San Paolo e lettere

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FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO - CATANIA -

Chiar.mo Prof. ATTILIO GANGEMI

ESEGESI NT: S. PAOLO E LETTERE

_______ APPUNTI DELLE LEZIONI

_______

Ezio Coco

Anno Accademico 2004 / 2005


Esegesi NT: S. Paolo e lettere - Prof. ATTILIO GANGEMI – A.A. 2004 / 2005 – Coco Ezio

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Triennio Teologico – 2° anno – secondo semestre – Gesù Redentore dell’uomo

Programma del Corso di Studi in ESEGESI NT: S. PAOLO E LETTERE1 1. La figura di Paolo nelle Lettere e nel libro degli Atti degli Apostoli; 2. Sviluppo del pensiero paolino attraverso le varie lettere; 3. Paolo e la tradizione primitiva; 4. Esegesi di Filippesi 22,6-11.5; 5. Le tematiche delle due lettere ai Corinzi; 6. Le lettere ai Romani e ai Galati: il problema generale; il tema del superamento della legge della giustificazione in Cristo; esegesi di Romani 5,1-11.7. La lettera agli Efesini: il mistero nascosto nei secoli; esegesi di Efesini 1,3-14.18. La lettera agli Ebrei: il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek; esegesi di Ebrei 5,1-10 ed Ebrei 10,1-18. Testi: A. ROBERT - A. FEUILLET, Introduction à la Bible, II, Desclée, Tournai 1959; S. CIPRIANI, Le Lettere di Paolo, Cittadella, Assisi 1991; Dispense del professore. prof. ATTILIO GANGEMI

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STUDIO TEOLOGICO SAN PAOLO, Annuario 2004-2005, Tipolitografia Anfuso, Catania giugno 2004, 62. PS: Per visualizzare e stampare correttamente questo documento nelle parti di testo in greco bisogna installare necessariamente un font che si trova nel CD di Bibleworks 6.0 ed è il seguente: “X:\BWGRKN.TTF”, e per le parti di testo in ebraico o aramaico il file “X:\BWHEBB.TTF” (dimensione carattere 18), dove per “X” si intende il nome della periferica del lettore CD.


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PREMESSA

Questi appunti sono il risultato delle lezioni tenute dal professore ATTILIO GANGEMI presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania nell’anno accademico 2004/2005. Per onestà intellettuale e per volere dello stesso professore non sarà corretto fare ulteriori copie senza il permesso del docente sopra citato, e il presente elaborato è ad uso esclusivo della classe. Per facilitare lo studio sono state riportate a piè di pagina le varie citazioni bibliche. Durante lo studio ci si potrà imbattere in errori di grammatica o di sintassi causati da errori di battitura del sottoscritto. Buono studio e buona preghiera.

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Martedì 15 febbraio 2005, ore 10,30 / 12,15

PRESENTAZIONE DELLE LETTERE PAOLINE Per epistolario paolino intendiamo le tredici lettere più la quattordicesima che è la lettera agli Ebrei. Quest’ultima non si lega direttamente all’epistolario paolino, vedremo infatti che essa non è né lettera e né di Paolo; tuttavia essa appartiene alla tradizione paolina. Possiamo distinguere nell’epistolario paolino le seguenti parti: 1 - le lettere più antiche: 1 e 2 ai Tessalonicesi; 2 - le due lettere ai Corinzi, anche se si ha il sospetto che le lettere ai Corinzi siano state quattro e le nostre prima e seconda in realtà sarebbero la seconda e la quarta. Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo accenna ad uno scritto anteriore, di cui non sappiamo nulla, nella seconda ai Corinzi, parla di una lettera “tra le lacrime” e perciò una lettera dura e anche amara. Non sappiamo dir di più, la chiesa primitiva non ce le ha tramandate e se realmente ci sono state, sono andate perdute; 3 - Le due lettere ai Galati e ai Romani. Le mettiamo insieme perché sviluppano, come diremo, lo stesso argomento; 4 - Le lettere della prigionia. Le chiamiamo così perché da qualche accenno appare che Paolo abbia scritto queste lettere mentre era in carcere, anche se bisogna forse distinguere tra le varie prigionie. Le lettere della prigionia sono: Filippesi, Colossesi, Efesini. Sembra che la lettera ai Filippesi sia stata scritta durante la prigionia ad Efeso, mentre Colossesi ed Efesini durante la prigionia romana. 5 - Le “lettere pastorali”: esse sono rivolte non a delle Chiese, ma a personaggi particolari, specificamente due lettere a Timoteo ed una a Tito. Questi personaggi, della scuola paolina si apprestano a subentrare nell’attività apostolica, a loro l’apostolo rivolge uno scritto con delle indicazioni: come assolvere il ministero apostolico; 6 - Rimane la tredicesima lettera che è piuttosto un bigliettino molto breve: la lettera a Filemone che si esaurisce in un solo capitolo. In questa lettera, Paolo si rivolge ad un certo Filemone esortandolo ad accogliere benevolmente uno schiavo, certo Onesimo, che era scappato dalla sua casa. Per gli schiavi fuggitivi era prevista la croce, questo schiavo si rifugiò da Paolo, si convertì alla fede cristiana e Paolo pur


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rivendicando il diritto di poterlo tenere avendolo rigenerato alla fede preferisce rimandarlo a Filemone perché lo accolga non più come schiavo ma come fratello in Cristo. Paolo non rivolge a Filemone una semplice preghiera, ma addirittura un comando essendo Filemone debitore a Paolo della sua rigenerazione cristiana. Questo bigliettino è importante per la nuova dimensione che esso contiene e che Paolo ha già sancito nella lettera ai Galati: «in Cristo non c’è più né Giudeo, né Greco, ne schiavo, né libero, né uomo, né donna», ma in Cristo tutti una cosa sola. La fede cristiana non aveva il potere di abolire la schiavitù come fenomeno sociologico, ma ne espresse la sua incompatibilità con il messaggio di Gesù. In questo passaggio facciamo un brevissimo accenno alla lettera agli Ebrei. Riteniamo che non sia lettera perché pur non essendo uno scritto non rivela il carattere epistolare. Confrontando l’inizio Ebrei con l’inizio delle altre lettere paoline, mancano mittente, saluti destinatari, tipici invece di uno scritto epistolari. Confrontando ad esempio con la lunga introduzione della lettera ai Romani, in questa lettera Paolo dà il mittente: «Paolo apostolo di Gesù Cristo», dà i destinatari al verso 7: «a tutti quelli che sono in Roma», introduce i saluti: «grazia e pace da Dio Padre nostro e dal Signore nostro Gesù Cristo». Al contrario Ebrei entra subito in argomento: «in molti modi ed a più riprese Dio avendo parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente in questi giorni (che sono) gli ultimi, parlo a noi in [uno che è] Figlio per natura». Nelle sue lettere Paolo dedica un certo spazio ai saluti, talora anche nominando delle persone particolari, citiamo una lettera qualsiasi, Colossesi, ai saluti sono dedicati ben nove versetti, indicando sia le persone che mandano a salutare, sia le persone che bisogna salutare. In Ebrei non si ha nulla di tutto ciò, c’è una frase di saluto nei versi 22-25, ma questi versi risultano strani dopo la solennissima chiusura che citiamo: «il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di una alleanza eterna, vi renda perfetti in ogni bene operando in voi ciò che a lui è gradito per mezzo del Signore


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Gesù Cristo al quale sia lode e gloria nei secoli dei secoli, Amen». È un epilogo dove l’autore riprende in maniera ampia i temi trattati, introduce una dossologia con l’amen finale, e questa è l’ottima conclusione di una omelia. I versi 22-25 dopo questo epilogo hanno un carattere frettoloso, epistolare che stride con la solennità dell’epilogo precedente. Oggi si è del parere di individuare negli ultimi versi un cosiddetto bigliettino di accompagnamento che nulla vieta di poterlo attribuire a Paolo, il quale avrebbe fatto sua quest’opera e l’avrebbe inviata con la sua autorità alle varie chiese, corredata da quel bigliettino epistolare, il copista seguente avrebbe poi messo tutto insieme. Detto in soldini la lettera agli Ebrei sembra essere un discorso oratorio, una omelia, come la prima lettera di Giovanni, pronunziata in contesto liturgico, eucaristico, come rivela la frequente menzione del sangue di Gesù: fondamento della nuova alleanza. Sembra addirittura che la lettera agli Ebrei si costruisca sul fondamento della formula della istituzione del calice, il sangue della nuova alleanza. Restando ancora nella lettera agli Ebrei essa non pare che sia di Paolo. Emerge anzitutto un diverso stile, nella lettera agli Ebrei tutto è preciso, proporzionato, anche le parole appaiono studiate, a differenza dell’epistolario paolino dove invece l’apostolo rivela una certa irruenza e qualche volta assume anche toni violenti. Ma talora nel suo epistolario, Paolo che pensa più veloce di quanto quel povero scriba non riesca a scrivere, o anche nella foga dei pensieri, capita che Paolo lascia aperti argomenti che aveva introdotto e che per noi sono veramente dei rompicapo (ad esempio: Rom 5; 2Ts 2). Tuttavia la lettera agli Ebrei si radica nella teologia paolina, basti citare il capitolo terzo della lettera ai Romani (3,24-25) dove Paolo scrive: «giustificati gratis mediante la Sua grazia per mezzo della Redenzione in Gesù Cristo che Dio costituì pubblica vittima di espiazione per mezzo della fede mediante il Suo sangue». Il testo citato della lettera ai Romani rivela un carattere fortemente sacrificale sul


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quale però non è il momento di entrare. Accanto alla lettera ai Romani possiamo citare l’importanza che assume il sangue di Cristo nella lettera agli Efesini. Concludiamo dicendo che l’autore della lettera agli Ebrei parte dalle premesse della soteriologia paolina e tira una conseguenza di fondamentale importanza: Gesù è sacerdote.

I CONTENUTI Scorrendo le lettere paoline possiamo grosso modo individuare quattro tappe della sua riflessione. 1 - La prima tappa è nelle due lettere ai Tessalonicesi, nelle quali Paolo dipende più direttamente dalla tradizione sinottica, in conformità ai Vangeli sinottici, soprattutto Matteo. In questa lettera Paolo si apre alla prospettiva escatologica del ritorno del Signore e infatti come testimoniano i Vangeli, la predicazione primitiva si aprì all’annunzio del ritorno del Signore. 2 - Il secondo stadio è rappresentato dalle lettere ai Corinzi, ma anche all’interno di queste due lettere bisogna introdurre una distinzione tra la prima e la seconda lettera. Nella seconda Paolo difende la legittimità del suo ministero apostolico messo in crisi dai giudaizzanti che non avevano accettato, anzi avevano visto come un tradimento la conversione di Paolo alla fede cristiana. Questo problema sarà anche forte nella lettera ai Galati, ma di ciò parleremo in seguito. La prima lettera ai Corinzi, invece, mira a risolvere alcuni problemi sorti all’interno della comunità cristiana; fin dalle prime battute Paolo rivela il problema che lo affligge. In 1,11 leggiamo: «mi è stato riferito da parte della gente di Gloe che ci sono divisioni tra di voi nel fatto che alcuni dicono: io sono di Paolo, io sono di Apollo, io sono di Cefa, io sono di Cristo». Con molta sorpresa Paolo si chiede: «forse che Cristo è stato diviso? Oppure Paolo è stato crocifisso per voi? oppure nel nome di Paolo siete stati battezzati?». Ma l’apostolo rivela la vera causa di queste divisioni ed esordisce citando Isaia 29 con Proverbi 33,10: «disperderò la sapienza dei sapienti e rifiuterò l’intelligenza degli intelligenti», c’è un difetto grave che nasce dalla non accettazione di Cristo, e infatti i giudei cercano i miracoli e i greci cercano la sapienza. Per i giudei che cercano i miracoli la croce appare debolezza, per i greci che cercano la sapienza la croce appare stoltezza. La croce può essere debolezza, ma quello che è debolezza di Dio è più forte degli uomini, e quello che è stoltezza è più alto del-


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la sapienza umana. Nel verso 23 Paolo dichiara: «noi annunziamo il Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, ma il Cristo crocifisso è la potenza di Dio e la sapienza di Dio». Riassumendo in poche parole Paolo dichiara che le divisioni ci sono perché non si accetta lo scandalo della Croce e la stoltezza della Croce. Emerge un punto centrale delle teologia paolina che sarà anche centrale nella teologia giovannea: il Cristo crocifisso centro di unità. Riassumendo ancora questa incomprensione del Cristo crocifisso si ha perché i cristiani, giudei e pagani, sono rimasti nei loro ragionamenti carnali e non sono divenuti spirituali. Paolo sembra dire che il Cristo crocifisso si può capire solo mediante lo Spirito. Concluderà poi nel capitolo 3 che i Corinzi si rivelano carnali quando dicono: «io di Paolo, io di Apollo, ecc». Paolo si chiede, ma chi è Paolo? ma chi è Apollo? e risponde che sono strumenti in base a quello che Dio ha concesso, e conclude nel verso 3,6 con la famosa frase: «io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che dà incremento». Questo problema dell’unità sarà poi ripreso nel capitolo 11 dove Paolo rimprovera il fatto che i cristiani portano divisioni lì dove non dovrebbero esserci, cioè nella Cena del Signore. Conosciamo i problemi storici che lo spezzare eucaristico era legato a dei banchetti e lì un pochino emergeva la voracità di ognuno dimenticandosi degli altri. Questo tema dell’unità torna nel capitolo 12 con i carismi che possono diventare motivo di divisione mentre sono finalizzati alla crescita del corpo. Ma qui Paolo introduce la descrizione del « » (carisma), il dono concreto, superiore. Un altro problema che angustiava i Corinzi era il fatto della Resurrezione, difficilmente comprensibile alla mentalità greca come emerge dal fallimento di Paolo all’areopago di Atene (Atti 17) e la difficoltà nasceva dal fatto che i greci erano di mentalità neoplatonica e perciò l’ideale platonico era quello della liberazione dell’anima dalla sua prigione del corpo, e per i greci resurrezione valeva il ritorno dell’anima nella prigione del corpo, e ciò era in antitesi al loro ideale. In realtà non è l’anima che và ad imprigionarsi nel corpo, ma è il corpo che viene elevato alla stessa gloria divina. Paolo partirà citando la fede primitiva secondo la quale l’evento della Risurrezione è indiscusso ed indiscutibile. Altri problemi più concreti saranno il problema dell’incestuoso nel capitolo quarto. Nel capitolo 7 il problema della verginità su cui non entreremo in merito. 3 - Passando adesso alle lettere ai Galati ed ai Romani, Paolo abbandona quasi del tutto il tema del ritorno del Signore che aveva già abbandonato in parte nelle lettere ai Corinzi. Il problema di Galati e Romani è quello della separazione, per dir così, della Chiesa dalla Sinagoga. Il cristiano ormai è libero dalla legge e per il cristiano la salvezza non è nell’osservanza della legge mosaica, bensì nella fede in Cristo, anzi la legge giudaica era causa di peccato e viene superata. Qui noi abbiamo


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il richiamo al Concilio di Gerusalemme (atti 15) che sancisce la libertà dalla legge e qui troviamo il richiamo ai due oracoli fondamentali: Geremia 31 ed Ezechiele 36. 4 - La quarta tappa è segnata dalle due lettere: Efesini e Colossesi. Sabato 19 febbraio 2005, ore 08,30 / 10,15 Sono fondamentali le lettere della prigionia: di Filippesi quello che è centrale è l’inno cristologico che Paolo propone nel capitolo 2. A riguardo però dobbiamo fare una distinzione letteraria: nelle lettere paoline distinguiamo tra parti dottrinali e parti parenetiche. Le parti dottrinali sono quelle parti in cui l’apostolo presenta in maniera descrittiva una dottrina. Le parti parenetiche sono quelle parti dove l’apostolo esorta i fedeli, magari deducendo la sua esortazione da principi teologici fondamentali, per esempio i capitoli 12-16 della lettera ai Romani sono tutta parenesi che consegue alla esposizione dottrinale dei primi otto capitoli. La lettera ai Filippesi è tutta parenetica è la lettera di un apostolo che è in attesa di giudizio (probabilmente ad Efeso) e non sa se lo aspetta la sentenza di morte o una liberazione. Dirà nella stessa lettera che per lui «vivere è Cristo e morire è un guadagno». Nella stessa lettera Paolo rivela il suo animo quando dice di non sapere cosa desiderare: augurarsi cioè una sentenza di morte, e allora per lui significa «essere con Cristo» oppure continuare a vivere per essere di aiuto ai cristiani. In questo sfondo parenetico si colloca l’inno cristologico introdotto non come fredda esposizione dottrinale, ma come il modello di comportamento che i cristiani hanno davanti ai loro occhi.


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Le lettere agli Efesini ed ai Colossesi rappresentano uno stadio di maturità di pensiero dell’apostolo. Tra le due lettere c’è pero qualche differenza di prospettiva. Detto in parole povere, Colossesi è più cristologica: di fronte a tendenze di risucchio al giudaismo ed alle prescrizioni legali, Paolo ripropone la figura di Gesù come fondamento. Due parti soprattutto nella lettera ai Colossesi sono importanti: anzitutto l’inno cristologico, dove Paolo sottolinea la fondamentale Signoria di Cristo, e prima di introdurre quest’inno, Paolo eleva un ringraziamento al Padre che ci ha resi degni di prendere parte della eredità dei santi nella luce. Continua ancora sottolineando che Dio per noi (Col 1,12-13) ha operato un esodo, cioè «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel Regno del Figlio Suo, nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati». Notiamo in questa breve riflessione tre aspetti, progressivamente restringenti, c’è nello sfondo la grandiosa vocazione da parte di Dio: ci ha chiamati a partecipare alla sorte dei santi nella luce. Poi la prospettiva si restringe, ciò è avvenuto perché Dio ha operato un esodo, cioè ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel Regno del Figlio Suo. Tutto ciò però è avvenuto mediante un’opera di redenzione. È a questo punto che Paolo introduce il suo inno che sottolinea la assoluta centralità di Cristo. Di quest’inno che sarebbe complessissimo faccio notare solo una cosa: scrive Paolo a riguardo di Cristo che Egli è l’immagine del Dio invisibile. Notiamo la parola immagine (

), salvo errore essa deriva da Genesi,

in Genesi 1,26 Dio dice: «facciamo l’uomo a nostra immagine secondo nostra

somiglianza».

«

Così

il

testo

ebraico

!», la versione

greca probabilmente ha alla base un errore scribale, per cui traduce «a nostra immagine e a nostra somiglianza», la lettura originale sembra essere quella del testo ebraico.


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L’uomo genesiaco è creato ad immagine di Dio, ma non una piena immagine, una immagine secondo una somiglianza. Paolo depenna la seconda parola genesiaca e lascia soltanto la parola immagine sottolineando così che il Dio invisibile trova la piena manifestazione nel Signore Risorto; in Lui, Dio si manifesta pienamente. Restando ancora nella lettera ai Colossesi è importante la centralità di Cristo nella vita cristiana, qui sembra che Paolo proponga come ideale di vita cristiana quello che possiamo chiamare il “coinvolgimento mistico” del cristiano dove mistico significa compartecipazione al mistero. Il culmine è in Colossesi 3, 1-3: «se siete con-risorti a Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo siede alla destra di Dio, siete morti è la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio e quando apparirà, apparirete anche voi con Lui nella gloria». In questo brano noi abbiamo due parti con tre aspetti ciascuno, la prima parte ha tre aspetti che ricalcano il cammino dell’esodo: 1. punto di partenza: coinvolgimento nella Resurrezione di Gesù; 2. cammino intermedio; 3. termine del cammino.

1 - Il punto di partenza è la compartecipazione alla resurrezione di Gesù, notiamo l’espressione: « ». Salvo errore, questa frase non dovrebbe essere tradotta «se siete risorti con Cristo», ma «se siete con-risorti a Cristo»: in questo modo si sottolineano due cose: coinvolgimento nel mistero ( ) e finalizzazione ( ). L’aoristo richiama l’evento preciso battesimale, nel quale il cristiano, da una parte è stato coinvolto nel mistero della resurrezione, ma insieme è stato finalizzato a Cristo.


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2 - Il cammino intermedio è contenuto nella frase: «le cose di lassù, cercate» [ ]. Il verbo cercate è un imperativo presente che esprime azione abituale e continua: il cristiano finalizzato a Cristo è stato proiettato verso le cose di lassù, di conseguenza la vita cristiana diventa una continua e costante ricerca. L’imperativo presente non comanda l’inizio della ricerca, ma la perseveranza nella ricerca. Ciò potrebbe richiamare per antitesi il cammino dell’esodo: il popolo liberato dall’Egitto fu orientato verso la terra promessa, ma nel cammino verso la terra promessa più di una volta bramò tornare indietro rimpiangendo l’Egitto. L’esortazione paolina sembra contenere una tacita allusione nella vita cristiana alla tentazione che si prova a tornare indietro. L’esortazione perciò mira a far superare questa tentazione. 3 - Il termine del cammino è indicato dalle parole: «dove Cristo è alla destra di Dio sedente». Martedì 22 febbraio 2005, ore 10,30 / 12,15 Segue subito dopo un’altra triade con i seguenti elementi: 1. siete morti; 2. la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio; 3. quando apparirà, apparirete anche voi con Lui nella gloria. In queste due triadi emerge applicato alla vita del cristiano tutto il mistero di Gesù. La prima triade sottolinea gli aspetti della Resurrezione e della ascensione, la seconda triade sottolinea gli aspetti della morte e della sepoltura. La dimensione mistica del cristiano, come coinvolgimento del mistero di Cristo, già era stata proposta, benché in maniera più limitata nel capitolo 6 della lettera ai Romani, versetto 3, dove Paolo scrive: «quanti siamo stati battezzati in Cristo [

] alla Sua morte

siamo stati battezzati». Possiamo notare in questa frase uno schema concentrico:


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1 - quanti siamo stati battezzati; 2-« »; 3-« » (verso la Sua morte); 4 - siamo stati battezzati. Questa frase dà il senso dell’evento battesimale come finalizzazione e orientamento a Cristo, più specificamente alla Sua morte: il cristiano che viene battezzato è consacrato e finalizzato a condividere la morte di Gesù. Continua ancora Paolo: «siamo stati consepolti a Lui per mezzo del battesimo verso la Sua morte perché come Cristo è risorto per mezzo della gloria del Padre così anche noi possiamo camminare in novità di vita». Emergono in questo testo tre aspetti del mistero di Cristo: 1. morte; 2. sepoltura; 3. resurrezione. Emerge però una differenza tra il mistero di Cristo e la vita cristiana: mentre per Cristo prima c’è la morte e poi la sepoltura, per il cristiano si verifica il contrario: prima è sepolto nel battesimo poi è consacrato alla morte. Ma possiamo notare un parallelismo: 1 – siamo stati con sepolti 2 – verso la morte

1 – come Cristo è risorto 2 – camminiamo in novità di vita

Si direbbe da questo schema che la novità cristiana, e quindi la partecipazione alla resurrezione, coincida con la propria finalizzazione alla morte di Cristo.


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LETTERA AI FILIPPESI L’inno ai Filippesi si colloca in un contesto parenetico, ed è preceduto in 2,1-5 da una introduzione parenetica in quattro parti: 1. la prima parte è costituita da quattro frasi condizionali: a. se qualche conforto in Cristo; b. se qualche consolazione di carità; c. se qualche comunione di spirito; d. se qualche [?] (viscere di commozione e di misericordie); 2. segue la seconda strofa in cui Paolo tira le conseguenze dalle condizionali precedenti: rendete piena la mia gioia; a. sì da bramare; b. la stessa carità avendo; c. l’unica cosa bramando; 3. la terza strofa indica il modo di come i cristiani debbano comportarsi nel bramare l’unica cosa: a. niente secondo orgoglio; b. ne secondo vana gloria; c. ma con brama della condizione del misero; d. a vicenda ritenendovi superiori a sé stessi; 4. l’ultima strofa è contenuta nel verso 4: a. né le proprie cose ciascuno considerando; b. ma anche ciascuno quelle degli altri. In questa introduzione di indole parenetica notiamo un progresso di tre frasi: 1. sì da bramare la stessa cosa; 2. l’unica cosa bramando; 3. ma con brama della condizione del misero.


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Quello che abbiamo tradotto con bramare corrisponde al verbo: «

». Quello che abbiamo tradotto con «brama della condizione del

misero» corrisponde al termine: «

». Paolo esorta prima di

tutto i cristiani a bramare la stessa cosa, ma la stessa cosa che i cristiani debbono amare è unica e non c’è ne sono altre. Quest’unica cosa è appunto la «

» cioè la brama della condizione del misero. Si

potrebbe obiettare a Paolo se ciò non sia autolesionismo: lo è se mancasse l’esempio costringente di Gesù. Per questo motivo introduce l’inno con cui egli spiega la condizione di brama del misero. Lo introduce con una frase: «questo bramate che [fu] anche in Cristo Gesù».


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FILIPPESI 2,1-11 (se qualche conforto in Cristo) (se qualche conforto di carità) (se qualche conforto di Spirito)

2,1

(se qualche [?] viscere di commozione e misericordie) (rendete piena la mia gioia) (sì da bramare la stessa cosa) (la stessa carità avendo) " (dello stesso animo) (l’unica cosa [1.v. la stessa cosa] bramando) (niente secondo orgoglio) $ & (né secondo vanagloria) (ma con brama della condizione del misero) ' ' (a vicenda ritenendovi supe-

! 2,2 # %

$ $ 2,3

' riori di sé stessi) '

!

2,4

(

)

degli altri) 2,5 2,6

(né le proprie cose ciascuno considerando) ' ! * (ma anche ciascuno quelle

' # %+ (questo bramate in voi ciò [che era] anche in Cristo Gesù) # ' ' ' ' $

2,7

,

'

'

[

$

'

2,8 $

'

2,9 2,10

' '

'

]* "

' !

%+

"

[

] &

2,11

! [

%+ $ &

*]


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1 – Il quale in forma di Dio essendo 2 – non da rivendicare ritenne 3 – l’essere come Dio 4 – ma sé stesso svuotò 5 – forma di servo avendo preso 1 – In somiglianza di uomini divenuto 2 – e all’aspetto trovato come uomo 3 – umiliò sé stesso 4 – divenuto obbediente fino a morire (morte di Croce)2 1 – per questo anche Dio Lui superesaltò 2 – e donò a Lui il nome 3 – quello al di sopra ogni nome 1 – perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi (degli esseri celesti, terrestri e quelli sotto terra) 2 – e ogni lingua confessi 3 – che Signore (è) Gesù Cristo (a gloria di Dio Padre) Tutto l’inno si articola in quattro strofe; le strofe si possono raggruppare a due a due. Le prime due strofe sono ricondotte all’unico soggetto pronominale (il quale « #») riferito a Gesù, nella terza strofa il soggetto è Dio, nella quarta il soggetto sono gli esseri creati. Nella prima strofa possiamo distinguere due aspetti: metrico e strutturale. Dal punto di vista metrico avremmo quattro versi mettendo il terzo elemento insieme al secondo, avremmo quattro versi con tre accenti ciascuno. Dal punto di vista strutturale avremmo cinque frasi strutturate secondo uno schema concentrico. La prima frase corrisponde alla quinta: entrambe infatti condividono lo stesso termine «

2

».

Le frasi tra parentesi sono probabilmente delle aggiunte, ma delle aggiunte da Paolo.


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Le due frasi anzi stanno in perfetto parallelismo: forma di Dio essendo

forma di servo avendo preso

C’è la stessa parola «

» (forma): seguita da un genitivo (di

Dio, di servo), a cui segue un participio (essendo, avendo preso). La seconda e quarta espressione hanno in comune due forme verbali contrapposte dalle particelle « « '

» - «

» (non - ma), il primo verbo è

» (ritenne), il secondo verbo è «

» (svuotò). Anche qui

notiamo un parallelismo strutturale

' ritenne ( '

)

Sé stesso ( ' Svuotò (

) )

Al centro abbiamo l’espressione: «essere come Dio»: in greco troviamo l’articolo « », poi « indica che l’espressione «

». La presenza dell’articolo » è soggetto, avremmo allora

il seguente sviluppo sintattico: 1. non ritenne (che) 2. l’essere come Dio 3. (fosse) 4. « ' »

[accusativo all’infinito] [soggetto] [predicato]

Colui che era in forma di Dio non ritenne che l’essere come Dio fosse « '

». Tutto il problema sta in quella parola « '

», che

la versione italiana traduce: «tesoro geloso». Questa parola proviene dal verbo « '

» (rubare), e la parola può avere due sensi: oggetto rubato

oppure oggetto da rubare, oggetto da sottrarre in maniera violenta o anche da rivendicare. La frase seguente «ma umiliò sé stesso» suggerisce che la versione migliore sia «cosa da rubare», cosa da rapire, cosa da ri-


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vendicare. Il senso allora è il seguente: Colui che era in forma di Dio non ritenne che l’Essere come Dio fosse da rivendicare. La formulazione negativa suggerisce una tacita contrapposizione, alla quale ci rimanda l’espressione «essere come Dio», possiamo stabilire un parallelismo fra tre espressioni: Filippesi 2,6

Genesi 3,5 (greco LXX)

Genesi 3,5 (Ebraico)

'

Capiamo subito dove si trova questa frase, ci rimanda nel contesto della tentazione genesiaca. La versione greca dei LXX traduce alla lettera, e pedissequamente alla lettera il testo ebraico. «

» in ebraico è

il nome divino ed è usato al plurale. I traduttori greci non se la sentirono di tradurre «sarete come Dio», ma tradussero in maniera più debole: « '

», cioè al plurale ma senza l’articolo. In questo modo, secondo i

traduttori greci, la tentazione era, non di essere come Dio, ma di essere come esseri di indole divina. Rispetto al testo dei LXX, il testo di Filippesi ha tre somiglianze e due differenze. La prima somiglianza è una forma del verbo essere, la seconda somiglianza è la forma comparativa, la terza somiglianza è il termine «

». Le due differenze sono: il primo

passaggio è da « '» che indica approssimazione ad « quasi «

identità,

il

secondo

» allo specifico singolare «

passaggio

è

dal

» che indica

generico

plurale

». La frase dei Filippesi è perciò più

forte della frase genesiaca, ciò che Gesù ritenne da non dovere rivendicare fu una situazione superiore a quella dell’Adamo genesiaco. La traduzione “ritenne” che «l’essere come Dio» non era da rivendicare, suggerisce così un tacito confronto con l’Adamo genesiaco. L’Adamo genesiaco, sotto l’influsso della tentazione, ritenne che l’Essere come Dio era da rivendicare, precisamente mediante la trasgressione. Leggiamo infatti nel


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testo genesiaco che il serpente fece credere alla donna che Dio mediante il comandamento defraudava di un diritto perché se ne mangiavano sarebbero diventati come Dio. Gli occhi allora si aprirono, la donna vide che il frutto era bello a vedersi e buono a mangiarsi, ne colse e ne mangiò. Cioè la donna trasgredì e trasgredì per rivendicare l’Essere come Dio. La donna perciò ritenne che l’essere come Dio era da rivendicare mediante la trasgressione. Gesù invece non ritenne di dovere rivendicare. Il confronto antitetico tra l’Adamo genesiaco e Gesù emerge nella preghiera al Getsemani, ma lo troviamo anche abbastanza sviluppato nel capitolo quinto della lettera ai Romani, dove Paolo stabilisce un confronto tra la disobbedienza di uno che portò alla morte, ed a causa della quale i molti furono costituiti peccatori, e l’obbedienza dell’altro che portò alla vita ed a causa della quale i molti sono costituiti giusti. Ma possiamo ampliare il parallelismo secondo Genesi 1,26, l’uomo fu creato ad immagine secondo somiglianza. Gesù è «

» (forma di Dio). Avremmo il seguente parallelismo:

Adamo Genesiaco 1) immagine secondo somiglianza

Gesù (forma di Dio)

1)

3) sarete come Dio

3) essere come Dio

Sappiamo che Genesi 1,26 appartiene al codice sacerdotale e il capitolo terzo invece alla tradizione Jawhista, ma questa osservazione è frutto della critica moderna. Il lettore neotestamentario non si pone questi problemi, ma coglie un progresso dalla immagine secondo somiglianza, all’essere come Dio. L’immagine secondo somiglianza volle arrivare all’essere come Dio mediante la strada della rivendicazione e della trasgressione. Gesù parte da una condizione più alta, la parola «

» in-

dica un aspetto esteriore che rimanda ad una realtà interiore, l’inno di Filippesi, salvo errore, non è ancora Giovanni, e perciò non afferma esplici-


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tamente la preesistenza divina, ma l’espressione «forma di Dio» la insinua. Possiamo allora dire che Colui che è in forma di Dio ha davanti a sé la prospettiva di essere come Dio. Si capisce, non nella realtà eterna, ma nel cammino storico, nel raggiungere l’obiettivo di essere come Dio, Colui che era in forma di Dio, contrariamente all’Adamo genesiaco non ritenne di dovere battere la via della rivendicazione mediante la trasgressione. Sabato 26 febbraio 2005, ore 08,30 / 10,15 Il termine « '

» nella frase è predicato, tutta l’espressione è

una proposizione oggettiva. Possiamo ricostruire la frase nel seguente modo: «non ritenne [che] l’Essere come Dio [fosse] ' parola greca deriva dal verbo « '

»: questa

» (rubare, rapinare), può avere due

significati: o attivo (cosa da rapire), o anche passivo (cosa rivendicata o anche rapita). Questa parola ha avuto diverse interpretazioni, il suo problema è che è una parola unica in tutta la Bibbia greca. Filologicamente è possibile intenderla in entrambi i modi proposti. Dal momento che né gli usi (perché non c’è ne sono), né la filologia ci aiutano a dirimere il problema, chiediamo lumi al contesto. Il contesto suggerisce meglio l’interpretazione «cosa da rapire o cosa da rivendicare» e, tenendo conto del soggiacente schema adamitico, questo significato quadra bene con tutto il contesto. Leggendo Genesi, Adamo sobillato dalla tentazione ritenne di dovere rivendicare, mediante la trasgressione quello che Dio mediante il comandamento gli aveva precluso. La denudazione fece credere all’Adamo genesiaco che Dio, mediante il comandamento, lo stava defraudando di un suo diritto. L’uomo allora ritenne di dovere rivendicare, proprio mediante la trasgressione. La contrapposizione all’Adamo genesiaco ci illumina su un aspetto che del testo pare soggiacente: perché l’Adamo genesiaco rivendicò? perché fu sobillato dalla tentazione. Que-


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sto ragionamento ci fa ritenere che anche Gesù provò la stessa tentazione e infatti se noi vediamo la tradizione evangelica, questa rivela la tentazione di Gesù. I tre Vangeli sinottici ci dicono che all’inizio della vita pubblica, Gesù fu tentato, Matteo e Luca ci danno anche tre tentazioni precise, ma una lettura più attenta di quei racconti ci mostra che la vera tentazione di Gesù fu in due posti precisi: il Getsemani e il Calvario. Il Getsemani ci presenta Gesù che esorta: «vegliate e pregate per non cadere in tentazione», ma se Lui pregò, vuol dire che subì la tentazione: Lui pregò e nella tentazione non cadde, i discepoli non pregarono, e nella tentazione caddero: quella di abbandonare Gesù e fuggire. Abbiamo in altri momenti stabilito un confronto tra l’Adamo Genesiaco e Gesù al Getsemani. La tentazione di Gesù fu quella di eludere il calice, ma Lui a differenza dell’Adamo genesiaco tradusse la tentazione in preghiera e della tentazione non cadde, quindi bevve il calice. La tentazione al calvario non è chiara dai testi: ci sembra di scorgerla però nel parallelismo che possiamo stabilire tra «se sei il Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane» e «se sei il Figlio di Dio scendi dalla Croce», ma proprio nel fatto che dalla Croce non scese, Gesù si rivelò il Figlio di Dio, perché il Figlio di Dio non si definisce per la potenza, bensì per l’obbedienza. La lettera agli Ebrei in 4,15 commenta: «non abbiamo un sacerdote che non possa compatire le nostre infermità, messo alla prova in tutto senza peccato», cioè fu messo alla prova ma nella trasgressione non cadde. Stabilito il senso di questa prima affermazione, passiamo alla seconda affermazione: in 2,7 la particella «

» contrappone il secondo

atteggiamento al primo. Troviamo l’espressione «

'

» su

cui ci sarebbe tanto da dire, ma prima preferiamo considerare la frase precedente, non senza avere fatto una doverosissima critica alla attuale versione italiana, la quale traduce: «svuotò sé stesso assumendo la condizione di servo», in questo modo la versione italiana fa coincidere lo svuotamento con l’assunzione della forma di servo, ma non è così nel testo


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greco. Nel testo greco l’ultima parola è: « , verbo «

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», participio aoristo del

». Questo participio ha un valore circostanziale, però

,

messo in relazione al precedente verbo «

» non esprime contem-

poraneità, ma esprime antecedenza, perciò il testo è: «avendo preso forma di servo, Gesù svuotò sé stesso». Letto in questo modo il testo, mi rivela un cammino: Gesù assunse la forma di servo e con questa forma compì un cammino che lo portò al massimo svuotamento. Prendere la forma di servo: notiamo la parola «$

» che in lingua greca esprime il

servizio più basso, lo schiavo, e differisce dall’altro termine «$ Il «$

» è un servo particolare, quello adibito alle mense, e infatti

«$

» è parola composta da: «$ » + «

«

».

