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RECENSIONI di/per: Antonio Crecchia (La meta è partire, di Imperia Tognacci, pag

Recensioni

IMPERIA TOGNACCI

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LA META È PARTIRE

Genesi Editrice – Torino, giugno 2022

Il titolo, da subito, ci immette in un clima filosofico dove si respira l’intuizione di Niccolò Cusano della “coincidentia oppositorum”, cioè la conciliazione degli opposti, ove gli elementi oppostivi in qualche modo si compenetrano, dando origine ad una unità pressoché indissolubile.

Nel nostro caso, la “conciliazione” è alquanto semplice: nessuna meta è mai raggiungile se non c‘è una partenza, a cui il pensiero associa un “ritorno”.

La meta è già tutta nella partenza. Il percorso poetico della Tognacci è già dentro l’anima (Psyche) dell’autrice, nella sua interezza, e non mancherà, come in effetti non è mancato, di rivelarsi agli altri nella sua forma e sostanza definitive, affrontabili da chi ha curiosità, sensibilità e desiderio di entrare nel magico mondo della poesia.

Già dalla lettura dell’esergo (un pensiero di Apuleio sulla “forza dell’Amore), possiamo farci un’idea preventiva di dove voglia portarci la “forza della poesia” di Imperia Tognacci, poetessa romagnola, nativa di San Mauro Pascoli, da molto tempo residente a Roma.

Le intenzioni dei poeti (chiamiamole pure “finalità”), dacché è stata data dignità educativa e formativa alla poesia, sono state sempre buone e apprezzate, perché nate con il fine di migliorare l’uomo, di condurlo con mano delicata sui sentieri lastricati di bontà, bellezza, emozioni e Amore. Dall’incipit possiamo assegnare all’opera una collocazione temporale (estate) e spaziale (paese = S. Mauro Pascoli). Dati che vogliono essere un richiamo alla solare luminosità dell’anima e ai luoghi della memoria, in cui la poesia ha visto altre splendide fioriture di versi immortali. E quindi, tanto per cominciare, siamo dentro una progressione storica e letteraria ampia, caratterizzata da voci che si intrecciano nel segno della continuità.

La progressione storica che va da Giovanni Pascoli a Imperia Tognacci, include la presenza della musa Calliope, che unisce idealmente e poeticamente due spiriti, ciascuno radicato al proprio tempo, ma con la propensione innata a volare in opposte direzioni: verso il passato e verso il futuro, di modo che “il sogno scolpito nell’anima” possa realizzarsi in una sorta di eternità che va dalla creazione dell’uomo “alle profondità abissali” del divenire. Il sogno del poeta è, dunque, affidato alla forza creativa dell’anima, causatrice di versi che non temono l’oblio del tempo.

In un continuo e variegato intreccio tra fantasia, mito, vortici di illusioni e delusioni, reminiscenze bibliche, e visioni sfuggenti (ma sempre deludenti e insoddisfacenti) dell’attualità storica in cui viviamo, il viaggio lirico della poetessa procede al suono di violini che incantano l’anima.

Poesia pura, ove il viaggio alle origini del mondo e della vita è un pellegrinaggio di gruppo, di persone, di anime che camminano inebriate “dell’arcano sogno”, smarrite nella “vertigine dell’insondabile”.

Poema complesso, dall’ampio respiro, con apparato filosofico che rimanda al “Panta rei” di Eraclito, chiaramente espresso nell’undicesimo capitolo: “Tutto si evolve / nulla può frenare lo spirito che abita in te”. Quindi, il viaggio terreno, il “vivere”, il fare, l’amare, il sentire la presenza o l’assenza di altri esseri nel concreto della vita quotidiana, altro non è che coscienza della circolarità dell’esistenza, di ogni esistenza.

Scrive la poetessa, sempre nel capitolo undicesimo: “Nel gioco delle mutazioni, / ogni fiore si deteriora, / ma, mentre muore, avverte / il fiorire di nuova linfa”.

Affiora, delicatamente, una filosofia dell’anima, che si oppone a quella della ragione che procede a sbalzi, “su spinosi percorsi” temporali, spesso al buio e, quindi, nell’impossibilità di tracciare una retta e confortante via che dia all’uomo certezze assolute, universali, valide per tutti e per sempre. La filosofia dell’anima è la rappresentazione e personificazione dei sogni, della speranza, della fede sicura nel valore dei meriti acquisiti in vita con il proprio intenso e probo operare; filosofia che indica la via che porta alla sponda originaria del fiume della vita eterna, per godere “la pace e la

luce”, la “Verità” che manca a questo nostro mondo terreno, che vive sotto l’egida del “serpente / attorcigliato ai rami delle tenebre” e segue docile e rassegnato “la piena della corruzione” e “a morte condanna / le spighe coltivate a fatica”, ossia i fiori della poesia, lasciati inaridire nel chiuso di libri stampati, pressoché obliati dalle “folle / ammaliate dal miraggio dei social”, in processione dietro la “dea” tecnologica, “signora di orizzonti infiniti”, che “lascia dietro di sé / spezzati ritmi di un umano andare”.

