madre al discepolo? Implicitamente Gesù, ma l’evangelista suggerisce che il vero soggetto che fa il dono sia appunto l’ora di Gesù. In questo senso il dono della madre appare un realtà che scaturisce come dono dall’ora di Gesù. In questo sfondo preferiamo tradurre il verbo « $ & » [aoristo dal verbo

&

]

non nel senso di prendere, ma nel senso di accogliere: al discepolo è fatto un dono e lui lo accoglie. L’ultima espressione « non necessariamente il verbo «

$ » potrebbe significare «a casa propria», ma $ » indica le cose proprie, le cose che appartengono

strettamente ad una persona, potremmo richiamare analoga espressione del capitolo 1, dove l’evangelista a proposito della luce scrive: «tra i suoi [

$ ] venne, ma i suoi non

lo accolsero». Emerge una contrapposizione tra il testo di 1,11 e di 12,27: la luce venne tra coloro che gli appartenevano, il discepolo accoglie la madre tra le cose che gli appartengono. Nel capitolo 16, non senza una allusione alla fuga, Gesù annunzia: «viene l’ora e già è venuta in cui vi disperderete ciascuno nelle proprie cose [

$ ] e mi lascerete solo». In

conclusione l’espressione che pur potrebbe significare “a casa propria” sembra avere un significato più pregnante: il discepolo accolse tra i propri beni, tra le cose che gli appartengono la madre come dono dell’ora. Ma quali cose appartengono al discepolo? Le cose che sgorgano dalla sua posizione di discepolo. Al discepolo che ha compiuto un cammino ed è


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giunto in una posizione stabile [

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], al termine di questo cammino è fatto il dono

della madre e la madre così diventa un bene proprio di colui che è discepolo di Gesù. Facendo una breve parentesi spirituale: questo brano suggerisce che la vera devozione a Maria e parallelamente l’amore per la chiesa nascono non da sentimentalismi, ma dalla propria realizzazione dell’essere discepoli di Gesù. Ma che senso ha il dono della madre in tutto il dinamismo che stiamo considerando? Il discepolo, che è giunto ad un termine, deve raggiungere Gesù, ma Gesù non lo raggiunge senza l’opera della madre. Abbiamo detto infatti che in questo brano «madre» non è soltanto la figura di Maria, ma madre è tutta la comunità di donne attorno a Gesù. Il discepolo è dato alla madre perché attraverso la madre raggiunga Gesù, la madre è quasi una mediazione tra Gesù e il discepolo. Ma possiamo stabilire un altro confronto tra questo brano e Cana. A Cana la madre chiede a Gesù, o meglio, fa osservare a Gesù che non hanno più vino, Gesù risponde che tra lui e la donna non c’è alcune relazione perché la sua ora non è ancora giunta. Si avverte in queste parole di Gesù sgarbato, insinuato un cammino che si può ricostruire alla luce dall’episodio presso la croce. Questo cammino ha le seguenti tappe: 1 – deve arrivare l’ora di Gesù; 2 – quando sarà arrivata l’ora di Gesù, allora Lui avrà relazione con la donna perché la donna ad immagine della Eva genesiaca si forma a partire dalla croce; 3 – questa donna diviene madre; 4 – a lei sono affidati i discepoli come figli; 5 – il discepolo la accoglie; 6 – la donna può fare la sua richiesta: «non hanno più vino». Tutto il senso della descrizione di 19,25-27, è allora il seguente: 1 – la costituzione della donna-madre; 2 – la relazione madre-discepolo; 3 – l’accoglienza da parte del discepolo. Abbiamo detto come la madre esercita quasi una mediazione tra il discepolo e Gesù. Il discepolo raggiunge Gesù attraverso la madre, ma poi attraverso Gesù raggiunge il Padre. Tutta questa descrizione può illuminare una descrizione simbolica che troviamo in 13,5: in questo brano si legge che Gesù cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio con cui era cinto. Abbiamo detto in precedenza che è errato consi-


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derare soltanto l’azione di lavare i piedi senza considerare l’azione seguente di asciugare, anzi sembra che a questa seconda l’evangelista attribuisca maggiore importanza. Possiamo infatti stabilire il seguente dinamismo: lavare i piedi è una azione rivolta sui piedi e questa è quasi la abilitazione dei discepoli a compiere un cammino perché i piedi sono l’organo del cammino. I discepoli simbolicamente sono raggiunti, mediante lo Spirito, dall’amore di Gesù e sono resi capaci a compiere un cammino sulla via dell’amore [Cfr. Gv. 13,34: «vi do un comandamento nuovo: che perseveriate nell’amore vicendevole come io voi amai»]. Il fatto che Gesù ha amato abilita i discepoli a camminare sulla via dell’amore. Ma qual è il termine? Il termine simbolicamente sembra essere contenuto appunto nell’azione di asciugare. Consideriamo l’espressione, strutturata nel seguente modo: 1 – «[cominciò] ad asciugare 2 – con l’asciugatoio 3 – con cui 4 – era cinto» Questa frase mette al centro una duplice attenzione dell’asciugatoio, il quale così rivela una duplice relazione: ai piedi dei discepoli [asciugare] e a Gesù [di cui era cinto]. L’azione di asciugare indica accoglienza, l’asciugatoio per asciugare contiene ed in certo senso accoglie l’organo che asciuga, ma lo stesso asciugatoio conduce a Gesù perché di esso Gesù è cinto. Possiamo stabilire la seguente relazione con 19,25-27: 1 – asciugare con l’asciugatoio 2 – con cui era cinto

1 – stavano presso la croce di Gesù […] le donne 2 – ecco tua madre […] ecco tuo figlio

Nella azione simbolica di asciugare c’è perciò contenuta l’accoglienza della chiesa madre, la quale cinge Gesù. Il cammino dei discepoli perciò culmina nella chiesa madre, la quale a sua volta cinge Gesù e perciò i discepoli raggiungono Gesù. Raggiunto Gesù è possibile quel grande passaggio pasquale di cui si parla nel verso 1 verso il Padre: «sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre».


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Volendo riassumere allora 13,1-5 alla luce di 19,25-27 ed anche 19,28-30 avremmo il seguente sviluppo: 1 – è giunta l’ora di compiere un grande esodo da questo mondo al Padre; 2 – l’allusione è all’esodo e come Mosè uscì da solo dall’Egitto, nemmeno Gesù passa da solo da questo mondo al Padre. Si capisce perché nello sfondo di questo grande esodo, Gesù porta a compimento la sua opera di amore; 3 – l’opera di amore consiste nel coinvolgere in sé i discepoli per compiere con essi questo grande passaggio pasquale; 4 – l’opera di amore consiste: a - Gesù muore; b - dona lo Spirito; c - mediante lo Spirito raduna la chiesa madre; d - raggiunge i discepoli e li abilita a camminare sulla via dell’amore; e - i discepoli giungono alla chiesa madre; f - dove c’è Gesù ed attraverso la chiesa madre si coinvolgono nell’amore di Gesù. 5 – coinvolti in Gesù si può raggiungere con lui il Padre [Cfr. 14,6 «Io sono la via, la verità e la vita, nessuno perviene al Padre se non attraverso di me». Cfr. anche 17,3 «questa è la vita eterna che conoscano Te, unico vero Dio e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo»]. LA SPARTIZIONE DELLE VESTI Diciamo fin dal principio quel che diremo meglio alla fine e che cioè la scena delle vesti ha stretta relazione con la scena della madre. Giovanni riferisce un episodio comune anche alla tradizione sinottica. Al Calvario i soldati si spartirono le vesti di Gesù. Sorprende che questo particolare storicamente di importanza più marginale sia passato nella tradizione evangelica. Dal punto di vista storico l’episodio è secondario. A ciascun soldato in quella spartizione sarà toccato un cencio per giunta intriso di sangue. Questo episodio però diventa importante nella tradizione evangelica perché la tradizione si preoccupò di riferire quei fatti che avevano maggiore attinenza con le scritture e la spartizione delle vesti richiamava bene il salmo 21,19 che suona appunto: «si sono divise le mie vesti e sul mio vestito hanno tirato la sorte». Il Salmo 21 nella tradizione fu visto come chiave di lettura degli eventi al Calvario, basti pensare che Matteo e Marco mettono in bocca a Gesù il primo verso «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Non è necessario pensare che Gesù abbia detto materialmente quelle parole e non bisogna premerle come se il Padre avesse abbandonato Gesù, ma gli evangelisti vollero dire che tutta la scena del Calvario deve essere letta alla luce di quel Salmo compresa anche l’apertura del salmo stesso che si apre a grande fiducia e in certo senso annunzia la resurrezione: «e io vivrò per lui, lo servirà la


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mia discendenza». Giovanni in tale episodio per un verso dipende, per l’altro si stacca dalla tradizione sinottica, in particolare le differenze giovannee sono due: la prima è una descrizione più accurata della spartizione della vesti, una seconda è una mutazione originale che introduce rispetto al salmo. Il salmo scriveva: «si son divise le mie vesti [ vestito [

] e sul mio

] gettarono la sorte». La mutazione che l’evangelista introduce è nella

seconda parola, non scrive «

», bensì «

», cioè tunica. A queste due differen-

ze ne possiamo aggiungere una terza: mentre i sinottici non menzionano il tirare a sorte Giovanni invece lo menziona. Lasciamo stare l’origine della parola «

», diciamo sol-

tanto che è un parola che si legge in Genesi: «Dio fece delle tuniche e rivestì», ciò conferma la presenza del testo genesiaco in tutta la descrizione giovannea. Consideriamo gli elementi così come Giovanni li propone. Sabato 14 gennaio 2006, ore 08,30 / 10,15 La descrizione giovannea ha due parti che conviene avere presentii come testo. I soldati quando crocifissero Gesù presero le sue vesti, fecero quattro parti ed a ciascun soldato una parte. Era invece la tunica senza cuciture, tessuta attraverso il tutto. Dopo seguono le parole con cui i soldati deliberano le loro azioni. Abbiamo due descrizioni delle vesti e della tunica: dal punto di vista storico le parti sono il mantello che l’antico orientale portava sulla tunica, la quale aderiva direttamente alla pelle. Le due descrizioni sono del tutto differenti. La prima descrizione è essenzialmente dinamica, descrive l’azione che I soldati fecero sulle vesti: le vesti cioè subiscono un’azione dei soldati. La descrizione della tunica è essenzialmente statica, si descrive cioè la sua condizione e il suo stato. Tornando alle vesti, le azioni che I soldati fecero sono contenute in tre frasi: 1) I soldati presero le sue vesti; 2) fecero quattro parti; 3) a ciascun soldato una parte.