». Quest’ultima parola

» significa polvere, e la particella «$ » significa attraverso: si indi-

ca la polvere che solleva una persona mentre cammina, si indica così quel servo che, passando frettolosamente tra i tavoli sollevava polvere. Il termine «$ leggiamo «

» riprende il quarto canto del servo di Jawhè, in Isaia 53,11 del

servo,

la

versione

greca

dei

LXX:

». La tradizione evangelica però non osò il termi-

$

ne «$

secondo

» per Gesù, bensì il termine «$

», basti pensare al testo

di Matteo 20,28, con il suo parallelo in Marco 10,45, dove si dice che «il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». Si avverte l’influsso del quarto canto, ma non si usa il termine «$

». Come anche in Luca 22,27, dove Gesù

chiede: «chi è migliore? colui che sta a mensa o colui che serve?», si capisce, colui che sta a mensa, ma Gesù precisa: «eppure il Figlio dell’uomo è come colui che serve». Possiamo chiederci perché la tradizione evangelica preferì il termine «$ un termine crudo «$

»? Probabilmente per evitare

» che suonava male alle orecchie del mondo

greco. Emerge una domanda: quando Gesù assunse la forma di servo? La risposta l’avremo dopo, anticipando quello che diremo. Il servo ri-


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chiama l’obbedienza e perciò Gesù assunse la forma del servo quando professò la sua obbedienza al Padre, cioè al Getsemani. La contrapposizione emerge chiara: Gesù non seguì la via della trasgressione, ma seguì la via della sottomissione. Possiamo allora dire che al Getsemani assunse la forma di servo, e avendo assunto quello intraprese un cammino che lo portò all’« ' pronominale « '

». Di questa frase bisogna notare sia l’oggetto » sia il verbo «

quest’ultimo: il verbo « verbo deriva dall’aggettivo «

». Cominciamo da

» è aoristo dal verbo «

», questo

» che significa vuoto, il verbo perciò

significa svuotare. Ma in che senso Gesù svuotò sé stesso? Se noi identifichiamo lo svuotamento con la forma di servo, come vuole la versione italiana, il problema rimane. Assumere funzione di servo è azione positiva e resta la domanda: da che cosa Gesù si svuotò? Vorremmo lasciare quelle interpretazioni secondo cui Gesù si svuotò della divinità. Ma se si legge la frase come culmine di un cammino che parte dalla forma di servo, questa frase ci conduce alla croce che può essere ben definita uno svuotamento (della vita). Ciò potrebbe essere confermato da due elementi. Anzitutto il parallelismo con 2,8 che parla dell’obbedienza fino a morire, inoltre è importante il pronome « '

», pronome riflessivo in cui

soggetto e oggetto coincidono. Questo pronome riflessivo è proprio della tradizione paolina: in Galati 2,20, Paolo esclama: «mi ha amato ed ha dato sé stesso per me»; la stessa cosa si legge in Efesini 5,2: «ci ha amati ed ha dato sé stesso per noi», la stessa cosa in Efesini 5,25: «Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato sé stesso per lei». La stessa cosa la leggiamo nella lettera agli Ebrei che confrontando il sacrificio di Cristo in 9,14 con i sacrifici antichi scrive: «quanto più il sangue di Cristo che offrì sé stesso mediante uno spirito eterno». Questo pronome riflessivo è molto importante perché sgorga dal mistero dell’obbedienza. In tutta la storia della passione, Gesù fu certamente coartato, ma i Vangeli ci tengono a sottolineare la libertà di Gesù: alla base della passione non ci sta la coartazione


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bensì il mistero dell’obbedienza. Tra i diversi testi che possiamo citare ne proponiamo uno solo, da Giovanni che sottolinea più di tutti questo aspetto; scrive Giovanni, riecheggiando la preghiera che esplicitamente non narra, in 18,11: «il calice che il Padre mi ha dato, forse che non lo beva?». Gesù non può eludere il calice perché esso è proposto dal Padre, sottolineando così la strettissima relazione tra i due. La lettera agli Ebrei scrive in 5,9 una frase vertiginosa: «imparò dalle cose che patì, l’obbedienza», e anche in 10,5, l’autore scrive: «entrando nel mondo» e qui cita il Salmo 39. Sia detto tra parentesi che la peculiarità della passione di Gesù non sta nell’intensità dei dolori (perché non è stato né il primo e neanche l’ultimo a subire la croce), ma sta nel fatto che è espressione di obbedienza e la croce diventa fonte di salvezza non in sé stessa, ma perché è espressione e concretizzazione di un atto di profonda, totale, assoluta e incondizionata obbedienza al Padre. Scrivendo «imparò dalle cose che patì, l’obbedienza», Ebrei scrive una frase ermetica, ma che forse possiamo spiegare così: altro è l’obbedienza promessa o dichiarata, altro è l’obbedienza attuata e nella attuazione ci si può rimangiare durante la sua attuazione. Nella passione Gesù non si rimangiò l’obbedienza, ma anzi crescendo la passione, cresceva l’obbedienza stessa. Possiamo

rileggere

questa

prima

strofa.

Tenendo

conto

dell’interpretazione data dell’Adamo genesiaco emerge il confronto antitetico tra due personaggi: l’Adamo genesiaco e il servo di Jawhè. L’Adamo genesiaco si riconduce alla Legge, il servo si riconduce ai profeti. E tutta la scrittura che viene così chiamata in causa: La Legge ed i profeti. Per antitesi la legge, per continuità i profeti. Vi propongo una domanda alla quale però non do risposta: è possibile vedere in ciò una traccia della polemica paolina contro la legge? In ogni caso Gesù si oppone all’Adamo genesiaco e sii avvicina alla figura del servo. Del servo era preannunziato il mistero dell’obbedienza, il quarto canto pone un problema: perché il servo sof-


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fre? Una prima risposta potrebbe essere: perché Dio lo ha umiliato, ma la vera risposta è perché al Signore piacque far ricadere su di Lui le colpe di tutti. Il servo perciò ha la missione di portare su si sé le colpe di tutti e questo è il suo servizio. Però il quarto canto non dice nulla sull’atteggiamento del servo, cioè sulla sua predisposizione interiore. Lo dice però il terzo canto che a noi è pervenuto abbastanza lacunoso (donde la fatica dei traduttori italiani a cucire). Questo terzo canto descrive l’animo del servo al quale il Signore ha dato una lingua da iniziati, cioè lo ha reso abile parlatore, però prima gli ha dato un orecchio da iniziati, cioè lo ha reso abile ascoltatore. Dirà poi il servo: «il Signore mi ha tagliato l’orecchio ed io non mi sono tirato indietro». Il servo accetta quello che Dio ha stabilito su di lui e lo accetta con massima fiducia in Dio stesso: «ma il Signore è accanto a me come un prode». Ciò ci permette di capire come l’atteggiamento spirituale di Gesù nella passione fu quello di una totale fiducia in Dio. Concludendo la scrittura prevedeva perciò la figura del servo verso la quale, Gesù si orienta in contrapposizione all’Adamo genesiaco. La seconda strofa presenta una struttura di quattro versi poetici ed ogni verso sembra avere tre accenti metrici. Le rime due strofe sottolineano la dimensione dell’«

». Si può scorgere un parallelismo an-

titetico, cioè una contrapposizione al fatto che Gesù non ritenne di dovere rivendicare l’essere come Dio, al contrario, si sottolinea la dimensione dell’«

». Fanno

«

$

problema,

anzi,

le

ultime

due

parole

». Queste parole anzitutto sono fuori metro, e inoltre

introducono un cambiamento tematico: la frase precedente mi dà l’aspetto dell’intensità, cioè il grado a cui arriva l’obbedienza e non la morte concreta. Invece quest’ultima frase indica il modo della morte concreta. Possiamo pensare che questa frase non appartenga all’inno precedente, ma appartenga alla penna paolina, il quale sottolinea nella lettera


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ai Filippesi la croce di Cristo. Nel capitolo terzo infatti, egli parla dei nemici della croce di Cristo (Fil 3,18) il cui Dio è il ventre. Andiamo alle prime due frasi: la prima frase sottolinea la realtà oggettiva, la seconda frase invece sottolinea l’esperienza soggettiva. Nella prima frase si sottolinea la somiglianza che non implica soltanto l’aspetto esteriore, ma implica la realtà personale. Divenuto «in somiglianza di uomini» indica che anche Lui partecipò alla condizione umana. Martedì 01 marzo 2005, ore 11,30 / 12,15 In questi due versi poetici è importante la ripetizione del termine «

». Si può anche stabilire una relazione strutturale concentrica

tra gli ultimi due elementi dei due versi: avremmo così il seguente schema: 1) 2) 3) 2) '

'

I due participi non sembrano semplice ripetizione. Il participio «

» indica la realtà oggettiva; l’altro participio « '

» (tro-

vato), rimanderebbe meglio all’esperienza altrui. Lui in sé stesso divenne in somiglianza di uomini; dagli altri fu sperimentato come uomo. Le due frasi insieme hanno in comune l’espressione «della verità» della dimensione umana di Gesù: uomo in senso reale (vero uomo), tuttavia però all’interno c’è la divisione che abbiamo indicato.


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Su questa divisione torneremo ancora, ma passiamo adesso al terzo verso:

«

»,

'

«'

confrontare

con

». Queste due espressioni stanno in parallelo, anzi in-

sieme permettono di cogliere uno schema concentrico: 1) ' 2) 3) 4) ' Questi due verbi si richiamano a vicenda: nello svuotamento raggiunse la forma del «

», abbiamo detto chi era il «

» pres-

so i greci: la persona che occupa l’ultimo posto nella scala sociale. Questo verbo «

» proviene dal quarto canto del servo del Signore

(Cfr. Isaia 53,8) «

'

» (in umiliazio-

ne il suo giudizio fu sollevato). Secondo la versione greca il servo subì un giudizio nel quale egli fu considerato alla stregua di un misero. Ma c’è una differenza tra il canto del servo e l’inno. Nel canto del servo, il servo fu considerato tale dagli altri e in certo senso dovette subire; nell’inno è Gesù che determina a sé stesso quella condizione. A proposito della frase della prima strofa abbiamo sottolineato l’importanza teologica di questo pronome riflessivo. Si può dire sulla scia neotestamentaria che Gesù fu l’artefice della sua passione in quanto la affrontò in atteggiamento di libera, incondizionata e totale adesione al Padre. Passiamo adesso all’ultima espressione: «

'

(divenuto obbediente fino a morire).

»


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Di questa frase notiamo diverse cose. Anzitutto la sua precisa relazione

strutturale

«

$

,

all’ultima

frase

della

prima

strofa

». Possiamo anzi stabilire il seguente schema con-

centrico: 1) 2) $ 3) 4)

,

5) ' 6)

Forma di servo avendo preso essendo divenuto obbediente fino a morire

Nello schema sopra indicato emerge la relazione tra «$ « '

»e

»: è proprio del servo obbedire, ma nell’obbedienza Gesù rag-

giunge la forma del servo. La seconda osservazione riguarda l’assenza dell’articolo davanti al termine «

», tale assenza indica più l’aspetto qualitativo che

non la realtà concreta, cioè non significa che l’obbedienza di Gesù durò fino alla morte concreta, ma che la sua obbedienza raggiunse il massimo grado, cioè la massima intensità. Come abbiamo notato per l’ultima frase della prima strofa, anche in quest’ultima frase, il participio « «

» precede il verbo

». Possiamo anzi dire che nell’«

» sono conve-

nuti i due aspetti dell’obbedienza e del culmine che è la morte. In questi due venti, Gesù realizzò la figura del «

».

Ma possiamo di nuovo rileggere globalmente la seconda strofa indicando i seguenti elementi: 1) 2) 3) 4)

realtà oggettiva dell’essere uomo; l’esperienza degli altri come uomo; l’obbedienza; il suo culmine e la morte.


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Se leggiamo bene questa strofa ci sembra di scorgere tutto il cammino dell’esistenza terrena di Gesù. Esso parte dall’incarnazione: 1) in somiglianza di uomini divenuto (incarnazione); 2) passa attraverso l’esperienza altrui (vita pubblica?); 3) Getsemani (obbedienza); 4) la morte (il culmine della passione). Possiamo rileggere tutta questa seconda strofa alla luce dell’ultima parola della prima strofa: «forma di servo avendo preso», la forma di servo di Gesù riguarda così tutto il cammino della sua esistenza fino alla morte. È importante la menzione della morte che nell’inno originale è l’ultima parola. Questa parola suggerisce una riflessione ancora di confronto con l’Adamo genesiaco. I due uomini hanno in comune la stessa realtà come termine del loro cammino, la morte: alla morte giunse l’Adamo genesiaco e alla morte giunse Gesù. Se è permesso usare una immagine fantasiosa, i due uomini scendono nella stessa realtà per scale opposte: la scala dell’Adamo genesiaco è la trasgressione, la scala di Gesù è l’obbedienza. Donde, anticipando quello che l’inno dirà dopo, capiamo che mentre per l’Adamo genesiaco, la morte, in forza della trasgressione, è il termine del cammino, per Gesù, in forza dell’obbedienza, la morte è il punto di partenza. Prima di andare avanti sia permessa una riflessione spirituale, perché in tutto ciò ci sembra di scorgere una metodologia: la sottolineatura dell’obbedienza indica che ciò che veramente fu importante in Gesù, non fu la morte nella sua materialità. Ma fu importante il fatto dell’obbedienza, anzi una «morte per obbedienza». Emerge qui la novità assoluta della morte di Gesù, la sua morte non fu la pena del peccato essendo Lui l’uomo senza peccato. Qui sembra la metodologia: Dio ha indicato che tutte le conseguenze del peccato restano tutte, ma in un cambiamento di senso, non più come punizione subita, ma come luogo di


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quell’atto di obbedienza che l’Adamo genesiaco non fece, ma che Gesù invece fece. Sabato 05 marzo 2005, ore 08,30 / 10,15 «$

' '

'

"

»3.

La terza strofa comprende versi metrici. In questa strofa sono importanti le prime due parole: l’espressione «$ » e il soggetto « '

».

L’espressione «$ » è molto enfatica: l’enfasi è data da due elementi: la particella «$ » + il pronome « ' ». La sua posizione al primo posto la sua formulazione letteraria. La formulazione letteraria è la fusione di due elementi: la particella «$ » + il pronome « '». Il pronome « '» è in neutro del pronome dimostrativo « !, ! , !». La particella «$ » costruita con l’accusativo ha il valore causale, potremmo tradurre: «per questo», ma la forma contratta e la posizione iniziale enfatizzano e potremmo tradurre un po’ esasperando: «proprio per questo», e siccome l’ultima frase è «divenuto obbediente fino a morire», allora il pronome « '» si riferisce al mistero dell’obbedienza: quello che si è verificato dopo, si è verificato proprio per l’obbedienza che è stata assoluta, totale, incondizionata, che non si è fermata nemmeno di fronte alla morte. Rileggendo questa frase alla luce dei racconti della passione si può capire il senso di questa obbedienza. L’obbedienza di Gesù consistette nella piena e totale fiducia nel Padre al quale si abbandonò. Quest’ultima frase non è una speculazione spirituale, siamo convinti che è possibile ricostruire la dimensione spirituale di Gesù considerando le Scritture alle quali alludono i racconti del Getsemani e anche del Calvario. Il denominatore comune di quelle Scritture è l’abbandono fiducioso dell’orante a Dio. È importante «$ 3

Cfr. Filippesi 2,9.

'

», la particella «

» è importante,


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qui assume il significato di “anche”. L’obbedienza è un rapporto dialogico, in essa l’aspetto fondamentale non era l’esecuzione materiale, ma la relazione dialogica al Padre. La particella «

» indica che tutta l’opera

di Dio è una risposta personale a quello che Gesù a fatto, “per questo anche Dio […]”. Emerge così tutto il rapporto dialogico tra Gesù e il Padre nella Passione. Ma consideriamo il testo seguente dove è possibile evidenziare anzitutto una struttura letteraria: 1) ' 2) 3) ' 4)

"

5) 6) Il carattere di risposta dell’opera di Dio, all’obbedienza di Gesù emerge da un’altra relazione che è possibile stabilire nel testo: 1) 4)

(svuotò sé stesso) 2) ' (umiliò sé stesso) 3) ' " (superesaltò) (donò)

Le due azioni di Dio corrispondono ai due atteggiamenti di Gesù: al massimo svuotamento corrisponde il massimo dono (1-4), alla massima umiliazione corrisponde la massima esaltazione (2-3). Tutta la Scrittura sottolinea che Dio suole innalzare gli umili ed abbassare i superbi, e quanto è più profonda l’umiliazione, tanta più alta è l’esaltazione. Il verbo « ' verbo « ' "

"

»). Il verbo « ' "

» è composto da « ' » + « ! "

» (dal

» deriva dall’aggettivo « ! " » (alto). Il

verbo allora significa fare alto, innalzare. Questo verbo dipende anche dal quarto canto del servo di Jahwè il quale inizia così: «ecco il mio servo, sarà innalzato, glorificato assai». Con questa prima frase, probabilmente il compositore di quel canto volle prevenire lo scandalo della sof-


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ferenza del servo: quel servo nei tormenti poteva apparire colpito da Dio e umiliato, invece al Signore piacque far ricadere su di lui i peccati di tutti. Alla fine del canto ci si apre alla glorificazione del servo di cui si dice che dopo il suo intimo tormento vedrà la luce. Ma la fede primitiva vide nella glorificazione e nell’esaltazione del servo già l’allusione alla Resurrezione. Questi due verbi: esaltare e glorificare sono centrali in Giovanni, secondo il quale l’esaltazione e la glorificazione di Gesù coincidono con la Sua Croce. Perciò il verbo esaltare ha alle spalle una tradizione veterotestamentaria e neotestamentaria, dalla quale al momento prescindiamo. Fermiamo l’attenzione sul verbo stesso. La particella « ' » significa sopra e siccome non c’è un termine di paragone, la particella « ' » si apre all’indefinito. Possiamo pensare che si tratti di una esaltazione, ultra, senza limiti, oltre la quale non si può andare. E già si insinua che è lo stesso livello a cui Dio si trova. Il secondo verbo «

» deriva dalla radice di «

» che

vuol dire dono: Dio soggetto gratificò, donò a Gesù qualcosa. Emerge ancora una volta l’antitesi con l’Adamo genesiaco, questi si erse a livello di Dio e rivendicò qualcosa, Gesù invece avendo seguito via inversa non si erse, ma fu esaltato: non rivendicò, ma gli fu donato Andiamo all’oggetto «

», tre cose suggeriscono che si

tratti del nome stesso di Dio: 1) la relazione strutturale che abbiamo indicato di tutta la frase; 2) l’articolo non sta dicendo un nome, bensì «il» nome, cioè il nome per eccellenza; 3) il fatto che nella tradizione rabbinica, Dio è chiamato «il nome» ( "), cioè Dio elevò Gesù alla Sua altezza e gli donò la Sua attesa prerogativa. Il nome quale sia, l’inno lo dirà dopo, possiamo però notare che il Nome indica nel linguaggio semitico la stessa realtà della persona: «si chiamerà Gesù: Egli infatti salverà il suo popolo» (Cfr. Mt). Troviamo


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anche qui un’altra differenza con l’Adamo genesiaco: l’Adamo genesiaco mediante la trasgressione rivendicò «l’essere come Dio», Gesù per via dell’obbedienza non ottiene «l’essere come Dio», ma molto di più: diventa Dio, ovviamente non si tratta della seconda Persona della Santissima Trinità, bensì dell’uomo Gesù divenuto obbediente fino a morire. Che Gesù ottenga la stessa realtà divina emerge dalla sottolineatura che fa l’inno: «

» cioè il nome che si trova al di sopra ogni al-

'

tro nome. Nell’aggettivo «

» sono inclusi tutti coloro che portano un

nome. Proprio la sottolineatura che si tratta di un «nome al di sopra di ogni altro nome» conferma che si tratti appunto del Nome di Dio. Tutto ciò ci permette una deduzione dal testo, se abbiamo letto bene il testo rivela la costituzione di Gesù come Dio e in ciò ci sembra di scorgere la grande vocazione umana, quella cioè di diventare Dio. Il mistero di Gesù rivela questa vocazione e il nostro testo indica la strada attraverso la quale l’uomo diventa Dio. Ci permettiamo un’altra riflessione: le scienze moderne hanno messo in crisi il concetto di obbedienza ritenendola come alienante e mortificante della volontà umana. Ma probabilmente non è stata messa in discussione la vera obbedienza, ma soltanto un tipo di obbedienza veramente mortificante, obbedienza non è solamente eseguire. Passiamo infine all’ultima strofa dove leggiamo: «perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» [!

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"

]. Nell’ultima strofa il soggetto cambia, ma dello sfondo però rimane ancora Dio e infatti la particella « ! » può avere due valori: o finale (affinché) o consecutiva (cosicché). L’esaltazione di Gesù e la divinizzazione sono tali da determinare una conseguenza: la conseguenza è che «ogni ginocchio si pieghi e ogni lingua professi». Queste parole sono prese dalla Scrittura, precisamente da Isaia 45,23. Il capitolo 45 di Isaia è un capitolo composito, sotto un unico sfondo tema-


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tico sono collocati diversi oracoli. Appartiene al Deutero-Isaia e Dio implora dal suo popolo di essere riconosciuto come Dio e di abbandonare una volta per tutte gli idoli. Dio dichiara di non essere stato introvabile e inudibile (cioè non udibile): «non ho parlato nell’oscurità, in un luogo oscuro della terra», è Dio che ha annunziato cose giuste e di conseguenza e Lui l’unico Dio e può pretendere di essere l’unico e universale Salvatore: «volgetevi a Me e sarete salvi, paesi tutti della terra» (Cfr. Isaia 45,21). Nel verso 23 Dio conclude che sarà riconosciuto da tutti come Dio, tutti lo adoreranno «si piegherà ogni ginocchio», e tutti si appoggeranno su di Lui su ogni giuramento. Il testo ebraico scrive: «in me giurerà ogni lingua», la versione greca dei LXX un pochino muta: «e confesserà al Signore ogni lingua». Prescindendo da queste precisazioni testuali il senso globale di Isaia 45 è il carattere assoluto della divinità di Dio, è Lui il Signore e non altri. Se l’inno riferisce a Gesù quello che Isaia 45 ha riferito a Dio, vuol dire che Gesù è diventato Dio. Davanti a Gesù si fanno due cose: adorazione e professione di fede. L’adorazione è «ogni ginocchio si pieghi», la professione di fede è data dalle parole «Signore Gesù Cristo». Ma consideriamo queste ultime parole e facciamo analisi logica: 1) Signore = predicato 2) è = copula 3) Gesù Cristo = soggetto La parola Signore in greco è « LXX, il nome «

», nella versione greca dei

» è frequentissimo (un paio di migliaia di volte) e

traduce il più delle volte quel nome che gli ebrei non potevano pronunziare: «

# » (Yahweh), qualche volta anche il nome «adonai», e perciò

qui c’è la conferma che il nome di Gesù ha ereditato il nome stesso di Dio «

# ». Gesù è diventato « # » e come tale deve riconoscerlo o-


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gni lingua, ma quest’ultima strofa è peculiare e introduce un aspetto diverso rispetto alla terza strofa. Nella terza strofa, la sottolineatura era quella della relazione di Gesù a Dio: Dio lo ha relazionato a sé, nella quarta strofa la relazione è non più a Dio, bensì agli uomini. Troviamo un duplice movimento, Dio eleva Gesù a sé e lo presenta agli uomini. Ci sembra che qui riecheggi ancora il testo genesiaco: quando Dio creò l’uomo e all’uomo presentò tutte le Sue creature, ma il nostro testo non è la semplice ripresa di Genesi, bensì la costituzione universale di Gesù come Signore al quale è dovuto quello che invece l’AT riferiva a Dio. Ci sembra di scorgere nel testo una metodologia di Dio che tende a ritirarsi per mettere davanti agli uomini la persona di Gesù. Riassumendo abbiamo nell’inno quasi un cammino ascensionale di Gesù. La prima strofa mette in evidenza la scelta radicale, l’essere servo, la seconda strofa presenta, nella nostra lettura, un cammino di vita nella condizione di servo che conduce all’obbedienza fino al massimo grado. Nella terza strofa c’è il cammino di Gesù verso Dio, nella quarta strofa c’è Gesù che diventa il centro degli uomini.


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LE LETTERE AI TESSALONICESI È comunemente riconosciuto che queste lettere, diversamente dall’ordine del canone, sono le prime dell’epistolario paolino. Tessalonica fu raggiunta nel secondo viaggio ed è perciò, dopo questo secondo viaggio, che deve essere collocata. In queste lettere notiamo due caratteristiche: una freschezza dell’animo di Paolo che ama aprire il cuore alle sue comunità ed anche un aggancio di queste lettere con la tradizione evangelica benché incominci una fase di spostamento dalla prospettiva escatologica alla vita concreta delle comunità. Salvo errore, la prima lettera nasce da un equivoco. Come appare dalla tradizione evangelica, la resurrezione di Gesù orientò verso il Suo ritorno e del ritorno di Gesù si parla abbastanza frequentemente soprattutto nel Vangelo di Matteo, ma anche negli altri. Alcune parabole (10 vergini, talenti, samaritano) orientano verso il ritorno. L’annunzio cristiano era quello di una venuta “presto”, si diceva che il Signore sarebbe tornato presto. Ma qui probabilmente nasce un equivoco: altro è la parola presto nel linguaggio apocalittico, altro è la parola presto nella mentalità greca di chi non ha quel linguaggio. Nella mentalità apocalittica, presto, è già la presenza dell’effetto contenuta nella causa: posta la causa, l’effetto è imminente, anche se cronologicamente passerà del tempo. Un esempio ci pare di scorgerlo nella narrazione di Matteo, secondo il quale alla morte di Gesù, i sepolcri si aprirono, molti colpi di santi risorsero, entrarono nella città Santa e apparvero a molti. Nulla di reale, ma è qui un discorso prolettica, e visto cioè come già realizzato, l’effetto contenuto nella Sua causa che è la morte di Gesù. Questo però non dovette suonare così alle orecchie greche.


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Martedì 08 marzo 2005, ore 11,30 / 12,15 Per un greco non abituato alla riflessione apocalittica, il presto assumeva un senso cronologico e si cercò di quantizzare questo presto, una quantità che però veniva dilazionata dal fatto che la gente moriva. E allora il duplice squilibrio della chiesa di Tessalonica. Anzitutto la gente smise di lavorare donde la frase paolina: «chi non lavora nemmeno dovrebbe mangiare», il secondo squilibrio fu un’angoscia che assalì per il fatto che si diceva che quelli che morivano non avrebbero assistito alla gloria del ritorno del Signore. Paolo entra subito in argomento fin dall’inizio proponendo il vero cammino del cristiano. In 1,2 leggiamo: «ringraziamo Dio sempre per tutti voi facendo memoria di voi nelle vostre preghiere ricordandoci 1) dell’opera delle fede, 2) del travaglio dell’agape, 3) della costanza della speranza». Abbiamo qui una triade scandita dalle cosiddette tre virtù teologali. La prima è (in 1,3): 1. « » (in questa frase è polivalente il genitivo « »), può essere sia genitivo soggettivo (la fede che produce opere), sia genitivo oggettivo (l’operosità che rafforza ed accresce la fede), sia anche genitivo di identità (la stessa fede che è opere). Non è il caso di optare per un senso o per l’altro, conviene lasciare la frase nella sua indeterminatezza: quello che è importante sottolineare è la relazione tra fede e operosità. 2. La seconda espressione « » andrebbe tradotta: «la fatica, il travaglio dell’agape». Di questa frase sottolineamo soltanto il carattere faticoso dell’agape, ma già questo aspetto di fatica sottintende la prospettiva di un cammino.


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. la terza frase è « ' $ ». Il termine « ' » tradotto abitualmente con «costanza», indica l’atteggiamento di chi trovandosi sotto ( ' ’), sotto un peso, da quel peso non si sottrae, ma sotto di esso rimane ( ) saldo. Quest’espressione si ricollega alla tradizione evangelica dove Gesù afferma: «che avrà perseverato fino alla fine sarà salvo», nel nostro caso la « ' » come atteggiamento di chi permane senza sottrarsi è presentato come la caratteristica e in certo senso anche come la condizione fondamentale della speranza. In questo modo, Paolo lega la fede all’operosità, l’agape al travaglio e la speranza alla costanza. Emerge una triade in un ordine diverso rispetto a quello di altri testi anche paolini. In 1Cor 13 troviamo l’ordine che usiamo noi abitualmente: fede, speranza, carità (agape). Come anche quest’ordine si ritrova nel capitolo 10 della lettera agli Ebrei. Nel nostro testo l’ordine della triade nasconde un cammino analogo a quello dell’Esodo. I momenti dell’Esodo sono tre: 1) l’esperienza del Dio liberatore; 2) il cammino attraverso il deserto; 3) il termine del cammino: l’ingresso nella terra promessa. La triade presenta la fede come punto di partenza, non fede astratta, ma operosa, presenta l’agape come travaglio, il termine del cammino è indicato dalla «

», la speranza. Ma possiamo tener conto delle pri-

me tre parole: operosità, travaglio, costanza. Possiamo dire che una frase dà il contenuto alla frase precedente. L’operosità della fede si concretizza nell’agape che è travagliata, ma il permanere nel travaglio dell’agape permette di aprirsi alla speranza. In questo modo, Paolo indica, come raggiungere l’obiettivo della speranza, non stando con le mani in mano (come pretendevano i Tessalonicesi), ma mediante una attività di vita incentrata sulla fede come punto di partenza, sull’agape come cammino intermedio, e sulla speranza come termine del cammino.


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Nel verso 9 dello stesso capitolo, abbiamo un’altra pennellata nella direzione contraria all’atteggiamento assunto dai Tessalonicesi. Parlando dei suoi viaggi, Paolo ricorda, come la fede dei Tessalonicesi è celebrata non solo nella Macedonia e in terra di Acaia, ma anche in ogni luogo. Si avverte la metodologia paolina che spesso ama usare il dono della “captatio benevolentie”, e così leggiamo quale fede è celebrata: «come vi siete orientati verso Dio dagli idoli per servire al Dio vivente e attendere il Suo Figlio dal cielo che risuscitò da morte: Gesù che ci libera dall’ira futura». È utile leggere questo verso in maniera strutturale, e possiamo cogliere quattro frasi in relazione alternata: 1) vi siete orientati a Dio; 2) dagli idoli; 3) per servire al Dio vivo; 4) e attendere il Suo Figlio dal cielo. Questo schema è alternato secondo la disposizione attuale del testo, ma potremmo tematicamente strutturarlo nel seguente modo: 1) dagli idoli; 2) a Dio; 3) servire al Dio vivo; 4) attendere il Suo Figlio dal cielo. In questo schema torna ancora il cammino cristiano modellato sullo schema dell’Esodo. Il cristiano ha operato un Esodo: dagli idoli a Dio, esattamente come una volta il popolo di Israele operò un Esodo dalla servitù degli egiziani al servizio di Dio.


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Tutta la storia dell’Esodo, infatti ha due orientamenti: 1) verso la terra promessa; 2) verso Dio 1) «voi avete visto ciò che ho fatti agli egiziani 2) Vi ho condotti su ali di aquila 3) Vi ho fatti venire a me». (Cfr. Esodo 19,4) Paolo riprende una espressione dell’AT: servire Dio al popolo è dato come segno di liberazione, il fatto che serviranno Dio. Lasciando stare ulteriori riferimenti all’Esodo, osserviamo come anche qui c’è una proiezione verso il futuro «attendere il Suo Figlio», ma anche stavolta, l’attesa implica un cammino che non è certamente di inoperosità: servire Dio, anche se Paolo non precisa in che cosa consista questo servizio a Dio. Per l’AT servire Dio coincideva con l’osservanza dei comandamenti. Possiamo anche accostare le due triadi, il verso 3 ed i versi 9-10, e possiamo proporre il seguente schema: TS 1,3 1) l’opera della fede; 2) il travaglio dell’agape -----------------------------3) la costanza della speranza

TS 1,9-10 1) convertiti dagli idoli 2) a Dio servire al Dio vivente 3) attendere il Suo Figlio

Si può scorgere in queste due triadi un certo parallelismo tematico per cui le due triadi si completano a vicenda. La conversione dagli idoli avviene mediante la fede; qui possiamo trovare un contenuto del servire Dio, accettando il travaglio dell’agape; l’attesa del Suo Figlio è l’oggetto della speranza; perché oggetto di speranza? Perché libera dall’ira futura. E Paolo menziona l’evento della Resurrezione come fondamento della


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speranza: la Sua venuta è certa perché è conseguenza della Sua Resurrezione e certamente è il liberatore appunto perché è Risorto. Al tema del ritorno del Signore, Paolo torna nel capitolo quarto dove risponde all’altra preoccupazione o angoscia dei Tessalonicesi: il fatto, cioè, che alcuni morivano. Un equivoco poteva anche essere suggerito dalle parole stesse di Gesù che erano state tramandate nella comunità, così per esempio in Matteo 16,28 leggiamo: «in verità dico a voi: ci sono alcuni di quelli qui presenti che non gusteranno morte finché non vedano il Figlio dell’uomo venire nel Suo regno». Abbiamo riferito l’espressione secondo la versione di Matteo; Marco e Luca che riferiscono lo stesso detto introducono delle mutazioni, donde deduciamo che questa frase, che questo detto ebbe difficoltà di comprensione nella tradizione primitiva. Una lettura più attenta rivelerebbe che il detto è applicabile alla resurrezione, e questa avvenne mentre alcuni dei presenti erano vivi e divennero perciò dei testimoni. Ma la frase poteva essere riferita alla Parusia e perciò, in tale riferimento, emergeva l’angoscia che alcuni morendo non avrebbero visto la venuta del Signore. Così Paolo nel capitolo quarto, dal verso 13 fino al capitolo 5,11, seguendo lo schema dei discorsi escatologici che troveremo nei Vangeli sinottici, affronta il problema in due parti: 1) la sorte dei morti in relazione alla venuta del Signore 2) e come attenderlo. Quanto alla relazione, Paolo, dichiara subito in 4,13: «non vogliamo che voi siate nell’ignoranza a riguardo di quelli che “giacciono” perché non siate tristi, (perché cessiate di essere nella tristezza) come gli altri che non hanno speranza». In poche parole Paolo sta dicendo che la tristezza che tiene i Tessalonicesi è frutto di mancanza di speranza, ma tenendo presente la triade si 1,3, la speranza segue all’agape e questa alla


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fede, e perciò se manca la speranza, manca anche l’agape e manca anche la fede. Ci limitiamo soltanto ad esprimere sinteticamente il pensiero paolino, nel verso 14, però l’apostolo sottolinea che «se crediamo che Cristo è Risorto anche quelli che giacciono, Dio li condurrà con Lui». E perciò Paolo ricorda la Resurrezione. I morti alla venuta del Signore risorgeranno. L’apostolo descrive tale venuta con un linguaggio tipicamente apocalittico, nel verso 15 afferma che: «noi, i viventi, che siamo lasciati per la parusia del Signore, non precederemo quelli che si sono coricati». Questa frase pone un problema, o meglio lo ha posto tra gli interpreti, che però vorremmo un po’ eludere perché mi pare leggermente ozioso. Dicendo noi Paolo pensava che nemmeno lui sarebbe morto. Le opinioni sono state tante tutte gravitanti attorno a due punti: - o la convinzione che Paolo non sarebbe morto, - o quella che mi sembra più verosimile e che sta riprendendo il linguaggio dei suoi interlocutori. Dicevamo che la venuta del Signore è descritta con linguaggio teofanico-apocalittico (verso 16): «il Signore stesso ad un cenno, alla voce dell’arcangelo, alla tromba di Dio, scenderà dal cielo», in seguito, a questa venuta parusiaca, i morti risorgeranno e se ci sono ancora dei viventi, la loro condizione sarà quella di essere rapiti sulle nubi del cielo, e tutti andremo incontro al Signore. Diamo qualche elemento di valutazione globale di questo discorso.