Il poeta, però, non si lascia inibire dalla durezza dell’indifferenza generalizzata; pur relegato entro orizzonti di solitudine e incomprensione, continua a coltivare i suoi sogni, a “riaccendere il primato della mente”, a dare fiato al “flauto dell’anima”, a inebriarsi degli “ineffabili stupori che intrecciano / le dita con l’infinito”. Nulla e nessuno può fermarlo nel percorso d’avvicinamento alla “bellezza corruttibile / dell’Eden perduto”.

Qui giunto, lo spirito acquista la consapevolezza che la meta raggiunta non è l’ultima, ma soltanto una “stazione” di ripartenza “verso rive nuove, / verso sempre più alte / eterne mete”.

In questo “poema cosmologico”, come appropriatamente lo definisce Francesco D’Episcopo, cuore e intelletto, mirabilmente congiunti nello sforzo creativo di un’armonica struttura poetica d’ampio respiro, hanno operato una sintesi perfetta tra emozione e ragione, tra storia e utopia, tra l’individuale e l’universale, attingendo altezze liriche probabilmente mai raggiunte dalla poesia contemporanea.

E per concludere, mi pare doveroso annotare che questo recente, pregevole lavoro poetico di I. Tognacci reca il sigillo della piena condivisione di tre illustri operatori e animatori culturali: Francesco D’Episcopo, Marina Caracciolo e Sandro GrosPietro.

Antonio Crecchia

MARCELLO FALLETTI DI VILLAFALLETTO

I SAVOIA-ACAIA Signori del Piemonte, Principi d’Acaia e di Morea

Seconda edizione rivista e ampliata; Prefazione di Claudio Falletti di Villafalletto; Anscarichae Domus, Accademia Collegio de’ Nobili Editore, 2022, pagg. 164 + 32 fuori testo, € 20,00.

Il bel saggio è composto di capitoli-medaglioni riguardanti protagonisti dei Savoia-Acaia, famiglie fra loro intrecciate e, quindi, inevitabile, nel racconto, alcune lievi ripetizioni.

Il lavoro si apre con la prefazione di Claudio Falletti di Villafalletto e una nota dell’Autore che avverte trattarsi di una seconda edizione riveduta e ampliata; segue il capitoletto “L’eredità”, nel quale vengono evidenziate le condizioni e il clima del territorio sul quale si son trovati a vivere e ad agire i vari protagonisti: Filippo I di Savoia; l’Arcivescovo Pietro; l’Arcidiacono di Reims, Amedeo; il Canonico di Amiens e Vescovo di Torino, Tommaso; l’Abate di San Michele della Chiusa, Guglielmo; il Vescovo di Torino e Aosta, Tommaso; Giacomo, Filippo II, Amedeo, Ludovico (o Luigi), Signori di Piemonte e Principi di Acaia; Margherita, la “Beata” marchesa di Monferrato; e poi “La fine dello “Stato” piemontese”, una panoramica sul Principato e, infine, la dettagliata Tavola genealogica dei Savoia-Acaia.

Filippo di Savoia si è trovato ad esercitare il potere in un periodo contrassegnato dalle “lotte intestine sia alla sua famiglia, sia con i nuovi sudditi e confinanti pedemontani”, nonché con “le continue interferenze da parte dei Conti sabaudi e le ostili resistenze degli altri intraprendenti nobili locali e stranieri”. Egli “decise di stabilire la residenza ufficiale a Pinerolo” e cercò, per quanto possibile, di ordinare il rissoso territorio - anche se, finché è stato al potere, “le controverse lotte e ribellioni tra i signori, i feudatari e le varie città non cessarono quasi mai” -, istituendo giudici nelle diverse città

per amministrare la giustizia – sforzandosi lui stesso ad essere “zelante osservatore ” – e numerosi uffici per la riscossione dei tributi.