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Sorprende il verbo «presero», tante volte il verbo «prendere» [ lazione al verbo «dare» [

130 &

], sta in re-

]: una persona dà ed un’altra riceve. L’azione dei soldati di

prendere non è relazionata ad alcun verbo dare, perciò si tratta di una presa di possesso, di un impadronirsi autonomo. È importante che si tratti delle vesti di Gesù. Le vesti passano da un possesso ad un altro. Automaticamente cessano di essere vesti di Gesù. La seconda azione è quella di fare quattro parti, l’evangelista poi specifica che ha ciascun soldato una parte. Questo particolare induce a concludere che storicamente i soldati al Calvario erano quattro. Si tale numero non ci parla nessun altro evangelista e non abbiamo motivo per dubitare della sua verità storica, tanto più che il Calvario era appena uno sperone che poteva accogliere poche persone. Tuttavia facciamo fatica a ritenere questo particolare soltanto come un elemento storico. Una ricerca del numero quattro nell’AT indica che tale numero è legato talora ai quattro angoli della terra, il più delle volte però è usato non per indicare la dispersione, bensì il raduno [cfr. Ezechiele dove Dio annunzia di radunare il suo popolo dai quattro angoli della terra]. Qui invece il movimento è inverso, non raduno dai quattro angoli, bensì divisione dai quattro angoli. Ci sembra di poter dire che l’evangelista abbia voluto descrivere una divisione ai quattro angoli della terra, cioè totale. La terza espressione sorprende ed è molto enfatica. L’evangelista precisa «a ciascun soldato una parte», ogni parte cioè diventa possesso di un soldato. Ciò implica che la divisione è irreversibile. Ci sembra allora di scorgere in queste tre fasi, tre aspetti: 1) alienazione; 2) divisione; 3) possesso che rende irreversibile la divisione. Interpretiamo questa scena, o meglio diciamo che per interpretarla forse è meglio tenere conto della seguente descrizione della tunica. Ci si è posto il problema se l’evangelista, in questa descrizione, non abbia avuto presente un fatto storico, quello cioè della descrizione dell’impero di Alessandro Magno nei suoi vari generali. Non abbiamo elementi per affermarlo, ma riteniamo non inverosimile tale allusione perché di essa se ne parla nei libri dei Maccabei.


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Ma passiamo alla descrizione della tunica. L’evangelista comincia così: «

131 ».

La particella « » è importante: non si traduce, ma contiene l’aspetto della contraddizione. Di questa tunica si dice che era « $ ) ». Questo termine deriva dal verbo «

» che

vuol dire cucire; l’« » iniziale è un « » privativa. Lasciando da parte la leggenda che questo episodio ha suscitato della tunichella di Gesù che cresceva con lui, il termine indica la totale assenza di cuciture, un vestito ha delle cuciture, ed un vestito ha una unità estrinseca, cioè le cuciture mettono insieme dall’esterno parti essenzialmente divise. Il termine « $ ) » invece indica un’intrinseca unità. L’evangelista aggiunge un’espressione che vuol spiegare il motivo di tale intrinseca unità. Scrive le seguenti espressioni: 1) 2) ) 3) % Il termine « )

$

» [intessuto], si trova tra due espressioni caratterizzate da parti-

celle. La prima particella è « », seguita da un avverbio « $ dall’articolo. La seconda particella è «

», reso sostantivo

» col genitivo. La prima particella « » indica in

sé stessa moto da luogo o origine, la seconda particella, «

» col genitivo, assume il senso

di un moto per luogo. C’è perciò una tessitura che parte dall’alto e si diffonde attraverso il tutto. Che cos’è questo «dall’alto»? dovremmo dire del collo di un vestito, però l’evangelista sta usando un’espressione molto generica. Dice «dall’alto», ma non dice che cos’è quest’alto, o meglio lo dice, ma non qui. Lo dice nel capitolo 3 nel dialogo tra Gesù e Nicodemo. In questo dialogo, leggiamo due frasi che ci aiutano ad interpretare. Le due frasi sono nel verso 3 e nel verso 5. Possiamo stabilire un parallelismo tra le due frasi: [v. 3] se qualcuno non nasce dall’alto

[v. 5] se qualcuno non nasce da acqua e da Spirito


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Le due espressioni sono identiche eccetto nel terzo elemento. Il verso 5 spiega che l’alto è l’acqua e lo Spirito. Si tratta di due elementi che troviamo nella narrazione del Calvario. GIOVANNI 3 1 – nascere dall’alto 2 – da acqua 3 – da Spirito

GIOVANNI 19 1 - 19,23 – dall’alto 2 - 19,30 – donò lo Spirito 3 - 19,34 – uscì acqua

Gli elementi del capitolo 3 si trovano nel capitolo 19, gli ultimi due in ordine inverso. L’elemento più immediato è lo Spirito, l’alto perciò sembra essere non il collo della tunica, bensì il capo di Gesù, il quale, reclinato donò lo Spirito, perciò è a partire dallo Spirito che si intreccia questa tunica. L’assenza di cucitura poi si diffonde attraverso tutto, sia quasi l’immagine di un elemento che partendo dall’alto pervade il tutto e raduna in unità. La descrizione della tunica rivela perciò il compimento o se vogliamo l’effetto già realizzato di un dinamismo di unità: la tunica è una perchè tale attraverso un movimento che è partito dall’alto è stata realizzata. Ma ancora una volta soprassediamo all’interpretazione e leggiamo le parole seguenti dei soldati che non hanno alcun parallelo con i vangeli sinottici. I soldati deliberano di fare due cose: non stracciare, ma tirare a sorte di chi sarà. Cominciamo dal secondo elemento, tirare a sorte di chi sarà. L’evangelista pone due problemi: tirare a sorte e sapere di chi sarà. In realtà l’evangelista non dice né che tirarono a sorte, né ci dice di chi è la tunica, si limita soltanto a dire che i soldati fecero queste cose. Che cosa sono «queste cose» che fecero i soldati?: i soldati fecero due cose, la prima divisero le vesti, poi deliberarono di tirare a sorte, di chi è la tunica? È importante in 19,24 notare il modo come l’evangelista si esprime. L’ultima frase è introdotta dalla particella « un’altra particella nel verso seguente 25, dove c’è «-

». questa particella richiama », e perciò l’azione dei

soldati deve essere relazionata alla descrizione delle donne presso la croce. Qui noi troviamo la vera risposta alla deliberazione dei soldati di non scindere la tunica, ma di tirare a sorte di chi sarà. Veramente un’altra risposta a questo problema si ha nel capitolo 21 dove troviamo il secondo dei due soli usi del verbo « Il verbo «

' ».

' » è usato due sole volte da Giovanni e sempre in forma negativa: il

primo uso è nel nostro testo dove leggiamo l’espressione « ca. Il secondo uso si legge in 21,11 nell’espressione «

» riferito alla tuni» riferito alla rete. C’è un


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progresso tra i due testi: nel primo abbiamo un congiuntivo aoristo negativo con valore ingressivo, nel secondo abbiamo un aoristo indicativo con valore completivo, questo aoristo completivo non solo nega il fatto [la rete non si ruppe], ma esclude definitivamente la stessa possibilità che la rete possa rompersi. Diciamo soltanto che tunica e rete sembrano essere due immagini della stessa realtà di cui ogni immagine propone un aspetto. Tornando al nostro testo la descrizione delle donne contiene due risposte: la prima mi permette di comprendere che cosa è la tunica e di comprendere a chi appartiene. Possiamo infatti stabilire due tipi di relazione, la prima è la seguente: 1 – di chi [tiriamo a sorte]; 2 – sarà; 3 – stavano presso; 4 – la croce di Gesù. Ma è possibile un’altra relazione in due parti parallele: A Era La tunica Senza cuciture

B Stavano Presso la croce di Gesù

Notiamo in ogni frase il verbo statico, il primo indica l’indole [era], il secondo indica la posizione. Tutto ciò ci permette di tirare la conclusione che c’è un progresso dall’immagine delle donne all’immagine della tunica. Le donne sono una pluralità ricondotta ad unità dalla posizione locale di essere presso la croce di Gesù. L’immagine della tunica spiega che quella comunità è intessuta da intrinseca unità a partire dall’altro, cioè a partire da Cristo dal cui capo è sgorgato lo Spirito. La tunica di Cristo perciò che appartiene a lui e che i soldati deliberarono di non scindere sembra essere così quella comunità ecclesiale radunata attorno a Gesù. La prospettiva, pur con diversa immagine, è analoga a quella della rete dove c’è una pluralità, i pesci, ricondotti in unità dalla realtà della rete.


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La prospettiva che abbiamo indicato concorda con tre testi del vangelo che vogliamo proporre in maniera progressiva: 1 – 11,52: «doveva morire per radunare i figli di Dio che erano stati dispersi»; 2 – 12,32: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me»; 3 – 17,21.23: «che tutti siano [permangano] una cosa sola» Notiamo il progresso: 1 – scopo della morte; 2 – il modo come avviene il raduno [per attrazione]; 3 – la preghiera [perché i discepoli permangano nell’unità]. Le immagini della tunica e della rete darebbero così la descrizione di questa unità già formata. Ma possiamo fare un passo in avanti e porre la domanda: e le vesti? Riconosciamo che l’immagine ha un certo ermetismo però proponiamo un tipo di lettura. Partiamo nella nostra lettura dal testo di 12,31-32: «adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo è gettato fuori ed io quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». Troviamo in questo testo due dinamismi: un dinamismo centrifugo [gettato fuori], ed un dinamismo centripeto [attirerò tutti a me], sono due dinamismi che facilmente riscontriamo nel nostro testo. Il dinamismo centrifugo caratterizza le vesti, abbiamo detto che sono le vesti di Gesù che divise diventano possesso dei soldati. Da Gesù perciò si giunge ai soldati. Il dinamismo centripeto sarebbe nella tunica: più precisamente la tunica non descrive il dinamismo centripeto, ma l’effetto di questo stesso dinamismo. L’intrinseca unità dopo un movimento di attrazione.