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Il linguaggio anzitutto non deve essere esasperato, quello che Paolo sottolinea sono tre aspetti: 1) anzitutto la certezza della Sua venuta; 2) inoltre l’affermazione della resurrezione; 3) infine l’epilogo finale che è quello di essere con Cristo che Paolo descrive come un grande corteo trionfale. Su questo non diciamo più nulla, è più importante quello che segue nei versi 1-11 del capitolo quinto. Paolo esordisce con le parole «sui tempi e momenti, fratelli, non avete bisogno che vi si scriva». Emerge un problema che doveva agitarsi nella chiesa primitiva: quando il Signore tornerà? Contrariamente a quanto teologi hanno affermato, la Chiesa primitiva professò la totale inconoscibilità del tempo del ritorno del Signore. Se consideriamo per esempio il discorso escatologico di Matteo, capitolo 24 e 25 si pone il problema sul tempo della venuta, e Gesù dichiara che non lo sa nessuno, nemmeno il Figlio. L’inconoscibilità dell’ora ha come conseguenza che il Signore può tornare in qualsiasi momento, donde una dimensione spirituale della vita cristiana professata dalla Chiesa primitiva ed espressa con il verbo «

» (vegliare).

Dal momento che non si sa quando il Signore torna, bisogna attenderlo vegliando e non dormendo. Alla base c’è una convinzione che la venuta del Signore dovrà verificarsi di notte, ciò emerge per esempio dalle varie parabole, per esempio Matteo 25: le dieci vergini: «a mezzanotte si sente un grido, ecco lo sposo!»; Marco 13 esorta a vegliare perché il Signore può tornare la sera a mezzanotte, al canto del gallo al mattino, cioè in tutto l’arco della notte. Tale convinzione poggia probabilmente su una parafrasi di indole midrascica contenuta nel Targum palestinese di Esodo 12. Secondo Esodo 12, l’angelo sterminatore venne di notte, e il racconto dell’Esodo conclude:


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«notte di veglia fu quella per il Signore». I rabbini commentarono che quattro sono le notti: 1) 2) 3) 4)

la notte in cui Dio creò; la notte in cui Abramo andò a sacrificare il figlio; la notte di Pasqua; la notte quando verrà il Messia.

Si capisce allora l’immagine della veglia: chi attende non dorme. lasciando stare la prospettiva dei sinottici, e tornando a Paolo, in 5,2 Paolo spiega: «voi stessi sapete accuratamente come il giorno del Signore viene come un ladro nella notte». Notiamo anzitutto l’avverbio “accuratamente”: ciò significa che quello che Paolo sta spiegando appartiene già ad una lunga esposizione orale. Paragona la venuta del Signore a quella di un ladro. L’immagine del ladro non è paolina, ma è ripresa dalla tradizione sinottica, precisamente si legge in Matteo 24,43 e in Luca 12,39. Entrambi gli evangelisti riferiscono un detto di Gesù che, salvo opinione migliore, può risalire a Gesù stesso. Il detto è questo: «se sapesse il padre di famiglia a che ora verrebbe il ladro veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la sua casa». Gesù conclude: «anche voi siate pronti perché nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo viene». Ci potrebbe essere una distonia tra l’immagine e la sua applicazione. Il padrone di famiglia veglia se sa a che ora viene il ladro, i discepoli debbono vegliare perché non sanno a che ora il Signore viene. Ma probabilmente si passa ad una argomentazione a forzioni4: se il padre di famiglia veglia perché sa, a maggior ragione debbono vegliare i discepoli perché non sanno. Questo detto di Gesù fu reinterpretato ed abbiamo tre esempi di reinterpretazione: 1Ts 5,2; 2Pt 3,10; Ap 3,3. In 2Pt 3,10 leggiamo: «questo dovete sapere, che verrà il giorno del Signore come un ladro»; Ap 3,3 precisa: «se non vegli, vengo come un ladro». 4

«A maggior ragione».


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Sabato 12 marzo 2005, ore 08,30 / 10,15 La reinterpretazione doveva perciò appartenere alla tradizione primitiva. C’è però una differenza all’interno di questa reinterpretazione, mentre Tessalonicesi parla della venuta non direttamente del Signore, ma del «giorno del Signore», l’Apocalisse parla direttamente del Signore. c’è però una parola in Paolo molto importante perché gli permette di passare all’aspetto spirituale della vita cristiana: precisa che il giorno del Signore viene «come un ladro nella notte». Questa precisazione «nella notte» nasce indubbiamente dallo stile di un ladro che in genere preferisce per rubare, le ore notturne. Ma probabilmente questa parola nasce dalla tradizione evangelica. La tradizione evangelica assegna il tempo della notte alla venuta del Signore e ciò sulla scia di una tradizione giudaica codificata nel Targum di Esodo. In Paolo questa parola assume un senso spirituale: la venuta del giorno del Signore come un ladro nella notte coglie di sorpresa come i dolori di una partoriente, poi però precisa (nel verso 4): «ma voi fratelli non siete della tenebra cosicché il giorno del Signore vi sorprenda come un ladro». Precisa Paolo: «tutti voi siete figli della luce e figli del giorno» (questo è il senso spirituale). Dal momento che il ladro viene nella notte, e il cristiano vive nel giorno, non potrà essere sorpreso da questa venuta. Perché poi sia nel giorno si spiega per il fatto che è rivestito della corazza della fede e della carità e dell’elmo della speranza della salvezza. Possiamo notare il linguaggio militare che Paolo usa anche altrove, per esempio nel capitolo sesto della lettera agli Efesini, il che presuppone che la vita cristiana sia concepita anche come una lotta. Il cristiano vive armato della fede, dell’agape e della speranza. Siamo in 5,8, perciò verso la fine della lettera. Possiamo stabilire una inclusione letteraria tra 1,3 dove parlava dell’opera della fede, del travaglio dell’agape e della costanza della speranza, sono tre dimensioni di vita cristiana che lo rendono «figlio della luce» per cui reso così lumi-


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noso non avrà mai paura del giorno del Signore. Paolo perciò sposta l’accento da una attesa futura inquietante ad una dimensione attuale della vita cristiana. L’apostolo và a concludere la sua lettera introducendo alcune esortazioni di vita cristiana nei versi 16-22: «in ogni cosa gioite, senza interruzione pregate, in tutto ringraziate, non spegnete lo spirito, non disprezzate la profezia, vagliate ogni cosa, tenete ciò che è buono, allontanatevi da ogni coscienza cattiva». Concludendo questa prima lettera, ciò che appare significativo non è soltanto il suo contenuto, ma soprattutto l’animo fresco dell’apostolo. Lo sarà anche nelle altre lettere, ma quelle saranno più segnate da una venatura di sofferenza. In questa lettera, Paolo, aveva cercato di acquietare gli animi di fronte all’annunzio della venuta del Signore, riportandoli ad una concretezza di vita cristiana. Non dovette riuscirci, ciò spiega la seconda lettera, la quale appunto rivela che l’inquietudine ancora rimase, solo però che questa seconda lettera per noi è difficilissima, anche perché Paolo lascia dei vuoti di pensiero. In 2,1 scrive esortando a non lasciarsi traviare su una pretesa imminenza della venuta del giorno del Signore. Addirittura Paolo scrive: «nemmeno per mezzo di lettera come scritta da noi» il che significa che dovevano circolare degli scritti attribuiti a Paolo. Nel verso 3 dice così: «nessuno vi inganni poiché se prima non viene l’apostasia e si manifesta l’uomo dell’iniquità, il figlio della distruzione, colui che si erge ad avversario e si innalza su tutte le cose chiamandosi io o idolo al punto da sedere nel tempio di Dio, manifestando sé stesso essere Dio». La frase rimane in aria, Paolo ha introdotto una lunga protasi che avrebbe dovuto essere seguita da una apodosi. In realtà l’apostolo nel verso seguente cambia pensiero e scrive: «non ricordate che già quand’ero con voi ve lo dicevo?», però è facile ricostruire l’apodosi: se prima non si manifesteranno tutte quelle cose, il Signore non verrà. Ma il difficile è appunto caratterizzare questa apostasia di cui parla Paolo e questa manifestazione dell’uomo iniquo. È un po’


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difficile stabilire fin dove arriva il linguaggio preso in parte anche dal libro di Daniele, e dove arriva il messaggio reale. Possiamo avanzare una supposizione: Paolo in questa lettera, ancora più delle altre, ha presente la tradizione evangelica, e ci chiediamo se questa descrizione non sia una reinterpretazione della parabola della zizzania che prevede lo sviluppo fino alla mietitura, quando sarà possibile la chiara distinzione tra grano e zizzania. Se questa relazione è vera, l’apostasia di cui parla coinciderebbe con la piena manifestazione escatologica finale del male che sarà eliminato. La difficoltà emerge ancora di più leggendo il verso 6: «e ora conoscete ciò che lo trattiene per manifestarsi nel suo tempo». Questa frase parla di un impedimento che trattiene la manifestazione dell’uomo dell’iniquità. Ma che cosa è? Il discorso di Paolo è unico nel suo genere, ci si potrebbe chiedere se stia facendo un discorso reale o non stia seguendo la scia dei discorsi escatologici dei vangeli sinottici dove Gesù parla dell’abominio desolante che sta nel nuovo santo, ma anche nei sinottici il discorso formulato con il linguaggio di Daniele rimane oscuro. San Giovanni nella prima lettera parla dell’anticristo e rivolgendosi ai cristiani scrive: «avete sentito che deve venire l’anticristo», però poi precisa che l’anticristo5 è venuto, anzi ce né sono tanti e qui troviamo la famosa frase: «sono usciti da noi ma non erano dei nostri, ma se fossero stati dei nostri sarebbero rimasti con noi». Questo passaggio giovanneo è più chiaro, e l’allusione può essere facilmente a quella serie di defezioni nella chiesa primitiva, ma impressiona per esempio che il discorso di Paolo non trova riscontro in un libro dove forse lo si poteva attendere: l’Apocalisse che parla dell’annientamento satanico (capitolo 20), ma non dice nulla sulla manifestazione di quest’uomo di iniquità, o sulla apostasia escatologica.

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Cfr. 1Gv 2,18.


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LE LETTERE AI CORINZI Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo abbandona la prospettiva escatologica, trattata nella lettera ai Tessalonicesi. Paolo affronta le angustie e le diatribe presenti nella vita della comunità. C’è né una in particolare alla quale Paolo accenna subito fin dalle prime battute della sua lettera, in 1,11 scrive: «mi è stato riferito a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Gloe, che divisioni ci sono tra di voi». Le divisioni sono indicate al verso seguente: «alcuni di voi dicono: io sono di Paolo, io di Apollo, io di Cefa, io di Cristo». Non senza un certo scandalo, Paolo si chiede: «ma forse Cristo è stato diviso?». Il problema è tanto attuale perché le divisioni di cui parla Paolo si sono riscontrate nella Chiesa di allora e si riscontrano nella Chiesa di oggi. L’espressione: «forse che è stato diviso il Cristo?» mira a rimettere al centro chi realmente deve starci. Nei versi seguenti, Paolo, però rivela quale sia la cera causa di tali divisioni. Nel versi 17 aveva detto: «Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad evangelizzare e non con sapienza di parola, perché non sia svuotata la Croce di Cristo». Ciò significa che se Paolo avesse avuto una sapienza di parola avrebbe rischiato di mettersi lui al centro e di prendere il posto della Croce di Cristo. Cercando di tradurre in parole nostre il pensiero di Paolo, le divisioni ci sono perché si fa fatica a mettere al centro Cristo che si presenta nella fisionomia di crocifisso. Ed è più facile riconoscersi in un leader carismatico, ed è a questo punto, dal verso 18 in poi che Paolo introduce il discorso sulla Croce di Cristo. Nel verso 18 scrive: «la parola della Croce è stoltezza per quelli che si pentono, ma per quelli che si salvano cioè per noi, è potenza di Dio». Il Cristo Crocifisso si pone davanti a tutti, giudei e pagani, e li contesta. Nel verso 22 dirà: «i giudei chiedono segni prodigiosi e i greci cercano la sapienza». Di fronte a questa pretesa c’è la stoltezza della predicazione (verso 23): «noi annunziamo Cristo Crocifisso che è scandalo per i giudei e stoltezza per i pa-


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gani, però il Cristo crocifisso è la potenza e la sapienza di Dio». Nel verso 24 e 25, Paolo dichiara che, quello che i greci chiamano stoltezza dal punto di vista di Dio è la più alta sapienza. Si direbbe che nel Cristo crocifisso Dio ha esaurito tutta la Sua Sapienza. Per i giudei la croce appare come un segno di debolezza e di impotenza, ma proprio quella è la maggiore forza di Dio. In altre parole, quello che gli uomini giudicano stoltezza e debolezza è la sapienza e la forza di Dio. Saltando altre considerazioni, Paolo pone il problema perché non si accetta un simile Cristo, in 3,1 scrive: «ed io fratelli, non potei parlare a voi come a persone spirituali, ma come a persone carnali», cioè i Corinzi sono rimasti nella dimensione umana e non sono passati alla dimensione spirituale, sono cioè rimasti come bambini che hanno bisogno di essere ancora nutriti di latte e non con cibo solido. Implicitamente Paolo sta dicendo che per potere comprendere il Cristo crocifisso bisogna essere spirituali, cioè animati dallo Spirito di Dio. Abbiamo trovato in questi tre capitoli un ragionamento progressivo, le divisioni ci sono perché non si mette al centro il Cristo crocifisso: non lo si mette al centro, perché non si accetta la Sua Croce e non la si accetta perché non si è spirituali. Ciò significa che per potere comprendere il crocifisso bisogna essere animati dal Suo Spirito, altrimenti si resta in una lettura umana e dal punto di vista umano, non c’è dubbio che il crocifisso sia stoltezza e scandalo. A livello spirituale, invece, esso si presenta, come la massima presentazione della sapienza di Dio e della potenza di Dio. Tutto questo discorso tacitamente suggerisce che per fare del crocifisso il centro di unità bisogna passare attraverso la Sua croce. Paolo allora, alla luce di quanto ha detto prima, può rimproverare i Corinzi (3,4): «quando qualcuno dice: io sono di Paolo, ed un altro: io di Apollo, non siete “uomini”?». Nel verso 5 si chiede: «chi è Apollo, chi è Paolo?: soltanto ministri delle cose in cui avete creduto», quindi non al centro. E nel verso 6 abbiamo la famosa frase: «io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che dà a tutto incremento». Paolo e gli


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altri sono soltanto ministri, per cui in 3,21 può dire: «nessuno si glori degli uomini» e poi continua: «tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» sottolineando così che essi appartengono non ad un uomo, bensì a Cristo, attraverso il quale di arriva a Dio. Il tema dell’unità però sta a cuore a Paolo, tanto che lo riprende periodicamente nella sua lettera e passiamo così ai capitolo 11, 12 e 13. Sabato 19 marzo 2005, ore 09,30 / 10,15 Del capitolo 11, Paolo nota le divisioni lì dove non si dovrebbero portare di fronte alla mensa del Signore, ma già nel capitolo 10 aveva introdotto questo problema. Leggiamo infatti nel versetto 17: «poiché c’è un solo pane, noi che pur siamo molti formiamo un solo corpo» tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Quest’immagine è molto bella perché pone il pane al centro di due comunioni con Cristo anzitutto è di conseguenza non si possono mangiare le carni immolate agli idoli (qui però c’è un altro problema, il mangiare la carne immolata agli idoli). L’altro aspetto comunionale è quello tra di noi: importante è qui l’immagine del corpo che Paolo usa e che sta alla base della verità del corpo mistico di Cristo. La dottrina del corpo mistico è sviluppata in Paolo in diverse lettere: Cristo è il capo e noi formiamo il suo corpo. Ne parla al capitolo 12 della prima lettera ai Corinzi, ne parla nel capitolo 12 della lettera ai Romani, leggiamo infatti dal verso 4 e seguenti che: «c’è un solo corpo con molte membra, ma le membra non hanno tutte la medesima funzione», e nel verso 5 precisa che anche noi: «pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo» e ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri.


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La stessa immagine è ripresa nel capitolo quarto della lettera agli Efesini. Paolo introduce una esortazione, nel verso 3, cercando di mantenere l’unità nello Spirito, mediante il vincolo della pace. Continua Paolo sottolineando i molti elementi di unità: «un solo corpo, un solo spirito […], una sola fede, un solo battesimo […]». L’unità però non è uniformità, ma conosce anche un pluralismo che Paolo, ancora sull’immagine del corpo descrive nello stesso capitolo quarto dal verso 11 in poi: «è Lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, […]». Ma una osservazione possiamo fare: l’immagine del corpo è molto efficace perché presenta una unità differenziata, ed una differenziazione ricondotta ad unità. Per cui l’immagine permette di evitare due estremi, da una parte l’esasperazione dell’unità che è l’uniformità, d’altra parte evitare l’esasperazione della differenziazione che porta ad una disgregazione e chiude in individualismi. L’immagine del corpo, però, non è nuova: già era presente nella antica letteratura. È famoso l’apologo di Meneio Agrippa, che di fronte alla secessione dei Plebei sottolineò, in questo modo, la loro importanza. Ma veniamo al capitolo 12 della prima lettera ai Corinzi. Paolo parte da una affermazione di pluralità. Ci sono diversi carismi, la parola carisma in greco: «

» come tutte le paro-

la in «- » indica la realtà completa, è perciò il « viene donato, infatti il termine «

» deriva da «

» è tutto ciò che » cioè dono,

ma implica diversi aspetti: anzitutto la persona che dona e inoltre la gratuità del dono. Non è chiara l’ampiezza di questo termine che Paolo relazione al termine ministero; ministero è anche una parola che è custodia di un munus, compito, dono: ma probabilmente le due parole si completano a vicenda, il «

» può essere quello che si porta nella propria per-

sona, sia anche il compito concreto che si riceve. Ma al verso 1 Paolo ha parlato di doni dello Spirito, e perciò c’è già un punto di partenza, di unità, che è lo Spirito da cui ogni dono sgorga. Nei versi 4,11, Paolo insiste s


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questo carattere originale dello Spirito: sono molto belli i versi 4-5, dove Paolo dichiara: «vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito, vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore, vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti», notiamo l’indole trinitaria di questo testo. Tacitamente Paolo propone la stessa Trinità come esempio di pluralità nell’unità e che sta a modello dell’unità nella pluralità ecclesiale. Posto il principio di questa unità fondamentale, Paolo elenca delle differenziazioni, è importante la frase: «a ciascuno è data una particolare manifestazione dello Spirito per l’utilità comune». Due cose si sottolineano: la parzialità del dono, ma anche la finalizzazione del dono all’unità (per il bene comune). Nei versi 12-27, Paolo propone uno sviluppo alla luce dell’immagine del corpo, nel verso 13 dichiara che tutti noi siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo. Nei versi seguenti, Paolo dirà: «come nel corpo ogni membro è necessario» e alla fine conclude nel verso 27 sottolineando: «voi siete il Corpo di Cristo e Sue membra, ciascuno per la sua parte». Ma nel capitolo 13, quasi dando un colpo d’ala, Paolo passa a quel carisma che sta al di sopra di tutti e che è comune a tutti, ed è questo dono che quasi costituisce il tessuto connettivo di tutte le varie membra (il sangue). Ecco allora il motivo per cui introduce nel capitolo 13, l’inno cosiddetto all’agape. Di quest’inno però va sottolineata una prospettiva particolare: che cos’è l’agape? Essa è presentata come «

» cioè come un dono che si ri-

ceve e perciò sembra che in quell’inno la prospettiva di Paolo no sia prima di tutto l’agape che io esercito, ma l’agape che ho ricevuto in dono. Il modo ipotetico di esprimersi di Paolo rivela che questo dono è già presente in tutti, ma che, ricevuto, costituisce l’anima di tutto. Così nel verso 4, Paolo scrive: «la carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa, non si vanta […]», Paolo le presenta come caratteristiche dell’agape che si è ricevuto in dono, e di conseguenza essa permea di sé le azioni umane. Possiamo anche dire che tutte le cose che Paolo elenca, la pa-


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zienza, la mancanza di invidia, credere tutto, sperare tutto, ecc…, sono il frutto dell’agape che è in noi. La dimensione dell’agape ha un triplice effetto: il primo effetto è quello di essere raggiunti dal dono di Dio, il secondo è quello di costituire elemento di coesione, il terzo effetto è quello di proiettare verso l’eternità, e infatti Paolo sottolinea che tre sono le cose che rimangono: «la fede, la speranza, e l’agape, ma più grande di tutte è l’agape». Martedì 04 aprile 2005, ore 10,30 / 12,15

LE LETTERE AI GALATI E AI ROMANI Presentiamo la struttura generale di queste due lettere. La lettera ai Galati si articola, nei suoi sei capitoli, in tre parti: 1. Parte apologetica (cap.1-2) dove l’apostolo difende contro i giudaizzanti la legittimità del suo ministero apostolico e la verità del Vangelo che annunzia. 2. Parte dottrinale (cap.3-4) dove Paolo sviluppa il tema della necessità della fede in Cristo per la salvezza in contrapposizione alla pretesa dei giudaizzanti sulla necessità dell’osservanza della legge. 3. Parte parenetica (cap.5-6). La lettera ai Romani invece, nei suoi sedici capitoli si articola in tre parti: 1. Parte dottrinale (ap.1-8). 2. Problema della conversione degli ebrei (cap.9-11). 3. Parte parenetica (cap.12-16). Dovremo poi introdurre delle divisioni ulteriori soprattutto nei cap. 1-8.


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Prima di andare nel cuore di queste lettere, andiamo al problema che le ha causate. Per andare al problema ci riferiamo a At15 dove Luca ci parla del cosiddetto concilio di Gerusalemme. Ma prima di arrivare al concilio indichiamo qualche cosa sullo sviluppo precedente del libro degli Atti. In cap.7 Luca introduce il lungo discorso di Stefano che culmina nel suo martirio. L’autore ci narra che tra quelli che operavano la lapidazione c’era anche Saulo. Leggiamo in cap.8,1 che Saulo era consenziente alla sua morte. Questo particolare suggerisce una causalità tra la morte di Stefano e la conversine di Saulo, quasi a dire che il mistero della passione sostenuto da Stefano si risolve in frutti di risurrezione nella conversione di Saulo. Infatti, Luca dopo avere narrato una certa attività della chiesa e avere introdotto in cap.8 l’attività del diacono Filippo, in cap.9 introduce la conversione di Saulo. Non scendiamo nei particolari di quella conversione, ma notiamo soltanto che a Saulo divenuto Paolo è affidato il ministero tra i pagani, cosa che ricorderà nella lettera ai Galati. Tuttavia chi apre il cammino del Vangelo ai pagani non è Paolo bensì Pietro. Nel cap.10 infatti, Luca introduce l’episodio della conversione della famiglia del Centurione Cornelio. Conosciamo la narrazione di questa conversione nei vv.9-16 del cap.10, è narrata la visione di Pietro che vede scendere mentre si trovava sulla terrazza a pregare, un lenzuolo con dentro ogni specie di animali quadrupedi, rettili e uccelli. Pietro riceve il comando di uccidere e mangiare, Pietro reagisce obiettando che mai aveva mangiato alcunché di comune o immondo, la voce dal cielo lo ammonisce: Pietro no può ritenere comune quello che Dio ha santificato. Dopo ciò ripetutosi tre volte la visione scompare e mentre Pietro si chiedeva quale fosse il senso di quella visione giungono gli inviati del Centurione Cornelio che lo cercano ma lo Spirito stesso gli dice che tre uomini lo cercano e gli comanda di andare con loro. Lo Spirito ordina a Pietro di trasgredire la legge perché secondo essa un giudeo non poteva andare in casa di un pagano. A questo punto la visione è chiara, i vari a-


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nimali del lenzuolo con ogni specie di animale impuro, sono i pagani: Dio li ha santificati, Pietro non può ritenerli comuni e deve trasgredire la legge che proibiva di andare da loro. E’ molto bello il discorso che Pietro propone in casa di Cornelio, sottolineando che Dio non fa distinzione delle persone ma che gli è gradito chiunque lo teme a qualsiasi popolo appartenga. E’ chiaro perciò che Dio ha chiamato anche i pagani. Della conversione e della salvezza dei pagani avevano parlato anche i profeti post-esilici. Citiamo soltanto Is 56,1 dove leggiamo l’annuncio: «non dica lo straniero che ha aderito al Signore: certo mi escluderà il Signore dal suo popolo» (verso 3) e Dio risponde: «gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo […] li condurrò sul mio monte santo». Malachia aveva parlato di una oblazione pura che sarebbe stata offerta al Signore da qualsiasi angolo della terra. Tutto questo era accettato dai giudei ma ciò esigeva una condizione comprensibile quanto ancora Cristo non c’era, che i pagani che volevano entrare nell’alleanza con il Signore, si giudaizzassero cioè si facessero circoncidere e osservassero tutta la legge. Ma poniamo un problema e questo problema è suggerito da affermazioni gravissime di Paolo stesso; nella lettera ai Romani dirà che mediante la legge si ebbe la conoscenza del peccato anzi Paolo stabilisce una relazione tra la legge e il peccato, in tanto c’è il peccato in quanto c’è la legge. Nella lettera ai Galati in cap.3 c’è una affermazione molto dura; in v.10 l’apostolo afferma che quelli che si richiamano alle opere della legge sono sotto la maledizione. Infatti, la legge minaccia maledizione per chiunque non la osserva. Paolo cita Dt 27,36 ma poi continua che la legge dava un’altra maledizione: «maledetto chiunque pende dal legno» e Cristo si è fatto maledetto per riscattare dalla maledizione della legge. Emerge allora il problema: che cosa è questa legge? Il giudaismo ritenne


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la legge il dono più prezioso che Dio aveva fatto, al punto da ritenere che i pagani erano esclusi dalla salvezza per la semplice ragione che al Sinai non c’erano quando Dio aveva dato la legge. Effettivamente il dono della legge fu ritenuto il dono più grande. Sappiamo come dopo il ritorno dall’esilio, si operò la redazione del Pentateuco, si prese come schema il codice sacerdotale e su quello si inserirono le altre parti provenienti dalle altre tradizioni. Il Pentateuco diventò così la legge assoluta al punto che fu anche oscurato il carisma profetico. Nell’epoca post-esilica non troviamo più grandi nomi di profeti. Tuttavia il carisma profetico non fu annullato ma rimase assumendo una forma più clandestina che sarà poi la letteratura apocalittica. Dicevamo che il dono della legge costituì il dono più grande che Israele ricevette da Dio. Basta citare alcuni salmi post-esilici; citiamo anzitutto il salmo 39; il salmista si pone il problema di come ringraziare Dio per i suoi innumerevoli benefici. Constata che Dio non vuole i sacrifici: «sacrificio e offerta non gradisci; non hai chiesto olocausto e vittime per la colpa». Quello che invece Dio vuole è l’osservanza della sua legge: «allora ho detto: ecco io vengo a compiere il tuo volere e la tua legge è in mezzo alle mie viscere». Il salmo 18 ancora continua: «la legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima». Dobbiamo però citare anche il lungo salmo 118 con i suoi 176 versi. Percepito il valore della legge ci si mise allora a studiarla dando origine a tutta la letteratura giudaica che adesso ci limitiamo ad accennare. La legge anzitutto fu tradotta in lingua aramaica dal momento che il popolo tornato dall’esilio non parlava più l’ebraico bensì l’aramaico. Si formò così la versione aramaica che a noi è pervenuta in diverse forme. Anzitutto il Targum che traduce quasi alla lettera il testo ebraico. Ci pervenuto poi nella forma palestinese che non è una semplice traduzione ma tante volte presenta degli ampliamenti ai racconti di indole midrashica e tante volte propongono delle re-interpretazioni.


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Tutto questo è importante per il NT perché molte prospettive dipendono dal Targum, anzi può capitare che pur citando secondo i Settanta il NT o meglio gli autori neo testamentari poi sviluppano nella prospettiva del Targum. I rabbini commentarono la legge e siccome nel Pentateuco si intrecciano parti narrative e parti legali, il commento alle parti narrative fatto spesso di ampliamenti midrashici si chiamò Haggadàh. Il commento alle leggi invece si chiamò Halahàh. E’ importante osservare come avveniva tale commento, si cercava di ipotizzare tutti i casi della vita confrontandoli con la legge e scendendo in una vera e propria casistica. E’ importante però un’altra prospettiva, i rabbini ritennero che la legge scritta non fosse tutta quella data da Dio a Mosè al Sinai ma ritenevano che in parte Dio aveva comandato di scriverla, in parte invece l’avrebbe affidata in forma orale. Mosè avrebbe poi trasmesso questa legge orale a Giosué, Giosué ai Giudici, i Giudici ai profeti e i profeti ai saggi d’Israele cioè i rabbini. Questi ultimi si ritennero detentori più o meno abusivi della legge di Dio, donde la polemica di Gesù in Mt 23,1: «sulla cattedra di Mosè sedettero gli scribi e i farisei: quanto vi dico fatelo e osservatelo ma non fate secondo le loro opere perché dicono e non fanno». Questa legge orale costituiva quelle tradizioni giudaiche contro le quali abbondantemente polemizzò Gesù fino a rimproverare gli scribi e farisei di trasgredire la legge di Dio in nome delle loro tradizioni. Si formarono così i vari maestri che trasmettevano le varie leggi. In seguito anche dopo il NT queste leggi furono scritte corredate da un commento che va sotto il nome di Mishnà. La Mishnà a sua volta fu commentata in un commento cosiddetto Gemara. Mishnà e il suo commento daranno origine al Talmud che finì per diventare più importante della stessa Bibbia. Il Talmud però sarà completo verso l’VIII secolo dopo Cristo. Il NT attesta la presenza di queste tradizioni; spesso si scendeva anche al pedante. Mc 8, nel contesto del problema sulla vera purità, si dilunga a descrivere queste tradizioni riguardanti lavatura di


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bicchieri, di lavarsi le mani, ecc. Gesù stesso fu rimproverato perché i discepoli raccolsero di sabato delle spighe di grano e Gesù stesso fu rimproverato perché i discepoli mangiavano il pane senza lavarsi le mani. Si arriva così a tutto un nugolo di legislazioni e norme le cui applicazioni finivano per avere la stessa forza dei principi legali. In tutto ciò c’era però uno spirito religioso nonostante la contestazione neotestamentaria e specificatamente evangelica: i giudei si sforzavano a prevedere e a confrontare con la legge ogni possibile situazione di vita perché non restasse nulla della via umana che non fosse confrontato con la legge. Torniamo al nostro discorso: il confronto cioè tra la legge e la fede cristiana. Fino a quando la comunità cristiana era formata da giudei, il problema non si poneva perché questi ultimi l’avevano osservata prima e continuavano a osservarla dopo. Il problema invece si pose quando si capì che Dio aveva chiamato alla salvezza anche i pagani. Abbiamo detto che i giudei ammettevano che i pagani si potessero convertire ma dovevano accettare tutta la legge. Questo problema scoppiò soprattutto dopo il primo viaggio paolino quando già il vangelo cominciava ad essere accolto dai pagani. Si pose allora il problema se cioè i pagani convertiti alla fede cristiana dovessero accettare o meno la legge mosaica. I giudei sostenevano di sì, la chiesa primitiva prese invece coscienza che i pagani convertiti non erano tenuti a quella osservanza. La sintesi di tutto ciò è contenuta in At15,1 dove Luca narra che alcuni giunti dalla giudea insegnavano ai fratelli che «se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè non potete essere salvati». L’affermazione

è

grave

perché

fa

dipendere

la

legge

dall’osservanza e non dalla fede in Gesù. Probabilmente alla base ci sta un equivoco; è il Messia superiore alla legge o la legge superiore al Messia? Il giudaismo sosteneva questa seconda cosa: il Messia è inferiore alla legge, anzi il Messia è in funzione della legge.