Il Piemonte di allora – a detta di molti – era alquanto arretrato in diversi campi e, in particolare, nella cultura e nelle arti, che altrove, in altri territori della penisola, erano in crescendo fermento; insomma – scrive Marcello Falletti di Villafalletto – Filippo “si sforzò di dare un assetto armonico e ben pianificato al novello Stato”. Anche Giacomo, Signore di Piemonte e Principe d’Acaia, ha dovuto lottare per mantenere ed accrescere il principato, sicché si trovò “costantemente impegnato in ostilità devastanti e logoranti: metodicamente all’ordine del giorno in quegli anni. Si scontrò apertamente con i Marchesi di Monferrato, avendo anche parte attiva in quella che fu definita la “Guerra di Saluzzo”. Acquistò Fossano, Racconigi e altre città e terre”; “il suo governo, durato ben trentatré anni, fu il più intenso e animato” . Tutto, particolarmente in quegli anni, era regolato da interessi politici e si stipulavano continuamente accordi, alleanze, patteggiamenti, delitti e matrimoni senza scrupoli d’alcun genere, senza tener conto di idee e sentimenti, in specie quelli dei giovani, che dovevano ubbidire e la cui vita veniva programmata fin dalla loro più tenera età. Anche la religione era legata al potere e anche in questo campo non si avevano scrupoli: passaggi di casacca, vendette, papi e antipapi, scomuniche che avevano gran peso, perché impattavano sul popolo minuto e sulle semplicità e credulità dei fedeli. I “ventotto anni vissuti” da Filippo II “furono veramente tragici” .

Marcello Falletti di Villafalletto non si limita mai al solo racconto e all’esame del personaggio; spesso fa la storia dei luoghi, palcoscenici sui quali loro son vissuti, dei monumenti, come avviene in questo libro, per esempio, per l’Abazia di San Michele della Chiusa, ove visse, e per quindici anni operò, l’Abate Guglielmo, “figlio del conte Tommaso III e fratello di Filippo I d’Acaia”; come per la scuola - lo Studio/Ateneo/Università di Torino , ampiamente trattata nel capitolo dedicato a Ludovico (o Luigi) Signore di Piemonte e Principe d’Acaia, “ritenuto a ragione non soltanto il padre fondatore dello Studio torinese ma anche colui che, insistentemente, ne volle la realizzazione e orientandolo verso quel futuro sviluppo che aveva ottimamente intravisto”; come, ancora, per la costruzione di Piazza Castello a Torino e ciò fa sempre attraverso sapienti e diligenti riporti di testi altrui, perché, da storico modesto e onesto, cede volentieri la parola, il racconto ad altri quanto altri hanno detto e ben scritto quello che lui intende esporre.

Il capitolo dedicato a “Margherita la “Beata”, marchesa di Monferrato” è particolarmente ampio e commosso, ancora una volta con dovizia di citazioni e riporti. Portata più per il velo monacale che per il matrimonio, Ella si assoggettò al volere e agli interessi della famiglia, sposando Teodoro II di Monferrato, che già aveva due figli da una precedente unione. “Per quindici anni” visse accanto a lui “con l’ansia vigile di sposa fedele, madre amorevole dei suoi figli, ma anche, sovrana amabile, adorata da tutti i monferrini e fuori”. Morto il marito, assieme ad altre nobildonne si ritirò nel Monastero di Alba, del quale fu Badessa, trascorrendo altri “quattordici anni di vita intensamente monastica” e dove morì il 23 novembre 1464.

Si è accennato che il Piemonte di allora venisse considerato arretrato; in realtà non lo era e l’Autore lo dimostra abbondantemente nel capitolo intitolato “Uno sguardo al Principato”.

Completano l’interessante opera Bibliografia, fonti e archivi, l’Indice dei nomi, un’ampia scheda sull’Autore e ben 32 pagine fuori testo di immagini in bianco e nero. Pomezia, 27 settembre 2022

Domenico Defelice

GIOSUÈ AULETTA e ZUCCARELLO (a cura di)

ARDEA LA CITTA' DEI RUTULI

Alice Comunicazioni Edizioni, Pagg. 122, 15, 00 euro

Continua il lavoro di ricerca di Giosuè Auletta con il volume, Ardea – La città dei Rutuli, un viaggio alla scoperta della città più antica del Lazio.

Il racconto inizia 100.000 anni fa e giunge ai nostri giorni. Sono stati ritrovati gli strumenti che utilizzavano gli uomini di Neanderthal per cacciare, tagliare, incidere e i resti delle loro capanne nell'età del Ferro che diedero vita alla città dei Rutuli.

La storia continua con quella di Turno, il re di Ardea che fu ucciso da Enea, per soffermarsi, poi, alla Chiesa di San Pietro costruita nel IX secolo dai monaci benedettini del monastero di san Paolo sopra i resti di un antico santuario.

Il viaggio narrativo continua con il museo Manzù, donato allo stato dall'artista Giacomo Manzù e completamente gratuito, costruito sotto la rupe della città negli anni Sessanta del XX secolo.

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