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Mercoledì 18 gennaio 2006, ore 10,30 / 12,15 IL TITOLO DELLA CROCE LA PRIMA O LA QUINTA SCENA [vv. 17b-22]: CROCIFISSIONE E TITOLO DELLA CROCE La quinta scena o la prima è contenuta nei versi 17b-22. In questa parte possiamo distinguere due sezioni: la prima è la crocifissione di Gesù, la seconda è il titolo della croce. La prima parte, la crocifissione, può essere divisa a sua volta in due brevi sezioni: il fatto stesso della crocifissione di Gesù e la crocifissione di altri due insieme a lui. Nell’interpretazione qui è fondamentale il confronto con i vangeli sinottici. Facendo attenzione a quello che l’evangelista dice, al modo come lo dice ed a quello che non dice. La prima cosa che possiamo notare è il cammino dal pretorio di Pilato verso il Calvario. Giovanni scrive: «presero Gesù e portando per sé stesso la croce uscì in un luogo detto del Cranio che è chiamato in ebraico Golgota, dove lo crocifissero». Di questa descrizione dovremmo notare non poche cose. La prima è il verbo presero [1

& ], questo verbo

si ricollega al verbo precedente dell’espressione: «allora lo diede a loro perché fosse crocifisso»: il soggetto è Pilato, il verbo è «

», c’è una consegna e c’è una accetta-

zione. Quello che Pilato consegna è quello che lui stesso ha presentato come il vostro re. Pilato infatti aveva proclamato «ecco il vostro re». Di fronte a questa proclamazione si era verificata una piena apostasia, i giudei avevano infatti dichiarato: «non abbiamo altro re se non Cesare». L’ironia di Giovanni è fortissima, sottolinea quasi uno scambio: colui la cui ambizione era diventare «amico di Cesare» questo perviene alla regalità di Gesù, i giudei di cui Gesù sarebbe il loro re fanno la loro scelta esclusiva a favore di Cesare. In questo contesto si avverte il contrasto tra il fatto che Pilato consegna e il fatto che i giudei accettano. Questo contrasto apparirà meglio alla fine di tutta la sezione. Notano i vangeli sinottici due elementi Matteo scrive: «condussero Lui perché fosse crocifisso», Marco scrive: «lo conducono per crocifiggerlo», Luca scrive: «lo condussero…». In tutti e tre gli evangelisti è sottolineato il fatto che Gesù è condotto. È utile un attimo riferirci a qualche indicazione della storia in nostro possesso. Il cammino dei condannati rientrava nella stessa pena, i condannati portavano il patibulum caricato sulle spalle, camminavano a torso nudo, e perciò la flagellazione continuava per la strada. Se erano numerosi camminavano legati e se barcollando cadeva uno, col patibolo che aveva non riusciva ad appoggiarsi, ruzzolava e con lui tutti gli altri.


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Il patibulum era portato dal condannato, tutti e tre i vangeli sinottici ci informano che Gesù fu aiutato da un certo Simone di Cirene che tornava dalla campagna e che costrinsero a prendere il patibolo di Gesù. Non abbiamo motivo di dubitare sulla storicità di questo fatto, Marco addirittura ci informa che era padre di Alessandro e Rufo, due personaggi che per essere nominati dovevano essere conosciuti nella comunità. Una lettura più attenta dei racconti sinottici mostra la dimensione religiosa della figura del cireneo. La figura del cireneo rispecchia la dimensione cristiana della sequela di Gesù: portando la propria croce ed inoltre si ricollega in quella serie di persone che, dopo il rinnegamento di Pietro, delineano un cammino spirituale, il cui culmine era presentato dalla professione di fede del Centurione. Possiamo stabilire un confronto tra i sinottici e Giovanni, confronto che formuliamo nel seguente modo: SINOTTICI 1 – conducono Gesù; 2 – il cireneo; GIOVANNI 3 – e portandosi la croce 4 – uscì Giovanni introduce due differenze fondamentali rispetto alla narrazione sinottica. Anzitutto depenna completamente l’episodio del cireneo, se leggessimo solo Giovanni dovremmo dire che tale episodio non sia mai avvenuto. L’episodio del cireneo storicamente si spiega: il condannato doveva arrivare alla croce vivo e il cireneo rivela che Gesù dava segni di cedimento. Giovanni scrive un’espressione che sembra contraddire i sinottici, scrive: «&

'

». Il verbo «&

' » significa portare, il problema nasce

nell’interpretare quel pronome riflessivo al dativo. Tale pronome a leggerlo attentamente non esclude il racconto sinottico, ma indica anche che l’episodio sinottico disturbava a Giovanni. Quel pronome dativo riflessivo non può avere altro valore se non un dativo di appartenenza o di vantaggio. Giovanni sottolinea in questo modo che la croce è una realtà che appartiene intrinsecamente a Gesù, una realtà che è sua esclusiva e che non può essere ceduta ad altri. Se i vangeli sinottici hanno dei motivi spirituali per sottolineare la presenza del cireneo, Giovanni ha motivi spirituali per toglierla. La seconda differenza è il verbo «uscì» che non indica soltanto l’uscita materiale, bensì alla luce di tutto l’evento della passione, assume un significato profondo spirituale.


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Storicamente questo verbo è strano perché sicuramente Gesù fu legato e forse anche trascinato. Giovanni invece usa un verbo che azzera qualsiasi intervento umano e dimostra Gesù nella sua piena e totale autonomia e libertà. Abbiamo notato a principio del corso come Giovanni usa due volte il verbo “legare”, lo usa nel cammino dal Getsemani ad Anna e lo userà nel passaggio da Anna a Caifa in modo che il verbo “legare” costituisce inclusione letteraria al racconto del processo o dialogo davanti ad Anna. Quanto poi si tratta del passaggio da Caifa a Pilato, Giovanni usa il verbo «conducono», nel passaggio da Pilato al Calvario, dove sarebbe stato più opportuno il verbo condurre usa invece il verbo «uscì». Possiamo notare un progresso di liberazione di Gesù: dal processo davanti ad Anna in cui il verbo “legare” suggerisce la massima coartazione si passa alla massima libertà del verbo “uscire”. Possiamo dire che tutta questa storia è illuminata da 1,5: «la luce splende tra le tenebre, le tenebre non poterono coartarla». Le tenebre tentarono di sopraffare la luce, ma la luce sfugge e và a splendere. Queste due azioni: “portandosi la croce” e “uscì” debbono essere lette alla luce di due espressioni parallele: la proclamazione di Pilato: «ecco il vostro re» e il titolo della croce: «Gesù nazareno re dei giudei». Le due espressioni segnano quasi nella penna di Giovanni il passaggio dalla proclamazione alla intronizzazione. Possiamo dire che il re proclamato và a collocarsi sul suo trono. Perché Giovanni sottolinea che la croce appartiene strettamente a Gesù e perciò depenna il cireneo? Perché la croce è il trono di chi è stato proclamato re. Le osservazioni che abbiamo proposto suggeriscono di leggere tutta la descrizione alla luce della proclamazione di Pilato. Possiamo anche recuperare altri due elementi di quella proclamazione. L’evangelista aveva collocato quella proclamazione in due circostanze cronologiche: quella dell’ora sesta e quella della parasceve della pasqua. L’ora sesta richiama la piena manifestazione della luce, la parasceve richiama l’immolazione dell’agnello. Possiamo anche dire che il Gesù che và a collocarsi sulla croce è la luce che và a collocarsi sul suo candelabro. Ma possiamo stabilire una relazione più stretta tra la proclamazione di Pilato e gli eventi al Calvario. Possiamo stabilirla proponendo uno schema concentrico: 1 – era la parasceve della pasqua; 2 – era l’ora sesta; 3 – ecco il vostro re; 4 – Gesù nazareno re dei giudei; 5 – non gli spezzarono le gambe [19,36]; 6 – guarderanno a Colui che hanno trafitto


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La relazione tra il terzo e il quarto elemento è strettissima, come anche è stretta la relazione tra il primo e il quinto elemento: nella parasceve si immolava l’agnello e la legge prescriveva che non fossero spezzate le gambe. Meno chiara è la relazione tra 2 e 6, ma non distona: la luce che raggiunge la sua massima manifestazione diventa oggetto di visione. Abbiamo già a suo tempo stabilito la relazione tra la proclamazione di Pilato e gli eventi stretti della crocifissione. Possiamo stabilire infatti la seguente relazione: 1 – Pilato fece sedere; 2 – in un luogo detto “litostroton”, in ebraico “gabbata”; 3 – ecco il vostro re; 4 – in un luogo detto del “Cranio” in ebraico “Golgota”; 5 – dove lo crocifissero; 6 – Gesù nazareno re dei giudei. Abbiamo notato come il fatto che Pilato fece sedere Gesù si ricollega al fatto che lo crocifissero, inoltre abbiamo detto che il litostroton in ebraico gabbata richiama l’esaltazione e ciò è suggerito dal fatto che l’evangelista dice di leggere in lingua ebraica il termine aramaico Gabbata. Come anche il luogo del cranio detto in ebraico Golgota, richiama la manifestazione e ciò è suggerito dal fatto di leggere in lingua ebraica il termine aramaico Golgota. Ciò corrisponde a 8,28: «quando innalzerete

[Gabbata] il Figlio

dell’uomo conoscerete [Golgota] che Io sono». Passiamo adesso al titolo della croce prescindendo dalla storicità o meno della tavoletta nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, cerchiamo di cogliere gli aspetti letterari e qualche aspetto storico. Il titolo della croce è riferito da tutti e quattro gli evangelisti, ciò dice che è un elemento antico nella tradizione. Dal punto di vista storico esso è più che verosimile. Sappiamo che simile titolo era portato nel corteo dei condannati o da un servo che apriva il corteo oppure dai condannati stessi appeso al collo, poi era affisso alla croce. Se consideriamo tutti gli eventi globali al Calvario quali storicamente possono essere avvenuti scopriamo che questo elemento della dinamica dei fatti non era centrale. Ce ne sono anche altri che storicamente possiamo immaginare, ma di cui i vangeli non dicono nulla. Tuttavia il fatto che tutti gli evangelisti lo attestano rivela che esso fu centrale nella riflessione primitiva. Possiamo chiederci perché questo titolo ebbe importanza nella tradizione; la risposta sarebbe che il titolo conteneva una menzione della regalità. Il senso di questa menzione può essere


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vario: poteva indicare il crimine di lesa maestà, poteva essere uno scherno a Gesù, poteva anche essere una feroce ironia di Pilato ai giudei, ma a noi non interessa dal punto di vista storico, ma interessa nella formulazione degli evangelisti. Possiamo fare un confronto fra i quattro: MATTEO costui è Gesù il re dei giudei

MARCO

il re dei giudei

LUCA

il re dei giudei costui

GIOVANNI Gesù il nazareno il re dei giudei

Questo confronto rivela due parti: una parte fluttuante, una parte fissa. La parte fissa è: «il re dei giudei», la parte fluttuante è il contesto. Marco non aggiunge alcun elemento, Luca pospone il pronome “costui”, Matteo è più lungo, c’è un pronome soggetto, una copula, e il nome proprio, Giovanni nel nome proprio concorda con Matteo e suo peculiare l’appellativo «nazareno». Possiamo concludere dicendo che l’espressione «il re dei giudei» era già nella tradizione. Ma osserviamo la formulazione letteraria: dietro questa formula si può facilmente ipotizzare la formulazione aramaica «

% J K !». Sorprende

in greco l’articolo davanti al re, la formula non dice: “re dei giudei” e in questo senso Gesù poteva essere considerato uno dei tanti re che nella storia si erano succeduti. L’articolo dice che si tratta del re per antonomasia cioè il vero re dei giudei. Si avverte in questa formulazione la reinterpretazione della tradizione primitiva. In questo senso si capisce il motivo per cui la tradizione diede importanza a questo titolo. La regalità di Gesù e la sua stessa messianicità si manifesta sulla croce. Questo titolo poi andrebbe letto nel contesto di ogni evangelista e in ogni evangelista il senso originale assume sfumature differenziate. La tradizione di Matteo e Marco mise in bocca a Gesù il salmo 21 riferito in semitico [miscuglio di aramaico ed ebraico: prende elementi dall’uno e dall’altro] e in greco. Conosciamo lo scherno che ne seguì alla formulazione «Eli Eli lama sabactani» oppure «Eloi Eloi, lema sabactani», alla formulazione semitica costui chiama Elia. Questo scherno sembra contenere una chiave di lettura: mettendo insieme il re dei giudei e la menzione di Elia [precursore del messia] si ottiene una scena messianica.