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Sabato 09 aprile 2005, ore 08,30 / 10,15 Soprattutto nelle comunità cristiane di origine ellenistica si poneva il problema se i pagani chiamati alla fede erano tenuti all’osservanza della legge giudaica. La predicazione apostolica con Paolo in testa sostenevano che i pagani chiamati alla fede non erano tenuti all’osservanza della legge. In contrapposizione ci fu una predicazione contraria da parte dei giudaizzanti che invece sosteneva la necessità della legge. Questa predicazione dei giudaizzanti è riassunta nel verso 1 del capitolo 15 degli atti degli apostoli; narra Luca che alcuni venuti dalla Giudea insegnavano ai fratelli che: «se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè non potete essere salvati»: il problema è addirittura la salvezza, la quale, in questo modo non dipende più da Cristo, ma dipende dalla legge. Il capitolo 15 degli Atti, quello che và sotto il nome di “Concilio di Gerusalemme” è fondamentale perché segna lo sganciamento definitivo della Chiesa dalla culla della sinagoga, dove era nata. Riassumendo brevemente, ai giudaizzanti si opponevano Paolo e Barnaba e dice Luca che ci fu non poco contrasto al punto che si decise di deferire il problema al collegio apostolico. Qui intervengono prima Pietro, poi Giacomo, e soprattutto Pietro prende atto del fatto che Dio ha chiamato anche i pagani ai quali non si può imporre quel giogo: «che né noi né i nostri padri potemmo portare»: questo giogo è la legge che si imponeva. Qui la comunità primitiva mette a nudo un problema che la legge non è stata osservata. Dirà Paolo nella lettera ai Romani che non sono giusti quelli che ascoltano la legge, bensì sono resi giusti quelli che la osservano, sottintendendo Paolo che la legge non è stata osservata. Il collegio apostolico prende atto che la salvezza non si ha per la legge, ma si ha, e sarà questo il chiodo su cui Paolo batte nella lettera ai Romani, si ha nella fede in Cristo. In Atti 15,11 leggiamo: «noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro». La chiesa primitiva prende coscienza che la salvezza


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sia soltanto in Cristo e ciò è indispensabile sia per i pagani, che non hanno la legge, sia anche per i giudei che hanno la legge. Dal momento che l’unico Salvatore è Cristo, i giudei sono liberi di osservare la loro legge ma certo non la si può imporre ai pagani. Tuttavia il collegio apostolico ritiene di dovere imporre qualcosa ai pagani, ma la impone non perché sia indispensabile alla salvezza, ma perché c’è un problema, quello cioè della comunione tra due popoli e perciò i pagani sono invitati ad astenersi da alcune cose che ripugnano ai Giudei. Si decide così di scrivere ai pagani una lettera con le decisioni apostoliche. Gli apostoli, prima di tutto, prendono le loro distanze da quei giudaizzanti che predicano la necessità della legge, forse questi si appellavano agli apostoli, ma a loro riguardo gli apostoli dichiarano di non avere dato loro alcun incarico. Ma ecco la decisione apostolica espressa nel verso 28: «abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo se non al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni immolate agli idoli, astenersi dal sangue, astenersi dagli animali soffocati e astenersi da qualsiasi impudicizia». La decisione apostolica fu motivo di gioia per i pagani, ma non allietò i giudaizzanti, i quali, ritenendo Paolo colpevole di tutto ciò, si fecero un dovere di portare scompiglio nelle chiese paoline. Ciò appare anche in 1Ts dove l’apostolo parla dei falsi fratelli che si erano sub-introdotto (introdotti di soppianto) per spiare la nostra libertà in Cristo; sarà una causa di amarezza anche nelle chiese di Corinto e la seconda lettera rivela tutta l’amarezza di Paolo, sarà ancora un problema nella chiesa di Colossi, e Paolo si premurerà nella lettera ai Colossesi a sottolineare la centralità di Cristo. Ma soprattutto sarà un problema molto forte nelle chiese della Galazia, donde la lettera ai Galati molto amara e anche molto dura, dove l’apostolo fin dal principio dichiara in 1,6: «mi meraviglio che così presto passate da colui che vi ha chiamato per la grazia di Cristo verso un altro vangelo (cioè il vangelo dei giudaizzanti)», ma Paolo precisa che


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non c’è altro vangelo. In 3,1 poi in uno sfogo di amarezza Paolo dirà: «o insensati Galati, chi ha traviato voi davanti ai quali fu descritto il Cristo crocifisso?». Ma i giudaizzanti rimproveravano Paolo e gli contestavano due cose: la prima è che lui aveva tradito l’insegnamento apostolico, l’altra, ancora più di fondo, gli contestava che fosse veramente apostolo. Nella parte apologetica dei capitoli 1 e 2 della lettera ai Galati, Paolo ci terrà a mostrare due cose o tre: anzitutto lui è vero apostolo avendo ricevuto la missione direttamente da Gesù. In secondo luogo non è un inviato dal collegio apostolico, ma apostolo a pieno titolo, ed infine, in terzo luogo, che lui si confrontò con Pietro e che quelli che sembravano le colonne della chiesa, cioè “Cefa”, Giacomo e Giovanni (Gal 2,9) gli diedero la destra in segno di comunione riconoscendo che a lui era stato affidato il ministero degli incirconcisi (i pagani) come a Pietro era stato affidato il mistero dei circoncisi (i giudei). Sarebbero belli da leggere questi due capitoli, ma notiamo soltanto qualche passaggio, in 1,1 Paolo apre la sua lettera con le parole: «Paolo apostolo non da uomini, ne per mezzo di uomini, ma per mezzo di Gesù Cristo». Fin dalle prime battute Paolo sottolinea la sua diretta dipendenza da Gesù. In questo sfondo apologetico si colloca il famoso contrasto con Pietro ad Antiochia. Paolo ad Antiochia rimproverò Pietro perché il suo modo di agire non appariva conforme al Vangelo, non si tratta di un problema dottrinale, ma soltanto di un comportamento pratico, Pietro cioè stava con i pagani, ma quando venivano i giudei si allontanava dai pagani. Si tratta di un problema forse di paura, ma secondo Paolo, questo modo di fare disorientava, quasi a dire ai pagani che ancora era necessaria la legge per la salvezza. Nei versi 2,15-21 Paolo porta diverse argomentazioni per cui la legge è superata. Nel verso 19 Paolo dichiara con una frase stringatissima che ha bisogno di essere spiegata: «io per mezzo della legge sono morto alla legge: sono stato crocifisso con Cristo, vivo io ma non io, in me vive Cristo, il fatto nel mio vivere nella carne è un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha ama-


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to ed ha dato sé stesso per me». Nel verso 21, come culmine dei suoi argomenti contro la legge, dichiara: «se per mezzo della legge c’è la giustificazione, Cristo è morto invano». A questo punto potremmo scendere nel cuore della lettera ai Romani, ma prima forse è meglio considerare un altro sfondo che vogliamo proporre partendo da Romani 8,2 (sul capitolo specifico 8 parleremo in seguito). In Rm 8,2, dopo avere dichiarato che non c’è alcuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù, continua: «la legge dello Spirito della vita, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte». In questo testo abbiamo due triadi, che possiamo proporre schematicamente nel seguente modo: 1) la legge 2) dello Spirito 3) della vita

1) la legge 2) del peccato 3) della morte

In queste due triadi abbiamo un elemento in comune e due antitetici. L’elemento comune è il primo: la parola legge (

) donde dedu-

ciamo che il vero problema non è l’abolizione della legge, ma la sua sostituzione. È caduta la legge mosaica (compresi i 10 comandamenti, nel senso che la salvezza non dipende più da essi). Gli altri due comandamenti esprimono un carattere antitetico: allo Spirito si contrappone il peccato; alla vita si contrappone la morte. Ma che cosa c’è dietro queste due triadi? Partiamo dalla seconda triade: la legge ( '

) dello

Spirito (

) della vita (

). Abbiamo un termine al no-

minativo ( '

) seguito da due genitivi subordinati donde dedu-

ciamo che ogni elemento dipende dal precedente. Bisogna perciò caratterizzare bene il primo genitivo «dello Spirito» in relazione al precedente termine «legge» ( vo «

), e bisogna caratterizzare bene il secondo geniti-

» in rapporto al precedente genitivo. Che valore ha il primo

genitivo «dello Spirito»?: può avere due valori possibili: o genitivo sog-


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gettivo (lo Spirito che dà la legge) oppure genitivo epesegetico o di identità (la legge che è lo Spirito). Escludiamo un terzo senso quello cioè di genitivo oggettivo (lo Spirito cioè che sgorga dalla legge). Lasciamo aperto per il momento questo aspetto e passiamo al genitivo seguente (

) «della vita», anch’esso può avere due valori: o genitivo ogget-

tivo (la vita cioè è oggetto dello Spirito), sgorga cioè dallo Spirito, oppure genitivo epesegetico o di identità (lo Spirito cioè che è la vita). Questa triade si radica nella letteratura profetica. Diciamo subito che la prima parola «legge» dipende da Geremia 31,31-34. Le due parole «Spirito» e «vita» dipendono rispettivamente dai capitoli 36 e 37 di Ezechiele. Geremia opponeva due alleanze, l’opposizione consisteva nel modo come le due alleanze erano state stipulate. Al Sinai si era stipulata l’antica alleanza, ma questa era fallita; Geremia stesso si premura di specificare che la nuova alleanza non sarà come quella che lui stipulò con i padri, quando li prese per mano per farli uscire dal paese di Egitto. La nuova alleanza, come abbiamo detto, prevede la legge scritta nel cuore, donde si deduce che proprio qui, secondo Geremia, sta in contrasto tra le due alleanze: la prima prevedeva la legge scritta compreso il decalogo su tavole di pietra, la seconda invece prevede la legge scritta nel cuore umano. Narra il libro dell’Esodo che la prima alleanza nacque all’ombra del peccato e infatti il popolo rifiutava i comandamenti proprio nel momento in cui venivano promulgati. Emerge il contrasto tra quello che Dio professa sulla montagna «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto» e in nome di questa prerogativa dà i comandamenti, sotto la montagna, davanti all’idolo il popolo professa: «Israele, questi è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». Dio perciò non è il Salvatore, ma lo è l’idolo e di conseguenza è abusivo nel dare i comandamenti. Narra l’Esodo che Mosè ruppe le tavole di pietra, quasi a dire che l’alleanza era stata infranta già nel suo nascere. Geremia prevedeva un nuovo modo di promulgare la legge, non più scritta al di fuori


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dell’uomo quasi soffocando l’uomo, ma scritta all’interno dell’uomo, e perciò oggetto dei suoi affetti e della sua volontà. Geremia però non prevedeva la sostituzione della legge, che invece farà il NT, del resto nel cuore umano non entra mai come oggetto dei suoi affetti una norma, ma entra una persona. Possiamo subito dire che per entrare nel cuore umano la legge deve diventare una persona. In Romani 5,5 leggiamo infatti: «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori». L’espressione «nei nostri cuori» in Rm 5,5 dipende da Geremia e perciò la legge che entra nel cuore è lo stesso amore di Dio. Il genitivo «di Dio» è un genitivo soggettivo e perciò non si tratta degli uomini che amano Dio, ma di Dio che ama gli uomini. È Dio stesso perciò che ama e in quanto ama diventa la legge nuova. Lasciando stare Rm 5,5, il passaggio da una norma ad una persona (come legge) era già suggerito dallo stesso AT. Martedì 12 aprile 2005, ore 10,30 / 12,15 Un passo avanti sarà fatto cinquanta anni dopo da Ezechiele. Ezechiele riprende e personalizza, col suo linguaggio tipicamente sacerdotale, l’oracolo di Geremia. Possiamo infatti stabilire un confronto tra Geremia 31 ed Ezechiele 36. In Geremia 31 la prima caratteristica della nuova alleanza era la legge scritta nei cuori, l’ultima caratteristica, o se vogliamo anche la condizione previa era la remissione dei peccati: «poiché sarò propizio alle loro colpe e dei loro peccati non mi ricorderò più». Ezechiele riprende col suo linguaggio questo oracoli. Nel capitolo 36 annunzia: «quando mi sarò santificato in mezzo a voi effonderò su di voi acqua viva e sarete purificati da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli». Dio è in polemica col suo popolo, perché, parafrasando Ezechiele, a causa del suo popolo il suo Santo Nome è bestemmiato tra i popoli, i quali ironicamente dicono: «questo è il popolo del Signore» e pure


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«dalla sua terra è uscito» insinuando così che se il popolo del Signore è fuori dalla sua terra, ciò è perché, o il suo Dio non ha voluto salvarlo, oppure il suo Dio poverino non ne è stato capace a salvarlo. Il Santo Nome di Dio è bestemmiato perché praticamente si nega la Sua fedeltà e la Sua potenza. Dio allora decide di mostrare agli occhi di tutti la Sua santità, precisamente riportando il suo popolo in patria, ma non può riportarlo così semplicemente perché giunto in patria tornerà a peccare e sarà costretto ancora a cacciarlo via. Dio deve riportare in patria un popolo che non pecca. Da qui le Sue due azioni: la prima negativa: la purificazione cioè da tutte le proprie sozzure e da tutti i propri idoli. La seconda azione è positiva: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, porrò il mio Spirito dentro di voi». Possiamo stabilire una somiglianza e differenza con Geremia, come deduciamo dal seguente schema: Geremia: 1) «pongo la mia legge nel loro intimo e sul loro cuore la scriverò» 2) «dei loro peccati non mi ricorderò più» Ezechiele: 3) «effonderò su di voi acqua pura e sarete purificati» 4) «vi darò un cuore nuovo […]» La somiglianza e la differenza tra i due profeti appare bene: il dimenticare i peccati di Geremia, secondo Ezechiele (3) avviene perché Dio versa acqua pura e purifica; per Ezechiele non si tratta più (4) di scrivere la legge nel cuore, ma addirittura di cambiare il cuore. In questo senso emerge una piccola critica che Ezechiele fa a Geremia: non avrebbe senso che Dio scriva la legge nel cuore se il cuore resta quello che è, cioè cuore di pietra incapace di palpitare e amare. Perché la legge di Dio


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possa essere iscritta nel cuore umano è indispensabile che lo stesso cuore sia cambiato. Al nostro scopo però interessa una relazione che proponiamo schematicamente nel seguente modo: Geremia: «pongo la mia legge nel loro intimo» Ezechiele: «porrò il mio spirito dentro di voi» Le due espressioni tradotte diversamente in lingua italiana, sono quasi identiche nel testo ebraico, Geremia scrive: «

$

» (Ger 31,33),

Ezechiele scrive lo stesso termine col pronome di seconda persona plurale: «

% $

» (Ezechiele 36,27). Questa relazione non sfugge

all’autore neotestamentario, il quale facilmente stabilisce una relazione tra legge scritta nell’intimo e lo spirito posto nell’intimo e perciò per l’autore neotestamentario, Ezechiele specificherebbe quello che Geremia lascia più nel vago. La legge così nell’intimo del cuore diventa lo Spirito. Dio poi annunzia con le parole: «vi farò vivere nei miei comandamenti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi». Cioè avendo il cuore nuovo attuato dallo Spirito di Dio, l’uomo sarà perfettamente osservante dei comandamenti, e osservando i comandamenti, l’uomo potrà vivere. Ezechiele risente della mentalità del Deuteronomio dove in 4,1 si legge: «osserva i comandamenti perché tu viva». Secondo Deuteronomio la vita dipende dalla osservanza dei comandamenti. Si riecheggia in ultima analisi la tradizione genesiaca Jawhista alla quale dovremmo tornare. Vivendo il popolo in forza dell’osservanza dei comandamenti, il popolo allora sarà impeccabile e Dio potrà riportarlo in patria: «abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri e voi sarete il mio popolo ed Io sarò il vostro Dio». Ezechiele propone come culmine di tutto quella realiz-


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zazione di alleanza che Geremia aveva proposto come seconda caratteristica della nuova alleanza. Ma il testo paolino stabilisce una relazione diretta tra lo Spirito e la vita (la legge dello Spirito della vita) senza passare attraverso l’osservanza dei comandamenti, questa relazione diretta dipende ancora da Ezechiele, non nel capitolo 36, ma in quello seguente 37: la visione cioè delle ossa aride, il profeta vede un campo di ossa inaridite senza alcuna traccia di vita e pone al profeta la domanda se mai quelle ossa potranno rivivere. Quelle ossa non possono rivivere, a meno che, Dio non le faccia rivivere, per questo il profeta si trincera nella risposta: «Signore mio, tu lo sai». Dio decide di far rivivere quelle ossa, ma le fa rivivere mediante il suo Spirito: «vieni o Spirito dai quattro venti e soffia su questi morti perché rivivano». Conosciamo il racconto: viene lo Spirito in quelle ossa e la loro revitalizzazione avviene in due momenti: prima sulle ossa si formano la carne e la pelle, e poi quelle ossa riprendono vita. Abbiamo a suo tempo considerato questo brano, al nostro scopo, in relazione alla lettera di Paolo, a noi interessa l’aspetto di causalità dello Spirito in relazione alla vita. Ciò conferma il senso oggettivo del genitivo «

» nel testo paolino (lo Spirito che dà la vita). Possiamo allora riassumere come nella prima triade di Paolo di-

pende dalla letteratura profetica soprattutto Geremia ed Ezechiele. Passiamo adesso all’altra triade che è più impegnativa: la legge del peccato e della morte. Abbiamo detto come il genitivo «del peccato» si può intendere in due modi, entrambi possibili ed entrambi coerenti col pensiero paolino: «la legge che è il peccato» oppure anche «la legge che conduce al peccato». In questo Paolo si mostra fortemente critico con la concezione giudaica che abbiamo già notato: la legge benché data da Dio, in realtà ha relazione col peccato. Dirà Paolo nel capitolo 7 che per mezzo della legge si ha la conoscenza del peccato. In 7,7 leggiamo: «Io non conobbi il peccato se non mediante la legge». Il rapporto tra peccato


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e legge è delineato nel capitolo 7: la legge, ben lungi dall’evitare il peccato, né è stata la diretta causa. In questa argomentazione, Paolo và oltre la prospettiva del capitolo 15 degli Atti degli Apostoli. In questo capitolo Luca comincia con la pretesa dei giudaizzanti, che se non si è circoncisi alla maniera di Mosè, e se perciò con la circoncisione non si accetta tutta la legge, non si può essere salvati, Luca fa concludere a Pietro che: «crediamo che per la grazia di Gesù Cristo siamo salvati» (Cfr. Atti 15,11). Ma Paolo và oltre: non solo la legge non salva, ma addirittura la legge provoca il peccato, in questo ragionamento dovremmo risalire da Paolo all’AT, ma metodologicamente preferiamo scendere dall’AT al Paolo. Il riferimento all’AT ci è suggerito dall’antitesi che Paolo stabilisce tra Gesù ed Adamo (presente anche nell’inno ai Filippesi), ma l’esperienza adamitica, come vedremo, quadra bene con lo sviluppo del capitolo 7. Rileggiamo pertanto l’esperienza adamitica: in Genesi, nel capitolo 2, al verso 17, leggiamo il comando di Dio ad Adamo; Dio dice ad Adamo: «dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangerai». «

Nel testo ebraico abbiamo una forma apodittica negativa con

% &

» (Genesi 2,17). Questa formula tradotta abitualmente: «non

devi mangiare» si potrebbe tradurre ugualmente bene o forse anche meglio: «non puoi mangiare». Nel testo genesiaco Dio non sembra dare un comando, ma sembra tirare la logica conseguenza da una promessa: un comando avrebbe dovuto essere espresso con « mula con «

» eloiussivo. La for-

» e l’imperfetto suggerisce meglio una conseguenza logi-

ca: data una premessa si tira una conseguenza. Salvo errore la premessa è il fatto che Dio ha posto l’uomo nel giardino di Eden. Il fatto che Dio ha posto l’uomo nel giardino genesiaco rende impossibile il fatto di mangiare. Quando poi al comando concreto: «non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male», equivale a non farsi dio, a non emanciparsi da Dio, ma piuttosto a dipendere da Dio. Rileggendo Genesi in sé


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stesso sembra che la prospettiva sia quella della felicità e della vita, ma ad una condizione: che l’uomo non mangi dell’albero del bene e del male, cioè che non si faccia lui arbitro del bene e del male, cioè che non si erga in contrapposizione a Dio. La conseguenza nel testo genesiaco è la morte, ma anche qui nel testo ebraico abbiamo l’espressione: «

' ( » (Gen 2,17) cioè un infinito assoluto seguito da un imper-

fetto. Salvo errore, Dio in Genesi, non sta minacciando alcuna punizione, ma ancora una volta, sta tirando la conseguenza logica da una premessa: l’infinito assoluto rafforza l’imperfetto ed esprime il carattere certo ed assoluto di tale conseguenza: se l’uomo si erge contro Dio, l’uomo muore. Nel capitolo terzo, l’autore genesiaco introduce il dramma della trasgressione. Compare la figura del serpente presentato come la più astuta delle bestie del campo che il Signore Dio aveva creato. Questa figura del serpente è molto misteriosa, ma altro è la lettura in sé stessa, altra è la lettura che fa il NT. Nell’AT il serpente si può ricollegare, come un simbolo fallico, come gli antichi culti idolatrici naturistici. Ma il problema in Genesi, sembra essere quello di sempre nella storia del popolo del Signore: l’idolo ha sempre attirato ed ha allontanato dal Signore. L’autore genesiaco introduce questa figura con molta finezza psicologica, il serpente dice: «forse che Dio vi ha impedito di mangiare da ogni frutto dell’albero?». La donna difende Dio limitando il fatto che si tratta soltanto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma proprio questo è l’aggancio che il serpente cerca. Dalle parole della donna il serpente deduce il fatto che Dio inganna. Nel racconto genesiaco ci sembra di scorgere una metodologia satanica: staccare cioè un comando di Dio da tutto il contesto salvifico in cui è inserito e così staccato presentarlo come contrario alla felicità umana (è lo stesso metodo che avverrà al Getsemani). Su questo episodio Paolo sembra fondare la sua argomentazione, Genesi ci spiega che dopo che gli uomini ebbero mangiato «i loro occhi si aprirono e si accorsero di essere nudi». Simile esperienza appartiene


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al linguaggio Jawista e sta ad indicare come sia entrata sotto la parvenza di pudore una divisione tra due esseri (uomo e donna), destinati ad essere una cosa sola. Il serpente genesiaco riceverò una interpretazione in Sapienza 2,20 dove l’autore scrive: «per invidia del diavolo la morte entrò nel mondo». Troviamo qui il termine greco «$ , «$ ,

»

dal verbo

» che indica colui che ostilmente si interpone. Questo termine

traduce l’ebraico «)* » (

) che indica l’avversario, questo personag-

gio con questi nomi compare nei libri di Giobbe e nel capitolo terzo di Zaccaria anche se né l’uno, né l’altro parlano della loro origine. Paolo non usa nessuno di questi termini, ma usa l’espressione « ' '

» il

peccato, che in questo modo soprattutto nei capitoli 5 e 7 di Romani assume il carattere di una entità personificata, cioè non intende il peccato concreto che l’uomo commette, ma il peccato personificato che induce l’uomo a peccare. Il testo genesiaco letto così come sta pone all’autore neotestamentario una domanda: da dove spunta? Nel capitolo 1 il codice sacerdotale aveva parlato della creazione di animali che strisciano, ma è la prima volta che è presentata questa figura come ostile. Paolo fa una osservazione il serpente spunta in concomitanza al comandamento di Dio e si serve del comandamento di Dio, è stato perciò il comandamento di Dio a risvegliare il peccato, ciò emerge dal cap 7. Sabato 16 aprile 2005, ore 08,30 / 10,15 Prima di passare al capitolo 7 confrontiamo la triade di Rom 8,2: la legge del peccato e della morte con un’altra triade analoga conservataci alla fine del capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi. In questo capitolo, Paolo, partendo dalla professione di fede primitiva, ha sostenuto la certezza della resurrezione. Sviluppando poi l’aspetto della morte umana, come attesa di risurrezione, nel verso 53 difatti scrive: «bisogna che que-


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sto [corpo] mortale si rivesta di immortalità». È allora che si realizza la profezia di Osea: «dove è o morte la tua vittoria, dove è o morte il tuo stimolo». È chiaro che Paolo sta citando Osea a modo suo perché mentre la frase in Osea è un invito alla morte perché venga, perché c’è da lavorare, Paolo invece cita il testo quasi a dire che ormai la vittoria della morte è stata svuotata e che non c’è più lo stimolo della morte. Subito dopo nel verso 56, introduce un piccolo ampliamento: «lo stimolo della morte è il peccato, ma la potenza del peccato è la legge». Troviamo qui un po’ più precisata la triade: legge – peccato – morte , che abbiamo trovato in Rom 8,2. La precisazione sta qui: anzitutto Paolo parla dello stimolo della morte che è il peccato, cioè il peccato risveglia la morte e la spinge ad agire, ma il peccato a sua volta trae forza dalla legge. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una triade che ci rimanda a Genesi e che presuppone bene il dramma genesiaco. Andando adesso al capitolo 7 bisogna una attimo che rifocalizziamo Genesi, cercando di leggerlo non in sé stesso, o con i parametri dell’esegesi moderna, ma come lo leggeva Paolo. In Genesi noi abbiamo: 1) Un comandamento, finalizzato alla elusione della morte, ma se il comandamento è trasgredito si piomba in quella conseguenza che il comandamento voglia evitare; 2) Compare una forza misteriosa, il serpente, che nella lettura originale di Genesi, può essere ricollegato alla idolatria che ha sempre indotto il popolo ad allontanarsi dal suo Dio, ma che alla luce della concezione neo-testamentaria, appare come una realtà misteriosa sulla cui origine non bisogna speculare. Questa realtà misteriosa che dà sapienza a due eventi è chiamata «$ , », da Paolo è chiamata « ' ' » non come peccato che gli uomini commettono, ma come realtà personale in sé stessa anteriore al peccato umano, e che stimola al peccato; 3) Questa forza in Genesi compare in connessione col comandamento, da ciò, come vedremo, Paolo tira una conseguenza: è stata la legge (o il comandamento) a risvegliare questa forza e dargli occasione per manifestarsi (questo è un punto nevralgico del pensiero paolino). Ciò significa che se manca il comandamento, il peccato non avrebbe la possibilità di manifestarsi.


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Con queste precisazioni leggiamo alcuni passaggi del capitolo 7. nel verso 7 Paolo si pone una domanda: «la legge [in sé stessa] è peccato [una realtà peccaminosa]?», certamente no! Risponde Paolo, perché la legge è data da Dio. Nonostante che non sia peccato tuttavia ha avuto un effetto deleterio. Paolo scrive: «ma il peccato [cioè la possibilità di peccare] non conobbi se non per mezzo della legge», la legge non è peccato però ha avuto questo effetto: mi ha fatto conoscere il peccato, cioè il fatto che io possa peccare. Precisa Paolo: «io non conoscevo la concupiscenza se la legge non mi avesse detto: non concupire». Evitiamo di disquisire su questo termine “concupiscenza” che non si riferisce soltanto alla concupiscenza carnale, ma si riferisce a qualsiasi desiderio. Si può ri-richiamare ancora Genesi, dopo che il serpente ingannò Eva , il narratore riferisce che la donna vide che il frutto di quell’albero di cui a Dio aveva detto di non mangiare era bello a vedersi ed appetibile, cioè si brama, si concupisce quello che è proibito. Emerge un problema, Paolo si sta esprimendo alla prima persona singolare, parla cioè di sé stesso. Questa prima persona singolare ha suscitato discussione tra gli interpreti, e si sono proposte diverse soluzioni facilmente reperibili nei commentari, una delle quali è che: Paolo parla della sua esperienza prima della conversione. Ma tutto il contesto ci orienta e ci fa osservare la coerenza, verso il testo genesiaco. Paolo sta esprimendo alla prima persona singolare quasi come in essa coinvolto l’esperienza genesiaca e infatti, alla luce di quella esperienza, la lettura del capitolo 7 diventa facile. Tornando al capitolo 7, nel verso 8, Paolo continua: «avendo preso forma il peccato per mezzo della legge», è chiaro che in questo verso il peccato rimanda a quella realtà personale, Paolo sta dicendo che “per mezzo della legge” il peccato si è manifestato, ha preso corpo. Paolo sta dicendo qualcosa di più del testo genesiaco, il testo genesiaco ti presenta


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il serpente che si prende la briga di presentare il comandamento come contrario alla felicità umana, però Genesi non stabilisce un rapporto di causalità tra il comandamento e la comparsa del serpente. Paolo invece la stabilisce, il peccato ha preso forma per mezzo della legge: la legge, il comandamento ha permesso al peccato (personificato) di manifestarsi. Nell’espressione paolina l’avere preso forma per mezzo della legge è la circostanza che permette al peccato di operare nell’uomo ogni concupiscenza. Riassumendo questo versetto 8 notiamo i seguenti elementi: 1 - C’è stato il comandamento; 2 - Il comandamento ha permesso al peccato di prendere forma; 3 - Avendo preso forma, il peccato ha operato nell’uomo ogni concupiscenza, cioè gli ha fatto bramare quello che è proibito, inducendolo a trasgredire, ma quando l’uomo trasgredisce egli muore. Continua ancora Paolo nel verso 8 con una frase che nel testo originale assume il carattere di un principio giuridico: «senza legge, peccato morto» (

), Paolo sta affermando che do-

' 6

ve c’è legge il peccato si risveglia . Di conseguenza se non c’è la legge, il peccato è morto. Si sottolinea ancora la causalità della legge rispetto al peccato. Parafrasando con parole nostre, quello che Paolo dirà dopo, c’è un rapporto di interagenza tra legge e peccato: la legge risveglia il peccato e gli permette di manifestarsi; il peccato così manifestato intercetta la legge e la fa arrivare all’uomo, carica di una forza di trasgressione. Di conseguenza la legge fa scattare il meccanismo della trasgressione in quanto è stata travisata nel suo significato dal peccato, e il peccato ti fa apparire 6

Distinguiamo tre aspetti di peccato presenti nella concezione paolina: a. Il peccato come realtà personale anteriore al peccato umano e che induce l’uomo a peccare (e questo è il caso che stiamo adesso analizzando); b. Il peccato che l’uomo commette; c. I peccati concreti commessi.


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desiderabile quello che invece è proibito. In questa luce leggiamo ancora il testo di Rom 7, dove Paolo scrive nei versi 9,10a: «io vivevo senza legge una volta venuta la legge il peccato cominciò a vivere ed io morii». Anzitutto Paolo sta affermando che una volta lui viveva senza legge, cioè non viveva in maniera autonoma, ma viveva perché mancava la legge. Questo passaggio presuppone un tempo tra la creazione dell’uomo e il comandamento. Questo tempo non appare in Genesi perchè leggiamo una sequenza ininterrotta: formazione dell’uomo, posizione nel giardino dell’Eden, il comandamento. Probabilmente Paolo sta riprendendo una tradizione rabbinica, secondo la quale, tra la creazione dell’uomo e l’avvento del comandamento, sia passato un certo tempo. Qualcuno potrebbe pensare al tempo tra la creazione dell’uomo e la legge sinaitica, ma quello non fu un tempo senza peccato, già il peccato trionfa dalla trasgressione adamitica in poi. Nel capitolo 4 di Genesi c’è l’omicidio di Abele, nel capitolo 5 la vendetta di Lameck, nel capitolo 6 il diluvio, nel capitolo 11 la torre di Babele. Ma forse possiamo intendere l’espressione paolina: «io una volta vivevo senza legge» come un principio generico, quasi a dire che l’uomo vive se non c’è il comandamento. La frase seguente: «venuta la legge, il peccato prese a vivere» ed infatti in Genesi 2,17 c’è il comandamento, in Genesi 3,1 spunta il serpente, quando venne il comandamento il peccato trovò il suo aggancio concreto per manifestarsi. La terza frase «ed io morii» presuppone diversi passaggi intermedi: il peccato cominciò a vivere, strumentalizzò il comandamento, lo fece apparire negativo, indusse a trasgredire e avendo trasgredito l’uomo muore («se mangiate certamente morirete», afferma il testo genesiaco).


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Prescindiamo in questo contesto dal senso e dalla ampiezza del termine «morte», la morte genesiaca ha un valore più ampio del senso che diamo noi, e la morte genesiaca può essere definita come divisione e conseguente conflittualità. La trasgressione divide e contrappone l’uomo da Dio, la divisione è già indicata in quel passaggio bello dell’uomo che si nasconde. Già è entrata la divisione con Dio. Questa primordiale divisione determina le altre divisioni. Anzitutto tra uomo e donna creati per essere una cosa sola. L’indicazione genesiaca che si accorsero di essere nudi indica che una divisione è intervenuta tra i due esseri. Ma la divisione tra uomo e uomo è espressa nella punizione della donna, essa viene toccata nella sua dimensione più intima di madre e di sposa: essa vivrà una conflittualità nel suo ruolo materno (nel dolore concepirai i tuoi figli), ed una conflittualità nel suo rapporto di sposa (tuo marito ti dominerà). La divisione tra uomo e creazione è affidata alla punizione dell’uomo, la creazione si erge contro l’uomo, non gli produrrà più spontaneamente i frutti e se l’uomo vuol mangiare deve lavorarla. La terza divisione è all’interno dell’uomo: si ritira lo spirito di Dio e l’uomo torna nella sua polvere, si direbbe che con la trasgressione incominci un processo di progressivo sfaldamento. Paolo nel capitolo 7 considera un’altra divisione all’interno dell’uomo che Genesi non considerava: l’uomo peccatore è sotto l’influsso del peccato per cui nei versi 16-18 scrive: «se quello che non voglio io faccio, consento con la legge che è buona». Il fatto che l’uomo si trova a fare quello che non vorrebbe mostra che l’uomo stesso riconosce che la legge è buona. Nel verso 17 continua: «non più io opero, ma il peccato che abita in me» ed ancora nel verso 19 scrive: «non faccio infatti il bene che voglio, ma il male che non voglio questo io compio». In parole povere, l’uomo vive una dicotomia, una schizofrenia, per cui vede il bene, ma non riesce a farlo, vede il male e questo è costretto a fare. Questa divisione interiore non era prevista da


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Genesi. Paolo conclude che si è verificato che «la legge data per la vita, questa si è risolta in strumento di morte». Martedì 19 aprile 2005, ore 10,30 / 12,15 Nel verso 11 leggiamo la seguente espressione: 1 «il peccato infatti 2 forma 3 avendo preso 4 per mezzo della legge 5 mi ha sedotto 6 e per mezzo di essa 7 uccise». Di questa frase è importante anzitutto considerare la struttura letteraria. Abbiamo due complementi di mezzo (4 e 6), il primo complemento di mezzo si trova prima del verbo diretto «mi sedusse», il secondo complemento di mezzo si trova prima del secondo verbo diretto «uccise». Otteniamo così il seguente schema strutturale: Per mezzo della legge Mi sedusse

Per mezzo di essa Mi uccise

La legge perciò assume il carattere strumentale nelle due azioni compiute dal peccato: di sedurre ed uccidere. Ma possiamo osservare il primo complemento di mezzo che si trova tra due forme verbali, la forma participiale (in italiano è gerundio): «avendo preso per.» e il verbo diretto «mi sedusse». Benché lo schema strutturale sopra proposto ricolleghi più direttamente il complemento di mezzo al verbo seguente «mi sedusse», non si può escludere una relazione (per la sua posizione centrale) col participio precedente. La legge così esercita un duplice ruolo strumentale: serve al peccato per prendere for-


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ma, serve al peccato per operare ogni inganno. È chiaro che qui Paolo legge Genesi esasperando però su Genesi la sua riflessione. Genesi ricollega al comandamento, l’apparizione del serpente, ma non dice che fu il comandamento che permise al peccato di apparire. Paolo sta sviluppando la sua idea che è la legge che ha permesso al peccato e gli ha offerto l’occasione per manifestarsi, e infatti Paolo ha detto che se non ci fosse stata la legge «senza legge il peccato morto» (cioè il peccato non avrebbe avuto possibilità di manifestarsi). Manifestatosi per mezzo della legge, si servì della legge per sedurre l’uomo, facendo apparire desiderabile ciò che era proibito, e avendo l’uomo accolto la seduzione trasgredì, e trasgredendo incorse in quella conseguenza che Dio aveva paventato: «morirai». L’uomo perciò muore ma è stato il peccato (personificato) ad ucciderlo. Quest’ultima idea (che è stato il peccato ad uccidere) richiama una idea analoga in Giovanni (Gv 8) dove Gesù dichiara, a proposito del diavolo, che fu omicida fin dall’inizio. Nel verso 12, Paolo torna ad esprimere un giudizio sulla legge, perché si potrebbe pensare che essa sia intrinsecamente cattiva, ma Paolo precisa che la legge è santa, il comandamento è santo, giusto e buono, né può essere diversamente perché è stato dato da Dio. Nel verso seguente si chiede: «ciò che è bene per me è diventato morte?». Anche questa frase è pregnante, quel pronome «a me» si ricollega, e a prima («ciò che è buono per me») ed anche a dopo («morte per me»), come se il bene fosse diventato causa di morte per l’uomo.


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Ma Paolo esclude la colpa sia nell’uomo, sia oggettivamente nell’oggetto buono, e dà subito la sua risposta: 1 «ma il peccato 2 perché si manifesti come peccato (come realtà peccaminosa è peccatore) 3 per mezzo del bene 4 per me operante morte 5 perché diventi al massimo grado peccatore il peccato 6 per mezzo della legge». Notiamo la notevole forza enfatica che assume il soggetto iniziale «il peccato», quasi a dire che tutta la colpa cade su questo essere che è il peccato personificato. Notiamo dal punto di vista strutturale cinque elementi: un soggetto «il peccato», due proposizioni finali (2 e 4), due espressioni (3 e 5) che vogliono descrivere il peccato che «il peccato» ha commesso. Le due proposizioni finali messe prima dei due rispettivi punti hanno una notevole forza enfatica, la frase «perché si manifesti come peccato» esprime l’indole come peccato: è una realtà oggettiva la sua indole però è quella di essere peccato (di natura, non potrà mai essere se non peccato). Passando però dalla natura alla azione, ha commesso un peccato che lo ha manifestato peccatore al massimo grado. Emerge così la seguente successione: 1 - Il peccato personificato (realtà personificata) 2 - Si è manifestato in tutta la sua indole di peccato (indole) 3 - Ha commesso un peccato per cui concretamente lo ha reso peccatore al massimo grado (azione concreta) Ma qual è il peccato concreto che il peccato personificato ha commesso? Si è servito del bene per operare la morte (5 e 6), cioè ha strumentalizzato il bene e lo ha trasformato in strumento di morte. Quale sia poi questo bene che è diventato strumento di morte è detto al quinto


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punto «per mezzo della legge»: il peccato si è servito della legge, in sé stessa buona, per operare la morte, e in ciò concretamente è divenuto al massimo grado peccatore. Dal momento che la legge è stata strumentalizzata dal peccato ed è diventata strumento di morte bisogna allora togliere la legge, essere cioè liberati dalla legge, perché fino a quando c’è la legge, di essa il peccato se ne servirà sempre per operare la morte. Ma in che senso si è liberati dalla legge? A questa domanda Paolo non risponde con un testo preciso, ma è tutto l’insieme della lettera che ci dà la risposta. E la risposta viene, così come è stato suggerito da tutto il pensiero paolino, dal capitolo 31 e 32 di Geremia, soprattutto in 31,33 ed anche in Geremia 32,40 che ha suggerito tutta l’argomentazione paolina. Geremia 31,33 annunziava la legge scritta nel cuore umano, Geremia 32,40 scrive: «pongo il mio timore nei loro cuori e da me più non si allontaneranno». Ricostruendo il pensiero paolino, l’apostolo implicitamente si chiede perché la legge deve essere scritta nel cuore umano. L’esodo nella alleanza sinaitica, proponendo la legge su tavole di pietra, non aveva impedito il peccato, anzi la stessa alleanza sinaitica era nata all’ombra del peccato. Paolo trova la risposta a tutto ciò risalendo a Genesi dove c’è un comandamento e c’è la trasgressione: nota che tra il comandamento e la trasgressione c’è di mezzo il serpente che si è servito del comandamento per indurre alla trasgressione. Allora bisogna impedire che il peccato (personificato) possa servirsi della legge per operare la morte. E come lo si impedisce? Geremia risponde: facendo passare la legge da scritta su tavole di pietra a scritta nel cuore umano: cioè da legge esterna a interiore. Scritta nel cuore umano la legge non potrà essere raggiunta dal peccato, perché il peccato può raggiungerla solo se rimane esterna, ma se è interiore non potrà più raggiungerla, e questo è il grande passaggio che Paolo scopre nella Scrittura e che propone.


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Rimane il problema quale sia questa legge che deve entrare nel cuore umano: non certo i comandamenti giuridici, su questo però abbiamo già accennato a riguardo di Geremia. Paolo espressamente non dice quale è questa legge scritta nel cuore umano, ma lo mostrerà chiaramente quando dichiara in 5,5 che: «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori».


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ROMANI 1-8 Come abbiamo già detto, i capitoli 1-8 della lettera ai Romani costituiscono la prima parte, quella dottrinale, della lettera ai Romani. I capitoli 1-8 si dividono in due sezioni: capitoli 1-4 capitoli 5-8 Sembra che queste due parti siano costruite sullo schema della nuova alleanza di Geremia. Precisamente nel seguente modo: 1 – capitoli 1-4 2 – capitoli 5-8

Remissione dei peccati La legge scritta nei cuori

Nella prima parte tutto lo sviluppo del pensiero paolino è orientato verso il testo del capitolo terzo, versi 21-26, dove è descritta la remissione dei peccati; mentre nella seconda parte i testi fondamentali sono 5,1-11 e poi il capitolo 8. Come già possiamo intuire, la lettera ai romani è fortemente cristocentrica, e questo cristocentrismo già appare nei versi 1-7, dove l’apostolo esordisce parlando della sua vocazione ad apostolo, riservato per il «Vangelo di Dio». Questo Vangelo di Dio, già preannunziato per mezzo dei profeti, nelle sacre scritture, riguarda il Figlio Suo. Del Figlio si dicono due cose che già alludono al suo mistero di morte e resurrezione: 1 – «divenuto dalla stirpe di Davide secondo la carne» (dimensione terrena che si estende fino alla morte ed alla sepoltura); 2 - «costituito Figlio di Dio in potenza secondo uno Spirito di santificazione dalla resurrezione dai morti».


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Saltando i versi intermedi fermiamo un attimo l’attenzione nei versi 16 e 17, dove l’apostolo scrive: «non mi vergogno del Vangelo potenza infatti di Dio è verso (cioè orientato) la salvezza per chiunque crede per il giudeo prima e per il greco». Notiamo uno sviluppo a catena, il Vangelo di cui Paolo dice di non vergognarsi e nel quale si manifesta la potenza di Dio è quello di cui ha parlato nei primissimi versi, cioè quello riguardante il Figlio di Dio. Questo Vangelo è orientato verso la salvezza. Notiamo ancora il linguaggio vago di Paolo, più avanti potremmo percepire che il Vangelo orientato verso la salvezza è il Figlio di Dio Salvatore. In questo Vangelo c’è perciò salvezza, una salvezza che vale «per chiunque crede». Quest’ultima frase «per chiunque crede» contiene due aspetti: il primo aspetto è l’universalità: il Vangelo nel senso cioè del Figlio di Dio Salvatore è necessario per tutti. Si avverte la polemica (ricordate Atti 15) contro il giudaismo che pretendeva che la salvezza venisse dalla circoncisione. Paolo preciserà questa universalità, menzionando esplicitamente le due categorie degli uomini: «giudei e greci», cioè giudei e non giudei, giudei e pagani. Sottolineata l’universalità, Paolo sottolinea la condizione indispensabile per tutti, cioè la fede: il Vangelo infatti è salvezza per chiunque, ma a condizione che crede, e si comprende che si tratta della fede in Cristo. Nel verso seguente leggiamo: «giustizia di Dio in esso si manifesta, di fede in fede, come è stato scritto: il giusto per la fede vivrà». Notiamo anzitutto la parola «giustizia» da non intendere assolutamente nel senso nostro: non si tratta né di giustizia commutativa, meno che mai di giustizia punitiva. Il termine giustizia è: «$

», e la

giustizia di Dio si manifesta nella sua salvezza. L’AT a riguardo è chiaro,


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citiamo soltanto un testo, il salmo 142: «Signore ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alla mia supplica, tu che sei fedele, e per la tua giustizia, salvami». In questo Salmo la parola «giustizia» sta in relazione al termine «fedele» ed al verbo «salvami». Si comprende che la giustizia di Dio si attua nella sua fedeltà, la quale diventa a sua volta salvezza. possiamo anche citare il Salmo 30 dove il salmista scrive: «in Te Signore mi sono rifugiato, per la Tua giustizia salvami». Queste citazioni sono sufficienti a farci capire di quale giustizia si tratta. Possiamo anzi, deducendo da tutto l’AT, che Dio è giusto non quando agisce in conformità alle azioni umane, ma quando agisce in conformità a sé stesso. E siccome Dio per definizione è il salvatore, Dio è giusto quando salva. Perciò nel Vangelo si manifesta la giustizia di Dio in quanto salvezza, vedremo come la giustizia di Dio consiste nel fatto che il Dio giusto rende gli uomini giusti, non in quanto (come sembra dire la teologia della riforma) copre i peccati, ma quanto rende l’uomo intrinsecamente giusto, appunto rimettendo i peccati e scrivendo la sua legge nell’intimo dei cuori. Ma ancora una volta Paolo richiama la fede, intanto nel Vangelo si può manifestare la giustizia come salvezza, in quanto l’uomo crede. Qui Paolo introduce a conferma una citazione di Abacuc. Sabato 23 aprile 2005, ore 08,30 / 10,15 La citazione di Abacuc è staccata dal suo contesto originale. Paolo la prende esclusivamente per il legame tra fede «giusto» e vita. Nel contesto di Abacuc si pone un problema: il profeta si lamenta con Dio perché vede trionfare il male e gli empi ci provano il gusto ad opprimere i buoni ed il profeta si lamenta con Dio: «fino a quando dovrà durare questa situazione?», Dio risponde al profeta: «prendi una tavoletta, incidi bene la visione, ecco viene e non tarda». Dio risponde ad Abramo gratificandolo di una visione che non tarderà, ma che, se indugia bisogna attendere per-


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chè certo verrà. E la visione è che l’empio soccorre, mentre il giusto vive mediante la fede. La fede, in Abacuc, è fiducia in Dio, e attesa della Sua salvezza. Paolo stacca queste parole dal suo contesto perché gli interessava sottolineare la fede che è quella che salva, non le opere della legge. Nasce un problema: che cosa è questa fede a cui allude Paolo? La risposta verrebbe da tutta la lettera ai Romani, ma detto in soldoni la fede in Paolo è la professione di fede che precede il battesimo visto però non come semplice atto rituale, ma come profondo coinvolgimento nel mistero di Cristo. Nel proporre la fede, come fondamento di salvezza, Paolo è in piena sintonia con l’insegnamento apostolico, in Atti 15,11 Pietro sottolinea che si è salvati per grazia di Gesù Cristo ed alla fede Pietro allude nel precedente verso 9 dove dichiara che Dio ha purificato per mezzo della fede il cuore dei pagani. Prima di andare avanti accenniamo un problema che emerge dalla lettera ai Romani, ma anche da tutto l’epistolario paolino. Paolo dichiara che la salvezza non viene dalle opere che l’uomo compie, in particolare le opere della legge, Giacomo poi dirà che la fede senza le opere è morta. Non c’è contraddizione tra i due, ma continuità: la fede che genera la salvezza poi nella vita concreta dovrà trovare la sua concretizzazione in opere concrete. Perciò non si tratta di opere che generano la salvezza, ma di opere che concretizzano quella fede che il cristiano deve professare nella sua vita. Detto questo passiamo al primo aspetto della lettera ai Romani che coincide con la condizione previa della nuova alleanza, cioè la remissione dei peccati: questa si ottiene come dono gratuito, mediante la fede in Cristo. Questa parte, Paolo la sviluppa nella sezione dal verso 18 de capitolo 1 a tutto il capitolo 4. Egli parte facendo una precisa analisi della generale situazione umana o meglio delle due categorie in cui si articola


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l’umanità, pagani e giudei. Da questa analisi risulta che pagani e giudei si trovano nella stessa condizione, cioè di essere peccatori. In tutto il capitolo 1 Paolo descrive il peccato dei pagani, è triplice, scaturente l’uno dall’altro. Rileggendo all’inverso il capitolo 1, i peccati dei pagani sono gravissimi, peccati anche contro natura, ma questi peccati concreti sgorgano da un peccato più a monte, quello cioè (verso 23): «di avere scambiato la gloria dell’incorruttibile Dio nell’immagine di corruttibile uomo, uccello, quadrupede, rettile», cioè in parole povere il peccato di idolatria. Ma anche il peccato di idolatria deriva a sua volta da un peccato ancora più a monte, cioè il peccato di non avere conosciuto Dio. Nel verso 19 Paolo dichiara che ciò che era conoscibile di Dio era a loro manifesto, potendo conoscere Dio attraverso le opere della creazione. Perciò il peccato dei pagani è il seguente: 1 – Non avere conosciuto Dio a partire dalle opere della creazione; 2 – Avere degenerato all’idolatria e; 3 – di essere scivolati nei peccati anche più aberranti. Alla base del peccato dei pagani ci sta perciò il fatto di non avere conosciuto Dio a partire dalla creazione. Però emerge un problema: fino a che punto è una descrizione reale o letteraria? Cioè, fino a che punto i pagani sono realmente colpevoli di non avere conosciuto Dio? Potevano conoscerlo attraverso la creazione? Gli antichi filosofi avevano intuito qualcosa, ma Aristotele era arrivato appena appena al motore immobile, e Platone era arrivato all’uno, all’assoluto. Lasciamo questo problema alla teologia posteriore che si servirà anche del concilio Vaticano I. Paolo qui sembra riprendere la prospettiva di Sapienza 13 che attribuisce l’idolatria al fatto che gli uomini stolti non seppero risalire dalla bellezza delle creature alla bellezza del creatore e dalla potenza o dalla perfezione delle creature alla perfezione del creatore. Prescindendo dal fatto se i pa-


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gani siano moralmente colpevoli di non avere conosciuto Dio è un fatto che i vizi più aberranti (Cfr. Lv 18) provengono dalla idolatria e questa nasce dal fatto di non avere conosciuto Dio. Proponendo questa lista dettagliata dei peccati dei pagani, Paolo dà ragione ai giudei. I pagani sono peccatori, ma qualche rabbino addirittura chiamava i pagani peccatori per i solo fatto che al Sinai non c’erano. I pagani stessi erano chiamato dei «cani», confronta con l’episodio della donna siro-fenicia che li identifica con i cani. Anzi Paolo esaspera il peccato dei pagani, operando però un piccolo spostamento, il peccato non riguarda la legge come pretendevano i giudei: al Sinai non c’erano i pagani, ma erano nella creazione. E dopo questa analisi i giudei dovrebbero ringraziare Paolo, ma Paolo volta pagina. Nel capitolo secondo Paolo toglie di mano ai giudei il diritto di a giudicare, perché nella misura che giudica si condanna, e anche il capitolo 2 è duretto, è vero che i giudei hanno la legge, ma nonostante la legge hanno peccato. Paolo ripropone una argomentazione analoga al capitolo 10 degli atti. Pietro a Cornelio dichiara che a Dio è gradito chiunque è suo cultore ed opera la giustizia a qualunque popolo esso appartenga. Nel verso 9 annunzia tribolazione e afflizione su ogni anima di uomo che opera il male sia esso giudeo o pagano, mentre è riservata (verso 10) è riservata gloria, onore e pace per chiunque opera il bene a qualunque popolo appartenga, Dio non fa distinzione. In questa prospettiva il problema non è avere la legge o non verla, appartenere ad Israele oppure no. Al di là del possesso o meno della legge, i due popoli hanno la stessa condizione di peccatori, i pagani hanno camminato senza legge, i giudei hanno peccato con la legge perchè non sono giusti davanti a Dio quelli che ascoltano la legge bensì quelli che la osservano. Il peccato nei giudei e perciò quello di non avere osservato la legge. Questa accusa paolina corrisponde alla polemica evangelica ma potrebbe essere anche contestata: in nome dell’osservanza della legge nella storia di Israele ci sono stati anche dei martiri, ma qui


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possiamo porre il problema se i giudei non hanno osservato semplicemente di fatto la legge o addirittura non erano capaci di osservarla. I Vangeli contengono l’accusa di Gesù che i giudei in nome delle loro tradizioni trascurano la legge di Dio. Basti pensare alla risposta che Gesù dà, citando Osea, a chi lo accusa di mangiare con i peccatori: «misericordia voglio, non sacrifici». Ma i giudei non potevano osservare la legge perché, come argomenterà Paolo, la legge porta al peccato. Lasciando stare ulteriori riflessioni sul capitolo 2 possiamo passare alla conclusione che tira Paolo nel capitolo 3, egli la tira alla luce anche del Salmo 13 ampiamente citato con delle modifiche provenienti da altri testi. In 3,9 Paolo ha mostrato che tutti, giudei e pagani, sono sotto il peccato. Perciò legge o non legge, giudei e pagani, sono accomunati nell’unica condizione di peccatori. Il salmo 13 conferma: «non c’è giusto, nemmeno uno, non c’è chi comprenda, non c’è chi cerchi Dio, tutti si sono allontanati e non c’è nessuno che operi il bene». Ancora nel verso 20, Paolo riassume con una frase molto forte: «per questo a partire dalle opere della legge non è giustificato nessun uomo, anzi per mezzo della legge si ha la conoscenza del peccato». In questo sfondo di universale condizione di peccato si colloca la risposta di Dio contenuta nei versi 21-26 del capitolo 3. Dal momento che tutti sono peccatori, la risposta di Dio è necessaria per tutti. Nel verso 3,21 Paolo scrive: «ma adesso senza legge la giustificazione di Dio è stata manifestata, testimoniata dalla legge e dai profeti». Le particelle iniziali (quelle sottolineate) sono molto importanti perché da una parte contrappongono la risposta di Dio alla universale condizione di peccato, sia anche la particella «ora» (adesso - «/

») rivela che la ri-

sposta di Dio in questa situazione, già concretamente si è manifestata. Nel caso concreto si è manifestata la giustificazione o la giustizia di Dio, non cioè giustizia che giudica e condanna, ma quella giustizia mediante la quale il Dio giusto rende l’uomo giusto, cioè Dio ha manife-


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stato il modo come rendere l’uomo giusto, in risposta al Salmo 50: «lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato». Ma l’opera di giustificazione si è manifestata “senza legge”: in tale manifestazione la legge non c’entra, non è stata la legge a manifestarla, meno che mai ad attuarla. Tuttavia la legge ha avuto un ruolo, quello stesso dei profeti, cioè ha testimoniato, e lo testimonia tuttora (

) perché legge e

profeti sono scritti. Essi attestano un tipo di giustificazione. Quale sia questa giustificazione Paolo lo indica nel verso 22, dove riprende il termine «$

», la particella «$ » seguente, stabilisce

un legame con ciò che ha detto precedentemente. Nel verso precedente ha segnato alla legge ed ai profeti il compito di testimoniare, adesso descrive la vera giustificazione. Notiamo il genitivo «

» che è un

genitivo soggettivo: la giustizia cioè che Dio opera e che si è manifestata «$

». «$

%+

» è complemento di mezzo:

per mezzo della fede; il genitivo seguente «%+

» è genitivo

oggettivo cioè la fede che ha per oggetto Gesù Cristo. Scrivendo che la giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede di Gesù Cristo Paolo esprime due modi come la giustizia di Dio si manifesta: uno è oggettivo, l’altro è soggettivo. Il modo oggettivo è Gesù Cristo: in Gesù Cristo, Dio ha manifestato la Sua giustizia, cioè il Suo atteggiamento del Dio che salva: in Gesù Cristo oggettivamente si è manifestata la salvezza di Dio. L’aspetto soggettivo è contenuto nell’espressione «per mezzo della fede», perché la salvezza di Dio oggettivamente manifestatasi in Gesù, soggettivamente raggiunge l’uomo quando l’uomo crede in Cristo. Paolo sottolinea l’aspetto della fede, scrive infatti l’espressione «

» (verso tutti quelli che credono). In questa

espressione sono importanti il termine « e il termine «

» che esprime l’ampiezza

» che esprime la condizione. L’opera di Gesù è

necessaria per tutti, ma per tutti si richiede la stessa condizione, cioè la fede.

Paolo

rimarca

questo

concetto

mediante

l’espressione


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«

$

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» (infatti non c’è differenza): è chiaro che

l’assenza di differenza si riferisce a giudei e pagani. Legge o non legge il problema è uguale per tutti. Tutti infatti sono accomunati nell’unica condizione. La condizione che accomuna tutti è espressa nel verso 23: «

!

la particella «

'

$ &

», è importante

» (infatti), quello che Paolo sta dicendo riguarda tutti,

perché tutti hanno la stessa condizione. La condizione è espressa dalle parole « questo aoristo, dal verbo « '

» ed « !

»:

», mette qualche problema: come lo

si intende: ingressivo o completivo. Cioè intende una situazione consumata (completivo), oppure indica l’inizio di una serie (ingressivo) di atti peccaminosi? Non sapremmo risolvere questo problema, ma forse Paolo non ha questa preoccupazione: usando questo verbo all’aoristo, Paolo sembra indicare due cose: anzitutto non sta dicendo che tutti sono peccatori, ma che tutti peccarono: non rimanda cioè ad una qualità, ad una caratteristica, ma ad una azione concreta, storica. Inoltre vuol dire che c’è stato un evento che nella sua entità storica è passato, ma è rimasto nei suoi effetti. Questo problema Paolo lo riprenderà nel capitolo 5 dove descriverà il coinvolgimento di ciascun uomo in questo evento. E come si può dire che tutti che tutti peccarono. Lasciamo aperto almeno per ora questo problema, notiamo soltanto l’universalità del peccato e la sua conseguenza: «sono privi della gloria di Dio» ( '

$ &

).

Per capire questa frase bisogna risalire a Genesi, salvo errore però non Genesi ebraico, né meno greco, ma Genesi aramaico (il targum). Il testo genesiaco scrive che dopo il peccato gli occhi degli uomini si aprirono e si accorsero di essere nudi.


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Martedì 26 aprile 2005, ore 10,30 / 12,15 Il motivo per cui per tutti senza differenza è indispensabile per la salvezza la fede in Gesù è contenuto nel verso 23. Paolo fa una affermazione abbastanza chiara: «tutti peccarono e sono pieni della gloria di Dio». Alla base Paolo pone un evento storico così come indica l’aoristo « !

», questo aoristo può avere un valore sia completivo sia anche

ingressivo. L’aoristo completivo, riguarda l’evento storico, che, in sé stesso è già chiuso; l’aspetto ingressivo invece, riguarda le conseguenze che da quel fatto storico scaturiscono. Questo verso, a leggerlo attentamente, pone diversi problemi. Anzitutto, perché Paolo usa un’aoristo che esprime azione chiusa quando la condizione di peccato permane tutt’ora? Su quale base Paolo fa questa affermazione riguardante l’universalità del peccato? Cercheremo di rispondere, per quel che è possibile, a questi problemi. Per quanto riguarda la base su cui Paolo poggia la sua affermazione, questa è anzitutto l’esperienza. Nel capitolo 1 ha descritto il peccato dei pagani, nel capitolo 2 ha descritto il peccato dei giudei e, di conseguenza, può dire che tutti, giudei e pagani, hanno peccato. Ma la seconda parte della frase «sono privi della gloria di Dio», induce a ricercare il fondamento ancora nel testo genesiaco. In Genesi leggiamo che dopo l’esperienza del peccato, gli occhi degli uomini si aprirono e si accorsero di essere nudi. Il testo genesiaco non spiega che cosa sia questa nudità e perciò è da intenderla in senso fisico. L’autore genesiaco, probabilmente, rilegge e reinterpreta quel senso di pudore che impedisce anche su quel piano una relazione totale tra uomo e donna. Non si tratta però del pudore in sé stesso, quanto piuttosto del pudore come indizio di una divisione che è intercorsa tra due essere creati per essere una cosa sola.


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Mentre però il testo genesiaco non spiega in che cosa consista questa nudità, lo spiega invece la versione aramaica. Il targum palestinese, nella sua recensione cosiddetta «dei neofiti», scrive che erano nudi perché erano stati privati della gloria con cui erano stati creati all’inizio. Il targum non spiega qual’è questa gloria con cui furono creati all’inizio. Però Paolo scrive «gloria di Dio», ciò lascia pensare a Genesi 1,26 cioè l’uomo creato ad immagine secondo somiglianza con Dio. In questo senso, con il peccato genesiaco, l’uomo avrebbe perduto la sua prerogativa di essere immagine di Dio. Paolo stesso, nel capitolo 8, parlerà di quelli che Dio ha previsto ed ha predestinato ad essere conformi all’immagine del Figlio suo: ciò significa che attraverso il Figlio l’uomo recupera la sua dimensione di immagine. Accettando perciò di riferire a Genesi l’espressione «tutti peccarono», emerge la domanda: come è possibile che nel peccato adamitico sia compendiato il peccato di tutti? Una certa risposta Paolo la dà nel capitolo 5, dove leggiamo una frase: «per questo, come attraverso un solo uomo, il peccato entrò nel mondo e per mezzo del peccato la morte, e così in tutti gli uomini la morte si trasmise per il fatto che peccarono». La frase è incompleta perché la particella iniziale «come» è una comparativa che avrebbe dovuto essere completata dal secondo termine. Perciò diventa difficile stabilire la relazione tra il peccato adamitico e il peccato degli uomini. Subito dopo però, Paolo parla di quelli che peccarono a somiglianza della trasgressione di Adamo. Il Concilio di Trento ci obbliga di vedere qui il peccato originale, ma non ci obbliga nel modo come intenderlo. Possiamo dire forse, che già nel peccato adamitico sono contenuti i peccati degli uomini, i quali poi peccano a somiglianza di quel peccato.


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Se questa spiegazione è giusta, capiamo perché in 3,23 Paolo scrive «tutti peccarono»: nel peccato adamitico tutti gli uomini hanno peccato, rinnovando poi il peccato adamitico nel proprio peccato personale. Stabilita l’universalità del peccato, ne consegue l’universale necessità della salvezza ed è quello che Paolo sottolinea nel verso 24 dove scrive: «[ma tutti sono] giustificati per mezzo della sua grazia, mediante la redenzione, quella in Gesù Cristo». L’universale condizione di peccato impedisce che si possa in qualche modo esigere la salvezza: se questa c’è, essa è necessariamente un dono gratuito che in nessun modo l’uomo peccatore può meritare. Ma notiamo anzitutto il participio presente «$

» che non esprime

una qualsiasi ipotesi, ma richiama una realtà presente ed abituale: la salvezza è un fatto che si è attuato e che, man mano, si attua. È importante il termine seguente «$ tuitamente”; il termine «$

», che traduciamo “gra-

» infatti significa “dono gratuito”. Questo

passaggio della gratuità della salvezza sembra probabilmente ispirarsi ad Isaia 52,3, dove Dio al popolo degli esiliati annunzia: «gratis siete stati venduti [Cfr. Esilio], ma senza prezzo sarete riscattati». Dio sta dicendo che per redimere il suo popolo non deve pagare prezzo a nessuno, ma redimerà mediante un atto della sua potenza. Se Paolo si ispira ad Isaia, determina uno spostamento di accento: la gratuità non riguarda il fatto che Dio non paga a nessuno un prezzo, ma riguarda il fatto che l’uomo peccatore, in nessun modo, merita la salvezza.


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Paolo sottolinea questa gratuità rimandando alla causa per cui Dio ha operato la salvezza. Nel verso 24 ci sono due complementi: 1–« 2 - «$

» %+

»

Questi due complementi sintatticamente avrebbero diverso valore, il primo complemento è un dativo che può avere un valore di complemento di mezzo ma forse meglio intenderlo come complemento di causa: il fondamento e la motivazione della giustificazione gratuita sta nella «

» di Dio. Possiamo notare l’enfasi che assume il pronome persona-

le genitivo «

» posto tra l’articolo e il sostantivo. «

» ha una

ampiezza di senso notevole e implica benevolenza, dono, quasi persino amore, questo è il motivo ultimo dell’opera della giustificazione. La stessa prospettiva appare nella lettera agli Efesini dove Paolo parla, in 1,6, della «

» di cui «ci ha gratificato nel suo Figlio diletto». Ma qualche

verso prima, nel verso 4, Paolo ha detto che «ci ha scelti prima della creazione del mondo perché fossimo santi ed immacolati davanti a Lui “in agape”». Lasciamo stare di approfondire ulteriormente il rapporto tra agape e «

»: adesso è sufficiente sottolineare che proprio essa sta al-

la base di tutta l’opera della nostra giustificazione. Si tratta della benevolenza di Dio così come l’enfasi del pronome «

» sottolinea.

Il secondo complemento che riguarda più direttamente l’opera di Gesù, espresso con la particella «$ » e il genitivo assume un carattere strumentale. Quasi a dire che il fondamento della nostra giustificazione è la benevolenza di Dio7, ma l’attuazione si compie per mezzo dell’opera di Gesù. Tale opera di Gesù è espressa col termine « sta parola è parola composta dalla particella « luogo, e dal termine «7

», que-

-» che indica moto da

» questa parola ha una origine molto lon-

Utilizziamo questo termine per tradurre «

».


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tana e parte dal verbo « mine «

» (sciogliere). Dal verbo «

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» si forma il ter-

» che deriva dalla radice « -» e da una desinenza «-

che proviene dal verbo «

»

». Etimologicamente significherebbe: ciò

che detiene lo scioglimento. Presso i greci il «

» era il prezzo che si

pagava per il riscatto di uno schiavo. Questo verbo è ripreso in Matteo e Marco che riferiscono le parole di Gesù che cioè «il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la Sua vita in riscatto per molti». Dal termine «

» si forma il verbo «

» che

all’attivo significa ricevere il prezzo di un riscatto, nella forma media invece «

» significa pagare il prezzo di un riscatto. Da questi verbi

deriva il termine ««-

» che come tutti i sostantivi greci finenti in

» indica una azione attiva: la «-

» sarebbe allora l’azione di

chi compie un riscatto, cioè di chi per redimere paga un prezzo. Notiamo la particella «

-» che esprime moto da luogo: si indica allora l’azione

di un riscatto facendo uscire da una situazione. Tale azione di riscatto è quella «

» (operata in Gesù

Cristo). L’espressione in «Gesù Cristo» è una espressione molto pregnante e racchiude diversi significati. Ne indichiamo tre:

-

il riscatto operato da Gesù Cristo; il riscatto che si è realizzato in Gesù Cristo; il riscatto che si è attuato per mezzo di Gesù Cristo.

In che modo Gesù Cristo abbia operato tale riscatto, o in che modo Dio lo abbia operato per mezzo di Lui, Paolo lo dirà nel seguente verso 25, verso che esigerà una certa attenzione. Fermiamoci un altro momento sul verbo «

». Questo termine indica l’azione di un ri-

scatto mediante il pagamento di un prezzo e vedremo dal verso seguente, come il prezzo è il sangue di Cristo. Ciò in sintonia con tutto l’epistolario paolino ed anche con il resto del NT di cui citiamo due testi:


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-

1Pt 1,18-19: «sapendo che non con cose corruttibili, oro o argento, siete stati riscattati dal vostro modo di vivere vuoto ereditato dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo come [sangue] come agnello senza macchia»;

-

Ap 5,5-9: «sei degno di prendere il libro e di aprire i sigilli perché [dal sei stato immolato e ci hai comprati ( 8 verbo ]) per Dio con il tuo sangue». L’immagine del riscatto che il NT riprende proviene certo dalla

lingua greca (o dall’uso greco) quello del riscatto di uno schiavo, però il suo contenuto è diverso, alla base sembra esserci come contenuto, non il riscatto di uno schiavo, quanto piuttosto la storia della salvezza. Anticamente Dio scese in Egitto e liberò il Suo popolo dalla «

-» schiavitù

egiziana, ma Dio non pagò alcun prezzo. Nel riferimento al NT compare l’idea del prezzo che si paga, però siamo sul piano dell’immagine perché in questo pagamento di prezzo che è il sangue di Gesù non si dice a chi questo prezzo è pagato. Non certo a Dio, perché Dio dona (si sottolinea la gratuità) e meno che mai a satana, perché satana è cacciato via, non va esasperata perciò l’idea del prezzo perché è una immagine. La realtà è che grazie al sangue di Cristo si è verificato un passaggio dalla nostra condizione di peccatori alla condizione di persone rese giuste (giustificate).

8

Questo verbo indica gli affari che si fanno presso l’agorà, cioè la piazza.


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Nel verso 25, Paolo focalizza l’opera di Gesù. Di questo verso anzitutto facciamo una piccola analisi logica, abbiamo nel testo una lunga esposizione, « # • • • •

ma '

fermiamoci '

alle

prime

quattro

parole:

».

# – complemento oggetto (che) ' – soggetto (Dio) – verbo aoristo (costituì pubblicamente) ' – apposizione del complemento oggetto (luogo o vittima di espiazione) In questa espressione Dio appare i soggetto ultimo di tutta l’opera

della nostra giustificazione. Ma in questa espressione sono importanti i due termini «

»e« '

». Cominciamo dal secondo perché

la sua spiegazione ci renderà più facile la spiegazione del primo. Sabato 30 aprile 2005, ore 08,30 / 10,15 Nel verso 25, Paolo giustifica la sua affermazione precedente della redenzione per mezzo di Gesù Cristo. Nel verso 24 Paolo ha affermato che alla situazione universale di peccato, Dio risponde donando gratuitamente la sua giustificazione. Però è importante avere la chiara coscienza che la giustificazione è gratuita, cioè in nessun modo l’uomo può pretenderla o avere titoli per esigerla. Se l’uomo è giustificato ciò è per libero e gratuito dono di Dio. Abbiamo detto la volta scorsa che il fondamento di tale giustificazione è indicato da Paolo con due complementi: un complemento di causa (

), in forza cioè della Sua benevo-

lenza, quasi a dire, che se c’è un motivo che costringe Dio a giustificare, questo non è al di fuori di Dio, ma all’interno di Lui ed è la sua stessa benevolenza: è la “esed” ebraica, che poi è fedeltà amore, ecc. Poi c’è un complemento di mezzo ($

), la redenzione quella


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(

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) in Gesu Cristo, cioè non si tratta di una redenzione qualsiasi ma di

quella operata da Gesù Cristo. Nel verso 25 Paolo spiega quale è stata la redenzione operata da Gesù Cristo. • • • •

# – complemento oggetto (che) ' – soggetto (Dio) – verbo aoristo (costituì pubblicamente) ' – apposizione del complemento oggetto (luogo o vittima di espiazione) Una prima osservazione è importante, anche nell’opera di Gesù il

soggetto è sempre Dio. Paolo in questo contesto, in cui si parla della giustificazione gratuita, ha esigenza a sottolineare l’opera di Dio. Nella affermazione che abbiamo proposto, Gesù potrebbe apparire passivo, ma passivo non è: dove Paolo ha esigenza a sottolineare l’opera di Gesù, lo presenterà come soggetto: per esempio Cfr. Gal 2,20: «mi ha amato ed ha dato sé stesso per me». Nella frase che abbiamo citato partiamo dal verbo «

»,

questo verbo è un verbo composto: particella « Il verbo «

» (davanti) + il verbo «

».