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Ma adesso andiamo a Giovanni, la formulazione giovannea ha due parti parallele: Gesù Il nazareno

Re Dei giudei

C’è un duplice passaggio: da Gesù a re, da nazareno a re dei giudei. Analogo passaggio lo troviamo all’inizio del Vangelo nella professione di fede di Natanaele. Filippo aveva annunziato a Natanaele: «Colui di cui scrissero Mosè nella legge ed i profeti abbiamo trovato: Gesù il figlio di Giuseppe da Nazareth». Sabato 21 gennaio 2006, ore 08,30 / 10,15 Accostando le due indicazioni: «Nazareno» e «Re dei giudei» l’evangelista sottolinea due aspetti: anzitutto lo scandalo della incarnazione, nel capitolo 7 si poneva il problema sulla origine del messia nei versi 40-44 nel problema se Gesù fosse il Cristo. L’obiezione che si poneva era l’origine galilaica. Si diceva che dalla Galilea non viene il Cristo perché le Scritture sottolineavano l’origine da Betlehem, il villaggio di Davide. Giovanni non menziona Betlehem, ma sottolinea l’origine galilaica di Gesù e lo scandalo che un galileo diventi il re dei giudei. La stessa obiezione aveva proposto anche Natanaele: da Nazareth viene qualcosa di buono? Ma come abbiamo visto Natanaele perviene alla professione di fede. La seconda osservazione è che in questo titolo Giovanni sembra riassumere la prospettiva che troviamo nei vangeli Sinottici. I sinottici infatti presentano un cammino di Gesù che parte dalla Galilea, da Nazareth ed arriva fino alla croce. In ogni caso il titolo della croce sottolinea il passaggio di Gesù dalla dimensione terrena alla dimensione ultraterrena: non si tratta però di un passaggio reale di Gesù, quanto piuttosto un passaggio nella comprensione degli uomini. Comprensione alla quale pervenne Natanaele, ma alla quale non pervennero i giudei. Si può notare come in lettura inversa della narrazione della passione, il titolo della croce soggiace al dialogo tra Gesù ed i giudei al Getsemani. I giudei cercano Gesù nazareno, cioè depennano la seconda parte del titolo della croce e relegano Gesù soltanto alla prima. Ma Gesù propone, mediante le parole «Io sono» la seconda parte, che però per i giudei suona come un giudizio e difatti scrive l’evangelista che indietreggiarono e caddero; si richiama 8,24: «se non credete che Io sono morirete nei vostri peccati». Segue subito dopo, nel verso 18 una descrizione che andrebbe da essere non poco illuminata. Scrive l’evangelista: «e con lui altri due, da qui e da lì, nel mezzo Gesù».


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Abbiamo commesso un errore, abbiamo spiegato il titolo della croce prima della descrizione dei due crocifissi perché difatti nel testo il titolo della croce è menzionato dopo con delle conseguenze che diremo. Giovanni concorda con tutti i vangeli nel dire che Gesù non fu crocifisso da solo. Si trattò perciò di una esecuzione capitale collettiva. C’è però qualche differenza rispetto ai sinottici ed è il fatto che mentre i sinottici si premurano di dire che erano malfattori, Giovanni ha tutta la cura di depennare questa parola. L’assenza di questa parola è la formulazione che lui usa cambia prospettiva: mentre nei vangeli sinottici la prospettiva era l’abbassamento di Gesù alla stregua dei malfattori, non senza riferimento al quarto canto di Isaia, Giovanni invece usa dinamica inversa: non abbassa Gesù alla stregua dei malfattori, ma innalza i due alla stregua di Gesù. Ma notiamo la formulazione, scorgiamo nel testo quattro elementi strutturabili in maniera concentrica nel seguente modo: 1 – con lui; 2 – altri due; 3 – da qui e da lì; 4 – nel mezzo Gesù. Nulla impedisce di ritenere storica questa indicazione: Gesù nel mezzo; però la formulazione così precisa sembra voler dire qualcosa di più. Il secondo e terzo elemento sottolineano la dualità, il primo e il quarto presentano invece dinamica complementare. Il primo elemento [con lui] esprime la relazione dei due a Gesù, il quarto elemento [nel mezzo Gesù] esprime la relazione di Gesù ai due. La scena globalmente è statica, analoga a quella delle donne presso la croce. Questo brano rivelerebbe il termine di un cammino di unità ecclesiale determinato da qualcosa descritta in 12,32: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». Emerge la terza descrizione di unità e le tre descrizioni andrebbero meglio accostate. Esse sono: 1 – le donne presso la croce; 2 – la tunica; 3 – i due crocifissi con Gesù [*]. [*] Senza dimenticare che questa descrizione andrebbe relazionata alla prima scena [all’inverso] dello spezzar le gambe in 19,32. Il titolo della croce messo dopo questa descrizione non riguarda solo Gesù, ma riguarda Gesù nel mezzo dei due crocifissi, si direbbe che la regalità di Gesù emerga nel fat-


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to che insieme a Lui ci sono altri due. Sembra che il titolo della croce sia una “didascalia” ad una icona, e l’icona è Gesù con gli altri due. Gesù realizza la sua regalità nel fatto che ha attirato a sé, e manifesta tutta la sua regalità nell’unità ecclesiale. Seguono altri elementi del tutto assenti nella narrazione sinottica: Primo elemento: nel verso 20 leggiamo che questo titolo «molti lessero dei giudei perché vicino era il luogo della città dove fu crocifisso Gesù». Ci permettiamo di questa frase alquanto elaborata di indicare soltanto qualche cosa. Notiamo anzitutto la struttura letteraria e in questa struttura partiamo dal verso 18: 1 – dove lo crocifissero; 2 – i due con Gesù; 3 – Gesù nazareno, re dei giudei; 4 – molti dei giudei lessero perché vicino era il luogo; 5 – dove fu crocifisso Gesù. In questo schema c’è la centralità del titolo della croce [3], il titolo della croce è menzionato tra due che fanno unità con Gesù [2] e i giudei della città che lessero il titolo, ma dei quali non si dice che uscirono [4]. Si potrebbe fare un confronto con il capitolo 4: i samaritani, dove si dice che all’annunzio della donna molti dalla città uscirono ed andavano a Gesù. Si scorgono qui due atteggiamenti opposti che troviamo anche nella descrizione della tunica e delle vesti, si può stabilire un confronto: 1 – i due crocifissi con Gesù 2 – molti dei giudei lessero

1 – la tunica 2 – la spartizione delle vesti

Si richiama ancora un testo chiave del Vangelo in 12,31-32: «adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo è gettato fuori ed Io quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». Il fatto dei due crocifissi con Gesù prosegue fino alla tunica. Il fatto dei giudei che lessero prosegue fino alla spartizione delle vesti. Globalmente però tutta questa descrizione ha un carattere: la manifestazione pubblica della regalità di Gesù. Qui si potrebbero fare diversi accostamenti: anzitutto col capitolo 10: «il pastore del recinto è sceso, ma le pecore non lo hanno seguito, sono rimaste chiuse»; si potrebbe fare un confronto con la lettera agli Ebrei: «Gesù morì fuori dalle mura»; si potrebbe fare un confronto con Romani 3, secondo cui «Dio ha costituito pubblicamente Gesù come vit-


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tima di espiazione per i peccati». Ma ecco ci fermiamo soltanto sul carattere pubblico del titolo della croce. Segue un altro elemento molto verosimile storicamente: le lingue usate nel titolo della croce. Sono tre: ebraico, latino e greco; è giusta l’osservazione che si tratta della lingua sacra [ebraico], della lingua imperiale [latino], e della lingua del mondo allora conosciuto [greco]. Di questo trilinguismo non parla alcun evangelista: alcuni codici lo riferirebbero anche alla narrazione lucana che però appare sospetta, è più facile che alcuni copisti vollero ampliare su Giovanni che non depennare. Il trilinguismo giovanneo serve però all’evangelista per un’altro aspetto, la regalità di Gesù assume un carattere universale. Segue infine il terzo elemento. Di fronte al titolo della croce c’è una reazione dei giudei. Nel verso 21 leggiamo: «dicevano a Pilato i sacerdoti dei giudei». L’imperfetto «dicevamo» assume un carattere iterativo [di ripetizione], evidentemente Pilato dovette subire delle pressioni da parte dei giudei che rivela quasi un atteggiamento coartante. Quello che i giudei dicono a Pilato anzitutto è il comando negativo: «

) », la versione latina offre una traduzione che si presta ad equivoci, traduce:

«noli scrivere», e le versioni italiane poi traducono: «non scrivere», ma questa traduzione è contraddizione perché Pilato ha già scritto. Nel testo greco abbiamo un imperativo presente preceduto dalla particella negativa. Il presente indica azione continua, la particella negativa interrompe la continuità della azione, cioè impedisce che una azione continui. Non dovremmo perciò tradurre «non scrivere», ma: «non lasciare scritto», «cancella», in questo modo i giudei chiedono che venga soppressa nel pensiero dell’evangelista la regalità di Gesù. questa espressione è l’ultimo tentativo delle tenebre di sopprimere la luce. I giudei propongono un’altra formulazione che suona così: «ma che lui disse: “re sono dei giudei”». Per capire questa frase bisogna distinguere tra la bocca dei giudei e la penna di Giovanni. In bocca ai giudei la frase vorrebbe essere il passaggio da una proclamazione oggettiva ad una pretesa soggettiva che marcherebbe di più il crimine di lesa maestà. Il crimine di Gesù è quello di avere preteso di essere re dei giudei, Pilato invece ha scritto in maniera oggettiva. Ma nella penna di Giovanni la frase ha un altro senso ed è carica di profonda ironia. Notiamo l’ordine delle parole: la parola «re» è predicato ed è messa prima della copula e di conseguenza riceve non poca enfasi. Il verbo «sono» richiama 8,28: «quando innalzerete il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io sono»: al momento della esaltazione avviene una conoscenza, in 8,24 poi si dice: «se non credete che “Io sono” morirete nei vostri peccati», cioè al momento della esaltazione c’è una conoscenza che deve tradursi in fede, altrimenti si muore nei peccati. Però né 8,24, né 8,28, dicono una cosa molto impor-


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tante: la fede presuppone la conoscenza [e fin qua ci siamo], ma la conoscenza cosa presuppone? È indispensabile la manifestazione. Paradossalmente i giudei volendo ridurre a semplice soggettività stanno affermando una realtà molto importante cioè “la manifestazione”. Avremmo allora il seguente sviluppo: Gesù si è manifestato; I giudei hanno conosciuto [molti lessero]; ma non hanno creduto. Paradossalmente alla professione di fede è pervenuto il pagano che dichiara: «Gesù nazareno re dei giudei». Si potrebbe in questo senso fare un accostamento con un elemento dei sinottici, cioè la professione di fede del centurione. Pilato risponde con le famose parole: «

» tradotte nella versione italiana: «ciò che ho scritto, ho scritto».