» significa porre, la particella «

» significa da-

vanti. Dio perciò ha posto davanti, cioè pubblicamente, Gesù come «'

», non si può capire questa frase se non consideriamo il

background veterotestamentario. La parola « '

» ci rimanda al

capitolo 16 del libro del Levitico, precisamente al sacrificio annuale dell’espiazione. Su questo sacrificio è utile un attimo indugiare perché sarà lo schema della lettera agli ebrei. Il sacrificio di espiazione, o il Kippur era un sacrificio che si offriva una volta sola all’anno, ma per capire questo sacrificio bisogna avere anche l’idea della configurazione del tempio, anche perché questa configurazione sarà riletta simbolicamente dalla lettera agli ebrei. Però il testo che stiamo considerando è un pochino


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il nucleo paolino di tutto lo sviluppo della lettera agli ebrei (donde capiamo che l’autore riprende da Paolo anche se non è Paolo). Il tempio aveva tre cortili scoperti, con due portici, ed un edificio coperto. Nel primo cortile ci potevano entrare tutti, giudei e pagani, nel secondo cortile potevano entrarci tutti, ma solo giudei, uomini e donne. Nel terzo cortile ci entravano soltanto i giudei uomini, in questo terzo cortile c’era l’altare dei sacrifici dove le vittime venivano immolate e, tutte o in parte, bruciate. All’interno, nella parte coperta, il santuario vero e proprio si divideva in due parti: la prima parte era chiamata il «kodesh» (Santo). L’autore della lettera agli ebrei descrive quello che c’’era in questa prima parte del santuario, ma la sua descrizione rispecchia più quello che è scritto nel levitico che non la realtà del momento, comunque in questa prima parte c’era la «menora» (il candelabro a sette braccia), che doveva essere sembra acceso. Secondo l’esodo il candelabro acceso era simbolo della fedeltà del popolo, secondo Zaccaria, il candelabro esprimeva la cura e la vigilanza di Dio. Vi era inoltre la tavola dei pani, in questa prima parte potevano entrare tutti e solo i sacerdoti, senza limiti di tempo o limiti di funzione. Entravano per alimentare l’olio del candelabro, e per l’offerta matte sera del sacrificio. Nel mezzo c’era il velo, un drappo pesante sporco di sangue, perché dei sacrifici quotidiani si aspergeva del sangue verso di esso. Nella seconda parte, a cui si accedeva per mezzo del primo, ci entrava il sommo sacerdote una volta all’anno per compiere il sacrificio annuale dell’espiazione. Nel Santo dei Santi, secondo il Levitico, dentro c’era l’arca, che secondo antiche tradizioni conteneva tre cose: le tavole della legge, la verga di Aronne fiorita e un omer (un recipiente) di manna del deserto. tutto questo però come è scritto nella scrittura,

perché

all’epoca come ci informano gli storici latini, non c’era niente nel Santo dei Santi. Il NT ha come riferimento la scrittura dell’AT. Nella festa dell’espiazione, il sacerdote che poteva entrare lui solo, e una volta all’anno, in quella circostanza entrava tre volte: la prima volta vi entrava


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portando incenso, la seconda volta prima immolava un vitello e faceva l’espiazione per i peccati suoi e della sua famiglia, poi usciva, si prendevano due capri, si tirava a sorte quale dei due dovesse essere immolato (il capro espiatorio), l’altro invece era riservato alle forze del male (il capro emissario), il sacerdote immolava il capro espiatorio e con quello, col suo sangue espiava i peccati che in quell’anno il popolo aveva commesso. Poi il sacerdote imponeva le mani sul capro vivo (il capro emissario), vi confessava i peccati, e poi lo portavano, povera bestia, a morir di fame. Andiamo adesso al rito dell’espiazione; il rito come descritto nella scrittura avveniva presso l’arca. L’arca era sormontata da due cherubini che si guardavano faccia a faccia. Sull’arca c’era la lastra di sopra che era di oro, questa lastra era il kapporet oppure in greco l’ilasterion. La parola « '

» è una parola composta dal verbo « '

spiare) più la desinenza «-

» la

quale a sua volta deriva «

dal

verbo

» che vuol

dire

custodire.

«'

» perciò

è il luogo che detiene l’espiazione, il luogo cioè dove si fa l’espiazione. Il sacerdote versava il sangue nei quattro stipiti e così facendo credeva di espiare i peccati. Ciò che im-

» (e-


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porta è anche la modalità concreta con cui si svolgeva il rito. Tra le tante caratteristiche c’era quello del nascondimento: il sacerdote compiva il sacrificio lontano dallo sguardo di tutti: il levitico prescrive che quando il sacerdote compie l’espiazione presso il santuario non ci deve essere nessuno, perciò nell’antico rito rimangono nascosti sia il luogo dell’espiazione, coperto dal velo, sia anche il rito. La lettera agli ebrei mostrerà tutta la debolezza di questo rito, dirà per esempio che la ripetizione annuale è assurda. Per gli ebrei la celebrazione annuale diceva che il rito era abbastanza raro e perciò solenne, per il NT la ripetizione annuale è una ripetizione inutile, snervante fino alla nausea, e il motivo è che se un sacrificio di espiazione è valido, ottiene una volta per sempre la remissione dei peccati e perciò quel sacrificio non si ripete più. Il nostro testo paolino si rivela antitetico al sacrificio dell’espiazione levitico, ma già tale contrapposizione appare nei Vangeli sinottici, non è casuale il fatto che il processo davanti al sinedrio graviti sul tema: la distruzione e la ricostruzione del tempio. Non è casuale il fatto che ancora in Matteo e Marco, il tema della distruzione del tempio sia ripreso come scherno sotto la croce. La ripresa del tema del tempio nella narrazione della passione probabilmente dipende dal quarto canto del servo di Jahwè. Non ebraico o greco, ma aramaico: il targum. Solo però che il targum depenna qualsiasi riferimento doloroso e assegna al messia il compito di ricostruire il tempio, il NT sembra fondere insieme la prospettiva del targum e quella della versione greca o del testo ebraico, cioè il messia, il tempio lo ricostruirà (targum), ma attraverso la sua passione (Testo masoretico - LXX). Ma è importante la tradizione sinottica che al momento della morte di Gesù il velo del tempio si squarciò, cioè quel velo che divideva il Santo dal Santo dei Santo, ma si capisce lo squarcio non è materiale ma spirituale, teologico, simbolico, di economia di salvezza: quello che nell’AT era nascosto ora è manifesto e pubblico. In ciò


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ci può essere il fatto che Gesù sia morto fuori dalle mura e ciò evidenzierebbe il carattere pubblico della morte di Gesù. Si spiega allora la frase paolina: «Dio lo ha costituito pubblicamente '

». La novità di Cristo e che è un sacrificio di espiazione

non nascosto, bensì pubblico. Ciò implica il passaggio dalla prefigurazione adombrata e nascosta, alla realtà pubblica e manifesta. Ciò implica di conseguenza, come dirà meglio la lettera agli ebrei, ma come insinua anche Paolo nel nostro testo che i sacrifici di espiazione dell’AT erano inefficaci mentre il sacrificio di Cristo diventa efficacissimo. L’autore della lettera agli ebrei tirerà la conseguenza che il sacrificio di Cristo non si ripete perché ha ottenuto redenzione eterna. Veniamo alla parola « '

». Abbiamo detto che esso ri-

chiama il kapporet del levitico. Nel nostro testo ha anche questo senso: Gesù è il luogo dove avviene l’espiazione, ma nello stesso tempo, come preciserà subito dopo Paolo, Gesù è anche la vittima dell’espiazione e il sacerdote

che

espia.

Questi

ultimi

dall’espressione seguente: «

due !

sensi

emergeranno

» (nel suo sangue). Os-

serviamo però che mentre la prospettiva di luogo è contenuta nel termine «' «

» e la prospettiva di vittima è contenuta nella espressione !

» (nel suo sangue), meno chiara è qui la prospettiva

sacerdotale, centralissima invece in ebrei, ma che Paolo stesso implicitamente afferma in altri testi: quando parlerà di Cristo che ha donato se stesso per noi benché anche in questi testi (Gal 2,20; Ef 5,2; ecc…) la prospettiva non è prima di tutto cultuale, ma esistenziale. Tuttavia nel testo che stiamo considerando Paolo oscura l’aspetto sacerdotale perché come dicevamo, la sua prospettiva è la «

» (la benevolenza di Dio),

tuttavia Paolo si guarda bene dall’attribuire a Dio una azione che richiami l’opera sacerdotale. Dio ha donato il suo Figlio, ma non lo ha offerto, perché offrire è un atto sacrificale di cui Dio è non il soggetto, bensì il destinatario. Notiamo una apparente anomalia nel testo paolino, dopo la


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parola « '

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» avrebbe seguito opportunamente la menzione del

sangue, Paolo invece fa seguire la menzione «della fede»: emerge la sua fondamentale preoccupazione della fede, fa seguire la menzione della fede dal termine « '

». Quest’ultima parola si ricollega

all’espiazione dei peccati, Paolo ha fretta a dire che tale espiazione oggettivamente avvenuta una volta per tutte in Cristo, soggettivamente si ottiene mediante la fede. Solo nella fede in Gesù si beneficia dell’espiazione da lui operata. Notiamo così un diverso accento tra Paolo e il suo erede (la lettera agli ebrei), mentre in ebrei la prospettiva è quella di mostrare che il sacrificio di Gesù è l’unico e vero sacrificio, al punto da esclamare in 10,4 che: «è impossibile che il sangue dei capri e dei vitelli espii i peccati» a differenza del sangue di Cristo che permette una radicale purificazione delle coscienze; la preoccupazione paolina, invece, è quella di sottolineare la necessitò della fede in Gesù. Emerge tutto il problema degli atti degli apostoli: «si è salvati non mediante la legge, ma per la fede in Cristo Gesù». Il testo paolino continua ancora mostrando lo scopo per cui Dio ha costituito Gesù « '

», pur nelle due condizioni: la fede degli

uomini e il sangue di Gesù; lo scopo per cui Dio ha costituito Gesù «' «

» $ &

è

espresso

subito

$

dopo

nella

». La particella «

espressione: » indica fine o

scopo ed esprime lo scopo per cui Dio ha costituito Gesù pubblico «'

», lo scopo era quello contenuto nella parola « $ & » che

vuol dire “manifestazione”. Dio aveva esigenza di mostrare la sua giustificazione, ma mostrare non soltanto in senso noetico, ma operativo, cioè mostrare per realizzare la Sua opera di giustificazione: Dio aveva esigenza di operare la Sua giustificazione.


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Ma perché questa esigenza? è detto subito dopo. Abbiamo due frasi parallele, la prima frase è complemento di scopo o fine, la seconda è complemento di causa. Complemento di fine o scopo

Complemento di causa

Per (

A causa ($ ) il far passare

) manifestazione

della Sua giustificazione

dei precedenti peccati

Sabato 07 maggio 2005, ore 08,30 / 10,15 Dopo aver detto che Dio ha costituito Cristo, pubblico luogo e vittima di espiazione, Paolo continua con una serie di complementi: un complemento di mezzo, un complemento di luogo, un complemento di fine o scopo, un complemento di causa, ancora un complemento di causa, un complemento di fine o scopo, un complemento di tempo e un complemento di fine o scopo. Compl. di…

Romani 2,25-26 [1]

25

[2] $

# (

'

[4]

'

)

mezzo luogo

!

[3]

$ &

$

fine o scopo

[5] $

'

[6] 26

$ &

$

fine o scopo tempo fine o scopo

[8]

$

[9] [10]

causa causa

[7]

$

Traduzione letterale

%+

*

per mezzo della fede nel suo sangue per la manifestazione della sua giustizia a causa di lasciare passare i precedenti peccati nella sua pazienza per la manifestazione della sua giustizia nel tempo presente per essere lui giusto e giustificante colui [che proviene] dalla fede di Gesù


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In questa lunga serie di complementi i più importanti sono quelli di fine o scopo, cioè il 4° e il 7°. Partendo da questi ultimi complementi notiamo una diversa premessa, la prima frase, cioè il quarto complemento si ricollega a ciò che precede. Dio deve compiere una azione di manifestazione: « $ & », deve cioè manifestare la sua giustizia, cioè la sua realtà di Dio giusto che rende giusti. Per questo motivo ha costituito Cristo pubblico luogo o pubblica vittima di espiazione. Notiamo il secondo e terzo complemento: «$

(

)

» e «

!

»,

l’ordine di questi due complementi è alquanto insolito, Paolo avrebbe detto meglio, prima nel suo sangue e poi per mezzo della fede, perché la menzione dell’espiazione direttamente si ricollega al sangue ed esige il sangue: secondo il Levitico 16 il sacerdote compie l’espiazione prima col sangue di un vitello e poi con quello di un capro. Il sangue dell’espiazione è di primarissima importanza, lo dice già il capitolo 17 del Levitico: «Dio ha dato il sangue perché si espii con esso». Nella menzione del sangue, nel nostro testo, dominano le due immagini di vittima e di altare (luogo dell’espiazione), Cristo ha dato il suo sangue, e come il sangue degli animali aspergeva il propiziatorio, ora è il sangue stesso di Cristo che asperge sé stesso: Cristo altare bagna sé stesso col suo sangue essendo la vittima. Era perciò naturale che Paolo menzionasse prima il sangue e poi la fede, l’inversione rivela la sua preoccupazione di sottolineare l’importanza della fede: si direbbe che senza la fede il sacrificio di Gesù diventa perfettamente inutile, è la fede in Lui che determina per l’uomo l’efficacia. Tutto questo serviva a Dio per manifestare la sua giustizia. Il termine « $ & », come tutti i nomi greci finenti in «-

», esprime una

azione attiva, azione di. Il termine poi deriva dalla radice del verbo «$

» che vuol dire mostrare e perciò il termine « $ & » indica

l’azione di mostrare: Dio aveva l’esigenza di manifestare la sua giustizia e per questo ha compiuto una azione, quella cioè di costituire il suo Fi-


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glio « '

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». Il termine « $ & » di per sé indica solo manifesta-

zione, non implicherebbe efficacia operativa, ma l’efficacia operativa apparirà nell’ultima frase «per essere Lui giusto e giustificante». Ma già l’efficacia operativa è insinuata nei due complementi precedenti: «nel suo sangue» e «per mezzo della fede». Con il sangue Gesù opera la remissione dei peccati e manifesta la giustizia di Dio. Mediante la fede l’uomo soggettivamente attua quello che oggettivamente Cristo ha operato. Ma sono importanti i due complementi seguenti. $

' .

C’è un complemento di causa: «perché Dio ha fatto ciò?». La risposta è in quel termine «

» che deriva dal verbo «

» che

vuol dire «lasciar passare». Dio ha compiuto una azione, quella di lasciar passare (

) i precedenti peccati. Perché li ha lasciati passare?

Lo indica nella frase seguente «

», cioè «nella

sua pazienza, nella sua tolleranza». Il profeta Geremia aveva annunziato come condizione previa la remissione dei peccati. Dio per lunghissimo tempo ha tollerato, ha pazientato, diremmo quasi ha accettato i peccati, nella attesa non di punirli, ma di rimetterli. E perciò nel sacrificio del Figlio, Dio compie quello che per lungo tempo aveva tollerato. La quartultima e terzultima frase spiegano perché Dio aveva tollerato i peccati, per manifestare nel tempo presente, cioè nel tempo caratterizzato dalla presenza del sacrificio di Gesù, perché attraverso quello Dio manifesta la Sua giustizia rimettendo i peccati. Proprio nel sacrificio di Gesù, Dio si manifesta giusto e giustificante, cioè il Dio giusto che rende giusti. Riassumendo, la prima sezione della prima parte di Romani, capitoli 1-4, risponde alla prima esigenza della Nuova Alleanza, cioè la remissione dei peccati. Chi ha bisogno di tale remissione? Tutti, giudei e


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pagani, ed i giudei non sono giusti perché hanno la legge, in questa universale situazione di peccato, tutti hanno bisogno di una remissione che è gratuita, ma che Dio ha operato mediante il sacrificio del Figlio. E si ottiene tale remissione con una sola condizione indispensabile per tutti: la fede in Cristo. Ma allora i peccati di prima, l’antico sacrificio di espiazione, la risposta è tacita: non c’era remissione, ma Dio soltanto ha pazientato, ha tollerato i peccati in vista di Cristo, dove lui fattivamente si è manifestato come il Dio giusto che giustifica, cioè che rende giusti9. Tutto ciò in forza della fede in Cristo e per sottolineare la necessità della fede aggiunge un intero capitolo, il capitolo 4, dove c’è di fondo una idea: la legge poverina non ha mai preteso di giustificare, di rendere giusti, ma la legge stessa cioè il Pentateuco rimanda alla fede. Che cosa dice a riguardo di Adamo? Paolo cita in 4,3 il testo di Genesi 15,6, dove si legge «Abramo credette e gli fu computato a giustizia», perciò la legge testimonia che è la fede che rende giusti. Non possiamo più approfondire il capitolo 4, ma l’idea globale è che la clausola dell’alleanza, la remissione dei peccati, si attua mediante la fede in Cristo, la legge parlava dell’espiazione, ma quella era soltanto prefigurazione.

9

Il verbo «giustificare» è un verbo denominativo, deriva dall’aggettivo «$ », il verbo è «$ ». Questi verbi composti indicano l’attuazione di quello che dice la radice, perciò non è esatta la parola italiana «giustificare» perché questa parola può anche indicare: scusare una colpa che però rimane. Il verbo greco si traduce meglio con: «rendere giusto, fare giusto», il che implica la remissione dei peccati, e ciò perché il peccato viene completamente cancellato.


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I CAPITOLI 5-8 I capitoli 5-8 vogliono rispondere ad un problema, cioè la prima clausola dell’alleanza: «pongo la mia legge nel loro intimo e sul loro cuore la scriverò». Nella parte precedente abbiamo lasciato aperto un problema, Paolo ci dice che la giustificazione avviene mediante la fede in Cristo, ma nasce un problema: che cosa è la fede in Cristo? Ciò è urgente perché di fede abbiamo un concetto molto limitato, cioè un semplice assenso intellettuale, detto in soldoni, la fede paolina è, salvo errore, la professione di fede battesimale che implica il profondo coinvolgimento in Cristo. Non a caso Paolo scriverà che «quanti siamo stati battezzati in Cristo, siamo stati battezzati nella Sua morte», cioè siamo stati orientati verso la sua morte, a condividere la sua morte. Perché come Cristo è Risorto da morte per mezzo della gloria del Padre, così anche noi, possiamo camminare in novità di vita. Diamo anzitutto una divisione strutturale dei capitoli 5-8. possiamo dividere nel seguente modo: 1 – (5,1-11) – l’effusione dello Spirito; a. (5,12-21) – la liberazione dal peccato; b. (6) – la liberazione dalla morte; c. (7) – la liberazione dalla legge. 2 – (8) – la vita secondo lo Spirito. Perciò la legge nuova del cristiano è la vita secondo lo spirto che si attua mediante una triplice liberazione dal peccato e dalla morte, dopo la liberazione dalla legge. Ricordiamo quello che abbiamo già detto, come questa parte (capitolo 5-8) è inclusa dalla tematica della agape. Leggiamo in 5,5 «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo», in 8,35 Paolo scrive: «chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Paolo fa un lungo elenco di tribolazione, spada, nudità, fame, cose sperimentate, come appare dalla prima lettera ai Corinzi. Detto in soldo-


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ni, le cose che potrebbero separare, rafforzano di più perché in esse si compie il mistero della morte di Gesù. Perciò il capitolo 8 descrive la condizione del cristiano sotto lo spirito che attua degli effetti che culminano nella resurrezione. Paolo in Rm 8,11 scrive: «se lo spirito di colui che ha resuscitato Gesù Cristo dai morti abita in voi, colui che ha resuscitato Gesù Cristo dai morti resusciterà anche i vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Ma le conseguenze vanno ancora oltre ed arrivano fino alla redenzione cosmica, scrive Paolo nel verso 22 che «tutta la creazione geme e soffre come i dolori del parto nella attesa della manifestazione dei figli di Dio». Passiamo adesso ai versi 5,1-11. È importante la prima parola del capitolo 5: «giustificati [0 [

] a partire dalla fede abbiamo pace

] verso Dio per mezzo di Gesù Cristo». Questa frase è molto den-

sa e c’è anche un problema di critica testuale. Nella espressione «abbiamo pace» abbiamo un problema di critica testuale di difficile soluzione. Se leggiamo con la “omicron” è un indicativo presente, se leggiamo con “l’omega” è un congiuntivo presente. Se leggiamo con la “omicron” abbiamo una affermazione: Paolo afferma che noi giustificati abbiamo pace verso Dio; Se leggiamo con “l’omega” abbiamo una esortazione che possiamo tradurre: manteniamo la pace verso Dio, ciò significa in questo secondo caso che il cristiano può perdere questa pace ed è impegnato a mantenerla. Che cosa sia questa pace, in soldoni, indica profonda riconciliazione, dopo avere superato l’inimicizia del peccato.


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Dopo avere dichiarato che noi giustificati abbiamo pace con Dio, seguono diverse frasi: 1 – per mezzo del quale abbiamo avuto mediante la fede accesso verso questa grazia [nella quale stiamo]; 2 – e ci gloriamo della speranza della gloria di Dio; 3 – non solo, ma ci gloriamo anche nella tribolazioni; 4 – sapendo che la tribolazione opera la costanza; 5 – la costanza [opera] la virtù provata; 6 – la virtù provata [opera] la speranza; 7 – la speranza non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Notiamo anzitutto il primo schema che è quello delle virtù cosiddette teologali. La fede ha giustificato e siamo proiettati al futuro mediante la speranza. Paolo fonda la speranza nella serie di frasi proposte, ma che purtroppo non possiamo sviluppare. Diciamo soltanto, in soldoni, che la speranza cristiana come emerge anche dal capitolo 8 (nella speranza siamo stati salvati), non è quello che intendiamo noi abitualmente, nel linguaggio abituale la speranza è l’augurio di una realtà piacevole futura che resta però sempre incerta. La speranza cristiana [almeno quella proposta dagli scritti neotestamentari] è invece l’attesa di una realtà certa che immancabilmente si verifica data una premessa. La premessa che rende certa l’attuazione di ciò che è sperato è contenuta nell’espressione seguente: «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori». Paolo prima ha detto che la speranza non rimane delusa, non arrossisce, di quel rossore tipico di chi promette senza potere mantenere. Non arrossisce, cioè non viene smentita. Fermiamo la nostra attenzione su questa realtà dell’amore di Dio, ma essendo che l’amore di Dio fonda la speranza esso è frutto della giustificazione mediante la fede. La prima cosa è stabilire i senso del genitivo «di Dio» se cioè è: genitivo soggettivo, o genitivo oggettivo.


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Martedì 10 maggio 2005, ore 10,30 / 12,15 È chiaro che il senso di questo testo sia soggettivo. Alla fine del capitolo 8, Paolo parlerà del nostro amore verso Dio quando dirà che per quelli che amano Dio tutto concorre al bene. Nel nostro testo, invece, il senso soggettivo si percepisce da due cose. Anzitutto dall’indole stessa della frase, scrivendo che «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo», Paolo indica che l’uomo non è soggetto di azione, bensì il destinatario di una azione. Questa azione, mediata dallo Spirito Santo raggiunge l’uomo nell’intimo del suo cuore. Il senso soggettivo si deduce anche da quello che Paolo dirà poi dopo quando scriverà che Dio comprova e manifesta il suo amore verso di noi (Dio chiaramente soggetto), nel fatto che essendo noi peccatori, Cristo per noi è morto. Confronteremo più avanti questo secondo passaggio che stabilisce un parallelismo con quello che stiamo considerando. Possiamo dire per ora che sia in 5,5, come in 5,8, il soggetto è uno solo, lo stesso: l’amore di Dio o il Dio che ama, ma con due diversi mediatori: in 5,5 il mediatore è lo Spirito Santo, in 5,8 il mediatore è Cristo. Nell’espressione «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori» bisogna considerare due elementi: il verbo che indica effusione e il luogo dove avviene l’effusione: il cuore umano. Il verbo effondere (

) è un verbo ripreso dalla letteratura

profetica dove si annunzia che Dio effonderà il Suo Spirito, posiamo citare due testi: Zaccaria 12,10: «effonderò il mio spirito di grazia e supplica e guarderanno a me come a colui che hanno trafitto», e possiamo citare Gioele 3,1 ripreso da Luca in Atti 2,17-21: «effonderò il mio spirito su ogni carne e profeteranno i vostri figli e le vostre figlie». Soltanto che Paolo fa un cambiamento: l’oggetto che viene effuso non è lo Spirito Santo, bensì un’altra realtà di cui lo Spirito Santo è mediatore. Ciò che è


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effuso secondo Paolo è lo stesso amore di Dio, oppure è Dio che ama e in quanto ama. È importante l’espressione «

$

'

» (nei nostri

cuori). Non si fa molta fatica nel riconoscere in essa l’influsso di Geremia, e perciò la spiegheremo a partire da Geremia, in 31,33 Geremia ha scritto: «pongo la mia legge nel loro intimo e sul loro cuore la scriverò». Più avanti il profeta scriverà in 32, 40: «pongo il mio timore nei loro cuori e da me non si allontaneranno». I due testi di Geremia 31,33 e 32,40 si richiamano e si completano. In 31,31 il profeta parla di nuova alleanza, il 32,40 parla di alleanza eterna, in 31,33 parla di legge scritta nei cuori, in 32,40 parla di timore posto nel cuore. Timore nel linguaggio biblico non è sinonimo di paura ma indica un atteggiamento di profonda adesione che quasi confina con l’amore. Secondo il linguaggio neotestamentario Paolo parla di agape, ma alla luce di Geremia possiamo dire che proprio l’agape è la legge della nuova alleanza scritta nei cuori. Qui Paolo và ancora oltre: in Galati 4,4 scriverà che «Dio ha mandato lo Spirito del Figlio nei nostri cuori nel quale noi gridiamo Abbà o Padre». Nel capitolo 8 della stessa lettera ai Romani, a riguardo dello Spirito, Paolo scrive: «quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono dei figli di Dio» e poi continua «non avete ricevuto uno spirito di servitù sì da ricadere di nuovo nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito di figliolanza divina, nel quale gridiamo Abbà o Padre», e perciò lo Spirito guida dall’interno i figli di Dio e li induce a guardare a Dio chiamandolo col titolo «Abbà o Padre». Sia Romani 8, sia Galati 4, si muovono nella prospettiva di Ezechiele, il quale, messo assieme a Geremia darebbe il contenuto di quella legge scritta nel cuore che Geremia annunzia, ma non definisce. Alla luce di Ezechiele la legge nuova scritta nel cuore sarebbe lo Spirito che guida dall’interno i figli di Dio. Ma in Romani 5,5 Paolo và ancora oltre, e questo ci sembra uno dei punti più alti della teologia paolina, non è nemmeno lo Spirito la legge, ma lo Spirito è mediatore di una legge. La vera


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legge è lo stesso amore di Dio che scende nel cuore umano e di conseguenza si presenta come comando che induce l’uomo a sua volta ad obbedire amando. Possiamo perciò concludere dicendo che la vera legge del cristiano, quella che è effusa nel suo cuore è il Dio che ama e che di conseguenza comanda all’uomo di amare. Paolo non tira una conseguenza che invece troviamo tirata nella letteratura giovannea. Nel quarto vangelo l’evento è l’amore di Cristo che indice gli uomini ad amare, in Gv 13,34, Gesù dichiara: «vi do un comandamento nuovo che perseveriate nell’amore vicendevole come io, voi amai», dove il vero comandamento non è quello dell’amore vicendevole, bensì l’evento dell’amore di Gesù. Il fatto che Gesù ama, questo costituisce per i discepoli un comando a perseverare nell’amore vicendevole. Analoga, ma pur diversa prospettiva, troviamo nella prima lettera dove il fatto che Dio ha amato, è il fondamento dell’amore vicendevole: «se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci». Paolo direttamente non tira questa conseguenza, ma non la ignora: nel capitolo 14, infatti, dirà che «non si ha altro debito se non quello di amarsi a vicenda», ma nel capitolo 5, la preoccupazione di Paolo non è quella di presentare l’amore di Dio come fondamento dell’amore vicendevole, ma di mostrare che l’amore di Dio è la nuova legge del cristiano che sostituisce i comandamenti ed è scritta non più su tavole di pietra, bensì nello stesso cuore umano. Emerge un problema: che cos’è l’amore di Dio? Come esso si manifesta? A questa domanda sembra rispondere Paolo nel seguente verso 8 a cui già in parte abbiamo alluso. Nel verso 6 Paolo infatti introduce la persona di Gesù, scrive: «essendo noi ancora peccatori, Cristo al momento opportuno morì per gli empi», nel verso 7 Paolo fa una riflessione e dice che a stento qualcuno potrebbe morire per una persona giusta, nell’ipotesi aggiungiamo noi, che ci possa essere una persona giusta. Ma nel verso 8 Paolo dà la sua risposta, proprio confrontandola con questo principio generale che qualcuno a stento possa morire per una persona


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buona, nel verso 8 tutto il problema è contenuto in un verbo particolare: il verbo «

», che le versioni italiane traducono «dimostra». Se-

condo queste versioni Dio dimostrerebbe il suo amore per noi nel fatto che essendo noi peccatori, Cristo per noi è morto. Il verbo «

»,

nella lingua greca può anche significare “dimostrare”, ma è un verbo composto da «

» più la particella «

». Il verbo «

» abi-

tualmente tradotto con «dimostrare» ha un significato più profondo. Dicevamo che esso è un verbo composto da « fica «porre», la particella «

» in senso attivo signi-

» significa compagnia, tutto il verbo in-

sieme significa «porre insieme», noi possiamo dire: porre un evento insieme ad un altro. L’evento è che essendo noi peccatori, Cristo per noi è morto. In questo evento contrasta il fatto della morte di Cristo con la situazione dell’uomo peccatore. Anche qui possiamo stabilire un confronto con la prospettiva giovannea. In Giovanni, la morte di Gesù, senza alcun confronto con l’uomo peccatore è manifestazione dell’amore di Cristo. Il contrasto che Paolo stabilisce tra l’evento di Gesù e la situazione dell’uomo peccatore, suggerisce di attribuire al verbo da «

»

due aspetti: quello etimologico anzitutto, cioè manifestare, istaurare l’amore di Dio, e anche quello di dimostrare. La morte di Cristo perciò non è soltanto una dimostrazione dell’amore di Dio, ma anche un istaurarlo, un immetterlo nella storia. La morte di Cristo, perciò, prende presente ed attua l’amore di Dio. Mettendo insieme i due aspetti: quello del verso 5 e quello del verso 8, possiamo dire che l’amore di Dio ha due mediatori: Cristo e lo Spirito Santo, ma con funzione diversa: l’opera di Gesù è quella di manifestare e di mostrare l’amore di Dio nella storia umana: l’aoristo «

» dal verbo «

=

+

» ci rimanda ad un even-

to storico, già in sé stesso delimitato e concluso. L’opera dello Spirito Santo, riferita «ai nostri cuori», è quella di esistenzializzare l’amore di Dio, cioè renderlo contemporaneo all’esistenza di ciascuna persona.


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Perciò detto in parole povere quell’amore di Dio, che in Cristo, una volta per sempre, nella sua morte si è manifestato, attraverso lo Spirito Santo, raggiunge l’esistenza di ogni uomo. Ma è possibile andare più a fondo: l’amore di Dio che lo Spirito Santo porta nel cuore non è astratto, ma è precisamente quello che si è manifestato in Cristo, e perciò non è un amore di Dio senza Cristo. Qui Paolo è un pochino avaro nei legami letterari e perciò siamo noi a crearli. Nella duplice relazione allo Spirito Santo ed a Cristo non possiamo prescindere da due capitoli della lettera ai Romani: il capitolo 8 dove l’attenzione è centrata sullo Spirito Santo e nel capitolo 6 dove Paolo parla del coinvolgimento nel mistero di Gesù. Come dicevo non sono chiari i legami in Paolo, però riteniamo di poter leggere i capitoli 8 e 6 alla luce dei testi citati del capitolo 5. Al capitolo 6 Paolo propone come liberazione dalla morte il coinvolgimento in una morte, scrive infatti nel verso 5: «quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù nella sua morte siamo stati battezzati» osserviamo questa espressione dal punto di vista strutturale abbiamo quattro elementi strutturati secondo uno schema concentrico: 1. quando siamo stati battezzati 2. in ( ) Cristo Gesù 3. nella ( ) sua morte 4. siamo stati battezzati Il primo e quarto elemento sono uguali, evocano l’evento concreto storico battesimale, anche se Paolo non ha presente il rito come lo sviluppiamo noi oggi (per infusione), ma quello antico per immersione, d’altra parte il verbo «,

» alla lettera significherebbe “fare un ba-

gno”. Il NT però distingue tra i due verbi «,

» e «,

», riservan-

do il primo ad un qualsiasi bagno, anche profano e riservando il secondo o alla attività di Giovanni (il Battista), o agli usi cristiani. Ma è importante la duplice particella «

» che caratterizza i due complementi interme-


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di. Questa particella indica, moto a luogo e fine o scopo. Essere battezzati in Cristo significa: avere ricevuto un lavacro che orienta e finalizza a Cristo. Il battezzato è così orientato, finalizzato, diremmo consacrato a Cristo. Ma la finalizzazione a Cristo è ancora troppo generica, per questo »10 (verso la sua morte) in-

il complemento seguente «

troduce una specificazione: l’orientamento a Cristo si attua in un orientamento e un finalizzazione verso la sua morte. Il battezzato è chiamato a fare sua la morte di Cristo. Subito dopo Paolo continua «siamo stati consepolti a lui per mezzo del battesimo verso la sua morte». Notiamo il verbo « dal verbo composto «

» questo verbo è aoristo passivo, » [

seppellire (con-sepolti). La particella «

+

] che appunto vuol dire -» esprime condivisione. Que-

sto verbo è seguito da tre complementi: 1-« »; 2 - «per mezzo del battesimo»; 3 - «verso la sua morte». È importante il verbo composto seguito dal dativo « tivo «

». Il da-

» è pure un dativo di orientamento e di finalizzazione. Il cri-

stiano nel battesimo ha condiviso l’evento della sepoltura di Gesù: potremmo tradurre l’espressione: «siamo stati consepolti» (coinvolgimento a lui e finalizzazione) ciò è avvenuto mediante l’evento battesimale che per la stessa sua forma esterna evoca il fatto di una sepoltura. Infatti il cristiano battezzando scendeva e si immergeva nell’acqua battesimale, quella immersione sacramentalmente evocava, ma anche realizzava il coinvolgimento nella sepoltura di Gesù. Il terzo complemento Paolo lo ha già detto «verso la sua morte», complemento di fine o di orientamento ( 10

- moto a luogo). Per il cristiano però si verifica un mutamento rispetCfr. Rom 6,5.


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to al mistero di Cristo: Cristo prima morì e poi fu sepolto, il cristiano vive sacramentalmente il coinvolgimento nella sepoltura e da quel coinvolgimento scatta il suo orientamento verso la morte di Gesù. Ma anche questa morte, essendo partecipazione alla morte di Cristo, apre alla resurrezione. E infatti Paolo nel verso 4b stabilisce un confronto: «perché come [lui] è risorto da morte [come] Cristo, così anche noi possiamo camminare in novità di vita». Questa frase stabilisce un parallelo tra la resurrezione di Gesù e il camminare in novità di vita: è importante notare che Paolo lo scrive che come Cristo è risorto anche noi risorgiamo. Detto in soldoni, Paolo dà l’impressione che la novità di vita consista proprio nella condivisione esistenziale della morte di Gesù. A noi però interessava relazionare questo aspetto che poi è la dimensione mistica del cristiano, si ricollega all’evento dell’amore di Dio. Dal momento che l’amore di Dio si è manifestato nell’evento di Gesù, l’amore di Dio si raggiunge quando si coinvolge nel mistero di Gesù, per cui la grande legge del cristiano non è l’amore di Dio astratto, ma è la concreta persona di Gesù che col suo mistero manifesta l’amore di Dio e l’amore di Dio è iscritto nel cuore umano, quando Cristo mediante lo Spirito Santo è iscritto e il coinvolgimento di lui costituisce la grande legge cristiana.