Queste parole potrebbero avere quel senso comune che usiamo anche noi per dire “ciò che è fatto, è fatto”; potrebbero, e lo avrebbero se storicamente queste parole sono vere [di cui nessun altro evangelista narra] il senso di una stizza: Pilato si è trovato suo malgrado in una vicenda che potrebbe essere spinosa, si è trovato tra l’incudine e il martello, sa di avere condannato un innocente, d’altra parte ha dovuto cedere perchè è stato ricattato: i giudei gli hanno detto che se lo libera non è amico di Cesare. Amico di Cesare non rimanda ad un rapporto personale con l’imperatore, ma ad una posizione privilegiata alla corte imperiale, come uno dei favoriti dell’imperatore. Non è detto che Pilato lo fosse [apparteneva all’ordine secondario dei cavalieri], ma è verosimile che ci aspirasse ed era rischiosissimo cadere in disgrazia del sospettoso Tiberio. È comprensibile che Pilato volesse chiudere la faccenda ed abbia detto quelle parole con questo senso, ma la formulazione giovannea rivela qualcosa di più «

che non una semplice stizza.

Abbiamo

due perfetti

», forse il primo verbo poteva essere espresso all’aoristo come inizio di

azione. I due perfetti rimarcano con molta enfasi la continuità dell’azione, quasi a dire: “ciò che Pilato ha scritto e rimane scritto, rimane scritto”. Questa sottolineatura nella penna di Giovanni sembra voler dire che il titolo della croce, una volta scritto continua ad essere scritto, non si cancella, di conseguenza il titolo della croce: «Gesù nazareno re dei giudei» è un titolo che rimane per sempre scritto, la regalità di Gesù non si sopprime. Emerge così la terza caratteristica del titolo della croce: pubblico, universale, definitivo, e nella storia umana rimane definitivo [con buona pace di chi nella storia ha cercato di sopprimerlo].


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CONCLUSIONI Le cinque scene che caratterizzano gli eventi al Calvario possono essere suscettibili di diverse letture: progressiva ed inversa. La lettura progressiva assumerebbe piuttosto il carattere di una presentazione storica, ma bisogna sganciarsi dalle materialità storiche perché il diverso ordine con cui gli evangelisti propongono i fatti rivela che la loro preoccupazione, prima di tutto, non è cronicistica, ma teologica. proponiamo un cammino inverso e ci sembra di scorgere un progresso dalla apertura del costato al titolo della croce. Il primo atto è l’apertura del costato dal quale sgorga sangue ed acqua. Segue poi la scena la seguente risalendo che è il dono dello Spirito e quindi la scena delle donne presso la croce. Dietro questo cammino, tra le tante immagini, sembra esserci anche quella dell’Adamo genesiaco. Dio prende una costola [ sù si apre la «

] e forma la donna che presenta ad Adamo; in Ge-

», si fonda la donna che è presso Gesù, questa donna presso la croce è

la donna-madre alla quale è affidato il discepoli. Nella terza, seconda e prima scena possiamo notare della dualità: 3 – i crocifissi ed i giudei; 2 – le vesti e la tunica; 1 – la madre ed il discepolo. C’è opposizione nella terza e nella seconda scena, unione nella prima. Ci sembra di scorgere la seguente linea: 3 – le donne presso Gesù = formazione dell’unità ecclesiale; 2 – la tunica = l’unità ecclesiale costituisce la tunica di Gesù; 1 – nell’unità ecclesiale Gesù manifesta la sua regalità. C’è perciò una linea continua dalle donne alla regalità. Scorgiamo un’altra linea, stavolta discendente, di diversa indole, stavolta però di giudizio. C’è nella prima scena [titolo della croce] il rifiuto dei giudei di accogliere la regalità di Gesù e c’è, nella scena seguente l’aspetto giudiziario nella spartizione delle vesti. C’è allora attorno al crocifisso un duplice dinamismo: di raduno e di giudizio: si tratta di quel potere di cui di parla nel capitolo 5; il duplice potere del Figlio dell’uomo di 1) dare la vita e 2) di compiere il giudizio.


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L’APOCALISSE DI SAN GIOVANNI Prof. ATTILIO GANGEMI a

[Tutti i giovedì del primo semestre – 5 ora: 12,20 / 12,55]

Giovedì 13 ottobre 2005, ore 12,20 / 12,55 Iniziando dagli aspetti più marginali diciamo subito che la distanza tra quarto vangelo ed apocalisse è notevole, sia come linguaggio, sia anche come prospettiva teologica. La parola apocalisse è parola greca « « «

» con la particella «

». Il verbo «

», essa deriva dal verbo » significa nascondere, la particella

» implica moto da luogo. Si tratta perciò di tirare fuori dal nascondimento, di rivelare,

quello che è nascosto. Il libro giovanneo si radica in tutto il filone apocalittico che è iniziato già nel secondo secolo a.C. con il libro di Daniele. Restando al nostro libro, per poterlo capire, è indispensabile avere presenti le seguenti cose: 1 – il filone apocalittico; 2 – la storia in cui il libro nasce; 3 – il linguaggio utilizzato; 4 – la tradizione neo-testamentaria a cui si ricollega. Cominciando da quest’ultimo punto, l’apocalisse si ricollega più all’escatologia neotestamentaria che non a quella del quarto vangelo. L’escatologia del quarto vangelo si compendia tutta o quasi nel mistero della croce; l’escatologia neotestamentaria invece è più storica. C’è il punto di partenza: l’evento del risorto; c’è un punto termine: il ritorno del Signore; e c’è infine il tempo intermedio. Nella caratterizzazione del tempo intermedio, l’autore di apocalisse sembra avere presente, o almeno è vicino alla parabola della zizzania, cioè la coesistenza di bene e di male. analogamente, per l’autore di apocalisse, il mistero satanico, già vinto nella resurrezione di Gesù, opera ancora nella storia fino alla parusia, quando sarà totalmente eliminato.


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Il linguaggio è tutto particolare, risente dello stile apocalittico che si serve di immagini e simboli per esprimere particolari realtà. In particolare il linguaggio della apocalisse per il 70-80% è tratto dall’AT. Però l’autore non cita un testo, ma possedendo tutto l’AT, spesso crea delle immagini che sono sovrapposizione di testi. Nell’interpretare tali immagini bisogna fare un lavoro lungo cercare di individuare i testi che ha in mente e ricostruire un cammino che porta alla formazione delle sue immagini. Qui però nasce una difficoltà: come si può capire quali testi lui ha in mente? Se citasse secondo i LXX, dal suo greco si potrebbe risalire al greco dei LXX, però oggi abbiamo certezza che il suo testo non è greco, ma è semitico. Qui si pone ancora un problema: è il testo ebraico, o il targum aramaico? Si aggiunge anche il rimando alla letteratura apocalittica, ed anche qui il problema di non possedere i testi originali. SFONDO STORICO L’apocalisse, come gran parte del NT, nasce in tempo di persecuzione, come la lettera agli ebrei, come la prima lettera di Pietro: e come una situazione di persecuzione, presuppongono molti passaggi evangelici. Le persecuzioni che la chiesa subì provennero all’inizio dal mondo giudaico, ma poi provennero dal mondo pagano. È famosa la persecuzione di Nerone, però quella di Nerone, [dove probabilmente morirono anche Pietro e Paolo], ma non fu la più grave, perché circoscritta solo a Roma… la persecuzione che Apocalisse presuppone è quella sotto Domiziano tra l’88 e il 96. Domiziano estese il culto imperiale a tutto l’impero pretendendo di essere chiamato: «Dominus noster et Deus». Si capisce la violenta polemica dell’autore della apocalisse, che gli contesta in quanto è solo l’Agnello il Re dei re e il Signore dei signori. L’autore si rivolge alle sue chiese perseguitate, rivelando il senso di quella persecuzione e rileggendola alla luce del mistero di Cristo. In 1,9 l’autore si presenta: «io Giovanni, vostro fratello, e compartecipe nella tribolazione, nel regno e nella costanza». Queste tre parole, messe all’inizio, gettano un po’ luce sul senso di tutto il libro. C’è una tribolazione ed è quella che era stata preannunziata da Daniele [12,1]. Ma questa tribolazione deve essere vissuta alla luce del Regno e di conseguenza, in questa tribolazione non si può defezionare, ma bisogna restare saldi e perseverare.


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Anche l’autore pare condividere la situazione di persecuzione; in 1,9, scrive che si trovò nell’isola di Pathmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Il genitivo «di Dio» è soggettivo: Dio che parla. Di conseguenza, il genitivo «di Gesù» sarà pure soggettivo: non si tratta perciò della testimonianza resa a Gesù Cristo, ma della testimonianza che Gesù Cristo rende a noi. Giovedì 20 ottobre 2005, ore 12,20 / 12,55 Il contesto di persecuzione che costituisce il background del libro emerge con notevole frequenza in tutto il libro stesso. Nel capitolo 1, l’autore con un suo linguaggio particolare, introduce la figura di Gesù. La descrive con immagini in sé stesse irreali. Lo presenta rivestito di una veste talare, cinto ai fianchi di una fascia di oro e sul suo capo capelli bianchi come lana bianca. I suoi occhi come fiamma di fuoco, i suoi piedi come bronzo splendente e la sua voce come voce di molte acque. Aveva nella sua destra sette stelle, dalla sua bocca usciva come una spada a doppio taglio, acuta, e il suo volto come splende il sole in tutta la sua forza. Questa descrizione è chiaramente irreale, essa risulta da una serie di testi presi dall’AT e riferiti a Cristo. All’autore non interessa la coerenza delle immagini, bensì la loro convergenza verso un punto centrale che è l’aspetto glorioso della persona che si sta manifestando. Più interessanti sono le parole che questo personaggio rivolge all’autore veggente. Le parole sono: «Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente, divenni morto ma ora sono il vivente nei secoli dei secoli ed ho le chiavi della morte e degli inferi». Questa visione, messa all’inizio, vuole essere la chiave di lettura della situazione delle chiese. L’espressione «primo ed ultimo» è ripresa da tre testi del Deutero-Isaia (41,4; 44,6; 48,12). Nel Deutero-Isaia, l’espressione «primo ed ultimo» è riferita a Dio in un contesto di polemica contro gli idoli. Dio lancia contro gli idoli come una sfida per sapere chi è il vero Dio. Nella lista delle divinità, Dio risulta il primo, ma risulta anche l’ultimo, esaurisce perciò tutta la lista delle divinità e può concludere che, al di fuori di Lui, non ci può essere altra divinità.


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L’autore riferisce questa espressione a Cristo, però aggiunge che Egli è il vivente. In questo modo reinterpreta l’espressione: «Egli è i primo dei viventi e fuori di Lui, non ci può essere vita». Ciò costituisce un messaggio importante per le chiese perseguitate che vivono il dramma della travagliata fedeltà, e la tentazione di defezionare da Cristo molto forte, ma, in questo caso, l’autore ricorda che defezionare da Lui significa piombare nella morte. Ma Gesù è anche modello e testimone dei cristiani. Anche Lui ebbe l’esperienza che i cristiani provano, donde le parole che abbiamo citato: «divenni morto», ma la conseguenza di Cristo è stata la vita, donde le parole: «sono il vivente nei secoli dei secoli». L’autore afferma due cose: anzitutto, che in seguito alla morte, Cristo è divenuto il vivente, il vivente per eccellenza e perciò la fonte della vita. Non solo, ma ha acquistato potere sulla stessa morte e sulla sua causa, l’Ade. In questo modo, l‘autore rilegge il dramma della persecuzione che, come abbiamo detto, è menzionata diverse volte. Nel secondo messaggio alla chiesa di Smirne, l’autore, dopo avere elogiato quella chiesa per la sua fedeltà annunzia che Satana sta per gettare alcuni in carcere ed avranno tribolazioni dieci giorni. Possiamo fermarci su questi particolari, la tribolazione che storicamente coincide con la persecuzione è la tribolazione escatologica di cui aveva parlato Daniele. I dieci giorni sono un’immagine ripresa dal capitolo 1 di Daniele. Leggiamo in quel capitolo che, tre giovani portati alla corte di Nabucodonosor, chiesero di non mangiare le vivande del re con cibi proibiti dalla legge. Loro chiesero di mangiare legumi e chiesero di essere messi alla prova per dieci giorni. L’autore di Apocalisse riprende il numero di dieci giorni, ma non indica più il tempo materiale, bensì diventa un tempo emblematico in cui si attua la tentazione e la tribolazione. Però sono dieci giorni, un tempo cioè relativamente breve, e soprattutto un tempo che ha una durata limitata. Donde l’esortazione dell’autore alla chiesa di Smirne: «rimani fedele fino a morire» il premio di tale fedeltà sarà la vita che l’autore descrive in due aspetti: positivo: la corona della vita e, negativo: non essere lesi da morte seconda [espressione usata dal Targum palestinese del Deuteronomio]. La morte seconda nel linguaggio del nostro autore è quella morte dalla quale non si risorge. La persecuzione è menzionata ancora nella terza lettera a Pergamo, dove l’autore ricorda la fedeltà di questa chiesa: «anche nei giorni di Antipa, mio testimone fedele che fu ucciso dove satana abita».


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Un altro testo che possiamo citare è 6,9: «all’apertura del quinto sigillo si sentono le parole delle anime sgozzate a causa della Parola di Dio che implorano: “fino a quando, o padrone, santo e verace non giudichi e vendichi il nostro sangue da quelli che abitano sulla terra?”». Furono date a loro delle vesti bianche e di attendere ancora un poco finché non si sarebbe completato il numero dei fratelli uccisi come loro. Nel capitolo sette, a riguardo della grande moltitudine, che grida la propria salvezza davanti al trono di Dio, si spiega che essi vengono dalla grande tribolazione ed hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello. Nel capitolo 17, non senza allusione a Roma, l’autore parlerà della grande prostituta ubriaca del sangue dei santi e dei testimoni di Gesù. Non indugiamo ulteriormente in questi elementi, soltanto che l’autore risponde e spiega a partire da Cristo e dal suo mistero. Ma quale Cristo? quello che si sperimenta nella liturgia: l’apocalisse è opera fortemente liturgica. Giovedì 27 ottobre 2005, ore 12,20 / 12,55 LE SETTE LETTERE Nei capitoli 2 e 3, l’autore introduce sette lettere o sette messaggi. Questi messaggi partono dalla visione del capitolo 1. L’autore, infatti, in 1,10 scrive: «divenni in Spirito nel giorno del Signore ed udii dietro a me una voce grande come di tromba». L’espressione “divenni in spirito” riprende e smorza il linguaggio della letteratura apocalittica. In questa letteratura domina l’aspetto del sogno o della visione in cui il veggente contempla una realtà che poi descrive. Si capisce che nell’apocalittica è semplicemente un artificio letterario. Il veggente deve indicare da dove ha preso quelle realtà che lui descrive. Spesso si tratta di sogni e visioni abbastanza materializzate. L’espressione del nostro autore “divenni in spirito” è molto più sfumata: non ha nulla della materialità della letteratura apocalittica; facilmente la si può ricondurre ad un aspetto di contemplazione che gli permette però al di là della situazione materiale esterna il senso profondo contenuto in quella realtà. Tale contemplazione avviene nel giorno del Signore, cioè il giorno in cui attraverso i riti liturgici, si fa memoria del Signore risorto. Sembra di potere cogliere in questo modo una particolare metodologia: la contemplazione dei segni esterni che permette di cogliere il senso profondo e così dietro la lettura esterna si scorge il Signore che parla, che si presenta come il Signore delle sue Chiese, profondo conoscitore della loro situazione al-


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le quali, per mezzo della mediazione dell’autore, anche lui pastore di quelle comunità, un messaggio di sostegno. L’autore è invitato a “scrivere ciò che vede” e inviare alle sette Chiese la voce udita e la voce udita è come di tromba: l’immagine della tromba è presa dalle teofanie dell’AT ed evoca la potenza. Le sette Chiese sono insieme reali e simboliche. Sono simboliche perché il numero sette evoca la totalità delle Chiese ma esse sono concrete perché l’autore le elenca singolarmente. Esse sono Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea. Queste sette Chiese sono elencate in un circolo che si affaccia sulla costa occidentale dell’attuale Turchia. Un’osservazione è importante: in tutte queste lettere l’elemento costante è il richiamo ad una maggiore fervorosità cristiana; ciò si spiega bene se non c’è tale fervore resterà difficile restare fedeli a Cristo nella persecuzione. Dal capitolo IV in poi l’autore si addentrerà nel mistero che soggiace dietro la situazione delle Chiese. Prima però è importante rimotivarsi nella fedeltà. Tutte le lettere hanno i seguenti elementi costanti: 1. l’espressione “All’angelo di … scrivi” 2. il messaggio concreto introdotto dalla formula profetica “così dice il Signore”. Si introduce dopo quella formula un titolo cristologico: in ciascuna lettera il Signore è presentato in prerogative diverse, quasi tutte riprese dalla visione iniziale del capitolo primo. Segnaliamo soltanto il quarto (a Tiatira) il Figlio di Dio e il settimo (a Laodicea) il testimone degno di fede e verace. 3. il messaggio specifico introdotto dal verbo “conosco”: il Signore rivela di conoscere bene la situazione di ciascuna Chiesa. 4. in alcune lettere (la prima, la terza, la quarta, la quinta, la settima) cioè tutte tranne la seconda e la sesta c’è l’esortazione alla conversione. 5. si introduce il premio promesso “al vincitore”. 6. l’espressione un po’ misteriosa “chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. In questo contesto la frase è misteriosa ma si illumina alla luce di 22,17 dove leggiamo le parole: «lo Spirito e la Sposa dicono: vieni». Ciò che lo Spirito perciò dice alle Chiese è l’anelito verso il ritorno del Signore, ottica centralissima dell’Apocalisse.


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Non possiamo scendere nel dettaglio, ci limiteremo soltanto a delle osservazioni generali sui sette messaggi e sui sette premi. I sette premi sono i seguenti: 1. al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita che è nel paradiso di Dio (ad Efeso) 2. il vincitore non sarà mai leso dalla morte la seconda. Prima però l’autore aveva parlato della corona della vita. 3. al vincitore darò la manna nascosta e darò a lui un sassolino bianco e sul sassolino un nome nuovo, scritto che nessuno conosce se non chi lo riceve. 4. al vincitore darò un potere sulle genti e le guiderà con verga di ferro (Salmo 29) come anch’io ho ricevuto dal Padre mio e darò a lui la stella mattutina. 5. il vincitore camminerà in vesti bianche e non cancellerò il suo nome dal libro della vita e confesserò il suo nome davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. 6. il vincitore lo farò una colonna nel Tempio del mio Dio e fuori non ne uscirà mai e scriverò il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, la nuova Gerusalemme… e il mio nome nuovo. 7. al vincitore darò da sedersi sul mio trono come anch’io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono (Salmo 110). Giovedì 10 novembre 2005, ore 12,20 / 12,55 Possiamo allora cogliere attraverso i sette premi alle sette chiese tre prospettive tematiche: 1 – la vita. Questo tema si trova nella prima lettera dove è promesso che al vincitore sarà dato da mangiare dell’albero della vita e negativamente nella seconda lettera dove è promesso al vincitore che non sarà leso da morte seconda. Il tema della vita sarà ripreso nella quinta lettera dove al vincitore è promesso che non sarà cancellato il suo nome dal libro della vita. 2 – il secondo tema è quello di una realtà nuova così nella terza lettera a Pergamo è promesso un nome nuovo che nessuno conosce se non chi lo riceve. Nella sesta lettera a Filadelfia è promesso il nome della Gerusalemme nuova che scende dal cielo e Gesù promette il Suo nome nuovo. 3 – il terzo tema è infine quello della compartecipazione alla regalità di Cristo espresso nella quarta lettera mediante il Salmo 2: «al vincitore sarà dato potere sulle genti e