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Sabato 14 maggio 2005, ore 10,30 / 12,15

I VERSI 35 E 39 DEL CAPITOLO 8 1 - Chi ci separerà dall’amore di Cristo 2 - tribolazione, travaglio, persecuzione, fame, nudità, pericolo spada 3 - come sta scritto a causa tua siamo messi a morte ogni giorno, siamo stati ritenuti come pecore da macello 4 - ma in tutte queste cose siamo super-vincitori per mezzo di colui che ci ha amati 5 - sono convinto che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né future, né potenze, né altezza, né profondità né qualsiasi altra creatura 6 - ci separerà dall’amore di Dio, quello in Cristo Gesù, Signore nostro. Prima di scendere in qualche dettaglio, ricordiamo che questo testo, insieme a 5,5 costituiscono una inclusione alla seconda sezione della prima parte della lettera ai Romani. Scendendo in maniera più dettagliata, Paolo pone il problema se qualcosa potrà separare dall’amore di Cristo. Per amore di Cristo ancora qui si intende l’aspetto soggettivo: non noi che amiamo Cristo, ma l’amore di Cristo per noi. È evidente che il problema non è da parte di Cristo ma da parte degli uomini, perché la lista, almeno la seconda, è una lista negativa di tribolazioni e queste possono costituire una facile tentazione per l’uomo ad apostatare. L’amore di Cristo è inimitabile, ma l’uomo sotto l’influsso delle tribolazioni è tentato di rifiutarlo. Nella lista negativa Paolo proietta un po’ la sua esperienza, nel capitolo 11 della seconda lettera ai Corinzi Paolo elenca tutte le tribolazioni che lui ha sostenuto. Dal verso 24 in poi elenca di avere ricevuto dai giudei i 40 colpi meno uno (cioè la flagellazione), di essere stato battuto con verghe, di avere subito la lapidazione, ed ancora altri pericoli di viaggio, di fiumi, di briganti, tutte cose che descrive nei versi 24-33. Alla luce della sua esperienza può concludere che tutte quelle cose non sono riuscite a separare dall’amore di Cristo, ma nelle frasi centrali dà il senso


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di quelle realtà. Cita il salmo 39 «per te ogni giorno [cioè a causa tua] siamo messi a morte, stimati come pecore da macello». La citazione è del salmo 39, ma chi legge questa frase non può non pensare al quarto canto del servo, stimato anche lui pecora da macello. C’è l’espressione «a causa tua», questa espressione nel salmo ha un significato, qui invece nel contesto della tradizione neotestamentaria non può non richiamare la tradizione evangelica. Leggiamo nei vangeli sinottici «chi perde la sua vita a causa mia la trova». Qual è allora il senso di questa citazione? Paolo subito dopo aggiunge che in tutte queste cose siamo «super-vincitori a causa di Colui che ha amato». E così colui che ha amato opera un cambiamento: trasforma realtà che potrebbero separare in condivisione della morte di Gesù. Di conseguenza il salmo 39 rilegge tutte le tribolazioni che così diventano strada verso una massima vittoria che richiama il mistero della resurrezione. In altre parole Colui che ha amato trasforma le realtà che possono separare in strumenti di condivisione della resurrezione di Gesù. Nei capitoli 5-8 della lettera ai Romani possiamo scorgere uno schema concentrico nei seguenti punti: 1) 5,1-11 - Amore di Dio manifestato mediante lo Spirito Santo 2) 5,12-21 - L’obbedienza come superamento del peccato 3) 6 - Il coinvolgimento nel mistero di Gesù mediante il battesimo come superamento della morte 4) 7 - La liberazione dalla legge 5) 8 - L’opera dello Spirito Santo e conclusione, l’amore di Dio dal quale nulla può separare. Questo schema rivela quale sia il punto centrale del pensiero paolino. Nello sfondo c’è l’amore di Dio mediato dallo Spirito Santo. Al centro c’è il coinvolgimento del cristiano nel mistero di Gesù. Il testo di 5,12-21 (2) si contrappone al capitolo 7 (4) ed è contrapposta la legge che conduce al peccato e l’obbedienza di Gesù che conduce alla giustificazione. Possiamo notare il progresso cristologico di 5,12-21 fino al capito-


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lo 6. In 5,12-21 è l’obbedienza di Gesù, nel capitolo 6 è menzionata la sua morte come ambito dove il cristiano si immerge. Possiamo allora stabilire due linee che mettono al centro il capitolo 6: l’amore di Dio effuso nei nostri cuori porta attraverso la strada dell’obbedienza al coinvolgimento nel mistero di Cristo. A sua volta risalendo dal capitolo 8, l’amore di Dio si manifesta attraverso lo Spirito Santo e conduce al centro, al coinvolgimento nel mistero di Cristo. Tutta questa è la legge nuova che viene promulgata riproponendo in sintesi le due sezioni della prima parte della lettera ai Romani 1-4 e 5-8, lo schema è quello della nuova alleanza annunziata da Geremia. Qui potremmo forse andare un po’ più a fondo, anche se nella lettera ai Romani, quello che diremo non appare così chiaro come nella prima lettera di Giovanni: se prendiamo la prima lettera essa poggia su due temi fondamentali: la remissione dei peccati ed il comandamento della agape. Diversi indizi rivelano che nella prima lettera di Giovanni alla base ci sta l’oracolo di Geremia, ma ci sta anche l’oracolo mediato dalla formula della istituzione del calice. La formula della istituzione parla infatti del sangue della nuova alleanza effuso per la remissione dei peccati. L’autore della prima lettera, in sintonia con la tradizione giovannea, non parla della nuova alleanza, bensì del nuovo comandamento, cioè il comandamento che scaturisce dalla nuova alleanza di cui il mediatore è Gesù. Se leggiamo bene la prima lettera essa poggia così e diremmo anche nasce dalla formula della istituzione. L’autore della prima lettera (che non è Giovanni del quarto Vangelo), pur riprendendo alcune tematiche dal quarto vangelo costruisce il suo scritto su quella formula. Ciò spiega perché quando si parla del sangue di Gesù usa un verbo all’indicativo presente: non si tratta infatti di un sangue storicamente passato, come quello del Golgota, bensì del sangue perennemente presente nella Chiesa. Qualcosa del genere si trova anche nella lettera agli efesini, la quale letta con attenzione nel capitolo primo, rivela tracce di una qualche antica anafora liturgica e capiamo perché Paolo in Efesini


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scriva: «nel quale abbiamo la remissione dei peccati mediante il suo sangue», e probabilmente liturgico deve anche essere l’ambito da cui nasce la lettera agli Ebrei, ciò è abbastanza comprensibile: la fede primitiva dovendo parlare di Gesù (vedi sinottici) non parla di un Gesù passato, ma di un perennemente vivo nella Chiesa, e ciò può essere solo nella Eucaristia. Continuando possiamo così concludere: allo stesso modo, benché dai testi non emerge così evidente, possiamo pensare che anche alla base della lettera ai Romani ci sia la formula della istituzione. In ogni caso tutto il pensiero di Romani è il fatto che si è stipulata una nuova alleanza che supera quella sinaitica e perciò non si può restare nella legge sinaitica bensì guardare al mediatore della nuova alleanza che è Cristo. Per questo Paolo incentra tutta la sua attenzione nella fede in Cristo. Esplicitamente però l’apostolo rimanda all’evento battesimale ed è lì che si attua, nella professione di fede, la condizione previa dell’alleanza, cioè la remissione dei peccati (capitoli 1-4) ed è lì che avviene l’attuazione della legge nuova che è lo stesso amore di Dio riversato nei cuori mediante lo Spirito Santo. L’amore di Dio però non è un amore di Dio teorico, bensì quello che storicamente si è mostrato nella storia umana attraverso la morte di Cristo. Di conseguenza la vera legge che viene interiorizzata nel cuore umano è la stessa persona di Gesù, tutto il problema cristiano è il coinvolgimento nel Suo mistero. Il cristiano guidato dallo Spirito Santo si coinvolge nel mistero di Gesù e lì fa esperienza dell’amore di Dio.


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I VERSI 12-17 I versi 12-17 sottolineano il primo aspetto dell’opera dello Spirito Santo: la costituzione a figli di Dio. Scrive Paolo: «dunque fratelli noi siamo debitori non alla carne, sì da vivere secondo la carne [se infatti vivete secondo la carne morirete, se infatti mediante lo Spirito mortificate le opere della carne voi vivrete]». Paolo riferisce all’opera dello spirito la mortificazione delle opere della carne. Ma tale mortificazione è già espressa in altre parti, nella lettera ai Colossesi, dopo avere detto che «se siamo risorti con Cristo dobbiamo cercare le cose di lassù» continua esortando a «mortificare le opere della carne». Qui c’è un principio che è stato assimilato dalla spiritualità cristiana: la mortificazione, però qualche volte staccato dal suo contesto, la mortificazione ha finito per assumere un tono negativo. La mortificazione non è fine a sé stessa, ma è la conseguenza del proprio coinvolgimento del mistero di Cristo ed è finalizzata al mistero di Cristo (non ha senso una mortificazione in quanto tale o fine a sé stessa). Continua Paolo risalendo da argomento in argomento, alla figliolanza divina, «perché mortificare le opere della carne?» perché sono incompatibili con la condizione di figli di Dio, condizione attuata mediante lo Spirito. Per questo Paolo scrive: «quanti infatti sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono dei figli di Dio», più precisamente in questa frase, più che la costituzione, Paolo sta descrivendo la manifestazione: i figli di Dio si manifestano, da una parte nel fatto che mediante lo Spirito mortificano le opere della carne, dall’altra nel fatto che gridiamo «Abbà o Padre». Ma se il cristiano può gridare nello Spirito «Abbà o Padre» vuol dire che il cristiano è reso figlio dallo Spirito Santo. Nella espressione «Abbà o Padre» abbiamo la stessa parola ripetuta in due lingue: greca ed aramaica. Questo bilinguismo si trova ancora nella lettera ai Galati, ma si trova nella preghiera al Getsemani, riferita da Marco. Il termine aramaico «+ » “Abbà” è molto più forte del termine


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«

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» “Pater” greco. Il Pater greco si può intendere anche in senso me-

taforico, ma l’Abbà aramaico è il termine che il figlio naturale dice al Padre. Ciò indica che nella vita cristiana si attua una generazione da Dio, e Paolo tira la conseguenza: «se figli, anche eredi». Questa conseguenza contiene una allusione al salmo 2 dove nel verso 7 è presentata la generazione «Figlio mio tu sei, oggi io ti ho generato» e nel verso 8 l’eredità. In questa generazione il cristiano assume una configurazione analoga a quella di Cristo, e difatti Paolo continua «eredi di Dio e coeredi di Cristo». Ma l’essere coeredi di Cristo implica la condivisione del mistero di Cristo. D’altra parte non avrebbe senso la figliolanza divina se non in conformità a quella di Cristo, continua infatti Paolo: «se con-patiamo [cioè: se patiamo insieme a Cristo] con Lui saremo anche glorificati». Il cristiano divenuto figlio di Dio diventa erede della stessa gloria di Cristo a condizione che condivide con Lui la sua passione. Detto questo Paolo si apre ad una prospettiva futura, e l’apertura è data dalla frase ultima citata «se con-patiamo saremo anche conglorificati». Emerge anche un problema quando la glorificazione, Paolo risponde che la condivisione della passione avviene oggi, mentre la condivisione della gloria avviene nel futuro. Per questo scrive «ritengo che non sono paragonabili ai patimenti della vita presente con la futura gloria che si manifesterà in noi», il rimando è alla parusia. Attendiamo la gloria futura, ma l’attesa non è solo nostra, Paolo stabilisce una strettissima relazione tra l’uomo cristiano e la creazione. Il cristiano attende la manifestazione dei figli di Dio, ma la attende anche la creazione, la quale anch’essa sottomessa allo svuotamento del peccato attende di essere liberata verso la libertà della gloria dei figli di Dio. La manifestazione futura dei figli di Dio determinerà la liberazione della creazione. Paolo qui si apre alla situazione della creazione, rivelando in questo modo, che l’uomo [il cristiano] non è separato e separabile dalla creazione. Scrive infatti che «la creazione con-geme e con-soffre i dolori del parto fino a-


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desso». I dolori del parto sono un immagine largamente usata nella scrittura. Giusto per restare nel NT citiamo tre o quattro testi: Apocalisse 12,3 «la paura grida e spasima nello sforzo di partorire»; Giovanni 16 «la donna quando sta per partorire è nella tristezza perché è giunta la sua ora, ma quando ha partorito dimentica per la gioia che è venuto un uomo»; la stessa sepoltura di Gesù in Atti 2 è presentata come «i dolori del parto». I dolori del parto sono ripresi abbondantemente come immagine nel linguaggio profetico e sono ripresi in più di un senso: dolori atroci (carattere giudiziario), dolori improvvisi (carattere di intervento giudiziario inaspettato), dolori di breve durata (che aprono alla vita), e così lo usa Paolo. Perciò la creazione oggi geme, Paolo afferma la redenzione cosmica, ma questa dipenderà dalla manifestazione dei figli di Dio, ma anche oggi, i figli di Dio debbono attendere perché hanno ricevuto non lo Spirito completo, ma la primizia dello Spirito, cioè un pegno, un anticipo. E quando lo Spirito sarà completamente effuso allora la redenzione sarà piena e si estende anche al corpo (che quindi risorge) e attraverso al corpo, a tutta la creazione. Nei versi 26-27 Paolo affronta un altro aspetto: una delle condizioni del tempo presente di attesa è la preghiera, ma qui ancora la difficoltà «non sappiamo come pregare», lo Spirito interviene in nostro aiuto imprimendo nel nostro cuore gemiti inesprimibili. Cosa siano questi gemiti inesprimibili è difficile dirlo, ma certo possiamo pensare ai profondi aneliti interiori che lo Spirito suscita in noi e mediante i quali Lui prega in noi e con noi.


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Martedì 17 maggio 2005, ore 10,30 / 12,15 La lettera agli Ebrei, chiamata così, non è probabilmente né lettera, né indirizzata agli ebrei, a meno che per ebrei non si intendano anche quelli che vivono nella diaspora. Non è lettera perché manca dello stile epistolare tipico delle lettere paoline. Paolo inizia presentandosi come mittente indicando il destinatario e rivolgendo i saluti. Ebrei incomincia subito entrando in argomento (1,1): «in molti modi e a più riprese Dio avendo parlato ai padri per mezzo dei profeti, in questi giorni che sono gli ultimi, ha parlato a noi mediante il Figlio». Come pure alla fine non ha alcun saluto, a differenza di Paolo che invece indugia nelle sue lettere nei saluti menzionando anche persone singole. La lettera agli ebrei, invece, finisce in maniera solennissima: «il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di una alleanza eterna, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che a lui è gradito per mezzo di Gesù Cristo al quale sia gloria nei secoli dei secoli, Amen». C’è perciò una sintesi dei temi trattati con una dossologia finale seguita dall’Amen. Però nell’attuale testo ci sono i versi 24 e 25 che sono un frettolosissimo saluto: «salutate tutti i vostri capi, salutate tutti i santi, vi salutano quelli dell’Italia. La grazia con tutti voi». questo saluto stride con la solennissima conclusione precedentemente indicata. Concludendo più che lettera, Ebrei sembra essere una predica, un discorso oratorio, da pronunziare oralmente. L’autore non è Paolo, le differenze di stile con le lettere paoline è ben evidente. E inoltre Ebrei contiene un tema che non trova paralleli nell’epistolario paolino, quello del sacerdozio di Gesù. Tuttavia come diremo, Ebrei, trova il suo fondamento nell’epistolario paolino, soprattutto in Romani, Colossesi ed Efesini. Non sappiamo chi è l’autore e tutte le ipotesi fatte sono tutte possibili ma nessuna cogente. Ma sembra che sia un discepolo di Paolo che riprende alcuni suoi temi e in certo senso li e-


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saspera, per esempio nei confronti della legge è ancora più negativo di Romani. Dicevamo un suo discepolo e nulla impedisce di pensare che quel frettolosissimo saluto dei versi 24-25 di indole epistolare possa essere anche di Paolo come un bigliettino con cui lui accompagnò e garantì l’opera quando fu scritta e inviata alle varie chiese. Dicevamo che Ebrei parte dai presupposti paolini: Gesù ha compiuto un sacrificio mediante il quale ha rimesso i peccati e l’offerta di un sacrificio è opera sacerdotale. L’autore descriverà il sacerdozio di Cristo confrontandolo per antitesi col sacerdozio levitico e per somiglianza col sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedeck. Cominciamo dai primi versi 1-4 che costituiscono lo sfondo molto ampio, dove l’autore colloca la sua opera orientando man mano verso i suo punto centrale. Leggiamo in 1,1: «in molti modo ed a più riprese, anticamente, Dio, avendo parlato ai padri mediante i profeti, alla fine, cioè in questi giorni, parlò a noi nel Figlio». In questo testo troviamo un solo soggetto: Dio, che ha compiuto una azione in due parti, parlare, in due epoche, anticamente e in questi giorni. Si distinguono cioè l’epoca antica e l’epoca degli ultimi giorni. Nell’epoca antica, Dio ha parlato: in molti modi ed a più riprese, perciò una parola varia ma progressiva, ed automaticamente frammentaria, si riferisce all’antico testamento. I destinatari erano vari, i mediatori erano i profeti. Nell’ultima epoca i destinatari siamo noi e il mediatore è il Figlio. Confrontiamo le due espressioni: « «

» e

' », entrambe si costruiscono con « » e il dativo, ma ci sono due

differenze. I primi sono una pluralità con l’articolo, il secondo è una persona singola senza articolo. I primi sono una pluralità che trasmette una parole, automaticamente la parola trasmessa da una pluralità è frammentaria. L’articolo indica che i profeti sono persone concrete che hanno ricevuto una vocazione che li ha costituiti profeti: essi erano profeti per vocazione, non per intrinseca costituzione. Viceversa il Figlio è una per-


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sona singola ed è espresso senza articolo: l’assenza dell’articolo indica la qualità e la natura. La nozione di Figlio è una nozione relativa, cioè dice relazione ad un Padre. Ma questa nozione è una qualità accidentale perché una persona può essere Figlio, ma insieme può essere Padre. L’assenza dell’articolo indica qui che non si tratta di figliolanza relativa, bensì di figliolanza assoluta: si tratta di uno la cui intima natura è quella di essere Figlio. Emergono due tratti di superiorità del Figlio: è una persona singola e dice stretta relazione a Dio. Di conseguenza non sarà più mediatore di una parola frammentata, ma di una parola completa e definitiva. Per una parola ulteriore ci vorrebbe un mediatore superiore al Figlio (cosa impossibile). Per profeti non si intendono i profeti nel nostro senso, ma tutto l’AT che assurge a carattere di profezia. L’autore non può parlare di legge perché per lui la legge ha un carattere negativo. Questo punto di partenza è il fatto che Dio ha parlato. Il verbo «

» (parlare) è

un aoristo completivo: Dio nel Figlio ha esaurito la Sua Parola e non ha più niente da dire (come afferma anche Gv). Introdotta la figura del Figlio, l’autore ferma su di Lui la sua attenzione dandoci del Figlio due storie proposte in maniera inversa: 2- che costituì erede di tutte le cose; 1- per mezzo del quale fece anche i secoli; 1- il quale essendo irradiazione della Sua gloria e impronta della Sua sostanza; 2- sostenendo tutte le cose con la potenza della sua Parola; 3- avendo fatto la purificazione dei peccati; 4- sedette alla destra della Grandezza (Grandezza è Dio). Abbiamo due storie, la prima in progresso inverso, la seconda in progresso diretto. Nella prima dalla costituzione ad erede universale, l’autore risale alla causalità del Figlio nella creazione; nella seconda dalla preesistenza del Figlio scendi fino alla glorificazione pasquale. Il numero uno della prima storia si colloca tra il numero uno e il numero due della seconda storia, cioè la causalità nella creazione si col-


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loca tra la preesistenza e il sostegno con la sua Parola potente. Ma stabiliamo una relazione tra il numero due della prima storia: costituì erede, e il numero 4 della seconda: sedette; entrambi ci rimandano alla glorificazione pasquale, alla costituzione ad erede che proviene dal salmo 2,8. nel vero 7 leggiamo: «Figlio mio sei tu, oggi io ti ho generato». Il verso 7 del salmo 2 «nella fede primitiva fu letto alla luce della resurrezione» (Cfr. Atti 13,33). La sessione alla destra di Dio invece rimanda al Salmo 110 «il Signore ha detto al mio Signore, resta seduto alla mia destra mentre io pongo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». La fede primitiva rilesse il salmo riferendolo al primo momento della glorificazione pasquale, quando Dio lo esaltò e lo fece sedere alla sua destra. Rileggendo e mettendo insieme le due storie otteniamo un cammino completo del Figlio che può essere ricostruito nel seguente modo:ù 1 – preesistenza; 2 – causalità nella creazione; 3 – sostegno di tutte le cose con la parola «potente»; 4 – la purificazione dei peccati; 5 – sedette alla destra di Dio; 6 – ereditò tutte le cose. In questo schema emerge un cammino che possiamo definire già in maniera incipiente, un cammino sacerdotale. Esso parte dalla preesistenza, passa attraverso la creazione, passa attraverso la purificazione dei peccati [si allude al sacrificio che purifica], e culmina nel santuario di Dio dove il sacerdote entra e alla cui destra egli siede. Abbiamo riletto questo schema che ancora però è vago alla luce di tutto lo sviluppo seguente. Ma troviamo qui un cammino analogo a quello del Vangelo di Giovanni, dove l’evangelista scrive in 1,1 «in principio era la Parola [preesistenza], e la Parola era verso Dio» come termine cioè di un cammino che la Parola compie partendo dalla preesistenza, passando attra-


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verso la storia, e tornando poi a Dio. Nella lettera agli Ebrei, questo cammino però è già in prospettiva sacerdotale. In 1,4, dopo avere parlato della sessione alla destra di Dio, l’autore prosegue «divenuto superiore agli angeli quanto differente rispetto a loro ereditò un nome». Con questa frase l’autore inizia la prima parte, che và da 1,4 fino a 2,18, dove l’autore man mano scende a descrivere la realtà del Figlio, cioè «il suo nome», cioè la posizione che Egli ha ottenuto. In questa prima parte notiamo due sezioni che possiamo proporre schematicamente nel seguente modo: 1 – 1, 4-14: posizione del Figlio davanti a Dio; 2 – 2,2-4: parte esortativa parenetica 3 – 2,5-18: posizione del Figlio davanti agli uomini. Il Figlio ha una duplice realtà: una davanti a Dio, l’altra davanti agli uomini. Davanti a Dio Egli è Figlio [verso 8], Dio lui stesso [verso 9], Signore [verso 12]. Davanti agli uomini Egli ha un’altra realtà; nel verso 11 del capitolo 2 leggiamo: «colui che santifica e quelli che sono santificati tutti da uno solo, per questo non si vergogna di chiamarli fratelli» (Cfr. Salmo 21 «annunzierò il Tuo nome ai miei fratelli. Ti loderò in mezzo alla assemblea»). Nel verso 14 poi continua «poiché i figli hanno in comune carne e sangue, anche Lui dovette partecipare di essi per svuotare colui [il diavolo] che aveva il potere della morte e liberare coloro che con il timore della morte erano partecipi di schiavitù». Continua nel verso 17: «perciò dovette essere in tutto e per tutto simile ai fratelli per diventare sacerdote misericordioso e degno di fiducia nelle cose che riguardano Dio per espiare i peccati del popolo». Riassumendo, la posizione del Figlio, è quella di essere Figlio, Dio e Signore davanti a Dio, fratello davanti agli uomini. La posizione davanti a Dio, Gesù la ha ottenuta con il mistero pasquale, quando glori-


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ficato divenne Figlio (Salmo 2), Dio, Signore (Salmo 110). La posizione davanti agli uomini di fratello c’è l’ha invece in tutto il cammino dall’incarnazione fino alla passione. Le due caratteristiche di Gesù rispecchiano i due aspetti del suo mistero. Nel mistero dell’incarnazione fino alla morte emerge la posizione di fratello davanti agli uomini, ma poi glorificato ottiene una posizione davanti a Dio. L’autore in questa prima parte ha espresso i due aspetti in maniera inversa. La duplice posizione che Gesù ottiene permette di tirare una conclusione: se Lui fratello tra i fratelli ha ottenuto una posizione davanti a Dio, vuol dire che ha raggiunto Dio, ma se ha raggiunto Dio bisogna concludere che è sacerdote, perché il sacerdote è colui che parte dal mondo umano ed arriva a Dio, e Gesù nel mistero pasquale è giunto a Dio ed ha ottenuto una posizione davanti a Lui. Parte seconda 2,18 – 5,11. In questa seconda parte l’autore progredisce alla luce della deduzione fatta nella parte precedente. E infatti le parole «per diventare sommo sacerdote misericordioso e degno di fiducia» da una parte concludono la sezione precedente e ora aprono la sezione seguente. Se Gesù è diventato sacerdote Egli deve avere due caratteristiche tipicamente sacerdotali: essere misericordioso ed essere degno di fiducia. La caratteristica di essere misericordioso riguarda la sua relazione agli uomini; davanti agli uomini infatti un sacerdote deve essere misericordioso caricandosi dei loro peccati per espiarli. Ma non basta che sia misericordioso ma bisogna che davanti a Dio riscuota fiducia, che sia davanti a Lui degno di fiducia, che compia cioè una azione sacerdotale gradita a Dio altrimenti Dio lo rimanda da dove è venuto. L’autore ha introdotto i due temi nell’ordine sacerdote misericordioso e sacerdote degno di fiducia, ma li svilupperà all’inverso. Prima parlerà del sacerdote degno di fiducia e poi del sacerdote misericordioso. Nello sviluppare questi due aspetti l’autore si muove con il principio della somiglianza. Gesù fu degno di fiducia come Mosè e stabilisce


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in 3,1-6 un confronto molto largo tra Gesù e Mosè. Poi fu misericordioso come lo fu Aronne e stabilisce un confronto di somiglianza tra Gesù ed Aronne. La prerogativa di sacerdote degno di fiducia è poco sviluppata. L’autore non dice perché Gesù è degno di fiducia: dovrebbe anticipare tutto quello che dirà poi nei capitoli seguenti, per questo si limita a dire soltanto che Gesù è degno di fiducia da parte di Dio come lo è stato Mosè. Poi introduce una lunga esortazione fondata sul salmo 94 «oggi se ascoltate la sua voce non indurite il cuore» ed esorta i fedeli a che non ci sia in nessuno un cuore cattivo che lo porti ad allontanarsi dal Dio vivente11. Si capiscono allora le parole di 4,4-16 che segnano il passaggio dalla dimensione di sacerdote degno di fiducia a quella di sacerdote misericordioso. Sabato 21 maggio 2005, ore 08,30 / 09,15 «avendo un sacerdote grande che ha attraversato i cieli, Gesù il Figlio di Dio, teniamo ferma la nostra comprensione». In questi pochi versi l’autore rivolge una esortazione ad accostarsi al trono della grazia. Abbiamo un grande sacerdote che ha attraversato i cieli e perciò bisogna tenere ferma la professione della propria speranza.

11

Abbiamo dimenticato di dire che la lettera agli ebrei è pensata nei minimi particolari, ma non costruita a tavolino, nel senso cioè che non è un discorso creato in maniera astratta, ma è un discorso che parte da una condizione ben precisa della comunità cristiana: la persecuzione, quando la tentazione di defezionare era molto forte. Attraverso quest’opera l’autore vuole esortare a non defezionare, ma la prospettiva è analoga a quella della Apocalisse che nasce appunto per sostenere i cristiani durante la persecuzione per resistere alla tentazione di allontanarsi da Cristo.


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Ci possono essere le debolezze che caratterizzano il cristiano ma esse non possono essere motivo di defezione perché abbiamo un sacerdote capace di comprendere le nostre debolezze12. L’espressione dell’autore «non abbiamo un sacerdote che non possa compatire alle nostre infermità» introduce il nuovo tema del sacerdote misericordioso che l’autore, in maniera dottrinale (non esortativa) svilupperà nei versi 1-11 del capitolo 5. Nel presentare il sacerdote misericordioso, l’autore seguirà il metodo del confronto per somiglianza. Egli parte da un principio molto generale che appartiene alla definizione «universale» del sacerdote. Scrive l’autore: «ogni sacerdote preso dagli uomini è costituito a vantaggio degli uomini nelle cose che riguardano Dio, essendo capace di compatire [cioè di patire insieme] poiché anche lui è stato circondato da infermità». In questo principio generale emergono due aspetti propri di ogni sacerdote: la solidarietà con gli uomini e la deputazione (designazione) per le cose che riguardano Dio. Già in questo principio generale, l’autore si esprime in maniera tale da insinuare il duplice aspetto del mistero di Gesù: solidale con gli uomini, ma costituito nelle cose che riguardano Dio. È un principio generale riguardante la definizione universale del sacerdote, e se Gesù è sacerdote, anche per Lui debbono riferirsi questi due principi. Subito dopo l’autore scende a descrivere altre due caratteristiche del sacerdote universale: la prima è offrire per il popolo [verso 3] «e deve offrire come per il popolo, anche per sé stesso per i peccati», la seconda caratteristica è quella di avere una vocazione, scrive l’autore che «nessuno da sé stesso prende l’onore del sacerdozio, ma chi è chiamato da Dio come Aronne».

12

Questi versi sono di indole parenetico-esortativa però nascondono una prospettiva teologica, cioè la capacità, che ormai si è acquisito, data la presenza di questo sacerdote di accedere a Dio. Questi versi assieme ad altri del capitolo 10 che indicheremo, fondano la teologia del sacerdozio del popolo santo di Dio.


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Offerta del sacrificio e vocazione sono due prerogative del sacerdote che debbono trovarsi anche in Gesù. L’autore applica a Gesù questi due principi: anche Lui ebbe una vocazione ed anche Lui offrì un sacrificio. La vocazione di Gesù è decritta nei versi 5-6, scrive l’autore «così anche Cristo non glorificò sé stesso, sì da divenire sacerdote [ma lo glorificò] Colui che gli disse, Figlio mio sei Tu, io oggi ti ho generato», come altrove dice «tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedeck». Anche Gesù perciò, secondo l’autore ebbe una vocazione. Ma sono importanti le parole precedenti «non glorificò sé stesso, sì da diventare sacerdote». Ma le parole che abbiamo citato indicano che la vocazione sacerdotale di Gesù si attuò nella glorificazione pasquale. L’autore mette insieme il Salmo 2,7 e il Salmo 110,4. I due salmi, nella tradizione primitiva, caratterizzarono la glorificazione pasquale, negli Atti degli apostoli i primi versi del salmo 2 «perché le genti congiurano e i popoli meditano cose vane? Si sono radunati i principi ed i capi sono venuti insieme contro il Signore contro il Suo Cristo», queste parole furono riferite alla congiura contro Gesù. Luca (Cfr. Atti 4) esplicitamente identifica i capi ed i principi con Erode e Pilato, ma il verso 7 fu riferito alla resurrezione. In Atti 13,33 leggiamo «Dio ha resuscitato Gesù come sta scritto [nel salmo 2], Figlio mio sei Tu, oggi ti ho generato». La resurrezione di Gesù fu perciò vista come la nascita di Gesù da Dio, Dio lo ha resuscitato e lo ha dichiarato Suo Figlio, oppure anche avendolo dichiarato Suo Figlio lo ha resuscitato. La menzione del salmo 2 perciò ci riporta alla resurrezione di Gesù. Diverso invece è il caso del salmo 110, anche di questo salmo si servì la fede primitiva per caratterizzare la glorificazione pasquale, ma con una differenza rispetto al salmo 2: il salmo 2 coglie il momento della resurrezione, il salmo 110 coglie invece il momento possiamo dire della Ascensione o della seduta di Gesù alla destra di Dio. Il salmo 100, secondo il testo ebraico suonerebbe così «il Signore ha detto


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al mio signore [cioè al re], rimani seduto alla mia destra mentre io pongo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi», questo salmo quadra bene all’epoca della guerra siro-efraimita. La fede primitiva riprese il salmo modificandolo e considerando non il permanere di Gesù seduto alla destra di Dio, ma il primo momento della intronizzazione. Dio lo fece sedere alla sua destra e lo proclamò «

». La tradizione neotestamentaria

si fermò alla ripresa del verso 1. L’autore della lettera agli ebrei, senza ignorare il verso 1, anzi presupponendolo, riprese il verso 4 «Tu sei sacerdote in eterno», questo verso nell’ambito di un salmo regale suona strano perché identificherebbe il re col sacerdote, ma mai in Israele il re fu sacerdote. D’altra parte se togliamo dal salmo il verso 4, il salmo continua bene dal verso 3 al verso 5. Donde si deduce che il verso 4, che contiene una proclamazione sacerdotale, dovette essere introdotto in un secondo momento anche se è difficilissimo precisare quando, perché e da chi? Ma questi problemi non interessano all’autore neotestamentario che legge il suo testo e riflette sul testo che legge. E in ciò l’autore differisce dalla tradizione primitiva, secondo questa Gesù sedette alla destra di Dio e fu proclamato «Signore», secondo la lettera agli Ebrei, Gesù sedette alla destra di Dio e fu proclamato «sacerdote». Perciò è nella glorificazione pasquale, dalla resurrezione alla sessione alla destra di Dio, Gesù è riconosciuto, definito, proclamato, sacerdote. Ma perché nella glorificazione pasquale?


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La risposta è convenuta nei versi 7-11 che consideriamo un pochino più attentamente ed è utile proporli in maniera strutturata: 1 – «il quale, 2 – nei giorni della sua vita di carne, 3 – preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, 4 – avendo offerto, 5 – ed essendo stato esaudito per la sua buona accoglienza, 6 – imparò dalle cose che patì l’obbedienza, 7 – ed essendo stato reso perfetto, 8 – divenne causa di salvezza eterna per quanti gli obbediscono,

9 – essendo stato proclamato da Dio sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck.»