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le reggerà con verga di ferro». Nella settima lettera al vincitore, col linguaggio del Salmo 110 è promesso di sedersi sul trono di Gesù come lui si è seduto sul trono del Padre suo. Riassumendo avremmo: 1 – vita: 1, 2, 5 lettera; 2 – la novità: 3 e 6 lettera; 3 – compartecipazione al regno: 4 e 7 lettera. Questi tre aspetti rimanderanno poi alla descrizione della Gerusalemme celeste nei capitoli 21-22. Allora chi promette è il Signore Gesù i cui titoli sono ripresi dalla visione del capitolo primo. I premi sono proiettati verso la Gerusalemme celeste. La vita concreta delle chiese è perciò collocata e si sviluppa tra l’evento del Signore risorto e l’avvento della Gerusalemme celeste alla venuta del Signore. in questo tempo le chiese sono impegnate su due fronti, da una parte mantenere la fedeltà a Cristo, dall’altra rivedere sempre più il loro fervore interno. Il messaggio intermedio che incomincia con l’espressione «conosco le tue opere», è un messaggio positivo e negativo insieme. È positivo in quanto le chiese sono lodate per le loro opere di fedeltà, è negativo in quanto sono biasimate per le loro eventuali infedeltà. Dove c’è rimprovero per le infedeltà, c’è anche il verbo all’imperativo: convertiti. Abbiamo il seguente ordine: 1 – chiesa di Efeso: più elogi, meno rimproveri; 2 – chiesa di Smirne: tutta elogi; 3 – chiesa di Pergamo: meno elogi e un po’ più di biasimi; 4 – chiesa di Tiatira: elogi e biasimi si equivalgono; 5 – chiesa di Sardi: ancora meno elogi, più biasimi; 6 – chiesa di Filadelfia: solo elogi; 7 – chiesa di Laodicea: solo biasimi. La seconda e la sesta chiesa: Smirne e Filadelfia ricevono solo elogi, le altre cinque hanno biasimi ed elogi in un regresso che culmina nella settima lettera a Laodicea, dove Gesù minaccia di vomitarla dalla sua bocca non essendo né calda né fredda. Domina in queste lettere una idea di fondo: per potere affrontare la persecuzione che Satana scatena, la prima cosa da fare è quella di rafforzare all’interno la propria fedeltà.


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LA SECONDA PARTE DELLA APOCALISSE La seconda parte và da 4,1 a 22,20. È interessante come inizia il testo di 4,1, l’autore scrive: «dopo ciò vidi una porta aperta in cielo e la voce che udii prima diceva: “ti mostrerò cosa deve accadere”». Il linguaggio di questa espressione è ripreso dalla letteratura profetica, ma a noi interessa sottolineare i seguenti argomenti: 1 – la porta in cielo; 2 – l’invito a salire; 3 – la promessa di percepire le cose che debbono accadere. Il linguaggio è tipicamente apocalittico, ma in un contesto liturgico non è da materializzare. Finora l’autore ha descritto il messaggio che emana dalla presenza del Signore sperimentato in assemblea liturgica. Le tre espressioni indicate al di là del linguaggio, è come il contenuto confermerà, sembrano guidare all’interno del mistero che si celebra e leggere a partire da esso tutto il senso della storia. In questi capitoli vorremmo anzitutto indicare due parti: i capitolo 4 e 5 e il testo finale di 22,17-21. I capitoli 4 e 5 sono la grande manifestazione dell’agnello in prospettiva gloriosa. Questi due capitoli sono costruiti, salvo errore, sullo schema di una antica anafora liturgica, come anche i versi finali esprimono l’anelito verso il ritorno del Signore. Emergono le due dimensioni della chiesa costruita sul Signore risorto e proiettata verso il suo ritorno. Cominciamo dalla fine, nei versi 17,21, togliendo alcune parti si ottiene una strofa di indole liturgica: 1 – lo Spirito e la sposa dicono: vieni; 2 – chi ascolta dica: vieni; a. chi ha sete venga; b. chi vuole prenda acqua di vita gratis; […] salta i versi 18 e 19; 3 – dice colui che testimonia queste cose: si vengo presto; 4 – Amen, vieni Signore Gesù. Emerge subito una strofa poetica, saltiamo i versi 18, 19 e 21 perché sono pesantissima prosa e contengono delle minacce a chi manomette il libro, sia togliendo che aggiungendo. Questi versi dovevano essere all’origine un bigliettino con cui l’autore accompagnò


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la sua opera invitando a non manometterla, il copista seguente inserì tutto nel testo. Fermiamo la nostra attenzione sui sei versi proposti ed anche qui c’è da fare una critica. Giovedì 17 novembre 2005, ore 12,20 / 12,55 Prescindendo dalle aggiunte dei versi 18, 19 e 21, che sono chiaramente delle aggiunte restano sei versi. Guardiamo il terzo e il quarto che sono poeticamente perfetti: «chi ha sete venga, […] chi vuole prenda acqua della vita gratis», queste due frasi sono in parallelo: chi ha sete sta in relazione a chi venga e questo chi ha sete è invitato a venire, ma questo distico di per sé stona perchè introduce un cambiamento di prospettiva, mentre negli altri versi chi viene è il Signore adesso chi viene è colui che ha sete. Questo distico starebbe bene in bocca ad un presidente di assemblea che invita la sua comunità ad accedere: «chi ha sete venga». Simile invito lo si trova anche nell’opera contemporanea o quasi nella didachè dei dodici apostoli. Tuttavia nulla autorizza a depennare queste parole. Allora l’ipotesi che avanziamo è che l’autore abbia preso un distico poetico e l’abbia inserito in una strofa di quattro versi. La strofa deriva ed è uno sviluppo sull’antica invocazione aramaica «

» [maranathà] conservataci in prima Corinzi 16 e nella didachè. È difficile

spiegare questa formula perché può intendersi in diversi modi, fra l’altro a noi è giunta traslitterata in greco e perciò le lettere aramaiche le ricostruiamo noi, in ogni caso «

» in

aramaico è Signore. «

» in

aramaico è pronome, resta il verbo «

» che è quello che

corrisponde all’ebraico «

».

Questo storia di quattro versi è un antico sviluppo della formula «maranathà».


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I CAPITOLI 4 E 5 I capitoli 4 e 5 sembrano costruiti da una antica anafora liturgica dove possiamo distinguere i seguenti elementi: 1 – lo sfondo liturgico [quello che i liturgisti chiamano il luogo liturgico] questo sarebbe costituito dalla descrizione del trono nei versi 1-3 e anche da uno sfondo di assemblea liturgica costituito dalla figura dei ventiquattro anziani e dei quattro esseri viventi. Questi quattro esseri viventi hanno il volto di leone, di toro, di uomo, di aquila [da questa immagine si è presa la denominazione dei quattro evangelisti]. 2 – il canto dei ventiquattro anziani: «santo, santo, santo, il Signore Dio onnipotente che era, che è e che viene» una storia di traversi con tre accenti. 3 – segue nel verso 11 la prima assiologia [inno di lode], questa lode è rivolta al Dio creatore, e suona così: «sei degno o Signore e Dio nostro di prendere la gloria, l’onore e la potenza, poiché Tu hai creato tutte le cose e per la Tua volontà erano e furono create» 4 – [5,1-8] “La grande manifestazione dell’agnello” 5 – seconda assiologia rivolta all’agnello redentore con le seguenti parole: «sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli poiché sei stato immolato ed hai comprato per Dio con il Tuo sangue li hai fatti per il nostro Dio un regno e sacerdoti e regneranno sulla terra». 6 – un’altra assiologia all’agnello: «è degno l’agnello immolato di ricevere la potenza […]»; 7 – la dossologia finale: «a colui che siede sul trono e all’agnello benedizione, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli»; 8 – i quattro viventi rispondono «amen» e gli anziani adorarono. Manca la cena, ma della cena l’autore non ne può parlare perché la cena con il pane e con il vino è tipica della terra. L’autore sta descrivendo con lo schema di una liturgia terrena una liturgia in cielo ed in cielo non ci sono i segni sacramentali, ma c’è la realtà. La seconda osservazione è che ancora una volta si sottolinea che il background, il punto su cui poggia tutta l’apocalisse è il mistero di Cristo celebrato nella liturgia. Nella prospettiva di una liturgia celeste possiamo considerare la comparizione dell’agnello. Ci limitiamo a pochissime osservazioni: il problema dell’autore è “chi può prendere il libro ed aprirne i sigilli?”, cioè chi può essere il Signore della storia e chi può dare un senso alla storia che è come un libro chiuso? L’autore stesso narra con linguaggio apocalittico che lui pianse perché nessuno fu trovato degno. Uno degli anziani che lo accompagnava gli risponde: «cessa di piangere, ecco ha vinto il leone dalla tribù di Giuda, la radice di Davide sì da aprire il libro ed i suoi sette sigilli». L’espressione «leone dalla tribù di Giuda, radice di Davide» è


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il risultato di una fusione tra Genesi 49: «un leoncello è Giuda», ed Isaia 11,1: «spunterà un virgulto dalla radice di Iesse». Di questo leone si sottolinea una vittoria, la vittoria presuppone una guerra, dalla quale però uscì vincitore ed in seguito a questa vittoria né diventò capace di prendere il libro. Emerge il problema: “qual è questa guerra? Qual è questa vittoria? Perché diventò capace di prendere il libro?”. La risposta a queste domande và cercata nei versi seguenti 6-8. Giovedì 24 novembre 2005, ore 11,30 / 12,15 Nei versi 6-8 l’autore descrive una visione: egli vede in mezzo al trono, in mezzo ai quattro viventi ed in mezzo agli anziani. Notiamo questa descrizione a cerchi concentrici. C’è il trono nello sfondo, c’è attorno al trono il primo cerchio dei quattro viventi, c’è poi il secondo cerchio, quello dei ventiquattro anziani. In questo sfondo l’autore descrive l’oggetto della sua visione, l’oggetto è un agnello di cui si danno due indicazioni che però è utile considerare in lingua greca. La prima indicazione è costituita dal termine « la seconda indicazione è costituita dal termine « ) participio perfetto dal verbo « %

». Il primo termine «

», »è

». Questo verbo al perfetto ha un valore di presente.

Lo traduciamo «stante», esso però può anche indicare la posizione eretta: una persona che prima era adagiata e supina ora sta, cioè assume una posizione dritta. Il secondo elemento « )

» è anch’esso un participio perfetto dal verbo « ) ' » che significa “sgozza-

re, immolare”. I due verbi esprimono aspetti diversi, il primo dà l’idea di chi sta eretto, in piedi, il secondo invece dà l’idea di chi è supino: un animale ucciso infatti sta sdraiato, non sta dritto. I due verbi sembrano così richiamare i due aspetti del mistero di Cristo: l’aspetto della immolazione e l’aspetto della glorificazione. Ciò è confermato dalla rilettura all’inverso degli elementi: 1 – immolato; 2 – stante; 3 – trono. Troviamo così implicitamente delineato il cammino di Gesù dalla immolazione al trono di Dio. Osserviamo però ancora l’espressione «stante come immolato»: i due aspetti che noi abbiamo messo in forma di successione dall’autore invece vengono quasi sovrapposti. Emerge un aspetto particolare: l’immolazione, espressa con un perfetto che indica


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azione iniziata ma che continua, appare non come un fatto passato, ma come un fatto che perdura, non nel senso che l’immolazione si ripete, ma nel senso che l’immolazione è un fatto che perdura. Essa perdura in un agnello che sta, cioè che non vive la situazione di morte, ma che vive una situazione di vita. I due verbi messi insieme ci danno l’idea dell’agnello la cui immolazione permane come un fatto glorioso, cioè si prolunga nella sua storia. Si tratta dell’agnello che permane nell’immolazione in una situazione di gloria, cioè permane immolato non in una situazione di morte, ma nella situazione di chi ha superato la morte. Ma possiamo continuare a considerare la descrizione dell’agnello, esso ha sette corna e sette occhi che l’autore identifica con i sette spiriti di Dio inviati su tutta la terra. Le sette corna evocano la potenza, prima però di considerare l’elemento degli occhi, leggiamo il verso 7 dal capitolo 5: «venne ed ha preso dalla destra del Sedente sul trono». Il verbo «ha preso» [ $ ) ] è una forma di perfetto dal verbo «

&

». È importante

questa forma al perfetto. Nel verso seguente, verso 8, l’autore scrive: « $ &

&&

»,

cioè ha un verbo all’aoristo ed ha l’oggetto. Il verbo « $ ) » del verso 7, indica una azione che avvenuta, permane. L’agnello perciò ha preso [oppure ha ricevuto] qualcosa in maniera stabile che non può essere il libro; dopo, nel verso 8, l’autore parlerà del libro, ma con l’aoristo, rimandando così ad una azione puntualizzata e precisa. Nel verso 7 il libro non c’è, esso non è attestato da nessuno dei migliori codici greci, ma da qualche codice greco tardivo, dalla versione volgata e da qualche recensione della versione siriaca. Se ci mettiamo l’oggetto libro, svuotiamo tutta la forza del perfetto « $ ) ». L’agnello ha preso qualcosa che conserva in maniera stabile: in quello che ha preso rientra anche il libro ma non si identifica col libro. Un oggetto lo possiamo trovare in 2,28, dove l’autore usa un’altra volta questo verbo al perfetto, nella frase seguente: «il vincitore […] darò a lui un potere sulle genti e li pascerà con scettro di ferro, come si spezzano i vasi di creta come anch’io ho preso da parte del Padre mio». Secondo questo testo Gesù ha preso dal Padre un potere sulle genti. Ma la frase è ancora più profonda, per comodità la riscriviamo: «venne ed ha preso dal sedente sul trono». Questa frase risulta da un mescolamento di Daniele 7,14 e del Salmo 110. Il mescolamento di Daniele 7 col Salmo 110 si trova anche altrove nel Nuovo Testamento, basti per esempio citare le parole di Gesù nel processo davanti al sinedrio secondo i vangeli sinottici. In Daniele 7, dopo la visione delle quattro bestie, si narra la visione di «un simile a figlio di uomo» che venne con le nubi del cielo, giunse presso l’antico dei


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giorni [Dio] e gli fu dato potere, onore e regno, tutti i popoli lo serviranno. In Daniele 7 si ha un movimento ascensionale [i vangeli sinottici nei testi citati modificheranno in processo discensionale per indicare la parusia]. L’agnello che viene ed ha preso dalla destra del sedente sul trono, ha pure, come Daniele, un movimento ascensionale, quindi i due testi coincidono. Però l’espressione «dalla destra» non richiama Daniele, ma il Salmo 110 che nella fede primitiva fu usato per esprimere la glorificazione pasquale: Gesù risorto sedette alla destra di Dio. Tendendo conto di tutti questi elementi, l’espressione «venne ed ha preso dalla destra del sedente sul trono», esprime perciò, come conferma il testo di 2,28 citato, l’esaltazione pasquale dell’agnello: dalla destra del sedente sul trono l’agnello ha preso anche il libro, come si dirà dopo, ma ha preso qualcosa di più ampio: il potere, la gloria, il regno: cioè Gesù ha preso la gloria stessa di Dio per cui è abilitato a prendere il libro. Alla luce di quanto abbiamo detto possiamo rileggere tutta la scena della comparizione dell’agnello. Notiamo nel testo cinque elementi disposti in maniera concentrica: 1 – in mezzo al trono; 2 – stante; 3 – come immolato; 4 – avente sette corna e sette occhi che sono i sette spiriti; 5 – ha preso dalla destra del Sedente sul trono. Giovedì 15 dicembre 2005, ore 12,20 / 12,55 Lo schema che abbiamo proposto mette in evidenza il mistero dell’agnello, lo sfondo è il trono. Il secondo e il quarto elemento richiamano l’aspetto della glorificazione, al centro è espresso il mistero della passione. Emergono perciò tre aspetti: 1 – la passione; 2 – la resurrezione [stante] che richiama anche il dono dello Spirito; 3 – la menzione del trono. In questa descrizione, l’autore ha presente la fusione neotestamentaria di Daniele 7 con il Salmo 110. Da Daniele 7 deriva la nozione del trono, in Daniele 7,14 infatti si dice che il simile a Figlio di uomo andò verso l’antico dei giorni e gli fu dato il potere, la gloria e il regno. In questa prospettiva di glorificazione si colloca il verso 8 dove è descritto il fatto che l’agnello prese il libro. L’immagine del libro, come abbiamo già indicato è abba-


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stanza complessa, si può intendere globalmente nel senso che l’agnello glorificato è ormai l’interprete della storia: Egli è il Signore della storia ed alla Sua luce si può leggere il suo significato. Emerge perciò in tutto il capitolo 5 una duplice prospettiva, quella anzitutto dell’agnello sacrificato che fu ucciso, ma che superò la morte e l’altra prospettiva che emerge è quella dell’agnello interprete della storia. Possiamo allora capire qual è il senso della vittoria dell’agnello, in 5,5 si dice che ha vinto il leone dalla tribù di Giuda si da prenderne il libro ed aprirne i sigilli, la sua vittoria consiste nel fatto che ha superato la morte, però il verbo vincere esige una lotta di cui l’autore, in questo contesto non parla, ma di cui parlerà soprattutto al capitolo 12. Quanto abbiamo detto del capitolo 5 è sufficiente, nei capitoli seguenti, soprattutto il capitolo 6, si parla della apertura dei sette sigilli del libro. Nei primi sei sigilli l’autore introduce quasi i personaggi di un dramma, i primi quattro determinano la manifestazione di quattro cavalli, linguaggio ripreso da Zaccaria, e questi cavalli sono: 1 – cavallo bianco; 2 – cavallo rosso; 3 – cavallo nero; 4 – cavallo verde. Al momento ci interessa soltanto l’identificazione che suggerisce l’autore. Del primo cavallo, quello bianco, del suo cavaliere si dice che aveva un arco, gli fu data una corona ed uscì vincente e per vincere ancora. Possiamo rileggere questi quattro elementi in maniera progressiva: 1 – l’immagine dell’arco richiama una guerra; 2 – l’immagine della corona richiama una vittoria; 3 – è importante l’espressione «uscì vincente»; 4 – c’è nel futuro un’altra vittoria. Questi quattro elementi descrivono una storia: 1 – il cavaliere bianco dovette sostenere una lotta; 2 – sulla quale riportò vittoria, 3 – egli uscì vincente. Facilmente in questi tre elementi si può scorgere il mistero di Cristo che sostenne una lotta, nella quale però riportò vittoria, la vittoria ha due momenti: si tratta di una vitto-


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ria già avvenuta, ma c’è anche una vittoria futura. Facilmente in queste due vittorie si può scorgere la duplice vittoria di Cristo, pasquale ed escatologica che l’autore descriverà nei capitoli 18-20. Il secondo cavaliere ed il secondo cavallo ha il compito di togliere la pace dalla terra e far sì che gli uomini si uccidano e gli fu data una spada. Del terzo cavaliere si dice che ha in mano una bilancia. Il quarto cavaliere è identificato con la morte e l’inferno, scorgiamo in questi quattro primi cavalieri un progresso tematico che deve essere anche letto alla luce dei discorsi escatologici dei vangeli sinottici: Gesù ha parlato di guerre ed alla fine c’è il giudizio. Emerge così lo sviluppo di un giudizio di condanna che si compie nella storia. Il punto di partenza è il mistero di Gesù, segue poi nella storia l’agitazione degli uomini ai quali è dato di togliere la pace dalla terra. In questa prospettiva può anche entrare la situazione presente della persecuzione dei santi, ma alla fine ci sarà un giudizio [terzo cavaliere, la bilancia] che si concluderà con un giudizio di condanna. Siamo perciò in tema apocalittico di un giudizio negativo che si compie nella storia a partire dal mistero di Cristo. È importante l’apertura del quinto sigillo, in seguito alla quale l’autore veggente vede sotto l’altare le anime degli sgozzati a causa della Parola di Dio e della testimonianza che avevano, l’autore riferisce la preghiera dei santi: «fino a quando o Padrone Santo e verace, non giudichi e vendichi il nostro sangue su quelli che abitano sulla terra?». È importante la relazione tra altare e preghiera dei santi, si richiama il salmo 140: «salga come incenso la mia preghiera». La risposta data ai santi è la seguente: «fu dato a ciascuno una veste bianca e fu detto di attendere ancora un poco finché non si fosse compiuto il numero dei servi che dovevano essere uccisi come loro». Emergono allora tre cose: 1 – la presenza di un giudizio nella storia che parte dalla vittoria di Cristo; 2 – tale giudizio nella storia è sollecitato dai santi che chiedono a Dio di vendicare il loro sangue; 3 – l’attuazione del giudizio esige che prima si completi il numero dei santi che debbono essere uccisi. Interpretiamo a quadri queste descrizioni e globalmente abbiamo la presentazione degli elementi che costituiscono il giudizio escatologico. Il sesto sigillo introduce con un linguaggio particolare, preso dalla letteratura profetica ed apocalittica, il grande annunzio del giudizio che deve compiersi. L’autore però non descrive ancora questo giudizio ma, quasi come un’oasi di pace, introduce la visione del capitolo 7 con i centoquarantaquattromila segnati e la visione della grande moltitudine che nessuno poteva contare.


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