Il testo è molto lungo e molto denso [Ebrei 5,7], tuttavia si riduce ad uno schema strutturale molto semplice: «il quale […] imparò dalle cose che patì l’obbedienza […] divenne causa di salvezza eterna per quanti gli obbediscono». È importante il verbo [3] avendo offerto, verbo sacrificale con una serie di oggetti di indole esistenziale. L’autore ancora non dice che Gesù offrì sé stesso e non può ancora dirlo, lo dirà nei capitoli 8-10, ma prima deve chiarire un punto fondamentale, che «imparò dalle cose che patì l’obbedienza». Senza di questa non si potrà mai dire che Gesù offrì sé stesso, oppure se si può dire, la sua offerta sarebbe stata una sua libera iniziativa senza alcun valore. Prescindiamo dalle quattro parole «preghiere e suppliche», «con forti grida e lacrime» facilmente riscontrabile nei salmi di supplica (ad esempio salmo 6), e l’autore qui riprende quel linguaggio. Queste preghiere e suppliche che Gesù elevò nei giorni della sua vita di carne, cioè nel tempo della sua vita terrena, furono rivolte a Colui che poteva salvarlo da morte. È importante qui l’espressione «a Colui che poteva salvarlo» perché subito la mente ci corre al Getsemani, dove Gesù dichiara «Padre se è possibile passa da me questo calice», solo però che al Getsemani il linguaggio è quello del salmo 15 e Gesù infatti chiede che se è possibile passi da lui il calice. Nel nostro testo, essere salvato da morte,


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appartiene ancora al linguaggio dei salmi di supplica (esempio salmo 12). Se Gesù offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, cioè se Gesù rivolse una intensissima e drammatica preghiera a Colui che poteva salvarlo da morte si comprende bene quale sia stata la sua richiesta: trovandosi di fronte alla morte chiese di essere salvato da essa. Ciò corrisponde bene al Getsemani dove la preghiera di Gesù fu quella di potere evitare il calice, cioè di andare incontro alla passione. Ma l’autore ha una espressione molto strana e storicamente non vera, scrive «essendo stato esaudito», storicamente non è vero, Gesù chiese che passasse il calice ma il calice non passò e Lui dovette berlo. Eppure l’autore scrive che fu esaudito. Anche il verbo «esaudire» è un verbo che appartiene al linguaggio dei salmi di supplica, anche in questi salmi il salmista ringrazia Dio per averlo esaudito e di averlo liberato appunto dalla morte. Possiamo citare ancora il salmo 6 dove alla fine il salmista scrive «il Signore ascolta la mia preghiera, il Signore accoglie la mia supplica». Ma l’esaudimento di Gesù è su un altro piano. L’autore scrive che fu esaudito a partire dalla sua «buona accoglienza». L’espressione greca è importante, leggiamo «

». La particella «

,

» può avere un valore causale, a

causa di, ma può conservare il suo valore di moto da luogo, a partire da. La parola «

,

» che le versioni italiane traducono con «pietà» forse

è meglio leggerla nella sua etimologia. L’avverbio « -» significa “bene”, «- ,

» deriva dal verbo «

,

» che vuol dire «accogliere». Il

termine significherebbe «buona accoglienza». Perciò Gesù fu esaudito a partire dalla sua buona accoglienza. Leggiamo questo termine ancora alla luce del Getsemani dove ci fu la buona accoglienza da parte di Gesù. Se la sua prima richiesta fu quella che passasse il calice, avendo dal Padre ricevuto risposta che il calice non poteva passare, «accolse» senza riserve la volontà del Padre. Ciò emerge soprattutto dal Vangelo di Matteo, dove Matteo presenta un progresso a riguardo di Gesù, la prima volta dice «Padre se è possibile», la seconda volta dice «Padre se non può passa-


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re», indicando così che tra le due richieste il Padre ha dato la Sua risposta: il calice non può passare, e Gesù si adegua. Arriviamo così alla seconda preghiera di Gesù che è quella che si compia la volontà del Padre, e in questo Gesù fu esaudito: chiese di cogliere la volontà del Padre e compì la volontà del Padre, ma ancora questo non è il vero esaudimento di Gesù, perché quello che Gesù chiese è di essere salvato da morte. E proprio in questo è esaudito: Gesù fu salvato da morte, ma in diversa maniera di come volevano i salmi di supplica. Secondo questi salmi il salmista ringrazia Dio di averlo salvato da morte facendogli eludere la morte, Gesù è salvato da morte non eludendo la morte, bensì superandola. E ciò per la sua buona accoglienza il Padre gli indicò che la strada per superare la morte [per essere salvato da essa] era la strada della obbedienza e Gesù intraprese questa strada. È molto densa l’espressione «imparò dalle cose che patì l’obbedienza», la menzione delle cose che patì chiaramente allude alla passione, ma qui è una prospettiva radicalmente diversa: le passioni che di per sé possono ingenerare il senso della ribellione, per Gesù diventarono scuola di obbedienza. Salvo errore, in questa frase, è compendiato il senso profondo di tutta la passione. Al di là delle narrazioni evangeliche possiamo dire che man mano che progrediva la passione, progrediva anche l’obbedienza di Gesù. Possiamo stabilire un confronto con l’esperienza del popolo del deserto o anche l’esperienza universale umana. Il popolo che uscì con gioia dall’Egitto, andando avanti e sperimentando le difficoltà del deserto bramò tornare indietro e mormorò contro Dio. L’esperienza umana è l’accettazione anche entusiasta all’inizio, ma poi si verifica il progressivo affievolimento di fronte alle difficoltà, per cui alla fine l’obbedienza iniziale arriva molto decurtata. La frase dell’autore rivela che in Gesù è avvenuto esattamente il contrario, il progresso delle passioni portava al progresso della obbedienza per cui il culmine della passione coincide con il culmine della obbedienza. Forse


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anche qui ci aiuta la narrazione evangelica, soprattutto di Matteo. Per i giudei il fatto che Gesù non scende dalla Croce mostra che non è il Figlio di Dio, ma sulla croce Gesù muore e davanti alla morte di Gesù l’evangelista può ambientare la professione di fede del centurione, il quale professa «veramente costui è il Figlio di Dio». Da ciò si deduce che i figli di Dio si manifestano non per la potenza ma per l’obbedienza. Il testo scrive una frase «pur essendo Figlio imparò dalle cose che patì, l’obbedienza», come si intende la frase «pur essendo Figlio?». La particella «

» può intendersi in maniera concessiva pur essendo Figlio. Martedì 24 maggio 2005, ore 10,30 / 12,15 La parola «

,

bene più il termine «- ,

» è parola composta da « -» che vuol dire », dal verbo «

,

» che significa acco-

gliere. L’esaudimento perciò di Gesù avviene a causa della sua buona accoglienza. Questa espressione si comprende meglio se torniamo ai racconti del Getsemani dove ci fu la buona accoglienza da parte di Gesù. La buona accoglienza diventa il fondamento dell’esaudimento. Ma l’esaudimento, come abbiamo notato, riguarda l’adesione alla volontà di Dio e in ciò Gesù fu esaudito e infatti pur essendo Figlio «imparò dalle cose che patì l’obbedienza». L’obbedienza di Gesù non si è verificata perciò soltanto al Getsemani: lì chiese di compiere la volontà di Dio e fu esaudito nel senso che Lui la imparò attraverso tutto il cammino della passione. La passione perciò fu per Lui come una scuola di obbedienza e tale scuola è l’esaudimento della richiesta fatta al Getsemani. C’è una espressione particolare che abitualmente viene tradotta «pur essendo Figlio». In questa traduzione il senso sarebbe: «pur essendo Figlio imparò dalle cose che patì, l’obbedienza». In questa traduzione (che trovate nelle vostre Bibbie) in certo senso si contrappone la figliolanza alla obbedienza. Ma nel testo originale abbiamo una espressione


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«

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», questa espressione non necessariamente significa «pur essen-

do» ma può significare anche «proprio perché [era Figlio]»: nella dimensione del Figlio è contenuto il fondamento dell’obbedienza, ma ancora una volta si richiama la narrazione della Passione. Sappiamo della sfida lanciata a Gesù sotto la croce «se sei il Figlio di Dio scendi dalla Croce». Matteo sottolinea ancora di più l’aspetto della figliolanza. Si chiede perciò che Gesù manifesti la Sua figliolanza di Dio scendendo dalla Croce. Ma se Gesù fosse sceso dalla croce non avrebbe affermato, ma avrebbe smentito di essere il Figlio di Dio proprio perché Egli è sulla Croce a motivo della Sua obbedienza, e il Figlio di Dio si definisce non per la potenza, bensì per l’obbedienza. Gesù mostra di essere il Figlio di Dio proprio nel fatto che dalla Croce non scende e in questa prospettiva si comprende la professione di fede del centurione che alla morte di Gesù professa che «era veramente il Figlio di Dio». Il tutto questo cammino che abbiamo delineato l’autore sottolinea il sacrificio di Gesù. Abbiamo detto che nel testo del capitolo 5, l’autore sta sviluppando per somiglianza, un sacerdote è colui che offre un sacrificio e obbedisce ad una vocazione. Se Gesù è sacerdote queste due prerogative debbono realizzarsi in Lui. La vocazione si realizza e l’autore la vede contenuta nelle due citazioni della scrittura: il salmo 2 dove Gesù è proclamato Figlio di Dio e il salmo 110 dove Gesù è proclamato sacerdote. Entrambe le cose si realizzano nell’evento della resurrezione quando Dio lo riconobbe vero sacerdote e lo chiamò ad entrare nel santuario. Ma Gesù ha anche un sacrificio: nel brano citato però Egli sottolinea non l’aspetto materiale, bensì quello formale che sta alla base del sacrificio materiale, cioè il sacrificio dell’obbedienza.


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Dopo avere descritto questo sacrificio, l’autore passa a descriverne le conseguenze in tre frasi: 1 – essendo stato reso perfetto; 2 – divenne causa di salvezza eterna per quanti gli obbediscono; 3 – essendo stato proclamato da Dio sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck. Abbiamo tre elementi, ma prima di affrontare questi tre aspetti, soprattutto il primo «reso perfetto», notiamo come questi tre aspetti introducono i tre temi della parte seguente che va da 6,1 fino a 10,31 e consideriamo un momento la struttura di questa parte: 1 – 6,1-20: parenesi; 2 – 7,1-28: dottrinale, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck; 3 – 8 e 9: il nuovo sacrificio, la perfezione di Gesù; 4 – 10,1-18: l’efficacia del nuovo sacrificio; 5 – 10, 19,31: parenesi. Tra le due parenesi ci sono tre aspetti, il primo annunziato in 5,10 è sviluppato al centro [capitoli 8 e 9], il secondo di 5,10 è sviluppato al numero 4, il terzo è sviluppato al numero 2. Ci troviamo di fronte ad una parte colossale. Cominciamo con la prima indicazione «reso perfetto»: non si tratta di perfezione morale, bensì di perfezione sacerdotale. Nel testo ebraico, la consacrazione sacerdotale, quella dei leviti, è espressa con la frase «

,#

)& . - / # 01

»13 che vuol dire

«e riempirai la mano di Aronne e dei suoi figli», e infatti il sacerdote è colui le cui mani sono state riempite dell’offerta sacrificale, e con le mani riempite si presenta a Dio per fare la sua offerta. La versione greca tradusse questo verbo con il verbo «

» [

] che significa

«portare a perfezione», cioè portare a compimento l’opera sacerdotale. 13

Cfr. Es 29,9.


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L’autore apre il libro della Bibbia, legge nel libro dell’Esodo la consacrazione sacerdotale, vede che è chiamata perfezione, ma deduce che è un nome non meritato, perchè il sacerdozio levitico non ha perfezione cioè non arriva al compimento dell’opera, quello cioè di presentarsi a Dio e fare la sua offerta. L’autore nota tutto questo e in 7,11 fa un ragionamento, «se c’era perfezione per mezzo del sacerdozio levitico che bisogno c’era che sorgesse un altro sacerdote di diversa indole, non secondo l’ordine di Aronne, bensì secondo l’ordine di Melchisedeck». A questo punto per capire perchè l’autore nega la perfezione al sacerdozio levitico e la afferma in Cristo bisogna andare di nuovo al rito della espiazione, quello già considerato a proposito di Romani 3,21. L’autore dichiara che in Cristo c’è la vera perfezione, in 7,28 infatti concludendo la sua esposizione su Gesù sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck, conclude che la legge costituisce sacerdoti, uomini che hanno infermità. Il giuramento [del salmo 110] che è oltre la legge, costituisce il Figlio che è reso perfetto in eterno. rievochiamo il rito del capitolo 16 del libro del Levitico perché su questo capitolo l’autore stabilisce un confronto tra il sacerdozio levitico e il sacrificio di Cristo. Conosciamo il rituale levitico dell’espiazione, il sacerdote entrava una volta all’anno nel santuario prima con l’incenso, poi col sangue di un vitello per espiare i peccati suoi e della sua famiglia, poi col sangue di un capro espiatorio [da distinguere dal capro emissario mandato vivo] per espiare i peccati del popolo.


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Secondo gli ebrei quel rito era solennissimo, per il nostro autore che legge tutto alla luce di Cristo, quel rito appare zeppo di difetti ed i difetti sono: 1 – nel sacerdote; 2 – nel sangue; 3 – nel luogo; 4 – nel rito stesso. I difetti del sacerdote sono due: 1 – anche lui è peccatore; 2 – è un uomo mortale. Un peccatore ha bisogno che un altro espii per lui. Il vero sacerdote è colui che è senza peccato e che perciò non ha bisogno che si espii per sé stesso, non può espiare per gli altri un peccatore. Il secondo difetto è che il sacerdote è mortale, tra Dio e gli uomini c’è un abisso invalicabile che è la morte: un sacerdote mortale va a sbattere contro la morte. Un sacerdote limitato dalla morte non può raggiungere Dio che è essenzialmente il Dio dei vivi, perciò concludendo il vero sacerdote deve essere una persona che è senza peccato e che non ha nessun rapporto con la morte. Il secondo difetto è quello riguardante il sangue, il sacerdote levitico si presentava e credeva di fare l’espiazione con il sangue di animali, ciò è assurdo in 10,4 l’autore dichiara «è impossibile che il sangue di vitelli e di capri rimettano i peccati», ma in 9,11 l’autore scrive: «Cristo presentatosi sacerdote dei beni futuri […] non con il sangue di capri e di tori, ma con il proprio sangue entrò nel santuario, avendo ottenuto una redenzione eterna». Il terzo limite è il luogo, il santuario. Il santuario è fatto da mani umane, deve essere invece un santuario fatto non da mani umane perché Dio non abita in un luogo materiale. L’AT non la pensava così, basti cita-


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re il capitolo 8 del primo libro dei Re dove Salomone consacra il tempio. Il NT, invece, esclude che Dio abiti in simile tempio, anzi è giunta l’epoca che sia abbattuto il tempio materiale. L’autore pensa alla narrazione della passione, dove, nel contesto del processo davanti al sinedrio, Gesù esorta a distruggere questo tempio e costruirne un altro in tre giorni, fatto non da mani umane. Dio abita in cielo e chi può raggiungere Dio. Il sacerdote levitico entrando nel santuario crede di andare a Dio, ma a Dio difatti non ci và. In contrapposizione in 9,24 l’autore scrive: «non in un santuario fatto da mani umane è entrato Cristo, ma nello stesso cielo per apparire davanti a Dio per noi». Ma come si fa a raggiungere il cielo? Ma molti difetti si trovano nel rito stesso. Il primo difetto è il cammino del sacerdote: egli entra nel santuario, fa l’espiazione, poi esce e si lava. Ciò è assurdo, il fatto che esce rivela che a Dio non è andato, perché chi giunge a Dio da Lui non torna. Cristo infatti non è tornato, ma giunto a Dio lo ha fatto sedere alla Sua destra. Il secondo difetto consiste nella ripetizione annuale: rito rarissimo per gli ebrei, rito ripetuto fino alla nausea per il NT. Se un rito di espiazione ha veramente espiato i peccati, ottiene una volta per sempre lo loro remissione e perciò il sacrificio di espiazione semplicemente non si ripete, come del resto non si è ripetuto quello di Cristo. Il terzo difetto è la solitudine del sacerdote e la chiusura del santuario. Il levitico prescrive che quando il sacerdote compie il sacrificio non ci deve essere nessuno. Egli entra da solo nel santuario, poi fatta l’espiazione, il santuario si chiude per riaprirsi l’anno seguente, per ripetere il rito con le stesse proibizioni. Tutto ciò è assurdo perché il sacerdote deve mediare l’accesso del popolo a Dio. Se il popolo, dopo il rito della espiazione, a Dio non è andato, il sacerdote non ha aperto la strada e il popolo non ha avuto accesso al santuario. A riguardo l’autore in 9,8 commenta: «lo Spirito Santo nei riti antichi voleva mostrare che non c’era ancora la strada verso il santuario». Ma il rito che si compiva era solo una descrizione secondo la quale si offrono sacrifici che non posso-


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no portare a perfezione chi li compie. Tutto ciò rivela l’inefficacia del sacerdozio levitico. Il sacerdozio levitico era una pluralità, prima c’era il padre, poi alla sua morte c’era il figlio, e si susseguivano a compiere un rito che si rivelava inutile tentativo. Ma la Scrittura aveva preannunziato un altro sacerdote: il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck, di cui l’autore parla in lungo ed in largo nel capitolo 7. Ma chi è questo sacerdote? L’autore si pone la domanda a partire dal salmo 110 e risale ad altri testi dove si parla di Melchisedeck. Ma di Melchisedeck, oltre il salmo 110, in tutta la Bibbia se ne parla una sola volta in Genesi 14,17-20. Ed allora l’autore istituisce nel capitolo 7 un commento alla figura di Melchisedeck: prima commenta dal verso 1 al verso 10 il testo di Genesi, poi dal verso 11 alla fine rifletterà sul salmo 110. Il testo genesiaco descrive l’incontro tra Abramo ed un certo Melchisedeck presentato come sacerdote. Abramo tornava dalla strage dei re, e Melchisedeck gli andò incontro ed offrì pane e vino, e spiega il testo che era sacerdote del Dio Altissimo, ma il testo genesiaco deve essere sottoposto ad una piccola critica: la frase «sacerdote del Dio Altissimo» sembra una aggiunta posteriore che vuole interpretare l’azione di Melchisedeck di offrire pane e vino. Ma l’azione di offrire pane e vino è fatta agli uomini [di Abramo], in seguito fu interpretata come azione sacrificale. La figura di Melchisedeck è molto enigmatica, è inserita nel capitolo 14 di Genesi in maniera anche pesante: se si toglie questo brano, il verso 16 di Genesi continua bene nel verso 21. Forse la figura di Melchisedeck richiama una antichissima tradizione legata a Salim [Gerusalemme] che circolava isolata e fu messa in Genesi. L’autore riflette su quella figura, non c’è dubbio che sia sacerdote perché già la parola “sacerdote” compare nella sua Bibbia [la versione greca dei LXX], però di quella descrizione non prende tutti gli elementi, non prende cioè per esempio il pane ed il vino, ma riprende alcuni elementi positivi ed altri che noi diciamo dal silenzio. Cioè fa una esegesi del testo non solo su


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quello che dice, ma riflette su quello che non dice. Dal testo riprende il nome e la sua prerogativa: «re di Salim», e nota che il suo nome e la sua prerogativa rimandano a due prerogative messianiche: «Melchisedeck» che vuol dire “Giusitizia” + “pace” che sono due beni messianici [Cfr. Salmo 84: «giustizia e pace si baciano»]. Dopo avere commentato il nome e la prerogativa, nota due azioni, una che Melchisedeck fa, una che riceve da Abramo. L’azione che fa è quella di benedire Abramo, l’azione che riceve è il fatto che Abramo gli paga le decime. Queste due azioni le commenterà nei versi 4-10, prima però fa un’altra osservazione a partire dal silenzio del testo. L’autore legge Genesi e si pone una domanda: da dove spunta Melchisedeck? Chi è suo padre, sua madre e la sua genealogia? Eppure per un sacerdote la genealogia era fondamentale [nel Levitico]. Si diventava sacerdoti in forza della genealogia aronitica, se questa mancava non si aveva diritto di accedere al sacerdozio: era essenziale provare la discendenza aronitica. Dopo l’esilio, al ritorno, diversi sacerdoti non poterono provare la loro genealogia e furono radiati. Melchisedeck è sacerdote ma non ha niente di queste cose. L’autore riflette su tutto ciò e scrive: «senza padre, senza madre, senza genealogia, assimilato al Figlio di Dio rimane sacerdote in eterno». Possiamo qui notare una inversione di prospettiva, non sta dicendo: il Figlio di Dio che somiglia a Melchisedeck, bensì al contrario: Melchisedeck che somiglia al Figlio di Dio. Perciò Melchisedeck senza padre, senza madre e senza genealogia diventa «typoi» del Figlio di Dio che rimane sacerdote in eterno. Ma quando il Figlio di Dio si può dire senza padre, quando senza madre, quando senza genealogia? Il Figlio di Dio è senza padre nella creazione [ha una madre], è senza madre nella glorificazione pasquale. Nella nascita pasquale il Figlio di Dio non ha genealogia, Melchisedeck perciò diventa immagine del Figlio di Dio risorto.


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Sabato 28 maggio 2005, ore 08,30 / 10,15 Nella presentazione del sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck, l’autore non segue una prospettiva storica, cioè non si fonda sulla storia per descrivere la figura di Melchisedeck, figura fra l’altro storicamente molto oscura, ma segue la descrizione letteraria del salmo 11. Questo salmo conteneva una proclamazione: «Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedeck», simile proclamazione suona molto strana agli occhi dell’autore, perché giaceva un sacerdozio levitico secondo l’ordine di Aronne. Emerge la domanda: perché un sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedeck? Nella sua riflessione l’autore è guidato dalla riflessione neotestamentaria, la quale riferiva il salmo 110 alla glorificazione di Gesù, ma riferiva il verso 1: «siedi alla mia destra […]» e perciò del Cristo glorificato si dice che è sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck. Emerge la domanda: chi era Melchisedeck? Di lui la Scrittura parla due sole volte: in Genesi 14,17-20 e poi nel Salmo 110. L’autore allora nel capitolo 7 istituisce una riflessione su questi due testi per capire in che senso Gesù è sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck. Su questi due testi fa due tipi di esegesi che non sono propriamente i nostri. L’autore commenta sia quello che il testo dice, sia quello che non dice. Genesi dice due cose: anzitutto che si chiamava Melchisedeck e che era re di Salim. Melchisedeck vuol dire re di giustizia, Salim è pace. Già Melchisedeck rimanda nelle sue prerogative personali ad una dimensione messianica. Poi fa una esegesi che chiamiamo «dal silenzio», il testo dice che era sacerdote, ma manca un elemento che era essenzialissimo nel sacerdozio levitico: la discendenza genealogica, nessuno infatti poteva essere sacerdote se non provava la propria discendenza aronitica. Allora l’autore riflette: «è senza padre, senza madre, senza genealogia, non ha ne inizio di giorni, ne fine di vita e somiglia al Figlio di Dio, sacerdote in eterno». Senza padre si può dire della incarnazione, senza madre si può


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dire nella glorificazione pasquale ed è uno che affonda le radici nella Sua eternità e davanti a sé non ha fine di vita. Melchisedeck rimane così immagine del Figlio di Dio che è sacerdote in eterno. La scrittura perciò offriva una immagine del vero sacerdote e questa è il fatto che vive in eterno. L’autore poi considera le azioni fatte da Melchisedeck e da Abramo,

il testo ne dà tre, ma una delle tre non la prende, cioè non prende “l’offerta di pane e vino”. Le azioni che riprende sono due: una compiuta da Melchisedeck ed una compiuta da Abramo. Melchisedeck benedì Abramo, e l’autore nel verso 7 afferma: «senza nessuna contraddizione è sempre l’inferiore che è benedetto dal superiore», se Melchisedeck benedì Abramo, conclude l’autore, vuol dire che Abramo è inferiore. Abramo compie una azione: dare le decime a Melchisedeck, le tribù di Israele dovevano dare la decima parte dei loro beni ai discendenti di Levi, sacerdoti e Leviti. Stavolta però è Abramo che paga la decima a Melchisedeck. Abramo è padre di Levi e perciò in Abramo fu Levi ad essere benedetto [il capostipite del sacerdozio] e fu Levi a dar la decima. Da questi due fatti l’autore deduce la netta superiorità del sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedeck rispetto al sacerdozio levitico. Ma se la scrittura annunzia un sacerdozio diverso da quello aronitico vuol dire che il sacerdozio aronitico è destinato a scomparire. In 7,11 l’autore introduce una sua riflessione, scrive: «se vi era perfezione per mezzo del sacerdozio levitico che bisogno c’era che sorgesse un altro sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck?». Abbiamo già spiegato il senso di questa perfezione, non si tratta di perfezione morale, bensì di perfezione sacerdotale, cioè l’opera sacerdotale che arriva al suo compimento. Il sacerdozio levitico non arrivava al compimento perché il sacerdote era al di qua della morte, non andava a Dio, ma solo entrava nel santuario materiale, faceva una offerta che in nessun modo poteva espiare i peccati ed il popolo non andava a Dio perché il santuario restava chiuso. Perciò è un sacerdozio destinato a passare. Il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck,


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quale è annunziato dal salmo 110 ha due caratteristiche, il salmo 110 scrive: «il Signore ha giurato e non si pente, Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedeck». Questa frase dice due cose: anzitutto è un sacerdozio che non passa, che non dà spazio ad altri eventuali sacerdozi, ciò significa che è definitivo e se è definitivo non è limitato dalla morte. La seconda cosa è il giuramento: Dio ha conferito un sacerdozio con giuramento, un giuramento del tutto stabile che esclude un possibile ripensamento da parte di Dio. Se leggiamo la scrittura, il sacerdozio aronitico fu conferito con solennità e sontuosità di riti, ma mai si dice che Dio abbia conferito il sacerdozio ad Aronne con giuramento e perciò Dio rivela la Sua intenzione di non lasciare in eterno il sacerdozio aronitico. L’autore nel verso 23 conclude: «ci sono stati molti sacerdoti [allusione alla molteplicità del sacerdozio levitico da padre in figlio]», e la molteplicità dipendeva dal fatto che un sacerdozio non poteva durare a motivo della morte. In contrapposizione a questi sacerdoti, l’autore scrive: «Costui14 per il fatto che rimane in eterno ha un sacerdozio che non passa per cui può salvare in perpetuo quelli che si accostano per mezzo di Lui, cioè questo sacerdote permette accesso a Dio, sempre vivente ad intercedere in nostro favore». Fin qua abbiamo delineato la figura del sacerdote nuovo: uno che rimane in eterno, che non è soppiantato, e perciò la sua azione è stata massimamente efficace. Ma l’autore ora parla a fondo: perché il sacerdozio di Gesù rimane in eterno? Ed allora nei capitoli 8 e 9, in contrapposizione al sacerdozio levitico, descrive l’opera del sacerdote. È utile proporre uno schema strutturale di questi due capitoli. Possiamo distinguere sei suddivisioni in questi capitoli:

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Ci si riferisce a Gesù.


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1 – 8,1-6: l’attività del sacerdozio levitico; 2 – 8,7-13: il ripudio della antica alleanza e l’annunzio della nuova alleanza; 3 – 9,1-10: gli elementi del culto, cioè l’antico santuario; 9,11: Cristo; 4 – 9,11-14: la nuova liturgia; 5 – 9,15-22: la nuova alleanza; 6 – 9,23-28: l’accesso a Dio. Detto in parole povere, in queste sei sezioni l’autore stabilisce un confronto antitetico tra gli antichi ordinamenti cultuali ed il nuovo sacrificio. Cominciando dalle due parti centrali, l’autore nota il rito antico: il sacerdote entrava in un santuario materiale ed offriva sacrifici di animali, in contrapposizione Cristo presentatosi come sacerdote dei beni futuri entrò una volta per sempre in un santuario non fatto da mani umane, né per mezzo di sangue di vitelli e capri. Ci sono tre contrapposizioni: 1. il sacerdote entra in un santuario fabbricato da uomini, Gesù non entra in un santuario fabbricato da uomini ma in un santuario che non appartiene a questa creazione; 2. i sacerdoti entrano continuamente nel santuario, cioè ripetono continuamente l’azione espiatoria, Cristo è entrato una volta per sempre; 3. mentre il sacerdote entra nel santuario con il sangue di animali, Cristo è entrato una volta per sempre col Suo sangue. Con una differenza che mentre il sacrificio levitico conferiva soltanto una purificazione esterna, Cristo invece «purifica le nostre coscienze dalle opere morte per servire il Dio vivente». Saltando altri aspetti, l’autore nel capitolo 9 afferma: «non in un santuario fatto di mani umane entrò Gesù, ma nello stesso cielo per apparire davanti a Dio per noi, e non per offrire spesso sé stesso come fanno i sacerdoti entrano nel santuario con sangue alieno, altrimenti doveva patire fin dalla fondazione del mondo». «Ora, una volta per sempre, al


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compimento dei secoli [cioè nell’epoca nuova che è questa] per la remissione dei peccati si è manifestato mediante il suo sacrificio, e come è stabilito che gli uomini muoiono e dopo di ciò il giudizio, così Cristo essendo stato offerto una volta per sempre per togliere i peccati di molti, per la seconda volta apparirà senza alcuna relazione al peccato a coloro che lo attendono per la salvezza». Così tutto quello che Cristo doveva fare, una volta per sempre lo ha fatto, e adesso non c’è da attendersi altro, se non il suo futuro ritorno in gloria. Qui emerge il problema: perché il sacrificio di Cristo ha ottenuto una volta per sempre una massima efficacia a tal punto che il Suo sacrificio non si ripete mai più? I motivi sono due: il primo è che Gesù è senza peccato, lo ha già detto l’autore nel capitolo 4, quando diceva che è stato messo alla prova secondo somiglianza [a noi] in tutto fuorché nel peccato. Nel capitolo 7 aveva concluso con le parole «un simile sacerdote era necessario per noi, santo, innocente, non contaminato, separato dai peccatori, e che perciò non ha bisogno di espiare prima per i suoi peccati [come invece faceva il sacerdote levitico]». La seconda cosa è: e questo l’autore lo svilupperà in 10,1-18, è che il suo sacrificio corrisponde perfettamente alla volontà di Dio. Questo l’autore lo deduce dalla tradizione evangelica, secondo la quale, l’unico motivo per cui Gesù affrontò la passione fu quello della sua adesione alla volontà del Padre. Per sviluppare questo aspetto l’autore introduce il salmo 39: «sacrificio ed offerta non gradisci, non hai chiesto olocausto per la colpa». Il salmo 39 parlava del radicale rifiuto di Dio dei sacrifici. Il Salmo scriveva «le orecchie mi hai aperto», cioè mi hai reso disponibile all’obbedienza. Il salmista capisce che Dio non vuole i sacrifici, ma Dio vuole che la sua legge sia nelle proprie viscere. Il salmo 39 fu scritto in un tempo di intervallo tra la costruzione del pentateuco e la distruzione del tempio. Ma l’autore percepisce una contraddizione nella costruzione del salmo, Dio non vuole sacrifici ma l’osservanza della legge, ma è la legge stessa ad imporre i sacrifici. Ed allora l’autore cambia il salmo, non


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scrive «le orecchie mi hai aperto» ma «un corpo mi hai formato». Non disponibilità all’ascolto, ma disponibilità all’offerta. L’autore nota che Dio rifiuta quei sacrifici perché ne vuole uno corrispondente alla Sua volontà. Così l’autore può concludere nel verso 10,10 «in questa volontà siamo stati santificati mediante l’oblazione del corpo di Cristo una volta per sempre, proprio perché l’oblazione del Corpo di Cristo corrisponde alla volontà di Dio» e tutto il NT alla mano, l’opera fondamentale di Gesù fu quella di aderire alla volontà di Dio. Possiamo adesso andare ad una sintesi del pensiero della lettera agli ebrei: interpreta l’evento della Croce. Gesù ha due caratteristiche: è senza peccato ed è morto perché ha offerto sé stesso secondo la volontà di Dio. Se Cristo non avesse compiuto la volontà di Dio [che è libera] dovevamo dire che è stato ucciso, ma non certo che ha offerto sé stesso. Il sacrificio di Cristo fu talmente gradito a Dio che ottiene una duplice perfezione: la sua perfezione personale e la sua perfezione sacerdotale. Ciò avviene al momento in cui, avendo riconosciuto che era quello il sacrificio che voleva, il sacrificio per obbedienza dell’uomo senza peccato, Dio lo sveglia da morte e lo autorizza ad accedere al santuario. Risvegliato da morte, Gesù, non ha più niente a che fare con la morte e perciò è un sacerdote che vive in eterno [Salmo 110], e perciò è un sacerdote che ha superato la barriera della morte contro la quale sbattevano i sacerdoti antichi. Risorto accede al vero santuario di Dio, si presenta a Dio in cielo col suo sacrificio, il quale è talmente gradito che Dio lo fa sedere alla sua destra e lo proclama sacerdote per sempre. Da Dio Cristo non torna più, tornerà ma non per offrire sacrifici, bensì per portare a compimento l’opera della salvezza. Nel frattempo vive davanti a Dio per intercedere in nostro favore. Tutto ciò porta ad una conseguenza fondamentale: la via a Dio ormai è aperta, e mentre prima il santuario restava chiuso e il popolo non vi entrava, adesso nel nuovo santuario il popolo può entrare, e questa è la


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novità assoluta di Cristo: ha aperto la strada a Dio. L’autore della lettera agli ebrei esplicitamente non dice che il popolo sia un popolo sacerdotale, ma ne dà tutti i requisiti. Il popolo può accedere al santuario e questo è uno dei due requisiti del sacerdote. Il sacerdote infatti ha due caratteristiche: riempire le sue mani di un sacrificio e con quello presentarsi a Dio, il popolo ormai può fare entrambe le cose, non autonomamente, ma insieme a Cristo. Di una offerta sacrificale ne parla altrove il NT: San Pietro nel capitolo 2 della prima lettera scriverà che noi «accedendo a Cristo pietra viva, ci costruiamo come pietra viva per formare una casa [il santuario] dove si esercita un sacerdozio spirituale». Paolo nella lettera ai Romani in 12,1 dirà: «vi esorto fratelli ad offrire i vostri corpo come vittima vivente». La lettera agli ebrei alla fine esorterà ad offrire sacrifici di lode a Dio, cioè il frutto della labbra che confessano il Suo nome. Ma l’autore definirà il sacerdozio dei fedeli, senza dirlo, il 10,19-31: «avendo noi la libera facoltà di accedere al santuario, [avendo] la via nuova e vivente attraverso il velo, cioè la sua carne, [avendo] un sacerdote sulla casa di Dio, accediamo con vero cuore in pienezza di fede, manteniamo ferma la confessione di una speranza indeclinabile, esortiamoci a vicenda nella emulazione della agape» la vita cristiana cioè fondata sulla fede, speranza e carità diventa un grande accesso verso Dio. Due osservazioni a questo punto, una che riguarda i contemporanei dell’autore, una che riguarda noi. Il messaggio è rivolto ad un popolo [contemporanei] che vive ogni giorno la tentazione di defezionare da Cristo, ma con tutta la sua lettera, l’autore vuol dire che defezionare da Cristo significa perdere tutta questa realtà sacerdotale, l’autore è in sintonia con la prospettiva neotestamentaria: «chi vuol salvare la sua vita la perde» perché difatti rinunziando a Cristo non ha salvezza. La seconda osservazione vale per noi: la vita cristiana è vita sacerdotale, in quanto noi abbiamo il diritto di accedere al santuario di Dio ed offrirgli un sacrificio. Davanti a Dio ci presentiamo con le mani piene


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di un sacrificio che è certamente quello di Cristo, ma al quale si aggiunge anche il nostro che è quello della concreta adesione, che è quella di aderire alla Sua volontà. Ciò è in sintonia con la attuale liturgia di oggi, citiamo la terza anafora: «egli faccia di noi un sacrificio gradito a Dio». Tutto questo si vive nella celebrazione liturgica, la scrittura non è astratta, nasce dalla vita cristiana concreta. Tutto questo si vive nella eucaristia, nella quale si verificano tre cose: lo Spirito Santo permette di far memoria del sacrificio di Gesù; lo SS opera una unità di tutta la chiesa nelle sue varie componenti: chiesa terrena, chiesa che si purifica, chiesa gloriosa, tutti insieme a Cristo sin compie l’atto sacerdotale «per Cristo, con Cristo, in Cristo». Tutto questo è il succo della lettera agli Ebrei.


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Preghiera a San Paolo Apostolo «O Santo Apostolo che, da persecutore del nome cristiano, diventasti imitatore di Cristo e annunciatore del suo Vangelo, rendici attenti ascoltatori della Parola che salva e conduce alla vita. Infaticabile Apostolo, che dopo la conversione di Damasco percorresti le strade del mondo per far conoscere Gesù Cristo e per Lui soffristi carcere, flagellazioni, naufragi e persecuzioni fino ad essere decapitato, rendici capaci di accogliere come dono di Dio le sofferenze della vita presente e di camminare sempre nelle vie del Vangelo. Fa’ che l' azione misteriosa dello Spirito susciti ancora nella Chiesa apostoli coraggiosi e generosi che, come te, portino ad ogni lingua e ad ogni cultura l' annuncio salvifico del Vangelo. Amen». dagli scritti di G. ALBERIONE

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